L’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 28 GIUGNO 2011
L’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 28 GIUGNO 2011
di Xxxxx Xxxx
Sommario: 1. I precedenti. - 2. La portata e i contenuti dell’accordo. - 3. La contrattazione nazionale di categoria e la misura della rappresentatività sindacale. – 4. I rapporti ed i raccordi tra i livelli contrattuali. – 5. Le clausole di tregua sindacale. – 6. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale. – 7. L’art. 8, l. n. 148/2011.
1. Le grandi svolte nelle relazioni industriali sono sempre state realizzate tramite accordi interconfederali1. In particolare, come l’esperienza successiva ha confermato, un ruolo centrale nel diritto sindacale italiano è stato certamente esercitato dal protocollo d’intesa del 23 luglio 1993, che ha dato vita ad una sorta di Costituzione delle relazioni collettive ed ha acquisito un significato “storico”, quale difficilmente potrà essere attribuito agli accordi successivi.
Da un lato, invero, esso ha visto la partecipazione fondamentale del Governo che ha conferito notevole sostegno alle parti sociali, anche allora pervase da divisioni interne, istituzionalizzandone ruolo e funzioni, ai fini non soltanto della contrattazione, ma anche della partecipazione a tutti i livelli, nel dialogo con le istituzioni pubbliche e con le controparti; ciò in cambio dell’accettazione di un sistema di regole certe universalmente condivise quanto ai tempi e alle materie oggetto di contrattazione ai diversi livelli.
D’altro lato, a differenza delle pur rilevanti esperienze concertative precedenti e di quelle meno significative della seconda metà degli anni ’90, l’accordo del 23 luglio 1993 si presenta quale strumento di regolazione stabile del gioco negoziale e non quale momento di approssimazione da mettere rapidamente in discussione, come la realtà dei fatti ha confermato. Pur facendo, come in precedenza, del costo del lavoro e del sistema retributivo l’epicentro del sistema e pur elevando ancor di più ad obiettivo centrale ed impellente l’abbassamento del tasso e del differenziale inflazionistico, non si è limitato al contenimento della dinamica salariale, ma ha posto in stretta correlazione il sistema retributivo con quello di relazioni industriali. A tal fine ha introdotto principi e regole che, per quanto per larga parte di tipo procedurale, si sono rivelati dotati di una validità non circoscritta alla situazione contingente nella quale sono stati pattuiti: principi e regole che hanno cercato di superare le tradizionali anomalie del sistema retributivo e contrattuale italiano (il forte peso degli automatismi, l’esistenza di squilibri retributivi tra settori diversi e l’appiattimento salariale nell’ambito della stessa categoria, lo scarso successo delle forme di retribuzione variabile conosciute all’estero e l’espansione della retribuzione di fatto attraverso la politica unilaterale delle imprese, la proliferazione delle componenti della retribuzione e soprattutto la sua scarsa prevedibilità, stante l’insufficiente tenuta dei raccordi tra i livelli contrattuali) con soluzioni sui livelli, sui tempi, sulle procedure e sui soggetti, in quest’ultimo caso soltanto a livello aziendale, con un tentativo di razionalizzazione fondato su un alto tasso di giuridificazione del sistema contrattuale, benché tutto interno all’ordinamento intersindacale.
Nel 1998 la commissione Giugni, chiamata a verificare la tenuta di quel modello, propose sostanzialmente di confermarlo, benché con un ridimensionamento qualitativo e quantitativo del contratto nazionale e con l’attribuzione agli accordi di secondo livello di un ruolo funzionalmente più specializzato, sia dal punto di vista normativo/organizzativo, sia da quello retributivo2; una soluzione caldeggiata, anche per il settore pubblico, con un’ulteriore accentuazione del ruolo del livello decentrato, dal Libro Bianco del 2001 del Governo Xxxxxxxxxx, che ne ha pur sempre affidato l’attuazione all’autonomia negoziale.
Tuttavia, sul punto le posizioni delle stesse parti sociali, e persino delle organizzazioni dei lavoratori, restavano distanti, divise tra l’opzione per un maggiore decentramento, con un più diretto rapporto tra aumenti retributivi e incrementi di produttività (CISL e UIL), e quella per una convinta difesa del ruolo di salvaguardia del contratto nazionale (CGIL), sia pur nel comune richiamo del metodo della concertazione3. Lo stesso dicasi in ordine alle regole in tema di rappresentanza dei lavoratori: una questione centrale sulla quale, parimenti, le organizzazioni dei lavoratori erano divise, anche con riguardo alla fonte stessa della relativa disciplina (la legge, come chiedeva la CGIL, o la contrattazione collettiva, come sosteneva la CISL).
Peraltro, proprio lo svuotamento della concertazione verificatosi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo4, unito all’esaurirsi del compito di contenimento della spirale inflazionistica, ha determinato il venir meno della “spinta propulsiva” del protocollo del 19935. A dispetto della perdurante larga condivisione, nei contratti di categoria, del modello dallo stesso elaborato, la relativa tenuta presupponeva che fossero affrontate e risolte quanto meno due questioni. La prima concerneva l’adozione di regole di ripartizione delle competenze ben precise e di una chiara disciplina delle conseguenze derivanti dalla violazione di queste ultime6; la seconda atteneva proprio alle disposizioni in tema di rappresentanza dei lavoratori.
Inoltre, il sistema “organizzato” della contrattazione collettiva ha conosciuto un significativo processo di strisciante destrutturazione a seguito delle riforme del diritto del lavoro dei primi anni 20007. Infatti, nella regolamentazione delle forme di lavoro flessibile, in precedenza rimessa in modo preponderante alla contrattazione nazionale8, nella maggior parte dei casi i rinvii della legge alla fonte collettiva sono stati compiuti in modo indifferenziato con riguardo a tutti i livelli contrattuali. Si è verificato così un forte impulso allo sviluppo della negoziazione territoriale ed aziendale, al di fuori di qualunque sistema di regole ed anzi in dispregio di quelle che integrano il modello di assetti negoziali delineato dall’accordo tripartito del 1993: un impulso accentuato dall’esigenza di adottare soluzioni utili in situazioni di evidente crisi economica.
In tale contesto il dissenso tra le stesse parti sociali non ha riguardato l’an, bensì soltanto il quomodo rivedere le regole fissate dal “glorioso Protocollo del ’93”9.
I contratti sottoscritti nel 2009 offrono uno scenario tutt’altro che omogeneo e universalmente condiviso, a differenza di quanto accaduto in precedenza. Invero, innanzitutto l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 “contiene principi assai più che regole, rinviando per queste a successivi accordi interconfederali e ai contratti collettivi di categoria”10: accordi attuativi conclusi soltanto da Confindustria e CNAI nell’aprile e da Confservizi nel novembre del 2009. In secondo luogo, tali contratti non sono stati stipulati e condivisi dalla CGIL. Pertanto, benché essi dimostrino ambizioni consistenti sino a delineare il passaggio da un “sistema delle regole” ad un vero e proprio “governo del sistema”11, hanno dato vita ad un modello largamente disarticolato o, meglio, ad “una pluralità di sistemi contrattuali”12.
Concentrando l’attenzione sull’accordo interconfederale dell’industria, da un lato, non si può disconoscere che esso si sia posto in linea di continuità col precedente sistema contrattuale caratterizzato dalla centralità del ruolo del contratto nazionale di categoria ed abbia rafforzato le regole, le procedure ed i meccanismi volti a garantire la tenuta ed il funzionamento del sistema. D’altro lato, ha in modo innovativo valorizzato la sede interconfederale e garantito un ruolo più rilevante al livello decentrato, specie territoriale, ammettendo tramite clausole di uscita – per la prima volta previste esplicitamente in termini generali13 – la possibilità che siano stipulati accordi modificativi destinati ad introdurre deroghe peggiorative in certe fattispecie e con determinate cautele14. Inoltre, quale parametro di riferimento per la determinazione della retribuzione in sede di rinnovo, ha sostituito l’ormai abbandonato tasso di inflazione programmata con l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo (IPCA).
Tuttavia, permanevano rilevanti incertezze in ordine alle stesse regole applicabili negli imminenti rinnovi dei controlli nazionali di categoria. In particolare si era giustamente sollevato il dubbio se il protocollo del 1993 fosse stato superato quanto meno per le parti stipulanti i nuovi accordi15.
Nel settore dell’industria alcune delle regole dell’accordo del 2009 sono state costantemente seguite: la durata triennale dei contratti, la previsione di un “elemento di garanzia retributiva” (seppure di importo modesto), la progressiva crescita di importanza degli enti bilaterali. Diverse appaiono, invece, le discipline concernenti gli incrementi retributivi, con variazioni rispetto al parametro di riferimento (spesso non individuato), la connessione con l’inflazione (sovente molto meno rigida di quanto prefigurato nell’accordo interconfederale del 2009), gli stessi importi riconosciuti (dipendenti dalle differenti situazioni dei mercati e quindi dalle risorse a disposizione, piuttosto che dall’applicazione di regole)16.
2. In un quadro così eterogeneo e controverso si colloca l’accordo interconfederale per l’industria del 28 giugno 2011, che sembra rivestire una grande rilevanza, quanto meno potenziale, in chiave politico-sindacale per la ritrovata unitarietà di azione delle principali confederazioni dei lavoratori specie in un momento di grave crisi economica del Paese e per un tema fondamentale per le relazioni industriali quale la riproposizione di regole di governo del sistema contrattuale17.
Tuttavia i dubbi sulla portata e sul contenuto di tali regole restano molto significativi, acuiti dalla complessità dei rapporti con i precedenti accordi del 1993 e del 2009, delle cui previsioni rimane tuttora controversa persino la perdurante vigenza.
In particolare il suddetto accordo si concentra su alcune questioni centrali in relazione alle quali fornisce soluzioni in parte innovative, ma non affronta molti degli aspetti disciplinati dagli accordi precedenti ed in special modo da quello del 2009.
Infatti, da un lato, dopo le dichiarazioni di principio, importanti18, ma tutto sommato simili a quelle del precedente accordo interconfederale separato, esso si sofferma sulla misura della rappresentatività sindacale, sui raccordi e rapporti tra i livelli contrattuali, sull’efficacia soggettiva dei contratti aziendali, sulle clausole di tregua sindacale, per chiudersi con un invito al Governo affinché renda “strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure … volte ad incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello” che preveda aumenti retributivi di tipo variabile.
D’altro lato, invece, esso non interviene su una serie di questioni regolate dall’accordo del 15 aprile 2009, alcune attinenti al sistema in senso stretto contrattuale, altre ai meccanismi più direttamente retributivi. Le prime consistono nella durata del contratto collettivo nazionale (§ 3.2), nelle procedure di rinnovo e nell’impegno a non assumere iniziative unilaterali (§ 3.5), nel ruolo del Comitato paritetico e nel recupero di importanza della sede interconfederale (§§ 2.2, 2.3, 2.4, 3.4, 3.5), nei meccanismi di risoluzione delle controversie collettive (§ 3.6), nella razionalizzazione e riduzione del numero dei contratti di categoria (§ 8). Le seconde riguardano la determinazione del premio variabile (§ 3.3 e 3.4), il riconoscimento di un “elemento di garanzia retributiva” a favore dei lavoratori dipendenti da aziende prive di contrattazione di secondo livello e che non percepiscono “altri trattamenti economici individuali o collettivi” (§ 4.1), il parametro di riferimento per i rinnovi contrattuali (il già ricordato indice previsionale costituito sulla base dell’IPCA) (§ 2.2).
Se quest’ultima soluzione aveva ricevuto la decisa opposizione della CGIL, per le altre possono essere svolte considerazioni differenti. In particolare la maggior parte di esse non sembra singolarmente incompatibile con le misure concordate nel 2011. Tuttavia si deve sottolineare che l’ultimo accordo ha decisamente svalutato la cabina di regia interconfederale, valorizzando ulteriormente il livello nazionale di categoria: cosicché appare al momento poco realistico ipotizzare l’attuazione delle regole e dei meccanismi che presuppongono un coinvolgimento della sede interconfederale. Quanto alle altre previsioni, sia relative alle tecniche volte a garantire la tenuta del sistema, sia concernenti la retribuzione, saranno i contratti nazionali di categoria a dimostrarne e/o a determinarne l’applicabilità, similmente a quanto accaduto in occasione dei rinnovi del 2009 e 2010.
Se si prende in considerazione, infine, il protocollo Ciampi-Giugni del 1993, l’accordo del 28 giugno 2011 richiama espressamente la disciplina sulle RSU, in realtà più diffusamente specificata dall’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993. Quanto al resto, abbandonata nei fatti la concertazione sulla politica dei redditi e dell’occupazione, anche la regolamentazione degli assetti contrattuali appare largamente superata, cosicché non sembra agevole neppure per la CGIL rivendicarne l’applicabilità nella parte non disciplinata dall’accordo del 2011 (ad es. con riguardo al riferimento all’inflazione programmata ed all’indennità di vacanza contrattuale).
L’accordo interconfederale del 2011 rappresenta dunque un momento potenzialmente decisivo per una nuova stagione delle relazioni industriali: ma, per favorire l’unitarietà, ha volutamente omesso di affrontare alcune tematiche regolate dall’accordo separato del 2009, lasciandone la definizione alla contrattazione di categoria, anche laddove forse non sussistevano particolari contrasti, come nel caso della previsione del livello territoriale quale alternativa alla contrattazione aziendale. Costituisce, pertanto, un punto di partenza ed al contempo di riferimento fondamentale per alcune questioni centrali del diritto sindacale italiano, anche se con ogni probabilità non ha l’ambizione di regolare organicamente – a differenza degli accordi precedenti – il sistema contrattuale, presenta un ambito di applicazione circoscritto (al settore dell’industria) e, come si cercherà di rilevare, continua a produrre effetti giuridici limitati.
3. L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 per la prima volta affronta direttamente la questione, pur da tempo dibattuta, concernente la misura della rappresentatività sindacale a livello nazionale di categoria.
Infatti, negli accordi del 2009 era contenuto soltanto un rinvio a successivi accordi per definire “nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi che possono essere adottate con accordo, ivi compresa la certificazione all’INPS dei dati di iscrizione sindacale”19.
Tale cenno, rimasto lettera morta, si discostava da quanto unitariamente concordato l’anno prima tra le maggiori confederazioni sindacali nel contesto di un’intesa sulle linee di riforma della contrattazione, che puntava sul mix tra rappresentatività associativa (numero degli iscritti) ed elettorale (consensi ottenuti nelle elezioni delle RSU), anziché esclusivamente sulla prima. Si tratta di una soluzione fatta propria dall’accordo interconfederale del 2011, già da tempo sperimentata nel settore pubblico, ma che per le imprese private costituisce un’autentica “svolta”20. Invero, nel settore privato la legittimazione a negoziare era sempre stata affidata al reciproco riconoscimento delle parti “e dunque a un dato di effettività”21, quale in particolare la forza delle organizzazioni sindacali, non invece a “un dato oggettivo e misurato di rappresentatività”22.
Non solo: un’altra rilevante novità è data dall’apertura compiuta nei confronti di organizzazioni diverse da quelle firmatarie dell’accordo interconfederale, ammesse al tavolo negoziale purché in grado di superare la soglia minima del 5% e a condizione che partecipino alle elezioni delle RSU. La soluzione attesta la volontà delle maggiori confederazioni sindacali ed imprenditoriali di dar vita ad un sistema di regole universalmente condivise in grado di garantire stabilità all’ordinamento intersindacale.
Ne derivano, peraltro, alcuni problemi di non sempre agevole soluzione. In particolare, da un lato, il successo di tali regole dipende dalla capacità di diffusione delle RSU nei luoghi di lavoro e dall’adesione di tutte le organizzazioni sindacali presenti nella categoria23. D’altro lato, resta inevaso il problema del dissenso ai fini della firma del contratto nazionale di categoria, considerato che l’accordo interconfederale, a differenza del d. lgs. n. 165/2001, si limita a disciplinare la fase iniziale dell’ammissione al negoziato. Peraltro, se il diritto di partecipare alle trattative viene riconosciuto a favore di tutte le organizzazioni sindacali che siano dotate dell’indicata rappresentatività minima e che abbiano aderito al suddetto sistema di regole, a nessuna di esse può essere attribuito un potere di veto. Più complessa appare, invece, la soluzione del dubbio concernente la possibilità che siano stipulati contratti nazionali separati con associazioni minoritarie nella categoria di riferimento. Se è discutibile che l’accordo interconfederale non abbia preso posizione sul punto, è altrettanto vero che la certificazione della rappresentatività, sia pur rilevante ai fini della contrattazione aziendale, l’analogia col settore pubblico dal quale la regola è attinta, nonché l’adozione del principio maggioritario a livello aziendale, inducono a ritenere che quest’ultimo debba operare anche in sede nazionale.
Resta il fatto che, come correttamente rilevato, il percorso sul quale le parti si sono incamminate è “solo abbozzato e pieno di incognite”24. In realtà è largamente affidato alla contrattazione nazionale di categoria, cui è rimessa l’adozione di “specifici regolamenti sulle procedure per i loro rinnovi contrattuali, al fine di coinvolgere sia gli iscritti che tutti i lavoratori e le lavoratrici”, ivi compresi “sia il percorso per la costruzione delle piattaforme che per l’approvazione delle ipotesi di accordo”, come sancito dall’Intesa tra CGIL, CISL e UIL allegata all’accordo interconfederale.
La funzione fondamentale del contratto nazionale di categoria viene pertanto sancita anche con riguardo all’implementazione delle regole da seguire nel rinnovo degli stessi, ancora una volta con una soluzione tutta interna all’ordinamento intersindacale, che non può evidentemente risolvere in termini di stretto diritto l’annosa questione dell’efficacia soggettiva di tali contratti25.
4. L’accordo interconfederale del 2011 si pone in linea di continuità con gli accordi del 1993 e del 2009 per quanto riguarda il rapporto tra i livelli negoziali, a partire dalla ribadita centralità del contratto nazionale di categoria. Infatti, innanzitutto, ne viene confermata la funzione di garanzia della “certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale” (§ 2): un’affermazione “non inutile” alla luce del dibattito sviluppatosi negli ultimi anni “circa il presunto o perfino auspicabile superamento del contratto nazionale”26.
In secondo luogo, a quest’ultimo è rimesso il governo del sistema contrattuale, ovvero la determinazione degli ambiti della contrattazione aziendale tanto delegata, quanto derogatoria. In altre parole, a dispetto dell’esigenza da più parti avvertita di un maggiore sviluppo della contrattazione decentrata, le principali confederazioni sindacali e imprenditoriali hanno preferito affidarne la scelta in concreto alle singole federazioni di categoria, per di più trascurando la contrattazione territoriale, che pur avrebbe meritato ben altra considerazione specie laddove è poco diffusa la contrattazione aziendale.
A tal fine ha tutto sommato utilizzato le stesse tecniche di coordinamento già elaborate dagli accordi del 1993 e del 2009.
Invero, da un lato, l’individuazione delle materie di competenza dei contratti aziendali è affidata a clausole di delega della relativa disciplina. Tale delega può essere totale o parziale, secondo una prassi ormai diffusa sia nella contrattazione collettiva che nella legge. Pertanto può dar vita ad una competenza del livello aziendale non necessariamente alternativa, ma eventualmente anche concorrente, benché non configgente, con quella del livello nazionale: può trattarsi, quindi, di una competenza più circoscritta rispetto a quella delineata da una clausola di rinvio aperto o generico al contratto aziendale.
Il tenore letterale del disposto del punto 3 esclude che la competenza della contrattazione aziendale possa estendersi al di là delle materie ad essa espressamente delegate. Di conseguenza, in definitiva, non rileva la mancata utilizzazione della clausola di specializzazione o del “ne bis in idem”, che compariva, sia pur con formule leggermente diverse27, negli accordi tanto del 1993 quanto del 2009; peraltro, in linea teorica, se in precedenza la mancata regolamentazione di una determinata materia o istituto avrebbe lasciato il secondo livello libero di intervenire, ora tale possibilità deve essere disconosciuta in mancanza di una delega espressa, se si eccettua il caso della retribuzione c.d. di produttività, secondo quanto si evince dal punto 8 dell’accordo del 28 giugno 2011.
Come anticipato, la contrattazione aziendale può avere anche portata derogatoria o, meglio, modificativa, secondo una soluzione anticipata dagli accordi del 2009 ed allora fortemente criticata dalla CGIL. La c.d. clausola di uscita, che circoscrive la derogabilità dei contratti nazionali agli ambiti espressamente ammessi, ha comunque un contenuto diverso. Infatti, da un lato, è venuto meno il duplice meccanismo di controllo o contrappeso previsto dall’accordo interconfederale del 15 aprile 2009, ai cui sensi la disapplicazione di determinate clausole del contratto nazionale di categoria era consentita solo a livello territoriale e previa autorizzazione delle stesse parti firmatarie del contratto nazionale stesso (§ 5.1). D’altro lato, mentre in precedenza erano espressamente previste le fattispecie in presenza delle quali le deroghe erano ammesse (la crisi aziendale e lo sviluppo economico e/o occupazionale dell’area), ora la possibilità e gli ambiti delle intese modificative sono rimesse in toto a quanto sancito dai contratti collettivi di categoria, chiamati a determinarne “limiti” e “procedure”, a conferma della loro accentuata centralità. Soltanto in xxx xxxxxxxxxxx, xx xxxxxxxx xx xxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxx, xx xxxxxxx (x, meglio, le modifiche) possono essere introdotte nelle stesse fattispecie in cui erano ammesse dall’accordo del 2009 (peraltro ora la finalità di favorire lo sviluppo occupazionale richiede la “presenza di investimenti significativi”), previa intesa unanime con le organizzazioni sindacali territoriali, con riguardo peraltro non più in via generale ed indifferenziata a qualunque istituto economico o normativo, bensì alle sole, sia pur non ben definite, materie della “prestazione lavorativa” (le sole mansioni e gli inquadramenti, probabilmente), degli “orari” e dell’”organizzazione del lavoro” (turni e ritmi di lavoro, in particolare).
Ancora una volta, come per gli accordi precedenti, si può rilevare che il sistema contrattuale italiano si è dotato di una struttura articolata e coordinata diretta ad evitare il concorso-conflitto tra contratti collettivi di diverso livello. Anche in questo caso la funzione regolativa generale è affidata agli accordi nazionali, tramite disposizioni o clausole di organizzazione dell’attività negoziale. Tuttavia, resta il problema di fondo della tenuta della soluzione prospettata, posta in discussione tanto dalla natura meramente obbligatoria di tali clausole, la cui violazione non comporta la nullità delle norme che vi si attengono, quanto dall’ampia gamma di rinvii a tutti i livelli contrattuali compiuta dal legislatore specie nell’ultimo decennio. Né va trascurato l’orientamento prevalente in giurisprudenza propenso a ritenere che l’inadempimento delle clausole di raccordo sia rilevante solo sul piano delle relazioni sindacali, cosicché il contratto collettivo successivo può modificare anche in peius la disciplina di un accordo precedente di qualunque livello28, ed in particolare il contratto aziendale può modificare in senso tanto peggiorativo29, quanto migliorativo30 il contratto nazionale di categoria, attesa la pariteticità tra fonti collettive di diverso livello, dato che ciascuna di esse costituisce espressione di quella libertà sindacale di cui anche i “gruppi minori”, quali le organizzazioni territoriali e le rappresentanze aziendali, sono titolari31.
5. Analoghe considerazioni possono essere dedicate alle clausole di tregua sindacale, la cui natura obbligatoria è ribadita al punto 6 dell’accordo interconfederale con riguardo a quelle disposizioni dei contratti collettivi aziendali “finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni” con gli stessi assunti dai soggetti firmatari.
Tale previsione, da un lato, conferma l’orientamento dottrinale prevalente in ordine alla titolarità individuale del diritto di sciopero32; dall’altro, è dotata di un contenuto più politico che giuridico per la mancanza tanto di indicazioni in ordine alle sanzioni applicabili in caso di violazione, quanto di effetti normativi sui destinatari dell’eventuale obbligo di tregua (rappresentanze aziendali e associazioni sindacali)33.
Non si tratta di una novità assoluta, neppure a livello di accordo interconfederale34: appare, comunque, rilevante se si considera che il rispetto di tali obblighi è fondamentale per la tenuta del sistema contrattuale, tanto che il relativo inadempimento potrebbe indurre le controparti imprenditoriali a disattendere a loro volta gli impegni presi35.
Dal punto di vista strettamente giuridico il punto 6 in esame solleva alcune perplessità e qualche dubbio interpretativo. Da un lato, la sancita possibilità che siano previste clausole espresse di tregua sindacale induce a chiedersi se le parti abbiano in tal modo indirettamente escluso la configurabilità di un dovere implicito di pace sindacale36. Tale conclusione non sembra necessaria, se si considera che sin dall’inizio degli anni ’60 l’esplicita introduzione di obblighi di tregua non ha affatto sopito, né condizionato il dibattito sull’esistenza di un suddetto dovere in termini generali.
D’altro lato, si deve rilevare che il vincolo si rivolge a “tutte” le rappresentanze sindacali e associazioni firmatarie dell’accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda. In altre parole, anche i soggetti che non sottoscrivano il contratto collettivo aziendale contenente le clausole di tregua sono tenute ad osservarle. Ma nei loro confronti l’effettiva esigibilità appare ancora più difficile.
Inoltre, quanto al contenuto dell’obbligo, è rimesso ai contratti aziendali con una formula non priva di “ambiguità”37, anche se, pur diretta ad evitare la proclamazione di scioperi, non impedisce che le rappresentanze dei lavoratori possano rimettere in discussione quanto pattuito. Al riguardo, peraltro, come correttamente sottolineato, va criticata la già rilevata (§ 2) mancanza di norme del tipo di quelle contenute nell’accordo interconfederale del 2009, volte a “garantire una sorta di amministrazione dei conflitti e/o di interpretazione autentica del disposto collettivo, anche al livello aziendale”38.
6. Decisamente innovativa è la parte dell’accordo interconfederale in cui si affronta il problema dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali: un tema da sempre dibattuto in dottrina e giurisprudenza, ma mai risolto sul piano dell’ordinamento statale, né in precedenza regolato dalle parti sociali.
Invero, il tentativo di dare certezze al sistema della negoziazione collettiva passa non soltanto dall’individuazione dei soggetti, dei livelli e dei contenuti, ma anche dall’applicabilità dei contratti collettivi. La scelta di dare soluzione al problema al solo livello aziendale, anziché a quello nazionale, si spiega non soltanto per il fatto che qui “si presentano i motivi più frequenti di contrasto fra i sindacati”39, ma anche con la maggiore probabilità che la soluzione accolta possa essere in linea con quanto previsto dall’ordinamento statale o, meglio, con le soluzioni adottate da dottrina e giurisprudenza, cui dare decisivo supporto.
L’opzione è ricaduta sull’efficacia generale dei contratti collettivi aziendali tanto delegati quanto modificativi, a condizione che i soggetti firmatari siano dotati di una rappresentatività maggioritaria.
La soluzione delineata, da un lato, non esclude la conclusione di accordi separati40. Ammette altresì implicitamente la sottoscrizione di contratti che, in quanto non rispettosi delle regole adottate, non sono destinati ad acquisire efficacia generale, ma che in termini di stretto diritto non possono rivelarsi invalidi.
D’altro lato, con buona dose di pragmatico realismo, persegue il risultato auspicato indipendentemente dalla natura e dal tipo delle forme di rappresentanza esistenti nei luoghi di lavoro. In altre parole, non si illude di poter superare la patologica compresenza di RSA e RSU, figlia della mancanza di unità sindacale, ma cerca di risolvere tale problema: ciò – sia detto incidentalmente – non sembra dar vita ad un sistema a canale doppio di rappresentanza41, se si considera che entrambi gli organismi hanno le stesse competenze, sono di derivazione sindacale e, quando coesistono nella stessa azienda, sono espressione di organizzazioni diverse.
Invero, se non può disconoscersi un evidente favor delle principali confederazioni per le RSU, poiché gli accordi da esse conclusi sono ritenuti direttamente vincolanti erga omnes “se approvati dalla maggioranza dei componenti” (è questo, del resto, l’unico caso in cui esse potrebbero firmare, trattandosi di organismi collegiali), si ammette espressamente – quasi una riscoperta – la possibile esistenza ed il ruolo negoziale delle RSA costituite ai sensi dell’art. 19 st. lav. Tuttavia, qualora i contratti collettivi siano sottoscritti da tali soggetti, la relativa efficacia generale (anche la relativa validità, in termini politico-sindacali) è subordinata, oltre che al consenso di una o più rappresentanze “destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda”, al voto favorevole di questi ultimi: una sorta di referendum destinato ad essere indetto dalle RSA (in linea con quanto previsto dall’art. 21 st. lav.) anche se richiesto da una sola organizzazione firmataria dell’accordo interconfederale o dal 30% dei lavoratori dell’impresa, il cui mancato svolgimento od il cui esito negativo costituiscono condizione sospensiva della firma dell’accordo o quanto meno condizione risolutiva espressa della validità (o, in termini di stretto diritto, dell’efficacia generale42) del contratto eventualmente già sottoscritto.
La soluzione è nella sostanza condivisibile, specialmente per la scelta sia del metodo democratico che del principio maggioritario43, anche se, considerato il quorum per la validità tanto della costituzione delle RSU quanto del referendum44, le maggioranze relative richieste per il voto fanno sì che il contratto potrebbe non ottenere il diretto consenso della maggioranza assoluta dei lavoratori dell’azienda.
Tuttavia i problemi tradizionali restano aggiungendosi ad alcuni dubbi interpretativi che l’accordo interconfederale solleva.
Innanzitutto, non è chiaro che cosa accada qualora nella stessa azienda coesistano la RSU e una o più RSA, dall’inizio o a seguito dell’uscita dalla RSU di una sua componente prima che siano decorsi i tre anni previsti per la relativa durata: un’eventualità che la natura obbligatoria delle clausole negoziali che disciplinano le RSU non può precludere in mancanza di una norma di legge. In questi casi si può ritenere che vada applicato il principio maggioritario di cui al punto 5 dell’accordo interconfederale: il voto espresso a maggioranza dalla RSU deve essere ritenuto espressione della percentuale di iscritti ottenuta da tutti i sindacati che in tale organismo collegiale si riconoscono.
In secondo luogo, la soluzione accolta non risolve neppure il problema sollevato dalla mancata sottoscrizione di un contratto applicato in azienda da parte di un sindacato pur decisamente rappresentativo (come la Fiom), considerato che il disposto della lett. b) dell’art. 19 st. lav. resta alla base, oltre che della costituzione delle RSA, anche della formazione della RSU45.
Infine, quanto all’efficacia erga omnes dei contratti aziendali, l’accordo interconfederale dà un contributo importante, ma non decisivo. Infatti, da un lato, tale soluzione potrebbe ritenersi ammessa nei casi di contratti collettivi di tipo gestionale, autorizzatorio o integrativo di norme di legge, come già riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti46. Tuttavia, le perplessità restano per gli accordi normativi o derogatori (o modificativi, che dir si voglia), a fronte dei quali la giurisprudenza più recente ha riconosciuto la rilevanza del dissenso individuale o collettivo: “l’efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi aziendali … può essere, bensì, confermata – come regola di carattere generale, in funzione delle esigenze che ne risultano perseguite (tutela di interessi collettivi, appunto, e inscindibilità della disciplina) – ferma restandone, tuttavia, la eccezione – in ossequio al principio di libertà sindacale ed in coerenza con il nostro sistema giuridico – che la stessa efficacia non può essere estesa, tuttavia, a quei lavoratori che – aderendo ad un’organizzazione sindacale diversa da quella che ha stipulato l’accordo aziendale – ne condividano l’esplicito dissenso, dall’accordo medesimo, e potrebbero, addirittura, risultare vincolati da un accordo aziendale separato, parimenti diverso”47.
Lo stesso può dirsi anche qualora l’accordo venga concluso dalla RSU, laddove in azienda siano presenti RSA dissenzienti rispetto all’accordo. Del resto, in mancanza di una norma di legge di segno contrario è improbabile che il meccanismo di rappresentatività maggioritaria possa superare il principio di rappresentanza, tradizionalmente inteso nei termini di rappresentanza volontaria, ovvero di spontaneo conferimento o delega dei poteri: delega che la giurisprudenza ha escluso possa ritenersi conferita con il voto48.
7. Alla luce di quanto osservato, l’accordo interconfederale del 2011 rappresenta una tappa fondamentale nella costruzione di un nuovo diritto sindacale, cosciente del rischio del dissenso individuale e collettivo, nonché della possibilità che, specie in sede decentrata e soprattutto nella gestione delle crisi, l’unità sindacale possa venir meno, ma destinato a dare risposte a tali problemi.
Tuttavia la tenuta delle regole a tal fine adottate era ed è ancora limitata. Sul piano dell’ordinamento intersindacale dipende in particolar modo dalla capacità delle parti sociali di sostenerne coerentemente l’applicazione a tutti i livelli. Sul piano, poi, dell’ordinamento statale si deve dubitare, come in precedenza rilevato in relazione a diverse questioni, che le suddette regole possano risultare autosufficienti. Di qui la necessità di un intervento legislativo di sostegno, da più parti auspicato.
In tale contesto si colloca l’art. 8, l. n. 148/2011, che, peraltro, a dispetto della sua rubrica (“Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”), non si colloca nella logica di supportare le soluzioni accolte dalle parti sociali o addirittura di dare ad esse attuazione (come sostenuto dal Ministro Xxxxxxx), bensì sembra avulso dalle stesse ed in grado di esercitare una potenziale funzione di disarticolazione del sistema contrattuale appena (ri)costruito49. Tanto che la confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale si sono preoccupate di ribadire la propria volontà di attenersi esclusivamente ad esso, come emerge dalla dichiarazione sottoscritta il 21 settembre 2011.
Da un lato, invero, l’art. 8 attribuisce, si potrebbe dire finalmente, efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali, anche di tipo normativo e/o derogatorio, a condizione che la relativa stipulazione sia opera delle rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge (RSA ex art. 19 st. lav.) e degli accordi interconfederali vigenti (RSU), “sulla base di un criterio maggioritario”. L’operatività di tale criterio non appare del tutto chiara, nel senso che se ne rivela discutibile il contenuto: in particolare è dubbio se degli accordi interconfederali siano richiamati soltanto i soggetti (le RSA e le RSU) o anche le procedure per l’efficacia generale (il referendum per le RSA). Se la soluzione affermativa appare preferibile50, è comunque certo che, qualora siano seguite le previsioni di tali accordi (in special modo la firma delle RSU a maggioranza o delle RSA maggioritarie con eventuale esito favorevole del referendum), il principio maggioritario debba ritenersi rispettato e l’efficacia generale del contratto aziendale riconosciuta. Cosicché il legislatore ha in tal modo risolto il problema dell’efficacia soggettiva di tale contratto ovviando ai limiti che l’autonomia collettiva non poteva da sola superare.
La soluzione accolta non sembra configgere con l’art. 39, seconda parte, cost. per due ordini di ragioni. Innanzitutto, la contrattazione aziendale sembra collocarsi al di fuori dell’ambito di tale disposizione dal punto di vista della Costituzione tanto formale, quanto materiale, cioè con riguardo sia alla lettera della norma (che fa riferimento alla categoria) sia alla diversità delle problematiche che tale livello negoziale induce ad affrontare (in termini di soggetti, materie e funzioni), a meno che il contratto aziendale non si riveli in toto sostitutivo di quello nazionale51. In secondo luogo, una soluzione quale quella adottata è, comunque, rispettosa dei principi, proporzionalistico nella composizione della delegazione trattante e maggioritario nella decisione di concludere il contratto, accolti dal comma 4 dell’art. 39 cost.52.
D’altro lato, invece, l’art. 8 si spinge ben oltre quanto previsto dall’accordo interconfederale del 201153, anzi si pone in rotta di collisione frontale con lo stesso. Infatti, ammettendo che la contrattazione aziendale possa derogare a quanto previsto dai contratti nazionali su una gamma assai estesa di materie (forse addirittura su tutta la disciplina del rapporto: comma 2, lett. e) a fronte di finalità altrettanto vaste, anzi pressoché omnicomprensive, il legislatore ha in pratica realizzato un vero e proprio disconoscimento del sistema contrattuale elaborato dalle parti sociali, imperniato sul principio di gerarchia e su regole di coordinamento fissate al centro, ovvero al livello nazionale di categoria. Se si considera che l’organizzazione della struttura contrattuale appare la massima espressione della libertà di organizzazione sindacale, difficilmente sembra che possa essere escluso il contrasto tra l’art. 8, l. n. 148/2011 e l’art. 39, comma 1, cost.54.
Analoghe osservazioni possono essere estese alla piena legittimazione analogamente conferita alla contrattazione territoriale, cui non fa alcun cenno il recente accordo interconfederale. In ordine a tale livello emerge altresì un ulteriore profilo di incostituzionalità, alla luce dell’evidente violazione della seconda parte dell’art. 39 cost.: una violazione che, come rilevato, può essere esclusa soltanto per la contrattazione aziendale.
Di conseguenza l’art. 8 potrebbe risultare conforme alle norme costituzionali e dare effettivamente sostegno al sistema contrattuale nel suo complesso, non certo al solo livello aziendale o territoriale in chiave destrutturante dell’ordinamento intersindacale, nella misura in cui ne legittimi l’intervento e le deroghe negli ambiti da quest’ultimo previsti: una sentenza interpretativa o manipolativa della Corte costituzionale potrebbe orientarsi proprio in tale direzione.
Nessuna possibilità di salvezza, neppure parziale, sembra invece meritare tale norma nella parte in cui ammette in modo così esteso, quanto a materie e finalità, deroghe da parte della contrattazione di secondo livello alle garanzie previste dalla legge. Se è vero che l’inderogabilità non è caratteristica naturale o necessaria delle disposizioni legislative55 e che da tempo le eccezioni a tale regola erano sempre più numerose, una negazione pressoché generale ed omnicomprensiva di quella caratteristica, per di più a favore della sede negoziale in cui i rappresentanti dei lavoratori sono più deboli, sembra contrastare tanto con l’art. 3, quanto con l’art. 35 cost.: infatti, da un lato, legittima un diritto del lavoro assai più “diseguale” dell’attuale, fondato su regimi di tutela diversi a seconda delle differenti soluzioni concordate in sede decentrata; dall’altro, sembra rinunciare alla funzione fondamentale del diritto del lavoro di fornire una base minima di tutela per tutti i lavoratori. Ciò senza trascurare l’irrazionalità di una scelta ad esclusivo favore del livello più decentrato, anziché di quello nazionale di categoria, ancora una volta in contrasto con l’art. 39, comma 1, cost., alla luce dell’opzione compiuta dalle parti sociali a favore della funzione regolativa e di coordinamento attribuita a tale livello.
Il saggio riproduce la relazione svolta al Seminario di Bertinoro, Bologna, 26-27 ottobre 2011, sul tema “All’inseguimento di un ‘Sistema stabile ed effettivo’: dall’Accordo Interconfederale 28 giugno 2011 all’art. 8 della legge di conversione del D.L. n. 138/2011”.
1 Cfr. Xxxxxxxx, Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, Relazione al Convegno di Copanello, 24-25 giugno 2011, su “Le relazioni sindacali nell’impresa”, § 1.
2 Il testo della relazione finale della Commissione Giugni può essere letto in Lav. inf., 1998, n. 3, p. 37 ss., sul punto p. 51.
3 Cfr. Napoli, La riforma della struttura della contrattazione collettiva, in Dir. rel. ind., 2003, p. 353 ss.; Xxxxxx, Le relazioni industriali tra riforma della rappresentanza, titolarità del diritto di sciopero e nuovi assetti della contrattazione collettiva. Libertà sindacale e disciplina della rappresentanza, ivi, 2004, p. 437 ss.; Xxxxxxxx, Il sistema contrattuale: ricostruire più che riformare, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, p. 281 ss.
4 Per un quadro aggiornato delle esperienze di concertazione cfr. X. Xxxxxxx, La concertazione, in Trattato di diritto del lavoro diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, III, Conflitto, concertazione e partecipazione a cura di X. Xxxxxxxx, Padova, 2011, p. 911 ss.
5 Così X. Xxxxxxx, La cronaca si fa storia: da Pomigliano a Mirafiori, Introduzione, in X. Xxxxxxx (a cura di), Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, Milano, 2011, p. XXV ss.
6 E’ quanto suggeriva la Commissione Giugni, cit. alla nota 2, p. 51.
7 Cfr. Xxxxxxxx, La forza di un pensiero debole. Una critica del Libro Bianco del Lavoro, in Lav. dir., 2002, p. 3 ss.; Xxxxxxxx, Le fonti del diritto del lavoro quindici anni dopo, Torino, 2003, p. 267; Xxxxxxxx, Dalla concertazione al dialogo sociale: scelte politiche e nuove regole, in Lav. dir., 2004, p. 183 ss.; X. Xxxxxxx, Una svolta fra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, in Miscione, Xxxxx (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, in Commentario al D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 coordinato da X. Xxxxxxx, X, Milano, 2004, p. LXVI; Xxxx, Contratto e rapporto tra potere e autonomia nelle recenti riforme dei diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2004, p. 404; Xxxx, Struttura della contrattazione collettiva e rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Xxxxxxxx, Xxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Napoli, 2006, p. 309.
8 Cfr. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in Dir. lav. rel. ind., 1998, p. 191 ss.; Xxxxxxxxxx, Il contratto collettivo aziendale e decentrato, Milano, 2001, spec. p. 8; Xxxxxxxx, Contratti collettivi e lavori flessibili, in X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, Torino, 2004, 2° ed., p. 182 ss.
9 Così X. Xxxxxxx, La cronaca si fa storia …, cit. p. XXX.
10 Così Xxxx, Uno sguardo d’assieme, in X. Xxxxxxx (a cura di), Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, cit., p. 19.
11 Così Napoli, La riforma degli assetti contrattuali nelle intese tra le parti sociali, in Jus, 2009.
12 Così Xxxxxxxx, L’attuazione dell’Accordo quadro: pluralità di sistemi contrattuali ed eterogenesi dei fini. Alcune note di sintesi, in Dir. lav. rel. ind., 2010, p. 396.
13 Alcuni contratti nazionali, quali quello dei chimici-farmaceutici e dei metalmeccanici del 2009, già l’avevano prevista: cfr. Xxxx, Relazioni sindacali e contrattazione di II livello: un’analisi a due anni dall’accordo interconfederale del 15 aprile 2009, in Riv. giur. lav., 2011, I, p. 718 s.
14 Per una ricostruzione delle previsioni dell’accordo del 15 aprile 2011 cfr. Zoli, Contrattazione in deroga, in X. Xxxxxxx (a cura di), Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, cit., p. 44 ss.
15 Cfr. Tosi, op. loc. citt.
16 Per una ricostruzione delle soluzioni dei contratti nazionali di categoria cfr. spec. Lassandari, La contrattazione collettiva: prove di de-costruzione di un sistema, in Lav. dir., 2011, p. 322 s.; Xxxx, op. cit., p. 716 ss.; Xxxx, op. cit., p. 20.
17 Cfr. in generale Xxxxxxx, Il contratto collettivo oggi. Dopo l’art. 8 del decreto n. 138/2011, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2011, p. 14 ss., che definisce addirittura “salvifico” l’accordo; Miscione, Regole certe su rappresentanze sindacali e contrattazione collettiva con l’Accordo interconfederale 28 giugno 2011, in Lav. giur., 2011, p. 653 ss., che definisce l’accordo “atto non di coraggio ma d’intelligenza”; X. Xxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace, in Arg. dir. lav., 2011, p. 457 s., che, pur sottolineandone l’importanza, ne pone in luce i limiti; Xxxxxxx, Xxx Xxxxx, Pessi, Xxxxx, Xxxxxxx, Tiraboschi, Xxxx’Xxxxxx, Tria, Xxxxxxx, Pirani, Sbarra, 28 giugno 2011: come cambiano le relazioni industriali italiane? Opinioni a confronto, in Dir. rel. ind., 2011, p. 642 ss.
18 Cfr. Treu, L’accordo 28 giugno 2011 e oltre, in Dir. rel. ind., 2011, p. 616.
19 E’ quanto recita l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 ed in termini simili si esprime l’accordo interconfederale per l’industria del 15 aprile 2009.
20 Così Xxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in Riv. giur. lav., 2011, I, p. 629.
21 Così Xxxxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in Riv. giur. lav., 2011, I, p. 646.
22 Così ancora Xxxxxxxxx, op. loc. citt.. Analogamente cfr. X. Xxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace, cit., p. 470.
23 Cfr. Xxxxxxxxx, op. cit., p. 646 s., testo e nota 16, che giustamente rileva la necessità di riscrittura delle relative regole e specialmente di quella del “terzo riservato”, la quale “rischia oggi di porsi in senso contrario allo spirito inclusivo connesso a un sistema di verifica della effettiva rappresentatività degli attori sindacali”.
24 Cfr. Alleva, op. cit., p. 628.
25 Critico sul mancato intervento della legge è in particolare Alleva, op. cit., p. 629.
26 Così ancora Alleva, op. cit., p. 629.
27 Cfr. sul punto Zoli, Contrattazione in deroga, cit., p. 45.
28 Cass., 6 ottobre 2000, n. 13300, in Not. giur. lav., 2001, p. 144.
29 Cfr. Cass., 3 aprile 1996, n. 3092, in Not. giur. lav., 1996, p. 496; Cass., 4 marzo 1998, n. 2363, in Rep. Foro. it, 1998, voce Lavoro (contratto), n. 24; Cass., 19 giugno 2001, n. 8296, in Notiz. giur. lav., 2001, p. 706; Trib. Torino, 18 ottobre 2001, in Giur. Piem., 2003, p. 188; Cass., 28 maggio 2004, n. 10353, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, p. 312, con nota di Xxxxxxx, Il contratto collettivo aziendale è efficace erga omnes; Cass., 11 luglio 2005, n. 14511, in Guida lav., 2005, n. 39, p. 36.
30 Cfr. Cass., 28 maggio 2004, n. 10353, cit.
31 Cfr., da ultimo, in tal senso Cass., 18 settembre 2007, n. 19351, in Notiz. giur. lav., 2008, p. 1; obiter Cass., 19 febbraio 2009, n. 4078, inedita; Xxxx. 26 gennaio 2009, n. 1832, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, p. 619, con nota di Xxxxxxxxxxx; Cass., 18 maggio 2010, n. 12098, in Giust. civ. Mass., 2010, p. 771.
32 Per una ricostruzione delle posizioni dottrinali in materia cfr., da ultimo, Santoni, La libertà e il diritto di sciopero, in Trattato di diritto del lavoro diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, III, Conflitto, concertazione e partecipazione a cura di X. Xxxxxxxx, cit., p. 25 ss.
33 Cfr. Treu, op. cit., p. 620 s.
34 Cfr. al riguardo Xxxxx, Contrattazione in deroga, in X. Xxxxxxx (a cura di), Da Pomigliano a Mirafiori: la cronaca si fa storia, cit., p. 36 s.
35 Correttamente Xxxxx, op. ult. cit., p. 36 s. afferma che “il mancato positivo esito dell’assolvimento di quegli obblighi … si traduce in una clausola di “dissolvenza” delle intese raggiunte”.
36 Cfr. in tal senso X. Xxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 …, cit., p. 475 s.
37 Così Xxxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in Riv. giur. lav., 2011, I, p. 668.
38 Così ancora Xxxxxxxx, op. loc. citt.
39 Così Treu, op. cit., p. 622.
40 Cfr. X. Xxxxxxx, Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2011, p. 21.
41 Solleva la questione Magnani, op. cit., p. 645.
42 In effetti nulla vieta che la RSA di un’organizzazione sindacale firmataria possa sottoscrivere separatamente il contratto collettivo aziendale “respinto” dal voto dei lavoratori: in quel caso, al di là del vulnus alle regole in esame, quel contratto non potrà certamente avere efficacia generale.
43 Cfr. spec. Xxxxxxxx, op. cit., 653 s. e Xxxxxx, op. cit., p. 633 ss., il quale, peraltro, sottolinea l’esigenza di un maggior grado di democrazia diretta.
44 Cfr. al riguardo spec. X. Xxxxxxx, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 …, cit., p. 473 s.
45 Cfr. in tal senso giustamente X. Xxxxxxx, op. ult. cit., p. 467 e Al capezzale del sistema contrattuale …, cit., p. 31 ss.
46 Sul punto sia consentito rinviare a Zoli, op. ult. cit., p. 51 ss.
47 Così Cass., 28 maggio 2004, n. 10353, cit. Cfr. analogamente App. Brescia, 7 marzo 2009, in Riv. giur. lav., 2010, II, p. 188, con nota di Xxxxxx, Accordi separati: casi di prevalenza della precedente disciplina unitaria.
48 Cfr. Xxxx., 13 gennaio 1992, n. 289, in Foro it.., 1992, I, c. 1793.
49 Si tratta di un giudizio largamente diffuso: cfr. Xxxxxxx, Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2011, § 11. X. Xxxxxxx, Al capezzale del sistema contrattuale …, cit., p. 24 s., peraltro, sottolinea che la disciplina dell’art. 8 è molto più complessa di quella dell’accordo interconfederale, ma rileva che tale norma è in qualche modo promozionale della “contrattazione collettiva di propinquità”.
50 Perulli, Speziale, op. cit., § 6 non escludono, comunque, la possibilità di “criteri maggioritari” diversi.
51 E’ in particolare con riguardo ad una tale eventualità (verificatasi, ad es., nel caso della Fiat) che Xxxxxxx, op. cit., p. 30 s. rileva come la tesi di una incostituzionalità della norma per violazione dell’art. 39 cost. sia tutt’altro che “peregrina”.
52 Notevoli dubbi di costituzionalità solleva, invece, anche al riguardo X. Xxxxxxx, op. ult. cit., p. 43 ss.
53 Cfr. Xxxxx, Qualche spunto per una riflessione sull’art. 8 della manovra di agosto, in Nel merito, 16 settembre, in www.nel Xxxxxx.xxx; Perulli, Speziale, op. cit., § 11.
54 Cfr. analogamente Perulli, Speziale, op. cit., § 8 e X. Xxxxxxx, op. ult. cit., p. 67 ss.
55 Cfr. Xxxx, Xxxxxxxxx e rapporto …, cit. , p. 404 s. Da ultimo su questi temi cfr. xxxxxxx Xxxxxx, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2008, p. 341 ss. e Xxxxxxx, Indisponibilità dei diritti dei lavoratori: dalla tecnica al principio del ritorno, ivi, 2008, p. 423 ss.
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