UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI XXXXXX XXXXXXXX XX
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
DOTTORATO DI RICERCA IN ISTITUZIONI E POLITICHE AMBIENTALI FINANZIARIE
PREVIDENZIALI E TRIBUTARIE
XXV ° ciclo
TESI DI DOTTORATO
IL RUOLO DELLA COOPERAZIONE NEL CONTRASTO ALL’EVASIONE FISCALE INTERNAZIONALE
COORDINATORE: CANDIDATA:
XX.XX PROF. XXXX.XXX
XXXXXXXX XXXXXXXX XXXXX XXXXXX DI SANTOLO
Anno accademico 2013/2014
INDICE
Introduzione pag. 3
Capitolo I L’EVASIONE FISCALE INTERNAZIONALE
1.1 L’evasione fiscale | pag. | 6 |
1.2 I Paesi a regime fiscale privilegiato | pag. | 7 |
1.3 La residenza nel diritto tributario nazionale | pag. | 10 |
1.4 Il trasferimento fittizio della residenza | pag. | 15 |
1.5 Il Transfer pricing | pag. | 22 |
1.6 Costi sostenuti nei paradisi fiscali | pag. | 35 |
1.7 Società controllate e collegate estere | pag. | 44 |
1.8 Il rientro dei capitali | pag. | 50 |
Capitolo II LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE – LE FONTI
2.1 Il contesto economico – politico pag. 54
2.2 Le convenzioni internazionali bilaterali pag. 56
2.3 Le convenzioni internazionali multilaterali pag. 59
2.4 Le fonti comunitarie pag. 65
2.4.1.Le direttive pag. 67
2.4.2 Le norme di attuazione in Italia pag. 76
2.4.3 I regolamenti pag. 78
Capitolo III LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI
3.1 Tipologie di scambio di informazioni pag. 84
3.2 Modalità operative per effettuare lo scambio pag. 85
3.3 Limiti e condizioni dello scambio di informazioni pag. 92
3.4 Alcuni problemi aperti pag. 96
Conclusioni e prospettive future pag. 101
Bibliografia pag. 106
INTRODUZIONE
L’economia moderna è caratterizzata da una forte globalizzazione o internazionalizzazione, in cui l’interdipendenza dei rapporti economici nello spazio riguarda tutti i fattori della produzione e della ricchezza: le persone, le società, i servizi, i beni, i capitali. Ciò comporta una forte integrazione degli scambi commerciali internazionali e la crescente dipendenza dei paesi gli uni dagli altri, per cui sostanziali modifiche che avvengono in una parte del pianeta avranno ripercussioni anche in un altro angolo del pianeta stesso, in tempi relativamente brevi.
In questo quadro le fiscalità statali si devono confrontare sempre più con fattispecie che, in ragione dei presupposti e dei soggetti passivi ad esse collegati, presentano elementi di estraneità con il territorio (società o persone fisiche che trasferiscono la propria residenza all’estero o che producono parte dei loro redditi all’estero o che hanno rapporti commerciali con soggetti residenti all’estero). Da qui nasce l’esigenza della cooperazione tra le amministrazioni fiscali. E’ uno dei paradossi dell’avvento della globalizzazione: da un lato gli Stati si confrontano in termini di competizione fiscale e dall’altro devono cooperare per salvaguardare i propri sistemi fiscali interni.
La cooperazione tra amministrazioni fiscali è giustificata sulla base di due fondamentali argomentazioni: la prima, che deriva dalla citata
internazionalizzazione dell’economia, è dovuta all’esistenza di elementi e situazioni fiscalmente rilevanti che si realizzano e perfezionano all’esterno del territorio dello Stato e di essi è necessaria l’esatta individuazione e quantificazione per il corretto funzionamento di un tributo. La seconda risiede nei limiti che l’ordinamento internazionale pone alla potestà amministrativa tributaria dei singoli Stati che non può legittimamente attuarsi al di fuori del territorio del medesimo Stato.
Poiché l’adozione di strumenti interni di contrasto all’evasione risulta inadeguato a fronteggiare le nuove e più estese forme di evasione e frode fiscale internazionale, la collaborazione fiscale internazionale si rende assolutamente necessaria.
Il diffondersi, soprattutto nelle nazioni più evolute, della tendenza dei contribuenti a sottrarre materia imponibile, più o meno lecitamente, per collocarla in Stati a più vantaggiosa fiscalità, ha indotto i governi ad intraprendere forme sempre più numerose e penetranti di lotta a tali pratiche, inevitabilmente ricorrendo alla collaborazione di altri Stati detentori di informazioni o di beni aggredibili, per portare ad esecuzione le pretese erariali. La grave crisi economica mondiale, esplosa a partire dal 2008, ha fornito un’ulteriore spinta alla cooperazione amministrativa in materia fiscale, volta a recuperare, per quanto possibile, gettito alle casse comunitarie e nazionali, sottoposte a tensione in conseguenza, appunto, al perdurare della situazione di crisi.
Di recente è stato stimato che ammontano ad oltre 15 miliardi di euro le somme evase ed eluse al fisco in ambito internazionale. Più della metà riguardano casi di esterovestizione della residenza, circa 5 miliardi vengono evasi da organizzazioni stabili di imprese estere operanti nel nostro Paese e i restanti fanno riferimento a triangolazioni verso i paesi off-shore.
Scopo del presente lavoro è analizzare i modi in cui si realizza attualmente l’evasione fiscale internazionale ed il ruolo cruciale che assume la cooperazione internazionale per il contrasto all’evasione, alla luce delle recenti normative e convenzioni.
CAPITOLO I
L’EVASIONE FISCALE INTERNAZIONALE
1.1. L’EVASIONE FISCALE
Nel concetto di evasione fiscale rientrano tutti quei metodi volti a ridurre o eliminare il prelievo fiscale attraverso la violazione di specifiche norme fiscali. Il rafforzamento della lotta all’evasione e all’elusione fiscale è una delle principali priorità politiche individuate, tra l’altro, nell’’Atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale per gli anni 2013- 2015, firmato in data 24 aprile 2013 dal Ministro dell’Economia e delle Finanze pro tempore.
In particolare negli ultimi anni sono sempre più frequenti fenomeni di evasione fiscale internazionale.
I fenomeni di illecito fiscale internazionale consistono nella sottrazione all’imposizione dei redditi, realizzata mediante:
- l’allocazione fittizia all’estero della residenza fiscale;
- l’illecito trasferimento e/o la detenzione all’estero di attività produttive di reddito (anche per il tramite di altri soggetti esteri, interposti o estero-vestiti).
Per comprendere quanto sia rilevante il fenomeno del trasferimento all’estero della ricchezza italiana basti pensare che si calcola, pur con l’approssimazione che sempre è connessa a tali stime, che :
- circa un terzo della ricchezza degli italiani a vario titolo sia dislocata all’estero;
- a Monaco, dove c’è un regime fiscale privilegiato, i residenti italiani sono da molto tempo più di seimila;
- lo “scudo fiscale” ha portato alla emersione di circa 150 miliardi di
euro.
1.2 PAESI A REGIME FISCALE PRIVILEGIATO
Il termine paradiso fiscale1 viene utilizzato comunemente per individuare Paesi e territori i cui regimi tributari evidenziano rilevanti
1 Si veda X. Xxxxxx, “Paradisi fiscali: problemi applicativi e proposte di modifica”, in Uckmar-Xxxxxxxxx (a cura di), “Aspetti fiscali delle operazioni internazionali”, Milano, 1995; X. Xxxx-X. Xxxxxx-X. Xxxxxxx, “Il nuovo regime tributario delle operazioni con i paradisi fiscali” Xxxxxx, 0000; R. A. Xxxxx, Tax xxxxxx and offshore finance: a study of transnational economic development, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxxxx-X. Xxxxxx, “Paradisi fiscali e bancari”, in Riv. GdF, 1996; X. Xxxxxxxx, “Guida al paradiso fiscale”, in Comm. Int., 1992, n. 22; Id., “Paradisi fiscali: la black list italiana”, in Comm. int., n. 14/1992; Id., “Normativa anti-paradisi fiscali”, in Comm. int., 1992, n. 2.; X. Xxxxxxx, “Paradisi fiscali e finanziari: la pianificazione fiscale internazionale, le indagini internazionali del fisco e della magistratura”, Milano, 2001; X. Xxxx-X. Xxxx-T. Nailon-
X. Xxxxxxxx, “Financial Xxxxxx, Banking Secrecy and Money Laundering”, in Technical
privilegi, dove, ad esempio, non sono previste imposte sui redditi o sono previste in misura esigua (es. le Bahamas e Bermuda). Nei c.d. “Centri offshore” le imposte sui redditi sono applicate esclusivamente con riferimento a redditi di fonte interna, e non sono applicate ai redditi di fonte estera, ovvero sono previsti regimi fiscali privilegiati per certe tipologie societarie o per redditi derivanti dallo svolgimento di determinate attività economiche (es. il Lussemburgo, l’ Irlanda). In molti paesi, come l’Italia, i paradisi fiscali sono indicati in specifici elenchi noti come “Black List”.
La normativa antielusione mira a contrastare quei comportamenti finalizzati a trasferire i redditi in Paesi esteri con intenti elusivi.
Può trattarsi di redditi percepiti in maniera lecita, ma con il fine deliberato di sfuggire alle legislazioni fiscali e sociali: pagare meno imposte e tenere nascosti i profitti dell’impresa.
Può però trattarsi anche di redditi illeciti, frutto di traffico d’armi, droga, contrabbando, abuso di beni societari, etc.
Il fenomeno della costituzione di società estere in Paesi a fiscalità privilegiata, da parte di soggetti residenti in Paesi ad alta fiscalità, al fine di ridurre il proprio carico fiscale, è diventato molto diffuso negli ultimi anni e costituisce un problema molto serio per la maggior parte dei Paesi
Series, New York, 1998, n. 8; F. Attac, “I paradisi fiscali: ovvero la finanza fuorilegge”, Trieste, 2001; Luppi, voce “Tax xxxxxx”, in Enc. Giur. Xxxxxxxx, XXX, Xxxx, 0000.; M.
P. Xxxxxxx- P. Xxxxxx Xxxxx, “Offshore finance centres and tax xxxxxx: the rise of global capital”, Houndmills, Xxxxxxxxx, 0000.
industrializzati. I paradisi fiscali oltre a colpire direttamente le casse pubbliche dei Paesi più industrializzati, comportano un ulteriore impatto negativo. Le multinazionali, attraverso l’illecito risparmio d’imposta, esercitano una concorrenza sleale nei confronti di quelle imprese che non sfruttano gli stessi meccanismi, essendo così favorite le società più grandi. Questo costituisce un ulteriore incentivo all’evasione per le altre imprese.
La sfida ai paradisi fiscali costituisce una priorità sul piano operativo.
Dopo il G20 del 2009 l'Ocse ha provveduto ad elaborare tre diversi tipi di liste: lista nera (elenco di Stati, territori o giurisdizioni che non si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali); lista grigia (elenco di Stati, territori o giurisdizioni che si sono impegnati a rispettare gli standard internazionali ma che, ad oggi, hanno siglato meno di dodici accordi conformi a questi standard); lista bianca (elenco di Stati, territori o giurisdizioni che hanno seguito le regole internazionali, stipulando almeno 12 accordi conformi a queste regole).2
Le Grey List stanno lavorando per modificare il proprio sistema fiscale, adeguandolo a quello internazionale fondato su regole chiare e adeguati strumenti di controllo. Gli impegni assunti tra gli Stati sono finalizzati alla progressiva cancellazione della Black List attraverso misure
2 cfr. X. Xx Xxxx, “Ocse: a zero la black list, due le new entry nella white”, pubblicato il 4 giugno 2010 su FiscoOggi.
di depenalizzazione in favore del rientro del capitale e di inasprimento delle sanzioni a carico di banche o imprese che intrattengono relazioni con gli Stati presenti nella Black List. Il traguardo raggiunto anche grazie all’impegno dell’OCSE segna una svolta importante che richiederà un’attività impegnativa di studio delle strategie per favorire il rimpatrio dei capitali occultati e il perseguimento della vigilanza affinché i sistemi di internazionalizzazione finanziaria si traducono in processi di pianificazione fiscale legittima onde scongiurare l’occultamento (evasione) o l’artificiosa diminuzione del reddito imputato nel bilancio consolidato dell’azienda attraverso costruzioni tecno-giuridiche prive di motivazione economica effettiva. Per contrastare la concorrenza fiscale dannosa, l’OCSE aveva indirizzato già nel 1998 agli Stati membri le raccomandazioni volte ad intensificare la cooperazione internazionale e a smantellare quelle misure fiscali che minano l’integrità dei sistemi tributari e la fiducia dei contribuenti.
1.3 LA RESIDENZA NEL DIRITTO TRIBUTARIO NAZIONALE
L’art.2, secondo comma, del D.P.R. 917/1986, testo unico delle imposte sui redditi, definisce residenti le persone <<che per la maggior parte del periodo d’imposta, sono iscritte nelle anagrafi della popolazione
residente (criterio formale) o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile (criterio sostanziale)>>.
È quindi assoggettabile a tassazione personale, l’individuo che nel territorio dello Stato abbia la sola residenza, il solo domicilio o risulti solamente iscritto nelle anagrafi della popolazione residente.
Tali situazioni giuridiche devono prodursi per la maggior parte del periodo d’imposta, ossia per almeno 183 giorni nell’anno solare e 184 giorni nel caso di anno bisestile.
Secondo l’Amministrazione finanziaria il criterio formale (iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente) costituisce una presunzione assoluta che non ammette prova contraria. Tale orientamento è stato condiviso anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 6 febbraio 1998.
Se, ad esempio, un soggetto risiede stabilmente all’estero, ma non si è cancellato dall’anagrafe della popolazione residente, questi sarà comunque considerato un residente italiano e quindi assoggettato all’IRPEF.
Inoltre, il nostro ordinamento impone ai cittadini italiani che hanno trasferito la propria dimora all’estero, oltre alla cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente, anche l’iscrizione all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE).
Viceversa, la mancanza del primo requisito non è condizione sufficiente per non essere considerato residente: se ricorre infatti il criterio sostanziale, il soggetto sarà ugualmente tassato.
Nella sentenza n. 14434 del 15 giugno 2010 la Corte di Cassazione nell’affrontare diverse problematiche legate alla nozione di residenza fiscale, ha rilevato che l’iscrizione all'anagrafe della popolazione residente all'estero, se pure è necessaria, non è però esaustiva, ben potendo il contribuente avere fissato il proprio domicilio nel territorio dello stato, inteso come sede principale degli affari e interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali (Cass. 13803/2001 e 10179/2003)3.
Con riferimento alla locuzione affari ed interessi, si evidenzia come l’Amministrazione finanziaria nella circolare 304/E del 2 dicembre 1997, ha confermato l’orientamento della Cassazione che ha voluto comprendere non solo i rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche gli altri rapporti morali, sociali e familiari4.
3 Per la individuazione del centro principale degli interessi vitali della persona fisica, la Corte afferma che è necessario individuare il luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente, vale a dire in modo riconoscibile dai terzi; di talché deve prevalere un criterio di effettività, analogamente a quanto accade in ordine alla individuazione del giudice competente per la dichiarazione di fallimento (Cass. 12285/2005). Cfr. X. XXXXXX, “L’iscritto all’Aire non sfugge al fisco”, su ItaliaOggi del 28 giugno 2010.
4 La prassi ministeriale si è conformata su questo orientamento, infatti con la risoluzione
n. 17/E del 10 febbraio 1999 l’Amministrazione finanziaria ha osservato che deve essere considerato non residente in Italia un soggetto cancellato dall’anagrafe italiana, iscritto
Tale operato si potrebbe giustificare con la coincidenza degli interessi dei due rami (civilistico e fiscale) dell’ordinamento giuridico nell’individuazione del corretto rapporto fra il soggetto e lo spazio, rapporto che generalmente consta di un aspetto economico e patrimoniale, da un lato, e di un aspetto sociale dall’altro. Occorre rilevare al riguardo, che mentre nel passato il concetto di residenza è rimasto lungamente confuso e compenetrato con quello di domicilio, con l’evolversi delle condizioni sociali, e con una maggiore mobilità gradualmente acquisita dall’individuo, unitamente con l’inevitabile affinamento degli strumenti giuridici, si è addivenuti ad una netta separazione tra il concetto di residenza ed il concetto di domicilio.
Secondo il principio del worldwide taxation se un soggetto viene qualificato come residente in Italia, i suoi redditi vengono assoggettati a tassazione in Italia ovunque prodotti. Naturalmente questo principio può generare un fenomeno di doppia imposizione. Le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione sono uno strumento di politica internazionale tributaria necessario ad evitare il fenomeno per cui lo stesso presupposto sia
all’AIRE che si è trasferito all’estero con la propria famiglia. A questo proposito dobbiamo osservare che rimanere proprietari della propria abitazione in Italia non è considerato un fattore determinante per il fisco italiano, mentre l’abitazione potrebbe essere un elemento significativo nell’ambito della individuazione della residenza fiscale convenzionale, contenuta nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni che ne subordinano l’operatività alla determinazione della residenza delle persone in modo tale da ripartire la pretesa tributaria fra i due Paesi oggetto della convenzione.
soggetto due volte a tassazione in due diversi stati. La convenzione ha lo scopo di evitare la tassazione del reddito sia nel paese in cui questo è stato prodotto sia nel paese di residenza del soggetto che lo ha prodotto
La residenza di soggetti diversi dalle persone fisiche è disciplinata dall’art. 73, terzo comma, del T.U.I.R., per il quale: << Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato>>.
Con riferimento a soggetti diversi dalle persone fisiche (società ed enti giuridici), quindi, si prendono in considerazione le seguenti species: sede dell’amministrazione, che è il luogo dove hanno svolgimento le attività amministrative e di direzione, sede legale, che è quella risultante dall’atto costitutivo e dall’originario statuto, ed oggetto principale, che è l’attività effettivamente esercitata da un soggetto diverso dalle persone fisiche.
La prassi conferma che molto spesso la sede legale indicata nello statuto di una società è fittizia, e l’attività in realtà viene svolta altrove. L’effettiva residenza può essere individuata facendo ricorso a dati esterni facilmente percepibili, come le funzioni di direzione centrale e di controllo: tale metodo è usato anche in Italia , mentre l’OCSE lo raccomanda quale criterio riguardante i casi di doppia residenza.
Infatti l’art.4, comma 3 del modello OCSE risolve i problemi di doppia residenza, specificando che quando una persona diversa da una persona
fisica è residente in entrambe gli Stati contraenti, essa sarà considerata residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva.
Il paragrafo 22 del Commentario all’art.4 del Modello OCSE, chiarendo l’inadeguatezza della scelta della sede di costituzione quale luogo di residenza in quanto criterio puramente formale, privilegia quello più sostanziale della sede di direzione effettiva.
Si propende a credere che la ragione di tale criterio di scelta sia da collegare al fatto che la sede di direzione effettiva, tra i tanti, sia quello che rappresenta quartier generale di una società, ove si decide l’an, il quantum ed il quomodo del reddito che potrà poi essere materialmente prodotto altrove, diciamo che si fa riferimento al luogo dove sono adottate le decisioni chiave sul piano gestionale e commerciale necessarie per l’esercizio dell’attività dell’ente.
1.4 IL TRASFERIMENTO FITTIZIO DELLA RESIDENZA
Si verifica sempre più spesso che società e persone fisiche trasferiscono la loro residenza all’estero, in determinati Paesi dove possono beneficiare di un regime fiscale meno oneroso di quello italiano. Così accanto al risparmio fiscale legittimo si verificano anche fenomeni di
evasione e di elusione fiscale. L’entità della sottrazione alle casse dell’erario di trasferimenti di ricchezza e il loro occultamento per sole ragioni di risparmio fiscale, ha raggiunto dimensioni enormi.
Ciò è tanto più vero se si pensa alla rapida evoluzione dei sistemi socio economici, ed alla velocità con cui si riducono le barriere spazio temporali negli scambi di cose, persone e capitali.
Un grande impulso verso questa nuova dimensione si è avuto, in particolare, con la nascita e lo sviluppo dell’Unione Europea, che porta con sé il mandato di favorire e tutelare la mobilità appunto delle merci, dei capitali, delle persone (e società) e dei servizi (i quattro grandi principi dell’UE).
Per tali soggetti, forse, si prospetta uno scenario nel quale i Paesi saranno costretti a livellare la propria fiscalità, in maniera da arginare rapide e facili fughe di residenza verso Paesi fiscalmente più competitivi.
Nella realtà moderna, infatti, i sistemi tributari prevedono, generalmente, che il potere impositivo dello Stato possa essere esercitato in relazione alle fattispecie reddituali che si manifestano non solo all’interno del territorio, ma anche al di fuori dei suoi confini, a condizione, come è stato precedentemente detto, che sussistano ragionevoli criteri di collegamento tra il fatto impositivo ed il territorio statuale. Nel diritto tributario internazionale, hanno assunto notevole rilievo due criteri di
collegamento: il criterio di natura reale del luogo di produzione del reddito e quello di natura personale cd. della residenza.
Il primo principio individua un sistema di tassazione territoriale nel quale lo Stato esercita il potere impositivo su tutti i redditi da chiunque prodotti nel proprio territorio, mentre il principio della residenza conduce alla definizione di un modello di tassazione mondiale (worldwide income taxation) nel quale il prelievo fiscale incide sui redditi ovunque prodotti dai soggetti che posseggono lo status di residente.
L’attenzione legislativa nei confronti del trasferimento della residenza fiscale si è sviluppata soprattutto in relazione all’incremento dei
c.d. trasferimenti fittizi.
A tal proposito infatti l’art. 10 L. 23 dicembre 1998, n. 448 stabiliva che i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione si consideravano residenti, salvo prova contraria, qualora emigrati in Stati aventi regime fiscale privilegiato, individuati con apposito decreto del Ministro delle Finanze. Si trattava di una norma antielusiva in quanto indirizzata al contrasto di un comportamento di tipo elusivo o evasivo su base internazionale,individuato con il termine di esterovestizione.
Il fenomeno della "esterovestizione" societaria nasce dalla prassi, in uso presso numerose realtà imprenditoriali, di collocare una o più società, riconducibili allo stesso soggetto economico, al di fuori del territorio nazionale, con il principale intento di usufruire di forme agevolate di
tassazione. E' evidente come la scelta di costituire una società deputata alla gestione delle partecipazioni di gruppo, dei marchi, dei brevetti o quant'altro, sia di per sé del tutto legittima, anche qualora l'obiettivo primario del soggetto imprenditore sia quello di diminuire il carico fiscale del gruppo sfruttando le legislazioni estere più favorevoli.
La questione diviene fiscalmente rilevante nell'ipotesi, in concreto piuttosto frequente, in cui la società costituita all'estero sia, di fatto, amministrata in Italia. Infatti, secondo quanto dispone l'articolo 73 del Tuir, "ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato". Se il concetto è ben noto con riferimento al requisito della sede legale, molto spesso invece società di piccole e di grandi dimensioni dimenticano che anche solo il verificarsi di uno degli altri due presupposti comporta, per il Fisco italiano, l'identificazione della società estera come residente nel nostro Paese. E questo non soltanto oggi, quando tale previsione è stata addirittura inasprita dalla normativa dettata dal Dl 223/2006, che facilita l'onere probatorio dell'Amministrazione finanziaria, ma anche e soprattutto in passato.
La Suprema Corte ha avuto modo di precisare che per l'individuazione della sede dell'amministrazione occorre avere riguardo alla
situazione sostanziale ed effettiva senza limitarsi a quella formale od apparente.
La stessa Corte di Cassazione ha, tra l'altro, affermato che
- costituisce sede effettiva di una persona giuridica il "...luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione..." della società e "...cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento degli organi e degli uffici societari in
vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente...";
- detta sede effettiva di una società "...non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della medesima, oppure una persona che genericamente ne cura gli interessi o sia preposta ad uffici di rappresentanza, dipendenze o stabilimenti, ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell'impresa...".
Similmente, in una precedente sentenza, la Suprema Corte si era espressa nel senso che la sede effettiva di un ente dovesse essere individuata non nel luogo in cui si trovavano i beni o gli uffici del medesimo, bensì in quello in cui avesse effettivo svolgimento la sua attività amministrativa e direzionale.
A tal proposito, anche la giurisprudenza di merito, si è dimostrata incline ad attribuire rilevanza al luogo in cui effettivamente risiedono la
direzione e l'organizzazione amministrativa delle società, ovvero il luogo dal quale provengono gli impulsi volitivi inerenti alle attività amministrative delle società ed Enti. Si è sostenuto parimenti che si debba avere riguardo al ruolo degli amministratori che operano in concreto e non soltanto a quelli preposti all'amministrazione in via meramente formale.
Analogamente la Commissione Tributaria Centrale ha ritenuto che vada ravvisata l'esistenza in Italia della sede amministrativa di un soggetto estero, laddove l'attività dei rappresentanti della società sul territorio italiano si sostanzi, di fatto, nello svolgimento dei compiti e nell'esercizio dei poteri tipici degli amministratori e non di quelli propri dei semplici rappresentanti. In questo senso, il suddetto organo giudicante ha evidenziato come non sia necessario che detti poteri siano omnicomprensivi (includendo, ad esempio, anche quelli di gestione straordinaria), non rilevando, da questo punto di vista, "...la mancata attribuzione, o il mancato esercizio, di poteri che non appartengono agli amministratori di una società, ma all'assemblea degli azionisti...".
Il fenomeno dell'esterovestizione è, sostanzialmente,alimentato dalla disarmonia esistente tra i sistemi tributari dei vari Stati, anche in ambito U.E., dove il raggiungimento di una omogeneità rimane frenata non soltanto dalle oggettive difficoltà di unificare 27 differenti ordinamenti, ma anche dalle resistenze attuate da alcuni Paesi membri, in un quadro c.d. di concorrenza fiscale internazionale. Tali Stati, infatti, cercano di attrarre
operatori e capitali stranieri, prevedendo, tra l'altro, l'applicazione di aliquote fiscali molto contenute o l'esenzione di taluni componenti di reddito (es.plusvalenze), a motivo del fatto che le imprese localizzano i loro investimenti preferibilmente dove minore è l'onere impositivo, per massimizzare il profitto. Prescindendo dai cc.dd. paradisi fiscali, per i quali vigono speciali normative anti elusione, va precisato che il livello della pressione fiscale esistente sulle imprese italiane è superiore anche a quello medio registrabile negli altri Stati U.E.
A ciò deve aggiungersi il fatto che in alcuni di detti Paesi, sono contemplati, altresì, particolari benefici fiscali, per determinate tipologie di soggetti economici o per specifiche categorie di reddito. Tali benefici rendono appetibili, per i soggetti italiani, gli ordinamenti tributari esteri indipendentemente dal livello ordinario di tassazione, che raramente viene applicato, soprattutto alle società finanziarie.
A parte, infatti, il caso dell'Irlanda, dove il basso livello di tassazione riguarda tutte le società residenti che ivi svolgano effettivamente attività commerciali, in altri Stati esistono sistemi di imposizione agevolata che operano solo in alcuni casi, contribuendo a rendere basso o, a volte, nullo, il prelievo fiscale, per ciò che attiene, ad esempio, ai dividendi percepiti dalle holding ivi costituite, o alle plusvalenze realizzate sulle partecipazioni. In ragione di ciò varie strutture di gruppi imprenditoriali, sia di grandi che di medie e piccole dimensioni per effetto, sovente, di un'attività di
pianificazione fiscale internazionale, sono caratterizzate, tra l'altro, dalla concentrazione delle partecipazioni in capo ad holding o sub holding localizzate in Paesi esteri, in particolare dell'U.E. per beneficiare, tra l'altro, dell'agevolazione di cui all'articolo 96 bis del T.U.I.R., concernente l'esenzione da imposizione, in capo al percipiente italiano, del 95% dei dividenti provenienti dal soggetto residente, appunto, in alcuno di detti Paesi.
1.5 IL TRANSFER PRICING
Con il termine “transfer pricing” s’intende il controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali tra società facenti parte dello stesso gruppo ma residenti in paesi diversi, al fine di verificare che i prezzi non siano stati determinati in modo da “ottimizzare” il carico tributario, spostando cioè materia imponibile nei paesi a fiscalità ridotta.
Oltre il 50% del commercio mondiale passa per un paradiso fiscale,vi è un gigantesco volume di scambi realizzati senza alcun fine produttivo, ma unicamente per evadere o eludere le tasse e nascondere i profitti e i redditi.
E tra i diversi meccanismi utilizzati, il più dannoso è proprio l’utilizzo fraudolento del transfer pricing o prezzo di trasferimento5.
Infatti, allo scopo di concentrare il più possibile l’utile nei paesi a regime fiscale privilegiato, la società residente in un paese avente un regime fiscale oneroso, ad esempio in Italia, che acquista materie prime o merci da una società collegata o controllata residente in un paese a bassa fiscalità, avrà interesse ad accordarsi per pagare un prezzo artificiosamente alto in modo che la società italiana potrà abbattere il proprio profitto e la società estera, che, come detto, risiede in un paese a regime fiscale privilegiato, potrà conseguire un notevole profitto. L’effetto, quindi, che si consegue con questo meccanismo è quello di trasferire nel paese a bassa fiscalità una porzione di reddito che avrebbe dovuto soggiacere ad una tassazione più alta.
L’abuso del meccanismo, in se legittimo, del transfer pricing è ancora più efficace e meno controllabile quando si riferisce al trasferimento tra diverse filiali di beni intangibili da iscrivere a bilancio, quali loghi,
5 Secondo l’OCSE circa i due terzi del commercio internazionale si svolge all’interno delle imprese e riguarda transazioni tra diverse filiali o sussidiarie di imprese transnazionali, mentre solo un terzo riguarda la vera e propria vendita di prodotti o servizi sul mercato. In altre parole, la maggior parte delle operazioni import-export si svolgono tra due sussidiarie di una stessa impresa multinazionale: una filiale compra o vende dei prodotti a un’altra filiale in un Paese diverso. Sul punto si veda Xxxxxx Xxxxxxx, “Capire la finanza – I paradisi fiscali”, a cura di Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus, 1° dicembre 2009.
marchi, brevetti ed altri: è sufficiente registrare il marchio in una filiale appositamente costituita in un paradiso fiscale!
Tutti gli stabilimenti produttivi e le succursali, per utilizzare il marchio dell’impresa, dovranno pagare i diritti (copyright) alla filiale dove il marchio è stato registrato per questa via garantendo, in maniera semplice e quasi automatica, un continuo trasferimento di danaro dagli stabilimenti produttivi alla filiale creata nel paradiso fiscale con l’unico scopo di “custodire” il marchio.
Considerando poi che ogni impresa, entro limiti molto elastici, è libera di attribuire al proprio logo il valore che crede più opportuno, è possibile comprendere la forza di un tale meccanismo finanziario6.
La società straniera può essere controllante, controllata o consorella ed il TUIR non si riferisce solo al concetto di controllo delineato secondo l’art. 2359 del codice civile, ma opera una presunzione di controllo per alcune fattispecie quali ad esempio, vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall’altra impresa, relazioni di famiglia tra le parti, concessioni di ingenti crediti, controllo di approvvigionamento o di sbocchi, ecc.
6 Un caso simile a quello dell’abuso del transfer pricing è il c.d. mispricing: la transazione, in questo caso, non avviene tra diverse filiali di imprese multinazionali, ma aumentando o diminuendo artificialmente il prezzo di un prodotto o di una materia prima destinata al mercato o all’export. Per fare un esempio, in alcuni casi i diamanti africani sono stati esportati ad un prezzo che è solo una piccola frazione del loro reale valore (tra il 1993 e il 1997 la Guinea ha segnalato l’esportazione di 2,6 milioni di carati di diamanti verso il Belgio, ad un prezzo medio di 96 dollari al carato).
Per quanto concerne il requisito oggettivo, esso viene individuato nella discrepanza tra il valore cui avvengono le transazioni infragruppo e quello rilevabile per transazioni comparabili effettuate sul libero mercato.
Infatti l'elemento centrale, per verificare la congruità dei prezzi applicati infragruppo, viene individuato dall’articolo 110, settimo comma, del TUIR, che dispone che i componenti di reddito che derivano da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che “direttamente” o “indirettamente” controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, devono essere valutati in base al “valore normale” dei beni ceduti o dei servizi prestati. Per la definizione di valore normale si fa riferimento all’art. 9 del Tuir che definisce come valore normale "il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi.” Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso.
Poiché il problema di prezzi di trasferimento coinvolge le amministrazioni finanziarie di quasi tutti i principali paesi industrializzati, la materia è stata oggetto di attenzione a livello sovranazionale.7
L’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha predisposto già nel 1979 le Linee guida in materia di transfer pricing, che nel corso degli anni sono state oggetto di diversi aggiornamenti, fino alla stesura nel 1995 del Rapporto : “Transfer pricing guidelines for multinational enterprices and tax administrations” . Le Guidelines, aggiornate nel mese di luglio 2010, ribadiscono il principio dell'"arm's lenght"8 per la determinazione dei prezzi nei rapporti infragruppo.
Occorre evidenziare che il principio cardine per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese facenti parte di un gruppo multinazionale è costituito dal principio di libera concorrenza, contenuto nell’art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE secondo il quale : “quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti , gli utili che, in mancanza di tali
7 X.Xxxxxx e X.Xxxx “Transfer pricing – analisi della disciplina comunitaria dei prezzi di trasferimento” edizioni CST – 2003
8 L'espressione "arm's lenght", che letteralmente è traducibile come "lunghezza del braccio", sta a significare "valore normale". Infatti, i soggetti estranei devono stare ad un minimo di distanza (quantomeno la lunghezza di un braccio) e nei rapporti tra essi viene praticato il prezzo di mercato senza sconti.
condizioni, sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza”.
Esistono diversi metodi per la determinazione del valore normale che vengono di norma raggruppati in due categorie: metodi tradizionali, basati sulla individuazione del prezzo congruo di ogni operazione di cessione dei beni e di prestazione di servizi, e metodi reddituali, basati sull’utile conseguito tramite la transazione infragruppo. Tali metodi individuati nelle Guidelines dell’OCSE sono stati oggetto di chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate.
Alla categoria dei metodi tradizionali appartengono:
- il metodo del confronto del prezzo: il valore normale si determina confrontando il valore della transazione in esame con quello che verrebbe praticato in caso di transazioni realizzate fra soggetti giuridicamente indipendenti operanti in medesime condizioni contrattuali e di mercato;
- il metodo del prezzo di rivendita: il valore normale si determina ‘depurando’ il prezzo di rivendita del bene da parte dell’impresa acquirente di una percentuale di profitto riconducibile a spese di distribuzione o altre spese sostenute a fronte del servizio realizzato;
- il metodo del costo maggiorato: il valore normale si determina aggiungendo al costo di produzione del bene o del servizio oggetto della
transazione un margine desunto dalle condizioni di mercato e dalla natura delle operazioni poste in essere.
Alla seconda categoria appartengono i seguenti metodi:
- il metodo della comparazione dei profitti: gli utili realizzati dall’impresa vengono raffrontati con quelli conseguiti da altri soggetti operanti nel medesimo settore;
- il metodo della ripartizione dei profitti: gli utili realizzati vengono ripartiti fra i diversi soggetti costituenti un gruppo in funzione del costo da ognuno di essi sostenuto nel ciclo produttivo;
- il metodo dei margini lordi del settore economico: gli utili vengono quantificati in funzione del livello di efficienza raggiunto dai soggetti partecipanti al ciclo produttivo;
- il metodo della redditività del capitale investito: gli utili vengono quantificati soltanto in funzione del capitale investito.
Nell’ordinamento tributario nazionale è previsto l’obbligo per gli operatori economici in rapporto con soggetti aventi sede, residenza o domicilio in paesi black list, di tenere e gestire un elenco clienti-fornitori per dare modo agli uffici dell’amministrazione finanziaria di esercitare un attento monitoraggio di tutte le transazioni “consumate”, siano esse
cessioni di beni o prestazioni di servizi, registrate o soggette a registrazione9.
Ciò che conta, pertanto, è la conoscenza e l’esame del prezzo di trasferimento ed il suo confronto ragionato con il valore di mercato, operazione certamente complessa ed articolata ma potenzialmente in grado di far emergere gli interessi “negativi” sottostanti10.
E’ evidente, quindi, che se sul piano teorico l’istituto del transfer pricing può apparire sufficientemente compiuto, è dal punto di vista operativo che si registrano, tuttora, forti carenze11. Infatti, per completezza, è utile fare un piccolo accenno a due criticità legate all’applicazione della
9 Su tale scia si giustifica l’operare dell’obbligo di comunicare “anche i ricavi conseguiti grazie ad operazioni concluse con soggetti ubicati in Paesi a fiscalità privilegiata...” per soddisfare lo scopo di “....monitorare se, dopo aver venduto ad una cifra inferiore al valore di mercato...” ad un soggetto black list, “...una parte della somma che quest’ultimo possa aver incassato dalla successiva rivendita sia stata poi retrocessa in nero all’originario venditore”. Cfr. Xxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxx, “Costi black list: alla ricerca del <<burattinaio del paradiso>>”, citata.
10 Xxxxxxxxx Xxxx “Tassazione aziendale in cerca di identità”, allegato a Dialoghi Tributari n. 2/2010, pag. 70.
11 In particolare con riferimento al tema della prova, per la quota-parte a carico dell’Amministrazione finanziaria. Sulla tematica, in generale, della ripartizione dell’onere della prova e sulle metodologie in concreto da applicare per la configurazione del valore normale, si veda Xxxxxxxxx Xxxxxxx, “Transfer pricing, come e quando si forma la prova nella pratica”, in FiscoOggi, 24 novembre 2008 ed ancora, più di recente, il medesimo autore con “Transfer pricing, come e quando ricorrere al metodo del Tnmm-1”, in FiscoOggi, 27 febbraio 2009.
disciplina del transfer pricing. Uno dei problemi maggiori che si incontrano quando si affronta la materia in esame è rappresentata dall’onere della prova12, che naturalmente incombe sull’Amministrazione finanziaria e che risulta piuttosto complessa, trattandosi di ricostruzioni suscettibili di diverse valutazioni. Un’altra problematica è rappresentata dal fatto che dalla rideterminazione dei prezzi di trasferimento può derivare un fenomeno di “doppia imposizione”, nel caso in cui i maggiori componenti positivi di reddito accertati in un paese non siano riconosciuti quali maggiori componenti negativi nello stato di residenza della società con la quale è stata effettuata la transazione.
L'articolo 26 del DL 78/2010, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122, ha introdotto nell’ordinamento italiano un regime di oneri documentali a carico delle imprese in materia di prezzi di trasferimento. Con tale disposizione è stato inserito il comma 2-ter nell'articolo 1 del Dlgs 471/97 («Violazioni relative alla dichiarazione delle imposte dirette») che dispone che le sanzioni amministrative previste al
12 In materia di onere della prova si veda la sentenza della Corte di Cassazione n. 76280 del 22/06/2006. Si segnalano altre due sentenze della Corte di Cassazione molto importanti in materia di transfer pricing quali la sentenza n. 14016 del 14/12/1999 (Spese di regia)e la Sentenza n. 11850, 17/05/2000 (Riaddebito costi a stabileorganizzazione italiana di società estera). Di notevole interesse anche le sentenza della Corte di Giustizia quali la Decisione C-307/97 del 21/09/1999 (Libertà di stabilimento); e la Decisione C- 324/00 del 12/12/2002 (Thin cap - principio di non discriminazione). La più recente è la sentenza C-311/08 del 21/01/2010. E’ stato detto che si tratta della prima sentenza in cui la Corte di Giustizia si occupa di Transfer pricing.
comma 2 del medesimo articolo (ovvero dal 100% al 200% della maggiore imposta o del minor credito accertato), non si applichino in caso di una rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento, qualora il contribuente, nel corso di un accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, consegni all'amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del direttore dell'Agenzia delle Entrate, idonea a consentire il riscontro della conformità dei prezzi di trasferimento praticati al valore normale. Inoltre, il contribuente che detiene la documentazione prevista dal suddetto provvedimento deve darne comunicazione all’Agenzia delle Entrate.
Occorre evidenziare che la disciplina in esame non introduce un obbligo a carico del contribuente, bensì un onere, in un’ottica di adempimento spontaneo. L’obiettivo fondamentale della norma è quello di consentire all’amministrazione finanziaria di disporre di tutta una serie di documentazione per verificare la conformità dei prezzi di trasferimento praticati dalle imprese multinazionali nelle operazioni infragruppo a quelli adottati in regime di libera concorrenza. Tale verifica risulterebbe ancora più complessa senza la collaborazione del contribuente. La nuova previsione normativa appare, quindi, espressione dei principi di collaborazione e buona fede previsti dallo Statuto dei diritti del contribuente, che devono essere alla base dei rapporti tra contribuente e
amministrazione.13 D’altro canto il contribuente che predispone la documentazione e né da comunicazione all’Agenzia beneficia di un esonero dalle sanzioni derivanti da un’eventuale rettifica dei prezzi di trasferimento. In data 29 settembre 2010 è stato emanato il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, in attuazione a quanto previsto dall’art.26 del DL 78/2010 e recentemente, in data 15 dicembre 2010,
l’Agenzia delle Entrate ha fornito i primi chiarimenti nella circolare n. 58.
L’intervento normativo in Italia in materia di documentazione relativa ai prezzi di trasferimento era da tempo attesa per la necessità di adeguare la normativa nazionale alle guidelines dell'Ocse, come del resto è stato già effettuato nella maggior parte dei paesi industrializzati.14 Il regime documentale in materia di transfer pricing comporta senza dubbio un forte aggravio per il contribuente in quanto la predisposizione della documentazione può rivelarsi molto complessa e determinare un notevole dispendio di tempo e conseguenti costi di gestione. Tale onere è
13 La collaborazione tra amministrazione e cittadini, tra l’altro, è uno dei valori fondanti dell’Unione Europea , insieme al rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali, dello stato di diritto ecc.
14 I seguenti paesi UE hanno già adottato norme o circolari sulla documentazione del transfer pricing nelle date indicate: Francia 1.1.1997; Danimarca 1.1.1999; Regno Unito 1.7.1999; Polonia 1.1.2001; Olanda 1.1.2002; Germania 1.1.2003; Portogallo 1.1.2002; Ungheria 1.1.2005; Spagna 1.1.2006; Repubblica Ceca 1.1.2006; Belgio 14.11.2006; Svezia 1.1.2007; Romania 1.1.2008. In Irlanda la normativa è entrata in vigore il 1.1.2011.
difficilmente attuabile da parte di quelle società che non hanno mai avuto alcun approccio rispetto a tale problematica. Inoltre, i termini previsti dalla normativa italiana potrebbero sembrare troppo ristretti per collazionare tutta la documentazione richiesta, soprattutto nel caso delle capogruppo che devono reperire la documentazione anche dalle società controllate e collegate, spesso ubicate in altri paesi. Ma in realtà le società dovrebbero già disporre della documentazione de qua ed i dieci giorni previsti dalla normativa servono solo per collazionare la documentazione da presentare in seguito alla richiesta dell’Amministrazione.
Comunque, nonostante le difficoltà operative che sicuramente non mancheranno, l’intervento normativo in materia è stato giudicato positivamente anche dalle stesse imprese in quanto la mancanza di oneri documentali, a differenza di quanto già esisteva negli altri paesi, ingenerava incertezza nelle politiche di transfer pricing da parte delle multinazionali operanti nel nostro Paese. Del resto non si può certo dire che si tratti di un tema del tutto nuovo, in quanto esistono posizioni consolidate in ambito internazionale alle quali il legislatore nazionale si è ispirato.
Il trasfer pricing è un fenomeno molto rilevante ed oggetto di grande attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria soprattutto in riferimento ai “grandi contribuenti”, di cui all’art. 27 del decreto legge 29
novembre 2008 n.185.15 Infatti, in sede di programmazione delle verifiche da effettuare, uno dei principali elementi che vengono analizzati dall’Agenzia delle Entrate per individuare i contribuenti da sottoporre a controllo è la presenza di rapporti con soggetti non residenti ed, in particolare, la presenza di cessioni di beni o servizi nell’ambito di gruppi multinazionali allo scopo di vagliarne la conformità alle previsioni di cui all’art. 110, comma 7, del TUIR. Tali rapporti all’interno dei gruppi internazionali rappresentano un elemento di forte rischiosità fiscale come è stato evidenziato dall’Agenzia delle Entrate nelle circolari n. 13 del 2009 e n. 20 del 2010.16
15 Con l’art. 27 del decreto legge 29 novembre 2008 n.185, convertito con modificazioni dalla legge 2/2009, è stata individuata la categoria dei Grandi contribuenti, che comprende i contribuenti con volume d’affari, ricavi o compensi non inferiore a 100 milioni di euro. L'obiettivo che la norma si propone con è quello di instaurare con i Grandi Contribuenti, che rappresentano un segmento strategico nell’economia nazionale, un rapporto di mutua collaborazione fondato su un dialogo aperto e trasparente per favorirne l’adempimento spontaneo. Il controllo assume il ruolo di strumento di contrasto di comportamenti elusivi/abusivi, diversamente calibrato a seconda delle caratteristiche del singolo contribuente e della sua maggiore o minore propensione all’adozione di comportamenti fiscalmente irregolari.
16 Il controllo dei prezzi di trasferimento risulta molto complicato. L’introduzione normativa in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento fornisce un valido ausilio, in un’ottica di collaborazione tra contribuente ed amministrazione. Come è stato osservato dal Direttore Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate Xxxxx Xxxxxxxx questo regime documentale rappresenta un ulteriore passo nell’attuazione dello Statuto del Contribuente. L’adozione di tale regime si configura, quindi, come un indice segnaletico della presenza di un atteggiamento cooperativo, trasparente ed in buona fede, che dovrebbe sempre caratterizzare il rapporto tra fisco e contribuente.
1.6 COSTI SOSTENUTI NEI PARADISI FISCALI
In un mercato globalizzato come quello attuale le imprese nazionali operano sempre più sovente con imprese localizzate in territori a fiscalità privilegiata.
Il legislatore ha dunque previsto una serie di disposizioni che limitano la deducibilità dei costi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate in Paesi a fiscalità ridotta.
I primi provvedimenti antielusivi hanno preso in considerazione essenzialmente due parametri: i possibili componenti negativi del reddito, provenienti da Paesi a bassa fiscalità, e i dividendi distribuiti da società situate in quei luoghi17.
In particolare, si voleva evitare che le imprese italiane trasferissero ricchezza imponibile all’estero, portando spese di esercizio nei loro bilanci e facendo confluire i relativi corrispettivi in società da loro controllate.
L’art. 110, comma 10, del TUIR, prevede che “non sono ammesse in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate fiscalmente in Stati o
17 Tali regole si sono evolute nel tempo fino alla cd. Disciplina delle Controlled foreign company (Cfc), entrata definitivamente in vigore nel 2002.
territori non appartenenti alla comunità europea aventi un regime fiscale privilegiato”18.
L’indeducibilità delle spese e dei componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese localizzate in paesi a fiscalità privilegiata costituisce un principio di determinazione del reddito d’impresa, derogabile solo nell’ipotesi in cui il contribuente fornisca la prova dell’esistenza di una delle due esimenti individuate dalla stessa norma del TUIR al comma 11,: svolgimento, in via prevalente, di un’attività commerciale effettiva da parte dell’impresa straniera e rispondenza delle operazioni, effettuate concretamente, ad un sostanziale interesse economico. 19
La Suprema Corte ha affermato nella sentenza n. 26298 del 29 dicembre 2010, che il richiamato art. 110 del TUIR “nonostante le successive modifiche intervenute, è rimasto immutato quanto al fondamentale divieto di deduzione di questo genere di spese; e al
18 Si sottolinea che l’articolo 1, comma 83, lettera h), numero 1), della Legge 244 del 2007 (Finanziaria per l’anno 2008), ha previsto l’indeducibilità dei costi per le operazioni realizzate con imprese che non fanno parte della white list, un elenco di stati, che saranno individuati con decreto ministeriale, ai sensi dell’articolo 168 bis del TUIR. In particolare, la deduzione sarà ammessa nel caso di imprese residenti o localizzate in Stati dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo inclusi nella nuova lista.
19 In materia sono stati sviluppati numerosi approfondimenti. In particolare, su tutti, si veda X. Xxxxxxxx, “Manuale dell’accertamento delle imposte”, Parte V, Ipsoa, Milano, 2009 e la copiosa dottrina ivi citata.
conseguente onere della parte privata di provare, nel proprio interesse, la sussistenza delle condizioni per cui il divieto può essere derogato”20.
Inoltre la Corte osserva che “all’amministrazione finanziaria è sufficiente invocare il divieto legale di deduzione, mentre spetta al contribuente dimostrare l’esistenza delle condizioni per cui esso non sarebbe applicabile al proprio caso. D’altra parte, l’onere di provare la deducibilità di un costo spetta all’impresa, secondo consolidata giurisprudenza, anche quando la deduzione non è vietata in linea di principio...”21.
La ratio della disposizione è quella di contrastare lo spostamento di materia imponibile verso Paesi a bassa fiscalità ed evitare di creare artificiosamente costi fittizi che hanno l’effetto di diminuire l’imponibile
20 Si veda, sul tema, Commissione Tributaria Regionale Veneto, sentenza n. 76/25/10 del 16 dicembre 2010, la quale rigettando l’appello presentato da una società, ha sostenuto come l’effettività delle operazioni vada valutata con riferimento al soggetto che ha beneficiato dei pagamenti. In particolare, si deve accertare l’identità tra il soggetto che riceve il pagamento e quello che effettua l’operazione, mentre nel caso di specie vi era una scissione tra chi aveva posto in essere il servizio (una struttura presente in Irlanda e Grecia) e chi aveva ricevuto il corrispettivo (“una scatola vuota” localizzata in un paese black list).
21 Si vedano anche Cassazione, sentenze nn. 3305 del 2009; 4218 del 2006; 21474 del 2004; 11240 del 2002; 16198, 12330 e 11514 del 2001.
tassabile da parte dell’impresa residente, con la conseguenza di creare, un maggior costo legato agli acquisti fatti in un paradiso fiscale22.
La norma inizialmente prevedeva l’indeducibilità per i costi sostenuti verso imprese e non verso i privati o lavoratori autonomi. Successivamente il D.L. n. 262 del 2006 ha esteso l’indeducibilità anche alle prestazione dei servizi rese dai professionisti domiciliati in Stati o territori non appartenenti all’Unione Europea, aventi regimi fiscali privilegiati23.
In merito alla definizione di “professionisti” cui è diretto il nuovo comma 12-bis, l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 1/E del 19
22 “L’articolo 110, comma 10 Tuir, prevedendo l’indeducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese, e da ultimo anche professionisti, residenti ovvero localizzati in Stati o territori a fiscalità privilegiata, punta a impedire la contabilizzazione da parte dell’impresa nazionale di costi esteri in realtà “inesistenti”, o quanto meno “sovrastimati”. Il legislatore nazionale vuole contrastare le operazioni elusive con l’obiettivo da un lato di “delocalizzare” il reddito prodotto e tassabile in Italia verso Paesi che presentino un regime fiscale più favorevole (se non praticamente nullo) e, dall’altro, approfittare della scarsa collaborazione delle autorità fiscali di questi Paesi in tema di scambio internazionale di informazioni utili a dimostrare la fittizietà dell’operazione”. Cfr. Xxxxxxxxx Xxxxx, “Italia, le imprese e i Paesi black list tra costi esteri e fisco – 2”, su FiscoOggi del 28/01/2009.
23 Le disposizioni, contenute nel collegato alla Finanziaria 2007 (D.L. 262 del 2006), che estendono ai costi sostenuti per professionisti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata la disciplina antielusiva dell'articolo 110 del TUIR, si applicano relativamente alle prestazioni rese sulla base di incarichi conferiti dopo il 3 ottobre 2006, data di pubblicazione in Gazzetta del decreto legge 262. Sul punto si veda l’articolo di Xxxxxx Xxxxxxx, “Indeducibilità costi per professionisti black list: norma spartiacque”, in FiscoOggi del 30/09/2008.
gennaio 2007, ha chiarito che nella categoria dei professionisti rientrano non solo i soggetti appartenenti a professioni regolamentate, ma tutti coloro che esercitano, professionalmente ed abitualmente, attività di lavoro autonomo. Inoltre sono ricompresi in questa definizione non solo i soggetti residenti fiscalmente nei predetti Stati, “ma anche coloro che sono comunque ivi localizzati in base a criteri di collegamento diversi dalla residenza”.
Il contribuente italiano può disapplicare la disposizione di indeducibilità dimostrando l’esistenza delle due esimenti previste dall’art. 110, comma 11, del TUIR.
Le due condizioni si trovano in un rapporto di alternatività, nel senso che è sufficiente dimostrare una qualsiasi delle due per impedire l’applicazione della norma antielusiva24.
24 Occorre, in verità, sottolineare la posizione di una importante fetta della dottrina secondo la quale sussisterebbe la necessità di collocare la disposizione nell’ambito delle norme antievasive e non antielusive. Invero, è stato rilevato che sulla falsa riga di quanto già avviene in altri ordinamenti giuridici (in particolare quelli di cultura francese), l’art. 110, comma 10, tende soltanto a impedire, sia il trasferimento dei beni all’estero, sia una sostanziale contrazione della base imponibile. In altri termini, lo strumento utilizzato dell’inversione dell’onere della prova sarebbe finalizzato a combattere “i caratteri tipici dell’evasione, ricorrente ogni qualvolta il soggetto pone in essere una condotta illecita per evitare, in tutto o in parte, l’adempimento dell’imposta dovuta in relazione al presupposto verificatosi nei suoi confronti”. L’espressione è di X. Xxxxxxxx Xxxxxx, “Prime osservazioni sul regime fiscale delle operazioni concluse con società domiciliate in Paesi o territori a bassa fiscalità”, in Rivista di Diritto Tributario, 1992, pagg. 304 e seguenti. Sul punto si veda anche Xxxxxxx Xxxxxxxx, “Contrasto ai paradisi fiscali. Attività
L’Amministrazione finanziaria nella Risoluzione n. 46 del 16 marzo 2004 ha precisato che non è rilevante fornire prova dell’esistenza della società estera da un punto di vista meramente “formale” (es. tramite la produzione di atto costitutivo, certificato di iscrizione presso il registro delle imprese, ecc.) ma la dimostrazione deve riguardare l’esercizio di un’attività commerciale tra quelle contemplate dall’articolo 2195 del codice civile25. Inoltre deve essere provata l’esistenza di una adeguata struttura organizzativa (impianto produttivo, dipendenti, ecc.). Gli elementi documentali rilevanti secondo la consolidata prassi dell’Agenzia delle Entrate sono: bilancio, certificazione del bilancio, prospetto descrittivo dell’attività esercitata, contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività, copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche relative agli uffici e agli altri immobili utilizzati, contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa e le mansioni svolte, conti correnti bancari aperti pressi istituti
commerciale effettiva e irrilevanza del mercato locale”, in Il Fisco, n. 47 del 21 luglio 2009, pag. 1-7761.
25 Secondo la prevalente dottrina il riferimento al concetto di commercialità è da intendersi latu sensu: di conseguenza, saranno comprese tutte le attività previste dall’articolo 2195 del codice civile, secondo cui “… sono commerciali gli imprenditori che esercitano attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi; un’attività intermediaria nella circolazione di beni; un’attività di trasporto; un’attività bancaria o assicurativa; altre attività ausiliarie alla precedente”. Corollario di tale interpretazione sarà quello di escludere dall’esimente in questione esclusivamente le attività agricole ovvero quelle di mero godimento dei beni che fanno parte del proprio patrimonio.
locali, estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle attività esercitate, copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici, autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali In riferimento all’altra esimente prevista dell’articolo 110, comma 10 l’Amministrazione finanziaria ha precisato che “l’effettività dell’operazione può essere dimostrata esibendo la documentazione doganale di importazione ed ogni altro elemento di prova documentale imposto dalla normativa o dalla prassi di settore (ad esempio: contratto di fornitura ovvero ordine di acquisto; fattura del fornitore).” Quindi l’impresa “dovrà acquisire e conservare tutti i documenti utili per poter risalire alla logica economica sottesa alla scelta di instaurare rapporti commerciali con un fornitore residente in un paese a fiscalità privilegiata”26.
Inoltre, la norma dell’articolo 11, comma 13 della Legge 413 del 1991 disciplina il c.d. interpello antielusivo. Le disposizioni dettate dai commi 10 e 12-bis dell'articolo 110 del Tuir, infatti, possono essere disapplicate nel caso in cui l'impresa residente provi che le imprese estere svolgano prevalentemente un'attività commerciale effettiva o, in alternativa, che le operazioni effettuate rispondano a un effettivo interesse economico e che le stesse abbiano avuto concreta esecuzione. Tali prove possono essere
26 Cfr. Risoluzione n. 46 del 16 marzo 2004, cit.
fornite anche in via preventiva, inoltrando all'Agenzia delle Entrate l'istanza di interpello antielusivo.
Il contribuente può presentare un’istanza finalizzata ad ottenere un parere sul carattere potenzialmente elusivo di alcune operazioni o sulla corretta classificazione di alcune spese (articolo 21 della legge n 413/1991).
L'istanza deve contenere l'esposizione dettagliata del caso concreto nonché la soluzione interpretativa prospettata dal contribuente.
Trascorsi 120 giorni dalla presentazione dell'istanza, il contribuente a cui non é stata fornita risposta può diffidare l'Agenzia; decorsi ulteriori 60 giorni dalla presentazione della diffida, si forma il silenzio assenso in relazione alla soluzione prospettata dal contribuente.
L'istanza di interpello antielusivo va presentata, esclusivamente mediante plico raccomandato con avviso di ricevimento, all'Agenzia delle Entrate - Direzione centrale normativa tramite la Direzione regionale competente in base al domicilio fiscale del richiedente. La Direzione regionale, entro 15 giorni dalla ricezione, compie l'istruttoria e trasmette l'istanza con il proprio parere alla Direzione centrale. Quest'ultima comunica la propria determinazione al contribuente sempre mediante plico postale raccomandato con avviso di ricevimento.
Tramite tale valutazione preventiva, il contribuente, in caso di esito positivo da parte dell’Amministrazione fiscale, potrà raggiungere la
certezza della deducibilità ben prima dell’eventuale attività di accertamento dell’ufficio.27
In ogni caso è obbligatorio indicare separatamente in dichiarazione, negli appositi righi delle variazioni in aumento e delle variazioni in diminuzione, le spese sostenute verso i paradisi fiscali, in modo che l’Amministrazione Finanziaria può individuare in modo immediato i contribuenti che intrattengono rapporti con questi soggetti domiciliati in Stati o territori fiscalmente privilegiati.
In caso di mancata o di incompleta indicazione in dichiarazione delle spese e degli altri componenti negativi relativi alle operazioni intercorse con operatori a fiscalità privilegiata, trova applicazione “una sanzione amministrativa pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000”.
Le interpretazioni non in linea con il dettato normativo vanno contrastate a prescindere dal fatto che risultino a favore o a sfavore del contribuente.
27 Sull’interpello antielusivo si vedano le circolari dell’Agenzia delle Entrate n.32/2010; 7/2009; 5/2009; 4/2007 e 135/1998
1.7 SOCIETA’ CONTROLLATE E COLLEGATE ESTERE
Le imprese che operano nell’ambito di gruppi internazionali costituiscono oggetto di attenzione privilegiata da parte delle Amministrazioni fiscali nazionali, in quanto possono trasformarsi in strumenti per ottenere una serie di vantaggi fiscali.
Gli Stati industrializzati hanno posto in essere una serie di misure finalizzate a far emergere in capo ai soci di società residenti in paesi a fiscalità privilegiata, l’utile prodotto ma non distribuito sotto forma di dividendo da queste ultime.
Il legislatore italiano28 ha introdotto specifiche disposizioni normative volte a precludere, o a rendere più difficile l’utilizzo di soggetti societari residenti in determinate giurisdizioni (c.d. controlled foreign companies, o CFC) 29.
28 In materia si veda. X. Xxxxxxxxx, “I confini giuridici del tempo presente. Il caso del diritto fiscale”, Milano, 2003, 253 e ss.; X. Xxxxxx, “La considerazione dei paradisi fiscali e sua evoluzione”, in X. Xxxxxx (coordinato da), “Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx”, Xxxxxx, 0000, 735 e ss.; X. Xxxxxx, “Il regime di imputazione dei redditi dei soggetti controllati non residenti (cd. “controlled foreign companies legislations”)”, in X. Xxxxxx (coordinato da), “Corso di diritto tributario internazionale”, op. cit., 759 e ss.; P. Pistone, “Normativa CFC, convenzioni internazionali e diritto comunitario”, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
29 La denominazione Controlled Foreign Company legislation risale alla prima versione introdotta nell’anno 1962 dall’ordinamento tributario americano. In particolare, la legislazione statunitense prevede la diretta imputazione in capo alla società controllante
Più in dettaglio, la normativa sulle CFC si applica nel caso in cui il soggetto residente detenga, direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, una partecipazione non inferiore al 20% degli utili di un’impresa, di una società o di altro ente, residente o localizzato in Stati o territori con regime fiscale privilegiato; tale percentuale di partecipazione si riduce al 10% se relativa ad una società quotata in borsa.
residente in USA, degli utili prodotti dalla società controllata, ovunque quest’ultima sia residente. Si considera controllata una società nella quale più del 50% dei diritti di voto o del valore della società appartengono a soggetti residenti negli Stati Uniti, ciascuno dei quali detenga almeno il 10% del valore. L’imputazione diretta al socio americano non avviene se : la società controllata è assoggettata a tassazione con un’aliquota pari almeno al 90 per cento dell’aliquota americana; i redditi passivi, ovvero quelli derivanti da attività di trading e di servizi siano inferiori al 10 per cento del reddito totale della società controllata; e il contribuente sia in grado di provare che la società controllata non è stata costituita per scopi elusivi. Dal 1962 ad oggi sono aumentati gli Stati aderenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) che hanno adottato una CFC legislation per contrastare l’elusione fiscale internazionale perpetrabile attraverso l’uso di società offshore. Sono state, così, legiferate normative CFC concepite per evitare il differimento dell’imposizione dei dividendi connessi alle partecipate estere, ovvero per contrastare la delocalizzazione del reddito (anche tramite fenomeni di interposizione di persona), o ancora per attuare politiche fiscali di neutralità nell’ambito dell’imposizione del reddito mondiale. Spesso tali finalità convivono all’interno delle singole legislazioni. Anche per il sistema tributario interno, quindi, è stata attuata un’operazione legislativa d’importazione, peraltro mutuando più in particolare dalla disciplina francese. Importazione piuttosto macchinosa, come testimonia il travaglio del disegno di legge poi approvato con diverse modifiche, alcune delle quali assai rilevanti e significative anche ai fini ricostruttivi dell’istituto. Sul punto si veda Xxxxx Xxxxx, “Profili ricostruttivi della disciplina delle CFC”, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
Questa normativa antielusiva interessa non solo le società, ma qualsiasi contribuente residente in Italia, che detenga partecipazioni in soggetti localizzati nei paesi predetti. Di regola, i redditi derivanti dalla partecipazione in società residenti all’estero non sono soggetti ad imposta quando sono percepiti: secondo il “regime CFC”, invece, i redditi delle controllate estere sono imputati al soggetto residente in Italia, a prescindere dalla distribuzione. Si ha dunque una “imputazione per trasparenza” in conseguenza della quale i soci residenti in Italia non possono omettere la tassazione degli utili. Vi sono due ipotesi nelle quali la normativa sulle CFC non si applica:
a. la prima si ha nei casi in cui il soggetto localizzato nello Stato o territorio con regime privilegiato eserciti effettivamente, come sua principale attività, una attività industriale o commerciale nello Stato ove ha sede;
b. la seconda si ha allorquando il soggetto residente, che controlla il “soggetto estero partecipato”, non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori al fine di usufruire dei trattamenti fiscali privilegiati. Ciò, avviene, ad esempio, quando il soggetto estero partecipato riceve utili da una stabile organizzazione i cui redditi sono stati tassati in un Paese a regime di fiscalità normale.
Anche i redditi delle imprese estere collegate, residenti in Stati a fiscalità privilegiata, sono tassati in Italia imputando al residente una quota del reddito prodotto dall’impresa estera.
La materia è stata interessata anche da profonde evoluzioni: rispetto allo scenario normativo anteriore alla riforma fiscale del 2004, una sostanziale innovazione è stata introdotta con l’art. 168 del TUIR, mediante il quale è stata realizzata l’estensione della normativa CFC anche alle imprese estere semplicemente collegate, e non necessariamente controllate ai sensi dell’art. 2359 del codice civile30.
Attraverso l'istanza di interpello Cfc, il soggetto residente dimostra preventivamente, fornendo le informazioni necessarie e allegando idonea documentazione, la sussistenza dei presupposti per ottenere la disapplicazione della normativa sulle imprese estere partecipate, relativamente a ciascuna controllata estera.
L'istanza deve essere presentata all'Agenzia delle Entrate – Direzione centrale normativa tramite la Direzione regionale competente per territorio. Le modalità per presentare l'istanza sono quelle stabilite per l'interpello ordinario (articolo 5 del Dm 429/2001 secondo i chiarimenti forniti dalla circolare n. 51/2010). La presentazione dell'istanza di interpello Cfc è prevista anche in relazione ad altre ipotesi, comunque collegate a rapporti tra contribuenti nazionali e società residenti in Stati o territori diversi da
30 Sul tema si veda X. Xxxxxxxx, “Estensione alle società collegate delle norme antielusive in materia di imprese estere controllate: si riducono le possibilità di disapplicazione?”, in X. Xxxxxx (a cura di), “I profili internazionali e comunitari della nuova imposta sui redditi delle società”, Milano, 2004, 128 e ss.
quelli di cui all'emanando decreto del Ministero dell'economia e delle finanze (articolo 168-bis del Tuir):
Ai sensi dell’art. 167, comma 5 bis del TUIR opera, in aggiunta a quanto già detto, la c.d. prima esimente rafforzata, riguardante le società o enti non residenti, controllati o collegati, i cui proventi, in una misura superiore al 50 per cento, derivano dalla:
- gestione, detenzione o investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie (es. dividendi, plusvalenze, interessi attivi, commissioni);
- cessione o concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica (es. royalties);
- prestazione di servizi infragruppo, ivi compresi i servizi finanziari (es. servizi di contabilità, di tesoreria accentrata o di consulenza).
La regola in commento prevede che l’Amministrazione Finanziaria, nei confronti di dette società o enti31, possa negare la disapplicazione della disciplina CFC in base alle condizioni previste dall’art. 167, comma 5, lett.
a) del TUIR, a prescindere dalla valutazione di ogni altro elemento, tenuto conto che nell’ottica dei principi espressi nella Risoluzione “anti - abuso” del Consiglio EU dell’8 giugno 2010, la partecipata estera che si trova nelle condizioni del comma 5 bis è, per espressa previsione normativa, in una situazione in cui il rischio di abuso è potenzialmente più elevato.
31 La norma interessa un ambito soggettivo particolarmente ampio, includente anche banche, finanziarie, assicurazioni, società che operano estero su estero.
La finalità della norma in oggetto è quella di perseguire le società senza impresa, contrastando le politiche di delocalizzazione dei passive income attuate mediante la collocazione, in Paesi black list, di asset in grado di per sé, ovvero per le loro caratteristiche intrinseche, di produrre tali redditi.
Trattasi, in ogni caso, di una presunzione relativa con possibilità di prova contraria consistente nella dimostrazione degli elementi normalmente rilevanti ai fini della prima esimente e della mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione di utili dall’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata32.
Con riferimento alla seconda esimente, la circostanza richiamata nella norma (assenza dell’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata) ricorre quando il 75% del reddito della CFC è prodotto da una stabile organizzazione o deriva dal possesso di cespiti immobilizzati, localizzati e sottoposti a tassazione fuori dagli Stati o territori a fiscalità artificiosamente bassa.
La partecipata estera, pur avendo la sede legale in un paese o territorio black list, deve svolgere esclusivamente la propria attività, oppure
32 Ai fini della verifica: rilevano tutti i proventi lordi (ordinari e straordinari) risultanti dal bilancio d’esercizio; i calcoli vanno effettuati dal contribuente in ogni esercizio, anche se ha già ottenuto la disapplicazione della CFC rule per la prima esimente (la documentazione deve essere conservata ai fini di eventuali controlli); la disapplicazione della CFC rule ai sensi del comma 5 bis è definitiva, nel senso che la mera oscillazione del parametro quantitativo non fa venir meno la validità del parere reso (l’interpello va rinnovato solo se cambiano i presupposti di fatto o di diritto).
deve essere fiscalmente residente o ancora deve avere la sede di direzione effettiva in uno Stato non black list, nel quale i redditi da essa prodotti sono integralmente assoggettati a tassazione ordinaria.
Nell’ipotesi in cui la partecipata estera, localizzata in un paese non a fiscalità bassa, opera in una tax haven attraverso una stabile organizzazione, il reddito prodotto deve essere assoggettato integralmente a tassazione ordinaria nello Stato di residenza della casa madre.
Appare evidente la ratio della disciplina in esame, consistente nel garantire che i redditi prodotti all’estero subiscano una tassazione in misura congrua, nel senso del carico fiscale complessivamente gravante sul gruppo societario in relazione ai redditi prodotti da una CFC appartenente al medesimo gruppo.
1.8 IL RIENTRO DEI CAPITALI
L’entità della sottrazione alle casse dell’erario di trasferimenti di ricchezza e il loro occultamento per sole ragioni di risparmio fiscale ha raggiunto dimensioni enormi e tali da richiedere misure urgenti e straordinarie, come lo scudo fiscale.
Lo scudo fiscale è una tipologia di regolarizzazione in materia tributaria e penale simile ad un condono perché inibisce l'azione penale e di
accertamento tributario nel caso di alcuni illeciti tributari e penali. Esso sana alcuni comportamenti illeciti o irregolari effettuati dal contribuente riguardo alla produzione e detenzione di capitali detenuti all'estero derivanti da redditi non denunciati e presumibilmente imponibili e dall'acquisto di immobili con i suddetti capitali, tramite il pagamento di una imposta forfettaria di valore inferiore alle normali aliquote tributarie.
L’ultimo scudo fiscale in Italia è stato il cd. scudo fiscale Ter, allo scopo di favorire il rimpatrio o la regolarizzazione delle attività finanziarie e patrimoniali illegalmente detenute all'estero fino al 31 dicembre 2008, a fronte del pagamento di una somma del 5%, a titolo di imposte, interessi e sanzioni. Inoltre è stato previsto il pagamento delle imposte sui redditi relativi alle attività scudate prodotti nel periodo dal 1º gennaio 2009 alla presentazione della dichiarazione riservata, da farsi entro il 15 dicembre 2009.
Tale provvedimento ha consentito in tal modo il pagamento del minimo della sanzione prevista in caso di scoperta di violazione delle norme sul monitoraggio dei capitali (dal 5% al 25%), e non intacca il rendimento fruttato dai capitali all'estero nel periodo in cui non vi sono state pagate imposte dovute in Italia.
A metà febbraio 2010 secondo le stime governative sono rientrati grazie allo scudo fiscale 80 miliardi di euro, di cui circa 60 miliardi dalla Svizzera, 4 miliardi circa rispettivamente dal Lussemburgo e dal Principato
di Monaco ed i restanti 12 miliardi da altri paesi. Il provvedimento di scudo fiscale 2009, prevedeva la forma anonima delle dichiarazioni di emersione, che non potevano, perciò, essere utilizzate a sfavore del contribuente in sede amministrativa né giudiziaria. Lo scudo fiscale garantiva la non punibilità di reati tributari, che prevederebbero pene fino a 6 anni di reclusioni quali omessa e infedele dichiarazione dei redditi; dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti; falsa rappresentazione di scritture contabili obbligatorie; occultamento o distruzione di documenti; false comunicazioni sociali.
Di recente, nel mese di gennaio 2014 è stato emanato l’ultimo provvedimento normativo finalizzato ad agevolare il rientro dei capitali nascosti all'estero e la cd “voluntary disclosure”. Sono interessati tutti gli illeciti fino al 31 dicembre 2013 e tale operazione prevede il 30 settembre 2015 come data ultima per regolare la propria posizione. La richiesta volontaria di regolarizzazione non può essere presentata in caso di accessi, verifiche, ispezioni o l'inizio di un'attività di accertamento amministrativo. Gli interessati dovranno effettuare il versamento delle somme dovute e delle sanzioni in unica soluzione. L'Agenzia delle Entrate avrà tempo 30 giorni dal pagamento per comunicare alla Procura della Repubblica competente la definizione della procedura di collaborazione volontaria. Chiunque aderisca alla voluntary disclosure non sarà perseguito per i reati dichiarativi, mentre le eventuali pene previste per reati fiscali saranno
invece diminuite fino ad un massimo della metà. Il mancato pagamento nei termini previsti comporterà l'esclusione dalla collaborazione volontaria e, di conseguenza, la perdita di tutti i benefici sia fiscali che penali.
A differenza di quanto accadeva con lo “scudo fiscale ter” in questo caso non è prevista alcuna garanzia di anonimato. No si tratta di un vero e proprio “scudo” né di un condono. Il contribuente che decide di regolarizzare gode solo di sconti sulle sanzioni. Ma i contribuenti che decidono di non regolarizzare rischiano molto. Con l’introduzione del reato di autoriciclaggio, il possesso, l’occultamento o il trasferimento di capitali all’estero diventa perseguibile penalmente in tutto il mondo, e senza possibilità di prescrizione. Inoltre, negli ultimi anni sempre più paesi stanno stipulando accordi internazionali che consentono lo scambio di informazioni di natura finanziaria tra le autorità fiscali dei vari paesi.
CAPITOLO II
LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE – LE FONTI
2.1. IL CONTESTO ECONOMICO POLITICO
L’Italia partecipa a quella fase che nella presente epoca prende il nome di globalizzazione o internazionalizzazione, ma al tempo stesso si trova a far parte dell’ Unione Europea, un ordinamento caratterizzato da una forte integrazione economica politica e sociale e nel quale la finalità primaria è la creazione di un mercato comune improntato al principio della non discriminazione e della libera concorrenza.
Un contesto, sia quello mondiale che europeo, in cui la interdipendenza dei rapporti economici nello spazio riguarda tutti i fattori della produzione e della ricchezza: le persone, le società , i servizi, i beni, i capitali.
In questo quadro le fiscalità statali si devono confrontare sempre più con fattispecie che, in ragione dei presupposti e dei soggetti passivi ad esse collegati, presentano elementi di estraneità con il territorio. (società o persone fisiche che trasferiscono la propria residenza all’estero o che producono parte dei loro redditi all’estero, o che hanno rapporti
commerciali con soggetti residenti all’estero). Da qui nasce l’esigenza della cooperazione tra le amministrazioni fiscali. E’ uno dei paradossi dell’avvento della globalizzazione: da un lato gli Stati si confrontano in termini di competizione fiscale e dall’altro devono cooperare per salvaguardare i propri sistemi fiscali interni.
La cooperazione tra amministrazioni fiscali è giustificata sulla base di due fondamentali argomentazioni: la prima, che deriva dalla citata internazionalizzazione dell’economia, è dovuta all’esistenza di elementi e situazioni fiscalmente rilevanti che si realizzano e perfezionano all’esterno del territorio dello Stato e di essi è necessaria la esatta individuazione e quantificazione per il corretto funzionamento di un tributo. La seconda risiede nei limiti che l’ordinamento internazionale pone alla potestà amministrativa tributaria dei singoli Stati che non può legittimamente attuarsi al di fuori del territorio del medesimo Stato.
Poiché l’adozione di strumenti interni di contrasto all’evasione risulta inadeguato a fronteggiare le nuove e più estese forme di evasione e frode fiscale internazionale, la collaborazione fiscale internazionale si rende assolutamente necessaria. Gli Stati, infatti, non possono attuare gli ordinari strumenti operativi interni di accertamento e di riscossione nel territorio dello stato straniero. E’ dalla consapevolezza della inadeguatezza degli strumenti interni che deriva la necessità e la ratio della cooperazione fiscale
internazionale e dello scambio di informazioni. La materia è disciplinata da fonti convenzionali e comunitarie.
2.2 LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI BILATERALI
Lo stato della cooperazione fiscale internazionale offre oggi un quadro molto composito ed articolato. In primo luogo, la cooperazione tra amministrazioni fiscali si può realizzare attraverso le convenzioni bilaterali internazionali o multilaterali. Nella prima categoria rientrano le tradizionali convenzioni contro le doppie imposizioni, redatte sulla base dei modelli elaborati dall’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (OCSE) e dall’Organizzazione delle nazioni unite (ONU).
Le convenzioni regolano i rapporti tributari tra i soggetti che operano negli stati firmatari della convenzione e che sono collegati quindi agli stessi Le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione sono uno strumento di politica internazionale tributaria necessario ad evitare il fenomeno per cui lo stesso presupposto sia soggetto due volte a tassazione in due diversi stati. Nel sistema fiscale la residenza opera come criterio distintivo per individuare lo Stato dove i redditi di una società o di una persona vengono sottoposti a tassazione. Infatti, secondo il principio del worldwide taxation se un soggetto viene qualificato come residente in
Italia, i suoi redditi vengono assoggettati a tassazione in Italia ovunque prodotti. Naturalmente questo principio può generare un fenomeno di doppia imposizione. La convenzione ha lo scopo di evitare la tassazione del reddito sia nel paese in cui questo è stato prodotto sia nel paese di residenza del soggetto che lo ha prodotto. Come tutte le convenzioni internazionali, anche quelle contro la doppia imposizione hanno valore superiore alla legge nazionale e, nei casi in cui è previsto, prevalgono su questa, così che il giudice tributario sarà tenuto a disapplicare la normativa interna per applicare quanto previsto dalla convenzione.
La convenzione contro la doppia imposizione prevede specificamente la disciplina relativa allo scambio di informazioni generalmente all’art. 25 o 26. Ad esempio la Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia e Spagna prevede all’art. 25 che “ 1) Le autorità competenti degli Stati contraenti si scambieranno le informazioni necessarie per applicare le disposizioni della presente Convenzione o quelle delle leggi interne degli Stati contraenti relative alle imposte previste dalla Convenzione, nella misura in cui la tassazione che tali leggi prevedono non e' contraria alla Convenzione, nonché per evitare le evasioni fiscali. Lo scambio di informazioni non viene limitato dall'articolo 1. Le informazioni ricevute da uno Stato contraente saranno tenute segrete, analogamente alle informazioni ottenute in base alle legislazione interna di detto Stato e saranno comunicate soltanto alle persone od autorità (ivi compresi i
tribunali e gli organi amministrativi) incaricate dell'accertamento o della riscossione delle imposte previste alla presente Convenzione, delle procedure o dei procedimenti concernenti tali imposte, o delle decisioni di ricorsi presentati per tali imposte. Le persone od autorità sopraccitate utilizzeranno tali informazioni soltanto per questi fini. Le predette persone od autorità potranno servirsi di queste informazioni nel corso di udienze pubbliche o nei giudizi.
2) Le disposizioni del paragrafo 1 non possono in nessun caso essere interpretate nel senso di imporre ad uno degli Stati contraenti l'obbligo:
a) di adottare provvedimenti amministrativi in deroga alla propria legislazione e alla propria prassi amministrativa o a quelle dell'altro Stato contraente;
b) di fornire informazioni che non potrebbero essere ottenute in base alla propria legislazione o nel quadro della propria prassi amministrativa o di quelle dell'altro Stato contraente;
c) di trasmettere informazioni che potrebbero rilevare un segreto commerciale, industriale, professionale o un processo commerciale oppure informazioni la cui comunicazione sarebbe contraria all'ordine pubblico.”
Il numero dei Paesi che hanno stipulato questo tipo di convenzioni è molto numeroso, ma nella pratica si riscontrano Paesi più o meno cooperativi. Ci sono alcuni Paesi, che rispondono alle richieste di informazioni in maniera precisa e tempestiva ed altri che, nonostante
abbiano ratificato le convenzioni e magari anche recepito le direttive comunitarie, si rivelano poco cooperativi, rispondendo in maniera vaga o, in alcuni casi, non rispondendo affatto. La problematica è all’attenzione della comunità internazionale che recentemente sta adottando alcune iniziative nei confronti dei paesi poco cooperativi.
2.3 LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI MULTILATERALI
Oltre alle convenzioni bilaterali vi sono le convenzioni multilaterali, come, nel contesto dei Paesi OCSE, la Convenzione tra il Consiglio d’Europa e l’OCSE sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale.
La Convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in campo fiscale è stata sottoscritta a Strasburgo il 25 gennaio 1988, sotto l'egida congiunta del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). L'accordo internazionale è entrato in vigore il 1° aprile del 1995. La convenzione attualmente è stata sottoscritta da 14 Paesi (Azerbaigian, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Islanda, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti, e l'Ucraina) a cui si aggiungono Canada, Germania e Spagna che hanno firmato ma non ancora ratificato. L'Italia ha ratificato il 31 gennaio 2006. E'
composta da 32 articoli e un ampio Commentario (Explanatory Report), di natura esplicativa elaborato a suo tempo dal Comitato di esperti del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Il Commentario non costituisce strumento di interpretazione autentica ma si propone esclusivamente di facilitare la comprensione delle disposizioni convenzionali. Questo accordo multilaterale contiene in un unico testo disposizioni relative ad una pluralità di strumenti giuridici a disposizione delle Amministrazioni fiscali degli Stati aderenti all'accordo per il contrasto all'evasione fiscale internazionale quali verifiche simultanee, scambio di informazioni, disposizioni in materia di riservatezza delle informazioni e di tutela del contribuente, assistenza alla riscossione e notifica di documenti. L'assistenza può realizzarsi in diversi modi: scambio di informazioni tra le parti, inchieste fiscali simultanee e partecipazione alle inchieste condotte in altri Stati, il recupero di imposte dovute in altri Stati e la notificazione di documenti prodotti in altro Stato.
Le verifiche simultanee previste dalla Convenzione sulla mutua assistenza amministrativa sono un metodo in base al quale si conduce una verifica nel proprio territorio su uno o più soggetti quando si tratti di questioni di comune interesse per due o più Stati. Le autorità competenti di due o più Stati possano consultarsi, su iniziativa di una di esse, per esaminare simultaneamente ed indipendentemente, nei rispettivi ambiti
territoriali, la situazione di uno o più contribuenti che presenta, per ciascuno di questi Stati, un interesse comune o collegato nell’ambito di rapporti commerciali e/o finanziari.
Le modalità di attuazione sono regolate da appositi accordi tra le amministrazioni fiscali. L’OCSE, nel 1992, ha elaborato un modello di accordo per l’esecuzione di verifiche simultanee. L’Italia ha sottoscritto accordi per l’effettuazione di verifiche simultanee con 12 Paesi: Australia, Austria, Xxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxx, Xxxxxx, Xxxxxxxx. Si segnala che questa forma di cooperazione ha avuto buone applicazioni nei rapporti con gli Stati Uniti.
Il 6 aprile 2010 l'Ocse e il Consiglio d'Europa hanno firmato un protocollo di modifica della Convenzione sulla mutua assistenza amministrativa in campo fiscale che era stata sottoscritta a Strasburgo il 25 gennaio 1988, con la espressa finalità di aiutare i governi ad applicare le leggi in materia tributaria e combattere l'evasione fiscale. Il protocollo è stato sottoscritto in occasione dell'assemblea ministeriale dell'organizzazione che si è svolta a Parigi il 27 e il 28 maggio 2010. La principale novità è quella di favorire lo scambio d’informazioni bancarie. Infatti, nel caso in cui uno Stato riceva una richiesta d’informazioni bancarie proveniente da un'altra giurisdizione legata alla medesima Convenzione non può rifiutare opponendo la riservatezza degli utenti delle proprie banche o l'interesse di Stato. Inoltre, la nuova convenzione prevede
la possibilità di effettuare verifiche fiscali simultanee multilaterali anche attraverso l'invio di agenti delle Finanze al di fuori dei confini nazionali per condurre le indagini insieme ai colleghi locali e l'assistenza transfrontaliera per la riscossione delle imposte, sempre nel rispetto della sovranità nazionale e dei diritti dei contribuenti assicurando ampie salvaguardie per la riservatezza delle informazioni scambiate. All'interno del protocollo hanno trovato spazio alcune postille di natura giuridica come quella secondo cui le disposizioni della Convenzione sono valide soltanto nel caso in cui implichino un livello di cooperazione superiore a quella prevista dagli strumenti legislativi del diritto comunitario. Sono, inoltre, chiarite le procedure che devono seguire le autorità fiscali di un singolo Paese per sottoporre una richiesta d’informazioni a un'altra giurisdizione, prevedendo, ad esempio, il divieto di esercitare le cosiddette «fishing expedition», ovvero le richieste generiche di informazioni senza l'esistenza di prove o sospetti fondati, relativi alle pratiche elusive delle leggi fiscali da parte di un soggetto, sia esso un privato cittadino o una società.
Come dichiarato dal segretario generale dell'OCSE: "In considerazione della sua natura multilaterale, la Convenzione è uno strumento unico al servizio della lotta contro l'evasione e la frode fiscale internazionale. L'OCSE e il Consiglio d'Europa hanno convenuto di intensificare la cooperazione internazionale, al fine di combattere la frode fiscale e per questo le norme sancite nella convenzione sono state emendate
e aggiornate, al fine di rispecchiare questo nuovo consenso. Il Protocollo di emendamento prevede inoltre l'apertura della Convenzione a paesi che non sono membri del Consiglio d'Europa o dell'OCSE, rendendola uno strumento di lotta contro la frode fiscale di portata internazionale".
Tale iniziativa risponde all'appello lanciato dai Capi di Stato e di governo del G20 in occasione del Vertice di Londra dell'aprile 2009, che si erano dichiarati a favore di proposte destinate a fare usufruire i paesi in via di sviluppo dei vantaggi procurati dal nuovo clima di cooperazione in materia fiscale.
L’Ocse all’indomani del G20 ha stilato una lista degli stati non cooperativi che rappresenta una vera e propria dichiarazione di guerra a quelle giurisdizioni in cui vigono regimi fiscali privilegiati e che non garantiscono lo scambio d’informazioni. Il contrasto all’evasione fiscale, strutturata mediante il ricorso ai cosiddetti “paradisi fiscali”, ha attirato già da un trentennio l’attenzione della comunità internazionale, la quale sta ricorrendo allo strumento della pressione politica per indurre l’ eliminazione delle misure fiscali distorsive degli investimenti. La pubblicazione della lista nera dei paradisi fiscali da parte dell’Ocse ha determinato un’immediata reazione degli stati incriminati, che si sono dichiarati pronti ad adeguarsi alle richieste della comunità internazionale. La “black list” ha un chiaro intento politico: indurre spontaneamente gli stati non cooperativi ad assicurare lo scambio d’informazioni. Un’azione
collettiva dovrebbe, così, riuscire laddove le misure unilaterali anti-paradisi degli stati a fiscalità ordinaria hanno fallito. Lo scambio di informazioni e l’abolizione del segreto bancario rappresentano, dunque, i principali obiettivi cui punta la comunità internazionale. L’Italia si sta adeguando in tal senso, avendo previsto l’emanazione di alcune white lists in cui figureranno gli Stati cooperativi e che sostituiranno le attuali liste nere.
Merita un cenno in questo contesto il sistema dei trattati USA. La politica fiscale internazionale americana è infatti molto efficiente su questa materia. Ultimamente gli USA si sono dotati di un tipo di trattato - i c.d. TIEA (Tax Information Exchange Agreement) - che rappresentano l’ultimo anello di evoluzione di una lunga serie di trattati che gli Stati Uniti hanno sottoscritto a partire dal 1983, ma il cui numero negli ultimi anni è sensibilmente aumentato; infatti, nel solo biennio 2002-2003 sono stati siglati ben nove accordi con Paesi, in prevalenza a fiscalità privilegiata, quali le Bahamas, le isole Cayman, Guernsey, l’Isola di Xxxx, Jersey, le Antille Olandesi, Svizzera,…ecc. La finalità principale dei TIEA è quella di consentire agli Stati di ottenere uno scambio di informazioni su richiesta (“on request”) non solo in campo amministrativo e civile, ma anche, e questo sembra essere l’aspetto che più incentiva l’uso di questo strumento, in materia penale, per fatti comunque attinenti ad aspetti fiscali.
2.4 LE FONTI COMUNITARIE
Nelle disposizioni del Trattato Istitutivo della CEE, nella sua versione originale non ci sono previsioni specifiche relative all’assistenza tra gli Stati al fine di prevenire l’evasione fiscale: l’attenzione dei costituenti comunitari era, infatti, diretta principalmente alla creazione ed al corretto funzionamento del mercato comune, inteso come area economica in cui fossero valevoli le regole della libera concorrenza33
Negli artt. 95-99 del Trattato troviamo, appunto, riferimenti ai soli oneri fiscali gravanti sugli scambi delle merci ed ai metodi per poterli eliminare; allo stesso fine si rivolgeva l’art. 220 CEE, imponendo agli Stati membri di avviare “negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, l’eliminazione della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità”.
L’interpretazione di tali disposizioni non poteva essere così ampia da farvi rientrare la previsione del fenomeno dell’evasione fiscale nell’ambito della Comunità.
La norma che sembrava meglio adattarsi ad ammettere la tutela all’evasione fiscale internazionale nell’ambito della Comunità era l’art. 100 CEE, che
33 Sul punto: COSCIANI, C.. 1958. Problemi fiscali del mercato comune. Milano: Xxxxxxx. P. 35 e ss.; XXXXXXXX, G.. 1959. Sistemi fiscali e mercato comune. Roma: Studium. P. 7 e ss..
considerava tutti quei fenomeni che potessero avere “incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune”.
Ciò è stato sufficiente ad indurre il Consiglio UE ad avviare una serie di studi per una più efficace lotta all’evasione, culminati nel 1976 in una “Proposta di direttive del Consiglio riguardante l’assistenza reciproca delle competenti autorità degli Stati membri nel settore delle imposte dirette”.
Tale proposta si rivolgeva al settore delle sole imposte dirette (ove da tempo già esistevano regolamenti e proposte di direttive di armonizzazione) e prevedeva, quale strumento operativo, la collaborazione permanente tra le autorità amministrative degli Stati membri, allo scopo di reperire tutti gli elementi e i dati ritenuti utili per un effettivo accertamento della base imponibile. Delle due fondamentali attività - accertamento e riscossione dei tributi – solo la prima era stata presa in considerazione.
Obiettivo della proposta era raggiungere una collaborazione reciproca più penetrante in primis tra i Paesi comunitari, permettendo loro di disporre di analoghi strumenti di accertamento, e poi tra gli Stati membri e la Commissione della CEE, per rendere la disciplina più duratura, nonché la collaborazione più agile e suscettibile di rapido adattamento.
La proposta si è concretizzata nell’emanazione, in data 19 febbraio 1977, della direttiva 77/799/CEE.
2.4.1. LE DIRETTIVE COMUNITARIE
La direttiva 77/799/CEE 34 del Consiglio del 19.12.1977 (modificata dalla direttiva 2004/56/CEE) nasce dalla considerazione che le misure nazionali antifrode risultano inadeguate a fronteggiare le nuove forme di evasione e frode fiscale internazionale. Inizialmente introdotta per il settore delle imposte dirette, nel 1979 viene estesa all’ Iva (direttiva 79/1070 del 6.12.1979).
34 Dai Considerando della Direttiva 77/799/CEE si ricavano, in particolare, le seguenti affermazioni:
“la pratica della frode e dell'evasione fiscale al di là dei confini degli Stati membri conduce a perdite di bilancio e all'inosservanza del principio della giustizia fiscale e può provocare distorsioni dei movimenti di capitali e delle condizioni di concorrenza,pregiudicando quindi il funzionamento del mercato comune; […]dato il carattere internazionale del problema, le misure nazionali sono insufficienti, in quanto i loro effetti non si estendono al di là dei confini di uno Stato e che anche la collaborazione fra amministrazioni, in base ad accordi bilaterali, è inadeguata a far fronte alle nuove forme di frode e di evasione fiscale, che hanno sempre più un carattere multinazionale; […]occorre quindi rafforzare la collaborazione tra amministrazioni all'interno della Comunità in conformità a principi e regole comuni;[…]gli Stati membri debbono scambiarsi reciprocamente, su richiesta, informazioni per quanto riguarda un casopreciso e lo Stato a cui viene rivolta la richiesta deve provvedere a effettuare le ricerche necessarie per ottenere tali informazioni; […] gli Stati membri debbono scambiarsi, a richiesta o no, ogni informazione che sembri utile per un corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio ed in particolare allorché viene accertato un trasferimento fittizio di utili tra imprese situate in Stati membri diversi,o quando queste transazioni tra imprese situate in due Stati vengono effettuate tramite un terzo Paese per fruire di agevolazioni fiscali, o infine quando l'imposta, per un motivo qualsiasi, è stata o può essere elusa”.
La direttiva del 1977 individua come principale strumento di contrasto alle frodi la collaborazione (specialmente lo scambio di informazioni) fra tutte le amministrazioni fiscali della comunità; regola lo scambio di tutte le informazioni, tra le amministrazioni fiscali dei paesi membri, atte a permettere loro una corretta determinazione in ciascuno stato del reddito e dell’iva.
La direttiva prevede che lo scambio di informazioni sia autorizzato dalla legislazione o dalla prassi amministrativa dell’ autorità fiscale dello stato membro cui l’informazione e’ richiesta ed individua la possibilità di scambi triangolari delle informazioni raccolte (dietro autorizzazione dello stato nel quale le stesse sono raccolte). La direttiva evidenzia che tutte le informazioni sono riservate.
Il 15 febbraio 2011 il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato la nuova direttiva sulla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, n. 2011/16/UE, che ha abrogato la precedente 77/799/CEE65, obbligando gli Stati UE a recepire le varie disposizioni entro il primo gennaio 2013 (mentre il termine per l’attuazione dello scambio automatico di informazioni è fissato a due anni dopo, il primo gennaio 2015), ed ampliando il campo di applicazione dalle sole imposte dirette a tutte le imposte, escluse IVA, dazi doganali ed accise.
La scelta di operare questa sostituzione è da attribuire alla sostanziale inadeguatezza della vecchia direttiva rispetto al sopravvenuto
aumento della mobilità dei contribuenti, nonché alla crescente internazionalizzazione degli strumenti finanziari ed ai sempre più numerosi casi di evasione ed elusione fiscale internazionale: tutti fattori che hanno reso più complicato l’accertamento delle imposte, manifestando, di conseguenza, la necessità di una nuova e più adeguata disciplina35
I maggiori punti di debolezza 36 della Direttiva 77/799/CEE possono, più segnatamente, essere individuati in:
35 Dal Considerando 6 della Direttiva si ricavano le ragioni dell’abrogazione: “Considerati il numero e l’importanza degli adattamenti da apportare alla direttiva 77/799/CEE, una semplice modifica della medesima non sarebbe sufficiente per conseguire gli obiettivi sopra descritti. La direttiva 77/799/CEE dovrebbe pertanto essere abrogata e sostituita da un nuovo strumento giuridico. È opportuno che tale strumento si applichi alle imposte dirette e indirette che non sono ancora contemplate da altre normative dell’Unione. A tale riguardo la presente nuova direttiva è ritenuta lo strumento adeguato ai fini di una cooperazione amministrativa efficace.”
36 XXXXXX, X., UCKMAR, V.. 2011. La concentrazione della riscossione nell’accertamento. Padova: CEDAM. Cit. p. 641 e ss., già nel primo Considerando della direttiva 2011/16/UE si è “voluto sottolineare la necessità sempre più pressante, nell’era della globalizzazione, che gli Stati si prestino assistenza reciproca nel settore della fiscalità. Infatti, Commissione e Consiglio sono consapevoli che più si aumentano la mobilità dei contribuenti, il numero delle operazioni transfrontaliere e l’internazionalizzazione degli strumenti finanziari, più è difficile, per gli Stati membri, accertare correttamente l’entità delle imposte dovute. Una difficoltà che si ripercuote negativamente sul funzionamento dei sistemi fiscali, dando origine a fenomeni di doppia tassazione. Questa, a sua volta, induce alla frode e all’evasione fiscale che non possono essere efficacemente contrastate con i poteri di controllo nazionali e quindi minacciano il funzionamento del mercato interno. Coerente, quindi,che debbano intervenire le istituzioni comunitarie, dal momento che gli Stati membri non possono, da soli,assicurare in misura sufficiente il regolare funzionamento del mercato interno, come viene esplicitamente riconosciuto dal Considerando n. 29 della direttiva 2011/16/UE.”
_ mancanza di una cultura amministrativa omogenea che sovrintenda allo scambio di informazioni fra autorità fiscali;
_ assenza di precisi termini temporali per rispondere allo scambio di informazioni su richiesta;
_ intrinseca debolezza e rara applicazione pratica dello scambio di informazioni automatico;
_ invocabilità del segreto professionale, all’interno del quale veniva spesso fatto rientrare il segreto bancario;
_ assenza di disposizioni di carattere pratico che estrinsechino la disciplina sullo scambio di informazioni (e.g. come i Manuals periodicamente pubblicati dall’OCSE e rivolti ai verificatori, i quali hanno la funzione di “armonizzare” le varie prassi amministrative nazionali).
La direttiva 2011/16/UE si propone, pertanto, di colmare tali lacune, allineando la disciplina dello scambio di informazioni in ambito UE allo standard internazionale individuato dall’OCSE.
L’art. 2 estende l’ambito applicativo della direttiva, passando dalle imposte sul reddito e sul patrimonio, “alle imposte di qualsiasi tipo riscosse da e per conto di uno Stato membro odelle ripartizioni territoriali o amministrative di uno Stato membro, comprese le autorità locali”, precisando tuttavia al comma 2 che “la direttiva non si applica all’imposta sul valore aggiunto e ai dazi doganali o alle accise contemplate da altre
normative dell’Unione in materia di cooperazione amministrativa fra Stati membri”.
Quanto all’organizzazione nello scambio delle informazioni, l’art. 471 prevede l’obbligo per ciascun Stato membro di individuare un “ufficio centrale unico di collegamento” che, per mezzo di un responsabile all’uopo designato, farà capo alla Commissione UE quale organo di coordinamento, nonché concede la facoltà di nominare “funzionari competenti” e designare “servizi di collegamento”.37
L’art. 672 individua, poi, le modalità con cui devono essere svolte le indagini amministrative relative allo scambio di informazioni su richiesta (di cui all’art. 573), statuendo che “l’autorità interpellata procede come se agisse per conto proprio o su richiesta di un’altra autorità del proprio Stato membro”, evidenziando in tal modo la sostanziale parità di trattamento riservata alle unità amministrative dell’Unione Europea.
37 “1. Entro un mese dall’11 marzo 2011, ciascuno Stato membro comunica alla Commissione l’autorità competente ai fini della presente direttiva e la informa senza indugio degli eventuali cambiamenti in merito. La Commissione mette le informazioni a disposizione degli altri Stati membri e pubblica l’elenco delle autorità degli Stati membri nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. 2. L’autorità competente designa un ufficio centrale unico di collegamento. Spetta all’autorità competente informare la Commissione e gli altri Stati membri. L’ufficio centrale di collegamento può essere anche designato come responsabile dei contatti con la Commissione. Spetta all’autorità competente informare la Commissione. 3. L’autorità competente di ciascuno Stato membro può designare servizi di collegamento con competenza attribuita in conformità della normativa nazionale o della prassi di detto Stato”.
La nuova direttiva interviene anche nella definizione dei termini da rispettare per la comunicazione delle informazioni su richiesta, sancendo all’art. 774 quanto segue:
_ termine per rispondere alla richiesta: sei mesi dalla data della richiesta (ridotto a due mesi nel caso in cui le informazioni siano già in possesso dell’autorità interpellata);
_ possibilità di estendere tale periodo: solo a seguito di specifico accordo tra le autorità competenti;
_ conferma della ricevuta della richiesta: entro sette giorni lavorativi dal ricevimento della stessa;
_ comunicazione di carenze della richiesta e necessità di informazioni addizionali: entro un mese dalla richiesta;
_ impossibilità di rispondere entro il termine previsto: da comunicarsi entro tre mesi dalla richiesta;
_ impossibilità o (legittimo) rifiuto di scambiare le informazioni richieste: entro un mese dalla richiesta.
Anche nella normativa del 2011 viene mantenuta la ripartizione tra le tre forme di collaborazione (scambio su richiesta, automatico e spontaneo), valorizzando in particolar modo lo scambio automatico di informazioni, in quanto “mezzo più efficace per potenziare il corretto accertamento delle imposte nelle situazioni transfrontaliere e per lottare contro la frode”. A tal proposito, l’art. 8 rende automatico, a partire dal 1° gennaio 2014, lo
scambio delle informazioni in possesso delle autorità fiscali relative a cinque categorie di reddito:
redditi da lavoro, compensi per dirigenti, prodotti di assicurazione della vita, pensioni, proprietà e redditi immobiliari. Inoltre, al fine di verificare il corretto funzionamento dei flussi informativi, gli Stati membri sono tenuti a fornire alla Commissione (entro il 1° luglio 2016) statistiche sul volume, sui costi e sui vantaggi degli scambi automatici (comma 4); la
Commissione, sulla base di tali dati, redigerà entro l’anno successivo una relazione valutativa, considerando anche se proporre al Consiglio l’estensione dello scambio automatico a dividendi, plusvalenze e royalties (comma 5).
Anche lo scambio spontaneo (artt. 9 e 10) viene implementato, stabilendo un elenco tassativo di casi cui è applicabile:
_ fondato sospetto di una perdita di gettito fiscale in un altro Stato membro;
_ illegittimo ottenimento da parte del contribuente di una riduzione o esenzione, che invece dovrebbe comportare un aumento di imposta o tassazione in un altro Stato membro;
_ articolati schemi societari, che comportano l’utilizzo di una stabile organizzazione per ottenere riduzioni del carico impositivo in uno o più Stati membri;
_ fondato sospetto di trasferimenti fittizi di utili all’interno di un gruppo di imprese;
_ informazioni utili ad un altro Stato membro per l’accertamento delle proprie imposte.
Anche in questo caso, sono previsti dei rigorosi termini, infatti la trasmissione delle informazioni deve avvenire “al più presto, e comunque entro un mese dalla loro disponibilità”; la conferma da parte dell’autorità ricevente, poi, deve essere fatta “immediatamente” e comunque, “non oltre sette giorni lavorativi dal ricevimento”.
Un breve cenno meritano anche alcune altre disposizioni, quali quelle relative alla presenza di funzionari di uno Stato membro e la loro partecipazione alle attività di accertamento in un altro Stato membro (art. 11), ai controlli simultanei (art. 12), all’assistenza alla notifica di atti tributari (art. 13), alla previsione di formulari e canali di comunicazione standard (art. 20).
Infine, l’art. 24 in merito allo scambio delle informazioni con i Paesi terzi, dispone (compiendo peraltro un passo indietro rispetto alla normativa previgente, che non prevedeva tale limite) che le informazioni ricevute da uno Stato terzo “prevedibilmente rilevanti” per un altro Stato membro, possono essergli comunicate, purchè “ciò sia consentito ai sensi di un accordo con tale paese terzo”.
In sintesi, la nuova direttiva 2011/16/UE, ponendo la Commissione UE quale fulcro dell’attività di coordinamento e valorizzando lo scambio automatico e spontaneo di informazioni, getta le basi per la creazione del cd. “interesse fiscale europeo”, superando i confini nazionali. Rimane, tuttavia, piuttosto fragile la tutela del contribuente, a cui solo il considerando n. 28 accenna brevemente ed indirettamente (“La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”).
Le Direttive introducono forme di cooperazione rivoluzionarie, come quella che prevede che due Stati si accordino per autorizzare la presenza nel primo Stato di funzionari dell’amministrazione fiscale dell’altro Stato membro, con modalità da concordare tra le due amministrazioni fiscali. La presenza dei funzionari stranieri è subordinata ad un previo accordo bilaterale. Per quanto riguarda l’Italia, il legislatore fiscale ha recepito il citato articolo della direttiva, consentendo, in linea generale, la presenza nel territorio dello Stato di funzionari delle amministrazioni fiscali di altri Stati membri (vedi articolo 31, comma 3 del d.p.r. n. 600/1973).
Le direttive prevedono, inoltre, la “on going interpretation”, cioè l'estensione della collaborazione a tributi di futura istituzione.
2.4.2. LE NORME DI ATTUAZIONE IN ITALIA
Nella legislazione italiana costituiscono norme di attuazione della direttiva 77/799/CEE sullo scambio di informazioni, quelle introdotte con il
D.p.r. 506 del 5 giugno 1982. All’art. 31 D.p.r. 600/73, sono stati aggiunti i commi 3 e 477, i quali dispongono che l’Amministrazione finanziaria provveda allo scambio, con le autorità competenti degli Stati membri dell’Unione, delle informazioni necessarie ad assicurare il corretto accertamento e la notifica delle imposte sui redditi e sul patrimonio, e che a tal fine essa possa autorizzare la presenza nel territorio italiano di funzionari delle Amministrazioni finanziarie di questi altri Stati. Viene inoltre precisato che, nell’attività di ricerca e raccolta delle informazioni da fornire alle predette autorità, l’Amministrazione stessa deve osservare la normativa sull’attività di polizia tributaria in vigore nel nostro Paese.
L’art. 60-bis7838 d.p.r. 600/73 ha previsto, inoltre, che l’atto sostanziale (quale ipoteticamente un avviso di accertamento formatosi in applicazione
38 Di seguito il testo dell’art. 60-bis d.p.r. 600/73: “1. L'Amministrazione finanziaria può chiedere all'autorità competente di un altro Stato membro di notificare al destinatario, secondo le norme sulla notificazione dei corrispondenti atti vigenti nello Stato membro interpellato, tutti gli atti e le decisioni degli organi amministrativi dello Stato relativi all'applicazione della legislazione interna sulle imposte indicate nell'articolo 1 della direttiva. 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977, modificata dalle direttive 003/93/CE del Consiglio, del 7ottobre 2003, e 2004/56/CE del Consiglio, del 21 aprile 2004. 2. Su domanda dell'autorità competente di un altro Stato membro, l'Amministrazione finanziaria procede,secondo le norme di legge in vigore per la notifica
delle disposizioni impositive vigenti in un dato Stato appartenente all’Unione europea) possa essere notificato ad un contribuente residente in un altro Stato membro, secondo le disposizioni procedimentali in punto di notifica prescritte in tale secondo Stato. A tal fine, la pubblica autorità che ha confezionato l’atto impositivo (c.d. “autorità richiedente”) deve interessare la corrispondente autorità dello Stato comunitario di destinazione (c.d. “autorità adita”), ad essa affidando materialmente l’atto e domandando la corrispondente notifica. All'art. 68 del d.p.r. 600/73 è stato, infine, aggiunto il seguente comma: "Non è considerata violazione del segreto d'ufficio la comunicazione da parte dell'Amministrazione finanziaria alle competenti autorità degli Stati membri della Comunità economica europea delle informazioni atte a permettere il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio, in attuazione della direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 77/799/CEE del 19 dicembre 1977, modificata dalla direttiva 79/1070 del 6 dicembre 1979".
dei corrispondenti atti nel territorio nazionale, alla notifica al destinatario di tutti gli atti e le decisioni delle autorità amministrative dello Stato membro richiedente relativi all'applicazione, nel suo territorio, della legislazione sulle imposte indicate nell'articolo 1 della direttiva 77/799/CEE. 3. La domanda di notifica indica il contenuto dell'atto o della decisione da notificare e contiene il nome, l'indirizzo del destinatario e qualsiasi altro dato utile ai fini dell'identificazione dello stesso. 4. L'Amministrazione finanziaria informa immediatamente l'autorità richiedente circa il seguito dato alla domanda di notifica, comunicando la data in cui l'atto o la decisione sono stati notificati al destinatario.”
2.4.3 I REGOLAMENTI COMUNITARI
Un’altra importante fonte comunitaria è rappresentata dal Regolamento n. 218/92 che è nato con l’obiettivo di integrare e coordinare le disposizioni contenute nella direttive. Questo regolamento, relativo al settore delle imposte indirette, prevedeva un sistema di stretta collaborazione tra le autorità amministrative degli stati membri e tra queste e la Commissione. Istituiva in ogni stato membro un ufficio centrale di collegamento detto c.l.o (central liason office). Individuava in Italia, nel Ministro delle Finanze, l’autorità competente per lo scambio di informazioni. Inoltre, veniva prevista la necessità di attivare un efficace sistema di archiviazione e trasmissione elettronica dei dati da utilizzare nelle attività di controllo in materia iva. Fu, pertanto, istituito il sistema
V.I.E.S. (v.i.e.s. - vat information exchange system). Il sistema VIES è stato realizzato a partire dal 1 gennaio 1993 per far fronte alle esigenze del mercato unico europeo con la conseguente abolizione dei controlli alle frontiere fiscali.
Il VIES è lo strumento telematico mediante il quale gli Stati membri dell’Unione Europea realizzano lo scambio di informazioni automatico relativo alle operazioni intracomunitarie nel settore dell'IVA . Gli uffici dell’amministrazione finanziaria che stanno effettuando delle indagini su di un contribuente italiano che ha rapporti con soggetti esteri, possono, tramite il sistema VIES, effettuare delle interrogazioni per conoscere i dati
anagrafici dei soggetti esteri, l’elenco delle cessioni effettuate nei confronti dei soggetti passivi italiani o degli acquisti effettuati da soggetti attivi italiani. In questo modo è possibile effettuare dei controlli incrociati per verificare la veridicità delle dichiarazioni dei contribuenti italiani.
Nel 2003 il Consiglio ha emanato il regolamento n. 1798 del 07/10/2003, che pur affermando l’efficacia del regolamento n. 218/92 e della direttiva 77/799/Cee, rileva la loro insufficienza nel far fronte alle nuove esigenze in materia di cooperazione amministrativa. Quindi, abroga il regolamento 218/92 e diventa unico strumento giuridico comunitario che disciplina la cooperazione amministrativa in materia di iva. Il regolamento individua per ciascuno stato l’autorità competente per lo scambio di informazioni (per l’Italia il Capo del Dipartimento delle politiche fiscali del Ministero delle Finanze – ora Dipartimento delle Finanze).
L’art. 1 prevede che “il presente regolamento stabilisce le condizioni secondo le quali le autorità amministrative degli stati membri preposte all’applicazione della legislazione relativa all’iva, alla fornitura di beni e alla prestazione di servizi,all’acquisizione intracomunitaria di beni e all’importazione di beni devono collaborare tra loro e con la Commissione allo scopo di assicurare l’osservanza di tale legislazione”. Il regolamento conferma la presenza in ogni stato membro di un ufficio centrale di collegamento (art.3) e la possibilità per ciascuno stato membro di istituire uno o più servizi di collegamento. Allo scopo di ottenere una maggiore
rapidità nello scambio di informazioni, incoraggia ulteriormente l’utilizzo dei mezzi elettronici. (e-mail, scannerizzazione della documentazione, ecc.). Dal 1° settembre 2004 il Clo, presso il dipartimento delle finanze coordina 3 servizi di collegamento: Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogane e Guardia di Finanza
L’ufficio centrale di collegamento è il responsabile principale dei contatti con gli altri stati membri nel settore della cooperazione amministrativa. Esso ne informa la Commissione e gli altri stati membri. Spetta all’ufficio centrale di collegamento tenere aggiornati gli elenchi dei servizi di collegamento e dei funzionari competenti a scambiare direttamente informazioni in base al reg. 1798/2003. Quando un servizio di collegamento o un funzionario competente trasmette o riceve una richiesta o una risposta ad una richiesta di assistenza ne informa l’ufficio centrale di collegamento.
Il Regolamento CE n. 1978/2003 è stato soppiantato dal Regolamento UE
n. 904/201087, in vigore a partire dal 1° gennaio 2012.
Con l’avvento del nuovo Regolamento 39: viene ampliata la responsabilità degli Stati membri nell’ambito della cooperazione amministrativa, al fine di tutelare il gettito IVA da eventuale evasione;
39 Dai Considerando del nuovo Regolamento si ricava che “La memorizzazione e la trasmissione elettronica di taluni dati ai fini del controllo dell’IVA sono indispensabili per il corretto funzionamento del regime dell’IVA.Essi permettono un rapido scambio di informazioni e l’accesso automatico alle stesse, rafforzando la lotta alla frode. Ciò sarà reso possibile dal rafforzamento delle banche dati sui soggetti passivi e sulle loro
_ viene creato un framework permanente, per garantire la qualità delle informazioni scambiate, stabilendo regole comuni per la raccolta dei dati e per i controlli su questi ultimi;
_ gli Stati membri hanno l’obbligo di fornire conferma elettronica, per la verifica della correttezza di nome ed indirizzo associati ad una certa partita IVA.
Soprattutto, il punto di forza del nuovo regolamento consiste nell'istituzione di Eurofisc (artt. dal 33 al 37), una task force permanente tra i rappresentanti dei 27 Stati membri per la cooperazione tra le amministrazioni fiscali nazionali, costituita al fine di combattere le frodi IVA.
Il suo compito principale consiste nel favorire lo sviluppo di un sistema multilaterale per il contrasto alle frodi, per il coordinamento dello scambio di informazioni e per l'uso che ne viene fatto.
In particolare, Eurofisc ha diffuso modelli di frode individuati e buone pratiche, ed ha trasmesso anche i dati relativi a fornitori e clienti, mettendoli a disposizione delle autorità interessate.
Ha introdotto, inoltre, l'archiviazione in un sistema elettronico delle informazioni su identità, attività, organizzazione e indirizzo delle persone che hanno un numero di identificazione IVA, cui hanno accesso automatico
operazioni intracomunitarie inserendo nelle stesse una serie di informazioni sui soggetti passivi IVA e sulle loro operazioni. [...] Per lottare efficacemente contro la frode è necessario prevedere lo scambio di informazioni senza previa richiesta.
gli altri Stati. In questo modo è stato sviluppato e implementato un database accessibile a tutti i partecipanti, coperto da segreto professionale, per cui le informazioni raccolte potranno essere utilizzate esclusivamente per accertare la base imponibile, la riscossione o il controllo amministrativo dell'imposta e nell'ambito di procedimenti giudiziari.
Gli Stati devono approntare meccanismi per assicurare qualità ed affidabilità dei dati. Inoltre, sono previste procedure di verifica, in linea di massima prima dell'identificazione IVA (o entro 6 mesi dall'identificazione) Qualora le indagini su un caso richiedano un onere eccessivo, uno Stato può rifiutarsi di rispondere a un altro Stato se le notizie non sono raccolte per esigenze interne e se il Paese richiedente non può inviare informazioni equipollenti (come previsto anche dalle direttive sullo scambio di informazioni sovra descritte). Tuttavia, le informazioni richieste da un altro Stato comunitario non possono essere rifiutate solamente in quanto detenute da una banca, o da un istituto finanziario, o da una persona designata.
Nello scambio di informazioni in forma autonoma, secondo l’art. 16 intitolato “Feed back”, lo Stato che fornisce le informazioni può richiedere al cd. “funzionario di collegamento” di essere informato dei risultati ottenuti dalle informazioni trasmesse.
Il Regolamento si è occupato, inoltre, delle verifiche simultanee (cioè coordinate, relative alla situazione tributaria di uno o più soggetti passivi,
collegati fra loro) tra Stati che hanno “interessi comuni o complementari”, che potrebbero essere di grande aiuto per meglio
combattere le frodi che si perpetrano all'interno dei gruppi societari (artt. 29 e 30). Infine, l'allegato 1 al regolamento individua una serie di operazioni sensibili per le quali gli Stati devono comunicare in automatico i dati relativi alle operazioni effettuate dai contribuenti.
CAPITOLO III
LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI
3.1. TIPOLOGIE DI SCAMBIO DI INFORMAZIONI
Le principali tipologie di scambio di informazioni previste nelle fonti nazionali ed internazionali sono:
➢ scambio su richiesta che si ha quando l’autorità interpellata, a seguito di una specifica richiesta, comunica le informazioni all’autorità richiedente;
➢ scambio spontaneo40 che si ha in presenza di una comunicazione occasionale e senza preventiva richiesta di informazioni ad un altro
40 L’ art. 4 Dir. 2011/16/UE sancisce che “1. Le autorità competenti di ogni Stato membro comunicano, senza che ne sia fatta preventiva richiesta, le informazioni di cui all'articolo 1, paragrafo 1, in loro possesso, all'autorità competente di ogni altro Stato membro interessato, quando: a) l'autorità competente di uno Stato membro ha fondati motivi di presumere che esista una riduzione od un esonero d'imposta anormali nell'altro Stato membro; b) un contribuente ottiene, in uno Stato membro, una riduzione od un esonero d'imposta che dovrebbe comportare per esso un aumento d'imposta od una assoggettamento ad imposta nell'altro Stato membro;c) le relazioni d'affari fra un contribuente di uno Stato membro ed un contribuente di un altro Stato membro,svolte per il tramite di una stabile organizzazione appartenente a detti contribuenti o per il tramite di uno o più terzi, situati in uno o più paesi, sono tali da comportare una diminuzione d'imposta nell'uno o nell'altro Statomembro od in entrambi;d) l'autorità competente di uno Stato membro ha fondati motivi di presumere che esista una riduzione d'imposta,
stato membro. Può capitare che uno stato ha acquisito informazioni e ritiene possano interessare l’altro stato;
➢ scambio automatico che consiste in una comunicazione sistematica, senza preventiva richiesta di informazioni, ad un altro stato membro a intervalli regolari prestabiliti. (ad esempio, per varie categorie di reddito con fonte in uno Stato e percepite nell’altro Stato le informazioni sono scambiate sistematicamente come nel caso dei frontalieri residenti nell’altro Stato che ha diritto a tassarli). Il sistema VIES, ad esempio, è lo strumento telematico mediante il quale gli Stati membri dell’Unione Europea realizzano lo scambio di informazioni automatico relativo alle operazioni intracomunitarie nel settore dell'IVA.
3.2 MODALITA’ OPERATIVE PER EFFETTUARE LO SCAMBIO
Lo scambio di informazioni in ambito IVA è disciplinato, dal primo gennaio 2012, dal Regolamento (UE) n. 904/2010 del Consiglio del 7 ottobre 2010. In particolare, l’art. 7 disciplina lo scambio su richiesta, l’art.
risultante da trasferimenti fittizi di utili all'interno di gruppi d'imprese;e) in uno Stato membro, a seguito delle informazioni comunicate dall'autorità competente dell'altro Stato membro, vengono raccolte delle informazioni che possono essere utili per l'accertamento d'imposta in quest'altro Stato membro.
15 lo scambio spontaneo e gli artt. 25 – 27 le notifiche di decisioni amministrative ad altro Stato membro.
In tale contesto, il Comitato Permanente per la Cooperazione Amministrativa (SCAC) ha approvato un nuovo modello unico di formulario elettronico che sostituisce il modello SCAC 2004.
Il precedente modello SCAC è stato elaborato dal Comitato Permanente per la Cooperazione Amministrativa nel settore delle imposte indirette (SCAC) che ha deciso, nel novembre 1997, di incentivare l’uso di “formulari tipo” per lo scambio delle informazioni di cui all’articolo 5 del regolamento (CEE) n. 218/92 ed all’articolo 2 della direttiva 77/799/CEE.
Il modello è stato realizzato da un gruppo di lavoro presieduto dal Belgio, al quale hanno partecipato anche la Finlandia, la Germania, la Grecia e la Svezia.
I formulari facilitano lo scambio elettronico standardizzato di informazioni in materia d’IVA tra le competenti autorità amministrative dei singoli Stati membri o dell’UE conformemente all’articolo 6 del regolamento. Esso è impiegato per le richieste di informazioni (articolo 5) e per lo scambio spontaneo di informazioni (articolo 19). Il formulario è disponibile in tutte le lingue ufficiali Il formulario si compone di spazi con testo predefinito (domande e note che non devono essere assolutamente modificate).
Il modello unico consta delle seguenti sezioni: Parte (A): Frontespizio;
Parte (B): Richiesta di informazioni generali; Parte (C): Ulteriori richieste;
Parte (D): Richiesta di documenti;
Parte (E): Scambio spontaneo di informazioni;
Parte (F): Frodi carosello: controllo di registrazione/attività commerciale; Parte (G): Scambio spontaneo di informazioni (frodi carosello);
Parte (H): Feedback;
Parte (I): Richiesta di notifica.
Altra novità da evidenziare è la possibilità di richiedere un feedback così come previsto dall’ art. 16 del citato regolamento. Tale richiesta è possibile quando si inviano informazioni spontanee selezionando “è richiesto un feedback sull’informazione spontanea” oppure quando l’autorità competente risponde a una richiesta di informazioni selezionando “è richiesto un feedback sulla risposta”. La Commissione Europea ha stabilito che il nuovo modello poteva essere utilizzato a partire dal primo luglio 2013 in concomitanza con l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea.
Sono previsti alcuni limiti allo scambio di informazioni contenuti nella Decisione della Commissione n. 4087 del 15.11.04. L’ufficio può effettuare una richiesta solo per le operazioni di importo superiore a €
1.500. Nel caso in cui la richiesta sia relativa ad un’operazione di importo
compreso tra €1.500 e € 15.000, l’amministrazione ricevente può non evadere la richiesta a meno che non sia debitamente giustificata.
I termini che gli Stati devono rispettare sono i seguenti: al più presto e comunque entro tre mesi dalla data di ricevimento della richiesta, oppure entro un mese, qualora lo Stato membro interpellato già disponga dell’informazione (articolo 8).
L’amministrazione finanziaria ha evidenziato, in più di un’occasione, agli uffici che poiché la richiesta esprime un’esigenza conoscitiva ed è sempre frutto di un’attività di controllo che l’Ufficio sta ponendo in essere, è fondamentale che vengano svolte alcune attività propedeutiche tra le quali tutte le dovute interrogazioni all’anagrafe tributaria, comprese quelle al Sistema VIES (art. 40 co. 1 lett. b Reg. 1798/2003). Infatti, poiché lo scambio di informazioni ha un costo, occorre effettuare delle richieste solo se non è possibile acquisire quelle informazioni con i mezzi già a disposizione dell’Amministrazione finanziaria.
La richiesta riguarda sempre due operatori: uno italiano ed uno comunitario ed ha per oggetto le transazioni avvenute tra i due operatori. Per le transazioni poste in essere da uno stesso soggetto italiano nei confronti di più soggetti comunitari, sarà necessario inviare due SCAC distinti. La richiesta deve essere sempre, per quanto possibile, sintetica e tutti i quesiti devono essere inseriti nelle apposite sezioni, in quanto è stato
concepito in maniera standardizzata proprio per essere compreso da tutte le amministrazioni degli stati dove si parlano diverse lingue.
La richiesta viene inviata all’ufficio centrale (nel caso dell’Agenzia delle Entrate alla Direzione Centrale Accertamento), che è deputato a ricevere le richieste e trasmetterle alla struttura preposta dell’Amministrazione finanziaria dello Stato Estero, effettuando in questo modo un monitoraggio. E’ possibile anche inviare, in allegato, preferibilmente in formato scannerizzato, la documentazione (fatture, doc. di trasporto, ecc…) a supporto della richiesta.
Per eventuali approfondimenti su situazioni specifiche, sarà l’Ufficio di Collegamento a richiedere eventualmente l’invio di tale documento. Naturalmente per motivi di privacy non devono essere inviati documenti che contengano dati, notizie, informazioni su terzi soggetti estranei allo scambio.
Per quanto concerne le richieste di cooperazione ai fini imposte dirette non esiste un modello standardizzato. L’ufficio effettua una richiesta all’Amministrazione finanziaria estera, per il tramite dell’ufficio centrale. Nella richiesta occorre citare le fonti, ossia la Convenzione sulla doppia imposizione – Modello OCSE – di regola art. 25 o 26, la Direttiva 77/799/CEE in ambito europeo e la Convezione OCSE- Consiglio d’Europa di Strasburgo del 25 gennaio 1988 sulla mutua assistenza amministrativa, entrata in vigore nel 1995.
Nella richiesta occorre la dichiarazione che tutti gli strumenti interni a disposizione sono stati utilizzati per ottenere le informazioni e che la richiesta è conforme con la nostra legislazione e prassi.
Dopo aver indicato i dati anagrafici dei soggetti interessati, nella richiesta andrà illustrato, con schemi e diagrammi o altra documentazione, le relazioni intercorse tra i soggetti italiani e i soggetti esteri. Se l’informazione richiesta riguarda un pagamento o una transazione intervenuta attraverso un intermediario, occorre menzionare anche dati identificativi di quest’ultimo, inclusi quelli della filiale della banca come del numero di conto se si tratta di una richiesta di informazioni bancarie.
Occorre inoltre specificare l’origine dell’indagine, la natura e lo stato dell’attività di controllo esperita, le ragioni della richiesta e i motivi per cui si ritiene che l’informazione sia detenuta nel territorio dello stato interpellato. Nel caso di urgenza occorre indicare le relative ragioni e la data oltre la quale l’informazione non sarebbe più utile.
Le richieste devono essere mirate a casi specifici nel senso che la richiesta non può essere generica e deve “contestualizzare” il più possibile i momenti di esercizio dell’attività all’estero dei soggetti indagati. Nel caso, ad esempio, in cui si vogliano conoscere genericamente i dati contabili di tutti i clienti/fornitori italiani di un soggetto estero, solo presupponendo per la nota dimensione della sua attività che abbia clienti/fornitori italiani, in funzione per così dire preselettiva non è possibile attivare la cooperazione.
Per ottenere tali dati occorre realizzare, semmai, accordi specifici su flussi di massa (compensi, commissioni) - di cui occorre sempre verificare la reciprocità - nel quadro del diverso strumento dello scambio automatico previamente condiviso e organizzato con gli Stati interessati.
Lo strumento della cooperazione internazionale viene utilizzato anche nel caso in cui occorra notificare un atto ad un soggetto residente all’estero. L’ufficio effettua la richiesta all’ufficio centrale (nel caso dell’Agenzia delle Entrate la richiesta viene trasmessa alla Direzione Centrale Accertamento – Ufficio Scambio di informazioni) specificando l’indirizzo estero conosciuto, se sia o meno un soggetto iscritto all’AIRE e la data di scadenza entro la quale notificare l’atto. La tempistica secondo l’esperienza comporta anche con i Paesi più solerti 2-3 mesi di tempo dalla richiesta dell’amministrazione italiana all’autorità competente.
L’Amministrazione finanziaria deve espletare la procedura di notifica presso la residenza estera del contribuente risultante dall’A.I.R.E., secondo le disposizioni di cui all’articolo 30 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, al fine di assicurare l’effettiva conoscenza dell’atto da parte del debitore e garantire allo stesso l’esercizio del diritto di difesa.
Dando atto che l’ufficio si trova nell’impossibilità di rivolgersi direttamente alle corrispondenti autorità del Paese di destinazione in quanto non esistono accordi bilaterali o norme convenzionali che consentano all’Italia e al Paese di destinazione di prestarsi reciproca assistenza per la
notifica degli atti prodromici a quelli di riscossione occorre richiedere al Consolato di voler notificare al destinatario (del quale occorre indicare nome, cognome, data di nascita e indirizzo estero della residenza risultante dall’AIRE), l’atto - da trasmettere in busta chiusa - emesso dall’Ufficio, ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 200/1967, tenuto conto dei principi del codice in materia di protezione dei dati personali di cui al d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196. La lettera di trasmissione all’autorità consolare (in busta chiusa contenente l’originale dell’atto chiuso a sua volta in una busta indirizzata al contribuente) deve terminare con la richiesta di ricevere, in originale, la relata attestante l’avvenuta notifica dell’atto o l’indicazione della mancata consegna e del motivo della stessa.
3.3 LIMITI E CONDIZIONI DELLO SCAMBIO DI INFORMAZIONE
Esistono alcune regole consolidate che si possono porre alla base dello scambio di informazioni e che si riassumono in quelle di:
• Reciprocità
• Equivalenza
• Sussidiarietà
Il principio di reciprocità implica che l’autorità competente di uno Stato membro può rifiutare di trasmettere le informazioni quando lo Stato membro che le richiede, per motivi di fatto o di diritto, non è in grado di fornire lo stesso tipo d’informazioni. (direttiva 77/799/CEE).
Il principio di equivalenza si traduce nella impossibilità di richiedere ad uno stato la collaborazione con strumenti che lo stato richiedente non adotta. La direttiva dispone che “Il paragrafo 1 non obbliga uno Stato membro, quando la sua legislazione o la sua pratica amministrativa stabiliscono per scopi interni limiti più severi di quelli previsti in detto paragrafo, di fornire delle informazioni qualora lo Stato, cui le informazioni sono fornite, non si impegni a rispettare detti limiti più severi. In deroga al paragrafo 1, l’autorità competente dello Stato che fornisce le informazioni può permettere l’utilizzazione per altri fini nello Stato richiedente quando, secondo la propria legislazione, la loro utilizzazione è possibile per questi scopi simili nelle stesse circostanze”
Per quanto concerne il principio di sussidiarietà la direttiva dispone che “quando l’autorità competente di uno Stato membro ritiene che le informazioni ricevute dall’autorità competente di un altro Stato membro possano essere utili all’autorità competente di un terzo Stato membro, può trasmetterle a quest’ultima previo accordo dell’autorità competente che le ha fornite”.
Si aggiungono, come preclusioni insuperabili all'offerta di scambio, le norme interne sull’ordine pubblico e sul segreto industriale, nonché sovente quelle sul segreto fiscale bancario.
Infatti la Direttiva 77/799 all’art. 7 (Clausola di segretezza) dispone che: “Tutte le informazioni che uno Stato membro abbia ottenuto in virtù della presente direttiva devono essere tenute segrete in tale Stato, allo stesso modo delle informazioni raccolte in applicazione della legislazione nazionale. Tuttavia, tali informazioni:
- devono essere accessibili soltanto alle persone direttamente interessate alle operazioni di accertamento o di controllo amministrativo dell’accertamento dell’imposta, devono essere rese solo in occasione di un procedimento giudiziario, di un procedimento penale o di un procedimento che comporti l’applicazione di sanzioni amministrative, avviate ai fini o in relazione con l’accertamento o il controllo dell’accertamento dell’imposta e unicamente alle persone che intervengono direttamente in tali procedimenti; tali informazioni possono tuttavia essere riferite nel corso di pubbliche udienze o nelle sentenze, qualora l’autorità competente dello Stato membro che fornisce le informazioni non vi si opponga al momento della loro trasmissione iniziale, non devono essere utilizzate in nessun caso per fini diversi da quelli fissati o ai fini di un procedimento giudiziario o di un procedimento che comporti l’applicazione di sanzioni amministrative avviate ai fini o in relazione con l’accertamento o il controllo
dell’accertamento dell’imposta”. Ed inoltre “la trasmissione delle informazioni può essere rifiutata quando porterebbe a divulgare un segreto commerciale, industriale o professionale o un processo commerciale, o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico”
Altri obblighi sono posti a carico dell’amministrazione fiscale che ottiene le informazioni; essi attengono anzitutto al dovere di riservatezza e tipicamente al segreto di ufficio, in relazione al fatto che si tratta di materia di accertamento tributario. Precauzioni vengono adottate nelle convenzioni per assicurarsi che non vengano fornite informazioni riservate contenenti segreti industriali, commerciali, economici o professionali o dettagli circa processi commerciali. Non sono noti casi di inosservanza di specie nella prassi italiana.
Le Autorità competenti possono utilizzare i dati ricevuti soltanto ai fini previsti dalla convenzione e possono essere utilizzati per innescare verifiche anche a fini interni. Sono legittimate a comunicarle nei procedimenti giudiziari che però si riferiscano sempre ad accertamenti o procedimenti giudiziari di natura fiscale (ad es. reati fiscali). Quindi tali dati possono assumere valore di prova nei limiti in cui lo siano per la legislazione interna.
3.4 ALCUNI PROBLEMI APERTI
In molti Paesi europei in relazione alla cooperazione internazionale ci sono diverse fonti: legge interna, trattati fiscali bilaterali, la convenzione multilaterale OCSE/Consiglio di Europa, le convenzioni contro le doppie imposizioni, i regolamenti comunitari.
La prima problematica da evidenziare riguarda, quindi, la molteplicità delle fonti.
Tuttavia, si osserva che le diverse fonti in materia di cooperazione hanno ambiti di applicazione non sempre coincidenti: l’art. 26 del modello Ocse e la Direttiva 77/799/CEE, modificata, come prima evidenziato, nel corso del tempo da diversi interventi normativi, si applicano alle imposte sui redditi, sui patrimoni e sui premi assicurativi; il Regolamento Cee n. 1789/2003 si applica all’Iva, la convenzione Ocse/CdE a tutti i tipi di imposte e ai contributi previdenziali. Eventuali conflitti di competenza positiva sono, talvolta, oggetto di specifiche disposizioni contenute negli stessi strumenti; ad esempio l’art. 11 della Direttiva 77/799/Cee stabilisce che essa non limiti le norme che prevedano obblighi più estesi risultanti da altri atti sullo scambio di informazioni. Altrimenti, la risoluzione è affidata ai criteri che definiscono i rapporti tra fonti diverse (così, nel caso di contestuale, potenziale applicabilità della Direttiva e di un trattato fiscale tra
Stati membri, si applicherà la prima invece del secondo, per la prevalenza del diritto comunitario).
Un aspetto particolare e cruciale della materia che comporta problemi applicativi e interpretativi delle disposizioni è quello della lingua. In questo contesto un problema che si pone è quello dei malintesi che si potrebbero creare a causa delle diversità linguistiche. Basti pensare che i francesi con l’espressione “evasion fiscal” intendono anche il fenomeno dell’elusione fiscale.
Il successo dello strumento dello scambio di informazioni dipende non solo dalla adeguatezza degli strumenti ma spesso anche dalla celerità e tempestività dello scambio, obiettivi che sono rimessi alla valutazione di chi applica lo scambio. Le fonti comunitarie prevedono che le richieste debbano essere evase con la “massima sollecitudine”, disponendo l’obbligo a carico dell’Autorità interpellata – quando non è in grado di fornire le informazioni - di comunicare i motivi del rifiuto o dell’ostacolo. Ancora, lo Stato richiesto non è obbligato se il richiedente non ha prima utilizzato i propri mezzi interni per ottenere le informazioni prima della richiesta, nella misura in cui questi mezzi possono essere utilizzati senza mettere a repentaglio i risultati desiderati. E’ tuttavia difficile che lo Stato richiesto possa verificare questi requisiti. In pratica lo Stato richiesto si accontenta di una dichiarazione dello Stato richiedente che sono stati impiegati tutti gli strumenti interni di contrasto all’evasione.
L’aspetto negativo maggiormente rilevante è ravvisabile nel fatto che è stata, finora, tralasciato quasi totalmente41, la tutela del contribuente e degli eventuali terzi, concentrandosi essenzialmente sulle esigenze del solo versante statale (ossia, Stato richiedente e Stato interpellato). Appare d’obbligo, invece, un bilanciamento tra interesse statale e tutela delle posizioni del singolo. Il contribuente né viene informato, né può partecipare. In tale ottica, i problemi che i contribuenti interessati dallo scambio di informazioni si trovano a dover affrontare sono legati principalmente a due aspetti, entrambi attinenti al diritto di difesa:
1) nella generalità degli ordinamenti il contribuente non è neppure a conoscenza dell’avvio di un procedimento che lo riguardi, non essendo coinvolto né nella fase di raccolta né in quella di scambio delle informazioni, ed essendogli pertanto preclusa la possibilità di controllare tanto le modalità con cui le informazioni vengono raccolte dalle autorità,
41 XXXXX, P. 2005. Diritto Tributario Europeo. Milano: Il Sole 24Ore. Cit. p. 158, rileva che “la tutela del singolo contribuente non è disciplinata in ambito comunitario, salvo un generico richiamo alla proporzionalità degli adempimenti richiesti ai contribuenti rispetto agli interessi fiscali degli Stati, con conseguente rinvio alla disciplina interna per l’individuazione di forme di protezione dei diritti e delle libertà della sfera individuale. A tal riguardo va osservato che nella giurisprudenza italiana (Cass. n. 2390 del 03.03.2000) sono stati definiti alcuni elementi in ordine alla validità delle richieste di informazioni tributarie provenienti dall’amministrazione in essere ed in particolare: la riconducibilità del documento contenente la richiesta, ancorché non sottoscritto, ad un’amministrazione fiscale estera; l’applicabilità delle norme dello Stato richiedente per la validità formaledella richiesta; la valutazione della richiesta nell’amministrazione di destinazione ai fini della compatibilità con la disciplina interna”.