TIPICITA’ CONTRATTUALE
IL MOBILE CONFINE DELLA
TIPICITA’ CONTRATTUALE
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di XXXXXXXXX XXXXXXXX
Sommario
1. Introduzione
2. Dal contrattualismo tipico a quello atipico
3. Gli usi normativi e gli usi negoziali: loro interferenza nella formazione del contratto
4. La tipizzazione del contratto atipico: il ruolo della giurisprudenza
5. I contratti socialmente utili
6. Alcuni esempi di tipizzazione
7. Ricezione dei contratti tipici e atipici internazionali
8. Alcuni contratti internazionali in espansione
9. Conclusioni
Bibliografia
1. Introduzione
Il diritto moderno è il frutto della continua evoluzione che la società ha naturalmente compiuto.
Nel corso dei secoli, infatti, il diritto è stato lo specchio che ha riflettuto le trasformazioni della società attraverso i suoi istituti e i suoi strumenti.
Il XX secolo, in particolare, è stato teatro di un’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico che ha modificato, e tuttora modifica l’assetto degli interessi della società e il contributo del diritto.
Un importante passo avanti è senz’altro costituito dall’automazione del processo produttivo che se da una parte provoca problemi non trascurabili di disoccupazione, dall’altra apre nuovi campi di attività con l’affermarsi di nuove tecniche produttive; la creazione di macchine elettroniche sempre più complesse e capaci di adattarsi a diverse lavorazioni ha cambiato il volto delle fabbriche e la stessa natura del lavoro industriale: dove un tempo erano necessari molti operai generici oggi può essere sufficiente un solo tecnico, addetto al controllo della macchina.
Strettamente legata alla “rivoluzione dei computer” è la crescita di nuove tecnologie e di nuove branche della scienza applicata quali, ad esempio, l’informatica, la cibernetica, la robotica e la telematica, che concorrono tutte a qualificare la società dell’automazione.
Quella post-industriale è una società in cui diminuisce la domanda di lavoro manuale, mentre aumenta quello di lavoro tecnicamente qualificato; in cui il settore industriale, cresciuto originariamente a spese di quello agricolo, tende a cedere occupazione al settore terziario (l’insieme dei soggetti e delle imprese che producono i servizi necessari all’industria e all’agricoltura); in cui, grazie ai progressi dell’informatica e della telematica, cresce continuamente la quantità e qualità dei servizi offerti all’utente.
È una società nella quale, in breve, il movimento delle informazioni è più veloce del movimento delle persone.
Ed è in questo quadro che si inserisce un altro fenomeno significativo, il processo di dematerializzazione 1.
1 X. Xxxxxxx “Le fonti del diritto nella società post- industriale”, in Sociologia del diritto, n. 1-2, 1990
Si tratta del procedimento, letterale, logico e giuridico, in base al quale una parola che indica un bene materiale perde questo connotato “fisico” per designare un significato più vasto e astratto.
Ma facciamo un esempio: il marchio, che nella società industriale indicava solo il segno distintivo delle merci di produzione industriale, con il passare del tempo, invece, è diventato esso stesso un bene immateriale e autonomo, separato dal singolo prodotto.
Ed infatti, attraverso la creazione e la distribuzione di prodotti diversificati rispetto a quello originario, le grandi imprese fanno affidamento sul valore simbolico rappresentato dal marchio stesso.
A questo proposito si parla di un contratto di merchandising per indicare un contratto di licenza parziale, riferita ad una determinata categoria di prodotti o servizi, in cui il titolare di un marchio ne concede l’uso a terzi per prodotti appartenenti a generi diversi da quelli per i quali è stato originariamente usato.
È possibile rendersi conto del profondo mutamento tanto dell’ordinamento giuridico
quanto della fattispecie particolare del merchandising di marchi, se si prendono in considerazione le difficoltà opposte dalla disciplina previgente in tema di marchi, in ordine soprattutto, alla validità del modello.
Esso, in effetti, poneva ostacoli non lievi in ordine alla stessa validità del contratto in quanto, sotto il profilo strutturale il diritto all’uso esclusivo del marchio era ritenuto non estensibile a prodotti differenti da quelli commercializzati, mentre sotto il profilo della circolazione, vi era il vincolo della contemporanea cessione di una parte dell’azienda.
La situazione si è radicalmente modificata con l’entrata in vigore della legge sui marchi n. 929/922, in base alla quale il titolare di un marchio celebre può godere di una protezione allargata, rispetto alla normativa precedente.
2 La legge 6 giugno 1992, n. 929, prevede, all’art. 1, che il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo consenso, di usare un segno identico o simile al marchio registrato, anche per prodotti o servizi non affini, a condizione che il marchio registrato goda dello stato di rinomanza, e che l’uso del segno senza giustificato motivo consenta di tratte indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio agli stessi. Soltanto l’art. 15, ultimo comma, prevede un limite a tale facoltà, statuendo che in ogni caso, dal trasferimento o dalla licenza del marchio, non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico.
La legge sui marchi introduce un elemento innovatore, in quanto, in base ad esso, è possibile effettuare la registrazione del marchio con riferimento a prodotti non commercializzati dal titolare.
Infatti, ai sensi dell’art. 22 comma 1° della legge citata, può ottenere una registrazione del marchio d’impresa chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o nel commercio di prodotti ovvero nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso.
Ed è stato inoltre introdotto, ai sensi dell’art. 15 1.m., il principio della libera circolazione del marchio per la totalità o solo per una parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato.
La nuova disciplina attribuisce, quindi, piena validità, nell’ordinamento italiano, al merchandising di marchi ed inoltre allo sfruttamento del valore pubblicitario del marchio, anche in settori eterogenei tra loro.
Oggi, il mercato appare sempre più dinamico e duttile.
Le grandi imprese sono, spesso, a capo di un gruppo che coordina e pianifica le diverse attività delle società che controlla.
In questo modo si forma un modello economico in cui vari settori, da quello industriale a quello finanziario, dal settore del commercio a quello dei servizi tendono a perseguire, ciascuno nel proprio campo, un fine comune che coincide con l’interesse del gruppo.
La realtà della società post-industriale viene ad essere caratterizzata dal progressivo distacco della funzione imprenditoriale dai singoli settori produttivi.
Mentre un tempo, infatti, il grande capitale imprenditoriale era monosettoriale, era, cioè, destinato ad un settore specifico dell’industria, del commercio o dei servizi, oggi, invece, assume un connotato polifunzionale, che si manifesta nell’attitudine a passare rapidamente da un settore all’altro senza essere più legato a determinati prodotti o mercati.
Tale flessibilità del mercato influenza fortemente il sistema giuridico creando la necessità di effettuare profonde riforme legislative, che
consentano di rendere l’ordinamento giuridico adeguato alle mutate esigenze della società.
Tuttavia, la situazione risulta difficilmente sostenibile utilizzando, come strumento innovatore, la legge, a causa del fatto che il rinnovamento tecnologico e commerciale della società segue ritmi diversi e notevolmente più rapidi.
Lo strumento legislativo risulta, molto spesso, inadeguato a svolgere questa funzione, principalmente a causa di due caratteri dell’economia contemporanea la quale è, innanzitutto, un’economia che supera i confini nazionali in antitesi, invece, con la natura nazionale dei sistemi legislativi; ed è, in secondo luogo, un’economia in permanente trasformazione, insofferente, quindi, alla rigidità delle leggi.
Il principale mezzo per garantire una costante innovazione giuridica viene, così, ad essere, il contratto ed, in particolare, lo sviluppo internazionale dei contratti atipici.
La libertà di circolazione e l’autonomia di cui godono i contratti atipici fungono quale garanzia dell’attività commerciale nazionale, ancora prima che internazionale.
Per permettere che ciò avvenga, sono previsti, all’interno di ciascun ordinamento nazionale, una serie di norme giuridiche, che consentono di svolgere un controllo sulle norme, sugli atti e sulle convenzioni straniere che si intendono adottare.
Nell’ordinamento italiano, tale strumento di controllo è affidato art. 31 preleggi, attraverso il quale è previsto che diritti, atti, e convenzioni straniere non possono, in nessun caso, avere effetti in Italia quando siano contrati all’ordine pubblico o al buon costume.
Secondo la Corte di Cassazione, i principi posti a salvaguardia degli essenziali valori umani, sociali ed economici, non devono necessariamente essere compresi od espressamente previsti, all’interno del diritto italiano.
La loro individuazione deve essere, invece, in ogni caso, rivolta ai <<fondamentali diritti dell’uomo, comunemente accolti in molti nazioni di civiltà affine>>3.
3 Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, 0 gennaio 1981, n. 189 in Rivista di diritto internazionale, 1981, p. 787 Analogo riferimento alla “società internazionale”, in App. Genova, 26 gennaio 1964, in Riv. dir. internaz., 1964, p. 643
In effetti, la problematica che in questa sede vogliamo affrontare, e cioè il passaggio dal contrattualismo tipico a quello atipico, nasce dal confronto continuo della realtà sociale ed industriale con quella normativa.
E questo confronto spesso è foriero di difficile adattamento dell’una realtà all’altra: la realtà normativa procede spesso lentamente e per gradi, tanto che dobbiamo proprio alla giurisprudenza, nella quasi totalità dei casi, il primo riconoscimento di una trasformazione, di un mutamento.
E la ragione per cui queste due realtà procedono su piani differenti, e con tempi differenti, è dovuta esclusivamente a questo: nel nostro ordinamento, i contratti atipici non sono normativamente regolati. Il nostro codice cioè, pur prevedendo che le parti approntino lo strumento contrattuale più consono alla tutela dei propri interessi, non fornisce paradigmi normativi, sorta di scheletri contrattuali
sui quali costruire il contratto atipico.
Le parti sono dunque libere di creare un paradigma normativo idoneo alla tutela di quegli interessi sorti per quello specifico caso concreto.
La tipizzazione dei contratti, dove per tipizzazione si intende proprio l’adattamento del contratto – che nasce per rispondere alle esigenze della realtà industriale – ad una realtà normativa, deriva piuttosto dalla diffusione, nella prassi commerciale, di nuovi modelli contrattuali appositamente studiati per disciplinare le operazioni economiche che devono realizzare.
I contratti innominati sono, quindi, socialmente tipici, in quanto corrispondono a modelli contrattuali uniformemente adottati nel mondo degli affari.
Molto spesso, i contratti socialmente tipici nazionali più diffusi rispondono alle caratteristiche comuni ai più frequenti modelli a grande diffusione internazionale.
Ne sono un esempio il leasing, il factoring, il franchising, il lease-back, il countertrade, e molti altri.
Secondo l’art. 1322 comma 2° c.c., gli interessi conseguiti attraverso il contratto atipico devono essere meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, tuttavia, nel caso si tratti di un contratto internazionale, tale giudizio deve ispirato ai principi accolti da quelle che, nel diritto
internazionale privato, vengono indicate come le “nazioni di civiltà affine”.
Il procedimento di tipizzazione dei contratti atipici internazionali uniformi prosegue, all’interno degli ordinamenti giuridici nazionali, attraverso la ricezione degli stessi ad opera della giurisprudenza.
Si attua, in questo modo, un ulteriore passo verso la creazione di una disciplina del diritto privato, uniforme a livello internazionale.
La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza, che, ha evidenziato la
<<permeabilità del nostro ordinamento, oltre che alle esigenze economiche anche alle influenze di figure giuridiche già codificate all’estero>> 4.
Le sentenze giurisprudenziali assumono, così, il compito di adeguare il diritto codificato alle esigenze della società in continua evoluzione.
La prassi del commercio internazionale viene, in parte, influenzata da uno strumento ulteriore che contribuisce a creare una disciplina uniforme; si tratta dell’elaborazione dei “Principi per i contratti commerciali internazionali”, proposta dall’Istituto
4 Così, Trib. Milano, 9 ottobre 1986, in Banca, borsa, tit. cred., 1987, II, p. 337.
Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT).
Detti principi non possiedono forza vincolante, tuttavia possono influenzare gli interpreti nell’elaborazione di regole comuni e nell’interpretazione tanto delle norme internazionali, quanto di quelle nazionali 5.
I fattori che hanno portato all’individuazione di principi internazionalmente uniformi risiedono, fondamentalmente, nella diffusione internazionale delle pratiche contrattuali economiche e commerciali, negli usi del commercio internazionale, ossia nella reiterata ed uniforme osservazione di particolari pratiche da parte degli operatori di determinati settori imprenditoriali, e nella giurisprudenza delle camere arbitrali internazionali.
Sotto il primo profilo, talvolta questa diffusione si è verificata spontaneamente, assecondata dalle
5 Storicamente, il diritto uniforme è stato formato a partire dall’affermazione della lex mercatoria, intesa come diritto uniforme del ceto dei mercanti medioevali, per regolare i rapporti mercantili e, soprattutto, per derogare, relativamente ai rapporti commerciali, al diritto civile del tempo, costituito prevalentemente dal diritto romano, rilevatosi non più congeniale alle esigenze dei traffici. La nuova concezione di lex mercatoria si va affermando in opposizione al diritto romano, bensì al particolarismo del diritto statuale.
giurisprudenze nazionali; altre volte invece la relativa diffusione è stata favorita dalla predisposizione di formulari, di contratti per gli imprenditori ad esse aderenti, da parte delle associazioni internazionali di categoria, oppure delle grandi società multinazionali6.
2. Dal contrattualismo tipico a quello atipico
2.1. Cenni storici7
6 Il fenomeno ha assunto una rilevanza notevole: la Corte di Cassazione, in una decisione relativa alla questione che riguardava la possibilità di deliberare un lodo arbitrale internazionale privo di deliberazione, lo ha giudicato non deliberabile, in quanto contrario alla lex mercatoria, ossia ad una regola non scritta, che impone, anche ad arbitri operanti in Stati che non hanno aderito alle convenzioni internazionali sull’arbitrato, la motivazione dei lodi arbitrali Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione, 8 febbraio 1982, n.722, in Giust. Civ., 1982, I, p.1579.
7 Nel diritto romano il termine contractus era utilizzato per individuare una fonte delle obbligazioni. Le Istituzioni di Xxxx, elaborate durante il regno di Xxxxxxxx Xxx (138 – 161 d.C.), contengono la distinzione fondamentale tra obligationes ex contractu ed obligationes ex delicto. Lo stesso Xxxx, in un’opera successiva, abbandona questa bipartizione e teorizza una tripartizione nella quale precisa che le obbligazioni nascono o da contratto o da misfatto o, in base ai titoli specifici, da vari tipi di fonti. L’appartenenza del contractus al sistema delle fonti delle obbligazioni, evidenzia come sia chiara, già nel diritto romano, la distinzione tra atti ad efficacia reale ed atti ad efficacia obbligatoria. Il contractus era del
In Italia il legislatore del 1865 codifica un’importante affermazione dell’autonomia del contratto quando all’art. 1098 lo definisce come “l’accordo di due o più persone per costituire, regolare o sciogliere fra loro un vincolo giuridico” ampliando così il contenuto dell’art. 1101 c.c. francese che disciplinava solo il contratto costitutivo.
Significativo appare inoltre l’art. 1103 c.c. del 1865, corrispondente all’art. 1323 del codice vigente, in quanto prevede che i <<contratti abbiano o non abbiano una particolare denominazione propria, sono sottoposti a regole generali, le quali formano l’oggetto di questo titolo. Le regole particolari a certi contratti civili sono stabilite nei titoli relativi a ciascuno di essi e quelle proprie delle contrattazioni commerciali nel codice del commercio>>.
tutto estraneo a qualunque connotazione soggettiva, infatti esso non era l’espressione di un accordo volontario tra le parti, ma indicava semplicemente il vincolo obbligatorio in se, il rapporto, l’affare nella sua componente puramente oggettiva. Il vero antecedente del moderno contratto risale, invece, secondo parte della dottrina, al diritto giustinianeo e si identifica con il pactum o conventio dove nasce il consensus, inteso come elemento essenziale del contratto.
L’articolo trovava inoltre un significativo richiamo all’art. 1107 del codice napoleonico che affermava la validità degli accordi convenzionali seguendo il principio dell’autonomia e sottoponendoli alle regole generali del contratto.
Il codice del 1942 ha optato per una disciplina generale del contratto anziché del negozio giuridico.
Questa scelta è dovuta alla circostanza che la categoria dell’atto negoziale è talmente vasta che sarebbe stato estremamente difficile creare una disciplina valida per tutti i tipi di negozi, ed inoltre, perché il contratto, frutto dell’accordo delle parti, è considerato la principale espressione della autonomia privata.
Il negozio giuridico produce effetti unicamente tra le parti, e non ha, dunque forza di legge rispetto ai terzi.
L’elenco dei “singoli contratti” contenuto nel titolo terzo del libro quarto del codice civile del 1942, è per quell’epoca ampio ed aggiornato, anche se non sono mancate alcune critiche riguardo alla ormai scarsa rilevanza di contratti come l’anticresi o la rendita vitalizia; oppure alla ragione per la quale sia disciplinato un fenomeno
secondario come il conto corrente e non invece il conto corrente bancario.
2.2 Il contenuto dei contratti e l’autonomia contrattuale
Altra questione, quella relativa al contenuto dei contratti.
Anche ad un’analisi superficiale non sfugge come la parte generale dedicata al contratto sembri più attenta alla struttura che al contenuto dello stesso.
Risulta, allora, chiara l’esigenza della giurisprudenza di ricondurre i contratti atipici ad un tipo legale per individuare per essi una disciplina.
La struttura dei tipi legali ha subito una duplice evoluzione all’interno e all’esterno del codice, dal 1942 ad oggi.
Da una parte, infatti, la disciplina legale di alcuni contratti è cambiata radicalmente (il riferimento è al contratto di lavoro subordinato), dall’altra si riscontra un notevole aumento dei nuovi tipi di contratto che si affiancano ai tipi legali del codice civile.
Il legislatore ha fuso insieme contratti civili e contratti commerciali recependo numerose figure emerse dalla prassi, e, nel complesso, ne ha dettato una disciplina dettagliata.
L’elenco dei tipi contrattuali presenti all’interno del codice si è gradualmente ampliato grazie alla ricezione di nuove figure nate dalla prassi commerciale, dalla contrattazione standardizzata (contratti bancari, somministrazione) ed infine, dalla contrattazione collettiva (contratto d’agenzia)8.
Inevitabilmente, d’altra parte, sussistono delle zone d’ombra, che il legislatore non ha direttamente disciplinato e rispetto alle quali suppliscono le raccolte di usi, analizzati da qualche tempo per i nuovi contratti ancora estranei al codice, tra cui il leasing, factoring e di recente anche il franchising e i contratti di pubblicità.
La giurisprudenza ha individuato numerosi nuovi contratti oltre a quelli già disciplinati nel codice civile, per esempio il contratto di parcheggio, di noleggio, di ormeggio, di procacciamento di affari, nonché il vitalizio c.d.
8 X. Xx Xxxx, Nuovi contratti, Utet, Torino 1990 (2) , pp. 11 ss.
improprio, il contratto autonomo di garanzia, ecc. e più recentemente, di origine anglosassone di contratti di leasing, factoring, catering, engineering, franchising, merchandising, la cessione di know how; e tutti i vari tipi di contratti di pubblicità e di sponsorizzazione, la concessione di vendita in esclusiva, i vari contratti di borsa, i contratti di ingaggio e di cessione di professionisti dello sport, i contratti di informatica, i contratti parasociali, i contratti costitutivi di associazioni temporanee di imprese, ecc.
Spesso, al loro interno, questi contratti ne contengono altri; si tratta di sottotipi anche molto diversi tra loro, che proprio per la loro appartenenza alla categoria dei contratti atipici mal sopportano di essere disciplinati rigidamente, essendo così necessario parlare non del contratto ma dei contratti di leasing: operativo, leasing finanziario, lease-back, dei contratti di pubblicità: il contratto di agenzia pubblicitaria, il contratto di diffusione pubblicitaria, il contratto di concessione pubblicitaria, dei contratti di sponsorizzazione: la sponsorizzazione propriamente detta e l’accordo di patrocinio, ecc.
La ricezione di questi nuovi contratti è avvenuta, e sta tuttora avvenendo, non senza qualche perplessità9
L’art. 1321 c.c. definisce il contratto come
<<l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale>>. Attraverso l’incontro delle loro volontà le parti mirano a raggiungere un accordo che riesca a soddisfare i rispettivi interessi, spesso opposti tra di loro. L’autonomia contrattuale delle parti è la base su cui si forma il contenuto del contratto e da cui trae origine il regolamento del rapporto da esso nascente.
Il legislatore del 1942, recependo quest’esigenza di libertà nel momento della determinazione sia del contenuto che della forma ha introdotto, nel codice civile, l’art. 1322 come espressione dell’autonomia contrattuale.
Nel 1° co. di tale articolo, è sancito il principio generale che <<le parti possono liberamente
9 Si discute, per esempio, sull’opportunità di un intervento del legislatore o sulla convenienza che sia la prassi a dettare al disciplina dei nuovi contratti; sulla possibilità di intervenire sui singoli tipi o, al contrario, di creare una disciplina generale standard; inoltre, sull’opportunità di inserire la disciplina dei nuovi contratti nel codice ovvero in leggi speciali.
determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge>>.
Nel 2° co., è ulteriormente previsto che <<le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico>>.
L’articolo codifica, da una parte, la libertà riservata ai contraenti di determinare il contenuto di un’obbligazione e, dall’altra la possibilità di combinare quest’ultimo con altre obbligazioni o prestazioni anche al di fuori dei tipi contrattuali previsti dall’ordinamento.
Il principio dell’autonomia contrattuale consente alle parti di modificare gli effetti di un contratto già perfezionato con clausole liberamente pattuite ed esterne ad esso, salvo il limite della conformità di queste alle norme imperative.
L’autonomia contrattuale individuata <<è libertà di perseguire finalità diverse da quelle perseguibili con i contratti tipici; ma è anche libertà di
perseguire con modalità contrattuali atipiche finalità già perseguibili con contratti tipici>>10.
L’autonomia contrattuale può, inoltre, esplicarsi nella costruzione di contratti atipici che perseguono finalità economiche precedentemente tipizzate, ma con una struttura nuova. E’ quanto emerge dalla seguente pronuncia della Corte di Cassazione, riguardante il contratto di leasing, la quale prevede che esso è valido anche se <<le medesime finalità possono essere raggiunte mercé un tipo contrattuale nominato, la vendita con riserva di proprietà>>11.
Nel rispetto, quindi, della prevalenza del principio di autonomia le parti sono libere di seguire gli schemi previsti e regolati dal codice dei contratti tipici, oppure possono concludere contratti che no trovano un’espressa previsione della legge.
Unico limite a tale libertà di scelta è il mantenimento di quella struttura base che
10 X. Xxxxxxx, 1988. p. 46
11 Cass., 28 ottobre 1983, n. 6390, in Foro it., 1983, I, p. 2297. In questo senso anche Xxxx., 6 maggio 1986, n. 3023, in Foro it., 1986, I, p. 1919; Cass., 26 novembre 1987, n. 8766, in G.I.,
1988, I, 1, p. 555.
costituisce l’essenza del contratto stesso così come emerge dagli artt. 1321 ss. del codice civile.
Il primo comma dell’art. 1322 c.c. prende in considerazione essenzialmente i contratti tipici, quelli cioè che hanno un nome e una disciplina giuridica specifica prevista dalla legge, e sancisce la libertà di autodeterminazione del contenuto da parte dei contraenti con il limite inderogabile della liceità.
Da ciò deriva che le parti possono scegliere liberamente di seguire in tutto la disciplina specifica riservata dal codice alla fattispecie particolare, ma possono anche determinare autonomamente la parte del contratto che non abbia carattere imperativo rimanendo sempre nel campo dei contratti tipici.
Di ciò, si trae conferma, dal secondo comma dello stesso articolo, che tratta esplicitamente i contratti atipici e che sancisce la libertà dei privati di inventare figure contrattuali nuove rispetto a quelle legali.
In questo caso, però, il controllo dell’ordinamento sul contratto, investe un profilo ulteriore e cioè quello della necessità di una verifica degli interessi effettivamente perseguiti per
mezzo del contratto atipico, necessità che non si verifica per i contratti tipici, data la “garanzia” della loro causa preventivamente tipizzata.
La ragione di questo speciale limite sulla dignità della causa del contratto atipico e quindi anche sull’opportunità dell’operazione economica è così illustrata nella relazione al codice: infatti, dal momento che <<un controllo della corrispondenza obbiettiva del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali legislativamente nominati e specificatamente disciplinati: in tal caso la corrispondenza stessa è apprezzata e riconosciuta dalla legge col disciplinare il tipo particolare di rapporto e resta allora da indagare se per avventura la causa considerata non esista in concreto o sia venuta meno; quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo mancato il controllo preventivo e astratto della legge sulla rispondenza del tipo nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valutazione del rapporto da parte del
giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico>>12.
Non esiste un solo criterio distintivo tra contratti tipici e atipici.
In astratto, è tipico il contratto che trova nella legge non solo il nome ma anche la propria specifica disciplina, mentre è atipico quello che non è in alcun modo regolato dalla legge.
La distinzione, tuttavia, non è facilmente rilevabile, quando si tratta di stabilire se un accordo concreto sia qualificabile come tipico o atipico.
A questo proposito, la dottrina tradizionale ha valorizzato il profilo causale, sostenendo che la classificazione del contratto come tipico è improntata sulla causa corrispondente che è a sua volta tipica.
Da qui deriva che <<un contratto non si può considerare atipico solo in relazione alla peculiarità del suo oggetto o alla limitata frequenza statistica della sua stipulazione, ma solo in relazione alla non perfetta identità della sua causa
12 Rel. Min. c.c., n.603.
con quella normativamente prevista e disegnata dal diritto positivo>>13
Questo orientamento non sempre offre un’efficace aiuto per verificare la natura della causa nel caso concreto dato il margine di elasticità naturale del contratto, senza dimenticare tutte le difficoltà che tuttora presenta il dibattito sullo stesso concetto di causa.
2.3. Tipicità e atipicità
La tipicità è da sempre considerata principio immanente al diritto.
Le norme giuridiche, con il loro carattere necessariamente astratto, colgono e fissano i comportamenti costanti e concreti che emergono all’interno dei rapporti sociali, creando un sistema di regole astratte al quale i consociati vengono vincolati.
Viene dettato un regolamento che riassume queste situazioni, che confronta e orienta la condotta dell’uomo in schemi semplificati, prevedibili e vincolanti.
13 Cass. 23.4.80, n.2665, in RFI, 1980, Contratto in genere, p. 57.
La contrapposizione tra contratti tipici e contratti atipici trova fondamento nella stessa disciplina codicistica del contratto.
Il rapporto tra tipico e atipico è differente a seconda dei vari settori del diritto. Così ad esempio nel diritto amministrativo, dove il perseguimento del pubblico interesse deve svolgersi nel rispetto del principio di legalità e tipicità e il potere atipico di ordinanza, destinato a far fronte a situazioni contingibili e urgenti è ammesso soltanto in materie non coperte da riserva assoluta di legge14.
Ma nel diritto civile, il contratto tipico è uno schema che contiene la descrizione e la disciplina di comportamenti reiterati e consolidati, e costituisce il punto d’arrivo di un processo di maturazione dei tipi di contratto sociali.
Ai tipi legali si giunge dunque attraverso la tipicità sociale, intesa come riconoscibilità collettiva delle operazioni economiche considerate, e che è l’indizio della loro attitudine a soddisfare le nuove esigenze del commercio.
Un tipo di contratto può essere utilizzato con carattere di generalità nella prassi commerciale a
14 Xxxxxxx Xxxxxx, Corso di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino 1997, p. 552.
prescindere dall’essere o meno disciplinato sul piano legislativo. In seguito, la continua ripetizione della stessa operazione economica porterà, inevitabilmente, i giudici a conoscere e considerare queste operazioni, ed è evidente che l’attenzione del legislatore al tipo sociale sarà suscitata in gran parte dall’opera di vaglio e di verifica della tipicità sociale svolta dalla giurisprudenza.
L’opera della giurisprudenza assume importanza poiché la creazione di diversi precedenti giurisprudenziali conformi certifica il rilievo giuridico di un contratto composto di determinate caratteristiche, attraverso un processo di riduzione della situazione esaminata in uno schema che viene applicato in analoghe evenienze, favorendo perciò la tutela giuridica del nuovo contratto15.
E’ solo alla fine di questo processo che il legislatore potrà istituire un tipo contrattuale legale, dettando per esso una disciplina completa e vincolante.
Il processo di formazione del tipo legale presuppone, quindi, una tipicità sociale e una tipicità giurisprudenziale.
15 Xxxxxxxx, 1986, p. 360.
<<La vita degli affari ha elaborato il contratto di informazioni commerciali, cui la giurisprudenza ha ormai dato un nome. La tecnica delle agenzie di viaggio ha prodotto il contratto di viaggio o contratto turistico, ulteriormente tipizzato sa una convenzione tra Stati, che lo regola in quanto sia transnazionale. Le banche praticano uno sconto di cambiali, cui la giurisprudenza da il nome di contratto di sconto cambiario>>16, ecc.
Quanto all’atipicità, si noti che già il codice napoleonico adottò un principio generale di autonomia disponendo all’art. 1107 che le regole generali sul contratto sono applicabili anche ai contratti <<che non hanno denominazione propria>>.
Il codice francese influenzò profondamente il codice civile italiano del 1865: all’epoca, i contratti atipici costituivano un problema residuale, tanto che l’argomento non veniva ritenuto meritevole di un’autonoma trattazione.
Ma già negli anni ’30, sul tema, cominciano a rilevarsi contributi significativi, e ciò è dovuto essenzialmente al fatto che <<le vicende della vita
16 X. Xxxxx, in Xxxxxxxx P. (a cura di) Trattato di diritto privato, Utet, Torino 1997, p. 539.
economica collettiva, e più specialmente la sempre maggior complessità dei rapporti economici, cui è parallelo il mutarsi ed il progredire della tecnica degli affari, come creano nuovi bisogni, così suggeriscono nuove modalità per la loro soddisfazione, e determinano forme sempre nuove e diverse di quella collaborazione economica fra i soggetti che si attua col mezzo tecnico giuridico del contratto>>17.
Con l’entrata in vigore del nuovo codice, e quindi dell’art. 1322 2° co., il trattamento dei contratti ha subito una modificazione, perché, affianco del generale criterio di liceità, venne aggiunto un ulteriore controllo riservato ai contratti atipici, quello, cioè, della meritevolezza degli interessi perseguiti secondo l’ordinamento giuridico.
Oggi, la pratica commerciale evidenzia un vasto utilizzo dei contratti atipici.
Finora, la dottrina prevalente18 ritiene che la giurisprudenza non abbia effettuato controlli specifici sulla meritevolezza degli interessi perseguiti da questi contratti, sulla base di criteri
17 Osti 1938, p. 68.
18 Si esprimono in tal senso, tra i tanti, De Nova, Nuovi contratti, cit., pp. 331 ss.; X. Xxxxx, cit., p. 423; X. Xxxxxxx, I contratti atipici, in I contratti in generale, 1989, p. 6.
autonomi, e che abbia, spesso, limitato la propria indagine alla mera liceità, salvi i casi di manifesta contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume.
Xxxx, secondo un costante orientamento <<gli artt. 1322 e 1323 adempiono ad una funzione ben precisa: essi impediscono al giudice di dichiarare nullo un accordo pel solo fatto che esso non rientra in nessuno dei tipi specialmente previsti dalla legge>>19.
Molto spesso un contratto atipico presenta in sé elementi di un contratto tipico, a dimostrazione del fatto che il legame tra tipicità e atipicità è sempre molto stretto.
In questo caso il contratto atipico risulta parzialmente regolato con clausole tipiche.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, ha previsto che <<nei contratti atipici, ove la disciplina del rapporto è dettata principalmente dalle parti, qualora in un contratto associativo atipico venga pattuito il potere di esclusione di un associato con deliberazione adottata da tutti gli altri, in presenza di inadempimenti imputabili al primo, l’operatività della relativa clausola, quale
19 Xxxxx e De Nova, op. cit., p. 425.
espressione dell’intento delle parti di modellare la disciplina dello scioglimento del rapporto, rispetto all’escluso, sullo schema proprio dell’analogo istituto del contratto di società, deve essere riconosciuta anche quando le parti medesime non abbiano voluto trasformare detto rapporto associativo (atipico) in rapporto societario (tipico)>>20.
Quando però le modificazioni effettuate sono tali da oltrepassare il limite costituito dal rispetto della causa, significa che le parti, esercitando il potere lo attribuito e conferito dal 2° co. dell’art. 1322 c.c. hanno creato un contratto che non appartiene ad alcuno dei tipi aventi una disciplina particolare, e proprio perché è la mancanza di tale disciplina a contraddistinguerlo, esso resta atipico anche se in parte disciplinato dagli usi.
La questione più diffusamente affrontata da parte della dottrina, in relazione al contratto atipico, è relativa alla difficoltà di stabilire la natura, le modalità e i limiti del controllo sulla meritevolezza degli interessi.
Secondo l’opinione di Xxxxx, coerente con i principi del codice vigente, <<la liceità è bensì
20 Cass. 16.4.1991, n. 4032.
condizione necessaria, ma non condizione sufficiente di per sé sola a giustificare il riconoscimento del diritto. Per ottenere questo la causa deve rispondere anche ad un esigenza durevole della vita di relazione, ad una funzione di interesse sociale, che solo il diritto – attraverso l’apprezzamento interpretativo della giurisprudenza – e’ competente a valutare nella idoneità a giustificare positivamente la sua tutela>>21.
L’esigenza di un sindacato sul merito degli interessi perseguiti portò, in seguito, la dottrina ad affermare un giudizio improntato sui principi costituzionali e sulle norme comunitarie, facendo coincidere l’utilità sociale con il rispetto dell’ordine pubblico.
La giurisprudenza, invece, con particolare riguardo all’art. 3 della Costituzione, si è più volte espressa osservando che la parità di trattamento non può invadere la sfera di autonomia negoziale ed incidere sull’assetto economico che i privati hanno raggiunto in sede contrattuale22.
21 Betti 1950, p. 192.
22 Xxxxx xxxx., 00 giugno 0000, x. 00, xx XXX, 0000, II, p. 85;
Cass., Sez. U., 29 maggio 1993, n. 6030 e 6031, in Giust. Civ.,
La natura dell’interesse, in quanto meritevole di tutela è di difficile identificazione.
Tale indagine deve riferirsi all’utilità del nuovo contratto e perciò alla sua rilevanza ed apprezzabilità giuridica.
Il controllo deve essere mirato all’individuazione della causa giustificativa dell’operazione astrattamente considerata, la quale, mentre esiste per definizione nei contratti tipici, può mancare in quelli atipici.
Tuttavia, al di là della concreta difficoltà di individuare autonomamente la meritevolezza dell’interesse e il controllo di liceità, la giurisprudenza precisa che sul piano pratico il
<<contrasto con le norme imperative implica, prima che l’invalidità del negozio, la sua immeritevolezza di tutela […]. Una volta concluso con esito negativo il controllo di liceità, può apparire inutile passare all’altro, già bastando uno solo di essi a negare effetti giuridici al negozio>>23 Tuttavia la questione relativa alla meritevolezza degli interessi, tanto dibattuta in dottrina, non
1993, I, p. 2341; Cass., 11 novembre 1976, n. 4178, in Foro
it., 1977, I, p. 403.
23 Cass., 5 luglio 1971, n. 2091, in Foro it., 1971, I, p. 2195.
suscita la stessa attenzione in giurisprudenza, sempre più orientata a sovrapporvi il controllo di liceità ed, in particolare, a compiere l’operazione giuridica della tipizzazione del contratto atipico.
Ma entrando nel vivo del discorso, l’art. 1325 scompone il contratto, come noto, in quattro distinti “ requisiti essenziali”, che sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma.
Per concludere e perfezionare un contratto è necessario che siano rispettati detti requisiti essenziali, e proprio ai fini della sua validità: deve essere raggiunta una piena e totale coincidenza tra le dichiarazioni di volontà delle parti non solo sui punti essenziali, ma su ognuno dei suoi elementi, siano essi essenziali o secondari.
L’oggetto, che in quanto cosa o diritto che il contratto trasferisce da una parte all’altra oppure prestazione che una parte si obbliga ad eseguire a favore dell’altra,
deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile, come previsto dall’art. 1346 c.c.
Il principio generale del moderno sistema dei contratti è quello della libertà delle forme.
Abbandonato quasi totalmente (fatta eccezione per i contratti immobiliari, per le clausole
vessatorie ed altri casi espressamente previsti dalla legge) quel rigoroso formalismo che aveva caratterizzato il contratto in epoca anteriore alle codificazioni moderne, perché il contratto sia valido e produttivo di effetti, è sufficiente che la volontà delle parti si sia manifestata, non rilevando più il modo o la forma della dichiarazione.
La causa è la funzione economico-sociale del contratto, come la definiscono le relazioni preliminari al codice civile, e costituisce la
<<giustificazione della tutela dell’autonomia privata>>24., e un <<vincolo al potere della volontà individuale>>25.
Il bene e il diritto non si trasferiscono e l’obbligazione non sorge se nel contratto manca la causa, la sua giustificazione economico-sociale.
Così dall’art. 1470 si evince che funzione economico-sociale della vendita è lo scambio della cosa con il prezzo: in questo contratto tipico la proprietà della cosa si trasferisce attraverso la sussistenza e la combinazione sia della comune e coincidente volontà dei contraenti, requisito soggettivo, sia attraverso l’ulteriore fatto che al
24 Relazione del guardasigilli al re, nn. 8, 79.
25 Relazione del guardasigilli al re, nn. 193-94.
passaggio del bene dal venditore al compratore corrisponde l’obbligo di quest’ultimo di pagarne il prezzo.
Nel contratto di donazione (art. 769), per esempio, la causa è lo spirito di liberalità che si concretizza nel dare o nel promettere di dare a titolo gratuito. Così, ancora, causa della permuta (art. 1552) è lo scambio di cosa con cosa, e del contratto di lavoro (art. 2094), è lo scambio della prestazione del lavoratore contro la retribuzione in denaro per il lavoro eseguito.
Questa concezione della causa in senso oggettivo, quindi come funzione economica del contratto, è dominante in giurisprudenza come in dottrina a partire dagli anni ’60.
La Corte di Cassazione ne dà una chiara descrizione nella sentenza n. 1244 del 18 febbraio 1983, definendola come <<la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e che il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata>>.
I contratti tipici, in quanto regolati e disciplinati direttamente dalla legge, hanno dunque tutti una causa (tipica).
Tali contratti sono tipici perché il legislatore ha già svolto un controllo preventivo sulla liceità e meritevolezza della causa di ciascuno di essi.
Non si pone, quindi, per essi, il problema di accertare la sussistenza di una funzione economico-sociale, in quanto tale questione è già stata risolta positivamente nel momento in cui il legislatore li ha inseriti e regolati nel codice civile, nella categoria dei contratti tipici.
Il problema si pone successivamente quando si tratta di accertare se alla base dell’operazione economica voluta dalle parti ci sia o meno una causa conforme a quella tipica del modello astratto.
Un caso di scuola è quello dell’acquisto di cosa propria, dove la funzione dello scambio, pur presente nel modello legale e astratto della vendita, non ha avuto modo di esplicarsi poiché il compratore non riceve nulla in cambio del presso e di conseguenza il contratto è nullo ai sensi dell’art. 1418, che indica le cause di nullità del contratto, e 1325, che ne indica i requisiti essenziali.
In questo caso, nonostante sia tipico, il contratto è nullo per mancanza di causa. A tale riguardo la Cassazione ha disposto che <<la causa, posta
direttamente dalla norma per ciascun contratto tipico, deve essere presente anche nel contratto tipico concretamente posto in essere, il quale deve avere una funzione concreta che corrisponda ad una delle funzioni tipicamente ed astrattamente determinate>>26.
Lo stesso vale , per esempio, per la fideiussione quando manchi in concreto il debito garantito, e così pure per l’assicurazione senza rischi oppure per la novazione in caso di inesistenza dell’obbligazione originaria.
Per essi il giudice è chiamato ad accertare, in applicazione dell’art. 1322, comma 2°, se <<siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico>>, dovrà quindi individuare in che cosa consista l’accordo tra le parti , il loro scopo e accertare se il modello concreto di operazione economica non previsto dalla legge sia conforme ai principi dell’ordinamento.
Nei contratti atipici la causa può mancare quando la volontà dei privati si indirizza verso uno scopo non meritevole di tutela, per esempio quando gli interessi perseguiti risultano futili o
26 Cass. 23 maggio 1987, n. 4681 in GI, 1988, I.
inidonei a far sorgere un vincolo giuridico, come accade nelle obbligazioni naturali.
Il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2°, diventa in questo modo il passaggio obbligato per l’immissione di contratti atipici nell’ordinamento giuridico
Al riguardo la giurisprudenza e la dottrina sono concordi con le considerazioni sviluppate nella relazione al re, secondo cui <<in ogni singolo rapporto deve essere deve essere controllata la causa che in concreto il negozio realizza, per riscontrare non solo se essa corrisponda a quella tipica del rapporto, ma anche se la funzione in astratto ritenuta degna dall’ordinamento possa veramente attuarsi, avuto riguardo alla concreta situazione sulla quale il contratto deve operare>>27.
La giurisprudenza ha poi espresso il proprio punto di vista dichiarando che <<è chiaro che la causa nei negozi tipici, previsti, ammessi e disciplinati dal legislatore, non può per definizione che essere lecita; e che quindi, allorché il legislatore (artt. 1343, 1418 c.c.) parla di contratti affetti da nullità per illiceità della causa, intende la
causa in senso diverso da quello oggettivo sopra delineato, cioè in senso almeno prevalentemente soggettivo, quale scopo e intento comune ai contraenti di usare, o meglio dire, di abusare della funzione strumentale del negozio tipico, per conseguire o tentare di conseguire una modificazione della situazione giuridica preesistente, non ammessa dall’ordinamento giuridico.
Riprovando tale intento, ad esso la legge reagisce attraverso la sanzione di nullità. Nei negozi o contratti atipici o innominati, poi, il concetto di causa di per sé si avvicina, se pure non identifica, con il concetto dell’intento comune delle parti di ottenere una modificazione della situazione giuridica preesistente, intento che il legislatore protegge in via generale, soltanto quale lecita premessa perché socialmente utile, espressione dell’autonomia contrattuale; cosicché ove il legislatore riprovi, invece, quella modifica cui le parti tendono, la causa è direttamente illecita, e come tale, non può trovare protezione nell’ordinamento giuridico>>28.
28 Cass. 29.4.1961, n. 985, in Foro it., 1962, I, p.765.
Tale orientamento aderisce alla previsione della nullità del contratto, indifferentemente tipico o atipico, per difetto di causa espressamente indicata negli artt. 1418 e 1325 c.c., ed è stata ribadita dalla giurisprudenza che ha affermato che <<si ha mancanza di causa, che invalida il contratto, quandola funzione tipica di questo è impedita ab origine oppure quando i contraenti, pur dichiarando di voler un dato negozio, non prevedono o deliberatamente escludono un elemento essenziale al tipo prescelto. In tema di compravendita può parlarsi di mancanza di causa se nessun prezzo è voluto dalle parti, ma non se il compratore non paga il prezzo pattuito: in tale ipotesi il rimedio esperibile è la risoluzione per inadempimento e non già la mancanza di causa>>29.
Il problema della illiceità della causa (art. 1343) non ha ragione di porsi in astratto nei contratti tipici, in caso contrario si parlerebbe per assurdo di illegalità della causa legale, mentre nel contratto concreto ricondotto al modello legale la causa potrebbe essere illecita se il contratto persegue fini diversi da quelli ammessi.
29 Trib. Messina 18.8.1961, in GS, 1962, p. 68.
Il 1° comma dell’art. 1322 c.c., sancisce il principio generale, riferito essenzialmente ai contratti tipici, della libertà dei privati di determinarne il contenuto con un limite di liceità, il che significa che i contraenti hanno il potere di modificare la disciplina legale particolare del contratto tipico quando essa non abbia carattere imperativo.
Il 2° comma dello stesso articolo, riguardante soltanto i contratti innominati, sancisce la libertà dei privati di inventare ab origine figure contrattuali nuove, non prefissate, ma in questo caso il controllo dell’ordinamento è diretto a verificare se gli interessi perseguiti con il contratto atipico sono meritevoli di essere tutelati, requisito garantito in astratto dalla causa del modello atipico. L’ulteriore prova sulla dignità e utilità economica della causa atipica è illustrata chiaramente nella relazione al codice: <<un controllo della corrispondenza obbiettiva del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali legislativamente nominati e specificatamente disciplinati: in tal caso la corrispondenza stessa è apprezzata e riconosciuta
dalla legge col disciplinare il tipo particolare di rapporto e resta allora da indagare se per avvenuta la causa considerata non esista in concreto o sia venuta meno; quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo mancato il controllo preventivo e astratto della legge sulla rispondenza del tipo nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valutazione del rapporto da parte del giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico>>30.
Questo potere di controllo sull’autonomia contrattuale non è ugualmente attribuito al giudice a protezione degli interessi pubblici, funzione riservata dalla legge all’autorità governativa.
Sulla scia del consolidato indirizzo che considera la causa un elemento essenziale per tutti i contratti, la cui mancanza rende nullo il contratto concreto, la Cassazione si è trovata a dirimere controversie in ordine alla validità di accordi aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di un bene immobile senza che da ciò risultasse la expressio causae dell’attribuzione patrimoniale.
30 Rel. Min. c.c., n. 603.
E’ stato ribadito che <<la semplice e unilaterale attribuzione patrimoniale non può in alcun caso assurgere a causa giuridica del negozio, in quanto non consente di verificarne lo scopo e di stabilirne, di conseguenza, la rilevanza socio-economica e, in ultima analisi, la liceità; ne consegue che il contratto col quale si trasferisca ad altri un bene, senza specificazione del titolo di tale trasferimento non è assumibile, perciò, nella nozione di contratto atipico e resta, quindi un atto nullo per mancanza di causa>>31.
Un’altra causa di nullità è prevista nell’art.1418 2° co., il quale indica tre ipotesi distinte: illiceità della causa, illiceità dell’oggetto e illiceità dei motivi.
<<Il concetto di illiceità esprime una contraddizione del contratto all’ordinamento giuridico più forte di quella espressa dalla sua contrarietà a norme imperative<<32.
L’art. 1343 c.c., riferendosi alla causa, ne prevede l’illiceità quando essa è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.
31 Cass. 20.11.1992, n. 12401, in Giust. civ., 1993, I, p. 2759.
32 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 286.
Così, anche in riferimento al contratto di lavoro, la illiceità della causa è stata ravvisata quando le parti <<con l’uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario alle norme imperative o all’ordine pubblico – alle norme fondamentali e generali, cioè ai principi basilari pubblicistici dell’ordinamento – ovvero al buon costume>>33.
L’illiceità della causa si differenzia da quella dell’oggetto, in quanto investe non la cosa o la prestazione dedotta nel contratto, ma la funzione del contratto stesso. Il contratto con il pubblico funzionario, perché compia, verso corrispettivo in denaro, un atto contrario ai suoi doveri, è nullo per illiceità dell’oggetto; il contratto con lo stesso ufficiale perché compia, sempre verso corrispettivo un atto rientrante tra le sue mansioni, è nullo per illiceità della causa in quanto è illecito ricevere danaro per quella prestazione da parte del funzionario34.
Un’altra ipotesi di illiceità della causa è considerata quella dei contratti conclusi in frode alla legge (art. 1344).
33 Cass. 11.1.1973, n. 68, in FP, 1974, I, p. 115.
34 X. Xxxxxxx 1993, p. 291.
E’ considerato in frode alla legge, il contratto che costituisce <<il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa>>.
L’aspetto causale, rispetto a tutti i contratti, assume un valore diverso nei contratti tipici solo in astratto, nel senso che l’appartenenza di questi ad un modello legale assicura di per sé la giustificazione sociale e giuridica dell’operazione economica, salvo che essa sia ab origine, irrealizzabile, o che persegua interessi disapprovati dall’ordinamento giuridico, ipotesi che la rendono in concreto assente o illecita.
Nei contratti atipici, invece, mancando una previsione legale, spetta al giudice il doppio compito di controllare la dignità sociale e la liceità. Pertanto, è la causa concreta che deve essere considerata per stabilire, o provare a stabilire, se
un contratto è tipico o atipico.
La più antica giurisprudenza si accontentava di constatare se un contratto atipico violasse o meno qualche norma di legge, più di recente si è giunti a non trascurare mai l’intento pratico perseguito dalle parti confrontandolo con la funzione astratta del contratto tipo.
Infatti, la giurisprudenza ha precisato che <<pur non ripudiandosi il concetto astratto ed obbiettivo di causa come funzione economico-sociale del negozio, funzione posta direttamente dalla norma per contratto tipico e presente pur nei contratti atipici attraverso il limite della rispondenza concreta ad una delle funzioni astratte degne di tutela secondo l’ordinamento, devesi però ammettere che tale funzione non deve rimanere nel limite dell’astrattezza, ma deve essere presente anche nel contratto, pur tipico, concretamente posto in essere: quest’ultimo cioè deve avere una funzione concreta, obbiettiva, che corrisponda ad una delle funzioni tipicamente ed astrattamente determinate, come nell’ipotesi del contratto atipico la causa creata dalle parti deve rientrare in una delle funzioni degne di tutela>>35.
Sulla stessa linea, la Cassazione torna ad occuparsi della questione della causa del contratto di leasing, precisando che <<l’intento rilevante nel contratto di leasing è quello tenuto presente dalle parti al momento della stipulazione del contratto e che, se le parti hanno preso in considerazione la funzione traslativa, questa ben può influenzare la
35 Cass. 11.1.1973, in FP, 1974, I, p. 115.
causa del contratto in quanto la causa, per quanto sia da considerare obiettivamente, opera secondo la volontà delle parti e non indipendentemente da questa>>36.
La contrapposizione tra contratti tipici e contratti atipici trova fondamento nella stessa disciplina codicistica del contratto.
Il legislatore ha infatti operato una precisa distinzione tra l’insieme delle regole relative ai “contratti in generale” (titolo II del libro IV) e quelle relative unicamente ai “singoli contratti” (titolo III del libro IV), dettando poi per ciascuno di essi una regolamentazione particolare.
Questa differenziazione trova puntuale riscontro negli articoli 1322, 2° co., e 1323 c.c.
A prima vista la contrapposizione non sembra creare particolari difficoltà, in quanto per contratti tipici si intendono anzitutto i “singoli contratti” che trovano nel codice, principalmente nel titolo III del libro IV (ma vari contratti sono regolati altrove, nel libro II come la donazione o nel IV come il contratto di lavoro, il contratto di società, il contratto d’opera, ed altri ancora in leggi speciali
come il contratto di edizione37), la loro disciplina particolare; e per contratti atipici, i contratti che le parti possono stipulare liberamente in base al principio di autonomia, a condizione che tali contratti siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e che sono disciplinati dalle norme generali contenute nel titolo II.
In realtà, invece, questo sistema lascia nell’ombra alcuni aspetti problematici e di non sempre agevole soluzione.
Infatti: la qualifica di un’operazione contrattuale come rientrante in un “tipo” piuttosto che in un altro comporta l’applicazione di una diversa disciplina, con la conseguenza di attribuire differenti naturalia negotii , cioè <<tutti quegli effetti che, pur non dipendendo direttamente dalla volontà delle parti, si reputano conseguenti a tale tipo di contratto, finché le parti non li abbiano esclusi. Ascrivere un contratto ad un tipo piuttosto che ad un altro significa in buona sostanza attribuirgli questi piuttosto che quegli altri naturalia>>38.
Inoltre alcuni tipi di contratti presentano caratteri generali estremamente ampi, tanto che il legislatore ha previsto all’interno degli stessi ulteriori figure, convenzionalmente denominate “sottotipi”, tra cui, per esempio, in tema di vendita, ha creato <<sottotipi della vendita di cose mobili, con riserva di gradimento, a prova, a campione, con riserva della proprietà, su documenti, con pagamento contro documenti, a termine, di titoli di credito, di cose immobili, di eredità>>39.
Innanzitutto è necessario chiarire la natura della relazione tra diritto generale e diritto speciale.
A tale proposito è da rilevare che le norme speciali, in quanto tali, sussistono solo se sussistono quelle generali; la norma speciale è tale solo se viene posta in relazione ad una norma generale che ne determina l’ambito.
<<L’attributo della specialità deriva da un giudizio di comparazione tra due norme. Isolatamente considerata, nessuna norma può dirsi speciale>>40.
Il legislatore del 1942 ha adottato per la regolamentazione dei contratti esattamente questo
39 Clarizia, I contratti di finanziamento, 1988, p. 2.
40 Irti 1979, p.43.
sistema, da cui risulta evidente la combinazione tra norme sui contratti in generale, comuni a tutti i contratti e che si applicano a ciascuno di essi, e le norme sui singoli contratti, valide solo per i contratti cui si riferiscono, <<per il che il primo gruppo costituisce un indispensabile, anche se non sempre avvertito, presupposto del secondo gruppo>>41.
La locuzione “norme generali”, secondo l’insegnamento tradizionale, indica norme comuni,
<<tali cioè da apparire suscettibili di essere applicate ad ogni singolo contratto in concreto: epperò in concorso (e non in antitesi) con le norme particolari, che sono, invece, dettate ratione materiae; e in tale ultimo significato, quella locuzione sta sul medesimo piano normativo di queste ultime. […]; Infatti la disciplina giuridica di ogni singolo contratto poggia su un corrispondente substrato, che è di natura economica e dà l’impronta della finalità (o funzione) di esso>>42.
Dunque la disciplina dei contratti tipici risulta dalla combinazione delle regole generali, che
41 Messineo, op. cit., p. 787.
42 Ibidem.
costituiscono una sorta di reticolato normativo fermo e rigido nei suoi elementi costitutivi, con quelle specifiche di ciascun contratto, che rispondono all’esigenza evolutiva della materia attraverso la ricezione del nostro ordinamento di nuove figure contrattuali43.
Nel delineare la disciplina dei contratti tipici bisogna peraltro registrare la tendenza a non riconoscere più carattere speciale alle norme sui singoli contratti, non operando così il divieto
43 Quanto esposto finora vale quasi sempre ci sono casi, infatti, che si discostano dalla disciplina tradizionale e che si comportano diversamente. Può avvenire che norme dettare per i singoli contratti risultino applicabili a più tipi: un esempio riguarda la garanzia decennale a carico dell’appaltatore (art. 1669), estesa dalla giurisprudenza al costruttore e al venditore. Anche la disciplina generale dei contratti può contenere norme applicabili solo a sottocategorie, per esempio le norme sulla risoluzione valgono solo per i contratti a prestazioni corrispettive (art. 1463 ss.), oppure norme generali limitate da formule che le circoscrivono ai casi in cui esse sono consone alla “normale natura dell’affare” (art. 1327 c.c.). Quando una fattispecie concreta presenti elementi astrattamente riconducibili sia ad una norma generale, sia ad una norma relativa al singolo contratto, quando sussistono i presupposti per l’applicazione della disciplina particolare, è quest’ultima che si applica, non la disciplina generale, in applicazione del principio che le norme speciali derogano a quelle generali che hanno in questi casi una funzione meramente sussidiaria e residuale. Tuttavia non è detto che le due norme siano sempre in conflitto, può infatti accadere che si integrino a vicenda, formando una nuova norma che risulta dalla combinazione di entrambe.
generale previsto dall’art. 14 disp. prel. c.c., riguardante l’inapplicabilità analogica delle norme relative a singoli contratti, con la conseguenza che le norme dettate per un tipo possono essere applicate anche ad un contratto diverso.
A questo punto si aprono molteplici possibilità, ed infatti <<e’ forte la tentazione di applicare al contratto d’opera la disciplina, pur eccezionale, dell’appalto. E’ forte la tentazione di applicare al contratto atipico la disciplina, anche eccezionale, al tipo affine, piuttosto che la norma di parte generale>>.44.
Per quanto riguarda i contratti atipici, l’indicazione fornita dall’art. 1323 c.c. (secondo cui a tale contratti si applica la disciplina dettata nel titolo II), non è da sola in grado di esaurire la questione, anche a causa del fatto che <<il contratto atipico, cui applicare le sole regole generali contenute negli artt. 1321 - 1469 del codice civile, non ha mai fatto apparizione in un ufficio giudiziario!>>45.
44 De Nova, op. cit.,p. 332.
45 Sacco e De Nova, op. cit., p. 425.
La necessità di ampliare e di integrare la disciplina del contratto in generale è sempre stata chiara alla dottrina, e già nel codice abrogato, per supplire a questa mancanza, si evidenzia l’alternativa del c.d. “assorbimento” del contratto atipico nel contratto tipico che contenesse il maggior numero di elementi comuni, e la tecnica della “combinazione” delle discipline dei vari contratti tipici di cui il contratto tipico riproducesse le caratteristiche qualificanti.
Le sopra citate posizioni sono state oggetto di numerose critiche e riserve, e soprattutto non sono state in grado di proporre un criterio esaustivo e coerente al problema.
In conclusione, <<il lineare rapporto tra parte generale sul contratto e parte speciale sui singoli contratti, che leggiamo nell’art. 1323 c.c. non è mai stato rispondente al diritto positivo, e tantomeno lo è oggi, di fronte ad una indubbia frammentazione della figura del contratto e ad un palese tendenza centrifuga verso discipline di singoli contratti sempre più lontane dalla disciplina generale>>46.
46 De Nova, Il tipo contrattuale, 1994, UTET, p. 9.
Emerge, da tali considerazioni, che una parte della dottrina considera il rapporto tra parte generale e parte speciale non più chiaro e lineare ma quasi una sorta di analitica regolamentazione non rispondente alle esigenze della società moderna. Un'altra parte, al contrario, non considera un <<utile approccio al tema un impostazione che privilegi il dato meramente economico e sociologico. […] La creazione di una parte generale e la sua teorizzazione non significano affatto negazione delle eterogeneità che corrono, che devono correre, nella disciplina di situazioni economicamente irriducibili>>47.
3. Gli usi normativi e gli usi negoziali: loro interferenza nella formazione del contratto
Ma il contenuto del contratto non è solo, come disciplinato nell’art. 1321 c.c., frutto dell’accordo delle parti, ma piuttosto il risultato della interazione di una pluralità di fonti.
Il codice civile esprime questa pluralità di fonti nel contratto , e all’art. 1374 enuncia il generale
principio secondo il quale <<il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità>>.
Vengono quindi indicate quattro fonti del regolamento contrattuale.
A differenza dell’integrazione legale che, operando in forza si una norma imperativa, sostituisce una clausola difforme con la legge, l’integrazione mediante gli usi presuppone una carenza nel regolamento, voluta o non voluta dalle parti.
Secondo la Cassazione48, il giudizio sulla sussistenza della lacuna appartiene al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità.
L’art. 1374 non è l’unica norma che pone gli usi in rapporto con il contratto: secondo l’art. 1340
c.c. <<le clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti>>, inoltre secondo l’art. 1368 c.c. <<le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso>>, salvo che una delle parti sia un
48 Cass. 26.9.1977, n. 4093, in Foro It., 1977, I.
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imprenditore, nel qual caso il comma 2° dispone che vale <<ciò che in pratica generalmente nel luogo in cui ha sede l’impresa>>.
Ancora, l’art. 1362 dispone che per la ricostruzione della comune intenzione delle parti è necessario andare oltre il significato letterale delle parole contenute nel contratto, ma occorre<<valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto>>.
L’art. 1340 c.c. prevede l’integrazione del contratto mediante <<clausole d’uso>>, cioè usi negoziali che per il fatto di essere comunemente applicati in un certo luogo, per un determinato tipo di affari, presentano il carattere della generalità proprio dell’uso, prescindono dai requisiti (generalità e opinio iuris ac necessiatis) propri degli usi normativi, obbligano le parti anche se da esse ignorati e prevalgono sulle stesse norme di legge aventi carattere dispositivo, sempre che siano idoneamente provati49; gli usi negoziali sono un mezzo d’interpretazione della volontà dei contraenti ambiguamente espressa, e d’integrazione della medesima con le clausole che,
49 Cass. 19.4.1980, n. 2853, in Giur. It., 1981
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abitualmente praticate nella zona, si presumono volute dalle parti50.
Presupposto per l’applicazione di tali clausole, è la presenza di una lacuna nel contratto, intesa sia con riferimento a vuoti di regolamentazione da parte della legge, sia a vuoti di contenuto da parte dell’autonomia privata.
L’inserimento delle clausole d’uso non avviene quando le parti, pur non avendo previsto clausole aventi lo stesso contenuto, non le hanno volute, cioè ne hanno escluso l’operatività: se la volontà delle parti si è manifestata solo in tale senso negativo, la lacuna permane ma diviene allora applicabile la regola del diritto dispositivo.
Le clausole d’uso trovano applicazione anche se
non conosciute dalle parti.
Si tratta di un’integrazione oggettiva, non fondata sulla conoscenza o sulla volontà dei contraenti di avvalersene e che opera sulla base della mancata esclusione: il contenuto dell’accordo si determina infatti alla luce dell’esperienza e della pratica negoziale di un certo settore d’affari.
Nello svolgimento dell’attività commerciale, le contrattazioni diventano sempre più sollecite e
50 Cass. 1958, n. 3267, in Giust. civ., 1969.
frequenti, e richiedono una maggiore semplificazione. Per cui, per evitare che i contraenti debbano ripetere ogni volta tutte le pattuizioni ormai consolidatesi come pratica corrente, si considerano automaticamente inserite nel contratto le clausole d’uso relative al contratto in questione.
Nessun problema si pone quando l’uso non contrasta con la norma di legge ma ne specifica il contenuto.
Il problema sorge, invece, quando l’uso negoziale contrasti con il diritto positivo, nel qual caso la dottrina è giunta a riconoscere la prevalenza degli usi. Il fondamento di detta deroga risiede nello stesso art. 1340 c.c., che ha conferito una certa elasticità alla disciplina dei contratti, consentendo di colmare le eventuali lacune con le clausole che nascono dall’esperienza di un dato ramo del mercato, e che per questo risultato particolarmente adatte a regolare gli interessi dei contraenti.
Quindi l’uso negoziale, come anche l’atto di autonomia privata, può derogare alla norma dispositiva, a differenza dell’uso negoziale deve essere data dalla parte che ne chiede l’applicazione, in base al principio generale
contenuto nell’art. 2697 c.c.; al contrario l’uso normativo beneficia del principio iura novit curia, e deve essere applicato d’ufficio dal giudice anche in assenza di prova della parte. Anche sotto tale profilo è possibile quindi individuare una differenza tra usi negoziali ed usi normativi.
L’esistenza dell’uso è chiaramente esclusa nel caso di <<complesse ed elaborate disposizioni>>, che a volte <<scoprono assai ingenuamente la loro natura di pure e semplici condizioni (clausole) contrattuali unilateralmente redatte, e proposte a più o meno ignari e consenzienti contraenti>>51.
Comunque, <<qualora l’esistenza di un determinato uso negoziale od interpretativo venga provata mediante l’esibizione della raccolta ufficiale della camera di commercio, il giudice del merito non può ritenere operante un uso di contenuto diverso, in base alla generica notorietà del medesimo, occorrendo, a tal fine, una dimostrazione concreta e rigorosa, idonea a contrastare l’efficacia probatoria di detta raccolta>>52.
51 Scialoja, Natura ed efficacia di c.d. usi Cotonieri, p. 365.
52 Cass. 26.9.1977, n.4093, in Riv. dir. comm., 1978, II
La prova degli usi deve essere fornita con riferimento a clausole determinate, di conseguenza si tende ad escludere che intere regolamentazioni possano essere considerati usi negoziali.
L’esclusione delle clausole d’uso può avvenire sia espressamente, mediante una manifestazione di volontà contraria, sia tacitamente, nel qual caso occorre fare riferimento al comportamento delle parti, durante la trattativa o successivo alla conclusione del contratto.
Per quanto riguarda la forma di tale esclusione, si ritiene che, nel silenzio della legge, essa non debba necessariamente essere espressa, ma che possa anche risultare implicitamente per l’incompatibilità delle clausole d’uso con la regolamentazione e lo scopo del contratto.
Molto discusso è il problema dell’applicabilità della disciplina dettata per le clausole vessatorie alle clausole d’uso.
Si tratta di stabilire se il requisito della specifica approvazione, previsto dall’art.1341, comma 2° c.c., per le clausole vessatorie contenute nelle condizioni generali del contratto debba valere anche per gli usi negoziali che rivestano le caratteristiche proprie delle clausole vessatorie.
Per la giurisprudenza <<la clausola contrattuale, che preveda la regolamentazione del rapporto secondo una determinata raccolta di usi (nella specie, usi di vendita dei filati, editi dall’associazione cotoniera italiana), è idonea a rendere applicabili tali usi, senza che possa richiedersi, nel caso di onerosità del loro contenuto, la specifica approvazione per iscritto contemplata dall’art. 1341, riguardando questa norma la diversa ipotesi delle condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti>>53.
Parte della dottrina ha sottolineato la sostanziale affinità esistente tra gli usi negoziali e la disciplina dell’art. 1341, comma 2° c.c., in relazione alla stessa predisposizione “in xxx xx xxxxx” xxxxx xxxxxxxx xxxxxxxxxx, xxxxxx nell’ipotesi in cui l’aderente sia estraneo ad un determinato campo del mercato, come accade nei rapporti tra operatori economici e consumatori.
Appare in questi casi evidente la necessità di tutelare il consumatore <<giacché il contenuto della clausola e l’unilateralità della sua formazione da parte della categoria di mercato interessata impongono una espressa valutazione della clausola
53 Cass. 14.3.1986, n.1729, in Foro it., 1986, II
da parte dell’aderente>>54, soprattutto se l’inserimento dell’uso determina un regolamento d’interessi sfavorevole per una delle parti.
Il carattere vessatorio di una clausola viene individuato in base alla combinazione di previsioni di carattere generale, il significativo squilibrio e la buona fede, con previsioni specifiche, come l’elenco di clausole vessatorie malgrado trattativa.
L’art. 1469-bis c.c. qualifica come vessatorie le clausole, contenute in un contratto in cui l’imprenditore e/o il professionista venda beni x xxxxxx servizi al consumatore aderente, che,
<<malgrado la buona fede, determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto>>55.
Il quarto comma dell’art. 1469-ter c.c. indica come ulteriore presupposto per l’applicazione della disciplina di tutela del consumatore, l’assenza di una trattativa individuale.
Pertanto una clausola contrattuale inserita in un contratto concluso tra un professionista ed un
54 Inzitari, L’impresa nei rapporti contrattuali, p. 360.
55 La stessa Relazione al codice civile, al paragrafo n. 612 stabilisce che <<è dominata dall’obbligo di correttezza e da quello di buone fede (in senso oggettivo) la materia delle trattative contrattuali e quella concernente i contratti per adesione>>.
consumatore, anche quando determini uno squilibrio normativo, non potrà essere considerata vessatoria se sia stata oggetto di trattativa individuale.
La giurisprudenza è particolarmente attenta e copiosa riguardo al rapporto di lavoro subordinato. Gli usi aziendali sono riconducibili non alla figura degli usi normativi previsti agli artt. 1, 4 e 8 preleggi, bensì a quella degli usi negoziali, di cui all’art. 1340 c.c.
A seguito di numerose pronunce, di segno non univoco, la più recente giurisprudenza ha operato un revirement: si consideri infatti, nel caso di specie, che l’uso aziendale di licenziare i dipendenti alla scadenza del sessantesimo anno di età, se uomini, e al cinquantesimo anno, se donne, ha carattere di uso negoziale, non già di uso normativo56.
Il comportamento tenuto da un singolo datore di lavoro, se spontaneamente tenuto nel tempo in relazione ad una determinata collettività di lavoratori, si qualifica come uso aziendale e fa sorgere delle obbligazioni soltanto nei confronti dei soggetti, già parte del rapporto, ossia dei lavoratori
56 Cass. 17.2.1978, n. 782, in Riv. giur. lav.,1978, II, p. 504.
già occupati, e non anche nei confronti, per esempio, dei lavoratori futuri, con i quali, viceversa, il datore potrà stipulare accordi differenti, senza che su di essi possano prevalere i diversi e più favorevoli usi aziendali.
Questi ultimi invece, limitatamente ai lavoratori già occupati, si inseriscono nei contratti individuali di lavoro come clausole più favorevoli, con la conseguenza di rimanere immutati nonostante le eventuali modificazioni in peius introdotte da accordi o contratti collettivi successivi, a meno che i suddetti lavoratori non li ratifichino anche solo con un comportamento concludente.
La manifestazione di volontà della parte contraria all’inserimento nel contratto di clausole d’uso non ha effetto se interviene dopo la conclusione del contratto, che, una volta formatosi, non può essere modificato ad opera di uno solo dei contraenti.
Di conseguenza, la disciplina risultante dall’integrazione del contratto di lavoro con l’uso aziendale non può essere successivamente modificata in peius per i lavoratori da atti unilaterali del datore di lavoro.
Gli usi aziendale, in quanto usi negoziali, svolgono una funzione integrativa del contratto anche se ignorati dalle parti, e non possono in alcun caso consistere in comportamenti reiterati in contrasto con la volontà di una delle parti.
La Corte Suprema ha cassato la pronuncia del giudice di merito il quale aveva ritenuto l’esistenza di un uso aziendale, per il fatto che una gratifica annuale era stata ripetutamente erogata ai dipendenti senza prima accertare se tale erogazione unilateralmente disposta dal datore di lavoro fosse limitata nel tempo o fosse condizionata alla concreta situazione economica aziendale57.
L’uso aziendale deve sempre contenere l’intento negoziale di regolare aspetti del rapporto di lavoro. Le Sezioni Unite, investite della risoluzione del contrasto di giurisprudenza manifestatosi rispetto alla formazione degli usi aziendali – riconducibili alla categoria di quelli negoziali o di fatto, che, in quanto tali, si distinguono dagli usi normativi, caratterizzati dal requisito soggettivo della opinio iuris ac necessitatis, e sono suscettibili di inserzione automatica, come clausola d’uso, nel contratto individuale di lavoro, con idoneità a derogare
57 Cass. 22.7.1987, n. 6392, in Foro it.,1987,I.
soltanto in melius, la disciplina collettiva – rileva il mero fatto giuridico della reiterazione del comportamento considerato, purché provvisto del requisito della spontaneità, la cui sussistenza deve risultare a posteriori.
Ciò può avvenire esclusivamente attraverso l’apprezzamento globale della prassi già consolidata, senza che possa aversi riguardo all’atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui questa si compone e con la conseguenza che alla formazione suddetta risulta di ostacolo l’obbiettiva esistenza di un obbligo giuridico pregresso – incompatibile con la spontaneità della prassi, quale che sia il convincimento soggettivo in ordine all’obbligo medesimo -, a prescindere da qualsiasi scrutinio circa l’intento sotteso a ciascuno degli atti reiterati, restando, quindi, irrilevante che si tratti o non di un comportamento con intento negoziale58.
Risulta non sempre agevole il coordinamento tra le clausole d’uso previste dall’art. 1340, con gli usi normativi, disciplinati nell’art. 1374.
Una parte della dottrina individua, come criterio distintivo, il fatto che le clausole d’uso concorrono
58 Cass. 30.3.1994, n. 3134, in Foro it., 1994, I, p. 2114.
a determinare il contenuto del contratto, e quindi l’integrazione del contratto ex art. 1340 c.c. attiene alla fase di formazione del contenuto; mentre gli usi normativi di cui all’art. 1374 c.c. operano rispetto ad un contratto già formato, integrandone, insieme alla legge ed all’equità, gli effetti.
L’uso negoziale può derogare al diritto positivo, così come possono anche le pattuizioni delle parti in base al principio dell’autonomia contrattuale, grazie all’elasticità che in tal modo si attribuisce alla materia contrattuale.
La funzione dell’art. 1374 c.c. è invece quella di completare il quadro degli effetti relativi al contratto.
Infatti opera in questi casi il principio di eterointegrazione del contratto, per cui l’eventuale esistenza di lacune eliminabili ricorrendo alla legge, agli usi ed all’equità non esclude la perfezione del contratto <<in quanto i contraenti abbiano manifestato una valida volontà di ritenersi vincolati in relazione agli elementi essenziali già concordati>>59.
59 Cass. Sez. Un., 27.11.1963, n. 3044, in Giust. civ., 1964, I,
p. 27.
Gli usi normativi servono ad integrare gli effetti del contratto inserendosi automaticamente, e ciò indipendentemente da specifici riferimenti dei contraenti.
Gli usi espressamente richiamati dalla legge acquistano, per effetto del richiamo, forza di legge tra le parti.
4. La tipizzazione del contratto atipico: il ruolo della giurisprudenza
La questione della ricerca di una specifica disciplina del contratto innominato, non pienamente risolta dall’art. 1323 c.c., si converte in una questione di metodo finalizzata alla fissazione del criterio e dei limiti in base ai quali sia possibile qualificare la fattispecie concreta. L’art. 12 disp. prel. c.c., fornisce il criterio guida dell’analogia per colmare le lacune dell’ordinamento. Ed è infatti all’analogia che secondo la dottrina60 occorre far riferimento alla
60 Per esempio Xxxxxxxx, Il contratto atipico, Milano, 1992, p. 109; Xxxxxxx, Le obbligazioni e i contratti, vol. I, UTET, Torino 1988, p. 419.
ricerca di una disciplina particolare per un contratto innominato che presenti somiglianze con un contratto tipico. Somiglianza che non è difficile da riscontrare se si considera che il legislatore ha già disciplinato una pluralità di tipi corrispondenti alle fondamentali funzioni economiche realizzabili mediante contratto, cosicché il contratto atipico non costituisce mai un corpo estraneo al sistema tipizzato.
Il richiamo all’analogia da parte della giurisprudenza è stato di rado considerato: al riguardo spicca la decisione secondo cui <<ai sensi dell’art. 1322 c.c. è consentito alle parti e alla loro autonomia negoziale, di dare vita anche a negozi atipici purché meritevoli di tutela e non, quindi, in contrasto con la legge, l’ordine pubblico e il buon costume. A detti negozi, in mancanza di un’espressa previsione negoziale, sono applicabili, in via analogica, le disposizioni contemplate per altri negozi ad essi assimilabili per natura e funzione economici sociale>>61.
L’applicazione analogica della disciplina del contratto tipico deve però svolgersi tenendo conto della concreta situazione e degli interessi in gioco,
61 Cass. 13.5.1980, n. 3142, in Foro it., I, 1981.
e dunque nei limiti della compatibilità con la particolarità del caso specifico.
Il criterio dell’analogia viene applicato in modo tale da evitare una rigida utilizzazione dell’intera disciplina del contratto tipico.
Al contrario, si opera una distinzione all’interno del contratto atipico tra elementi principali, soggetti alla disciplina del tipo prevalente, ed elementi accessori, autonomamente soggetti ad una disciplina diversa più appropriata al caso particolare.
È stato infatti precisato che il criterio dell’assorbimento non esclude che <<alle obbligazioni accessorie si applichino le norme proprie di queste (estranee al tipo prevalente), in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente>>62.
In altri casi si è osservato che <<la disciplina unitaria dei contratti misti, cioè quella risultante dalle norme del contratto tipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddette teoria dell’assorbimento o della prevalenza), non esclude ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e
62 Cass. 8.9.1970, n. 1345, Giust. civ., 1970, I, p. 1342.
72
concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale; elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto non incompatibili con quelle del contratto prevalente. Pertanto, se in un contratto misto la causa di un determinato contratto tipico si fonde con quella del deposito in modo che gli elementi del primo prevalgono su quelli del secondo, ciò non esclude che, in relazione agli elementi del deposito, possano applicarsi alla disciplina del rapporto le norme dettare per il corrispondente contratto, qualora nessuna incompatibilità sussista tra queste e quelle proprie dell’altro contratto prevalente>>63.
Tuttavia il diritto applicato sembra seguire un procedimento di tipizzazione dello schema atipico che la dottrina ha ampiamente analizzato pervenendo alla conclusione che <<gli artt. 1322 e 1323 adempiono ad una funzione ben precisa: essi impediscono al giudice di dichiarare nullo un accordo pel sol fatto che esso non rientra in nessuno dei tipi specialmente previsti dalla legge. Ma ci pare che la regola di autonomia esaurisca in ciò il suo compito. Il contratto atipico, cui
63 Cass. 10.3.1979, n. 1494, in Giust. civ., 1979, I, p. 1759.
applicare le sole regole generali contenute negli artt. 1321-1469 del codice civile, non ha mai fatto apparizione in un ufficio giudiziario>>64.
Quando si richiama la tendenza giurisprudenziale alla tipizzazione, si intende sottolineare la tecnica utilizzata per ricercare nel tipo legale affine la disciplina vincolante nel singolo caso atipico. In altre parole, quando, in presenza di un contratto riconosciuto come atipico, invece di integrarne la disciplina con il ricorso analogico al contratto tipico affine, si tende piuttosto ad isolarne una singola parte corrispondente alla disciplina di un tipo legale ed a mutarne l’intera regolamentazione senza considerare la diversità dei due schemi, e tralasciando il fatto che le norme che regolano un contratto particolare <<sono riferibili al contratto tutto intero, e non a singoli elementi; i quali restano influenzati proprio dalla circostanza di far parte della disciplina di uno, piuttosto che di un altro contratto>>65.
Ugualmente si può parlare di tendenza alla tipizzazione quando innanzi ad un contratto
64 Xxxxx e De Nova, op. cit., p. 536.
65 Messineo, op. cit., p. 109
atipico si svalutano gli elementi differenti, si enfatizzano gli elementi di affinità con schemi già regolati e si finisce per applicargli direttamente la disciplina del contratto tipico.
Questa tendenza è, però, resa possibile dalla circostanza che i confini dell’elasticità del tipo contrattuale sono assai difficili da individuare ed osservare.
Gli espedienti tipizzati adottati dalla giurisprudenza sono di vario genere; essi vanno dalla tipizzazione delle clausole, e cioè dalla costruzione di corrispondenze fisse tra voluto e conseguenze ulteriori66, all’enfatizzazione del criterio della prevalenza, che consente di annullare il valore della clausola estranea al tipo, come nella già richiamata sentenza della Cassazione 6.3.1951, n. 55267.
L’analisi delle tecniche seguite è alquanto vasta. In particolare, la tendenza alla tipizzazione ha trovato il suo xxxxxxx xxxxx di espansione in relazione alla categoria dei contratti misti e
66 Sacco e De Nova, op. cit., p. 537.
67 Per esempio, la stipulazione a favore di terzi è individuata da una clausola e disciplinata negli artt. 1411 ss. c.c.; dovunque ci sia una stipulazione a favore di terzi operano questi articoli, sia che si tratti di vendita, di mandato o di qualsiasi altro contratto.
complessi, la cui stessa configurazione appare elaborata al fine di selezionare tra le diverse discipline che regolano contratti tipici con tratti caratteristici comuni, quella corrispondente all’elemento prevalente.
La teoria della prevalenza, altrimenti detta dell’assorbimento, è basata sul presupposto che all’interno del contratto atipico sia possibile ritrovare un elemento corrispondente a un contratto tipico, con carattere di dominanza rispetto agli altri.
Tuttavia la teoria dell’assorbimento non prevede il caso in cui ci sia equivalenza tra i vari elementi di contratti tipici in modo da rendere impossibile l’individuazione di uno prevalente rispetto agli altri.
È stato perciò prospettato da una parte della dottrina, soprattutto tedesca, più attenta alla volontà delle parti, il criterio della combinazione, che prevede la cumulativa applicazione ai singoli elementi del contratto atipico della disciplina che per ognuno di essi è prevista nel corrispondente tipo legale.
Anche questa teoria è stata oggetto di critiche, in quanto “non è mai possibile l’applicazione diretta
delle norme proprie di un determinato contratto tipico a un contratto concreto che presenti solamente alcuni degli elementi propri di quel tipo combinati insieme con quelli di un tipo diverso: perché a priori non si può senz’altro dire che un elemento singolo di una complessa fattispecie tipica debba di per sé attrarre l’applicazione della norma che in relazione al medesimo è posta nella disciplina complessiva del tipo.
La ragione della norma può anche trovarsi nella correlazione in cui quei singoli elementi si trovino cogli altri concorrenti a costituire la complessa fattispecie considerata dalla legge, e quindi, perché la norma possa essere applicabile ad un contratto diverso da tale fattispecie tipica, è necessario che nel contratto stesso si manifesti una identica esigenza giuridica, nonostante che in esso i singoli elementi del contratto tipico si ritrovino solamente in parte, e siano collegati con elementi propri di un tipo diverso”68.
Una pronuncia del Pretore di Bologna ha reso invalida una clausola di un contratto avente ad oggetto la prestazione di attività didattica finalizzata alla preparazione per il superamento di
68 Osti 1959, p. 500.
esami scolastici, e la fornitura di supporti didattici e di altri servizi connessi.
La questione riguardava l’efficacia della clausola con la quale si limitava il diritto di recesso del consumatore subordinandolo ad un termine breve di cinque giorni dalla stipulazione del contratto ed al pagamento di una penale pari al quarto del compenso pattuito per l’intero corso.
Tale clausola è stata invalidata ex art. 1469 quinquies c.c. dopo che il contratto è stato qualificato come contratto atipico.
Utilizzando il criterio della prevalenza causale, il Pretore ha ricondotto il contratto agli schemi tipizzati del contratto d’opera intellettuale e dell’appalto di servizi, che entrambi prevedono il principio della inderogabilità del potere di recesso (del committente), da cui risulta che nell’operazione concreta il recesso del consumatore avrebbe potuto essere regolato in vari modi, ma non escluso o disciplinato a vantaggio del professionista, creando così una situazione di evidente e significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti.
Per cui <<se ex lege è prevista la libertà di recedere, le deroghe devono mantenere un ambito ragionevole di esercizio di tale facoltà>>69.
Ritenute dunque irragionevoli, le deroghe apportate all’esercizio del potere di recesso da parte del committente sono state dichiarate inefficaci, <<con conseguente applicabilità al recesso del consumatore della disciplina legale della libera re cedibilità salvo il rimborso delle spese sostenute dal professionista prima del recesso ed in previsione dell’impegno assunto>>70.
L’analisi delle tecniche seguite dalla giurisprudenza sulla tipizzazione porta a considerarne anche le numerose conseguenze.
Il primo aspetto di rilievo riguarda gli elementi naturali del contratto, cioè <<tutti quegli effetti che, pur non dipendendo direttamente dalla volontà delle parti, si reputano conseguenti a tale tipo di contratto, finché le parti non li abbiano esclusi. Ascrivere un contratto ad un tipo piuttosto che ad un altro significa in buona sostanza attribuirgli questi piuttosto che quegli altri
69 Pret. Bologna 6.8.1998.
70 Pret. Bologna 6.8.1998.
naturalia>>71, e di conseguenza anche la validità alle deroghe a questi ultimi.
Oltre ai naturalia negotii, il tipo di contratto influenza anche una serie di altre disposizioni, quali la capacità delle parti, la forma, o altri requisiti di validità.
Un ulteriore aspetto riguarda poi le norme di applicazione necessaria, ossia norme la cui applicazione viene necessariamente ricollegata dalla legge ad un dato tipo, quali quelle relative a termini di prescrizione o risolubilità per inadempimento.
La dottrina ha sviluppato un’ulteriore tecnica, chiamata metodo “tipologico”, che si caratterizza nel tentativo di uno studio del contratto nella sua completezza cogliendone gli elementi più rilevanti al fine di ricollegare allo stesso una disciplina determinata.
La peculiarità del metodo tipologico consiste, pertanto, nel riconoscere un rilievo secondario alla definizione legislativa di ciascun tipo, poiché “determinante non è che un contratto possa essere sussunto nella definizione, bensì che esso corrisponda al tipo normativo considerato dal
71 Sacco e De Nova, op. cit., p. 451.
legislatore”72, da cui deriva che solo il raffronto tra le due discipline, complessivamente intese, consente di coglierne gli aspetti rilevanti e quindi di individuare la disciplina applicabile.
Infatti <<è confrontando i rimedi offerti al compratore in caso di vizi della cosa con i rimedi accordati al committente nel contratto di appalto, che si chiarisce nell’assenza di un diritto del compratore all’eliminazione dei vizi, come il tipo normativo della vendita sia quello di un contratto in cui il venditore non sia il fabbricante del prodotto>>73.
La riconduzione al tipo contrattuale non presuppone necessariamente un giudizio di identità, ma è necessario che sia comunque presente un ragionevole grado di conformità individuato concretamente dall’interprete.
Secondo il metodo tipologico, i giudici procedono gradualmente; prima scomponendo il contratto nei suoi elementi, e selezionando, tra questi, quelli ritenuti prevalenti per ricondurre la fattispecie al tipo, e poi applicando la disciplina prevista per quest’ultimo, con la conseguenza di rendere
72 X. Xx Xxxx, Nuovi contratti, II ed., 1990, Utet, p. 23.
73 De Nova, Nuovi contratti, cit., p. 140.
fruibili per l’applicazione pratica anche singole norme tratte dalla disciplina di un determinato tipo, di volta in volta ritenute idonee a trovare applicazione nel caso di specie.
Un esempio di particolare importanza dell’applicazione del metodo tipologico riguarda una decisione della Cassazione che, mutando un orientamento consolidato, ha iniziato a ritenere, a partire dagli anni novanta, la nullità della vendita con patto di riscatto stipulata a scopo di garanzia per violazione del divieto del patto commissorio74.
Risulta allora evidente l’applicazione del metodo tipologico, poiché <<una vendita con patto di riscatto non è sussumibile concettualmente nella fattispecie del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c., perché c’è una sfasatura tra gli elementi che compongono l’una e l’altra figura, e tuttavia si accetta tranquillamente di applicare quella disciplina nella vendita con patto di riscatto a scopo di garanzia perché si riconosce che anche questo meccanismo negoziale corrisponde al tipo normativo che il legislatore aveva in mente quando
74 Cass. 27.2.1991, n. 2126, in Giust. civ., 1992, I.
ha dettato, in quei termini, il divieto di patto commissorio>>75.
Una volta giunti alla configurazione del tipo legale, è possibile che da questo si distacchino nuove forme contrattuali atipiche destinate in seguito a tradursi in ulteriori modelli tipici o viceversa.
Inoltre può accadere che con il passare del tempo un tipo legale risulti non più rispondente alle moderne esigenze, o che mutazioni culturali e del costume rendano anacronistici e inutile l’operazioni economica che ne formava oggetto.
In tal caso la legge stessa può intervenire per stabilire la scomparsa del tipo, promuovendo un processo di de tipizzazione normativa.
Alcuni tipi legislativi divengono inevitabilmente desueti nella prassi del commercio e non trovano più alcun più alcun riscontro sociale o giurisprudenza: si pensi, ad esempio, ai contratti di rendita (art. 1862 c.c., art. 1872 c.c.), all’anticresi (art. 1960 c.c.), o alla cessione dei beni ai creditori (art. 1977 c.c.) sempre più di rado considerati nei repertori della giurisprudenza.
75 Roppo, op. cit., p. 12.
Così è avvenuto per il contratto di noleggio che, presente relativamente al noleggio della nave, nel codice di commercio del 1882, non è stato invece inserito tra i contratti tipici regolati nel codice civile del 1942, sopravvivendo quindi come contratto atipico.
È quanto è avvenuto anche per la dote che, prima ammessa e disciplinata nell’art. 177 c.c., è stata abolita ed espressamente vietata con la riforma del diritto di famiglia (art. 166 bis c.c.), anche come convenzione atipica, essendo infatti <<nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costruzione di beni in dote>>.
Infine può accadere che da un originario schema normativo sorgano, successivamente, una pluralità di tipi autonomi.
È il caso della locazione, che nel codice del 1865 comprendeva, al suo interno, quattro sottotipi: locazione, affitto, lavoro subordinato, contratto d’opera; i quali sono stati regolati come tipi autonomi nel codice vigente.
5. I contratti socialmente utili
Il processo di interazione tra tipicità e atipicità è incessante, tanto che i contratti innominati cono stati giudicati76 come fenomeni transitori nell’ordinamento giuridico.
Il codice civile del 1942 ha recepito numerosi contratti precedentemente classificati come innominati, tuttavia sono emerse nei decenni seguenti, specialmente sulla spinta della prassi del commercio internazionale, nuove molteplici figure contrattuali, ancora non sufficientemente disciplinate.
Un esempio di contratto socialmente tipico è costituito, per esempio, dal brokeraggio.
Il broker è un esperto del mercato assicurativo e si occupa di fornire condizioni ottimali, di carattere economico e non, al consumatore.
Alcune sentenze inquadrano il brokeraggio nell’ambito della mediazione, ma in questo modo non si riferisce a superare una incongruenza fondamentale; cioè il fatto che il mediatore deve essere imparziale e libero da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza
76 De Xxxxxxx e Xxxxx 1967, p. 168.
con le parti del contratto (art. 1754 c.c.); al contrario, il broker opera come fiduciario dell’assicurando, che è suo cliente e del quale cura gli interessi cercando di procurargli le migliori condizioni possibili. Più attendibile sembra la qualificazione del contratto come appalto di servizi o come contratto d’opera.
Altro esempio di contratto socialmente tipico, è costituito dal merchandising.
Il contratto di merchandising è nato all’inizio del Novecento e si è sviluppato nella prassi del mondo anglosassone, quale strumento di promozione nella vendita di beni o di servizi, diretto a consentire l’uso di nomi ed immagini dei personaggi dei fumetti e dei cartoni animati nella commercializzazione dei prodotti.
Successivamente, a tal fine, sono stati utilizzati nomi ed immagini di personaggi del cinema e dello sport.
Dagli anni settanta il merchandising ha avuto una grande diffusione, estendendosi all’utilizzo dei marchi quali strumenti di promozione della vendita di beni o servizi differenti da quelli per i quali i marchi erano stati creati.
Il merchandising è caratterizzato dall’autorizzazione, da parte del titolare dei segni distintivi, all’uso dei medesimi per promuovere la vendita di beni o di servizi.
La comparazione dei contratti di sponsorizzazione e di merchandising, sotto il profilo funzionale e strutturale, presenta due modelli simmetrici ed opposti.
Infatti, il merchandising è diretto a consentire l’uso dei segni distintivi creati ed appartenenti ad altri come strumenti promozionali al fine della vendita di prodotti o servizi, quali strumenti, in altre parole, volti ad attrarre l’attenzione del consumatore e dell’utente per la notorietà del nome, dell’immagine, del marchio.
Il contratto di sponsorizzazione, invece, è diretto ad utilizzare l’attività svolta dal soggetto sponsorizzato quale veicolo per la diffusione del messaggio pubblicitario e, in particolare, dei segni distintivi utilizzati dal soggetto sponsorizzante.
Come è stato scritto di recente, “la sponsorizzazione ha un impatto promozionale in quanto sia lo sponsor a partecipare all’attività primaria, sportiva, artistica, culturale, dello sponsorizzato. Il merchandising, anche quando
faccia leva sulla personalità del concedente, porta invece al fenomeno simmetrico ed inverso della partecipazione della celebrità concedente il proprio nome o la propria immagine alle comunicazioni aziendali dell’imprenditore concessionario relative all’attività (secondaria) di quest’ultimo”77.
Nel contratto di merchandising, il concedente attribuisce il diritto d’uso dei propri segni distintivi, per la promozione dei prodotti del concessionario; nella sponsorizzazione, all’opposto, è lo sponsor ad utilizzare l’attività dello sponsee quale veicolo per il proprio messaggio pubblicitario e per i propri segni distintivi.
6. Alcuni esempi di tipizzazione
6.1. Il contratto di leasing
In Italia il leasing assume dimensioni significative a partire dalla metà degli anni sessanta. Importato dagli Stati Uniti, è stato introdotto nel settore commerciale a seguito dello
77 Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano 1991, p. 43.
sviluppo tecnologico che ha interessato l’economia italiana del secondo dopoguerra.
In principio si trattava di semplice locazione di attrezzature da parte dei produttori ai clienti che lo richiedevano esplicitamente, successivamente con la partecipazione di banche, società finanziarie e società assicuratrici, vennero appositamente create nuove società, indipendenti dai produttori, con il compito di rendere più agevole l’applicazione del leasing.
L’ingresso di queste società, sempre più specialistiche, ha dato inizio ad una progressiva standardizzazione del contratto di leasing, intrapresa dagli operatori finanziari, e recepita dalla prassi negoziale, che diventa sempre più uniforme e crea modelli che poco si differenziano tra di loro e che <<nulla hanno di atipico e di innominato nella realtà degli affari, pur essendo certamente irriconducibili ai contratti già nominati e tipicamente regolati>>78.
Nel 1973 viene presentato il primo disegno di legge d’iniziativa parlamentare e il dibattito del
78 Xxxxxxx, Le nozioni di “tipico” e “atipico”: spunti critici e ricostruttivi, in Tipicità ed atipicità nei contratti, in Quad. di giur. comm., Milano 1983, p. 12.
leasing assume ampie dimensioni: seguono poi altri progetti di legge ma nessuno di questi approda ad una normazione ufficiale, per cui tuttora sul leasing manca una regolamentazione legislativa quanto meno organica.
Il termine anglosassone leasing è stato da più
autori tradotto in italiano con l’espressione “locazione finanziaria”, in base alla quale “locazione” indica <<il nucleo base dell’istituto o, quanto meno, il rapporto giuridico preponderante, mentre l’attributo “finanziaria” sta ad indicare la funzione di finanziamento cui assolve lo strumento in esame>>79.
Diversamente si pone De Nova, per il quale <<il termine preferibile per indicare l’operazione che più frequentemente è qualificata come “locazione finanziaria” è quello di “leasing” perché mette subito in evidenza che si tratta di un contratto atipico, di derivazione anglosassone, e non di un sottotipo della locazione>>80.
Il termine “locazione finanziaria” è stato introdotto nella legislazione italiana con una
79 Xxxxxxxxx V., Leasing, in Novissimo Digesto Italiano, Appendice, vol. IV, Utet, Torino 1983, p. 798.
00 X. Xx Xxxx, Xx contratto di leasing, Xxxxxxx, Milano 1995, p. 3.
norma contenente agevolazioni tributarie, precisamente l’art. 1 della L. 25.10.1968, n. 1089, ed ha ricevuto consacrazione formale nell’ambito della riforma tributaria degli anni 1973-74.
Il leasing è oggetto di numerose disposizioni normative, tuttavia allo stato attuale risulta essere un contratto atipico, poiché <<manca una nozione normativa di tale contratto ed una norma che specifichi i diritti e gli obblighi delle parti>>81.
La giurisprudenza è unanime nel ricondurre il contratto di leasing alla categoria del contratto atipico data la sua <<funzione sociale non
81 X. Xxxxx, Leasing nel diritto tributario, in Digesto, Discipline Privatistiche, Sezione Commerciale, vol. VIII, UTET, Torino 1992 (4), p. 505. In tal senso contrario Xxxxxxxx, La tipizzazione legislativa del contratto di locazione finanziaria, in RIL, 1993, p. 257; il quale ritiene che il leasing sia tipico, poiché “un contratto è tipico, quando seppure con interventi sparsi qua e là e talvolta occasionali, il legislatore ne ha disciplinato le caratteristiche e gli aspetti strutturali, e funzionali principali”. “Orbene la legge antiriciclaggio, quella sui gruppi creditizi e il decreto legislativo di recepimento della seconda direttiva CEE offrono una regolamentazione completa ed analitica dei soggetti che possono esercitare l’attività di locazione finanziaria; la normativa recante agevolazioni e quella in tema di trasparenza prevedono la disciplina essenziale e sostanziale del contratto; la legislazione fiscale è già da tempo molto precisa sul punto; i provvedimenti del 31 luglio 1992 della Banca d’Italia recano le istruzioni per la redazione del bilancio d’impresa e del bilancio consolidato degli enti finanziari”.
riconducibile ad alcuna causa tipica prevista dal codice civile>>82.
Una prima definizione legislativa del contratto di leasing è contenuta nella legge 2 maggio 1976, n. 183, relativa alla disciplina degli interventi straordinari nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976-1980, il cui art. 17 comma 2° stabilisce che
<<per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquisiti o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito<<.
La stessa legge, sempre all’art. 17 comma 6°, stabilisce che <<alla scadenza del contratto, gli impianti oggetto della locazione finanziaria di cui al comma 1, possono essere acquistati dal conduttore per un importo pari all’uno per cento del loro valore di acquisto>>.
Inoltre la direttiva attuative del CIPE del 31 maggio 1977, contenente <<direttive per la
82 Tribunale di Milano, 8.2.1990, in Riv. it. Leasing 1992, p. 517.
concessione del contributo in conto canoni per le operazioni di locazione finanziaria di impianti industriali>>, al n. 11 stabilisce che <<la durata del contratto di locazione non può superare i 15 anni ed essere inferiore a 5 anni>>, e che <<i canoni di locazione anticipati, che la FIME-leasing può chiedere al conduttore, non potranno superare il 20 per cento del valore dell’impianto>>.
Le precedenti leggi disciplinano, in realtà, un sottotipo di leasing, precisamente il leasing agevolato, ma sono comunque indicative.
Sempre in campo civilistico, è importante rilevare come l’art. 91 comma 2°, d.lg. 30 aprile 1992 n. 285, in tema di responsabilità civile, sancisca la responsabilità del conducente in solido con l’utilizzatore, ai sensi dell’art. 2054 comma 3° c.c., e non con la società di leasing.
Ed in fine, la disciplina della trasparenza, prevista all’art. 115 e seguenti del T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, che si applica anche al contratto di leasing.
Nel settore del diritto penale, va richiamata la l. 2 maggio 1983 n. 178, che risolve il problema della responsabilità penale delle società di leasing per la violazione di norme antinfortunistiche, ed in
quello fiscale, il d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917, che, nel quadro del Testo Unico delle imposte sul reddito, ne detta una organica disciplina.
Gli usi in materie di leasing sono stati raccolti a cura della Camera di Commercio di Milano per la prima volta nel 1975.
In base all’art. 8 disp. prel. c.c., gli usi normativi hanno efficacia nelle materie non regolate dalla legge e dai regolamenti (oltre che, nelle materie regolate, per espresso richiamo), e considerando il fatto che il leasing è materia non regolata in quanto non disciplinato dalla legge e dai regolamenti, ne consegue che il leasing può essere disciplinato dagli usi.
La questione da risolvere riguarda la natura degli usi in materia di leasing, in quanto tutte le raccolte delle Camere di Commercio li presentano come usi negoziali e non normativi.
Si tratta di usi derivanti dalla prassi negoziale, che suggeriscono una possibile nozione di leasing, evidenziano le clausole contrattuali comuni ai vari formulari contrattuali, e lasciano cadere quelle di dubbia validità e utilità, contribuendo così alla tipizzazione sociale. Tuttavia rimane auspicabile
un intervento che ne garantisca l’uniformità a livello nazionale e non solo provinciale.
La definizione del leasing mobiliare contenuta nella raccolta degli usi della Camera di Commercio di Milano indica che: <<si suole denominare contratto con il quale un soggetto, detto locatore, si obbliga a mettere a disposizione di un altro soggetto, detto locatario o conduttore, per un dato tempo, un bene mobile verso un corrispettivo a scadenze periodiche, determinato in relazione al valore del bene, alla durata del contratto, dietro versamento di un importo prestabilito>>.
La definizione del leasing immobiliare prevista dagli usi è invece la seguente: <<Si suole indicare con il termine leasing immobiliare, comunemente detto locazione finanziaria immobiliare, il contratto con il quale una parte, detto locatore, si obbliga a mettere a disposizione dell’altra parte, detto conduttore o locatario, per un dato tempo, un bene immobile verso un corrispettivo, pagabile a scadenze periodiche, determinato in relazione al valore dell’immobile, alla durata del contratto e ad altri elementi; detti immobili sono acquistati o fatti acquistare dal locatore, su scelta ed indicazione del conduttore, con facoltà per quest’ultimo di
divenirne proprietario alla scadenza del periodo contrattuale dietro versamento di un importo da determinarsi secondo criteri prestabiliti>>83.
Nella prassi il termine leasing è utilizzato sia per indicare l’operazione (chiamata leasing finanziario) definita nella l. n. 183 del 1976, sia per contraddistinguere la diversa operazione con la quale il produttore di un bene standardizzato lo concede in godimento ad un altro imprenditore per un corrispettivo commisurato al valore di uso del bene e per un periodo di tempo inferiore alla vita economica del bene stesso. Figura quest’ultima che, identificata come leasing operativo, non ha in realtà nulla di atipico, essendo direttamente riconducibile allo schema della locazione.
I due tipi di leasing differiscono per le finalità dell’operazione, per la diversità dei soggetti e per le clausole del contratto.
83 Si segnala la presenza del Codice deontologico, approvato il
22 aprile 1985 dal Consiglio dell’Assilea (Associazione Italiana Leasing), che contiene un insieme di raccomandazioni, alcune delle quali si riferiscono al contenuto del contratto di leasing.
Infine la “Dichiarazione di Siviglia”, adottata al Convegno Leaseuropeo del 9-11 ottobre 1983, riguarda i principi contabili in materia di leasing e contribuisce a delineare la nozione del contratto adottata dall’Assilea.
Il leasing operativo ha per oggetto il godimento dei beni strumentali standardizzati e di uso corrente, consentendone, allo scadere del contratto, una eventuale nuova utilizzazione. Di norma viene concesso direttamente dal produttore, il quale assume anche l’obbligo di fornire una serie di servizi collaterali quali l’assistenza, la manutenzione e l’istruzione all’uso. In alcuni casi l’impresa produttrice si serve di una società controllata che finanzi la commercializzazione dei propri prodotti.
Nel leasing operativo il valore residuale del bene
al termine del rapporto rimane in genere elevato, così da permetterne un’ulteriore commercializzazione, e il rischio di obsolescenza tecnologica resta a carico del concedente.
Il canone è commisurato al valore dell’utilizzo del bene ed è comprensivo delle remunerazioni per i servizi collaterali.
Il contratto ha, di solito, breve durata, raramente supera i tre anni ed è comunque inferiore alla vita economica del bene, che è destinato a nuove soluzioni.
È in genere prevista la facoltà di recedere, con adeguato avviso, per l’utilizzatore, il quale alla
scadenza del contratto può scegliere se restituire il bene, rinnovare il contratto a condizioni precedentemente stabilite, oppure, in rari casi, acquistarlo per una somma già prefissata.
La finalità del leasing operativo è quella di evitare i rischi relativi alla proprietà del bene, per esempio l’incertezza del prezzo di realizzo nel momento in cui il bene non sia più necessario per il processo produttivo cui era stato destinato, e la rapida obsolescenza, e inoltre quello di garantirgli alcuni servizi collaterali.
Il concedente, invece, ha la possibilità di una maggiore commercializzazione dei propri prodotti. Il leasing operativo è fondamentalmente una locazione ed è disciplinato nelle norme del codice
sulla locazione ordinaria.
Il leasing finanziario, invece, è il contratto in cui una parte (impresa di leasing-concedente) concede all’altra (utilizzatore), contro il pagamento di un canone periodico il godimento di un bene mobile o immobile, anche non standardizzato, che ha acquistato o fatto costruire su indicazione e scelta dell’utilizzatore il quale, normalmente, ha contattato direttamente il fornitore.