CASI OPERATIVI
Edizione di giovedì 16 Luglio 2020
CASI OPERATIVI
Contratto di subfornitura: l’abuso di dipendenza economica
di EVOLUTION
ACCERTAMENTO
Solo gli elementi oggettivamente nuovi giustificano l’accertamento integrativo
di Xxxxxxx Xxxxxxxx
FISCALITÀ INTERNAZIONALE
La crisi da Covid-19 impatta anche sui prezzi di trasferimento
di Xxxxx Xxxxxxxx
RISCOSSIONE
Il preavviso di irregolarità non prova l’esistenza del credito Iva chiesto a rimborso
di Xxxxxx Xxxxx
OPERAZIONI STRAORDINARIE
Il conferimento della stabile organizzazione neutrale
di Xxxxx Xxxx
ORGANIZZAZIONE STUDI E M&A
Gli accordi tipici nell’ambito delle operazioni di acquisizione/aggregazione di un’attività professionale
di Xxxxxxxxxx Xxxxx di MpO & Partners
CASI OPERATIVI
Contratto di subfornitura: l’abuso di dipendenza economica
di EVOLUTION
Nei contratti di subfornitura che vedono un contraente in condizioni di dipendenza nei confronti della controparte, quale tutela viene accordata dal legislatore al contraente “debole”?
Nei contratti di subfornitura si è soliti riscontrare rapporti giuridici che presentano uno
squilibrio contrattuale tra le parti coinvolte.
In tali fattispecie si contrappongono: un committente, il quale commissiona un servizio, una lavorazione o una fornitura; la controparte fornitrice, la quale opera in condizioni di dipendenza economica e tecnica nei confronti del primo. Il subfornitore, infatti, è posto in una posizione di subordinazione nei riguardi del primo, il quale, esercita il proprio diritto di indirizzare l’attività svolta al fine di renderla quanto più possibile compatibile con le proprie esigenze produttive.
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ACCERTAMENTO
Solo gli elementi oggettivamente nuovi giustificano l’accertamento integrativo
di Xxxxxxx Xxxxxxxx
La possibilità di emettere degli avvisi di accertamento integrativi da parte dell’Agenzia delle Entrate è disciplinata, per le imposte dirette, dall’articolo 43, comma 3, D.P.R. 600/1973, in particolare la disposizione prevede che “fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte”.
La stessa disposizione è prevista in tema di imposta sul valore aggiunto, ed è contenuta
nell’articolo 57, comma 4, D.P.R. 633/1972.
Per effetto delle norme sopra citate, in materia di imposte sui redditi e di Iva, l’Agenzia delle Entrate, fino alla scadenza del termine di decadenza dell’azione accertatrice, può integrare ovvero modificare le rettifiche e gli accertamenti già effettuati mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.
Nell’avviso di accertamento devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti venuti a conoscenza dell’Ufficio.
Quindi, la norma prevede la possibilità di integrare un avviso di accertamento precedentemente notificato a condizione che:
successivamente alla notifica dell’avviso di accertamento originario siano emersi nuovi elementi non conosciuti o non conoscibili in precedenza;
a pena di nullità, nell’avviso di accertamento integrativo vengano indicati gli elementi, gli atti o i fatti di nuova conoscenza.
In merito al requisito della sopravvenuta conoscenza di elementi legittimanti l’avviso di accertamento integrativo occorre sottolineare che, secondo la dottrina maggioritaria:
gli elementi nuovi devono essere tali al momento della notifica dell’accertamento, pertanto si deve trattare di documenti e informazioni successivi all’accertamento originario tali da incidere sul contesto accertativo;
le disposizioni contenute negli articoli del 43, comma 3, D.P.R. 600/1973 e 57, comma 4, D.P.R. 633/1972 hanno una valenza oggettiva e non soggettiva. Se tali disposizioni avessero valenza soggettiva il verificatore che non utilizza la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico si troverebbe nella condizione perpetua di integrare gli avvisi di accertamento, in quanto, dal suo punto di vista, ogni fatto di cui viene a conoscenza successivamente assume il requisito della novità poichè in precedenza non ha operato in maniera tale da renderlo palese, apprezzabile e/o conosciuto.
Quindi è evidente che la diligenza utilizzata dagli organi verificatori assume un ruolo cruciale nella valutazione della legittimità dell’emissione di un accertamento integrativo.
Ad avviso della Corte di Cassazione (sentenza n. 19883/2015) una pubblica amministrazione agisce secondo la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico quando:
rispetta la legge (articolo 1, comma 1, L. 241/1990);
agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini (articolo 1, commi 1 e 2, L. 241/1990);
non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta (articolo 97 Cost.);
è composta di funzionari preparati, efficienti, prudenti e zelanti (articolo 98 Cost.).
Quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria, in merito all’elemento della novità dei fatti posti a base dell’accertamento integrativo, è avvalorato anche da recenti sentenze della Suprema Corte. La Corte di Cassazione, infatti, ha avuto modo di affermare che:
“in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il presupposto per l’integrazione o modificazione in aumento dell’avviso di accertamento, mediante notificazione di nuovi avvisi, è costituito, ex articolo 43, comma 3 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, dalla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, sicché gli accertamenti integrativi non possono essere fondati sugli stessi elementi di fatto del precedente o dei precedenti accertamenti, e la conoscenza dei nuovi elementi deve essere avvenuta in epoca successiva a quella in cui l’accertamento originario è stato notificato” (Corte di Cassazione, ordinanza n. 26500 del 08.11.2017);
“il contenuto preclusivo del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articolo 43, deve essere limitato al divieto, rebus sic stantibus, di emettere un avviso di accertamento integrativo sulla base della semplice rivalutazione o maggiore approfondimento di dati probatori già interamente noti all’Ufficio al momento della emissione dell’avviso originario” (Corte di Cassazione, sentenza n. 576 del 15.01.2016).
In definitiva, sulla base di quanto sopra visto è possibile affermare che:
in linea generale, l’Amministrazione finanziaria può emettere un avviso di accertamento integrativo ai sensi dell’articolo 43, comma 3, D.P.R. 600/1973 e dell’articolo 57, comma 4, D.P.R. 633/1972, ma tale l’avviso di accertamento integrativo è legittimo solo se basato su elementi nuovi non conosciuti e non conoscibili da parte dell’Amministrazione finanziaria al momento dell’emissione dell’avviso di accertamento originario;
l’avviso di accertamento integrativo non è legittimo se l’Amministrazione finanziaria era già in possesso dei dati posti a fondamento dell’atto impoesattivo integrativo, ovvero se utilizzando la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, tali elementi potevano essere conosciuti nell’ambito della verifica fiscale che ha condotto alla notifica dell’avviso di accertamento originario.
FISCALITÀ INTERNAZIONALE
La crisi da Covid-19 impatta anche sui prezzi di trasferimento
di Xxxxx Xxxxxxxx
La dirompenza degli effetti causati dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sull’intero sistema economico finanziario globale, ed in modo particolare i riflessi recessivi gravi e repentini che si stanno osservando in questa fase, hanno inevitabili conseguenze anche sulla applicazione, in concreto, delle transfer pricing policies adottate per la regolamentazione ai fini fiscali delle transazioni fra imprese associate residenti in differenti Stati.
Infatti, di norma, queste politiche sui prezzi di trasferimento e le modalità con cui i criteri selezionali per testare la rispondenza delle transazioni osservate al principio di libera concorrenza sono definite e costruite in un contesto generale stabile; siamo invece ora dinanzi ad un evento esterno alle imprese, del tutto imprevedibile, al di fuori delle leve di controllo delle imprese e verificatosi in modo repentino e con effetti recessivi significativi.
La domanda di fondo allora è: come tenere conto di questi effetti, che indubitabilmente influenzeranno in negativo le grandezze economico finanziarie di tante imprese (produttive, distributive ei di servizi), e quindi anche di quelle che appartengono a gruppi internazionali, assicurando comunque in queste circostanze che i prezzi di trasferimento applicati nelle transazioni infragruppo siano comunque determinati, anche in questo contesto di crisi, in condizioni di libera concorrenza?
Partiamo allora dal dover constatare che una risposta univoca e tecnicamente definita, al momento, non esiste; da più parti è infatti stato sollecitato un intervento dell’Ocse, in quanto standard setter internazionale in tema di prezzi di trasferimento, nella cui agenda la questione è senza dubbio presente – come emerge dal Tax Talk del 4 maggio 2020 – ed è perciò auspicabile che venga pubblicato un aggiornamento o un addendum alle Linee Guida Ocse in materia di prezzi di trasferimento specificamente dedicato a trattare questo tanto complesso quanto rilevante tema. Dobbiamo però anche rilevare che, ragionevolmente, i tempi non saranno brevi per la pubblicazione di queste importanti note tecniche.
Nel frattempo, alcuni spunti utili che già la dottrina ha iniziato ad evidenziare, in parte
mutuando le considerazioni che vennero sviluppate al tempo della precedente crisi globale del 2008, sono in estrema sintesi i seguenti:
identificare ed isolare gli effetti straordinari negativi: ne sono un esempio immediato le perdite sofferte dalle imprese nel periodo del lockdown e della sospensione forzata delle attività, come pure le spese straordinarie sostenute per affrontare la crisi sanitaria e la ripresa delle attività;
non limitarsi alla sola fase del lockdown, ma osservare il manifestarsi della crisi anche nel periodo seguente, ad esempio comparando i risultati di frazioni dell’anno inciso dalla crisi, pur con tutte le difficoltà del caso, rispetto a quelli degli anni precedenti; tenere traccia degli interventi di rinegoziazione di contratti anche con parti terze, come pure del comportamento dei concorrenti, per documentare come le scelte, talvolta di sopravvivenza o comunque di conservazione del rapporto di lungo periodo con il cliente/ fornitore, possano avere determinato nell’immediato un sacrificio in termini di profittabilità;
mappare quindi le modifiche intervenute nelle “circostanze economiche” (che, ricordiamo, sono uno dei fattori di comparabilità nel contesto di quella analisi di comparabilità che è il cuore dell’analisi sui prezzi di trasferimento) in cui le transazioni infragruppo sono compiute;
mappare e tracciare, come anzidetto, le modifiche delle strategie perseguite, anche di lungo periodo ed anche a detrimento della profittabilità immediata, strategie che, lo ricordiamo, sono un altro dei fattori di comparabilità che in condizioni ordinarie viene forse spesso trascurato, ma che in questa evenienza può assurgere un ruolo assai rilevante.
Il tutto, poi, dovrà riflettersi in concreto sulla impostazione e sulla esecuzione della analisi di comparabilità, tema sul quale in astratto possono proporsi soluzioni diverse, ma nessuna delle quali davvero del tutto convincente.
Fra le altre:
1. si può pensare ad una totale revisione della benchmark analysis, che tenga conto dei dati dei comparabili del periodo impattato dalla crisi (il che, però, sconta un inevitabile ritardo di almeno un anno per la disponibilità dei dati nei data base);
2. oppure, alla conservazione della benchmark analysis disponibile, ma “aggiustata” nei risultati per tenere conto dell’impatto negativo specifico sull’impresa della crisi da Covid-19: un’idea senza dubbio valida che sconta un maggior grado di soggettività e difficoltà tecniche nell’isolare gli effetti economici della crisi. L’aggiustamento potrebbe allora essere fatto assumendo i macrodati di settore, per dar loro una maggiore oggettività, ma anche in questo caso permane il problema di come declinarli, ad esempio, su medio piccole dimensioni, e comunque tale opzione non è praticabile in tante circostanze in cui non vi sono analisi riferiti a specifici business;
la soluzione di lavorare sul “range” dell’analisi di comparabilità non sembra invece
sufficiente, perché anche il livello più basso del range dell’intervallo dei valori rifletterebbe comunque valori pre-crisi del tutto lontani dalla realtà economica.
Infine, un problema comune: qualunque analisi di comparabilità che impieghi data base per la ricerca di un benchmark esterno perde necessariamente traccia delle imprese che cessano nel periodo perché colpite in modo irreversibile dalla crisi, e quindi comunque non riesce a cogliere appieno la gravità della crisi.
Per tutte queste ragioni, è altamente auspicato un intervento dell’Ocse che guidi le imprese nell’adozione di tecniche adeguate, sì da evitare di incorrere in rischi addirittura di successivi rilievi fiscali proprio relativi ad un periodo così gravemente colpito da una crisi eccezionale.
RISCOSSIONE
Il preavviso di irregolarità non prova l’esistenza del credito Iva chiesto a rimborso
di Xxxxxx Xxxxx
Ai sensi dell’articolo 38-bis D.P.R. 633/1972, i soggetti passivi Xxx, al ricorrere di determinate condizioni, possono richiedere il rimborso dell’eccedenza detraibile d’imposta risultante dalla dichiarazione annuale Iva (ovvero relativa a ciascuno dei primi tre trimestri solari, mentre il credito del quarto trimestre può essere chiesto a rimborso solo in sede di dichiarazione annuale).
Talvolta accade che, a fronte di una simile richiesta del contribuente, l’Amministrazione finanziaria opponga un diniego di rimborso per le più svariate ragioni, con la conseguenza che questi, laddove voglia ottenere il riconoscimento di tale credito Xxx, non ha altra possibilità se non quella di impugnare tale diniego in Commissione tributaria.
Tali controversie si differenziano da quelle solitamente proposte dinanzi al giudice tributario, poiché, quando oggetto del giudizio è un diritto del contribuente (ad esempio, il rimborso, la deduzione e la detrazione), l’onere di dimostrare il fatto costitutivo della pretesa tributaria non spetta all’ente impositore, ma al contribuente che tale diritto vuol far valere.
Sul punto, è stato più volte affermato che «incombe sul contribuente, il quale invochi il riconoscimento di un credito d’imposta, l’onere di provare i fatti costitutivi dell’esistenza del credito, e, a tal fine, non è sufficiente l’esposizione della pretesa nella dichiarazione, poiché il credito fiscale non nasce da questa, ma dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo» (cfr. Cassazione, ordinanza n. 27580 del 30.10.2018).
Quindi, nella ipotesi di domanda di rimborso del credito Iva da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a verificare la sussistenza di tale credito e il contribuente dovrà assolvere, in caso di contestazione, all’onere probatorio sullo stesso gravante, offrendo tutti gli elementi di prova idonei per il riconoscimento del diritto al rimborso (cfr. Cassazione, ordinanza n. 1822 del 23.01.2019).
Venendo alle possibili prove idonee a dimostrare l’esistenza sostanziale del credito Xxx, si segnala una recentissima pronuncia che ha rammentato alcuni importanti principi circa la possibile valenza probatoria della comunicazione di preavviso di irregolarità.
In particolare, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13694 del 03.07.2020, ha ribadito che il preavviso di irregolarità inviato dall’Amministrazione finanziaria non prova l’esistenza del credito Iva del contribuente, poiché tale comunicazione è finalizzata solo a rendere noti gli esiti della liquidazione, ma non assume alcun valore confessorio nei confronti del Fisco.
Nella specie, il contribuente impugnava il diniego di rimborso del credito Iva per intempestiva presentazione del modello VR (secondo la più recente giurisprudenza – Cassazione, ordinanza n. 26371/2019 – l’omessa trasmissione o compilazione di tale modello non impedisce il rimborso del credito Iva) e conseguente decadenza di cui all’articolo 21, comma 2, D.Lgs. 546/1992.
A seguito di ricorso dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, lo stesso veniva accolto e, pertanto, l’Ufficio proponeva appello che veniva rigettato in quanto, per i giudici di secondo grado, la prova del credito Xxx era rappresentata dalla comunicazione di preavviso di irregolarità inviato dallo stesso Xxxxxxx.
Quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione ritenendo che il giudice di appello avesse errato nel ritenere provato il credito Iva alla luce della comunicazione di preavviso di irregolarità.
Più precisamente, si contestava che la dicitura “rimborso spettante” concernesse il mero esito formale della liquidazione automatica ex articoli 36-bis D.P.R. 600/1973 e 54-bis D.P.R. 633/1972, nel senso che questa attestasse soltanto la correttezza dei dati esposti in dichiarazione all’esito del controllo formale, ma non l’esistenza sostanziale del credito.
Ebbene, la Suprema Corte, dopo aver rammentato la distribuzione dell’onere della prova nelle controversie in cui oggetto del giudizio è un diritto del contribuente, ha affermato che: «Tale dichiarazione, in quanto finalizzata a comunicare gli esiti della liquidazione, non assume valore confessorio dell’amministrazione finanziaria sull’esistenza del credito, che va comprovato dal contribuente con idonea documentazione». Né, tantomeno, tale valore confessorio può essere ricavato dal complesso della comunicazione, in quanto si tratta di dichiarazione contenuta in una comunicazione con la quale viene contestato il credito.
In definitiva, sulla scorta di quanto precisato dai giudici di legittimità, la comunicazione di preavviso di irregolarità, nella parte in cui prevede il “rimborso spettante”, essendo finalizzata a comunicare gli esiti della liquidazione, non assume valore confessorio dell’amministrazione finanziaria sull’esistenza del credito, che invece deve essere provato dal contribuente con idonea documentazione.
OPERAZIONI STRAORDINARIE
Il conferimento della stabile organizzazione neutrale
di Xxxxx Xxxx
La stabile organizzazione rappresenta una forma di ingresso in un Paese estero sempre più diffusa anche in relazione al regime di branch exemption previsto dalla normativa interna o convenzionale di diversi Paesi.
In questa sede vogliamo focalizzarci sul conferimento della stabile organizzazione collocata in Italia, detenuta quindi da un soggetto non residente. Il conferimento vedrà come conferitaria una società fiscalmente residente in Italia.
Il tema è stato oggetto di un paio di interventi da parte dell’Agenzia delle Entrate.
La risalente risoluzione AdE 110/E/2007 ha affrontato il conferimento di una intera stabile organizzazione di una società estera, in una società italiana.
In quell’occasione, l’Agenzia ha correttamente affermato che il conferimento di stabile organizzazione di società non residente in una società residente in Italia è soggetta al regime di neutralità previsto dall’articolo 176 in base al combinato disposto degli articoli 178, comma 1, lett. c) e 179 comma 2.
L’articolo 176, come noto, prevede un regime di neutralità, con continuità dei valori fiscali e senza emersione di plusvalenze tassabili, a condizione che il soggetto conferente assuma quale valore delle partecipazioni ricevute in cambio del conferimento il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita, nel nostro caso la stabile organizzazione, ed il conferitario subentri nella posizione del conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa sulla base dei medesimi valori fiscali che essi avevano presso il soggetto conferente.
L’interpretazione dell’Ufficio non solleva particolari criticità in quanto, tutto sommato,
aderente al dettato normativo.
Di assoluto interesse, tuttavia, appare anche il successivo intervento ad opera della risoluzione AdE 63/E/2018. Anche in questo caso la posizione dell’Ufficio risulta essere assolutamente coerente col dato normativo.
Il caso oggetto della risoluzione AdE 63/E/2018 è quello di una società di diritto francese (Beta), con sede legale e residenza fiscale in Francia, che detiene una stabile organizzazione Alfa in Italia.
La stabile organizzazione italiana svolge in Italia due distinte attività:
1. assicurazione del credito, consistente nell’offerta alle aziende clienti di copertura assicurativa contro il rischio di insolvenza dei debitori con cui le aziende stesse intrattengono rapporti commerciali (d’ora in poi indicata come attività assicurativa); e
2. raccolta e valutazione di informazioni commerciali e di monitoraggio del rischio di insolvenza dei debitori e clienti italiani.
Queste due attività corrispondono a due distinti rami d’azienda. È intenzione della casa madre francese (Beta) conferire solamente uno dei due rami di azienda della stabile Alfa, in una società Gamma italiana totalmente controllata da Beta.
Gamma è una società di diritto italiano che svolge servizi per la gestione del credito e in particolare un’attività di recupero del credito e vendita di informazioni commerciali. Gamma è una società che esiste prima dell’operazione di conferimento.
A differenza del caso precedentemente affrontato, pertanto, non si realizza il conferimento della stabile in toto, bensì solo di uno dei due rami di azienda della stabile. Potremmo affermare – in modo atecnico – che è stato conferito solo “un pezzo della stabile organizzazione”.
Dalla risoluzione leggiamo che:
1. Gamma (conferitaria) aumenterà “il proprio capitale in misura pari al valore netto contabile del ramo d’azienda” oggetto del conferimento;
2. la quota della partecipazione, pari al valore di detto aumento di capitale sociale, verrà direttamente attribuita ad Alfa, ossia alla stabile organizzazione, senza essere trasferita o assegnata a Beta.
Il secondo punto è quello di maggiore interesse. A seguito del conferimento la stabile organizzazione Alfa non iscriverà l’intera partecipazione in Gamma, ma solo una quota della stessa.
La situazione che si crea è alquanto singolare. In sostanza, a seguito dell’operazione di conferimento, la società francese Beta conserverà giuridicamente l’intera partecipazione in Gamma in quanto, anche ciò che è detenuto dalla propria stabile, è di fatto detenuto dalla casa
madre, tuttavia, una parte della partecipazione continuerà a esser detenuta direttamente mentre, un’altra parte della partecipazione, ossia quella derivante dal conferimento del ramo azienda precedentemente detenuto dalla stabile Alfa, risulterà detenuta per il tramite della stessa stabile Alfa.
A seguito del conferimento, pertanto, non essendo intervenuto il trasferimento integrale della stabile nella società conferitaria, la stabile continuerà ad esistere e la partecipazione nella società conferitaria acquisita a seguito del predetto conferimento, rimarrà, per così dire, “intrappolata” nella sfera di impresa italiana della stabile.
A ben vedere la casistica è assolutamente equiparabile a quella dell’imprenditore individuale che conferisce solo un ramo di azienda in una società conferitaria. La partecipazione acquisita rimarrà nella sfera dell’impresa individuale. Diversamente, in ipotesi di conferimento dell’intera azienda da parte dell’imprenditore individuale, la partecipazione fuoriesce dal regime di impresa e viene detenuta nella sfera privatistica.
ORGANIZZAZIONE STUDI E M&A
Gli accordi tipici nell’ambito delle operazioni di acquisizione/aggregazione di un’attività professionale
di Xxxxxxxxxx Xxxxx di MpO & Partners
Nel corso dei nostri contributi pubblicati sulle pagine di EC NEWS, abbiamo ripetutamente evidenziato che il contratto di cessione/acquisizione di uno studio professionale, pur prevedendo una necessaria monetizzazione in favore del professionista cedente (aggregato), si inserisce a pieno titolo nell’ambito della più ampia famiglia dei contratti di aggregazione fra professionisti, così come si è più volte evidenziato che tale operazione costituisce la concretizzazione di progetti di sviluppo professionale, capaci di creare ricadute positive su una vasta platea di soggetti: titolari degli studi, collaboratori, dipendenti, fornitori e amministrazione statale.
Ogni operazione va cucita su misura, avendo riguardo, ad esempio, alla tipologia dello studio oggetto di aggregazione, l’età e le esigenze del professionista aggregato, le caratteristiche del soggetto aggregatore, ma ciò nonostante è possibile individuare e descrivere una serie di accordi che caratterizzano nella prassi la categoria generale delle operazioni di acquisizione/aggregazione di uno studio professionale. Le possiamo riepilogare come segue.
1. Determinazione di un corrispettivo tramite l’individuazione di un fatturato annuo cedibile prodotto dalla clientela dello studio aggregato e l’applicazione al medesimo del moltiplicatore calcolato tramite il metodo dell’analisi di regressione.
2. Pagamento del corrispettivo pattuito mediante un importante acconto iniziale ed un saldo spalmato in un periodo di tempo indicativo di 3/5 anni.
3. Permanenza del professionista cedente/aggregato all’interno della struttura per un periodo di affiancamento/canalizzazione della clientela a cui farà seguito, nella maggioranza dei casi, un periodo di collaborazione, il cui oggetto, impegno e durata verranno pattuiti caso per caso, ma da cui sempre deriverà un reddito a favore del professionista aggregato/cedente; in certi casi, soprattutto quando il professionista aggregato non è vicino all’età pensionabile, la sua permanenza nel medio/lungo termine all’interno della struttura (come socio o collaboratore) costituisce,
nell’interesse di entrambe le parti, condizione sine qua non per il perfezionamento dell’operazione.
4. Previsione di una clausola di verifica del fatturato annuo prodotto dalla clientela dello
studio nel corso del periodo prestabilito di affiancamento/canalizzazione della clientela e conseguente eventuale adeguamento del prezzo tramite applicazione del suindicato moltiplicatore alla variazione riscontrata del fatturato.
5. Condivisione delle strategie di canalizzazione/presentazione/condivisione della clientela.
6. Pattuizione di un obbligo di non concorrenza a carico del professionista aggregato, in relazione sia alla clientela dello studio oggetto di aggregazione sia alla possibilità di svolgere l’attività in un determinato luogo e per un certo periodo di tempo.
7. In deroga a quanto stabilito al punto precedente, possibilità per il professionista cedente di continuare a svolgere liberamente la parte di attività professionale non cedibile, come ad esempio gli incarichi giudiziali, di sindaco, di amministratore, godendo, a tal fine, del supporto operativo del suo vecchio studio.
8. Contrattualizzazione di un accordo separato di collaborazione.
9. Mantenimento della sede e qualora la sede dell’attività sia di proprietà del professionista aggregato, pagamento in suo favore di un canone di locazione per il godimento dell’immobile.
10. Mantenimento all’interno della struttura di tutto o buona parte del personale dello studio, con eventuale previsione di un accollo liberatorio del debito per Tfr e ratei maturati dai dipendenti.
11. Centralizzazione di tutta l’attività gestionale/amministrativa e conseguenziale smarcamento del professionista cedente dallo svolgimento della stessa.
12. Previsione di una regola generale per cui debiti e crediti dello studio non passano all’aggregatore e seguono i principi di competenza.
13. Costituzione di un veicolo societario/associativo ad hoc, nell’ambito del quale sia prevista la partecipazione del professionista aggregato ed il mantenimento di un richiamo al suo nome o brand, con diritto comunque al suo utilizzo da parte del professionista aggregatore.
14. Condivisione delle strategie di comunicazione alla clientela.
15. Qualora lo studio aggregato si avvalga di una società di servizi per l’esercizio della sua attività, utilizzo a supporto dell’operazione dei negozi di affitto e/o cessione di azienda e/o di quote.
Trattasi pertanto di un’operazione atipica, frutto di una prassi sviluppata dal mercato e tendenzialmente orientata alla realizzazione di una struttura che garantisca un equilibrio sostenibile fra le esigenze delle parti. Il tutto senza mai perdere di vista due principi cardine: necessità di mantenere/rinnovare i rapporti fiduciari in essere con la clientela e necessità di mantenere/migliorare gli standard qualitativi della prestazione professionale.