CONTRATTO E INADEMPIMENTO
CONTRATTO E INADEMPIMENTO
Le tutele sostanziali e processuali
Sommario
a cura di Luca D’Apollo
PARTE I - I CASI GIURISPRUDENZIALI 3
1) ASSICURAZIONE. LA CLAUSOLA “CLAIMS MADE” NON È VESSATORIA: MA L’ULTIMA PAROLA SPETTA AL GIUDICE 3
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140 3
2) AREE A PARCHEGGIO: SI APPLICA LA DISCIPLINA VIGENTE AL MOMENTO DELLA COSTRUZIONE DELL'IMMOBILE 15
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445 15
3) ARRICHIMENTO SENZA GIUSTA CAUSA DELLA P.A.: CHI DEVE PAGARE LA PRESTAZIONE NON CONTRATTUALIZZATA? 20
Cassazione, Sez. Unite, 26 maggio 2015, n. 10798 20
4) IL CONTRATTO DI LOCAZIONE SENZA FORMA SCRITTA È NULLO? SECONDO LE SEZIONI UNITE SÌ, SALVO UN CASO. 28
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18214 29
5) È VALIDA LA PATTUIZIONE DI UN MAGGIORE CANONE DI LOCAZIONE IN NERO? 38
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18213 38
6) LOCAZIONE DI IMMOBILI URBANI ADIBITI AD USO NON ABITATIVO: LA RINNOVAZIONE TACITA DEL CONTRATTO ALLA PRIMA SCADENZA COSTITUISCE UN EFFETTO AUTOMATICO? 53
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830 55
7) LOCAZIONE DI UN IMMOBILE IN COMPROPRIETÀ: IL COMPROPRIETARIO NON STIPULANTE PUÒ ESIGERE METÀ DEL CANONE? 64
Cassazione, Sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135 64
8) COMPRAVENDITA: E’ SUFFICIENTE UNA DENUNCIA GENERICA DEI VIZI DEL BENE OGGETTO DI COMPRAVENDITA 79
Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027 79
9) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. NULLITÀ PER MANCANZA DELLA CONCESSIONE EDILIZIA: NON SI APPLICA AL CONTRATTO PRELIMINARE 83
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483 83
10) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. ANCHE SE NELL'ATTO DI COMPRAVENDITA È SCRITTO CHE IL PREZZO È STATO CORRISPOSTO, È POSSIBILE FORNIRE PROVA DEL CONTRARIO 88
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573 88
11) PATTO COMMISSORIO. LA RETROVENDITA È NULLA SE STIPULATA PER CAUSA DI GARANZIA E NON DI SCAMBIO 94
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075 94
12) IL CONTRATTO ESTIMATORIO È UN CONTRATTO REALE, IL VINCOLO SORGE CON LA CONSEGNA DELLA MERCE 99
Cassazione, sez. III, 21 dicembre 2015, n. 25606 99
13) QUAL È LA DIFFERENZA TRA CONTRATTO DI APPALTO E DI COMPRAVENDITA 105
Cassazione, Sez. II, 17 gennaio 2014, n.872 105
14) CONTRATTO DI PARCHEGGIO E FURTO DELL’AUTO 110
Cassazione, Sez. Unite, 28 giugno 2011, n. 14319 110
PARTE II - LE QUESTIONI PROCESSUALI 121
15) AZIONE REDIBITORIA O ESTIMATORIA? QUESTO È IL PROBLEMA 121
Cassazione, Sez. II, 26 agosto 2015, n. 17138 121
16) LA DEDUZIONE DELL’INEFFICACIA DEL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR
COSTITUISCE ECCEZIONE IN SENSO STRETTO O IN SENSO LATO? 126
Cassazione, Sezioni Unite, 3 giugno 2015, n. 11377 126
17) LE SEZIONI UNITE SUL RAPPORTO TRA RISOLUZIONE E RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO 138
Cassazione, Sezioni Unite, 11 aprile 2014, n. 8510 144
18) COMPRAVENDITA SIMULATA PER INTERPOSIZIONE FITTIZIA DELL’ACQUIRENTE: L’ALIENANTE È SEMPRE LITISCONSORTE NECESSARIO? 159
Cassazione, Sezioni Unite, 14 maggio 2013, n. 11523 159
19) APPALTO. ELIMINAZIONE DEI VIZI E RIDUZIONE DEL PREZZO: LE DOMANDE PROPOSTE IN VIA ALTERNATIVA SI ESCLUDONO A VICENDA 170
Cassazione, sez. II, 2 marzo 2015, n. 4161 170
20) MANDATO ED AZIONI ESPERIBILI DAL MANDANTE 177
Cassazione, Sezioni Unite, 8 ottobre 2008, n. 24772 177
PARTE I - I CASI GIURISPRUDENZIALI
1)ASSICURAZIONE. LA CLAUSOLA “CLAIMS MADE” NON È VESSATORIA: MA L’ULTIMA PAROLA
SPETTA AL GIUDICE
Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile, la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claimes made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, nell’ambito della disciplina di protezione del consumatore, per il fatto di determinare, a carico del consumatore stesso, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140
Con la sentenza a Sezioni Unite del 6 maggio 2016, n. 9140, il S.C. chiarisce alcuni aspetti in ordine alla validità o meno della clausola “claims made”, chiarendo, preliminarmente, che la stessa non è vessatoria e che quindi bisogna verificare in concreto l’applicazione della stessa all’interno del tessuto contrattuale.
Il caso. La vicenda decisa dal S.C. consente di risolvere, almeno sotto un profilo, la questione della validità o meno della clausola “claims made”, ovvero di quella clausola, spesso presente nei contratti per la responsabilità civile, in forza della quale la copertura della responsabilità è limitata al fatto che l’illecito o la domanda risarcitoria pervengano nel periodo di vigenza del contratto. In primo grado, infatti, vi era stata la condanna di un ospedale per il danno arrecato ad un paziente e la contestuale condanna delle compagnie assicurative dell’ospedale stesso. Avverso tale pronuncia, una compagnia assicurativa ha fatto appello sostenendo che erroneamente la clausola “claims made”, presente nei contratti per cui è causa, fosse ritenuta vessatoria e, quindi, inapplicabile. Accolta in sede di gravame, tale domanda trova accoglimento e conferma anche in sede di legittimità, sulla base del principio espresso dalla massima di cui sopra.
Clausola claims made: come e perché. Pur se elaborata con diverse varianti nei contratti per la responsabilità civile, può comunque affermarsi, in linea di principio, che la clausola “claims made” prevede il possibile sfasamento fra prestazione dell'assicuratore, ovvero l'obbligo di indennizzo in relazione all'alea del verificarsi di determinati eventi, e la controprestazione dell'assicurato, consistente nel pagamento del premio. Ciò significa che possono essere coperti da assicurazione comportamenti dell'assicurato antecedenti alla data di conclusione del contratto, qualora la domanda di risarcimento del danno sia per la prima
volta proposta dopo tale data. Viceversa, possono essere sforniti di garanzia comportamenti tenuti dall'assicurato nel corso della piena validità ed efficacia della polizza, allorché la domanda di risarcimento dei danni sia proposta successivamente alla cessazione degli effetti del contratto. Tale clausola è stata oggetto di numerose e contrastanti interpretazioni della giurisprudenza.
Clausole claims made: valide e legittime. Secondo una parte della giurisprudenza, sono legittime le clausole claims made - che prevedono, come visto, il possibile sfasamento tra prestazione dell'assicuratore e controprestazione dell'assicurato, per cui possono risultare coperti da assicurazione comportamenti dell'assicurato anteriori alla data di conclusione del contratto, qualora la domanda di risarcimento del danno sia per la prima volta proposta dopo tale data - sui contratti di assicurazione della responsabilità professionale.
Clasola claims made: nullità per mancanza del rischio. Al contrario, alcune pronunce hanno precisato che la clausola “claims made” apposta ad un contratto di assicurazione della responsabilità civile, in virtù della quale l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato non già dei danni causati durante la vigenza del contratto assicurativo, ma delle richieste risarcitorie che gli pervengano durante tale periodo, costituisce assicurazione di un rischio putativo, ed è pertanto nulla.
Clausola claims made: altera il sinallagma contrattuale. Analogamente, secondo altre pronunce, la clausola “claims made” contenuta in un contratto di assicurazione per la responsabilità civile altera il sinallagma contrattuale, contrastando con lo schema tipico dell'assicurazione per i danni; è in contrasto con il principio di libera concorrenza europeo e costituisce una limitazione di responsabilità dell'assicuratore, con conseguente sua nullità e sostituzione con lo schema tipico del contratto di assicurazione previsto dall'art. 1917 c.c..
Clausola claims made: valida ma vessatoria. Secondo un altro orientamento, la clausola “claims made” ha natura vessatoria, ed è nulla se non sottoscritta due volte. In particolare, va distinta la vessatorietà in astratto di una clausola “claims made”, che non può ritenersi sussistente per la mera contrarietà alla disciplina di cui all'art. 1917 c.c., da quella in concreto, che è compito, invece, del giudice di merito valutare caso per caso anche mediante un'interpretazione sistematica della varie clausole contrattuali.
Clausola claims made: necessaria una verifica in concreto. Nel solco della sentenza in commento, in alcune pronunce i giudici hanno precisato che nei contratti assicurativi disciplinati dagli artt. 1341 e 1342 c.c., la clausola “claims made” non va considerata vessatoria qualora la sua funzione limitatrice della responsabilità si estrinsechi in una previsione deputata all'individuazione dell'oggetto del contratto. Diversamente, quando tale pattuizione venga predisposta separatamente da altra idonea a definire l'oggetto del contratto, essa svolge una funzione chiarificatrice ulteriore a carattere limitativo della garanzia, e pertanto necessita di apposita sottoscrizione ai sensi dell'art. 1341, comma 2, c.c..
Clausola claims made: delimita (solo) l’oggetto del contratto. Il rifiuto della natura vessatoria della clausola in questione, viene ravvisato, dalla sentenza in commento – ma anche da ulteriori pregresse pronunce – dal fatto che la pattuizione cosiddetta “a richiesta fatta” (“claims made”), inserita - a prescindere dalla sua veste grafica di clausola contrattuale (o meno) - in un contratto assicurativo, non è apprezzabile in termini di vessatorietà quando costituisce espressione di un accordo delle parti diretto a delimitare l'oggetto stesso del contratto, dovendosi ritenere in tal caso realizzata una lecita deroga al modello legale tipico previsto dall'art. 1917, comma 1, c.c.; essa, per contro, presenta natura vessatoria quando, nell'economia complessiva della polizza, si atteggi a “condizione” volta a limitare l'oggetto del contratto come definito da altra clausola, e ciò in ragione della funzione limitativa che svolge, in tale ipotesi, della precedente e più ampia previsione contrattuale.
Cassazione, sez. Unite Civili, 6 maggio 2016, n. 9140 (Pres. Rordorf – Rel. Xxxxxxxx)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 dicembre 2008 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta da P.A. nei confronti della Provincia Religiosa di S. Xxxxxx dell’Ordine Ospedaliero di S. Xxxxxxxx xx Xxx Fatebenefratelli (di seguito anche solo Provincia Religiosa), domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti per effetto della condotta dei medici della struttura che lo avevano curato. E nel condannare l’ente al pagamento della somma liquidata al paziente a titolo di ristoro dei pregiudizi patiti, dichiarò tutte le compagnie assicurative chiamate in causa dalla convenuta tenute a manlevare la responsabile-assicurata nei limiti previsti dalle rispettive polizze.
Propose appello la Società Cattolica di Assicurazioni s.p.a., anche quale delegataria delle coassicuratrici Zurich Insurance PLC (per la quota del 30%) e di Reale Mutua (per la quota del 20%), censurando la ritenuta inoperatività della clausola c.d. claims made - letteralmente "a richiesta fatta" - inserita nella polizza n. 11891, da essa stipulata con la Provincia Religiosa, in quanto derogativa, secondo il giudice di prime cure, del primo comma dell’art. 1917 cod. civ., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti accaduti durante la vigenza del contratto. Sostenne segnatamente l’esponente che, nell’adottare tale errata soluzione, il decidente non aveva considerato che la pattuizione intitolata "Condizione speciale - Inizio e Termine della Garanzia", in base alla quale la manleva valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell’assicurazione, purché il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula, era pienamente valida ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta a delimitare l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.
Con la sentenza ora impugnata, depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda di manleva della Provincia nei confronti della Cattolica e delle coassicuratrici.
In motivazione la Curia capitolina, affermata la piena validità della clausola, ne ha altresì escluso il carattere vessatorio rilevando che la stessa, lungi dal rappresentare una limitazione della responsabilità della società assicuratrice, estende la copertura ai fatti dannosi verificatisi prima della stipula del contratto.
Il ricorso della Provincia Religiosa avverso detta decisione è articolato su tre motivi.
Si sono difese con controricorso la Società Cattolica Assicurazioni Coop. a r.l. e Zurich Insurance PLC.
A seguito di istanza dell’impugnante, il Primo Presidente, ritenuto che la controversia presentava una questione di massima di particolare importanza, ne ha disposto l’assegnazione alle sezioni unite.
Fissata l’udienza di discussione, entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione
1. Va anzitutto sgombrato il campo dall’eccezione, sollevata in limine dalla Società Cattolica di Assicurazione Coop. a r.l. e dalla Zurich Insurance PLC, di inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza. Sostengono invero le resistenti che l’impugnazione violerebbe il disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod. proc. civ., posto che non sarebbe riportato il testo del contratto né ne sarebbe indicata l’esatta allocazione nel fascicolo processuale.
Il rilievo non ha pregio.
La preliminare verifica evocata dalle società assicuratrici è destinata ad avere esito positivo a condizione che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto nonché di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle argomentazioni con le quali il decidente ha giustificato la scelta decisoria adottata.
Nello specifico, il nodo problematico sul quale è stato sollecitato l’intervento nomofilattico delle sezioni unite, attiene alla validità di una clausola il cui contenuto è assolutamente pacifico tra le parti ed è comunque stato trascritto in ricorso, di talché non avrebbe senso sanzionare con l’inammissibilità l’omissione delle indicazioni necessarie alla facile reperibilità del testo dell’intero contratto, considerato che nessun ausilio esso apporterebbe alla soluzione delle questioni poste dalla proposta impugnazione. È sufficiente all’uopo considerare che le deduzioni hinc et inde svolte a sostegno delle rispettive tesi difensive, omettono qualsivoglia riferimento a pattuizioni diverse da quella racchiusa nella clausola in contestazione, volta a circoscrivere, nei sensi che di qui a poco si andranno a precisare, l’obbligo della garante di manlevare la garantita.
2.1. Per le stesse ragioni, e specularmente, l’eccezione di giudicato esterno sollevata da entrambe le parti, nelle memorie ex art. 378 cod. proc. civ. e nel corso della discussione orale, in relazione a sentenze definitive che, con riferimento alla polizza n. 11891 oggetto del presente giudizio, avrebbero pronunciato sulla validità della contestata condizione, non può sortire l’effetto di precludere la decisione di questa Corte sul merito della proposta impugnazione.
Mette conto in proposito ricordare che, nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con i criteri redazionali desumibili dal disposto dell’art. 366, n. 6, cod. proc. civ.. E tanto per la dirimente considerazione che l’interpretazione del giudicato esterno, pur essendo assimilabile a quella degli elementi normativi astratti, in ragione della sua natura di norma regolatrice del caso concreto, va comunque effettuata sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, di talché la relativa deduzione soggiace all’onere della compiuta indicazione di tutti gli elementi necessari al compimento del sollecitato scrutinio (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 2015, n. 24952).
2.2. Venendo al caso di specie, le contrapposte deduzioni delle parti in ordine all’esistenza di sentenze passate in giudicato che, con esiti niente affatto coincidenti, si sarebbero pronunciate sulle questioni oggetto del presente giudizio, non sono accompagnate dalla indicazione degli elementi indispensabili alla verifica della fondatezza dell’eccezione, nei sensi testè esplicitati.
Ne deriva che l’eccezione di giudicato esterno va disattesa.
3.1. Passando quindi all’esame della proposta impugnazione, con il primo motivo, la Provincia Religiosa, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360, nn. 3, 4, 5 cod. proc. civ., contesta la negativa valutazione della natura vessatoria della clausola.
Rileva segnatamente l’esponente che la stessa, non integrando l’oggetto del contratto, ma piuttosto limitando la responsabilità della compagnia assicuratrice, ovvero prevedendo decadenze, limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni e restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, facoltà di sospendere l’esecuzione, richiedeva una specifica sottoscrizione, nella specie mancante. Aggiunge che, mentre la previsione pattizia non infirma la tipicità dello schema negoziale, l’estensione della garanzia a sinistri occorsi in periodi precedenti alla vigenza della polizza è ben possibile anche in contratti conformati sul modello boss occurrence. In ogni caso - evidenzia - l’art. 1341 cod. civ. è norma che riguarda tutti i contratti, tipici o atipici che siano.
3.2. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 2964 e 2965 cod. civ., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ.. Sostiene che la condizione apposta al contratto sarebbe nulla, ex art. 2965 cod. civ., per l’eccessiva difficoltà che ne deriverebbe all’esercizio del diritto alla manleva dell’assicurato, questione sulla quale la Corte di merito non si era affatto pronunciata, benché la stessa fosse stata tempestivamente sollevata sin dal primo grado del giudizio.
3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1374 e 1375 cod. civ., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su
punti decisivi della controversia, ex art. 360 nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ. Sostiene l’esponente che la clausola in contestazione sarebbe nulla per contrarietà ai principi di correttezza e buona fede, poiché essa, intitolata inizio e termine della garanzia, non contiene alcun richiamo espresso alla circostanza che viene assicurato non già il fatto foriero di danno, ma la richiesta di danno che, insieme al fatto, deve intervenire nel corso di vigenza temporale della polizza.
4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondate.
Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema denominato "loss occurrence", o "insorgenza del danno", sul quale è conformato il modello delineato nell’art. 1917 cod. civ., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto.
Senza addentrarsi nella "storia" della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perché provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere.
5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale, esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie: a) clausole
c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto); b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
6.1. Tanto premesso e precisato, ragioni di ordine logico consigliano di partire dall’esame delle censure con le quali l’impugnante contesta in radice la validità della clausola claims made, segnatamente esposte nel secondo e del terzo motivo di ricorso.
Orbene, in relazione ai particolari profili di nullità ivi evocati, le critiche sono destituite di fondamento, ancorché la problematica della liceità dei patti in essa racchiusi non possa esaurirsi nella loro confutazione e necessiti di alcune, significative precisazioni.
Anzitutto non è condivisibile l’assunto secondo cui il decidente non avrebbe risposto alla deduzione di nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 cod. civ..
La Corte territoriale ha invero scrutinato la validità del patto, espressamente negando, ancorché con motivazione estremamente sintetica, che lo stesso integrasse violazione di alcuna norma imperativa. Il che significa che la prospettazione dell’appellata non è sfuggita al vaglio critico del giudicante.
6.2. Deve in ogni caso escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle "richieste di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell’assicurazione", in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione.
E invero l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonché a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso.
Ne deriva che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell’art. 2965 cod. civ..
7.1. Pure infondata è la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Non è qui in discussione che i reiterati richiami del codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il proprio comportamento (art. 1175 cod. civ.), alla buona fede come criterio informatore della interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1.375 cod. civ.), e all’equità, quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle parti (art. 1374 cod. civ.), facciano della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato; né che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia, giochino un ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese; né, ancora, che, attraverso le richiamate norme, possa venire più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti abbiano inteso raggiungere.
7.2. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del rigetto delle proposte censure, è che, in disparte quanto appresso si dirà (al n. 17.), in ordine al giudizio di meritevolezza di regolamenti negoziali oggettivamente non equi e gravemente sbilanciati, la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative, richiama "nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore", secondo l’icastica enunciazione della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).
7.3. Ora, con specifico riguardo alle censure svolte nel terzo motivo, ciò di cui l’impugnante Provincia Religiosa si duole è che l’inserimento della clausola sia avvenuta in maniera asseritamente subdola, posto che la sua denominazione "inizio e termine della garanzia" avrebbe fuorviato il consenso dell’aderente, affatto inconsapevole di un contenuto che stravolge lo schema codicistico del contratto assicurativo, ispirato alla formula loss occurence: da tanto inferendo non già l’esistenza di ipotesi di annullabilità per errore o dolo o di variamente modulati diritti risarcitori dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma la nullità radicale e assoluta della clausola sub specie di illiceità che vitiatur sed non vitiat, con conseguente attivazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 1419, secondo comma, cod. civ., implicitamente, ma inequivocabilmente evocato.
E tuttavia, si ripete, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, al quale si intende dare continuità, che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, non già l’inosservanza di norme, quand’anche imperative, riguardanti
il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462; Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724).
Ne deriva che le censure poste nel primo e nel secondo motivo di ricorso non colgono nel segno.
8.1. L’ampiezza dello scrutinio nomofilattico sollecitato e le peculiarità proprie della fattispecie dedotta in giudizio, inducono queste sezioni unite a esaminare un ulteriore, possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, per vero assai dibattuto, soprattutto in dottrina e nella giurisprudenza di merito.
Merita evidenziare, sul piano fattuale: a) che il sinistro, e cioè l’omessa diagnosi dei cui effetti pregiudizievoli P.A. ha chiesto di essere ristorato, si è verificato nell’agosto 1993; b) che l’arco temporale di vigenza della polizza dedotta in giudizio andava dal 21 febbraio 1996 al 31 dicembre 1997, con effetto retroattivo al triennio precedente; c) che la copertura assicurativa era in ogni caso limitata alle richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il periodo di operatività dell’assicurazione, e quindi entro il 31 dicembre 1997; d) che nella fattispecie la domanda del paziente venne avanzata nel giugno 2001.
E allora, considerato che il sinistro di cui la chiamante ha chiesto di essere indennizzata si è verificato in epoca antecedente alla stipula del contratto, risulta ineludibile il confronto con la vexata quaestio della validità dell’assicurazione del rischio pregresso. Si ricorda all’uopo che l’assicurabilità di fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del contratto, ma ignorati dall’assicurato, è stata ed è fortemente osteggiata da coloro che ravvisano nella clausola claims made così strutturata una sostanziale mancanza dell’alea richiesta, a pena di nullità, dall’art. 1895 cod. civ.. E invero - si sostiene - posto che il rischio dedotto in contratto deve essere futuro e incerto, giammai il cd. rischio putativo potrebbe trovare copertura.
9. Da tale opinione le Sezioni unite ritengono tuttavia di dovere dissentire, così confermando l’orientamento già espresso da questa Corte negli arresti n. 7273 del 22 marzo 2013, e n. 3622 del 17 febbraio 2014.
Affatto convincente appare in proposito il rilievo che l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 cod. civ. per le dichiarazioni inesatte o reticenti. A ciò aggiungasi che, come innanzi evidenziato, il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impoverimento patrimoniale del danneggiante- assicurato.
Non a caso, del resto, il rischio putativo è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento dall’art. 514 del codice navigazione, con disposizione che non v’è motivo di ritenere eccezionale.
10. L’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi - disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva - volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale
delineato nell’art. 1917 cod. civ. che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perché vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva.
11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intagibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 cod. civ., che tra le norme inderogabili non menziona il primo comma dell’art. 1917 cod. civ. Il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di tenere indenne il garantito "di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione", deve pagare a un terzo.
Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.
12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi l’essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l’obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione.
Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.
13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 cod. civ., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta prospettiva si predica che si ha delimitazione dell’oggetto quando la clausola negoziale ha lo scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della responsabilità quella che ha l’effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in tesi,nell’oggetto, sarebbe altrimenti insorta.
14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 cod. civ. non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma - inserito all’interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall’area della risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, primo comma, ultimo periodo); in cui sono imposti all’assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato l’obbligo di salvataggio (art. 1914 cod. civ.) - si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l’assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624).
Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della fattispecie ipotetica delineata nell’art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare
l’assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata. L’affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con riferimento ai contratti assicurativi con clausola claims made pura, non resiste, con riguardo alle altre, al dirimente rilievo che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l’assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell’assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all’indennizzo - e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo.
15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola clamis made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell’art. 1905 cod. civ., l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato. E poiché non è seriamente predicabile che l’assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 cod. civ., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità.
16. Infine, e conclusivamente, nessuna consistenza hanno gli altri profili di vessatorietà evocati dalla Provincia Religiosa, a sol considerare che la pretesa, pattizia imposizione di decadenze è resistita dai medesimi rilievi svolti a proposito dell’eccepita nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 cod. civ.; che la deduzione di un’incisione della libertà contrattuale del contraente non predisponente costituisce al più un inconveniente pratico che, in quanto effetto riflesso delle condizioni della stipula, è semmai passibile di valutazione in sede di scrutinio sulla meritevolezza della tutela, di cui appresso si dirà; che inesistente, infine, è la prospettata limitazione alla facoltà dell’assicurato di opporre eccezioni.
Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso sia le ragioni di nullità fatte valere dall’esponente che il carattere vessatorio della clausola.
17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall’art. 1341 cod. civ., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico, inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete. E invero i dubbi avanzati da questa Corte allorché, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità dell’esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che, in casi siffatti, verrebbe a mancare, "in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo" (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622), non appaiono passibili di risposte univoche, in disparte il loro indiscutibile impatto emotivo. È sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione del fatto illecito, mentre l’esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il
sinistro che la richiesta di risarcimento. Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso, l’apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell’ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell’assicurato antecedenti alla stipula, di talché l’eventualità, paventata nell’arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all’indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l’esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talché anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.
18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel "significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto" presidiato dalla nullità di protezione, di cui all’art. 36 d.lgs. n. 206 del 2005. E ancorché la pacifica limitazione della tutela offerta dalla menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata - dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) - escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l’ipotesi di una sua rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio. Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che attestarsi su una soglia di incisione dell’elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell’immeritevolezza, affidato ai principi generali dell’ordinamento.
19. Va poi da sé che l’esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sé di fulminante evidenza in un senso o nell’altro, non può prescindere dalla considerazione, da un lato, dell’esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorché in tesi qualificabile come "professionista", è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile; dall’altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l’entità del premio pagato dall’assicurato, così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.
20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in xxx xx xxxxxxxxx - xxxxxxxxxxx xxxx’xxxx xxxxx xxxx scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto innanzi detto (al n. 7.2), dalla sola tutela risarcitoria - non possono non avere carattere reale, con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti dal secondo comma dell’art. 1419 cod. civ. nonché del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 della Costituzione "che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa" (Corte cost. n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).
21. Prima di chiudere, verificando la ricaduta degli esposti criteri sulla fattispecie dedotta in giudizio, non possono queste sezioni unite ignorare la delicata questione della compatibilità della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la
responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività. Mette conto in proposito ricordare: a) che l’art. 3, comma 5, decreto legge n. 138 del 2011, convertito con legge n.
148 dello stesso anno, nell’elencare i principi ai quali devono ispirarsi le riforme degli ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto, ha previsto alla lett. e), l’obbligo per tutti di stipulare "idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale", nonché di rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e il relativo massimale; b) che il successivo d.P.R. n. 137 del 7 agosto 2012, nel ribadire siffatto obbligo - la cui violazione costituisce peraltro illecito disciplinare - e nel precisare che la stipula dei contratti possa avvenire "anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti", ha prorogato di un anno dall’entrata in vigore della norma, e dunque fino al 15 agosto 2013, l’obbligo di assicurazione; c) che con specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie il decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito con la legge 8 novembre 2012, n. 189, ha poi demandato a un decreto del Presidente della Repubblica la disciplina delle procedure e dei requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, mentre il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto fare), convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ha allungato al 13 agosto 2014 l’obbligo degli stessi di munirsi di assicurazione di responsabilità civile.
22. Ciò posto, e rilevato che è stata da più parti segnalata l’incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. È peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle "convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti", nonché in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti.
23. Tornando al caso dedotto in giudizio, si tratta a questo punto di verificare, alla stregua degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass. civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a..
A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha segnatamente valorizzato, ancorché al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia ai fatti dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare.
Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in sede di legittimità.
18. Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla
per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.
La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
2)AREE A PARCHEGGIO: SI APPLICA LA DISCIPLINA VIGENTE AL MOMENTO DELLA COSTRUZIONE
DELL'IMMOBILE
La Cassazione, accogliendo la richiesta del costruttore-venditore, precisa che la disciplina giuridica relativa alla circolabilità delle aree a parcheggio è dettata dalla normativa vigente al momento del rilascio del permesso di costruire e non quella in vigore al momento dell'atto di compravendita che, in ipotesi, potrebbe intervenire anche a distanza di decenni dalla costruzione.
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445
Lo ha precisato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13445/16, depositata il 30 giugno.
Il caso in esame. La lite scoppia, come al solito, per la cronica mancanza di parcheggi. L'acquirente, come da copione, cita in giudizio il costruttore-venditore chiedendo che venga riconosciuto il diritto ad ottenere il posto auto. Scatta anche una doppia richiesta risarcitoria: non potendo utilizzare il posto auto, l'acquirente era stato costretto a prendere in locazione un apposito spazio (danno emergente); se l'acquirente fosse stato in possesso del posto auto, avrebbe potuto cederlo in locazione a terzi ottenendo il relativo canone (lucro cessante). Di contro, il venditore, seguendo un canovaccio ormai ampiamente consolidato, chiedeva che la domanda fosse rigettata in quanto l'atto di compravendita non prevedeva alcun posto auto; nel caso di accoglimento della domanda, chiedeva fosse liquidato un equo compenso per la vendita del posto auto.
Il parere del Tribunale. Come di consueto, il Tribunale riconosce il diritto reale d'uso dell'acquirente sull'area a parcheggio vincolata ovvero su quella superficie costituente lo standard urbanistico. Inaspettatamente, però, rigetta la domanda del venditore al compenso per l'esercizio di tale diritto. In sostanza, secondo il giudice di primo grado, è come se il valore del posto auto fosse stato incorporato nel prezzo di vendita dell'appartamento.
La Corte d'appello riequilibra la situazione. La Corte territoriale riequilibra i pesi modificando la sentenza di primo grado in favore del venditore. Viene rigettata la domanda con cui il venditore invocava la l. n. 246/2005; tale norma, come noto, riconosce espressamente che i posti auto possano essere venduti autonomamente e separatamente rispetto alle unità immobiliari abitative. Secondo la Corte, sarebbe invece applicabile l'art. 2 della l. n. 122/1989, vigente all'epoca della compravendita, che vieta la vendita delle aree vincolate a parcheggio in favore dei terzi. Bisogna peraltro sottolineare che la norma è del 2005 e non ha effetto retroattivo per cui non può essere applicata al caso in esame, in cui la vendita risaliva agli anni '90.
In riforma della sentenza di primo grado, per ristabilire il sinallagma contrattuale, la Corte territoriale non solo riconosce al venditore il diritto alla integrazione del prezzo, ma provvede ad aumentare la stima effettuata dal C.T.U.. Viene ridotta, inoltre, la quantificazione del danno subito dall'acquirente in favore del quale viene riconosciuto solo il c.d. danno emergente ovvero quanto versato per la locazione di un posto auto e non (come aveva fatto il Tribunale) anche il lucro cessante ovvero la somma che l'acquirente avrebbe incassato dalla locazione del posto auto qualora ne avesse avuto la disponibilità.
Il caso finisce in Cassazione: qual è la norma applicabile? Il costruttore-venditore gioca il tutto per tutto con una vera e propria raffica di eccezioni di cui la principale, relativa all'applicabilità al caso concreto, della l. n. 122/1989, fa breccia. Il processo logico seguito dal costruttore è semplice: la vendita finita
sotto i riflettori risale all'agosto del 1998, ma il corpo di fabbricato di cui fa parte l'unità compravenduta, è stato realizzato molto tempo prima, nel lontano 1968 (ovvero quasi cinquanta anni orsono). La normativa applicabile alla compravendita, è quella vigente al tempo della realizzazione del fabbricato in quanto è in quel momento che, con il rilascio del titolo edilizio, vengono fissate le “regole del gioco”. La norma invocata dalla Corte d'appello, ovvero l'articolo 2 della l. n. 122/89, è entrata in vigore il 7 aprile 1989 e, quindi, in epoca successiva alla realizzazione dell'immobile per cui non potrebbe essere applicata al caso in esame.
La tesi del venditore viene sposata dalla Seconda sezione della Corte di Cassazione che, con la sentenza in esame, accoglie l'eccezione e rinvia alla Corte d'appello anche per la liquidazione delle spese.
Qual è la normativa applicabile al trasferimento dei posti auto? Il regime giuridico delle aree adibite a parcheggio, al pari del “Cubo di Rubik”, costituisce un rompicapo apparentemente inestricabile in quanto può risultare difficile incasellare il caso concreto nella marea di norme che disciplinano la materia.
Nel nostro ordinamento, almeno sotto il profilo urbanistico, gli spazi destinati a parcheggio privato possono essere suddivisi almeno in sei diverse categorie, ciascuna delle quali dotata di specifiche caratteristiche, soggetta ad una disciplina diversa ed a un differente regime di circolazione giuridico. Di conseguenza, è di fondamentale importanza stabilire quale sia la normativa applicabile al caso in esame. Potremmo avere, infatti:
a) parcheggi pertinenziali realizzati prima del 1967;
b) parcheggi regolati dalla c.d. "legge-ponte" (l. n. 765/67);
c) parcheggi disciplinati dalla c.d. legge Tognoli (l. n. 122/89);
d) parcheggi c.d. "liberi" ovvero realizzati oltre lo standard urbanistico;
e) parcheggi realizzati in base alla l. n.662/96;
f) parcheggi regolamentati da strumenti urbanistici comunali (Piano Regolatore Generale e Norme Tecniche Attuazione).
Ma i parcheggi possono essere in qualche modo catalogati anche sotto altre angolazioni. Per esempio, potremmo avere:
a) parcheggi pertinenziali delle costruzioni, disciplinati dall'articolo 41-sexies della l. n. 1150/1942 e dall'articolo 26, comma 4, della l. n. 47/85, il quale ha stabilito che tali spazi costituiscano pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 c.c..
b) parcheggi come standard urbanistici, regolamentati dall'articolo 41-quinquies della l. n. 1150/42 e dal d.m. n. 1444/1968;
c) parcheggi come opere di urbanizzazione, disciplinati essenzialmente dalla l. n. 122/1989, che ha affrontare il complesso problema della sosta urbana, introducendo, tra l’altro, un nuovo strumento programmatorio: il P.U.G. (ovvero il Programma Urbano dei Parcheggi).
Urbanisticamente i parcheggi sono semplici standard. Dovendo affrontare il tema del regime giuridico dei parcheggi privati occorre tener presente che, dal punto di vista urbanistico, essi rappresentano dei semplici standard urbanistici. La Legge n.1150/1942, nella sua versione storica, non disciplinava questa materia. Il primo intervento legislativo è costituito dall'art. 17 della l. n.765/1967, che ha introdotto l'obbligo, a carico dei Comuni, di fissare in sede di redazione del P.R.G., il rapporto tra attività edificatoria e aree da destinare obbligatoriamente a parcheggio pubblico e verde attrezzato. Il successivo articolo 18 stabiliva la misura minima delle aree a parcheggio prevedendo uno standard non inferiore ad 1 mq ogni 20 mc di costruzione. Successivamente, il d.m. n. 1444/1968 ha fissato lo standard urbanistico minimo per le zone territoriali omogenee prevedendo che, in aggiunta alle superfici private da realizzare ex articolo 18 della l. n. 765/1967, fosse prevista una dotazione minima di 2,5 mq per ogni abitante insediato.
Il vincolo di pertinenzialità nasce con la l. n.47/1985. Il vincolo di pertinenzialità tra area a parcheggio ed unità abitativa è stato introdotto negli anni '80, dalla c.d. legge sul condono edilizio e, in particolare, dall'articolo 26 della l. n. 47/1985. La norma prevedeva che gli spazi di cui all'articolo 18 della l. n. 765/1967 (ovvero i parcheggi), costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 del codice civile.
I problemi maggiori sono rappresentati dalle aree a parcheggio realizzate in forza della l. n. 765/67, comunemente chiamata “legge ponte". L'articolo 18, modificando la “vecchia” legge urbanistica n. 1150 del 1942, aveva inserito al suo interno l’articolo 41-sexies. Tale norma stabiliva, testualmente, che «nelle
nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione». Successivamente lo standard veniva letteralmente raddoppiato dall’articolo 2, comma 2, della l. n. 122/1989.
Rientrano in questa categoria i parcheggi facenti parte di edifici costruiti con Licenza Edilizia, Concessione Edilizia, Permesso di Costruire o titolo equipollente rilasciata nella forbice temporale compresa tra il 1° settembre 1967 e il 16 dicembre 2005. Si tratterebbe, in sostanza, di fabbricati recenti ovvero realizzati in conseguenza ad addizioni e sopraelevazioni con conseguente aumento di volumetria abitabile relativamente a corpi di fabbrica preesistenti.
Svolgimento del processo
Cassazione, sez. II, 30 giugno 2016, n. 13445 (Pres. Migliucci – Rel. Xxxxxxxxx)
1 - L.E. citò innanzi al Tribunale di Bari la spa Nuova Gea Immobiliare, dalla quale aveva acquistato un appartamento e le relative parti comuni, nello stabile sito in (omissis) , perché fosse accertato il suo diritto all’utilizzo di uno spazio a parcheggio - alternativamente: a titolo di proprietà; di comproprietà condominiale; quale esplicazione di un diritto di servitù o come diritto reale d’uso di cui all’art. 18 delle legge 765/1967- sito nel seminterrato dell’edificio condominiale; chiese inoltre di esser risarcita dei danni subiti, atteso che la privazione dell’esercizio del diritto a parcheggio l’avrebbe costretta a prendere in affitto apposito spazio. La società convenuta si oppose all’accoglimento della domanda con l’osservare che nella vendita dell’appartamento non veniva fatta menzione del trasferimento di un qualsiasi diritto sullo spazio in questione. Espletata consulenza tecnica, l’adito Tribunale riconobbe in favore della L. il solo diritto reale d’uso richiesto in via subordinata, liquidando anche il danno per la mancata disponibilità dell’area; respinse inoltre la domanda riconvenzionale subordinata, volta al riconoscimento alla venditrice di una integrazione del prezzo.
2 - La Corte di Appello di Bari, adita in via principale dalla Nuova Gea Immobiliare ed in via incidentale dalla L. , stanti non esservi stata una pronuncia ultra petita - in ragione del fatto che il primo giudice aveva riconosciuto in favore dell’attrice un diritto di uso oneroso e non già, come richiesto, a titolo gratuito- richiamando la interpretazione di legittimità sui diritti autodeterminati e sulla conseguente non vincolatività per l’interprete del titolo posto a base della domanda; negò che potesse applicarsi la sopravvenuta legge 246/2005 che stabiliva che gli spazi a parcheggio potessero essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle unità abitative; riconobbe in favore dell’appellante principale il diritto all’integrazione del prezzo di vendita, espressamente richiamando l’esigenza di ristabilire -se del caso, anche d’ufficio- il sinallagma contrattuale; aumentò altresì la stima del valore dello spazio a parcheggio, rispetto a quella formulata dal consulente di ufficio; riformò infine anche il capo di decisione relativo alla quantificazione del danno liquidato L. in quanto ritenne che il riconoscimento del danno emergente - commisurato al canone per la locazione di un parcheggio - non potesse essere aggiunto a quello per il lucro cessante, atteso che la originaria attrice, se avesse avuto tempestivamente la disponibilità del parcheggio, o non avrebbe sopportato le anzidette spese o avrebbe goduto di un reddito per la locazione a terzi dello spazio in questione, non potendo invece trovare realizzazione contemporanea le due ipotesi risarcitorie. Quanto all’appello incidentale - per quello che conserva di interesse in sede di legittimità - la Corte di Appello ritenne applicabile alla fattispecie il regime dettato dall’art. 2 della legge n. 122 del 1989 che stabiliva la inalienabilità degli spazi a parcheggio in modo autonomo rispetto all’unità abitativa alla quale appartenevano, in ciò distinguendosi dalla precedente disciplina – art. 18 della legge 765 del 1967 - così dunque escludendo, tra l’altro, la possibilità che gli spazi in questione potessero rientrare nella previsione di afferenza condominiale secondo quanto disposto dall’art. 1117 cod. civ. - nella formulazione all’epoca vigente - o che, come pure richiesto dall’appellata, potesse alla stessa riconoscersi la piena proprietà o comproprietà sugli stessi spazi.
3 - Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la L. , facendo valere cinque motivi; la spa Nuova Gea Immobiliare ha risposto con controricorso, svolgendo ricorso incidentale sulla base di un motivo; la ricorrente ha proposto a sua volta controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie à sensi dell’art. 378 cpc.
Motivi della decisione Ricorso principale.
I - Con il primo motivo viene dedotta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2 della legge n 122/1989 e dell’art. 18 della legge 765 /1967 nonché dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale; dell’art. 26, comma V della legge 47/1985; degli artt. 818 e seggi cod civ. nonché dell’art. 1117 cod. civ..
I.a - Assume in proposito la ricorrente che la Corte del merito avrebbe errato nell’individuare nella legge n.122/1989 la normativa a governo della fattispecie.
II - Con il secondo motivo - proposto in via subordinata - le stesse violazioni di legge di cui sopra persisterebbero, secondo la ricorrente, anche se si ritenesse applicabile la predetta normativa, attesa l’erroneità della decisione della Corte fiorentina allorché ha statuito che, in tal caso, l’unico regime applicabile sarebbe quello del vincolo pertinenziale pubblicistico, con un diritto d’uso ex lege in capo all’acquirente dell’unità abitativa, senza dunque la possibilità di configurare un’alienazione autonoma o una proprietà condominiale. In contrario la ricorrente sostiene che la mancanza di riserva di proprietà degli spazi a parcheggio nel contratto di acquisto non sarebbe stata d’ostacolo all’acquisto pro quota del diritto di proprietà su parti condominiali ex art. 1117 cod. civ. neppure sotto il (contestato) vigore della legge n 122/1989, atteso che detta legge disciplinava due tipi di parcheggi: quelli minimi ed obbligatori di cui all’ari 2 - con regolazione in tutto confermativa della c.d. legge Ponte - e quelli "facoltativi" - contemplati nell’art. 9, comma V -, realizzabili, su edifici costruiti dopo il 1989, con vincolo di inalienabilità separata dall’immobile residenziale: assume la ricorrente che, ratione temporis, la fattispecie sarebbe rientrata nella prima ipotesi.
III - Con il terzo motivo - posto sempre in xxx xxxxxxxxxxx xx mancato accoglimento del primo mezzo - si assume concretata la violazione degli artt. 872; 1218 e 1223 cod. civ. laddove la Corte distrettuale ritenne non cumulabili il danno emergente - determinato in base al canone di affitto di spazio esterno ad uso parcheggio - ed il lucro cessante - valutato con riferimento al reddito ricavabile dall’area di cui sarebbe stata sottratta la disponibilità.
IV - Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 167 cod. civ., laddove la Corte ha riconosciuto la integrazione del contratto di vendita ex art. 1419 cod. civ., liquidando di ufficio un importo a favore della venditrice, al fine di riequilibrare il sinallagma, non considerando però che la relativa domanda era stata avanzata solo alla prima udienza di comparizione e non già nella comparsa di risposta.
V - Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell’art. 1224, II comma e 2697 cod civ. laddove è stata riconosciuta la rivalutazione del credito della venditrice, non considerando però che la Nuova Gea Immobiliare non avrebbe mai perso la disponibilità della porzione di piano cantinato oggetto di domanda, non avendola mai messa a disposizione della ricorrente che, dunque, non ne avrebbe mai usufruito; osserva altresì la deducente che nella sentenza di appello la Corte distrettuale aveva dato atto che nelle more del procedimento di impugnazione era intervenuto un accordo - al fine di evitare l’esecuzione della precedente sentenza - in forza del quale la società venditrice aveva, da un lato, versato quanto in precedenza deciso e, dall’altro, aveva messo a disposizione della stessa ricorrente un posto macchina in luogo diverso da quello oggetto di domanda. Da ciò la L. trae la erroneità della decisione che ha riconosciuto ex art. 345 cpc il danno da rivalutazione sulle somme esborsate per la locazione di uno spazio a parcheggio, in epoca anteriore alla messa a disposizione della diversa area.
VI - Il primo motivo è fondato, atteso che la legge n. 122/1989 disciplina gli atti di disposizione relativi a spazi a parcheggio realizzati dopo la sua entrata in vigore, mentre nella fattispecie in esame è rimasto accertato che l’edificio in cui era stato ricavato il parcheggio era stato costruito nel 1968 e l’appartamento alienato alla ricorrente aveva formato oggetto di vendita del 7 agosto 1998; la contestata interpretazione avrebbe dunque comportato l’attribuzione di una efficacia retroattiva alla legge - così contravvenendosi al disposto dell’ars 11 delle c.d. preleggi - altresì violando le norme che stabiliscono un nesso pertinenziale tra bene principale e spazio a parcheggio (artt. 26, comma V della legge 47/1985).
VI.a - L’erronea individuazione del referente normativo, in luogo dell’art. 18 della legge n. 765/1967, lascia dunque aperta la possibilità, per il giudice del rinvio, cassata in parte qua la gravata decisione, di una divergente delibazione dell’atto di trasferimento dell’appartamento alla L. , al fine di verificare se la inesistenza di una riserva di proprietà in capo al venditore degli spazi a parcheggio, unita alla considerazione della locazione a terzi dell’intero piano seminterrato, da epoca precedente alla compravendita (per come riportato a fol. 37 del controricorso ed a fol. 5 delle memorie ex art. 378 cpc),
consentano il riconoscimento del più ampio diritto di comproprietà ex art. 1117 cod. civ. (v. ex militis Cass. Sez. II n. 11261/2003; Cass. Sez. TI n 730/2008; Cass. Sez. II n. 1214/2012).
VII - L’accoglimento in parte qua del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo; del quarto e del quinto mezzo.
VIII - Infondato è invece il terzo motivo in quanto il risarcimento per equivalente del mancato utilizzo dello spazio a parcheggio per l’uso personale, presupponeva l’inesistenza di un diverso uso speculativo dello stesso e dunque impediva l’insorgere di ulteriori e concorrenti profili di pregiudizio patrimoniale.
Ricorso incidentale.
IX - Con unico motivo la società controricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione degli arti
112 e 183 cpc laddove la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto un diritto d’uso a titolo oneroso mentre la L. aveva concluso innanzi al Tribunale - sia pure in via subordinata - per il riconoscimento di un diritto d’uso gratuito.
IX.a - Il motivo risulta assorbito essendo dipendente dalla soluzione che in sede di rinvio si darà al problema della identificazione del diritto spettante alla L. sullo spazio a parcheggio.
X. Il giudice del rinvio, che si designa in diversa sezione della Corte di Appello di Bari, provvederà altresì alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti il secondo; il quarto ed il quinto mezzo; rigetta il terzo; dichiara assorbito il ricorso incidentale; rinvia a diversa sezione della Corte di Appello di Bari per la regolazione delle spese anche del giudizio di legittimità.
3)ARRICHIMENTO SENZA GIUSTA CAUSA DELLA P.A.: CHI DEVE PAGARE LA PRESTAZIONE NON
CONTRATTUALIZZATA?
TRACCIA
Nel gennaio 1986 alla ditta Alfa viene contrattualmente affidata l'esecuzione di lavori di manutenzione ordinaria degli edifici scolastici della zona 167 di Lucera per € 20 mila.
L'Ufficio tecnico comunale richiedeva alla Alfa anche ulteriori lavori non previsti in contratto, ma ritenuti necessari per assicurare la funzionalità degli edifici scolastici", in base a una perizia di variante.
Nel giugno 1987 termini i lavori, la Alfa inoltra richiesta di pagamento.
Il comune corrisponde la somma di € 20 mila come contrattualizzata ma ritiene di non dover pagare più nulla, in quanto in difetto di deliberazioni da parte del Consiglio o della Giunta, difettava il necessario requisito del riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte del Sindaco, organo rappresentativo del Comune.
Ogni anno la Alfa invia raccomandata al Comune con la richiesta di pagamento dei lavori eseguiti anche al fine di interrompere la prescrizione.
Il candidato assunta la difesa della ditta Alfa rediga parere motivato.
In tema di rapporti negoziali instaurati con dipendenti pubblici privi di poteri ad hoc e quindi di obbligazioni tra privato e P.A., il mancato rifiuto della prestazione non prevista in contratto ovvero la consapevolezza della stessa genera, a carico della P.A., l’obbligo di retribuire il privato: così, quest’ultimo ovvero il suo erede ha diritto di esperire, entro i termini prescrizionali, l’azione di arricchimento sine titulo nei confronti della P.A. ed anche a prescindere dal riconoscimento dell’utilitas da parte della stessa P.A.
La regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell'ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare - e il giudice accertare - il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.
Cassazione, Sez. Unite, 26 maggio 2015, n. 10798
(Pres. Xxxxxxxxxx – Rel. Ambrosio)
Svolgimento del processo
Nel gennaio 1995 P.M. , vedova ed erede di R.D. , convenne in giudizio il Comune di Reggio Calabria chiedendone la condanna al pagamento di L. 23.967.034, oltre accessori, a titolo di arricchimento senza causa. Espose che il marito, cui nel 1986 era stata contrattualmente
affidata l'esecuzione di lavori (poi regolarmente retribuiti) di manutenzione ordinaria degli edifici scolastici della zona sud di (omissis), aveva eseguito anche ulteriori lavori non previsti in contratto e per questo mai pagati, che l'Ufficio tecnico comunale gli aveva, tuttavia, richiesto in base a una perizia di variante, ritenendoli "indispensabili per assicurare la funzionalità degli edifici scolastici".
Il Comune resistette e l'adito Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 383/2003, rigettò la domanda.
L'appello dell'originaria attrice è stato respinto dalla Corte d'appello reggina con sentenza n. 131/2010 sull'assorbente rilievo che, in difetto di deliberazioni da parte del Consiglio o della Giunta, difettava il necessario requisito del riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte del Sindaco, organo rappresentativo del Comune.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione P.M. affidandosi a due motivi, cui il Comune di Reggio Calabria ha resistito con controricorso illustrato anche da memoria.
All'esito della pubblica udienza innanzi alla terza sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 23 settembre 2014 è stata rilevata la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla questione di cui si dirà in parte motiva, per cui gli atti sono stati rimessi al Primo Presidente, che ha assegnato il giudizio a queste Sezioni unite.
Il resistente Comune ha depositato ulteriore memoria. Motivi della decisione
1. La domanda attrice, intesa - come si legge nella decisione impugnata - ad “accertare e dichiarare l'utilitas delle opere indiscutibilmente eseguite dalla ditta X. ”, xxxxxx xxxx xxxxxxxx xxx Xxxxxx xx Xxxxxx Xxxxxxxx al pagamento, a tale titolo, della somma di L. 23.967.034, risulta qualificata, in termini non più in discussione, come azione di indebito arricchimento ex art. 2041 cod. civ.. Essa è stata rigettata, con doppia decisione conforme, per il difetto di prova in ordine al riconoscimento dell'utilitas da parte dell'ente pubblico e, segnatamente, da parte dei suoi organi rappresentativi.
In particolare la Corte di appello - premesso in fatto che i lavori di cui trattasi (riparazione dei servizi igienici, impermeabilizzazione dei solai e coloritura), riguardanti alcune scuole della parte sud della città, erano stati disposti dall'Ufficio tecnico del Comune di Reggio Calabria, verosimilmente su segnalazione dei dirigenti degli uffici scolastici e precisato, altresì, che la delibera in sanatoria, pur predisposta, non risultava mai deliberata dalla Giunta
- è pervenuta alla conferma della statuizione di rigetto della domanda di arricchimento, in forza della dichiarata adesione alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il riconoscimento dell'utilitas costituisce requisito speciale di ammissibilità dell'azione di cui all'art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A., segnalando che, nella specie, il riconoscimento, sia pure implicito, avrebbe dovuto provenire dal sindaco ovvero da un atto deliberativo della giunta o del consiglio comunale.
2. Col primo motivo (il secondo è al primo correlato, in quanto attiene alla mancata ammissione della prova articolata sul punto della conoscenza da parte degli "amministratori" dei lavori di cui trattasi), la ricorrente si duole, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ., che la Corte d'appello abbia disatteso il principio, patrocinato da alcune decisioni di questa Corte di legittimità, secondo il quale il giudizio di utilità può essere compiuto anche dal giudice, che ha il potere di accertare se ed in quale misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione.
2.1. Il ricorso richiama un orientamento minoritario di questa Corte, stigmatizzando il mancato accertamento giudiziale della fruizione delle opere di manutenzione da parte dell'ente pubblico nella piena consapevolezza della relativa esecuzione, sebbene nell'assenza di un riconoscimento implicito o esplicito dei suoi organi rappresentativi.
La sezione terza, assegnataria del ricorso, ne ha, dunque, promosso la devoluzione alle Sezioni unite, rilevando nell'ordinanza interlocutoria che sussiste un contrasto interno alla giurisprudenza di legittimità, “tra l'orientamento (prevalente) che assume come assolutamente ineludibile la necessità che il riconoscimento anche implicito dell'utilitas provenga da organi quanto meno rappresentativi dell'ente pubblico e quello (minoritario, ma
significativo e fondato su solide argomentazioni) che offre invece spazi all'apprezzamento diretto da parte del giudice”.
2.2. Non è, invece, in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione imposto dall'art. 2042 cod. civ., non essendo qui applicabile ratione temporis la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144, abrogato dall'art. 123, comma primo, lett. n, del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del medesimo decreto e infine rifluito nell'art. 191 del D.Lgs. n. 267 del 2000) che, per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l'amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all'ente pubblico la valutazione esclusiva circa l'opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso (cfr. lett. e) art. 194 D. Lgs. n. 267 del 2000).
Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del cit. d.l. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all'entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. 26 giugno 2012, n. 10636; Cass. 11 maggio 2007, n. 19572). E poiché i lavori in contestazione vennero eseguiti nell'anno 1986, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit. direttamente nei confronti dell'amministratore o del funzionario che aveva consentito l'acquisizione.
2.3. Il punto nodale della controversia si rinviene sulla necessità o meno di un requisito ulteriore - quello del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione - rispetto a quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042 cod. civ., allorché l'azione venga proposta nei confronti della P.A..
Strettamente connessa a detta questione si rivela, poi, quella evidenziata nell'ordinanza interlocutoria del ruolo assegnato al giudice nell'accertamento dell'arricchimento; ciò in quanto individuare l'elemento qualificante dell'azione, in ragione della qualificazione pubblicistica dell'arricchito, in un atto di volontà o di autonomia dell'amministrazione interessata, significa confinare il ruolo giudiziale all'accertamento di un utile "soggettivo" e, cioè, riconosciuto come tale (esplicitamente o implicitamente) dagli organi rappresentativi dell'ente pubblico; all'inverso, consentire al giudice di sostituirsi alla pubblica amministrazione nella valutazione dell'utilitas finisce per spostare l'indagine sul fatto oggettivo dell'arricchimento, giacché solo questo dovrebbe essere l'elemento costitutivo della fattispecie, ove non si ammettano deroghe all'esercizio dell'azione in relazione alla qualificazione pubblicistica dell'arricchito.
3. Così definito l'ambito della questione all'esame delle Sezioni Unite, si impone una sintesi delle argomentazioni a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo di legittimità, come individuati dall'ordinanza interlocutoria, osservando sin da ora che nella giurisprudenza di questa Corte ricorre un ulteriore approccio intepretativo, più risalente nel tempo, che offre una sorta di tertium genus tra le soluzioni astrattamente praticabili in materia.
3.1. La tesi prevalente muove dalla considerazione delle specifiche condizioni e limitazioni, costituite dalle regole c.d. dell'evidenza pubblica che presidiano l'attività negoziale della P.A. e si radica sul rilievo che l'azione di arricchimento comporta, di fatto, il superamento della regola assoluta a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, secondo cui non si può dar luogo a spese non deliberate dall'ente nei modi previsti dalla legge e senza la previsione dell'apposita copertura finanziaria. Di qui l'esigenza - avvertita dalla giurisprudenza, ancor prima che il legislatore a partire dal già cit. D.L. n. 66 del 1989 segnasse drasticamente l'ambito di operatività dell'azione - di marcare di "specialità" la domanda di arricchimento proposta nei confronti della P.A., posto che il relativo oggetto è costituito quasi sempre da prestazioni o opere eseguite da privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti.
È, dunque, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che per l'utile esperimento dell'azione nei confronti della P.A. occorre la prova di un duplice requisito, e cioè, non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, ma anche il c.d. riconoscimento, espresso o tacito e, in sostanza, che l'amministrazione interessata abbia compiuto una cosciente e consapevole valutazione dell'utilità dell'opera, del servizio, o della prestazione, e che li abbia considerati rispondenti alle proprie finalità istituzionali.
In particolare - secondo l'orientamento giurisprudenziale all'esame - la configurazione del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione come un atto di volontà o di autonomia della P.A. comporta che la stessa configurabilità di un arricchimento senza causa resti affidata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica legittimata a esprimere il relativo giudizio, che presuppone il doveroso apprezzamento circa la rispondenza diretta o indiretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse (Cass. 18 aprile 2013, n. 9486; Cass. 11 maggio 2007, n.10884; Cass. 20 agosto 2004, n.16348; Cass. 23 aprile 2002, n. 5900); inoltre detta valutazione non solo non può essere sostituita da quella di amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, ma neanche provenire da atti e comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell'ente di esse destinatario (Cass. 18 aprile 2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo agli organi rappresentativi di detta amministrazione o a quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà (Cass. 27 luglio 2002, n. 11133; Cass. 17 luglio 2001, n. 9694). E sebbene non si richieda che il riconoscimento avvenga necessariamente in maniera esplicita - cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne un atto amministrativo valido ed efficace, ovvero può anche essere carente delle formalità e dei controlli richiesti, come nel caso in cui l'organo di controllo lo annulli) e si sia predicata la sufficienza del riconoscimento implicito - l'una e l'altra forma di riconoscimento sono ritenute soggette alle medesime regole dell'evidenza pubblica (sul riconoscimento come atto di volontà, cfr Cass. 24 ottobre 2011, n. 21962; Cass. 31 gennaio 2008 n. 2312; Cass. 24 settembre 2007 n. 19572), richiedendosi che l'utilizzazione dell'opera o della prestazione sia consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente (cfr. Cass. Sez. un. 25 febbraio 2009, n. 4463; Cass. 20 ottobre 0000, x. 00000; nonché Cass. 11133/2002 già cit.).
3.2. Secondo questa tesi, che esalta i limiti istituzionali della giurisdizione ordinaria, fissati dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, a presidio della discrezionalità amministrativa, il giudice ordinario non può giudicare dell'utilitas, dal momento che la necessità del riconoscimento è tradizionalmente impostata sulla discrezionalità amministrativa che la valutazione del vantaggio comporta. L'utiliter versum non può essere altro che un utile soggettivo, cioè relativo all'interesse dell'accipiens e la valutazione dell'utilità dell'ente pubblico si risolve in una valutazione dell'interesse pubblico, come tale necessariamente affidata alla P.A..
La tesi si radica sull'evidente timore che - in specie nel caso assai frequente di indebito arricchimento derivante da rapporti negoziali instaurati da dipendenti pubblici privi dei necessari poteri - la pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere ex art. 2041 cod. civ. di tutte le iniziative arbitrarie assunte al di fuori del controllo degli organi amministrativi responsabili della spesa, quando il riconoscimento dell'utilità sia ravvisato nella stessa utilizzazione dell'opera o del servizio acquisito, da parte di coloro che hanno abusivamente speso il nome dell'ente o dell'ufficio. Senonchè essa - oltre ad apparire espressiva di esigenze di tutela della P.A., di cui si è fatto carico, nel tempo, il legislatore, facendo leva, come si è visto, sul carattere sussidiario dell'azione - rivela la sua criticità sol che si consideri che, portata alle sue naturali conseguenze, essa comporta che il giudice, mentre dovrebbe condannare l'ente pubblico per un arricchimento riconosciuto, ancorché non provato, dovrebbe assolverlo per un arricchimento provato, ma non riconosciuto.
Soprattutto l'orientamento risulta fortemente penalizzante per il depauperato, allorquando l'arricchimento si risolva in un risparmio di spesa (come nel caso che qui ricorre di esecuzione di opere di manutenzione), dal momento che un riconoscimento implicito da parte degli organi rappresentativi dell'ente pubblico appare ravvisabile solo in relazione a opere e
prestazioni comportanti un incremento patrimoniale, e quindi suscettibili di appropriazione; mentre, nel caso che l'opera risulti già esistente e già a disposizione della collettività, si è ritenuto che il perdurare - od il riprendere dopo gli interventi - della pubblica fruizione non possa costituire riconoscimento implicito dell'utilitas, perché non implica alcuna valutazione consapevole da parte dell'ente (Cass. 02 settembre 2005, n. 17703 in motivazione).
3.3. Non mancano tuttavia pronunce improntate a un approccio più duttile, nelle quali, in ragione del fondamento equitativo che permea tutta l'azione di ingiustificato arricchimento, si evidenzia che il riconoscimento, da parte di enti pubblici, dell'utilità di una prestazione professionale, con conseguente loro arricchimento, si realizza con la mera utilizzazione della stessa, indipendentemente dal fatto che i fini alla cui realizzazione la prestazione poteva essere diretta non fossero stati realizzati dall'ente cui il progetto era stato destinato (Cass. Sez. un. 10 febbraio 1996, n. 1025; e più di recente Cass. 18 giugno 2008, n. 16596). In tale prospettiva, l'utilità è stata ritenuta ravvisabile allorché la P.A., ad esempio, si sia servita della prestazione del privato per corredare pratiche amministrative, ovvero ne abbia ricavato un risparmio di spesa (x. Xxxx. 12 dicembre 2003, n. 19059; e ancora Cass. n. 10576 del 1997; Cass. n. 1025 del 1996; Cass. n. 12399 del 1992), ridimensionandosi la necessità della provenienza dagli organi formalmente qualificati della P.A. (cfr. Cass. 16 settembre 2005, n. 18329) e precisandosi che, seppure il giudizio sull'utilità per la P.A. dell'opera o della prestazione del privato è riservato in via esclusiva all'amministrazione e non può essere compiuto, in sostituzione di quella, del giudice, spetta pur sempre a quest'ultimo il compito di accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. 02 settembre 2005, n. 17703).
3.4. Si tratta di un orientamento minoritario, che non abbandona il tradizionale argomento, secondo cui l'esperimento dell'azione di arricchimento nei confronti della P.A. richiede un quid pluris, qual è il riconoscimento dell'utilitas, sebbene al fatto dell'utilizzazione venga attribuita una valenza probatoria di detto riconoscimento; in tal modo esso presta il fianco alla critica dell'incongruenza di legittimare soggetti diversi in ragione del fatto che il riconoscimento sia esplicito (per il quale si afferma la necessità che provenga dagli organi rappresentativi della pubblica amministrazione) o implicito (nel qual caso si ritiene che il riconoscimento può provenire da organi non qualificati dell'amministrazione), vale a dire in ragione della forma del riconoscimento, che dovrebbe essere un elemento neutro sotto questo profilo (così Cass. 07 marzo 2014, n. 5397 in motivazione).
In realtà l'avere svincolato il riconoscimento dalla provenienza dagli organi formalmente qualificati ad esprimere la volontà dell'ente pubblico ha finito per incrinare fortemente lo stesso principio della relatività soggettiva dell'utilitas, consentendo di recuperare la connotazione ordinaria dell'azione, giacché il baricentro dell'indagine risulta spostato sulla salutazione in fatto dell'arricchimento, che deve essere accertato con la regola paritaria di diritto comune, sia quando riguarda il privato che quando si riferisce alla pubblica amministrazione (così Cass. 16 maggio 2006, n. 11368), affidando al saggio apprezzamento del giudice lo scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la vantazione, in fatto, dell'utilità dell'opus (così Cass. 21 aprile 2011, n. 9141).
3.5. Come evidenziato nell'ordinanza interlocutoria, soprattutto l'ultima delle sentenze citate si è fatta carico di rimarcare l'insufficienza dell'approccio ermeneutico che confina il ruolo giudiziale all'esterno della valutazione di utilità, ritenendo che il giudice non possa accertare se la prestazione del depauperato sia stata utile all'ente pubblico, ma solo se l'ente pubblico l'abbia riconosciuta come tale. In contrario senso si è osservato che il richiedere sempre e comunque comportamenti inequivocabilmente asseverativi dell'utilità dell'opera o della prestazione da parte degli organi rappresentativi dell'ente è scelta interpretativa che depotenzia fortemente il diritto del privato ad essere indennizzato dell'impoverimento subito, svuotando di fatto i poteri di accertamento del giudice, in vista della tutela delle posizioni soggettive in sofferenza; e si è, quindi, ritenuto che “il criterio idoneo a mediare tra tutti gli interessi in conflitto è l'affidamento al saggio apprezzamento del giudice dello scrutinio sull'intervenuto riconoscimento ovvero la valutazione, in fatto, dell'utilità dell'opus, utilità desunta dal contesto fattuale di riferimento, senza pretendere di imbrigliare l'ineliminabile
discrezionalità del relativo giudizio in schemi predefiniti, ma solo esigendo che del suo convincimento il decidente dia adeguata e congrua motivazione” (cfr. Cass. n. 9141 del 2011 cit. in motivazione).
Occorre, tuttavia, rilevare che la pista interpretativa indicata dalla sentenza da ultima citata, tendente a marcare di autonomia il sindacato giudiziale e a spostare decisamente l'oggetto dell'indagine dalla qualificazione soggettiva dell'arricchito al fatto dell'arricchimento, non risulta seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, anche da recente, ha privilegiato una connotazione negoziale dell'istituto, contrapponendo alla regola paritaria di diritto comune nemo locupletari potest cum aliena iactura la normativa di diritto pubblico che regola la contabilità della pubblica amministrazione, con efficacia anche per i soggetti esterni che vengono in contatto con essa, e che si giustifica oltre che con vincoli di spesa imposti da norme di rango primario nell'impiego di denaro pubblico, anche con le dimensioni e la complessità dell'articolazione interna della pubblica amministrazione (così Cass. n. 5397 del 2014 sopra cit.).
3.6. Mette conto a questo punto evidenziare che la previsione di un'azione generale di arricchimento era ignota al codice del 1865; l'istituto venne, quindi, accolto dal progetto di codice delle obbligazioni del 1936 e, infine, codificato dal legislatore del 1942, accanto a numerosi altre fattispecie particolari di arricchimento (artt. 31 co. 3, 535, 821, co. 2, 935, 940, 1150, 1185, co. 2, 1190, 1443, 1769, 2037, co. 3, 2038 co. 3 cod. civ.), assolutamente eterogenee e, comunque, ispirate al medesimo principio e accomunate dall'obbligo di "restituire" all'impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese, prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti dell'arricchimento". Orbene - mentre nel vigore del codice del 1865, la prefigurazione della specialità dell'azione nei confronti della P.A. si giustificava in considerazione dell'elaborazione giurisprudenziale dell'actio de in rem verso sugli schemi della gestione di affari e dell'attribuzione al riconoscimento dell'utilitas dello stesso fondamento dell'utiliter gestum - l'intervenuta codificazione dell'istituto ad opera del legislatore del 1942 ne ha privilegiato una connotazione oggettivistica, fatta palese dall'impiego dei concetti materiali di “arricchimento” e “diminuzione patrimoniale”, senza richiamo alcuno al parametro soggettivistico dell'”utilità”, ponendo così il problema se vi sia ancora spazio per postulare una valutazione discrezionale da parte dell'arricchito in ragione della sua qualificazione pubblicistica.
Orbene il terzo e più risalente orientamento giurisprudenziale di cui si è detto sub 3. muove proprio dalla considerazione della sopravvenuta inclusione della disciplina nel codice del 1942 per postulare la necessità di abbandonare “il remoto principio”, secondo cui l'azione è esperibile nei confronti della P.A. soltanto se questa ha riconosciuto la locupletazione, evidenziando non solo il superamento degli schemi su cui era stata costruita la fattispecie giurisprudenziale dell'actio de in rem verso, ma anche e soprattutto la necessità di una lettura costituzionalizzante dell'istituto, che assicurasse la piena tutela della garanzia di agire in giudizio contro l'amministrazione pubblica, assicurata a chiunque dagli artt. 24 e 113 Cost. (cfr. Cass. Sez. unite sentenze 28 maggio 1975, n. 2157; Cass. Sez. unite 19 luglio 1982, n. 4198). Sulla base di tali premesse si è esclusa, in radice, la tesi che all'ente pubblico possa essere riservato non solo di riconoscere il vantaggio in sé, ma anche la relativa entità economica: tesi ritenuta inaccettabile per la considerazione che essa pone il giudice nella condizione di dover unicamente prendere atto delle determinazioni del convenuto, contraddicendo alla stessa funzione dell'azione consistente nell'apprestare un rimedio "generale" per i casi in cui sia possibile risolvere sul piano economico il contrasto tra legalità e giustizia. In luogo della questione del riconoscimento dell'utilità, è stato evidenziato un problema di imputabilità dell'arricchimento, paventandosi il pericolo che l'ente pubblico possa subire iniziative che i terzi, pur presentandosi come ingiustamente depauperati, abbiano assunto conto il volere dell'ente o comunque senza che i suoi organi rappresentativi ne avessero contezza.
In tale prospettiva il problema risulta ridotto unicamente a quello dell'”attribuzione” del vantaggio all'ente pubblico e risolto nel senso che si debba indagare “non tanto se
quest'ultimo abbia riconosciuto l'arricchimento, quanto se sia stato almeno consapevole della prestazione indebita e nulla abbia fatto per respingerla, sicché nell'avvenuta utilizzazione della prestazione è da ravvisare, invece che un atto di riconoscimento - difficilmente definibile nei suoi caratteri e soprattutto giuridicamente inammissibile, non potendo mai condizionarsi la proponibilità di un'azione ad una preventiva manifestazione di volontà del soggetto contro cui essa è diretta - un mero fatto dimostrativo dell'imputabilità giuridica a tale soggetto della situazione dedotta in giudizio” (così, Cass. n. 4198 del 1982 in motivazione).
4. Questi, in estrema sintesi, i principali argomenti a sostegno delle opzioni ermeneutiche a confronto, le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto, intendono proseguire sulla strada tracciata nelle sentenze da ultime citate e, in parte, ripercorsa da quell'indirizzo minoritario (sub 3.4. e 3.5.) che ha rimarcato la connotazione ordinaria dell'azione anche nei confronti della P.A., predicando una valutazione oggettiva dell'arricchimento che prescinda dal riconoscimento esplicito o implicito dell'ente beneficiato. A questi risultati conduce una lettura dell'istituto più aderente ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia che assegnano una dimensione fattuale di evento oggettivo all'arricchimento di cui all'art. 2041 cod. civ. e alla relativa azione una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l'affidamento, la buona fede dei terzi (cfr. Cass. Sez. un. 08 dicembre 2008, n. 24772). In tale prospettiva il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l'esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell'attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l'onere di eccepire e provare il rifiuto dell'arricchimento o l'impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto).
Del resto sulla qualificazione dell'arricchimento come istituto civilistico che da luogo a situazioni di diritto soggettivo perfetto anche quando parte sia una P.A., salvo il limite interno del divieto di annullamento e di modificazione degli atti amministrativi, la giurisprudenza ha mostrato di non dubitare, allorché ha costantemente affermato la giurisdizione ordinaria in materia (Cass. Sez. un. 18 novembre 2010, n. 23284; Cass. Sez. un. 20 novembre 1999 n. 807).
4.1. Valga considerare che l'impostazione fondata sulla necessità di un riconoscimento esplicito o implicito degli organi rappresentativi è sostanzialmente ancorata ad una lettura dell'istituto in chiave contrattuale che è stata già stigmatizzata da queste Sezioni Unite in occasione della risoluzione di altro contrasto sul tema dell'arricchimento nei confronti della P.A., rilevandosi che se è indubbio che l'arricchimento che dipende da fatto dell'impoverito presenta punti di contatto con la responsabilità contrattuale, ciononostante non se ne giustifica l'assimilazione (cfr. sentenza 11 settembre 2008, n. 23385).
Invero il principio secondo cui “chi senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona, è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale” è stato dettato dal legislatore del 1942, accanto ad altre fattispecie particolari di cui già si è dato conto, con la funzione di norma di chiusura onde coprire - come si legge nella Relazione al progetto del codice - anche i casi “che il legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente”. L'istituto risulta, così, configurato come un rimedio unitario, idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di arricchimento di un soggetto e di correlativo impoverimento di un altro soggetto in mancanza di una giusta causa e, quindi, sia i casi di arricchimento conseguito appropriandosi di utilità insite nell'altrui situazione protetta, sia quelli che dipendono da comportamenti dell'impoverito. E sebbene la prima categoria presenti innegabili punti di contatto con la responsabilità civile e la seconda con il regime di esecuzione dei contratti, l'istituto non si presta ad essere letto né in una chiave, né nell'altra, avendo una precisa identità di autonoma fonte di obbligazione restitutoria e l'esclusiva finalità di indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall'uno all'altro soggetto.
4.2. In particolare la lettera della norma, che - come sopra evidenziato - adopera un lessico oggettivistico nell'individuazione dei presupposti dell'azione, nonché la funzione dell'istituto
che è quella di eliminare l'iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione, riconducono l'arricchimento ad una dimensione fattuale di evento oggettivo, escludendo che la qualificazione pubblicistica del soggetto arricchito possa essere evocata a fondamento di una riserva di discrezionalità in punto di riconoscimento dell'arricchimento e/o del suo ammontare. Ne consegue che ciò che il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare è il fatto dell'arricchimento; e il relativo accertamento da parte del giudice non incorre nei limiti di cognizione ai sensi dell'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, trattandosi di verificare un evento patrimoniale oggettivo, qual è l'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, perché altrimenti si riconoscerebbe all'amministrazione una posizione di vantaggio che è priva di base normativa. In tale prospettiva il riconoscimento da parte della P.A. dell'utilità della prestazione o dell'opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta - trattandosi di un elemento estraneo all'istituto - bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell'"imputabilità dell'arricchimento all'ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell'articolazione interna della pubblica amministrazione, che l'espediente giurisprudenziale del riconoscimento dell'utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato, nell'ambito del principio di diritto comune dell'arricchimento imposto, in ragione del quale l'indennizzo non è dovuto se l'arricchito ha rifiutato l'arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perché inconsapevole dell'eventum utilitatis.
In definitiva va accolto il primo motivo, assorbito il secondo, avendo la Corte territoriale erroneamente ritenuto necessario ai fini dell'azione di arricchimento il riconoscimento dell'utilità dell'opera da parte dell'ente pubblico e, in specie, dei suoi organi rappresentativi; ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione, che dovrà fare applicazione del seguente principio: la regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell'ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare - e il giudice accertare - il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole.
Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione.
4)IL CONTRATTO DI LOCAZIONE SENZA FORMA SCRITTA È NULLO? SECONDO LE SEZIONI UNITE SÌ,
SALVO UN CASO.
TRACCIA
Tizio concede in locazione un immobile di sua proprietà, a Ciao, fin dal febbraio 1997, verso un canone di locazione pari ad attuali € 100, poi aumentato ad € 250 a seguito di alcuni interventi di manutenzione
Tizio intende ottenere il pagamento dei canoni arretrati da Caio
Questi gli contesta che il contratto non ha forma scritta per scelta imposta dal locatore. Ne sarebbe conseguiva la inefficacia di qualsiasi procedura esecutiva per rilascio dell’immobile. Il candidato premessi bevi cenni sulla locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente, e sui profili di nullità del contratto di locazione ai sensi della I. n.431 del 1998, assuma la difesa del sig. Caio e rediga parere motivato
La Massima
Il giudice dovrà accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della I. n.431 del 1998, e, dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e subita da parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il canone dovuto nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della proprietà e dei conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente diritto del conduttore alla restituzione della eccedenza pagata.
Né la innegabile difficoltà probatoria di tale circostanza (gravando il relativo onere sul conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) può condurre a soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie.
In conformità con la lettera della legge, la nullità di protezione, e le relative conseguenze, sarà pertanto predicabile solo in presenza dell'abuso, da parte del locatore, della sua posizione "dominante", imponendosi il tal caso, e solo in esso, a causa della eccessiva asimmetria negoziale, un intervento correttivo ex lege a tutela del contraente debole. In concreto, sarà pertanto necessario che il locatore ponga in essere una inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al fine di costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità. Il locatore potrà agire in giudizio per il rilascio dell'immobile occupato senza alcun titolo, e il conduttore potrà ottenere la (parziale) restituzione delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente quella del canone «concordato» - poiché la restituzione dell'intero canone percepito dal locatore costituirebbe un ingiustificato arricchimento dell'occupante.
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18214
(Pres.. Rovelli - Rel. Travaglino)
I FATTI E I MOTIVI DI RICORSO
1.I. P. concesse in locazione un immobile di sua proprietà, sito in Fondi, al padre C., con facoltà di sublocazione.
1.1. Questi concesse a sua volta in godimento l'appartamento a G. T. e a S. C..
2. La P. ottenne, in data 26 giugno 2006, un provvedimento di convalida di sfratto per morosità nei confronti del padre, che pose in esecuzione estromettendo la C. dal possesso dell'immobile.
2.1. Nel proporre opposizione all'esecuzione, quest'ultima espose di aver ricevuto in locazione l'appartamento da C. P. fin dal febbraio 2003, verso un canone di locazione pari € 100, poi aumentato ad € 250 a seguito di alcuni interventi di manutenzione, sostenendo che la convalida di sfratto era effetto di dolo e collusione dei P. ai suoi danni.
2.2. C. P., con autonomo ricorso, poi riunito al procedimento di opposizione, agì a sua volta per la risoluzione del contratto concluso con G. T. e la convivente S. C., a suo dire morosi nel pagamento dell'indennità mensile di occupazione dal gennaio 2006.
3. Il Tribunale di Latina, riuniti i giudizi, dichiarò che tra S. C. e C. P. era stato stipulato, fin dal maggio 2003, un contratto di locazione per il canone mensile di euro 250.
3.1. In particolare, con riguardo alla mancanza di forma scritta, il giudice di primo grado affermò che l'eventuale nullità del negozio poteva essere fatta valere dalla sola parte conduttrice, trattandosi di una nullità relativa. Ne conseguiva la inefficacia della procedura esecutiva per rilascio proposta da I. P. nei confronti della C., potendo quest'ultima vantare un diritto di godimento opponibile a colei che agiva per il rilascio, oltre a quello al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti a causa del trasloco in altra abitazione.
3.2. C. e I. P. furono pertanto condannati a reimmettere la C. nel possesso dell'immobile, e il solo C. P. anche al risarcimento del danno, mentre le sue domande nei confronti della C. e del T. furono rigettate.
4. Propose appello C. P., chiedendo, previa declaratoria di nullità del contratto per mancanza della forma scritta, il rigetto delle domande svolte da S. C. e la risoluzione del rapporto intercorso con il T., oltre alla sua condanna al pagamento dei canoni/indennità di occupazione per dieci mensilità.
5. La Corte d'Appello di Roma, chiamata a decidere sull'appello principale del P. e su quello incidentale del T., relativo alle sole spese del giudizio, rigettò tutte le domande proposte da
S. Cotuna (già S. C.) e dallo stesso P..
5.1. Ritenne il giudice di secondo grado che il contratto di locazione intercorso tra il C. e la C.-Cotuna fosse nullo per difetto dell'imprescindibile requisito della forma scritta, richiesta ad substantiam dall'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, con la conseguenza che nessun risarcimento del danno poteva essere accordato alla conduttrice, non legittimata ad opporre un valido titolo di godimento a cagione del rilevato difetto di forma del contratto.
5.2. Specificò la Corte capitolina che, nonostante la forma scritta non fosse espressamente prevista «sotto pena di nullità», secondo quanto disposto dall'art. 1325 n. 4 cod. civ., un'interpretazione di tipo sistematico induceva a ritenere che la prescrizione del citato art. I, comma 4, secondo cui «... per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta» imponesse per essi l'adozione di una forma ad substantiam, attesa la regola di qualificazione di cui all'art. 1352 cod. civ., alla stregua della quale, in difetto di univoche prescrizioni, la forma deve intendersi imposta per la validità del contratto, piuttosto che soltanto ad probationem, mentre l'art. 2739, comma 1, in tema di fattispecie sottratte al giuramento, richiamava «il contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta», con univoco riferimento proprio ai casi nei quali la forma è prevista ad essentiam.
5.3. La ratio della normativa di cui alla legge del 1998 doveva rinvenirsi, secondo il giudice di appello, nell'esigenza di certezza e trasparenza del rapporto sia tra le parti che nei confronti del fisco, al fine di fronteggiare un mercato caratterizzato da una consolidata prassi di
contratti in tutto od in parte simulati, mentre lo stesso fondamento costituzionale di tale limite all'autonomia negoziale doveva individuarsi nell'art. 41, terzo comma, Cost., e nel successivo art. 53 quanto ai conseguenti obblighi tributari. La tesi secondo la quale il difetto della forma scritta avrebbe dato luogo ad una nullità soltanto relativa, suscettibile di essere fatta valere solo dalla parte debole del contratto (Le. dal conduttore), non trovava quel tassativo riscontro normativo che, ai sensi dell'art. 1421 cod. civ. ("Salve diverse disposizioni di legge, ..."), doveva ritenersi imprescindibile per derogare alla regola della nullità assoluta.
5.4. Né appariva utilmente evocabile, a giudizio della Corte territoriale, l'art. 13, comma 5 della citata legge n. 431 del 1998, che abilitava il solo conduttore ad agire per la cd. "riconduzione del rapporto di fatto", in quanto la norma non aveva attinenza con la disciplina della validità del contratto, mirando piuttosto a sanzionare la condotta del locatore volta ad imporre alla controparte l'instaurazione di un rapporto di mero fatto (a tacere della circostanza che, nel caso di specie, la domanda di riconduzione non era stata concretamente esperita).
6. La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione da S. Cotuna, che lo illustra con due motivi.
6.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui alla legge n. 431 del 1998, con riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, nn. 3 e 5.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5, anche per omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
6.2. Secondo la ricorrente, la mancanza di forma scritta di un contratto di locazione ad uso abitativo comportava una nullità soltanto relativa, con la conseguenza che la violazione del relativo obbligo spiegava effetti sfavorevoli per il solo locatore e non anche per il conduttore, come implicitamente desumibile dal quinto comma dell'art. 13della legge n. 431 del 1998, che ammetteva espressamente la legittimità della locazione di fatto.
6.2.1. Resiste I. P. sostenendo che la legge n. 431 del 1998 richiede invece tout court la forma scritta ad substantiam, ed evidenziando che la Cotuna non aveva promosso alcuna azione di riconduzione del contratto ex art. 13, comma 5, legge n. 431 del 1998.
7. Resistono ancora con controricorso C. P. e G. T., proponendo, il primo, ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo, il secondo, ricorso incidentale illustrato da due motivi.
7.1. Il P. denuncia la violazione e falsa applicazione della legge n. 431 del 1998 e dell'art.1453 c.c., avendo egli già dedotto in sede appello che i conviventi Cotuna e T. erano rimasti morosi nel pagamento del canone, con conseguente richiesta di risoluzione del rapporto per grave inadempimento: anche qualora il contratto di locazione fosse stato ritenuto valido nonostante la mancanza della forma prescritta ad substantiam, la risoluzione avrebbe dovuto essere comunque pronunciata per grave inadempimento della controparte.
7.2. Il T. propone a sua volta due motivi di ricorso incidentale, il primo relativo alla mancata pronuncia sulla domanda di risarcimento danni ex art. 96 cod. proc. civ., il secondo con riferimento alla compensazione delle spese nel giudizio in violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
8. Con ordinanza interlocutoria n. 20480 del 2014 la terza sezione di questa Corte, nell'esaminare preliminarmente e congiuntamente i motivi del ricorso principale, osserverà che la Corte di merito aveva ritenuto inapplicabile, nel caso di specie, l'istituto della c.d. nullità di protezione, ritenendo la ratio della legge n. 431 del 1998 non già funzionale a tutelare i diritti del conduttore, ma piuttosto a garantire una posizione di equidistanza tra le parti contraenti.
8.1. Nell'ordinanza di rimessione si evidenza ancora come la giurisprudenza di legittimità (diversamente da quella di merito, non unanime sul punto) non si fosse mai pronunciata sui temi in questione se non marginalmente affermando che la previsione di nullità per ipotesi determinate prevista dall'art. 13 della stessa legge non si applica agli immobili inclusi nella categoria catastale A/8 (abitazioni in villa) per i quali, non essendo prevista alcuna nullità collegata a limiti di durata del rapporto o di misura del canone, resta esclusa la speciale
azione del conduttore di riconduzione del rapporto a condizioni conformi allo schema della valida locazione (Cass. 29 settembre 2004 n. 19568).
9. Si rammenta ancora, con il provvedimento interlocutorio, come, con una precedente ordinanza (n. 37 del 2014), la stessa terza sezione avesse ravvisato la necessità di rimeditare l'orientamento interpretativo delineato dalla sentenza n. 16089 del 2003 (e seguito da tutta la giurisprudenza successiva) secondo cui, "in tema di locazioni abitative, l'art. 13, primo comma, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, nel prevedere la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (e nel concedere in tal caso al conduttore, al secondo comma, l'azione di ripetizione), non si riferisce all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione rispetto alla misura del corrispettivo (né a quella della simulata conclusione di un contratto di godimento a titolo gratuito dissimulante una locazione con corrispettivo), in tal senso deponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma. E ciò perché, essendo valido il contratto di locazione scritto ma non registrato (non rilevando, nei rapporti tra le parti, la totale omissione dell'adempimento fiscale), non può sostenersi che essa abbia voluto sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione all'imposizione fiscale di una parte soltanto del corrispettivo (quello eccedente il canone risultante dal contratto scritto e registrato) mediante una pattuizione scritta, ma non registrata. La nullità prevista dal citato art. 13, primo comma, è volta piuttosto a colpire la pattuizione, nel corso di svolgimento del rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario (scritto, come impone, a pena di nullità, l'art. I, quarto comma, della medesima legge, e registrato, in conformità della regola della generale sottoposizione a registrazione di tutti i contratti i di locazione indipendentemente dall'ammontare del canone), la norma essendo espressione del principio della invariabilità, per tutto il tempo della durata del rapporto, del canone fissato nel contratto" (la questione è stata oggetto di discussione alla medesima udienza pubblica del 13 gennaio 2015, ed è stata risolta da queste sezioni unite con sentenza depositata in pari data a quella della presente pronuncia).
10. Con l'ordinanza di rimessione, il collegio della terza sezione civile ha pertanto rappresentato l'opportunità - per ragioni di completezza e sistematicità - di trattare anche il problema della portata dell'azione di riconduzione nell'ottica della ricorrenza o meno di una nullità che invalida il rapporto locativo, perché la materia delle locazioni si presenta di rilevante impatto sociale ed una valutazione unitaria dei problemi indicati mira a prevenire potenziali, diverse visioni interpretative fornendo all'interprete un valido e sicuro ausilio per la loro pronta risoluzione.
10.1. La questione rimessa a queste sezioni unite è, pertanto, la seguente: se, in materia di locazioni abitative, l'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, nella parte in cui prevede che «per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta», prescriva il requisito della forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, e, nel primo caso, se l'eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione alla luce della disposizione di cui all'art. 13, comma 5 della stessa legge, a mente del quale "Nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso dí conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati; nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti".
LE RAGIONI DELLA DECISIONE
1.I ricorsi, principale e incidentali, proposti avverso la medesima sentenza,
devono essere riuniti.
1.1. Il ricorso principale è infondato.
1.2. Al rigetto del ricorso principale conseguono l'assorbimento del ricorso incidentale condizionato di C. P. e il rigetto del ricorso di G.T..
2. All'esame del ricorso principale vanno premesse le considerazioni che seguono.
2.2. La disciplina codicistica della locazione di immobili urbani è stata integrata, negli ultimi decenni, da numerosi interventi di legislazione speciale, concernente in particolare i contratti aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo.
2.3. La materia, come è noto, ha trovato una sua prima disciplina organica nella legge n. 392 del 1978, ispirata all'esigenza di realizzare un meccanismo di determinazione legale del contenuto del contratto - e, in particolare, del canone di locazione -, calcolato sulla base di una serie di parametri oggettivi.
2.3.1. Come pressoché unanimemente ritenuto dai commentatori della normativa, la scelta del legislatore, di forte stampo dirigistico, ha prodotto risultati estremamente negativi, causando gravi distorsioni del mercato delle abitazioni. I proprietari, - salvo far ricorso alla sistematica prassi dei cd. affitti in nero - preferirono togliere dal mercato i propri appartamenti, ritenendo oltremodo antieconomico concederli in locazione ad un canone spesso irrisorio, assai lontano dal vero valore di mercato e con alti rischi di perdita della relativa disponibilità per lungo tempo.
2.3.2. Il fenomeno del ritiro del mercato delle locazioni di un considerevole numero di immobili rese così necessario un nuovo intervento del legislatore, dapprima timidamente derogatorio rispetto alla ratio sottesa alla legge del 1978 (il riferimento è all'art. 11 del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, contenente la normativa dei cd. «patti in deroga»), e poi del tutto speculare ad essa, a far data dalla legge n. 431 del 1998.
2.3.3. Il primo intervento, del 1992, consentì, nei contratti di locazione ad uso abitativo, la libera pattuizione del corrispettivo, bilanciata da un sostanziale raddoppio della durata del contratto, mentre tutti gli altri aspetti del rapporto contrattuale continuarono ad essere regolati dalla precedente disciplina
2.4. La legge n. 431 del 1998 ha reso definitiva la scelta del legislatore di abbandonare definitivamente l'idea del canone «equo» imposto per legge, e di fronteggiare, eliminandolo in radice, il fenomeno del cd. "sommerso".
2.4.1. Venne così sancita in via definitiva la liberalizzazione del canone delle locazioni ad uso abitativo, bilanciata da una maggiore stabilità del rapporto contrattuale, con espressa previsione dell'obbligo della forma scritta e della registrazione del contratto.
2.4.2. I contratti che ricadono nell'ambito applicativo della legge sono le locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo che non abbiano ad oggetto beni vincolati o che non siano costruiti nell'ambito dell'edilizia residenziale pubblica o che non siano alloggi locati per finalità esclusivamente turistiche (art. 1).
2.4.3. La legge prevede due possibili modalità di contrattazione: una prima, libera, una seconda strutturata secondo modelli-tipo, frutto di accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative (art. 2, comma 3).
2.5. Il legislatore detterà pochissime prescrizioni, limitandosi a richiedere la forma scritta e a disciplinare la durata del contratto, che varia a seconda si sia scelto il modello a forma libera oppure quello concordato tra associazioni. Nel primo caso, infatti, è prevista una durata minima di quattro anni rinnovabili per ulteriori quattro, mentre nel secondo la durata minima è di tre anni rinnovabili per altri due.
3. Con specifico riguardo al problema della forma negoziale dei contratti di locazione, va premesso come, nel nostro sistema codicistico, viga, secondo l'opinione dominante (peraltro non condivisa da autorevole dottrina), un principio generale di libertà della forma, in applicazione del quale, in linea generale, la manifestazione di volontà contrattuale non richiederebbe forme particolari, potendo realizzarsi attraverso qualsiasi modalità idonea a manifestarla, ivi compresi comportamenti cd. concludenti.
3.1. Il (presunto) principio della libertà di forma non è privo di eccezioni. E' noto che, per alcuni atti la legge, richiede che la volontà sia manifestata attraverso particolari modalità espressamente stabilite, attraverso la stipula di contratti a forma cd. vincolata: l'art. 1350 elenca quelli per i quali la forma scritta è prevista a pena di nullità.
3.2. La forma vincolata risponde ad una molteplicità di esigenze: quella di garantire certezza sull'esistenza e sul contenuto del contratto, oltre che sulla stessa volontà delle parti; quella di rendere possibili i controlli sul contenuto contratto previsti nell'interesse pubblico (come per la contrattazione con la pubblica amministrazione); quella di rendere trascrivibile il contratto a fini di pubblicità, per rendere opponibili a terzi i diritti che ne scaturiscono; quella di protezione del contraente che, con l'adozione della forma scritta, viene reso edotto e consapevole delle obbligazioni assunte.
3.4. Tra le molte teorie elaborate sulla complessa tematica della forma negoziale, va posto l'accento su quelle che ne valorizzano il contenuto, privilegiando il valore funzionale alla forma, da valutarsi in concreto, in relazione alla ratio espressa dallo specifico "tipo" contrattuale. Di qui, l'impredicabilità di una automatica applicazione della disciplina della nullità in mancanza della forma prevista dalla legge ad substantiam, essendo piuttosto necessario procedere ad un'interpretazione assiologicamente orientata, nel rispetto dei valori fondamentali del sistema. Così, il carattere eccezionale o meno della norma sulla forma, ovvero il suo carattere derogabile o inderogabile, non potrà essere definito in astratto e in via generale, ma dovrà risultare da un procedimento interpretativo che dipende dalla collocazione che la norma riceve nel sistema, dalla ratio che esprime, dal valore che per l'ordinamento rappresenta.
3.5. Tali, condivisibili tendenze cd. "neoformaliste" tendono a favorire l'emersione del rapporto economico sottostante a ciascun atto negoziale, evolvendo verso una vera e propria mutazione genetica del ruolo stesso della forma del contratto, non più soltanto indice di serietà dell'impegno obbligatorio, o mezzo di certezza o idoneità agli effetti pubblicitari, ma strumento che consenta anche di rilevare l'eventuale squilibrio esistente tra i contraenti e di tutelare la parte debole del rapporto (anche se, in senso opposto, altra parte della dottrina continua a ritenere che l'art. 325 n. 4 cod. civ. evochi il requisito della forma, sic et simpliciter, come mero elemento necessario nella struttura del contratto, senza attribuire alcun rilievo all'elemento teleologico, di tal che, sul piano sostanziale, sarebbe preclusa quell'attività ermeneutica - consentita invece dal diritto processuale - volta alla valutazione sull'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo).
4. Tanto premesso sul piano generale, va ancora ricordato come, in epoca antecedente alla legge n. 431 del 1998, tanto la disciplina codicistica quanto la legge n. 392 del 1978 non imponevano alcuna forma particolare al contratto di locazione, tanto ad uso abitativo quanto per uso diverso (l'unica ipotesi di obbligo di forma scritta era, difatti, quella relativa ai contratti di durata ultranovennale, ex art. 1350 n. 8 cod. civ., interpretato, peraltro, in senso assai restrittivo da questa stessa Corte di legittimità).
4.1. La legge n. 431 del 1998 - funzionale, come già ricordato, all'esigenza di far emergere l'enorme numero di contratti in nero determinatosi a seguito dell'imposizione dell'equo canone, all'art. 1 comma 4 - ha invece previsto, testualmente, che, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, "per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta".
4.2. La necessità della forma scritta apparve, illico et immediate, ispirata a tutte quelle esigenze poc'anzi evidenziate.
4.2.1. In primo luogo, si volle assicurare certezza a rapporti giuridici che coinvolgono un così importante bene della vita.
4.2.2. In secondo luogo, si decise di "stabilizzare" un canone che, seppure liberalizzato, doveva incondizionatamente rimanere quello indicato nel contratto per tutta la durata del rapporto.
4.2.3. Infine, e soprattutto, si volle assicurare la più ampia pubblicità al rapporto, al fine di contrastare l'evasione fiscale.
La prescrizione della forma scritta, difatti, appare volta essenzialmente a tutelare l'interesse alla trasparenza del mercato delle locazioni in funzione dell'esigenza di un più penetrante controllo fiscale, esigenza avvertita in modo significativo in un settore dove, come poc'anzi ricordato, a causa della precedente disciplina dirigistica il fenomeno dell'evasione era divenuto inarginabile. E proprio il collegamento funzionale (anche se non strutturale) tra forma scritta e registrazione del contratto apparve a tuttora appare particolarmente significativo in tal senso.
4.2.4. La stessa relazione di accompagnamento della VIII Commissione permanente Ambiente territorio e lavori pubblici (presentata alla Presidenza il 25.11.1998) indica con chiarezza come l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 fosse quello di «introdurre misure atte a combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo settore», in aggiunta alla volontà di realizzare una liberalizzazione controllata del mercato locativo.
4.3. Si è così osservato che l'interesse generale, di rilevanza pubblicistica, troverebbe ulteriore conferma proprio nella previsione del requisito della forma scritta anche nei casi in cui manchi un'esigenza di protezione del conduttore riconducibile alla stabilità del rapporto di locazione o ad una specifica posizione di debolezza - come nel caso delle locazioni stipulate per finalità esclusivamente turistiche e di quelle che hanno ad oggetto immobili di lusso, espressamente sottratte all'applicazione dell'art. 13, comma 5, della I.n. 431 del 1995.
5. Tale la conclusione cui perviene la pressoché unanime dottrina, che, salvo alcune isolate voci contrarie, ritiene che la legge n.431 del 1998 richieda per i contratti di locazione ad uso abitativo la forma scritta a pena di nullità.
6. Dal suo canto, la giurisprudenza di merito sembra aver privilegiato quasi unanimamente l'interpretazione secondo la quale la forma scritta del contratto di locazione sia richiesta ad substantiam. La norma speciale, difatti, secondo alcune pronunce, andrebbe letta in combinato disposto con l'art. 1418 cod. civ. - che sanziona con la nullità la mancanza di uno dei requisiti di cui all'art. 1325 cod. civ. ivi compresa la forma del contratto se prevista a pena di nullità -, mentre, secondo altre, andrebbe coniugata con il disposto dell'art. 1350 n. 13 - che contempla, tra gli atti che devono farsi per iscritto a pena di nullità, anche quelli "specificamente indicati dalla legge" -. Un ultimo gruppo di sentenze evocano, infine, le norme di cui agli artt. 1352 e 2739 cod. civ. quanto al significato da attribuire al requisito di forma in difetto di univoche prescrizioni.
6.1. Del tutto isolate appaino, per converso, le interpretazioni di segno opposto offerte da altra parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la mancanza di una espressa previsione della sanzione della nullità dovrebbe indurre a ritenere che la forma scritta richiesta per il contratto di locazione di immobile ad uso abitativo sia soltanto ad probationem, e non un requisito essenziale del contratto.
6.2. Un terzo filone interpretativo ritiene, infine, necessaria la forma scritta ad essentiam, limitando, peraltro, la rilevabilità della nullità in favore del solo conduttore nella specifica ipotesi di cui all'art. 13, comma 5 della I. n. 431 del 1998, che gli accorda una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto, da parte del locatore, un rapporto di locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente. Il conduttore potrebbe, cioè far valere egli solo la nullità qualora il locatore abbia imposto la forma verbale, abusando della propria posizione dominante all'interno di un rapporto giocoforza asimmetrico.
7. E' convincimento di queste sezioni unite che l'ultima delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza di merito debba essere condivisa.
7.1. A tale conclusione deve pervenirsi, innanzitutto, sulla base di una interpretazione letterale della disposizione di cui all'art. 13, comma 5 della legge n. 431 del 1998, che limita all'elemento caratterizzante costituito dall'«abuso» del locatore la necessità di un riequilibrio del rapporto mediante l'introduzione di un'ipotesi di nullità relativa: ne consegue, logicamente, che, in mancanza di tale «abuso», la nullità debba ritenersi assoluta (e, quindi, non sanabile) e rilevabile da entrambe parti, oltre che d'ufficio ex art. 1421 cod. civ.
7.2. Se la forma scritta risponde alla finalità di attribuire alle parti, ed in specie al conduttore, uno status di certezza dei propri diritti e dei propri obblighi, la sua funzione primaria (coerente con la ratio dell'intero dettato normativo di cui alla legge 431) deve comunque ritenersi quella di trarre dall'ombra del sommerso - e della conseguente evasione fiscale - i contratti di locazione.
7.3. Il comma 5 dispone, difatti, testualmente, che «nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati; nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti».
7.4. La norma opera un espresso riferimento all'art. 1, comma 4, ovvero all'ipotesi di un contratto nullo per mancanza di forma scritta che abbia dato luogo ad un rapporto di locazione di fatto. Si richiede, tuttavia, espressamente, un ulteriore presupposto, ovvero che sia il locatore ad aver preteso l'instaurazione del rapporto di fatto, e che quindi la nullità del contratto sia a lui attribuibile, mentre il conduttore deve averla solo subita. Si disciplina, pertanto, la fattispecie concreta del locatore che ponga in essere una coazione idonea ad influenzare il processo di formazione della volontà del conduttore, condizionando alla forma verbale l'instaurazione del rapporto di locazione in violazione dell'articolo 1, comma 4.
7.5. E' in tal caso che il conduttore sarà il (solo) soggetto legittimato a chiedere che la locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto in relazione al canone predeterminato in sede di accordi definiti ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3.
7.6. In deroga ai principi generali della insanabilità del contratto nullo, pertanto, la norma di cui all'art. 13, comma 5, riconosce al conduttore la possibilità di esperire una specifica azione finalizzata alla sanatoria del rapporto contrattuale di fatto venutosi a costituire in violazione di una norma imperativa. Ma proprio la portata eccezionalmente derogatoria ad un principio-cardine dell'ordinamento (La insanabilità del contratto nullo) non consente un'interpretazione della norma diversa da quella rigorosamente letterale.
7.7. Il giudice dovrà pertanto accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della I. n.431 del 1998, e, dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e subita da parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il canone dovuto nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della proprietà e dei conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente diritto del conduttore alla restituzione della eccedenza pagata.
8. Né la innegabile difficoltà probatoria di tale circostanza (gravando il relativo onere sul conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) può condurre a soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie.
8.1. In conformità con la lettera della legge, la nullità di protezione, e le relative conseguenze, sarà pertanto predicabile solo in presenza dell'abuso, da parte del locatore, della sua posizione "dominante", imponendosi il tal caso, e solo in esso, a causa della eccessiva asimmetria negoziale, un intervento correttivo ex lege a tutela del contraente debole. In concreto, sarà pertanto necessario che il locatore ponga in essere una inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al fine di
costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità. Il locatore potrà agire in giudizio per il rilascio dell'immobile occupato senza alcun titolo, e il conduttore potrà ottenere la (parziale) restituzione delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente quella del canone «concordato» - poiché la restituzione dell'intero canone percepito dal locatore costituirebbe un ingiustificato arricchimento dell'occupante.
8.2. Non può, pertanto darsi seguito alla tesi, pur sostenuta da parte della giurisprudenza di merito e da alcuni autori in dottrina, secondo cui il collegamento tra l'art. 13, comma 5 e l'art. 1, comma 4, della legge n.431 del 1998 integrerebbe tout court gli estremi della nullità di protezione o relativa anche nel caso l'uso della forma verbale sia stato deciso volontariamente da entrambe le parti contraenti.
8.3. Pur vero che il riconoscimento, in tal caso, di una fattispecie di natura di nullità assoluta avrebbe come conseguenza l'obbligo di restituzione dell'immobile con effetto immediato dalla dichiarazione di nullità del contratto, venendo meno il suo titolo giustificativo (e così determinandosi un indebolimento della posizione del conduttore, esposto all'azione di nullità del locatore che, evitando la forma scritta prescritta dalla legge, avrebbe così un permanente strumento di pressione nei confronti del contraente più debole), va di converso considerato che tale assunto muove da un presupposto infondato in diritto, quello, cioè, dell'assimilabilità della suddetta disposizione con altre che introducono obblighi di forma (nelle varie fasi della formazione del contratto, dalle trattative alla stipulazione definitiva) in funzione di protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale (nei contratti bancari di investimento, ad esempio, la forma scritta è dettata in funzione del superamento di uno squilibrio informativo che caratterizza il rapporto tra le parti ed è diretta a fornire al contraente debole tutte le informazioni necessarie per assumere consapevolezza del rischio cui si espone nell'investimento e per avere la possibilità di verificare la conformità del contratto definitivo con quanto è stato oggetto di informativa preliminare).
8.4. Tali finalità non possono ritenersi predicabili con riguardo al requisito di forma scritta del contratto di locazione. In primo luogo, non può ravvisarsi un collegamento tra prescrizione di forma e obblighi informativi in quanto non vi sono particolari rischi connessi allo svolgimento del contratto e non è dato riscontrare quello squilibrio informativo che tipicamente caratterizza le relazioni che intercorrono tra contraenti deboli e contraenti professionali. In secondo luogo, la prescrizione di forma non è dettata in funzione strumentale del contenuto, il quale, nell'ordinaria modalità di svolgimento delle relazioni contrattuali, risulta agevolmente comprensibile dal conduttore.
8.5. Queste considerazioni, coniugate con la già ricordata esigenza di procedere ad un'interpretazione rigorosamente letterale della norma in esame, sebbene non escludano una più generale intentio legis di tutelare il conduttore - che pur risulta da una pluralità di norme dettate nel suo esclusivo interesse - inducono a ritenere definitivamente esclusa la possibilità di applicazione analogica delle norme che prevedono nullità relative.
9. L'interpretazione letterale della norma in parola non consente, in definitiva, soluzione diversa. Sancire che, per la stipula di validi contratti di locazione, è necessaria la forma scritta, significa a contrario affermare che il contratto di locazione privo di tale requisito è invalido (i.e., nullo). Nè vale obiettare che nella categoria dell'invalidità rientra anche il contratto annullabile, perché nel territorio della disciplina positiva non si rinvengono ipotesi di annullabilità per vizio di forma.
10. Non senza osservare ancora, su di un più generale piano etico/costituzionale, e nel rispetto della essenziale ratio della legge del 1998, che la soluzione adottata impedisce che, dinanzi ad una Corte suprema di un Paese europeo, una parte possa invocare tutela giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale, volta che l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività.
Il ricorso principale è pertanto rigettato, con conseguente rigetto di quello incidentale del T. e con assorbimento di quello condizionato del P..
Le spese del giudizio di Cassazione possono essere integralmente compensate, attesa la complessità delle questioni trattate, l'assenza di precedenti di legittimità e il contrasto esistente in seno alla giurisprudenza di merito.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato del P., rigetta il ricorso incidentale del T. e compensa le e spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, li 13.1.2015 Depositato in cancelleria 17 SET 2015
5)È VALIDA LA PATTUIZIONE DI UN MAGGIORE CANONE DI LOCAZIONE IN NERO?
TRACCIA ATTO GIUDIZIARIO
Tizio proprietario di un villino locato a Caio, intima al conduttore, lo sfratto per morosità, contestando l'omesso pagamento dei canoni dei mesi di dicembre e gennaio, per un totale di Euro 3.400.
Il conduttore, nega l'esistenza della denunciata morosità in quanto l'importo del canone mensile, risultante dal contratto stipulato il primo marzo 2003 e registrato il successivo 31 marzo, era stato convenuto in Euro 387,35, di tal che la scrittura privata redatta a latere, che prevedeva il pagamento della maggior somma di Euro 1700, doveva ritenersi nulla ai sensi della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1.
Il candidato assunte le vesti del legale di Caio rediga parere motivato
Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n. 18213
(Pres.. Rovelli - Rel. Travaglino)
Svolgimento del processo
1. F.E., proprietario di un villino locato a S. C.V., B.J., e M.P., intimò ai conduttori, in data 30 gennaio 2004, lo sfratto per morosità, contestando loro l'omesso pagamento dei canoni dei mesi di dicembre 2003 e gennaio 2004, per un totale di Euro 3.400.
1.1. Si costituirono i conduttori, negando l'esistenza della denunciata morosità in quanto l'importo del canone mensile, risultante dal contratto stipulato il primo marzo 2003 e registrato il successivo 31 marzo, era stato convenuto in Euro 387,35, di tal che la scrittura privata redatta a latere, che prevedeva il pagamento della maggior somma di Euro 1700, doveva ritenersi nulla ai sensi della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1.
1.1.2. Essi vantavano, pertanto, un credito verso il locatore pari ad Euro 11.813,85 a titolo di somme versate in eccesso sino al dicembre del 2003.
1.2. Con ricorso del 9 marzo 2004 i conduttori ribadirono l'illiceità della pretesa del F., chiedendo che l'entità del canone dovuto fosse definitivamente accertato nella misura di Euro 387,35 mensili, con condanna del locatore al pagamento della somma di Euro 11.813,85, versata in eccesso.
1.3. Il F., costituendosi nel secondo giudizio, sostenne che il contratto contenente la previsione di un canone più basso era stato redatto e registrato "a fini soltanto fiscali" (i.e., per sua esplicita ammissione, al fine di consentirgli di evadere in parte qua le imposte dovute), mentre il "vero contratto" (e il canone reale voluto dalle parti) era quello indicato "nel contratto dissimulato" (successivamente registrato in data 24 maggio 2004).
Non essendo la registrazione, ratione temporis, un requisito di validità della convenzione negoziale di locazione, questa doveva ritenersi pienamente efficace nella sua forma (e sostanza) di contratto dissimulato.
2. Il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, riuniti implicitamente i giudizi, ritenne nullo, con riferimento al canone dissimulato, la convenzione stipulata in difformità da quella del primo marzo 2003, recante il canone di Euro 387,35.
2.1. Secondo il giudice di prime cure, nella specie, non poteva configurarsi una fattispecie di simulazione, in quanto nel secondo "contratto" era previsto che, in deroga al punto 3 della convenzione di locazione regolarmente registrata, il canone mensile fosse integrato con altri Euro 1262,65 di modo che l'importo totale (comprensivo delle spese consortili) ammontasse a Euro 1700,00.
Si trattava, a suo giudizio, di una modifica del precedente contratto, da ritenersi nulla a fronte del chiaro tenore letterale della L. n. 431 del 1998, art. 13.
2.2. Rigettate le domande del F., il Tribunale stabilì, pertanto, che il canone dovuto dai conduttori era pari ad Euro 387,35, condannando il locatore al pagamento, in favore dei predetti, della somma di Euro 11.813,85 (oltre agli interessi legali dalla messa in mora), a titolo di indebito oggettivo.
3. Nel proporre appello, F.E. lamentò, da un canto, l'errore di fatto in cui era incorso il giudice di primo grado ritenendo che la scrittura privata fosse successiva al contratto registrato il 31 marzo 2003, laddove il maggior canone era stato coevamente e liberamente accettato sin dall'inizio dalle controparti; dall'altro, la falsa interpretazione della L. n. 431 del 1998, art. 13, poichè la registrazione del contratto di locazione rappresentava un adempimento di carattere esclusivamente fiscale, e non un ostacolo al diritto di agire in giudizio.
4. La Corte d'Appello capitolina respinse l'impugnazione, confermando l'interpretazione adottata dal Tribunale - predicativa della inconfigurabilità di una simulazione del canone stabilito nel primo dei due contratti -, versandosi piuttosto in tema di integrazione negoziale per effetto del secondo contratto.
4.1. Il giudice di secondo grado preciserà, peraltro, in motivazione, che, anche volendo considerare "il secondo contratto alla stregua di un negozio dissimulato", esso sarebbe stato comunque affetto da nullità, con piena vigenza del primo, in applicazione della L. n. 431 del 1998, art. 13, a mente del quale doveva considerarsi nulla "ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato".
5. Avverso la sentenza d'appello il F. ha proposto ricorso per cassazione.
5.1 Sostiene il ricorrente che la fattispecie oggetto del giudizio riguardava la locazione di un immobile ad uso abitativo in relazione alla quale si era proceduto ad uno sfratto per morosità nel pagamento del canone, il cui reale ammontare era stato indicato e convenuto tra le parti in una separata scrittura privata, stipulata contestualmente al contratto di locazione registrato con un canone di minore importo.
5.1.1. Aveva dunque errato la Corte d'Appello nel ritenere inconfigurabile una fattispecie di simulazione negoziale, discorrendo invece di "integrazione successiva del canone" - per poi aggiungere ad abundantiam che, in ogni caso, quand'anche di vera e propria simulazione fosse stato lecito discorrere, il "contratto dissimulato" sarebbe risultato nullo L. n. 431 del 1998, ex art. 13.
5.2. Nella specie, difatti, si era in presenza di una vera e propria intesa simulatoria, relativa al prezzo, concordato tra le parti per meri fini fiscali, posto che l'accordo originario recante la previsione del canone realmente dovuto risaliva addirittura alla proposta di locazione formulata dalla parte conduttrice e successivamente accettata dal ricorrente.
5.3. Il primo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1414, 1417, 2697, 2733 e 2735 cod. civ., si conclude con i seguenti quesiti di diritto:
- Se, nel caso di specie, le parti abbiano posto in essere un contratto relativamente simulato quanto al prezzo, fissando il canone di locazione di Euro 1700 come risulta dal contratto integrativo dissimulato, che era diretto a produrre effetti tra le parti ai sensi dell'art. 1414 c.c., comma 2;
- Se, nel caso di stipulazione di due atti in pari data, il secondo dei quali stabilisca un canone di locazione maggiore di quello risultante dal primo, ai fini della valutazione degli obblighi delle parti il giudice non debba tener conto anche dell'importo fissato nel secondo accordo;
- Se, in tema di interpretazione del contratto, il giudice non debba tener conto di tutte le pattuizioni intercorse tra le parti stabilendo il rapporto tra le stesse.
5.4. Il secondo motivo di ricorso denuncia un vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Il ricorrente lamenta, sotto altro aspetto, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza con riferimento alla qualificazione della scrittura privata non registrata (fino al momento della lite) non come contratto dissimulato bensì come integrazione del primo contratto quanto al canone pattuito.
Dall'insieme della documentazione prodotta, invece, sarebbe emerso che, sin dalla fase delle trattative, la volontà delle parti era quella di stipulare un contratto simulato, senza possibilità di individuare una successione temporale tra i due contratti, redatti contestualmente nello stesso arco temporale.
Si sottolinea ancora che la cosiddetta controdichiarazione costituisce atto di riconoscimento e di accertamento della simulazione e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza dell'accordo simulatorio, di modo che, mentre è necessario per l'esistenza della simulazione che l'accordo simulatorio sia coevo all'atto simulato, e vi partecipino tutte le parti contraenti, la controdichiarazione può essere successiva all'atto e può provenire anche da una sola delle parti contraenti.
Il motivo si conclude con la formulazione dei seguenti quesiti di diritto - il cui contenuto, nella sostanza, può ritenersi equivalente alla "chiara indicazione del fatto controverso" (c.d. "quesito di fatto") imposta dall'art. 366 bis c.p.c. nella formulazione antecedente alla sua abrogazione ex L. n. 69 del 2009:- Se l'atto comprovante l'accordo simulatorio in ordine ad un canone di locazione di maggiore e diverso importo rispetto a quello risultante dal contratto scritto e registrato può essere sia coevo perchè stipulato in pari data, sia successivo al negozio apparente;
- Se la controdichiarazione costituisce atto di riconoscimento o di accertamento della simulazione e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza dell'accordo simulatorio, che può essere successivo a quello simulato e provenire anche da una sola delle parti contraenti;
- Se la controdichiarazione può risultare anche da un atto, quale il ricorso ex art. 447-bis cod. proc. civ., sottoscritto dalla sola parte contro nel cui interesse è redatta ed avente valore confessorio.
5.5. Il terzo motivo di ricorso lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione della L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, norma che, al contrario di quanto affermato in sentenza, non eleverebbe la registrazione a requisito di validità del contratto, come già affermato da questa Corte con la sentenza n. 16809 del 2003.
Questi i quesiti di diritto formulati a conclusione dell'esposizione della censura:
- Se deve ritenersi valido ed efficace tra le parti il patto, non registrato o (come nel caso di specie) registrato tardivamente, con il quale si determina un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato;
- Se la L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1 si riferisca all'ipotesi di simulazione del canone di locazione oppure esclusivamente a quella in cui, nel corso dello svolgimento del rapporto, venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, che deve restare invariato salvo l'eventuale aggiornamento ISTAT per tutta la durata del rapporto.
- Se l'occultamento a fini fiscali di parte del canone di locazione determini o meno la nullità della relativa pattuizione.
6. La terza sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 37/2014, ha rimesso alle Sezioni Unite gli atti del procedimento, evidenziando la necessità di rimeditare l'orientamento espresso da Cass. 16089 del 2003, secondo cui, in tema di locazioni abitative, la L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13, comma 1, nel prevedere la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (e nel concedere in tal caso al conduttore, al comma 2, l'azione di ripetizione), non si riferisce all'ipotesi della simulazione relativa del contratto di locazione rispetto alla misura del corrispettivo (nè a quella della simulata conclusione di un contratto di godimento a titolo gratuito dissimulante una locazione con corrispettivo), in tal senso deponendo una lettura costituzionalmente orientata della norma, giacchè, essendo valido il contratto di locazione scritto ma non registrato (non rilevando, nei rapporti tra le parti, la
totale omissione dell'adempimento fiscale), non può sostenersi che essa abbia voluto sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione all'imposizione fiscale di una parte soltanto del corrispettivo (quello eccedente il canone risultante dal contratto scritto e registrato) mediante una pattuizione scritta ma non registrata. La nullità prevista dal citato art. 13, comma 1, è volta piuttosto a colpire la pattuizione, nel corso di svolgimento del rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario (descritto, come impone, a pena di nullità, l'art. 1, comma 4, della medesima legge, e registrato, in conformità della regola della generale sottoposizione a registrazione di tutti i contratti di locazione indipendentemente dall'ammontare del canone), la norma essendo espressione del principio della invariabilità, per tutto il tempo della durata del rapporto, del canone fissato nel contratto (salva la previsione di forme di aggiornamento, come quelle ancorate ai dati Istat).
6.1. Nell'ordinanza di rimessione, il collegio della terza sezione rammenta che, al tale pronuncia, ne sono seguite altre del medesimo tenore (ex aliis, Cass. n. 8230 del 07 aprile 2010, n. 8148 del 3 aprile 2009, n. 19568 del 29 settembre 2004), ma ritiene di non poter ulteriormente confermare tale orientamento (peraltro formatosi in contrapposizione all'opposto indirizzo interpretativo adottato dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale la registrazione costituirebbe un vero e proprio requisito di validità del contratto di locazione).
6.2. Dopo aver evocato il percorso argomentativo con la quale questa Corte, con la sentenza del 2003, era giunta alla conclusione sopra indicata, si rammenta ancora che la pronunzia aveva, a suo tempo, condiviso e fatta propria una isolata tesi dottrinaria - peraltro disattesa dalla pressochè unanime dottrina specialistica -, sottolineandosi poi come la norma introdotta dal legislatore nel 1998 fosse funzionale a promuovere l'emersione delle locazioni in nero per contrastare il mercato sommerso degli affitti e il fenomeno dell'evasione o dell'elusione fiscale, con l'intento di superare la tesi dell'irrilevanza degli obblighi tributari ai fini della validità del contratto.
6.2.1. La tesi accolta dalla sentenza n. 16089 del 2003 appariva, pertanto, in contrasto con la stessa lettera della legge, in quanto la L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, non consentiva alcuna distinzione tra pattuizioni cronologicamente anteriori o posteriori, ovvero tra contratti "liberi" e a "canone fisso". Diversamente da quanto anche di recente affermato (da ultimo, Cass. 7/4/2010, n. 8230), non poteva fondatamente sostenersi che soltanto all'esito dell'entrata in vigore della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, la norma tributaria fosse stata elevata al rango di norma imperativa, con conseguente nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 c.c. in caso di relativa violazione.
6.4. Non apparivano condivisibili al collegio remittente, in particolare, gli assunti secondo cui:
a) la mancata registrazione del contratto di locazione non determinava alcuna nullità negoziale (non essendo stata la registrazione del contratto di locazione elevata a requisito di validità del contratto);
b) la correlazione della nullità della pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato con l'omessa registrazione del patto recante la maggiorazione non era desumibile dal tenore della L. n. 431 del 1998, art. 13, commi 1 e 2;
c) il contratto scritto ma non registrato doveva ritenersi valido, stante la pretesa, "palese irragionevolezza" della tesi secondo cui si sarebbe voluto sanzionare con la nullità la meno grave ipotesi della sottrazione alla imposizione fiscale di una parte soltanto del corrispettivo (quella eccedente il canone risultante dal contratto scritto e registrato) mediante una pattuizione scritta ma non registrata, laddove tale sanzione non era viceversa prevista in caso di totale omissione dell'adempimento;
d) si configurava piuttosto (come sostenuto dall'odierno ricorrente), una legittima ipotesi di simulazione relativa, con la conseguenza che il canone dovuto non poteva che essere quello effettivamente "voluto" dalle parti, e risultante dalla controdichiarazione.
6.5. L'auspicato revirement avrebbe potuto, inoltre, affermarsi, alla luce di due fondamentali e recenti approdi giurisprudenziali, quello sulla causa in concreto e quello in tema di abuso del diritto.
6.5.1. Sotto il primo profilo, si osserva che, in considerazione della segnalata "finalità fiscale" della normativa, dovrebbe aversi riguardo alla sostanza dell'operazione posta in essere dalle parti, in quanto la pattuizione di un canone superiore rispetto a quello indicato nel contratto scritto e registrato risulta funzionalmente volta a realizzare proprio il risultato vietato dalla norma, a garantire cioè al locatore di ritrarre dalla locazione dell'immobile un reddito superiore rispetto a quello assoggettato ad imposta. La causa concreta del negozio, dunque, andrebbe ricercata nello scopo di ottenere uno specifico risultato vietato dalla legge, onde la impredicabilità di una sua validità/efficacia (si sottolinea, in proposito, come questa stessa Corte, in altre occasioni, abbia avuto modo di affermare che la norma volta alla tutela di interessi pubblicistici si profila per ciò stesso come imperativa ed inderogabile, non soltanto nei rapporti tra P.A. e privato - Cass. ss.uu. 17/6/1996, n. 5520-, ma anche in quelli tra privati -Cass. ss.uu. 17/12/1984, n. 6600; Cass. 17/12/1993, n. 12495, e, in tema di locazioni, Cass. 4/2/1992, n. 1155-, anche se l'orientamento non poteva dirsi pacifico -in senso contrario, difatti, si sono espresse Cass. 22/3/2004, n. 5672; Cass. 20/3/1985, n. 2034, e, in tema di locazioni, Cass., 17/12/1985, n. 7412-).
6.5.2. Sotto il secondo profilo si rammenta che, in epoca successiva all'affermarsi dell'orientamento de quo, questa stessa Corte aveva più volte affermato e applicato il principio del divieto di abuso del diritto (Cass. 18/9/2009, n. 20106; Cass. 15/10/2012, n. 17642), specie in tema di imposte, in particolare precisando che l'esame delle operazioni poste in essere dal contribuente deve essere in ogni caso compiuto alla stregua del principio desumibile dal relativo concetto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (in materia fiscale, ex aliis, Corte di Giustizia 21/2/2006, in causa C-255/02), secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute e quand'anche immuni da invalidità, risultino, alla stregua di un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che le giustifichino, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (tra le altre, Cass. 29/9/2006, n. 21221; Cass. ss.uu. 23/12/2008, n. 30055; Cass. 9/3/2011, n. 5583; Cass. 28/6/2012, n. 10807; Cass., 30/11/2012 n. 21390, e, tra le più recenti, Cass. 6/12/2013, n. 27352). Tale, generale principio "antielusivo" trovava il suo fondamento nell'art. 53 della Costituzione, la cui ratio rendeva ultroneo l'eventuale accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell'operazione, da valutare, viceversa, nella sua reale essenza, non potendo al riguardo influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell'operazione rispetto al mero risparmio fiscale, come tali quindi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità (Cass. 21/4/2008, n. 10257).
7. Sulla base di queste argomentazioni, che hanno indotto il collegio remittente a ritenere che negozio posto in essere al fine di realizzare la vietata finalità di evasione o elusione fiscale non potrebbe più, sotto plurimi profili, (continuare a) ritenersi ammissibile e lecito, l'ordinanza interlocutoria ravvisa la necessità di rimeditare l'orientamento affermatosi in seno alla giurisprudenza di questa Corte all'indomani della ricordata pronuncia n. 16089 del 2003, sollecitando l'intervento di queste sezioni unite in considerazione della circostanza che "il rigetto del ricorso, con conseguente conferma dell'impugnata decisione, comporterebbe la necessità di farsi luogo ad un radicale revirement di un orientamento interpretativo ormai consolidato presso il giudice di legittimità, al fine di evitarsi -in una materia connotata da una diffusissima contrattazione e caratterizzata da un'accentuata litigiosità- un contrasto potenzialmente foriero di disorientanti oscillazioni interpretative che potrebbero conseguirne e comunque quale questione di massima di particolare importanza".
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
2. Vanno premesse al suo esame le considerazioni che seguono.
3. La norma di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 13 trova applicazione nel caso di specie in quanto il contratto è stato stipulato nel marzo del 2003, in epoca, cioè, antecedente all'entrata in vigore della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, (legge finanziaria 2005), a mente del quale "I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati", disposizione destinata a trovare applicazione solo per i contratti stipulati a partire dal 1 gennaio 2005.
3.1. La L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati.
3.2. Il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) ha ulteriormente innovato la disciplina della registrazione dei contratti di locazione ad uso abitativo con l'art. 3, commi 8 e 9, che testualmente recita: "Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina:
a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d'ufficio; b) al rinnovo si applica la disciplina di cui alla della citata
L. n. 431 del 1998, art. 2, comma 1; c) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l'adeguamento, dal secondo anno, in base al 75 per cento dell'aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti. 9. Le disposizioni di cui alla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, ed al comma 8 del presente articolo si applicano anche ai casi in cui: a) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo; b) sia stato registrato un contratto di comodato fittizio (sull'esito del giudizio di costituzionalità di tali norme, amplius, infra, sub 4.4).
3.3. Norma di carattere generale risulta, infine, quella di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, commi 1 e 3, (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), secondo cui: "I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede" e "Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto".
4. Va poi ricordato come la stessa Corte costituzionale sia stata più volte investita della questione in esame o di questioni ad essa connesse.
4.1. La prima pronuncia che merita di essere segnalata è quella relativa alla L. n. 431 del 1998, art. 7 (che poneva quale condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile locato, adibito ad uso abitativo, la dimostrazione, da parte del locatore, della regolarità della propria posizione fiscale quanto al pagamento dell'imposta di registro sul contratto di locazione, dell'ICI e dell'imposta sui redditi relativa ai canoni).
Il giudice delle leggi (con la sentenza n. 333 del 2011) ritenne costituzionalmente illegittima la norma perchè l'onere in parola, imposto al locatore a pena di improcedibilità dell'azione esecutiva, aveva finalità esclusivamente fiscali, prive di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e con gli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, traducendosi così in una preclusione o in un ostacolo all'esperimento della tutela giurisdizionale, in violazione dell'art. 24 Cost..
4.2. Con l'ordinanza n. 420 del 2007, la Corte costituzionale, investita della questione di costituzionalità della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, nella parte in cui prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati, pronunciò ordinanza di manifesta infondatezza della questione, per avere il remittente evocato l'art. 24 Cost. che costituiva nella specie parametro non conferente, stante il carattere sostanziale della norma denunciata, non attinente alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale. In tale occasione, tuttavia, la Corte ritenne di dovere affermare che la L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la cui violazione determinava la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 cod. civ..
4.3. La Consulta si è poi occupata ex professo dell'art. 13 della L. n. 431 nella parte in cui, rispettivamente, si sanciva la nullità delle pattuizioni volte a determinare un importo del canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (comma 1) e consentiva al conduttore di chiedere la restituzione delle somme indebitamente corrisposte (comma 2). Con l'ordinanza n. 242 del 2004, la questione venne dichiarata manifestamente inammissibile perchè il rimettente, pur alla luce delle diverse tesi predicate in giurisprudenza circa la natura e gli effetti della registrazione del contratto di locazione e la corrispondente pluralità di opinioni dottrinarie, aveva omesso quel doveroso tentativo di ricercare un'interpretazione adeguatrice del testo di legge denunciato.
4.4. Vanno infine essere segnalate due ulteriori pronunce di manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 346, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 41 Cost., e di manifesta infondatezza e on riferimento al parametro di cui all'art. 24 Cost. (ord. nn. 389 del 2008 e 110 del 2009), nonchè la sentenza n. 50 del 2104, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato la incostituzionalità per eccesso di delega del D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 3, commi 8 e comma 9.
5. Appare opportuno rammentare ancora (sia pur con inevitabile sintesi) le riflessioni della dottrina specialistica in subiecta materia, atteso che il problema dell'incidenza della violazione delle norme fiscali o tributarie sulla validità o efficacia degli atti negoziali dei privati ebbe a porsi sin da epoca assai risalente (in particolare, nel pensiero di un autore che, nel 1874, si sarebbe espresso con toni fortemente critici nei confronti del progetto di legge Minghetti del novembre 1873, poi respinto dal voto della Camera del 24 maggio 1874, con il quale si proponeva di introdurre la sanzione della nullità civilistica per gli atti non registrati).
5.1. Il dibattito dottrinario, sviluppatosi dopo l'approvazione della L. n. 431 del 1998, art. 13, commi 1 e 2, è poi proseguito con riferimento, dapprima, all'art. 1, comma 346, della legge finanziaria del 2005, e, successivamente, al D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 3.
5.2. Si è così sostenuto:
- da un canto, che la norma di cui al citato art. 13, nella parte in cui sancisce la nullità delle pattuizioni volte a determinare un importo del canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (comma 1) e consente al conduttore di chiedere la restituzione delle somme indebitamente corrisposte (comma 2), si applicherebbe anche nell'ipotesi di un contratto di locazione rispettoso della forma scritta e debitamente registrato al quale acceda una controdichiarazione scritta indicativa di un canone di importo superiore a quello indicato nel contratto registrato (si ritiene, cioè, sulla base di una interpretazione letterale della norma, certamente ricompresa nel suo ambito di applicazione l'ipotesi di simulazione relativa di uno degli elementi del contratto, da ritenersi nullo e improduttivo, in parte qua, di alcun effetto tra le parti);
- dall'altro, che la registrazione non potrebbe essere considerata un requisito strutturale del contratto in aggiunta a quelli indicati dall'art. 1325 cod. civ., di talchè la sua mancanza non dovrebbe incidere sulla validità del medesimo - di qui, i dubbi di costituzionalità sia per l'irragionevolezza intrinseca della norma, sia per violazione dell'art. 53 Cost.: e ciò perchè il principio quod nullum est nullum producit effectum impone di considerare che, in presenza di un contratto nullo, il fisco non potrebbe esigere i periodi di imposta antecedenti a tale rilevamento, mentre non potrebbe esservi interferenza tra violazioni di ordine fiscale e la disciplina della validità del contratto (tale impostazione trova fondamento sulla distinzione tra frode alla legge, determinativa, ai sensi del 1344 c.c., dell'illiceità della causa - con conseguente nullità del contratto ex art. 1418 c.c. -, e frode al fisco, i cui effetti rimangono confinati entro l'ambito dell'ordinamento tributario, poichè, si aggiunge, la nullità è collegata alla tutela di interessi "superindividuali" e non particolari come quelli di cui è portatore il fisco);
- dall'altro ancora, che il sintagma "nullità di ogni pattuizione" sarebbe predicativo di una nullità atipica, speciale, ed estranea al paradigma della nullità come disegnata dal codice civile: nonostante la formula utilizzata dal legislatore, si dovrebbe pertanto ritenere che la norma abbia inteso introdurre una condicio iuris diretta a negare l'efficacia di un contratto ex se perfetto. La registrazione avrebbe, conseguentemente, l'effetto di sanare il rapporto
locatizio con efficacia ex nunc, così che i canoni dovuti dal conduttore, se non ancora pagati, sarebbero inesigibili e, se già corrisposti, ripetibili ex lege;
- infine, che la registrazione del contratto sarebbe un presupposto legale estrinseco di validità del negozio: tale interpretazione prende le mosse dalla necessità di una lettura sistematica della materia, che tenga conto anche dell'art. 1, comma 346, L. finanziaria del 2005 (il quale sancisce, come già accennato, che "i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati"). La risposta al problema dell'efficacia ex nunc o ex tunc della registrazione tardiva della pattuizione dissimulata postulerebbe, dunque, coerenza con la disciplina della fattispecie, ancor più grave, dell'omissione integrale dell'onere di registro, ribaltandosi, altrimenti, nell'ambito del regime civilistico della violazione fiscale il generale principio di uguaglianza di cui all'art. 53 Cost.. In considerazione, quindi, della più grave fattispecie della omessa registrazione, si dovrebbe ritenere che il legislatore abbia comminato una nullità espressa e tassativa, idonea a rientrare, tra "quei casi stabiliti dalla legge" di cui è menzione nell'art. 1418 c.c., u.c..
5.3. All'indomani dell'entrata in vigore della norma, venne poi formulata una diversa (e isolata) tesi, secondo cui il legislatore avrebbe inteso introdurre esclusivamente il principio di invarianza del canone, destinato a concretizzarsi nel divieto di ogni successivo aumento del canone inizialmente pattuito, a pena di nullità: tesi, quest'ultima, come si pone in evidenza nell'ordinanza interlocutoria, seguita e fatta propria da questa Corte (nel tentativo di offrire un'interpretazione costituzionalmente orientata alla norma), cui in seguito altri autori aderiranno, ritenendo che il giudice di legittimità, nel proporre una lettura della disposizione di legge e del suo ambito di operatività volta ad allontanarne i dubbi di costituzionalità, prospettasse la condivisibile interpretazione in base alla quale un contratto di locazione concluso in forma scritta, ma non registrato, è valido e vincolante per le parti, e può essere fatto valere in giudizio.
6. Il primo e secondo motivo di ricorso, che lamentano sotto molteplici aspetti un'erronea applicazione di norme di legge e un'erronea interpretazione della fattispecie concreta da parte del giudice di appello - che, in via principale, aveva ritenuto inconferente il richiamo all'istituto della simulazione oggettiva parziale (di prezzo) -, pur nella fondatezza in diritto di buona parte delle relative argomentazioni, non possono essere accolti.
6.1. Afferma, in sintesi, il ricorrente:
- che non si sarebbe potuto in alcun modo dubitare della predicabilita di una intesa simulatoria vertente sul prezzo per meri fini fiscali, posto che l'accordo originario con indicazione del canone realmente dovuto risaliva addirittura alla proposta di locazione formulata dalla parte conduttrice il 4.12.2002, accettata dal locatore il successivo 24.12.2002;
- che da tale "testo negoziale" si sarebbero poi diramate le due ulteriori pattuizioni, una contenuta nel contratto di locazione dell'1.3.2003, contenente la previsione di un canone pari ad Euro 387,35, l'altra consegnata ad una scrittura privata a latere (così testualmente definita dal ricorrente al folio 6 dell'odierno atto di impugnazione, e così altrettanto testualmente definita nell'intestazione dell'atto in parola), coeva al primo contratto, recante la previsione di un "canone integrato" pari ad Euro 1262,65, il tutto per un corrispettivo totale di Euro 1700, comprensivo di Euro 50 per spese consortili;
- che la ricordata proposta prevedeva l'obbligo del conduttore di garantire il locatore con una fideiussione bancaria a prima richiesta per l'importo di Euro 25.000, nonchè di procedere ad un deposito cauzionale pari a Euro 4.950 (corrispondente all'importo di tre mensilità del canone realmente dovuto);
che, contestualmente all'immissione in possesso dell'immobile, i conduttori avevano versato al
F. due assegni di 1700 Euro ciascuno (pari a due mensilità del canone effettivo di locazione); che, in data 1.3.2003, venivano contestualmente redatti tanto il contratto di locazione con indicazione del canone apparente, quanto la scrittura privata a latere nella quale era indicato il canone aggiuntivo per complessivi Euro 1700;
che una corretta analisi della complessa vicenda non avrebbe potuto condurre a soluzione diversa da quella dall'accertamento della simulazione parziale del contratto relativamente al corrispettivo della locazione (così, testualmente, parte ricorrente, ancora al folio 6 dell'impugnazione), non essendovi alcuna incompatibilità "tra simulazione relativa e integrazione negoziale, essendo la seconda niente altro che l'effetto della prima, posto che il negozio dissimulato integra o modifica il contratto simulato, così che, della scrittura a latere, il giudice avrebbe dovuto tenere debitamente conto in quanto idonea ad indicare l'oggetto del contratto realmente voluto" (come si legge al folio 8 del ricorso);
che, contraddittoriamente, il giudice di merito, dopo avere escluso la simulazione, aveva poi ritenuto pienamente vigente tanto il primo quanto il secondo "contratto", senza peraltro tener conto dell'importo fissato nell'accordo a latere (testualmente definito, al folio 9, "negozio dissimulato"), essendo chiaro l'intento di occultamento del corrispettivo a fini fiscali; che palesemente erronea in punto di fatto appariva la stessa ricostruzione cronologica degli eventi operata dalla Corte territoriale, discorrendosi, in motivazione di "patto successivo al primo" - con ciò omettendosi del tutto di considerare che il contratto di locazione e la scrittura privata a latere erano stati stipulati contestualmente; che la controdichiarazione, in base al meccanismo simulatorio, doveva ritenersi "una specie di negozio ausiliario che fa corpo con il contratto simulato, nel senso di determinare il significato e la portata della dichiarazione apparente, che costituisce atto di riconoscimento o di accertamento della simulazione, e non atto richiesto ad substantiam per l'esistenza dell'accordo simulatorio". Di tal che, si prosegue, "se è necessario, per l'esistenza della simulazione che l'accordo simulatorio sia coevo all'atto simulato e vi partecipino tutte le parti contraenti, nulla impedisce, viceversa, che la controdichiarazione sia posteriore a tale atto, e provenga anche da una sola delle parti;
- che, nel caso in esame, l'assetto voluto dai contraenti era quello di tenere celato al fisco l'effettivo importo del canone tramite la contestuale stipulazione di due accordi, nel secondo dei quali le parti dichiaravano il reale contenuto del rapporto.
7. Osserva il collegio che l'inquadramento della fattispecie concreta nell'ambito dell'istituto della simulazione non appare seriamente revocabile in dubbio.
7.1. La ricostruzione che, della complessa vicenda, compie l'odierno ricorrente, in larga misura conforme a diritto, deve peraltro essere in parte corretta, in parte precisata.
7.2. E' conforme a diritto la tesi del ricorrente secondo cui, nella specie, ci si troverebbe al cospetto di un procedimento simulatorio (attesa la natura sostanzialmente "procedimentale" dell'istituto disciplinato dagli artt. 1414 c.c. e ss.), mentre va respinta la conseguente ricostruzione in termini di vera e propria "duplicazione" negoziale - i.e. di attuazione di tale procedimento attraverso la attuazione di un primo negozio simulato e di un secondo, autonomo negozio dissimulato.
7.2.1. Il procedimento simulatorio si sostanzia, difatti, sul piano morfologico, in un accordo simulatorio e in una successiva, quanto unica, convenzione negoziale, tanto nell'ipotesi di simulazione assoluta (assenza di effetti negoziali) quanto di simulazione relativa (produzione di effetti diversi da quelli riconducibili al negozio apparente).
7.2.2. Tanto nel caso della simulazione assoluta, quanto in quello della simulazione relativa, difatti, l'atto stipulato dalle parti è unico (mentre, come di qui a breve meglio si dirà, la c.d. controdichiarazione non è altro che uno strumento probatorio idoneo a fornire la "chiave di lettura" del negozio apparente, caratterizzata dalla eventualità e dalla irrilevanza della contestuale partecipazione alla sua stesura di tutti i soggetti protagonisti dell'accordo, tanto che essa può anche provenire da uno solo di essi, e sostanziarsi in una dichiarazione unilaterale, perciò solo priva di ogni veste contrattuale).
7.2.3. Non appare, pertanto, corretto in punto di diritto discorrere di contratto simulato e contratto dissimulato come di due diverse e materialmente separate convenzioni negoziali (nè tantomeno appare corretto ricondurre il c.d. negozio dissimulato alla controdichiarazione, come talora si suole affermare).
7.2.3. Tale unità strutturale della simulazione è poi destinata ad evolvere, sul piano funzionale: o nella improduttività di effetti (simulazione assoluta) ovvero nella produzione di
effetti diversi da quelli riconducibili, pur sempre, a quell'unica convenzione negoziale stipulata dalle parti. Il caso paradigmatico dell'istituto della simulazione, difatti - la compravendita destinata a celare una donazione - è palese conferma della bontà di tale ricostruzione dell'istituto, volta che i protagonisti dell'accordo, recatesi da un notaio, presenziano e partecipano alla redazione di un unico contratto -apparentemente, una compravendita -, che in realtà costituisce esso stesso (di qui la dissimulazione negoziale) donazione, a condizione che, di tale contratto, quell'atto di (apparente) compravendita contenga i requisiti di sostanza e di forma.
7.2.4. E' questo il senso della disposizione di cui all'art. 1414 c.c., comma 2, nella parte in cui, consentendo la produzione degli effetti del contratto "diverso da quello apparente" che "le parti abbiano voluto concludere", impone, di tale contratto dissimulato, la sussistenza " dei requisiti di sostanza e di forma", che non possono essere ricercati se non nell'unica convenzione negoziale materialmente stipulata (nell'esempio poc'anzi ricordato, nel contratto di compravendita, che produrrà gli effetti della donazione a condizione, che, di esso, contenga appunto "i requisiti di sostanza e di forma", e cioè risulti redatto per atto pubblico, in presenza di due testimoni, e sia caratterizzato, sul piano causale, dall'indispensabile intento di liberalità).
7.3. Così precisati gli aspetti terminologici (oltre che sostanziali) del procedimento simulatorio, con riferimento, rispettivamente, al contratto simulato e a quello dissimulato, nel senso della relativa uni(ci)tà morfologica (unità che, diversamente, il ricorrente mostra a più riprese di non cogliere appieno, discorrendo di negozio simulato e di negozio dissimulato con riferimento, rispettivamente, al primo contratto di locazione recante l'indicazione del canone apparente e alla "scrittura privata a latere", della quale, peraltro, egli riconosce altrove la natura di controdichiarazione), va ulteriormente indagata la fattispecie (quale quella in esame) della simulazione relativa oggettiva parziale.
7.3.1. Non è questa la sede per esaminare funditus la questione della riconducibilità tout court di tale fattispecie all'istituto della simulazione, ovvero (come più pensosamente suggerito da autorevole, risalente dottrina) di estrapolarne tutte le ipotesi di c.d. simulazione (soggettiva per interposizione fittizia e) oggettiva parziale, come la stessa dizione normativa sembrerebbe suggerire (l'art. 1414 c.c. limita, difatti, l'operatività dell'istituto all'area dell'intera struttura negoziale sub specie della produzione/non produzione di effetti, poichè i due sintagmi "contratto simulato" e contratto dissimulato" sembrano destinati a circoscriverne l'ambito di applicazione alle sole ipotesi di convenzioni negoziali valutate nel loro complesso, e non attraverso la scomposizione dei relativi elementi di validità/efficacia).
7.3.2. Nel convenirsi con la tradizionale impostazione - che estende anche ai singoli elementi negoziali l'applicabilità delle regole della simulazione - deve comunque osservarsi che la innegabile unità strutturale del procedimento simulatorio (i.e. l'unicità della convenzione negoziale, oggetto di simulazione tanto assoluta quanto relativa) va a più forte ragione predicata con riferimento alla simulazione oggettiva di prezzo.
7.4. Il relativo procedimento simulatorio consta, difatti, di un previo accordo tra tutte le parti e di un unico negozio (nella specie, il contratto di locazione contenente l'indicazione di un canone fittizio), cui accede (in guisa di elemento non essenziale del procedimento) una controdichiarazione contenente l'indicazione del prezzo realmente convenuto.
7.5. La natura della controdichiarazione, all'interno di tale procedimento, è pertanto quella, e solo quella, di un atto destinato, in caso di controversia tra le parti, alla prova della (dis)simulazione parziale dell'oggetto dell'obbligazione (nella specie, il prezzo della locazione).
7.5.1. Tale natura, sul piano morfologico, non consente di indagare (attesa la sostanziale inutilità di tale indagine) sulla forma, contrattuale o meno, che la controdichiarazione è destinata a rivestire nel caso concreto: come lo stesso ricorrente non omette di rammentare, difatti, tale controdichiarazione può assumere perfino la veste della dichiarazione unilaterale, addirittura non coeva, ma successiva, alla stipula del negozio (Cass. n. 14590 del 2003, ex aliis).
7.5.2. All'interno del procedimento simulatorio, risulta, pertanto, del tutto irrilevante che la controdichiarazione assuma forma di atto unilaterale, ovvero (come nella specie) forma e sostanza di contratto - del tutto sovrapponibile al primo, ma contenente l'indicazione del vero prezzo dovuto.
7.5.3. La sua funzione resta, difatti, rigorosamente limitata al piano interpretativo (quello che consente, cioè, di disvelare e far prevalere la realtà sull'apparenza) e al piano probatorio (attesane la indefettibilità in caso di controversia insorta successivamente tra le parti, cui non è consentita la prova per testimoni o per presunzioni, salva illiceità del negozio).
7.6. La morfologia e la funzione di quello che viene impropriamente definito da parte del ricorrente come "secondo contratto" (nella specie, addirittura registrato, all'indomani dell'inadempimento dei conduttori all'obbligo di corrispondere il canone dissimulato), restano, pertanto rigorosamente circoscritte a tale, duplice piano di indagine (onde, va ripetuto, la irrilevanza della forma contrattuale), e non ne mutano, appunto, morfologia e funzione: quella, esclusiva, di controdichiarazione (come a più riprese mostra, per altro verso, di ritenere lo stesso ricorrente nel discorrere di "scrittura privata a latere"), che, una volta redatta, completa e conclude il procedimento di simulazione relativa oggettiva parziale.
7.7. Alla luce di tali premesse, la ricostruzione della fattispecie concreta può essere compiuta nei termini che seguono:
a) Parte locatrice e parte conduttrice convengono, con accordo simulatorio, di stipulare un contratto di locazione indicando, in seno ad esso - destinato alla registrazione - un canone inferiore a quello realmente pattuito;
b) Le parti redigono materialmente un contratto di locazione contenente l'indicazione di tale canone fittizio;
c) Le stesse parti, con controdichiarazione scritta (coeva alla stipula), alla cui redazione partecipano tutte e contestualmente, convengono che il canone indicato nel contratto registrato deve essere modificato in aumento, secondo quanto indicato nella controdichiarazione stessa, avendo il locatore manifestato il proprio intento di frodare il fisco.
7.7.1. Cosi completatosi il procedimento simulatorio, la prima delle due funzioni di tale controdichiarazione, quella interpretativa del contratto (dis)simulato in parte qua, consente di "rileggere" la convenzione negoziale (l'unica convenzione esistente e rilevante sul piano contrattuale) nel senso che il canone dovuto era pari a 1700 Euro e non agli apparenti 365 indicati nell'atto registrato.
7.8. Tale sostituzione deve ritenersi nulla, ai sensi e per gli effetti della L. n. 431 del 1998, art. 13.
7.8.1. Non può, difatti, darsi ulteriore seguito all'interpretazione della norma adottata da questa Corte con la più volte ricordata sentenza n. 16089 del 2003.
8. E ciò ritiene il collegio di poter affermare alla stregua delle considerazioni che seguono.
8.1. La sentenza n. 16089 poneva in stretta relazione, comparandole, due fattispecie apparentemente omogenee, quella della elusione fiscale parziale e quella (più grave) dell'evasione totale delle imposte, affermando che la mancata previsione, ex L. n. 431 del 1998, di una nullità testuale per il contratto non registrato (vicenda funzionale alla più grave violazione fiscale costituita dalla evasione totale) impediva di considerare nullo il contratto registrato con un canone inferiore a quello realmente pattuito, volta che tale ipotesi (funzionale alla realizzazione di una meno grave elusione parziale), se ricondotta nell'alveo dell'art. 1418 c.c., avrebbe implicato non pochi problemi di costituzionalità della norma di cui all'art. 13 della L. del 1998.
8.1.2. L'accento veniva posto, pertanto, sulle conseguenze e sulla rilevanza della registrazione del negozio rispetto alla eventuale declaratoria di nullità dello stesso: sulla possibilità, in altri termini, che proprio la (mancata) registrazione fosse il parametro di riferimento per valutare l'eventuale effetto di nullità del contratto di locazione.
8.2. Posta in questi termini la questione, la soluzione adottata dal collegio della 3 sezione civile nel 2003 non poteva che essere quella predicata in sentenza, poichè la L. del 1998 conteneva disposizioni testualmente volte ad escludere che la mancata registrazione del
contratto ne comportasse ipso facto la nullità: di qui, la insuperabile difficoltà di ritenere nullo il contratto registrato con canone fittizio, attesa la minor gravità, sul piano fiscale, dell'elusione parziale rispetto all'evasione totale.
9. E' convincimento di queste sezioni unite che la quaestio nullitatis debba, peraltro, essere posta in termini affatto diversi rispetto a quelli delineati dalla sentenza del 2003 con riferimento alla fattispecie in esame - salvo quanto in seguito si andrà esponendo con riferimento alla ipotesi (quale quella di specie) di registrazione successiva del contratto contenente l'indicazione del canone realmente pattuito e realmente versato dal conduttore.
9.1. La ritenuta omogeneità delle fattispecie astratte esaminate dalla pronuncia del 2003, difatti, risulta soltanto apparente.
9.2. L'ipotesi disciplinata dall'art. 13 commi 1 e 2, e la relativa previsione di nullità del patto volto a determinare un maggior canone rispetto a quello dichiarato nel contratto registrato con canone fittizio, correttamente ricondotta nell'alveo del procedimento simulatorio, come si è avuto modo di chiarire, non consente alcuna comparazione con la fattispecie del contratto non registrato.
9.3. L'interpretazione dell'art. 13 deve, difatti, condursi alla stregua della più generale riflessione secondo cui già nel 1998 la volontà del legislatore era quella di sanzionare di nullità la sola previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente, così come indicato nel contratto registrato, in guisa di vera e propria lex specialis, derogativa ratione materiae, alla lex generalis (benchè posteriore) costituita dal c.d. statuto del contribuente.
9.4. La corretta evocazione, compiuta dal collegio remittente con l'ordinanza interlocutoria, dell'istituto della causa negoziale sì come rivisitato da questa Corte con la sentenza 10490/2006, predicativa del carattere c.d. "concreto" dell'elemento causale, consente di affermare che lo scopo del procedimento simulatorio è indiscutibilmente quello dell'occultamento al fisco della differenza tra la somma indicata nel contratto registrato e quella effettivamente percepita dal locatore.
9.5. Ma ciò non significa che il legislatore del 1998 abbia voluto sancire un obbligo di registrazione del contratto con norma imperativa la cui violazione comporterebbe la nullità dell'intero contratto.
9.5.1. Iscritta tout court nell'orbita della simulazione, la fattispecie è difatti destinata ad essere esaminata sotto il profilo della validità del contratto di locazione registrato, e della invalidità della sola pattuizione contenente l'indicazione del canone maggiorato, così come indicata nella controdichiarazione, della quale, come si è già più volte sottolineato, non rileva in alcun modo, sotto l'aspetto funzionale, la forma adottata.
9.5.2. Il procedimento simulatorio, difatti, nell'operare secondo la scansione diacronica poc'anzi indicata, si sostanzia nella stipula dell'unico contratto di locazione (registrato), cui accede, in guisa di controdichiarazione - che consente la sostituzione, in xxx xxxxxxxxxxxxxx, xxxx'xxxxxxx xxx xxxxxxx (x.x. il prezzo reale in luogo di quello apparente) -, la scrittura (nella specie, coeva alla locazione, e redatta in forma contrattuale) con cui il locatore prevede di esigere un corrispettivo maggiore da occultare al fisco.
9.5.3. La sostituzione, attraverso il contenuto della controdichiarazione, dell'oggetto apparente (il prezzo fittizio) con quello reale (il canone effettivamente convenuto) contrasta con la norma imperativa che tale sostituzione impedisce, e pertanto lascia integra la (unica) convenzione negoziale originaria, oggetto di registrazione.
9.5.4. Non la mancata registrazione dell'atto recante il prezzo reale (attesane la funzione già in precedenza specificata di controdichiarazione), ma la illegittima sostituzione di un prezzo con un altro, espressamente sanzionata di nullità, è colpita dalla previsione legislativa, secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l'inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle: nel caso di specie, l'effetto diacronico della sostituzione è impedito dalla disposizione normativa, sì che sarà proprio la clausola successivamente inserita in via interpretativa attraverso la controdichiarazione ad essere affetta da nullità ex lege, con conseguente, perdurante validità di quella sostituenda (il canone apparente) e dell'intero contratto.
10. S'intende come, all'interno di tale procedimento simulatorio, nessun rilievo assuma la forma adottata dalle parti per la controdichiarazione.
10.1. Anche se (come nella specie) tale forma assuma veste contrattuale tout court, non per questo essa perde la sua duplice (ed esclusiva) funzione interpretativa e probatoria.
10.2. L'atto contenente l'indicazione del reale oggetto della convenzione negoziale, difatti, non va valutato, ex se, sul piano morfologico, come avulso dal più complesso procedimento simulatorio, onde, all'interno di esso, la sua funzione nasce e si esaurisce al tempo stesso esclusivamente sui due piani poc'anzi ricordati (non senza considerare che la stessa controdichiarazione, in ipotesi astratta, potrebbe addirittura mancare, non essendo elemento essenziale del procedimento simulatorio, la sua funzione risultando in stretta dipendenza soltanto con le eventuali necessità probatorie in caso di lite).
10.3. Nessun rilievo, dunque, può assumere la veste contrattuale eventualmente divisata dalle parti, nè tampoco spiega influenza, all'interno del divisato procedimento simulatorio, la sua successiva registrazione, estranea e non rilevante in seno al quello stesso procedimento, come accaduto nel caso di specie.
10.4. L'adempimento formale (ed extranegoziale) dell'onere di registrazione dell'atto controdichiarativo, difatti, non vale a farne mutare sostanza e funzione rispetto alla simulazione: la sua eventuale, diversa rilevanza andrà invece valutata successivamente, sul piano della sua validità e della sua efficacia, in caso di registrazione tardiva, come meglio di qui a breve si dirà.
11. Si pone, difatti, in astratto (e il ricorrente pone in concreto), la ulteriore questione della validità e della efficacia (in ipotesi, retroattiva o meno) dell'atto de quo, contenente l'indicazione del reale canone di locazione, una volta che il locatore abbia proceduto alla sua tardiva registrazione.
11.1. Va premesso che, a seguito della registrazione dell'atto controdichiarativo avente forma contrattuale successivamente registrato, si è in presenza della prosecuzione di quello stesso rapporto di locazione, così che, sostituendosi a quello originario il prezzo realmente pattuito tra le parti, sarebbe consentito al fisco di esigere quanto realmente dovuto dal fraudolento locatore.
11.2. Nell'ambito del procedimento simulatorio, la sostituzione dell'importo del canone fittizio con quello realmente pattuito e riscosso pro tempore, vietata ex lege, con conseguente nullità del patto contenente la previsione del canone effettivamente preteso dal locatore, non può influire sulla pretesa impositiva, volta che il prezzo versato in eccedenza può essere oggetto di ripetizione, anch'essa ex lege, da parte del conduttore (il quale, sul piano probatorio, potrà giovarsi, nel formulare domanda riconvenzionale di ripetizione a fronte della domanda di sfratto per morosità intentata dal locatore, della presunzione di pagamento dei canoni arretrati fino alla data in cui il locatore stesso abbia, come nella specie, giudizialmente lamentato l'inadempimento della relativa obbligazione, così esonerandosi lo stesso conduttore dall'onere -ai limiti della materiale impossibilità- di dimostrare il versamento del canone in eccedenza fino a quella data rispetto a quello indicato nel contratto registrato, versamento del quale, comprensibilmente, egli non potrà dar prova, avendo il locatore avuto cura di non lasciare tracce documentali di tale illegittima ricezione).
11.3. La soluzione della nullità di tale patto non può essere diversa in presenza dell'adempimento tardivo dell'obbligo di registrazione, la quale, attesone, ratione temporìs, il carattere extranegoziale, è inidonea a spiegare influenza sull'aspetto civilistico della sua validità/efficacia - diversamente finendo per incidere, del tutto inammissibilmente, sulla sua struttura e sulla sua morfologia.
11.4. Se la sanzione della nullità derivasse dalla violazione dell'obbligo di registrazione, allora sembrerebbe ragionevole ammettere un effetto sanante al comportamento del contraente che, sia pur tardivamente, adempia a quell'obbligo (nel sistema tributano è previsto, difatti, il cosiddetto "ravvedimento" D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 13, comma 1, - disciplina poi confermata ex D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 -, consistente nel versamento di una sanzione pecuniaria ridotta per correggere errori ed omissioni o per versare in ritardo l'imposta dovuta, alla condizione che la violazione non sia già stata constatata e comunque non siano iniziati
accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l'autore o i soggetti solidalmente obbligati abbiano avuto formale conoscenza).
11.5. Tale soluzione è stata adottata da parte della giurisprudenza di merito, che si è fatta portatrice di numerose interpretazioni "correttive" del testo legislativo del 1998 (sovente operando uno specifico riferimento alla L. n. 431 del 2004, art. 1, comma 346), interpretazioni tendenti a qualificare la nullità ivi prevista come sanabile, ovvero a ritenere che il legislatore, pur facendo riferimento alla categoria della nullità, volesse in realtà sanzionare di inefficacia l'atto de quo (le tesi che ammettono l'efficacia sanante si sono poi a loro volta divise tra quelle che attribuiscono alla registrazione un'efficacia sanante ex nunc e quelle predicative di efficacia sanante ex tunc).
11.6. Si è altresì osservato che il riconoscimento di una efficacia sanante alla tardiva registrazione consentirebbe al fisco di evitare il danno derivante dalla preclusione alla tassabilità del nuovo contratto registrato recante l'indicazione del canone maggiore rispetto a quello risultante nel contratto originariamente registrato.
12. Risulta evidente, alla luce delle considerazioni sinora esposte, che la questione dell'efficacia sanante della tardiva registrazione è questione del tutto mal posta.
12.1. La autonomia e diacronia del procedimento simulatorio rispetto al contratto successivamente registrato - sia pur nella singolarità di una vicenda in cui il medesimo atto partecipa al tempo stesso della natura di controdichiarazione (all'interno di quel complesso procedimento) e di vero e proprio contratto quale risultante dalla successiva registrazione - si pone, nondimeno, come del tutto ostativa a qualsiasi ricostruzione della fattispecie volta a predicare, della registrazione, un effetto di sanatoria, poichè, come si è esposto sinora, manca proprio l'oggetto (e il presupposto) di tale sanatoria.
12.2. L'atto negoziale avente funzione contro-dichiarativa, inserita nell'ambito del procedimento simulatorio, risulta, come già detto, insanabilmente affetto da nullità per contrarietà a norma imperativa.
13.3. Di quel medesimo atto nullo non può, pertanto predicarsi una ipotetica validità sopravvenuta (i.e., una sia pur impropria forma di conversione negoziale) in presenza di un requisito extraformale (la registrazione) di un negozio che, sul piano morfologico, resta identico salva la indicazione del canone diverso e maggiore.
13.4. Lo scopo tout cort dissuasivo dell'intento di elusione fiscale, di cui la legge del 1998 costituisce indiscutibile ratio (secondo quanto risulta dalla stessa relazione di accompagnamento della Vili Commissione permanente ambiente territorio e lavori pubblici, che indica con chiarezza come l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 fosse quello di "introdurre misure atte a combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo settore", in aggiunta alla volontà di realizzare una liberalizzazione controllata del mercato locativo), sarebbe difatti fortemente attenuata, se non del tutto vanificata, dal riconoscimento di una qualsivoglia efficacia sanante alla registrazione tardiva: il legislatore, sanzionando di nullità ogni patto volto alla previsione di un maggior canone, aveva inteso, in via principale, contrastare proprio il fenomeno del c.d. mercato sommerso degli affitti, perseguendo incondizionatamente l'emersione del fenomeno delle locazioni c.d. "in nero". La causa concreta di tale patto, ricostruita alla luce del precedente procedimento simulatorio, si rivela, pertanto, come ineluttabilmente caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e conseguentemente affetta dalla medesima nullità che la caratterizzava all'interno del detto procedimento.
14. Soltanto un nuovo accordo (del tutto teorico) di tipo novativo rispetto al precedente contratto scritto e registrato consentirà, pertanto, alle parti di modificare il precedente assetto negoziale, con conseguente, relativo assoggettamento alla corrispondente imposizione fiscale.
14. La soluzione così adottata ha il pregio di porsi in armonia, quoad effecta (anche se non sotto il profilo formale dell'efficacia endonegoziale della registrazione, predicabile solo a far data dalla L. n. 311 del 2004) con la successiva legislazione intervenuta in subiecta materia, di cui è cenno in precedenza.
14.1. Tanto è a dirsi per ragioni di ermeneutica di tipo letterale, logica e storico/sistematica.
14.1.1. Ragioni di tipo letterale, in quanto il comma 1 dell'art. 13 non lascia spazio, sotto tale profilo, a dubbi interpretativi di sorta: è testualmente sancita la nullità di ogni pattuzione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quella risultante dal contratto scritto e registrato, al di là ed a prescindere da qualsivoglia elemento esterno all'atto (i.e. la sua registrazione);
14.1.2. Ragioni di tipo logico, in quanto una diversa interpretazione -quella, cioè, predicativa della tutela soltanto ex post dell'invarianza del canone - si risolverebbe, al di la di quanto sinora si è andati esponendo, nella sostanziale vanificazione della duplice ratio sottesa alla disposizione in esame, volta, in via principale, a colpire in radice l'elusione fiscale, ma nel contempo intesa, sia pur in via subordinata, a tutelare la parte contrattualmente "debole" al momento della stipula del negozio - al momento in cui, cioè, al locatore è attribuito un potere contrattuale fortemente asimmetrico, che gli consente di pretendere e di imporre un canone maggiorato (e occultato) quale unica condizione per la concessione del godimento dell'immobile alla controparte, condizione cui il conduttore non potrebbe che sottostare se comunque interessato ad ottenere la disponibilità di quell'immobile -. Il criterio della successiva invarianza del canone, difatti, risulta in larga misura irrilevante e sostanzialmente inutile agli indicati fini di tutela, volta che qualsivoglia successiva pretesa di aumento dello stesso sarebbe facilmente paralizzata, in caso di controversia, dalla semplice eccezione di adempimento dell'obbligo contrattuale risultante dal canone fittiziamente convenuto e indicato nel contratto registrato.
14.1.3. Ragioni di tipo storico-sistematico, se si pensa che le disposizioni di legge successive al 1998 introducono un principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con la validità del negozio, principio generale di cui è sostanziale conferma nel dictum dello stesso giudice delle leggi (Corte cost. 420 del 2007, sopra ricordata sub 4.2), il che consente di rendere omogenea (sia pur per altra via, che non impinge nell'efficacia delle registrazione) la soluzione adottata con quella scaturente dalla normativa successiva al 1998.
15. Soluzione che, infine, su di un più generale piano etico/costituzionale, impedisce altresì che, dinanzi ad una Corte suprema di un Paese Europeo, una parte possa invocare tutela giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale, volta che l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si risolve in un miglior funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività.
16. Il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia una pretesa violazione e falsa applicazione del principio secondo cui la registrazione non è stata elevata dal legislatore speciale a requisito di validità del contratto o di patti inerenti il canone di locazione: in particolare, violazione e falsa applicazione degli artt. 1414 e 1417 c.c., nonchè della L. n. 431 del 1998, art. 13 (amplius, supra, sub 5.5.), non ha giuridico fondamento, per le ragioni esposte nel corso dell'esame delle censure che precedono.
Il ricorso, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata (il cui dispositivo risulta conforme a diritto) è pertanto rigettato.
Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alla spese del presente giudizio, non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2015
6)LOCAZIONE DI IMMOBILI URBANI ADIBITI AD USO NON ABITATIVO: LA RINNOVAZIONE TACITA DEL CONTRATTO ALLA PRIMA SCADENZA COSTITUISCE
UN EFFETTO AUTOMATICO?
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830
(Pres. Preden – est. Vivaldi)
RICOGNIZIONE
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa costituisce un effetto automatico che scaturisce direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale. Qualora dunque l’immobile sia pignorato ed il locatore successivamente fallisca, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ex art. 560, comma 2, c.p.c.
Questo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione.
Con una chiara ed esaustiva trama argomentativa, il Supremo Collegio ne spiega le motivazioni.
La legge sull'equo canone costituisce un microsistema autonomo rispetto al sistema generale sulle locazioni disciplinato dal codice civile e consente l'integrazione delle disposizioni normative di quest'ultimo soltanto quando la materia non sia specificamente disciplinata.
La stessa legge, all'art. 28, prevede che per le locazioni di immobili adibiti alle attività indicate nei commi primo e secondo dell'art. 27 il contratto si rinnova tacitamente... di nove anni in nove anni; tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta... Alla prima scadenza contrattuale... il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi di cui all'art. 29...".
Specificando la norma le ipotesi nella stessa ricomprese.
Un tale assetto normativo conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c..
Il che comporta che la rinnovazione - nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di cui dell'art. 29, secondo comma, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al conduttore -, si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta.
Quindi, il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dagli artt. 28 e 29 della legge n. 392/1978 - così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a norma
degli artt. 2 e 3, L. 9 dicembre 1998, n. 431 -, non presuppone, in alcun modo, un successivo contratto.
Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo sopravvenuto della mancanza della disdetta.
Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun specifico elemento di novità.
Restano, infatti, operanti le clausole del contratto originario, quelle relative alla misura del canone e quelle relative alla durata della locazione, in ogni caso, integrate nel minimo dall'art. 28, L. n. 392/1978 e dall'art. 2, L. n. 431/1998.
Diversamente, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali l'esercizio della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione.
La conclusione cui si è pervenuti - vale a dire che si è presenza di un effetto automatico ex lege - esclude l'applicabilità dell'art. 560 c.p.c..
E ciò perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato" fa esplicitamente riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre.
Nell'ipotesi in esame, inoltre, vi erano ulteriori profili che giustificavano l'inapplicabilità dell'art. 560, secondo comma c.p.c..
Il custode, a fronte del rinnovo ex art. 28, L. n. 392/1978, per l'assoluta tipicità dei motivi legittimanti il diniego, si trova nella posizione di subire il rinnovo automatico, indipendentemente da qualunque autorizzazione ex art. 560 c.p.c..
La speciale disciplina, d'altronde, non è tanto finalizzata a tutelare l'interesse prettamente individuale del conduttore, ponendosi, viceversa, nell'ottica del perseguimento dell'interesse generale dell'economia alla stabilità delle locazioni non abitative.
In tal modo, bypassa l'interesse particolare del conduttore alla continuazione del rapporto locatizio, andando ad incidere su interessi generali di rilevanza sociale e produttiva.
In questa ottica, l'autorizzazione da parte del giudice di cui all'art. 560, secondo comma,
c.p.c. è finalizzata ed è in funzione del processo esecutivo, al fine di garantire il buon andamento della procedura, al cui interno si pone la questione della gestione del bene pignorato.
La necessità dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione è, quindi, funzionale all'esercizio della custodia, da parte del soggetto investito di un tale potere processuale che, diversamente, non può locare il bene.
E, sotto questo profilo, ben si coglie la natura dei poteri del giudice che, nell'ambito della procedura che dirige, opera scelte discrezionali in ordine alle modalità di custodia del bene. Ed in questo ambito, rientra anche l'opportunità di dare in locazione il bene.
Quel che si vuoi dire è che l'autorizzazione del giudice è necessitata quando si tratti di adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno della procedura esecutiva.
Ma una tale autorizzazione è superflua quando la rinnovazione tacita della locazione ad uso diverso da quello di abitazione alla prima scadenza, di cui agli artt. 28 e 29, L. n. 392/1978, derivi direttamente dalla legge, la quale rende irrilevante la disdetta del locatore, se non giustificata dal ricorrere delle cause specificamente indicate dall'art. 29, quali motivi legittimi di diniego della rinnovazione.
Da ultimo, la Corte ricorda che la ricostruzione in termini di effetto legale è avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24.7.2007 n. 16321; v. anche cass. 10.6.2005 n. 12323) in tema di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, conclusi dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai sensi dell'art. 42 L. 27.7.1978 n. 392.
È stata, infatti, affermata l'applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 in tema di rinnovazione, che accorda al conduttore una tutela privilegiata in termini di durata del rapporto.
Ribadendo che, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del rapporto alla sua prima scadenza, in base alle norme della legge n. 392 del 1978, non costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del contratto, e che la legge presume in virtù di un comportamento concludente e, quindi, incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere necessariamente manifestata in forma scritta -, ma deriva direttamente dalla legge.
Con la conseguente irrilevanza della disdetta, da parte del locatore, quando la stessa non sia basata su una delle giuste cause specificamente indicate dalla legge, quali motivi legittimi di diniego della rinnovazione.
MASSIMA
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa (artt. 28 e 29 della legge 27 luglio 1978, n. 392) costituisce un effetto automatico che scaturisce direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale.
Ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal secondo comma dell'art. 560 cod. proc. civ..
Cassazione, Sezioni Unite, 16 maggio 2013, n.11830
(Pres. Preden – est. Vivaldi)
Svolgimento del processo
La srl Pro Genia intimò sfratto per morosità, ai sensi dell'art. 658 c.p.c, alla srl G. and G. Service, al fine di ottenere il rilascio dell'immobile da quest'ultima condotto in locazione, con contestuale citazione per la convalida.
Evidenziò di avere acquistato, con contratto di cessione del 19.7.2005, i diritti derivanti dal contratto di locazione dell'immobile sito in (omissis) , dato in conduzione dalla srl Xxx.Xxx.Xx. all'intimata srl G. and G. Service che si era resa morosa, nel pagamento dei canoni, per il complessivo importo di Euro 46.110,50.
L'intimata si oppose alla convalida eccependo la carenza di legittimazione attiva dell'intimante e l'inesistenza del diritto della stessa a percepire i canoni di locazione, per essere stati gli stessi pignorati con atto antecedente al contratto di cessione.
Il tribunale di Latina, in accoglimento della domanda, dichiarò la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento della conduttrice srl G. and G. Service.
A diversa conclusione pervenne la Corte d'Appello che, con sentenza del 24.3.2010, in riforma della sentenza di primo grado, rigettò la " domanda di sfratto per morosità proposta dalla
S.r.L. Pro Genia nei confronti della S.r.L. G. and G. Service, e la domanda di pagamento dei canoni insoluti".
Ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi la srl Pro Genia. L'intimata non ha svolto attività difensiva.
Fissata la trattazione del ricorso per l'udienza del 12.4.2012, la Terza Sezione civile della Corte ha emesso ordinanza interlocutoria (n. 7826), depositata il 17.5.2012, di rimessione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle sezioni unite.
Il Primo Presidente ha provveduto in tal senso.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto posta dall'ordinanza di rimessione.
La Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a decidere l'impugnazione proposta dalla società Pro Genia srl, ha rimesso gli atti al primo presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite della Corte per la composizione del contrasto, sottoponendo la seguente questione di diritto:
Se, in caso di pignoramento dell’immobile e di successivo fallimento del locatore, operi, quale effetto ex lege, la rinnovazione tacita di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 392 del 1978, e se poi la stessa rinnovazione tacita necessiti, o meno, dell’autorizzazione del giudice dell’esecuzione ex art. 560, secondo comma, c.p.c..
Sottolinea l'ordinanza interlocutoria che la giurisprudenza della Corte di cassazione si era espressa in senso favorevole alla necessità dell'autorizzazione, con orientamento costante da Cass. 2576/1970 a Cass. 1639/1999, fino alla pronuncia della stessa terza sezione civile n. 10498 del 2009, che aveva affermato l'opposto principio secondo cui, in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale. A quest'ultima impostazione conseguirebbe che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, la rinnovazione non necessiterebbe dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dall'art. 560, secondo comma, c.p.c..
2. I precedenti alla base del contrasto.
Nella giurisprudenza della Corte di legittimità hanno affermato la necessità dell'autorizzazione del giudice, ai sensi dell'art. 560, secondo comma, c.p.c., per la rinnovazione tacita della locazione avente ad oggetto l'immobile pignorato (o sottoposto a sequestro giudiziario), sull'assunto che essa integri un nuovo negozio giuridico bilaterale, Cass. 5.12.1970 n. 2576; Cass. 4.9.1998 n. 8800; Cass. 25.2.1999 n. 1639; Cass. 30.10.2002 n.
15297; Cass. 13.12.2007 n. 26238.
Ha, invece, ritenuto superflua l'autorizzazione giudiziale ex art. 560, secondo comma, c.p.c., costituendo la rinnovazione tacita alla prima scadenza un effetto automatico, scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale Cass. 7.5.2009 n. 10498.
L'automaticità di quest'effetto legale escluderebbe, pertanto, l'applicabilità del disposto dell'art. 560 c.p.c..
In questa prospettiva, la sentenza negava di porsi in contrasto coi precedenti qui richiamati poiché relativi, questi ultimi, o a contratti di locazione antecedenti all'entrata in vigore della legge sull'equo canone o a rapporti pervenuti a scadenza successiva alla prima.
L'ordinanza di questa Corte 2.11.2011 n. 22711 ha poi, enunciato il seguente principio di diritto:
"In difetto di valida eccezione di inopponibilità del contratto di locazione abitativo anteriore al pignoramento, ai sensi dell’art. 2923, terzo comma, cod. civ., l'aggiudicatario è tenuto a riconoscerlo fino alla prima scadenza contrattuale successiva, alla quale però non si opera - in difetto di autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ai sensi dell’art. 560 cod. proc. civ. - alcuna rinnovazione; e spetta all'aggiudicatario, da tale scadenza e fino all'effettivo rilascio, in mancanza di valide allegazioni sulla sussistenza di un danno maggiore, una somma pari al canone".
Con il che il Collegio riteneva di aderire alla prevalente giurisprudenza, ritenendo inconferente il "diverso caso della rinnovazione automatica alla prima scadenza", esaminato da Cass. 7.5.2009 n. 10498 ", solo in apparenza contrario.
3. L'esame della questione.
L'art. 560, secondo comma, c.p.c. prevede il divieto, per il debitore e per il terzo nominato custode, di dare in locazione l'immobile pignorato in difetto dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione.
Ai sensi dell'art. 676, terzo comma, cod. proc. civ., la locazione di un bene sottoposto a sequestro giudiziario necessita, egualmente, dell'autorizzazione del giudice.
In forza dell'art. 104-bis L. Fall., analoga disciplina vige nel fallimento per le locazioni di immobili compresi nella massa attiva, che il curatore non può stipulare senza autorizzazione del giudice delegato.
L'art. 2923 c.c., infine, dispone che le locazioni consentite da chi ha subito l'espropriazione sono opponibili all'acquirente se hanno data certa anteriore al pignoramento, salvo che, trattandosi di beni mobili, l'acquirente ne abbia conseguito il possesso in buona fede; le locazioni immobiliari eccedenti i nove anni, che non sono state trascritte anteriormente al pignoramento, non sono opponibili all'acquirente, se non nei limiti di un novennio dall'inizio della locazione; in ogni caso, l'acquirente non è tenuto a rispettare la locazione qualora il
prezzo convenuto sia inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello risultante da precedenti locazioni; se la locazione non ha data certa, ma la detenzione del conduttore è anteriore al pignoramento della cosa locata, l'acquirente non è tenuto a rispettare la locazione che per la durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato; se nel contratto di locazione è convenuto che esso possa risolversi in caso di alienazione, l'acquirente può intimare licenza al conduttore secondo le disposizioni dell'articolo 1603 c.c.. La giurisprudenza ha, al riguardo, chiarito che le due previsioni dell'art. 2923, primo comma,
x.x. x xxxx'xxx. 000, xxxxxxx xxxxx, x.x.x. xxxxxxx in rapporto di reciproca esclusione, perché la prima riguarda le locazioni risalenti a data certa anteriore al pignoramento (o alla sentenza dichiarativa di fallimento), mentre la seconda è, per definizione, relativa a locazioni poste in essere dopo l'instaurazione del processo esecutivo individuale o concorsuale.
In sostanza, la disciplina sostanziale dell'opponibilità della locazione viene esclusivamente dettata dall'art. 2923 c.c., mentre l'art. 560 c.p.c. si riferisce, piuttosto, ad una modalità di esercizio della custodia del bene, ma a fini soltanto processuali e, quindi con effetti limitati, anche temporalmente, al processo esecutivo.
L'art. 2923 c.c., quindi, si riferisce alle "locazioni consentite da chi ha subito l'espropriazione", vale a dire concluse dal debitore esecutato (o dal fallito) in quanto tale, e risolve il problema di natura sostanziale dell'opponibilità di tali locazioni all'acquirente in base al criterio dell'anteriorità rispetto al pignoramento (o al fallimento).
Nell'art. 560, secondo comma, c.p.c, invece, la figura del debitore è rilevante perché quest'ultimo è investito della funzione di custodia ed, in questo più ristretto ambito, s'inquadra il tema, di natura processuale, relativo alla gestione del bene nel processo esecutivo.
La locazione conclusa dal custode o dal curatore del fallimento, destinata a non superare i limiti temporali propri della procedura e ad esaurirsi, pertanto, con la vendita forzata, è, per la sua peculiare natura, sottratta ai vincoli di durata posti dalla legge n. 431/1998 e dalla legge n. 392/1978.
Inoltre, la locazione di un bene sottoposto a pignoramento o a sequestro giudiziario, conclusa senza premunirsi dell'autorizzazione del giudice, a norma dell'art. 560, secondo comma, c.p.c., non è invalida, ma soltanto inopponibile ai creditori e all'assegnatario (Cass. 14.7.2009 n. 16375; Cass. 13.7.1999 n. 7422; Cass. 10.10.1994 n. 8267).
Diversamente, il sistema di norme imperative in tema di durata e di rinnovazione delle locazioni amplia i suoi effetti fino a ricomprendervi anche l'acquirente in executivis, quando si tratti di locazione avente data certa anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento (o al pignoramento);
e ciò perché l'acquirente subentra in tutte le componenti convenzionali e legali che costituiscono il contenuto del rapporto locativo (S.U. 20.1.1994 n. 459; Cass. 28.9.2010 n. 20341; v. anche Cass. 15.3.1990 n.2119).
Corollario di quanto si è fin qui detto è che la rinnovazione tacita della locazione abitativa o commerciale dell'immobile pignorato, alle scadenze successive alla prima, debba essere autorizzata dal giudice, per effetto dell'art. 560, secondo comma, c.p.c..
Il rinnovo tacito non alla prima scadenza è conseguenza di una nuova manifestazione negoziale proveniente dal locatore e dal conduttore.
Ne deriva che, qualora il pignoramento sopravvenga prima della scadenza del termine (di sei, dodici o diciotto mesi, ex artt. 2 e 5, L. n. 431/1998 e 28, L. n. 392/1978) per dare disdetta, ed il giudice dell'esecuzione non autorizzi il custode a rinnovare la locazione, il conduttore rimane privo di valido titolo di detenzione del bene, senza che il custode stesso debba comunicare alcuna disdetta; e ciò, perché l'estinzione del rapporto si produce ex se in sintonia con la funzione pubblicistica dell'amministrazione dei beni pignorati.
La questione controversa è se identica conclusione - vale a dire sussistenza di una nuova manifestazione negoziale, e conseguente necessità di autorizzazione del giudice dell'esecuzione -sia predicabile quando la rinnovazione tacita della locazione abitativa o commerciale intervenga alla prima scadenza, per non ricorrere alcuno dei motivi tassativi che
la legge reputa meritevoli al sopravvenire del primo quadriennio, sessennio o novennio di rapporto.
4. Rinnovazione alla prima scadenza e nuovo contratto.
Ragioni di priorità logica e di coerenza argomentativa inducono a prendere l'abbrivo dall'esame della norma dell'art. 1597 c.c., secondo la quale si verifica la rinnovazione tacita della locazione nell'ipotesi in cui il conduttore rimane ed è lasciato, pur dopo la scadenza del termine contrattuale o legale, nella detenzione della cosa locata.
Secondo un'interpretazione condivisa, il semplice fatto della permanenza del conduttore nell'immobile, però, non vale a realizzare la fattispecie della rinnovazione, essendo necessario un concorde comportamento di entrambe le parti, dal quale desumere la loro implicita, ma inequivoca, volontà di mantenere in vita il rapporto locativo (da ultimo Cass. ord. 23.6.2011 n. 13886).
Nell'ipotesi di rinnovazione tacita del contratto di locazione, sempre ai sensi dell'art. 1597 c.c., la nuova locazione è regolata dalle stesse condizioni della precedente, ma la sua durata è quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato; ciò, in virtù del rinvio all'art. 1574 c.c..
La rinnovazione si differenzia, poi, dalla novazione della locazione, che presuppone il mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione, a norma dell'art. 1230 c.c., e deve essere connotata dall'inequivoca manifestazione dell'intento novativo delle parti, nonché dal loro comune interesse all'effetto estintivo e costitutivo.
Animus e causa novandi sono requisiti, ovviamente, estranei alla rinnovazione tacita della locazione, la quale si concreta nella conclusione di un nuovo contratto, e non nella semplice proroga di quello originario, mentre le sole garanzie prestate da terzi non si estendono alle obbligazioni derivanti dal contratto rinnovato (art. 1598 c.c.).
Il sistema differisce con riferimento alle locazioni di immobili nei quali siano esercitate le attività indicate nel primo e secondo comma dell'art. 27, L. n. 392/1978, o che siano adibiti ad uso abitativo.
In questi casi, si applica l'istituto speciale della rinnovazione dettato dall'art. 28, L. n. 392/1978, e dall'art. 2, L. n. 431/1998, secondo cui il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni (o di nove anni in nove anni per le locazioni di immobili adibiti ad attività alberghiere e assimilate ai sensi dell'art. 1786 c.c.), ovvero per un periodo di quattro anni. La rinnovazione è impedita dalla disdetta del locatore, da comunicarsi al conduttore almeno sei, dodici o diciotto mesi prima della scadenza.
Aggiunge testualmente il secondo comma dell'art. 28: Alla prima scadenza contrattuale, rispettivamente di sei o di nove anni, il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi di cui all’art. 29 con le modalità e i termini ivi previsti. Analogamente, l'art. 3, L. n. 431/1998 dispone: Alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 1 dell’articolo 2 e alla prima scadenza dei contratti stipulati ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il locatore può avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo del contratto, dandone comunicazione al conduttore con preavviso di almeno sei mesi, per i seguenti motivi...
Il nodo da sciogliere, in questa prospettiva, è se il rapporto che s'instaura dopo la rinnovazione tacita alla scadenza del sessennio (o novennio) delle locazioni commerciali e dei quattro (o tre) anni delle locazioni abitative dia luogo, quale effetto di quella rinnovazione, ad un nuovo contratto, concluso per facta concludentia, ovvero ad un nuovo titolo negoziale, che, sostituendo il vecchio contratto, provochi la nascita di un nuovo rapporto, per il quale si ripresenti, quindi, l'esigenza di un'autorizzazione del giudice ai sensi dell'art. 560, secondo comma, c.c.. Il punto è oggetto di controverse soluzioni sottolineandosi, peraltro, che in sede giurisprudenziale è stato affermato che, sia la rinnovazione tacita del contratto di locazione, sia la novazione dello stesso, darebbero luogo ad un altro, distinto rapporto.
Con la fondamentale differenza, però, che mentre dalla rinnovazione tacita deriverebbe una locazione, certamente nuova, ma di contenuto identico a quella precedentemente in vigore, diversamente, la novazione darebbe vita ad un rapporto diverso da quello cessato, le cui
clausole non potrebbero, perciò, intendersi riportate nel nuovo rapporto se non espressamente richiamate (Cass. 11.6.1983 n.4028).
5. La decisione di questa Suprema Corte.
Va affermato il seguente principio di diritto:
In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, disciplinata dalla legge sull'equo canone, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza contrattuale, per il mancato esercizio da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa (artt. 28 e 29 della legge 27 luglio 1978, n. 392) costituisce un effetto automatico che scaturisce direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale. Ne consegue che, in caso di pignoramento dell'immobile e di successivo fallimento del locatore, tale rinnovazione non necessita dell'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, prevista dal secondo comma dell'art. 560 cod. proc. civ..
Con ciò le Sezioni Unite ritengono che si debba dare continuità al principio affermato da Cass. 7.5.2009 n. 10498.
Queste le ragioni.
La legge sull'equo canone costituisce un microsistema autonomo rispetto al sistema generale sulle locazioni disciplinato dal codice civile e consente l'integrazione delle disposizioni normative di quest'ultimo soltanto quando la materia non sia specificamente disciplinata.
La stessa legge, all'art. 28, prevede che per le locazioni di immobili adibiti alle attività indicate nei commi primo e secondo dell'art. 27 il contratto si rinnova tacitamente... di nove anni in nove anni; tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta... Alla prima scadenza contrattuale... il locatore può esercitare la facoltà di diniego della rinnovazione soltanto per i motivi di cui all'art. 29...".
Specificando la norma le ipotesi nella stessa ricomprese.
Un tale assetto normativo conduce a considerare la rinnovazione tacita del contratto, alla prima scadenza quale fattispecie speciale ed autonoma rispetto alla rinnovazione tacita del contratto di cui all'art. 1597 c.c., il quale fa riferimento alla fine della locazione per lo spirare del termine di cui al precedente art. 1596 c.c..
Il che comporta che la rinnovazione - nel caso in cui il locatore non si trovi nelle condizioni di cui dell'art. 29, secondo comma, o, comunque, pur ricorrendo, non le comunichi al conduttore -, si configura come mero effetto automatico in assenza di disdetta.
Quindi, il secondo periodo di rapporto locatizio, sulla base della disciplina prevista dagli artt. 28 e 29 della legge n. 392/1978 - così come nel sistema che riguarda le locazioni abitative, a norma degli artt. 2 e 3, L. 9 dicembre 1998, n. 431 -, non presuppone, in alcun modo, un successivo contratto.
Esso deriva, non da un implicito accordo tra i contraenti, ma dal semplice fatto negativo sopravvenuto della mancanza della disdetta.
Ed il contenuto contrattuale, che disciplina il nuovo periodo di rapporto, non presenta alcun specifico elemento di novità.
Restano, infatti, operanti le clausole del contratto originario, quelle relative alla misura del canone e quelle relative alla durata della locazione, in ogni caso, integrate nel minimo dall'art. 28, L. n. 392/1978 e dall'art. 2, L. n. 431/1998.
Diversamente, nelle ipotesi di successive scadenze contrattuali, rispetto alle quali l'esercizio della disdetta, da parte del locatore, è svincolato da qualsiasi presupposto o condizione.
La conclusione cui si è pervenuti - vale a dire che si è presenza di un effetto automatico ex lege - esclude l'applicabilità dell'art. 560 c.p.c..
E ciò perché la norma in questione, vietando al debitore ed al terzo custode di dare in locazione l'immobile pignorato se non sono autorizzati dal giudice delegato" fa esplicitamente riferimento ad un atto negoziale di volontà che, nella specie, non ricorre.
Vanno anche sottolineati ulteriori profili che giustificano, nell'ipotesi in esame, l'inapplicabilità dell'art. 560, secondo comma c.p.c..
Il custode, a fronte del rinnovo ex art. 28, L. n. 392/1978, per l'assoluta tipicità dei motivi legittimanti il diniego, si trova nella posizione di subire il rinnovo automatico, indipendentemente da qualunque autorizzazione ex art. 560 c.p.c..
La speciale disciplina, d'altronde, non è tanto finalizzata a tutelare l'interesse prettamente individuale del conduttore, ponendosi, viceversa, nell'ottica del perseguimento dell'interesse generale dell'economia alla stabilità delle locazioni non abitative.
In tal modo, bypassa l'interesse particolare del conduttore alla continuazione del rapporto locatizio, andando ad incidere su interessi generali di rilevanza sociale e produttiva.
In questa ottica, l'autorizzazione da parte del giudice di cui all'art. 560, secondo comma,
c.p.c. è finalizzata ed è in funzione del processo esecutivo, al fine di garantire il buon andamento della procedura, al cui interno si pone la questione della gestione del bene pignorato.
La necessità dell'autorizzazione da parte del giudice dell'esecuzione è, quindi, funzionale all'esercizio della custodia, da parte del soggetto investito di un tale potere processuale che, diversamente, non può locare il bene.
E, sotto questo profilo, ben si coglie la natura dei poteri del giudice che, nell'ambito della procedura che dirige, opera scelte discrezionali in ordine alle modalità di custodia del bene. Ed in questo ambito, rientra anche l'opportunità di dare in locazione il bene.
Quel che si vuoi dire è che l'autorizzazione del giudice è necessitata quando si tratti di adottare le misure più vantaggiose relative alla gestione temporanea del bene all'interno della procedura esecutiva.
Ma una tale autorizzazione è superflua quando la rinnovazione tacita della locazione ad uso diverso da quello di abitazione alla prima scadenza, di cui agli artt. 28 e 29, L. n. 392/1978, derivi direttamente dalla legge, la quale rende irrilevante la disdetta del locatore, se non giustificata dal ricorrere delle cause specificamente indicate dall'art. 29, quali motivi legittimi di diniego della rinnovazione.
Da ultimo, merita ricordare che la ricostruzione in termini di effetto legale è avallata anche dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 24.7.2007 n. 16321; v. anche cass. 10.6.2005 n. 12323) in tema di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, conclusi dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai sensi dell'art. 42 L. 27.7.1978 n. 392.
È stata, infatti, affermata l'applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 28 e 29 in tema di rinnovazione, che accorda al conduttore una tutela privilegiata in termini di durata del rapporto.
Ribadendo che, a differenza dell'ipotesi regolata dall'art. 1597 c.c., la protrazione del rapporto alla sua prima scadenza, in base alle norme della legge n. 392 del 1978, non costituisce l'effetto di una tacita manifestazione di volontà - successiva alla stipulazione del contratto, e che la legge presume in virtù di un comportamento concludente e, quindi, incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere necessariamente manifestata in forma scritta -, ma deriva direttamente dalla legge.
Con la conseguente irrilevanza della disdetta, da parte del locatore, quando la stessa non sia basata su una delle giuste cause specificamente indicate dalla legge, quali motivi legittimi di diniego della rinnovazione.
3. L'esame del ricorso.
Alla luce dei principii enunciati va, ora, esaminato il ricorso per cassazione.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge. Violazione degli artt. 27 e ss. L. 392/1978 nonché dell'art. 560 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. Contesta l'erroneità della sentenza impugnata, per avere ritenuto necessaria, ai sensi dell'art. 560, secondo comma c.p.c, l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, per il rinnovo del contratto di locazione, applicandosi, invece, nella specie, la norma dell'art. 28 L. n.392 del 1978 per le locazioni ad uso diverso da quello di abitazione, che afferma che il contratto si rinnova automaticamente alla prima scadenza.
Il motivo è fondato per le ragioni che seguono.
La Corte di merito, dopo avere accertato che il contratto di locazione fra la proprietaria dell'immobile e la XXX.XXX.XX srl era stato concluso il 10.5.1996 e che, quindi, la prima scadenza era intervenuta in data 9.5.2002, ha affermato che, essendo intervenuto il
pignoramento dello stesso immobile in data 8.4.2002, fosse necessaria l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 560, comma 2, c.p.c, per il rinnovo del contratto.
Ne ha tratto la conseguenza che la PRO GENIA srl, pur subentrata alla XXX.XXX.XX srl nel contratto di sublocazione con la G. & G. srl, non avesse la qualità di locatore - custode, e, quindi, difettasse di legittimazione attiva ad intimare lo sfratto per morosità.
Ma, sulla base dei principi enunciati, la rinnovazione tacita del contratto alla prima scadenza, ai sensi degli artt. 27 e 28 L. n. 392 del 1978, per il mancato esercizio, da parte del locatore, della facoltà di diniego della rinnovazione stessa, costituisce un effetto automatico, scaturente direttamente dalla legge, e non da una manifestazione di volontà negoziale.
Ne deriva che l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, come previsto dall'art. 560, comma 2, c.p.c., in questo caso, non era necessaria.
Corollario di quanto affermato è che l'attuale ricorrente era legittimata attiva ad intimare lo sfratto per morosità alla G.& G. srl..
E ciò perché il contratto di locazione concluso il 10.5.1996, si era rinnovato automaticamente alla prima scadenza del 9.5.2002.
Non è, quindi, pertinente il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, al precedente di questa Corte - Cass. 14.7.2009 n. 16375 (pag. 7 della sentenza) - riguardando, questo, il diverso caso in cui ad agire per il pagamento dei canoni di una locazione di un bene pignorato, conclusa senza autorizzazione del giudice dell'esecuzione, era il locatore, proprietario esecutato, in proprio, e non quale custode.
In questo caso, correttamente, la Corte di legittimità ha ritenuto l'attore privo di legittimazione sostanziale e processuale, per appartenere la relativa azione al locatore- custode, e non al locatore proprietario esecutato in proprio.
Diversamente, nella specie, era il sublocatore, estraneo alla procedura esecutiva, a promuovere il giudizio di sfratto per morosità nei confronti del subconduttore, per il mancato pagamento dei canoni relativi al contratto di sublocazione.
Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge. Decisione del giudice su eccezione nuova. Art. 360 n. 4 e 5 cpc.. Artt. 112, 115 e 116 c.p.c..
Contesta la ricorrente che l'eccezione di difetto di legittimazione passiva della srl G. & G.. Service, sollevata soltanto nel giudizio di appello, sulla base di documentazione anch'essa prodotta solo in tale giudizio, sia stata presa in esame - in violazione degli artt. 345 e 437
c.p.c. - conducendo la Corte di merito a riformare, sul punto, la sentenza di primo grado che
- peraltro - quella questione non aveva neppure esaminata, per non essere stata, in quel giudizio, proposta.
Il motivo è fondato.
Con l'atto di appello la G. & G. srl ha introdotto un'eccezione - quella del suo difetto di legittimazione passiva - che presuppone un accertamento dei fatti; in particolare, quello della posizione di conduttrice a seguito della cessione del contratto ai sensi dell'art. 36 L. n. 392 del 1978, precluso in sede di impugnazione.
L'eccezione avrebbe dovuto essere disattesa dalla Corte di merito per ragioni di rito, le quali - per essere relative a questione rilevabile d'ufficio, che non ha formato oggetto di decisione nei gradi di merito e che, quindi, non è coperta da alcuna preclusione da giudicato interno - devono essere rilevate in questa sede.
La G.& G. srl - come risulta dalla sentenza impugnata - con il terzo motivo di appello ha contestato al primo giudice di non avere affermato il suo difetto di legittimazione passiva in ordine all'intimazione di sfratto "poiché, essendo stata liberata dalle proprie obbligazioni [a seguito di cessione di ramo d'azienda da parte della G. & G. alla srl Gruppo Pandoc che era succeduta anche nel contratto di locazione, dapprima con la Xxx.Xxx.Xx srl, e, quindi, con la Pro. Genia srl, subentrata a quest'ultima, e che non aveva comunicato il subentro ed i relativi acquisti, né alla G.& G. Service srl, né alla srl Gruppo Pandoc], non poteva essere considerata morosa nel pagamento dei canoni, che, per costante giurisprudenza, fanno carico all’ultimo cessionario con esclusione della sua condanna al detto pagamento anche perché non deteneva più l'immobile".
Ora, questa deduzione, con il motivo di appello, si è concretata nella contestazione della legittimazione passiva in senso sostanziale, per l'introduzione nel processo di un fatto impeditivo della stessa - la mancata qualità di conduttrice a seguito della cessione di ramo di azienda e del relativo contratto di locazione -, in tal modo contestando la legittimazione passiva sotto un profilo nuovo, che era rimasto estraneo al giudizio di primo grado.
Peraltro, il difetto di legittimazione passiva, non solo non era stata contestato in primo grado, ma la stessa intimata, avendo sostenuto - come risulta dagli atti difensivi - di non avere versato i canoni di locazione ritenendoli oggetto di pignoramento, aveva implicitamente riconosciuto la propria legittimazione passiva.
Tale prospettazione, per quanto attiene alla deduzione di un fatto impeditivo della legittimazione passiva sostanziale, si è concretata nella introduzione, nel processo d'appello, di un'eccezione di merito nuova, in violazione dell'art. 437, secondo comma, c.p.c., che, nel rito del lavoro e, quindi, anche in quello locatizio, in forza del richiamo di cui all'art. 447 bis c.p.c., esclude la proponibilità di nuove eccezioni in appello.
Nello stesso tempo, la sostanziale, connessa contestazione della mancanza della qualità di conduttrice, si è concretata, sia pure subordinatamente alla introduzione della nuova eccezione, nello svolgimento di un'attività di contestazione dei fatti rilevanti per la decisione (e particolarmente - come detto - del fatto della insussistenza della posizione di conduttrice per effetto della successione nel contratto locativo ai sensi dell'art. 36 L. n. 392 del 1978) del tutto nuova, in evidente violazione del sistema delle preclusioni anche del potere di contestazione scaturente dagli artt. 415, 416 e 420, primo comma, c.p.c. (v. anche Cass. 13.3.2012 n. 3974; Cass. 9.3.2012 n. 3727; Cass. 3.7.2008 n. 1802).
Ora, la Corte di merito avrebbe dovuto d'ufficio rilevare la novità dell'eccezione e l'inammissibilità della contestazione e, quindi, non avrebbe dovuto esaminare, nel merito, la questione, dovendosi limitare a dichiarare l'inammissibilità del motivo di appello (v. anche Cass. 29.9.2005 n. 19170).
L'errore in cui è incorso il giudice di appello deve essere rilevato d'ufficio in questa sede, poiché la violazione del divieto dello ius novorum in appello, previsto, nel rito del lavoro, dall'art. 437 c.p.c., è rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità (Cass. 28.7.2005 n. 15810; Cass. 2.4.1999 n. 3190; Cass. 17.12.1997 n. 12764; Cass. 18.9.1995 n. 9874).
Ciò perché le preclusioni sono relative a materia non disponibile dalle parti, e diretta a garantire l'ordinato svolgimento del servizio giustizia; alla cui logica, peraltro, è ormai ispirato lo stesso rito ordinario (v. anche Cass. 28.7.2005 n. 15810).
Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge. Difetto di motivazione. Art. 360 n. 3 e n. 5 cpc. Art. 115 e 116 cpc. Art. 1455 c.c..
Contesta la ricorrente che la Corte di merito abbia considerato che i canoni di sublocazione dovuti dalla G. & G. Service srl alla Pro.Genia srl dovessero essere considerati frutti civili dei beni pignorati senza darne alcuna motivazione; e ciò "nonostante che il Giudice di primo grado avesse chiarito, nella motivazione della sentenza, che il rapporto tra il subconduttore
G. & G. Service S.r.l. ed il sublocatore PRO GENIA S.r.l. fosse del tutto estraneo alle vicende del pignoramento".
Il motivo è fondato.
Sono dati che emergono dalla sentenza impugnata i seguenti.
La proprietaria dell'immobile in esame concluse con la XXX.XXX.XX srl, in data 10.5.1996, un contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo.
Successivamente, alla data della prima scadenza del 9.5.2002 [data in cui il contratto si era rinnovato per le ragioni esposte con l'esame del primo motivo], la XXX.XXX.XX srl cedette il contratto di locazione alla PRO GENIA srl.
Sulla base del contratto di locazione, la XXX.XXX.XX srl era tenuta a corrispondere i canoni di locazione al proprietario.
Con il pignoramento, il proprietario era stato nominato custode ed, in tale veste, aveva l'obbligo di incassare i canoni, dapprima dovuti dalla XXX.XXX.XX srl e, poi, dalla PRO GENIA srl.
Tale canone di locazione costituiva, sotto il profilo civilistico, i frutti del pignoramento.
Ma, con il pignoramento, nulla aveva a che vedere il canone che la subconduttrice G.& G. Service srl doveva versare alla sublocatrice PRO GENIA srl.
Costoro, infatti, erano soggetti estranei alla procedura esecutiva, sottoposti ai soli obblighi derivanti dal negozio giuridico fra gli stessi concluso.
Alla PRO GENIA srl incombeva l'onere di pagare all'avente diritto - sulla base del contratto di locazione concluso con il proprietario - il suo canone di locazione.
Alla G. & G. Service srl incombeva l'obbligo di pagare il canone di sublocazione in favore della PRO GENIA srl.
E, sulla base del mancato pagamento di tali ultimi canoni, la PRO GENIA srl ha intimato lo sfratto per morosità, chiedendo la risoluzione del contratto di sublocazione.
Erroneamente, la Corte di merito ha, quindi, ritenuto - senza, peraltro, neppure motivare sul punto - che i canoni rappresentassero i frutti del pignoramento, essendo, invece, la procedura esecutiva estranea, e terza, rispetto a tale assetto contrattuale.
Il sublocatore ha, quindi, agito, nei confronti del subconduttore sulla base di un proprio ed autonomo titolo contrattuale.
E, sotto questo profilo, nessuna utilità presenta il richiamo all'art. 2912 c.c. - in base al quale il pignoramento si estende anche ai frutti della cosa rappresentati, nella specie, dai canoni di locazione quali frutti civili dell' immobile - operato dalla Corte di merito, al fine di affermarne l'inesigibilità da parte della Pro Genia srl, per la mancata prova della sua qualità di custode dell'immobile pignorato.
Come già visto, una tale prova era ultronea, perché l'attuale ricorrente fondava la sua richiesta di pagamento dei canoni sul contratto di sublocazione concluso con la G.& G. srl, estraneo alla procedura esecutiva; come tale soggetto alle sue specifiche pattuizioni.
Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge. Decisione del giudice ultra petita. Art. 360 n. 4 e 5 cpc. Artt. 112, 115 e 116 c.p.c..
La ricorrente contesta l'erroneità della decisione, per avere pronunciato su di un punto non oggetto del giudizio che aveva avuto, fin dal primo grado, ad oggetto la risoluzione del contratto di sublocazione e non il pagamento dei canoni, "oggetto di diverso procedimento, ormai definito".
Anche in questo caso, il motivo è fondato.
Non risulta dagli atti - che possono essere esaminati direttamente, in questa sede, per essere denunciato un vizio del procedimento, ai sensi degli artt. 112 e 360 n. 4 c.p.c. (v. anche S.U. 22.5.2012 n. 8077) - che la domanda di pagamento dei canoni sia mai stata formulata dall'odierna ricorrente nel presente giudizio, il cui oggetto era costituito dallo sfratto per morosità e dalla risoluzione del contratto di sublocazione per inadempimento della subconduttrice.
La statuizione di rigetto della "domanda di pagamento dei canoni insoluti", contenuta nella motivazione della sentenza (pag. 10) e nel dispositivo (pag. 11), costituiscono, pertanto, un'evidente ultrapetizione, per avere la Corte di merito violato il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato (v. da ultimo Cass. 24.3.2011 n. 6757).
Conclusivamente, il ricorso è accolto.
La sentenza è cassata, e la causa è rinviata alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
7)LOCAZIONE DI UN IMMOBILE IN COMPROPRIETÀ: IL COMPROPRIETARIO NON STIPULANTE PUÒ
ESIGERE METÀ DEL CANONE?
TRACCIA
Tizia e Sempronio sottoscrivono un contratto di locazione relativo ad un immobile commerciale. L’immobile è in proprietà pro-indiviso di Tizia e della sorella Caia.
Il proprietario non firmatario del contratto, Caia, intima al conduttore, Sempronio, il pagamento del 50% del canone di locazione, da versare mensilmente direttamente a lei.
Il conduttore ritiene di essere tenuto esclusivamente a pagare unitariamente il canone alla locatrice secondo il vincolo contrattuale assunto, ma si dichiara disponibile a stipulare nuovo contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del canone su un libretto bancario o postale a cui le sorelle potranno accedere anche disgiuntamente.
Il candidato rediga parere motivato in favore di Caia soffermandosi in particolare sulla natura giuridica della fattispecie descritta, sulla validità del contratto stipulato soltanto dalla sorella Tizia, e sulla legittimità della richiesta di pagamento frazionata fatta da Caia al conduttore.
Cassazione, Sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135
La Cassazione, sez. Unite Civili, 4 luglio 2012, n. 11135 risponde al quesito suddetto con una bellissima sentenza che analizza la particolare articolazione del contratto di locazione quando vi siano due comproprietari ma il contratto sia stipulato da uno soltanto di essi. La condotta del comproprietario non stipulante che richieda metà del canone al conduttore è giuridicamente lecita? e come dovrà essere qualificata? Mandato senza rappresentanza o amministrazione utile di affare comune, o ancora gestione di affari?
Ed in ultima battuta: il conduttore può lecitamente (ovvero in pieno diritto) rifiutare il pagamento parziale del canone di locazione al comproprietario non stipulante?
Secondo il Supremo Collegio: la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa
Cassazione, sez. Unite, 4 luglio 2012, n. 11135 (Pres. Vittoria – Rel. Xxxxxxx)
Svolgimento del processo
C..F. , in qualità di comproprietaria, nella misura della metà, di un immobile adibito ad uso commerciale, locato dall'altra comproprietaria A..N. a C..T. , chiedeva, con ricorso ex art.
447-bis cod. proc. civ., l'accertamento del diritto a ricevere la metà del canone di locazione e la condanna del conduttore al pagamento di tale quota a far data dalla domanda giudiziale.
Il conduttore si costituiva assumendo di essere tenuto esclusivamente a pagare unitariamente il canone alla locatrice secondo il vincolo contrattuale assunto, dichiarandosi disponibile a stipulare nuovo contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del canone su un libretto bancario o postale.
Anche la comproprietaria locatrice N. si costituiva chiedendo il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti e proponendo, in via subordinata, domanda riconvenzionale volta alla condanna dell'attrice al risarcimento dei danni.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda ritenendo applicabile alla fattispecie il modello negoziale del mandato senza rappresentanza e in particolare l'art. 1705 cod. civ., che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dal mandato. Condannava, pertanto, il T. a corrispondere all'attrice il 50% dei canoni maturati tra il mese di agosto del 2002 e la cessazione della locazione, con gli interessi legali sui canoni scaduti dalle scadenze al saldo; respingeva altresì le domande riconvenzionali della N. , compensando tra le parti te spese processuali.
La sentenza veniva impugnata in via principale dal conduttore, il quale deduceva che il Tribunale aveva errato nel fare riferimento, ai fini della decisione, agli istituti della comunione e del mandato.
Resistevano all'impugnazione sia F.C. che N.A. ; quest'ultima, oltre ad aderire alla impugnazione proposta dal T. , proponeva appello incidentale condizionato.
La Corte d'appello di Genova, con sentenza depositata il 18 dicembre 2004, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva la domanda proposta dalla F. e rigettava l'impugnazione incidentale condizionata.
La Corte d'appello disattendeva, in primo luogo, l'eccezione di carenza di interesse all'impugnazione principale in capo al T. , formulata dalla F. . La Corte d'appello rilevava che, non essendo stata disposta l'estromissione del conduttore nel giudizio di primo grado, non poteva dirsi venuto meno l'interesse di quest'ultimo a conseguire una situazione di certezza processuale idonea ad elidere la concorrenza della pretesa della N. , fondata sul contratto di locazione, e della F. , fondata sulla sua qualità di comproprietaria, e a sottrarlo al rischio di essere esposto a una duplicazione del pagamento di una quota pari alla metà del canone locativo.
La Corte d'appello rilevava quindi che la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un immobile non costituisce presupposto necessario e indefettibile per l'assunzione della qualità di locatore, essendo sufficiente, per la valida stipulazione di un contratto di locazione, che dell'immobile il locatore abbia la disponibilità e sia in grado di trasferirne la detenzione. Affermava quindi che, in presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa comune da parte di uno dei proprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti contrattuali anche se il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui spettanti a norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune. Rilevava quindi che, poiché il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei soggetti che di esso non siano parti, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive scaturenti dal contratto; né acquista la legittimazione all'esercizio di azioni o comunque di pretese fondate sul contratto. Per converso, il conduttore adempie la fondamentale obbligazione di pagamento del canone mediante il pagamento dell'intera entità pecuniaria dovuta al comproprietario locatore, quali che siano i criteri in base ai quali, per legge o per convenzione, debbano essere ripartiti tra i comproprietari i frutti del bene.
La Corte d'appello affermava quindi di non condividere la soluzione adottata dal Tribunale, che aveva fondato la propria decisione sull'art. 1705, secondo comma, cod. civ., a norma del quale, nel mandato senza rappresentanza, il mandante può agire contro il terzo per ottenere il soddisfacimento dei crediti sorti a favore del mandatario stesso in relazione alle obbligazioni assunte dal terzo con la conclusione del contratto, in tal modo sostituendosi al mandatario e ponendo in essere una revoca tacita del mandato. In particolare, la Corte
territoriale riteneva che l'indicata disposizione non fosse stata citata in modo pertinente, atteso che nella fattispecie non poteva ravvisarsi alcun mandato, ma una gestione nel presunto interesse comune (validamente ed efficacemente compiuta, se del caso, anche all'insaputa degli altri interessati), fondata, nei rapporti tra l'autore della gestione e i destinatari dell'utilità di essa, sulla disciplina interna della comunione, rispetto alla quale il terzo, che abbia validamente conseguito la posizione giuridica di conduttore, versava in condizione di indifferenza e dalla cui evoluzione non poteva ricevere alcun pregiudizio. Pertanto, concludeva sul punto la Corte d'appello, fino a quando la struttura soggettiva della parte locatrice non fosse stata modificata con l'ingresso nella medesima del comproprietario originariamente non locatore, quest'ultimo non poteva esigere, nemmeno limitatamente alla parte corrispondente alla propria quota, il pagamento del canone nei confronti del conduttore. Da qui l'accoglimento dell'appello e la riforma della sentenza impugnata, con elisione della condanna del conduttore T.C. al pagamento di una somma pari al 50% del canone a favore di F.C. .
Per la cassazione di questa sentenza la F. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito, con distinti controricorsi, la N. e il T. .
La seconda sezione civile della Corte ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, osservando che le due contrapposte soluzioni assunte in primo e secondo grado si fondavano su orientamenti distinti di legittimità e che la questione della qualificazione giuridica del rapporto tra i comproprietari nel caso di locazione stipulata da uno solo di essi con riferimento alla produzione (o esclusione) degli effetti del contratto in capo al comproprietario non locatore, dovesse essere ritenuta questione di massima di particolare importanza.
La causa è quindi stata assegnata alle Sezioni Unite.
In prossimità dell'udienza di discussione la ricorrente ha depositato memoria. Motivi del ricorso
1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell'art. 100 cod. proc. civ., nonché per vizio logico ed insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione, dolendosi del fatto che la Corte d'appello abbia ritenuto sussistente l'interesse all'impugnazione in capo all'appellante principale. Atteso che il conduttore, nel costituirsi in giudizio aveva professato una posizione di sostanziale indifferenza rispetto alla individuazione del beneficiario del pagamento del canone, sempre che, ovviamente, si convenisse sul fatto che, una volta effettuato il pagamento dell'importo dell'intero canone anche mediante versamento su un libretto di deposito, egli non fosse esposto al rischio della duplicazione del pagamento del 50% del detto importo in favore della originaria attrice, risultava chiaro, secondo la ricorrente, il difetto di interesse alla impugnazione della sentenza del Tribunale di Massa, che quella certezza aveva offerto, ponendo a suo carico l'obbligo di pagare, a far data dal mese di agosto 2002, il 50% del canone alla locatrice e alla comproprietaria.
1.1. Il primo motivo, all'esame del quale occorre procedere prima ancora della esposizione dei motivi ulteriori del ricorso e delle ragioni per le quali la questione è stata rimessa all'esame di queste Sezioni Unite, è infondato.
Invero, il conduttore, il quale aveva puntualmente adempiuto alla propria obbligazione di pagare il canone in favore della locatrice anche nella pendenza del giudizio di primo grado, essendo stato condannato dal Tribunale di Massa a corrispondere all'attrice il 50% del canone anche per i mesi dall'agosto 2002 al marzo 2004, per i quali il pagamento era stato già interamente effettuato alla locatrice, aveva senz'altro interesse a una revisione della statuizione della decisione di primo grado.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 832, 1100, 1101, 1102, 1103, 1104, 1105, 1108, 1372, 1703, 1705, 1710 e 1722 cod. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
2.1. La ricorrente sostiene che la Corte d'appello, pur partendo dalla corretta affermazione che la stipulazione di un contratto di locazione da parte di uno dei comproprietari può essere
validamente realizzata solo con il consenso ed il rilascio della disponibilità del bene da parte dell'altro e, dunque, per conto di quest'ultimo con riferimento alla quota di sua spettanza, avrebbe poi errato nell'escludere l'applicabilità del regime giuridico del mandato senza rappresentanza e il legittimo esercizio del potere del mandante di richiedere direttamente l'esecuzione delle obbligazioni contrattuali nonché la legittimazione attiva a richiedere la risoluzione del contratto ed il rilascio e quella passiva a resistere alle pretese del conduttore.
2.2. La ricorrente rileva poi che la Corte d'appello ha affermato il principio per cui, in presenza di una situazione di comproprietà, la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari si perfeziona validamente e produce i suoi effetti contrattuali, quand'anche il comproprietario locatore abbia travalicato i limiti dei poteri a lui spettanti a norma dell'art. 1105 cod. civ., nell'ambito della fruizione della cosa comune. Ritiene, quindi, che tale principio potrebbe essere condiviso a condizione che si dia per presupposto che il comproprietario-locatore abbia previamente ottenuto il consenso degli altri condomini (o quanto meno della maggioranza di essi) all'amministrazione e alla locazione dei bene comune e la disponibilità del bene stesso per la locazione; che il medesimo comproprietario-locatore operi su mandato senza rappresentanza degli altri comproprietari, sicché il contratto di locazione apparirà stipulato in nome del comproprietario locatore, ma anche per conto degli altri comproprietari, i quali avranno diritto a percepire i frutti o tramite il mandante ovvero direttamente dal momento in cui si sostituiranno al mandante; che non risultino pregiudicati i diritti di ciascun singolo comproprietario. La Corte d'appello, invece, ha deciso la controversia in contrasto con tali presupposti di validità del principio applicato, e quindi in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alle facoltà spettanti al comproprietario non locatore, quanto meno con riferimento alla diretta percezione del canone di locazione.
2.3. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte d'appello ritenuto che, poiché il contratto non produce effetti diretti nei confronti dei soggetti che di esso non siano parti se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il comproprietario non locatore non acquista, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive scaturenti dal contratto e non acquista la legittimazione all'esercizio di azioni o comunque di pretese fondate sul contratto. Il principio sarebbe errato sia in linea generale, atteso che nei contratti stipulati dal mandatario senza rappresentanza questi acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dal contratto stipulato con il terzo a meno che il mandante, sostituendosi al mandatario, eserciti direttamente nei confronti del terzo i diritti di credito derivanti dal contratto stipulato in esecuzione del mandato; sia in riferimento al caso specifico del comproprietario non locatore che, sostituendosi al comproprietario locatore nella posizione concernente la sua quota di proprietà, può esercitare direttamente nei confronti del conduttore i correlativi diritti di credito, purché non risultino lesi i diritti del conduttore e del mandatario. In sostanza, la Corte d'appello avrebbe errato nell'escludere in capo ad essa ricorrente ogni legittimazione all'esercizio di pretese e azioni fondate sul contratto di locazione.
2.4. Da ultimo, la ricorrente sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato anche là dove ha ricordato che è stato escluso che ai comproprietari diversi dal locatore possa competere l'azione di rilascio nei confronti del conduttore, salvo il loro diritto al risarcimento del danno verso il comproprietario locatore qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione, richiamando a tal proposito, ma in modo incompleto e quindi non pertinente, Cass. n. 6292 del 1992.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente, oltre alle disposizioni del codice menzionate nel secondo motivo, denuncia violazione degli artt. 2028, 2030, 2032 cod. civ. e degli artt. 99, 329 e 342 cod. proc. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La censura si riferisce alla parte della sentenza impugnata nella quale la Corte d'appello ha illustrato le ragioni per le quali non può trovare applicazione in relazione alla presente fattispecie la disciplina di cui all'art. 1705 cod. civ. In proposito, la ricorrente rileva, da un lato, che la Corte d'appello, nel ritenere non pertinente il principio affermato da Cass. n.
4587 del 1995 (“Il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato e sostituendosi al mandatario, esercitare ex art. 1705, cod. civ., secondo comma, ogni diritto di credito derivante dal rapporto obbligatorio posto in essere e, quindi, anche il diritto di ricevere il pagamento dei canoni dal conduttore e legittimamente può, altresì agire in giudizio a tutela dei diritti stessi”), in base al quale il giudice di primo grado aveva invece risolto la controversia, avrebbe errato atteso che tale principio si attaglierebbe perfettamente al caso di specie; dall'altro, che la Corte d'appello ha affermato ricorrere una ipotesi di gestione nel presunto interesse comune, come se la comproprietaria locatrice avesse posto in essere una gestione d'affari nell'interesse comune, valida anche se compiuta all'insaputa dell'altra comproprietaria.
Tale ultima ricostruzione, peraltro, sarebbe inammissibile, atteso che l'appellante principale aveva criticato la sentenza di primo grado per avere applicato al caso di specie la disciplina del mandato, ma mai aveva fatto riferimento all'istituto della gestione d'affari; errata, in quanto l'asserito gestore, senza il previo consenso e la disponibilità del bene comune non avrebbe potuto legittimamente né amministrare né disporre, e certamente non avrebbe potuto trasferire la detenzione della quota di proprietà di essa ricorrente attraverso la stipulazione di un contratto di locazione, che certamente non sarebbe stato valido se non ratificato dalla parte interessata; ed irrilevante, in quanto la gestione di affari si fonda proprio sul mandato senza rappresentanza e cioè su quell'istituto che la Corte d'appello ha invece ritenuto non applicabile nel caso di specie.
Ed ancora, la ricorrente rileva che la Corte d'appello avrebbe confusamente affermato che la gestione nell'interesse comune avrebbe dovuto trovare la propria regolamentazione nella disciplina interna della comunione fra l'autore della gestione e la destinatala dell'utilità stessa, senza investire il terzo, che verserebbe in una condizione di indifferenza e non potrebbe perciò ricevere pregiudizio. Ed avrebbe ulteriormente errato nell'affermare che la prova che nel caso di specie non si versasse in tema di mandato senza rappresentanza e che non potesse nemmeno trovare applicazione, e in via analogica, la norma dettata in tema di mandato, emergerebbe chiaramente dal rilievo che alla disciplina della comunione non potrebbe efficacemente sovrapporsi l'iniziativa unilaterale di un comproprietario qualificata alla stregua di revoca del mandato ai sensi e per gli effetti di cui al secondo comma dell'art. 1705 cod. civ. In proposito, la ricorrente richiama la sentenza n. 4587 del 1995, sottolineando che ciò che può fare un proprietario per l'intero, lo può certamente fare anche un comproprietario per la quota di canone corrispondente alla quota di comproprietà.
Da ultimo, la ricorrente rileva che l'esclusione dal contratto della comproprietaria e l'immodificabilità soggettiva del rapporto ex parte locatoris determinerebbe una limitazione ingiustificata dei diritti di godimento e patrimoniali rispetto all'immobile della comproprietaria non compatibile con il regime giuridico della comunione.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 81, 100, 105, 416, 419, 434, 435, 436, 447-bis cod. proc. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
Sul rilievo che la sentenza di primo grado non aveva accolto la domanda subordinata ed alternativa da essa proposta nei confronti della N. ed aveva rigettato le domande riconvenzionali che quest'ultima aveva proposto subordinatamente all'accoglimento della domanda alternativa, la ricorrente ritiene che la N. non avesse interesse a contraddire con lei nel giudizio di appello. E tuttavia, la N. aveva proposto un appello incidentale proprio nei confronti di essa ricorrente che era stato erroneamente esaminato dalla Corte d'appello ancorché fosse inammissibile perché tardivo.
5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ., nonché vizio logico e omessa, insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La ricorrente si duole del fatto che l'accoglimento dell'appello avversario non abbia consentito alla Corte d'appello di esaminare il suo appello incidentale con il quale aveva censurato la sentenza di primo grado per avere compensato le spese di lite pur essendo ella risultata vittoriosa.
6. Con riferimento alla questione sollevata con il secondo e il terzo motivo di ricorso, la Seconda Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per l'assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite.
Premesso che la questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l'esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell'altro comproprietario può essere giuridicamente qualificata secondo i due modelli prescelti rispettivamente dalla sentenza di primo grado (mandato senza rappresentanza - esercizio diretto da parte del mandante locatore non comproprietario del diritto ad esigere la quota del canone corrispondente alla titolarità del diritto reale pro quota) e di secondo grado (gestione utile nell'interesse comune con esclusione di qualsiasi interferenza del locatore non comproprietario nell'esercizio dei diritti contrattuali), l'ordinanza interlocutoria ha posto in evidenza che entrambe le prospettazioni si ritrovano negli orientamenti di legittimità e che si è delineato anche un terzo indirizzo, sull'equivalenza dei poteri gestori dei comproprietari in ordine al bene comune anche quando uno solo dei comunisti ne abbia trasferito il diritto di godimento.
In particolare, con riferimento all'applicabilità dell'art. 1705 cod. civ. ai rapporti di locazione, sul quale si è fondato il giudice di primo grado, esiste un orientamento secondo il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705, secondo comma, cod. civ. ogni diritto di credito derivante dal rapporto negoziale nonché essere legittimato ad agire in giudizio per la riscossione del canone. Il mandante ai sensi dell'art. 1705 cod. civ. esercita in via diretta e non surrogatoria i diritti di credito sorti in capo ai mandatario sulla base del contratto concluso, con la sola condizione di non pregiudicarlo. Oltre ai diritti di credito, nella giurisprudenza meno recente il diritto del mandante a sostituirsi al mandatario nell'esecuzione del contratto è stato esteso all'azione di risoluzione del contratto e al risarcimento dei danni nel confronti del terzo contraente.
L'altro orientamento sul quale si è fondato, invece, il giudice di secondo grado, formatosi specificamente in tema di comunione e di diritti del comproprietario non locatore, ha configurato la fattispecie come gestione utile nell'interesse comune. Le conseguenze della diversa impostazione sono di estrema rilevanza. I rapporti tra l'autore della gestione, che può aver validamente agito anche all'insaputa degli altri comunisti, sono direttamente ed esclusivamente regolati dalle norme della comunione e non possono incidere sulla sfera giuridica del terzo che rimane vincolato in via esclusiva con il locatore e non può subire interferenze o pregiudizio dai rapporti tra i comunisti stessi.
La locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 cod. civ. e seguenti del codice civile, essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata. Gli altri comproprietari non possono agire per il rilascio o la rivendica del bene, salvo il diritto al risarcimento del danno nei confronti dell'altro comunista. Secondo questa impostazione, il pagamento del canone nelle mani del locatore ha pieno effetto liberatorio mentre l'altro comproprietario non è legittimato ad agire in giudizio per esercitare questo diritto.
Questa conclusione, abbracciata integralmente dal giudice d'appello, secondo l'ordinanza interlocutoria, contrasta con il più recente ma consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale sugli immobili oggetto di comunione, in difetto di prova contraria, concorrono pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno operi con il consenso degli altri. Da queste premesse consegue che ogni comproprietario è legittimato a stipulare il contratto ma anche ad agire per il rilascio dell'immobile comune, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri condomini.
Gli elementi di contrasto sono, in conclusione, secondo l'ordinanza interlocutoria: l'applicabilità del regime giuridico dei mandato senza rappresentanza alla locazione stipulata da uno dei comproprietari; i poteri di gestione dei comunisti in ordine alla locazione della cosa comune.
7. Prima di procedere alla disamina dei diversi orientamenti ora richiamati, appare opportuno rilevare che alla base di tutte e tre le prospettive interpretative vi sono due premesse
comuni: che condizione necessaria per stipulare il contratto di locazione è la disponibilità della cosa comune da parte del comproprietario, corrispondente alla detenzione esclusiva e qualificata dell'immobile, trattandosi di un presupposto comune ad ogni locazione (Cass.
n. 470 del 1997; Cass. n. 539 del 1997; Cass. n. 8411 del 2006); che, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del potere del singolo comproprietario che pone in essere un atto di ordinaria amministrazione sul bene comune, il contratto di locazione dell'intero bene comune stipulato da uno solo dei comunisti è valido ed efficace senza la necessità della preventiva allegazione o dimostrazione dell'esistenza di un idoneo potere rappresentativo. Invero, la locazione può essere convenuta dal singolo comproprietario, anche all'insaputa degli altri, purché il suddetto comproprietario abbia la disponibilità del bene comune e sia in grado di adempiere la fondamentale obbligazione del locatore, e cioè quella di consentire il godimento del bene al conduttore; la concessione in locazione di un immobile non costituisce, quindi, atto esclusivo del proprietario, potendo legittimamente assumere veste di locatore anche colui che abbia la mera disponibilità del bene medesimo (Cass. n. 14395 dei 2004), sempre che tale disponibilità sia determinata da titolo non contrario a norme d'ordine pubblico (Cass. n. 4764 del 2005; Cass. n. 8411 del 2006; Cass. n. 12976 del 2010).
A fronte di questi tratti comuni vi sono differenze d'impostazione e di regime giuridico che conseguono in particolare dall'assunzione del modello della negotiorum gestio o del mandato, indifferentemente qualificato tacito o presunto anche se dal punto di vista dell'onere probatorio le differenze di disciplina non sono modeste, potendosi applicare la presunzione di consenso degli altri comunisti o quanto meno della maggioranza solo nel mandato presunto, mentre in quello tacito il potere di agire in qualità di mandatario è soggetto alle ordinarie regole di allegazione e prova dei fatti costitutivi dell'azione (od eccezione).
Appare opportuno altresì premettere che le pronunce di legittimità che hanno applicato l'art. 1705 cod. civ. al contratto di locazione stipulato dal locatore uti non dominus non si riferiscono ad un bene in comunione, del quale il locatore sia comproprietario, ma specificamente ad un bene altrui, con conseguente più agevole applicazione dell'istituto del mandato senza rappresentanza, e in particolare dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ. Questa norma stabilisce, infatti, in deroga al principio espresso nella prima parte del medesimo secondo comma, a tenore del quale "i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante", che quest'ultimo possa esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato. Si tratta dell'esercizio di un potere di sostituzione piena del mandante al mandatario e non, come invece accade nella comunione, della partecipazione di un altro cointeressato titolare dello stesso potere di disposizione sul bene del "mandatario" locatore. La norma invocata non è dettata per disciplinare una fattispecie di titolarità comune di poteri gestori su un diritto o su un bene ma per ripristinare, attraverso la revoca del mandato, l'esclusiva titolarità del mandante in ordine all'atto di disposizione del proprio diritto o bene.
Coerentemente con la segnalata difficoltà di adattamento dell'effetto sostitutivo disciplinato dall'art. 1705 cod. civ. con il regime giuridico dell'amministrazione della cosa comune, le pronunce di questa Corte che hanno riconosciuto il potere del singolo comunista di stipulare un contratto di locazione relativo all'intero bene comune non hanno mai utilizzato l'art. 1705 cod. civ., né per giustificare l'ingerenza nel contratto degli altri comproprietari, né per escludere l'opponibilità ad essi del regolamento negoziale. La validità ed efficacia della locazione è stata tratta da una lettura integrata dell'art. 1102 e del primo comma dell'art. 1105 cod. civ., dalla quale si desume una pari legittimazione a contrarre dei comproprietari e, per talune pronunce, una conseguente contitolarità del rapporto di locazione unita ad un pari potere di esercitare le azioni contrattuali anche dirette alla estinzione del vincolo negoziale. Gli orientamenti che si sono succeduti più che contrapporsi hanno costituito l'uno il substrato logico giuridico dell'altro. Eccentrico rispetto alla comunione rimane esclusivamente il ricorso all'art. 1705 cod. civ. che, come osservato, non è stato utilizzato per giustificare l'esercizio, da parte dei comproprietari esclusi, dei diritti e delle azioni relative all'atto di disposizione sul bene comune.
7.1. Prendendo dunque le mosse da quest'ultimo orientamento, recepito dalla sentenza di primo grado, occorre rilevare che lo stesso presenta aspetti problematici.
L'esame delle singole pronunce, infatti, evidenzia differenze significative in ordine all'ampiezza del potere di sostituzione del mandante. In pronunce meno recenti (Cass. n. 1306 del 1969; Cass. n. 3626 del 1980; Cass. n. 92 del 1990, con riferimento alla vendita di azioni) si ritiene che tale potere vada riferito a qualsivoglia categoria di diritti derivanti da un rapporto obbligatorio fino a poter esercitare le azioni volte all'estinzione del vincolo contrattuale (fattispecie in tema di azione di rilascio di immobile locato) in quanto si verrebbe a determinare la definitiva modificazione soggettiva di una parte del contratto.
Il principio, con riferimento espresso al diritto alla riscossione dei canoni, è confermato da Cass. n. 2029 del 1993 e da Cass. n. 4587 del 1995. Nella giurisprudenza più recente, però, la portata della regola, derogatoria rispetto al generale principio dell'ininfluenza nei confronti dei terzi del mandato senza rappresentanza, viene fortemente temperata con la limitazione alle azioni endocontrattuali dirette al soddisfacimento dei crediti derivanti dalle pattuizioni negoziali e con l'esclusione delle azioni di risoluzione del contratto e delle azioni di risarcimento dei danni (Cass. n. 7820 del 1998; Cass. n. 11118 del 1998; Cass. n. 1312 del 2005; Cass. n. 13375 del 2007; Cass., S.U., n. 24772 del 2008).
In particolare, nella citata pronuncia delle Sezioni Unite, si è stabilito, componendo il precedente contrasto, che la regola derogatoria è di stretta interpretazione e deve essere limitata all'esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario con esclusione delle azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e risarcimento del danno, in funzione sia del rispetto del principio sancito dall'art. 1372 cod. civ. che della tutela dell'affidamento del terzo che ha contratto esclusivamente con il mandatario.
In una linea interpretativa intermedia si pone Cass. n. 11014 del 2004, nella quale la Corte ha esteso il potere del mandante di sostituirsi al mandatario, nell'esercizio delle azioni rivolte al soddisfacimento dei crediti contrattuali alle ipotesi previste nell'art. 1588 cod. civ., ovvero al recupero della perdita e del deterioramento della cosa locata anche dovuti ad incendio. Tuttavia, la richiamata pronuncia di queste Sezioni Unite pone l'accento proprio sulla tutela dell'affidamento del terzo affermando che "il vero, insuperabile ostacolo che si frappone all'accoglimento della tesi (...) è dunque quello che vede totalmente pretermessa l'analisi della posizione contrattuale del terzo. Se nell'ottica mandante/mandatario la rilevanza sostanziale dell'interesse può far premio sulla titolarità (soltanto) formale (oltre che istantanea) del mandatario non può per converso trascurarsi che il terzo, nel contrattare con quest'ultimo (e soltanto con quest'ultimo) ripone un legittimo affidamento nel fatto che tutte le vicende successive al contratto, sul piano della fisiologia come della patologia degli effetti, andranno a dipanarsi tra di esse parti, senza alcun intervento ipotetico di terzi mandanti (....) (sicché) ammettere la legittimità della translatio non solo sotto il profilo attivo del credito (sicuramente cedibile senza consenso) ma dell'intera posizione contrattuale formalmente costituitasi in capo al mandatario si risolve, nella sostanza (...) nell'ipotizzare una fattispecie di cessione senza consenso del contraente ceduto".
7.1.1. Con riferimento a tale orientamento deve rilevarsi che la concezione restrittiva del potere sostitutivo del mandante, nel mandato senza rappresentanza, in ordine all'esercizio dei diritti di credito derivanti dal contratto stipulato dal mandatario, per le complessive caratteristiche evidenziate, non sembra uno strumento agevolmente applicabile ai rapporti tra partecipanti alla comunione e terzi contraenti nell'ambito dei poteri di gestione del bene comune. In particolare, può qui rilevarsi che il potere esercitato dal mandante ex art. 1705 cod. civ. è di natura sostitutiva, ancorché non surrogatoria, mentre il comunista esercita il potere di coamministrazione che gli deriva dalla titolarità del diritto reale sul bene comune e, conseguentemente, non si pone in una relazione di netta alterità rispetto al mandatario che ha agito (anche e non solo) per suo conto; la limitazione, stabilita nella richiamata sentenza di queste Sezioni Unite, al solo esercizio dei diritti di credito derivanti dal contratto della translatio stabilita dall'art. 1705 cod. civ., in deroga alla regola generale, risulta fortemente riduttiva rispetto all'incisività, ampiamente riscontrata negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, degli interventi dei partecipanti alla comunione alle
vicende del contratto concluso solo da uno di essi; la tutela dell'affidamento del terzo è del tutto pretermessa dall'applicazione dell'art. 1705 cod. civ. alla comunione, in quanto è esclusa la possibilità che il modello assunto possa reciprocamente favorire il terzo nel rapporto diretto col mandante, essendo prevista dalla norma codicistica esclusivamente la sua soggezione all'esercizio della facoltà potestativa del mandante ma non il correlativo potere di rivolgersi direttamente ad esso per le prestazioni cui sarebbe contrattualmente tenuto il mandatario (la regola generale contenuta nell'incipit del capoverso dell'art. 1705 cod. civ. "i terzi non hanno rapporto con il mandante" impedisce questa estensione della deroga che segue); qualsiasi interpretazione estensiva dell'indicato regime derogatorio che possa adattarsi al regime giuridico della comunione è attualmente impedito dall'intervento regolatore, univocamente restrittivo di cui alla citata sentenza n. 24772 dei 2008.
7.2. L'orientamento nettamente maggioritario (Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 3275 del 1996; Cass. n. 9113 del 1995; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999; Cass. n. 537 del 2002; Cass. n, 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008; Cass. n. 19929 del 2008; Cass. n. 480 del 2009; Cass. n. 6427 del 2009; Cass. n. 14530 del 2009; Cass. n. 11589 del 2010) presuppone un reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti sottostante agli atti di ordinaria amministrazione compiuti dal singolo comproprietario e la presunzione del consenso fondata sul modello del mandato presunto o tacito. Il principio risulta espresso nei sensi seguenti: “sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri. Ne consegue che il singolo condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e che un condomino diverso da quello che ha assunto la veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso (senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini), purché non risulti l'espressa ed insuperabile volontà contraria degli altri comproprietari, la quale fa venire meno il presunto consenso della maggioranza” (così, Cass. n. 9113 del 1995).
Ciascuno dei comproprietari può, quindi, richiedere il rilascio del bene immobile presumendosi anche con riferimento alla vicenda estintiva del rapporto, il consenso degli altri (Cass. n. 2986 del 1987; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999, Cass. n. 480 del 2009, avente ad oggetto una fattispecie di stipulazione comune del contratto ma di rilascio promosso da uno solo dei comproprietari; Cass. n. 6427 del 2009); la legittimazione è estesa allo sfratto per necessità (fondato sull'esclusiva esigenza di uno dei comunisti, Cass. n. 537 del 2002); la presunzione del consenso deve essere superata dall'espressa prova contraria del dissenso (Cass. n. 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008); nell'azione contrattuale promossa da uno dei comproprietari non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri (Cass. n. 19929 del 2008); anche nelle locazioni ultranovennali (e in particolare negli affitti di fondi rustici) si applicano gli stessi principi e ciascuno dei comproprietari può agire per il rilascio dell'immobile (Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 14772 del 2004).
Il reciproco potere di rappresentanza posto a fondamento del potere di ciascuno dei comproprietari di compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione (locazione ultranovennale di natura agraria) trova indifferentemente giustificazione nel mandato presunto o tacito (Cass. n. 480 del 2009). In quest'ultima pronuncia, in particolare si afferma che la legittimazione ad agire del singolo comunista si fonda "sulla presunzione del consenso, insita nel comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria amministrazione, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela di comuni interessi e così venuto ad assumere la figura del tacito mandatario o utile gestore". La presunzione del consenso può dunque costituire la base sia del mandato tacito che, invece, dovrebbe fondarsi sulla manifestazione del consenso per fatti concludenti, sia per la negotiorum gestio ove tale requisito non è necessario, essendo invece indispensabile che il gestor agisca in sostituzione di un interessato "che non sia in grado di provvedervi" (art. 2028, primo comma, cod. civ.).
L'intercambiabilità e la concorrenza dei modelli utilizzati nella giurisprudenza di legittimità si giustifica su un'interpretazione del primo comma dell'art. 1105 cod. civ. che depotenzia il
principio dell'amministrazione congiuntiva in funzione dell'interesse, di indubbio rilievo, di favorire la circolazione del bene comune e l'affidamento dei terzi contraenti. Attraverso la presunzione del consenso, fondato sull'inerzia dei non partecipi all'atto (ma, come può agevolmente riscontrarsi dalla lettura delle pronunce citate, spesso si tratta di non conoscenza e non di vera e propria inerzia, in quanto tale condizione presuppone la scelta di non intervenire), si limita, in concreto, l'applicabilità del principio maggioritario all'esercizio di un potere di veto, successivo all'atto di gestione del singolo, riducendo l'efficacia invalidante della mancanza preventiva della maggioranza alla sola ipotesi della prova del dissenso, conosciuto dal terzo, nella fase preparatoria e genetica dell'atto (Cass. n. 480 del 2009).
Il principio ha trovato applicazione in numerose pronunce che, pur prendendo le mosse da contratti stipulati da tutti i comproprietari, hanno avuto ad oggetto l'esercizio di azioni endocontrattuali o rivolte all'estinzione del rapporto poste in essere da uno solo di essi (Cass.
n. 14772 del 2004 e Cass. n. 19929 del 2008, entrambe relative alla validità della disdetta inviata da uno solo dei comproprietari locatori). Anche in queste pronunce, la derivazione della legittimazione del singolo proprietario non viene desunta dalla stipulazione congiunta del contatto e dall'espressa qualità di parte contrattuale dell'agente, ma dall'applicazione del generale principio della parità dei poteri gestori tra comproprietari e dalla presunzione del consenso da parte del non partecipante all'esercizio dell'azione, senza distinzioni tra atti meramente conservativi come la disdetta alla scadenza o azioni tendenti ad una modifica del regime contrattuale (azione di rilascio per necessità, diniego di rinnovo alla prima scadenza etc.).
Al riguardo si devono segnalare Cass. n. 8996 del 2005, relativa alla validità ed efficacia della disdetta di un comproprietario pro quota in ordine ad un affitto agrario e Cass. n. 5077 del 2010, che utilizza il principio dei pari poteri gestori dei comproprietari in funzione dell'affidamento del terzo. In tale pronuncia viene ritenuta valida ed efficace la cessione del contratto da parte del conduttore originario ad un terzo ancorché tardivamente contestata dai locatori, perché medio tempore i canoni corrisposti (per due mensilità) dal cessionario erano stati accettati da parte di uno dei locatori. Sempre a tutela dell'affidamento dei conduttori, Cass. n. 2399 del 2008 ha ritenuto che gli effetti dell'intimazione di sfratto per morosità eseguita da uno dei locatori potessero essere paralizzati dalla successiva lettera di dissenso dell'altro comproprietario, peraltro contitolare del contratto, ritenendo sufficiente a tal fine non la partecipazione in giudizio del comunista dissenziente ma la produzione da parte del conduttore della lettera costituente la prova contraria alla presunzione del consenso che sorregge le iniziative negoziali unilaterali del comproprietario.
La tutela dell'affidamento del terzo conduttore è quindi basata proprio sul tradizionale principio del reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti. Questa configurazione dei rapporti interni alla comunione non ha più soltanto la funzione di estendere gli effetti del contratto anche ai comunisti che non lo abbiano stipulato, fornendo loro il potere di esercitare le conseguenti azioni contrattuali, ma risulta idonea a garantire all'adempimento del terzo contraente piena efficacia liberatoria. La presunzione del consenso dovrebbe operare in suo favore nell'ipotesi in cui si trovi esposto ad iniziative od azioni contrattuali da parte di un comproprietario (non rileva se contitolare del contratto) riferite ad obbligazioni già adempiute. Allo stesso modo può operare la manifestazione espressa del dissenso in ordine ad iniziative unilaterali di uno dei comunisti volte a far cessare gli effetti del contratto o a creare, in altro modo, un pregiudizio al conduttore. Un'utilizzazione equilibrata del principio della parità dei poteri dei comproprietari può, per l'orientamento in esame, operare anche a favore del terzo per la rilevanza dei comportamenti negoziali adottati reiteratamente nella concreta regolazione degli interessi, in sede di esecuzione del contratto. Secondo questa linea interpretativa, non è quindi più necessario ricorrere alla negotiorum gestio con la obbligata forzatura di equiparare i comproprietari ignari all'interessato impossibilitato a provvedere ai propri affari, per tutelare l'affidamento del terzo.
L'applicazione del principio, apparentemente contrapposto, del consenso presunto e reciproco di ciascuno dei comproprietari, all'atto di amministrazione compiuto dal singolo può determinare effetti analoghi. All'interno di questa più ampia concezione della parità dei poteri gestori dei comproprietari, che consente anche al terzo di confidare sulla legittimazione (derivante dalla presunzione del consenso) a contrarre del comproprietario locatore, problema aperto è quello di come debba essere disciplinato l'esercizio diretto dei diritti contrattuali da parte di un comproprietario diverso dai locatore. Il principio del consenso presunto potrebbe fornire un criterio di equilibrio nel rapporto tra gli interessi dei comunisti e l'affidamento del terzo con riferimento alla manifestazione della volontà di contrarre o di estinguere il vincolo, ma risulterebbe meno efficace se si tratti di valutare la validità e l'efficacia della unilaterale imposizione di modalità di adempimento del contratto diverse da quelle pattuite o usualmente praticate e divenute negoziali per facta concludentia.
Al riguardo la Corte ha ritenuto la legittimazione passiva di uno qualsiasi dei comproprietari di un immobile locato ad uso commerciale in ordine all'indennità di avviamento commerciale. In particolare nella motivazione è stato affermato che "se il singolo condomino può stipulare un contratto di locazione obbligatorio anche per gli altri ogni condomino, anche diverso dal locatore, è direttamente obbligato con riferimento all'intero svolgimento del rapporto locativo. Anche se i precedenti specifici riguardano la legittimazione attiva del condomino non locatore per l'azione di rilascio, poiché tale legittimazione dipende dalla diretta imputazione a tutti i condomini degli effetti ordinari del contratto stipulato da uno di loro, ne consegue che tutti devono ritenersi egualmente legittimati anche passivamente nei confronti delle istanze e delle azioni del conduttore". In questo senso, sembra riemergere il regime giuridico della negotiorum gestio, che pone a carico dell'interessato le obbligazioni assunte in suo nome nonché i costi patrimoniali della gestione dell'affare, fornendo al terzo contraente una tutela pressoché integrale.
7.2.1. L'orientamento ora esaminato muove da una premessa che ha prestato e presta il fianco ad una critica sostanzialmente radicale, che il Collegio condivide. Desta invero perplessità la prospettazione dei rapporti tra comunisti in termini di mandato disgiuntivo presunto, da escludersi in un sistema fondato sulla regola organizzativa opposta dell'amministrazione congiuntiva; così come il ricorso al mandato tacito risulta inappagante in quanto nell'ipotesi, molto frequente, della locazione stipulata da uno dei comunisti all'insaputa degli altri, non vi è alcuna possibilità di identificare il comportamento concludente di questi ultimi rivolto a consentire la stipula della locazione. In particolare, tale orientamento muove dal fatto noto, costituito dalla stipulazione del contratto di locazione da parte di un solo comproprietario, per risalire, quale conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, al fatto ignoto, costituito dalla esistenza di un mandato tacito conferito dagli altri condomini. Orbene, una simile presunzione non appare adeguatamente motivata, atteso che la stessa è destinata ad operare in presenza di una norma che per gli atti di ordinaria amministrazione, tra i quali rientra la stipulazione di un contratto di locazione infranovennale della cosa comune, richiede una deliberazione dei partecipanti alla comunione e quindi una manifestazione espressa di volontà.
7.3. Il terzo dei richiamati orientamenti (espresso da Cass. n. 5890 del 1982; Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 6292 del 1992, ma che è stato recentemente riproposto da Cass. n. 483 del 2009) si fonda sui comuni presupposti della validità della locazione della cosa comune stipulata soltanto da uno dei compro-prietari (Cass. n. 5890 del 1982 cit.) e sull'esistenza di un reciproco rapporto di rappresentanza tra i partecipanti alla comunione, ma si differenzia dall'altro o-rientamento in ordine agli effetti della contitolarità del diritto di proprietà nei confronti del terzo conduttore.
Nella pronuncia più rilevante ed ampiamente argomentata (Cass. n. 6292 del 1992), si afferma il principio per cui "la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri spettantigli ex art. 1105 e ss. cod. civ., senza che agli altri
partecipanti che gli hanno lasciato la completa disponibilità della cosa possa competere azione di rilascio o di rivendica nei confronti del conduttore, il quale di conseguenza resta obbligato alla esecuzione del contratto ed al pagamento del canone fino alla riconsegna del bene al comproprietario locatore e non può derogarvi in ragione della successiva opposizione degli altri comproprietari del bene locato, configurando questa una molestia di diritto di cui dare comunicazione al locatore ai sensi e per gli effetti previsti dagli artt. 1585 e 1586 cod. civ.". Ai comproprietari non locatori spetta esclusivamente, secondo tale pronuncia, il risarcimento del danno.
L'orientamento enunciato è radicale in ordine alla estraneità degli altri comproprietari rispetto al contratto di locazione. Nella motivazione viene spiegato che il terzo non è liberato dalle sue obbligazioni contrattuali (compreso il rilascio del bene alla cessazione degli effetti del contratto) se le adempie nei confronti degli altri comproprietari, essendo tenuto, nell'ipotesi di sostituzione dei medesimi nell'esercizio dei diritti endocontrattuali, a sollecitare l'intervento del locatore al fine di tenerlo garantito dalle molestie di diritto ai sensi dell'art. 1585 cod. civ.. Nella fattispecie decisa dalla richiamata pronuncia, il conduttore, nonostante l'avvenuto rilascio del bene su intimazione dei comproprietari non locatori, è stato dichiarato tenuto a pagare il canone fino al rilascio nelle mani della parte locatrice risultante dal contratto con la quale si era negozialmente vincolato.
Questo orientamento risulta confermato nella recente pronuncia n. 483 del 2009, secondo la quale "l'affitto di un fondo rustico per la durata minima di legge (quindici anni, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 203 del 1982) stipulato, ancorché verbalmente, da parte di uno dei comproprietari che ne abbia la disponibilità, sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri di amministrazione a lui spettanti a norma degli artt. 1105 e 1108 cod. civ., senza che agli altri partecipanti possa competere azione di rilascio e tantomeno di revindica nei confronti del conduttore, salvo il diritto al risarcimento dei danni verso il condomino locatore, qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione". Questa sentenza, estendendo l'efficacia della locazione stipulata da un solo comproprietario anche ai contratti di durata ultranovennale, incontestatamente rientranti negli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, in primo luogo, si allontana ulteriormente dal principio maggioritario stabilito nell'art. 1105 cod. civ. In secondo luogo, ribadisce il principio della presunzione del consenso del comproprietario non partecipante alla stipula del contratto, con riferimento ad una fattispecie in cui il terzo conduttore (fratello del comunista non locatore e figlio del comproprietario locatore) era incontestatamente al corrente della contitolarità del diritto di proprietà sull'immobile. In terzo luogo, precisa che la prova contraria, nonostante la equivocità dei fatti noti da cui desumere il consenso presunto, poteva essere fornita esclusivamente mediante la dimostrazione da parte del comproprietario non locatore della propria manifestazione di dissenso prima della stipula del contratto. Essendo mancata questa prova, il contratto di affitto è pienamente efficace ed opponibile al comproprietario non locatore che ne aveva invocato la nullità. Peraltro, a sostegno della soluzione adottata, la Corte indica gli orientamenti che fondano la validità ed efficacia del contratto di locazione stipulato da uno solo dei comproprietari, sul reciproco rapporto di rappresentanza tra di essi e sulla concorrenza di pari poteri gestori, giustificata sulla base della comunanza d'interessi tra tutti i contitolari del bene, anche se, da queste premesse non fa discendere un potere d'ingerenza diretta dei comunisti non locatori sul contratto ma, al contrario, con riferimento all'art. 1108 cod. civ., che richiede maggioranze qualificate per gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione, afferma che "in caso di violazione del precetto unici rimedi a favore del comproprietario che non ha prestato il consenso alla locazione ultranovennale dell'intero bene sarebbero di natura risarcitoria, stanti i principi dell'apparenza del diritto, dell'affidamento del terzo e della buona fede".
7.2.1. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale (seguito dalla sentenza impugnata), il comproprietario locatore assume rispetto ai comunisti che non hanno partecipato al momento genetico del contratto la qualità giuridica del gestore di affari e non del mandatario (all'interno della duplice, concorrente prospettazione del mandato presunto o del mandato
tacito). Da questa configurazione del rapporto tra comproprietari deriva, ai sensi dell'art. 2031, primo comma, cod. civ., che gli altri comunisti sono tenuti all'adempimento delle obbligazioni conseguenti alla stipula del contratto, salvo che il gestor abbia agito nonostante il divieto della maggioranza dei comproprietari o dell'altro titolare della medesima quota. L'assunzione delle obbligazioni contrattuali (prima tra tutte, nella locazione, il trasferimento della detenzione della cosa comune) non determina, però, come nel mandato la contitolarità della posizione di locatori da parte dei comunisti. Essi non divengono parti del contratto stipulato dal gestore le violazioni, commesse da quest'ultimo, delle regole di formazione della volontà all'interno della comunione, non sono opponibili al terzo che resta vincolato, fino alla cessazione degli effetti del contratto, al regolamento d'interessi originario.
Questa prospettazione ha il vantaggio di tutelare l'affidamento del terzo nel regolamento d'interessi originariamente sottoscritto, in quanto solo dalla ratifica si determinano gli effetti propri del mandato (art. 2032 cod. civ.). Nella fase della gestione utile, il terzo che non sia a conoscenza, nel momento genetico del contratto, del divieto della maggioranza dei comunisti o del veto del comproprietario titolare di quota di pari valore di quella dello stipulante, non è tenuto a subire gli effetti delle sopravvenute modifiche della volontà di contrarre che si verificano tra i comproprietari dell'immobile locato.
8. Tale essendo il quadro delle soluzioni giurisprudenziali offerte in materia da questa Corte, il Collegio ritiene che la fattispecie in esame debba essere ricondotta nell'ambito di applicazione delle disposizioni concernenti la gestione di affari altrui, consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che valga a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti.
8.1. Occorre innanzitutto rilevare che l'esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all'applicazione dell'art. 2028 cod. civ., atteso che risulta impossibile negare che il partecipante della comunione che amministra la cosa comune curi l'interesse non solo proprio ma anche degli altri (Cass. n. 10732 del 1993).
Ciò premesso, “elemento caratterizzante la gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell'interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione; a tal fine, si richiede innanzitutto l’absentia domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus; tale requisito non è peraltro sufficiente ai fini della configurabilità della gestione di affari, occorrendo altresì l'utilità della gestione (cosiddetta utiliter coeptum), la quale sussiste quando sia stata esplicata un'attività che, producendo un incremento patrimoniale o risolvendosi in un'evitata diminuzione patrimoniale, sarebbe stata esercitata dallo stesso interessato quale buon padre di famiglia, se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell'affare” (Cass. n. 12280 del 2007; con riferimento al concetto di absentia domini, Cass. n. 12304 del 2011). La gestione di affari consiste, dunque, nel compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente posti in essere dal gestore nell'altrui interesse in assenza di ogni rapporto contrattuale in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui (Cass. n. 4623 del 2001; Cass. n. 18626 del 2003).
Gli elementi della gestione d'affari sono, quindi, l’animus aliena negotia gerendi; l'utilità della gestione; la impossibilità dell'interessato di svolgere l'affare o, comunque, la mancanza della prohibitio domini; l'esistenza dell'interesse altrui.
Con riferimento al primo, in una risalente ma ancora attuale pronuncia di questa Corte, si è affermato che “nella gestione d'affari l’animus aliena negotia gerendi, cioè il proposito di agire per conto e vantaggio di altri, non deve necessariamente risultare da dichiarazione espressa del dominus negotii, ma può risultare anche dalle circostanze di fatto; quanto poi al requisito dell'utiliter coeptum, e sufficiente che la gestione sia utilmente intrapresa, e cioè sia stata spiegata un'attività che lo stesso dominus avrebbe esercitato agendo da buon padre di famiglia se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell'affare” (Cass.
n. 550 del 1964; in senso conforme, v. anche Cass. n. 4821 del 1980; Cass. n. 1365 del 1989).
Può quindi ritenersi che sussista l'indicato requisito nel caso in cui chi sia nella disponibilità di un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo siffatta iniziativa contrattuale, in assenza di opposizioni da parte degli altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all'interesse di questi ultimi. D'altra parte, non può non rilevarsi che l'art. 2032 cod. civ., nel consentire la ratifica dell'operato del gestore da parte dell'avente diritto, anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare proprio, vale a ridimensionare seriamente la rilevanza del requisito soggettivo con il quale il gestore ha proceduto alla gestione.
Quanto agli altri due requisiti dell'istituto in esame, la loro ricorrenza è senz'altro verificabile nel caso del contratto di locazione, trattandosi di atto di disposizione in genere di ordinaria amministrazione (ma, si è visto, che in alcune pronunce di questa Corte l'utilità dell'affare è stata ravvisata anche in ipotesi di contratti ultranovennali) destinato a far fruttare il bene comune e rispetto al quale deve ritenersi sussistente anche l'interesse del comproprietario non locatore che non abbia manifestato opposizione.
Nell'ambito della gestione d'affari può inoltre aggiungersi, riguardo al presupposto della absentia domini, che tale requisito è stato ritenuto sussistente non solo allorché l'interessato versi in una condizione di impedimento, che si traduca in una impossibilità materiale rispetto alla cura dei propri affari, ma anche qualora l'interessato stesso non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nei propri affari (Cass. n. 3143 del 1984).
Non vi è, pertanto, ostacolo formale a ricondurre la fattispecie della locazione del bene comune da parte di un solo comproprietario nell'ambito della disciplina della gestione d'affari.
8.2. In più, deve osservarsi che la soluzione offerta dalle disposizioni in tema di gestione di affari appare poi la più idonea a contemperare le posizioni di tutti i soggetti coinvolti.
Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e il conduttore è infatti efficace, rilevando l'opposizione del comproprietario non locatore solo nel caso in cui venga manifestata e portata a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto (art. 2031, secondo comma, cod. civ.), sicché, come si è appena osservato, il conduttore è posto al riparo da sopravvenuti contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune.
Il comproprietario non locatore, da parte sua, ove sia a conoscenza della intenzione del gestore di addivenire ad una locazione del bene comune, può manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonererebbe, ai sensi dell'art. 2031, secondo comma, dal dovere di adempiere le obbligazioni che il gestore abbia assunto, anche in nome proprio, e di rimborsargli le spese sostenute. Il comproprietario non locatore, inoltre, ai sensi dell'art. 2032 cod. civ., ed è questo l'aspetto che maggiormente rileva ai fini della soluzione del caso di specie, ha la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore, e l'esercizio di tale potere comporta gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da un soggetto che credeva di gestire un affare proprio.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è ripetutamente affermato che “ai sensi degli artt. 2031 e 2032 cod. civ., la gestione di affari, che non abbia comportato la spendita del nome del dominus, può produrre, ancorché ratificata, effetti nei rapporti fra il dominus ed il gestore, ma non può in alcun caso valere a far subentrare il primo nel rapporto negoziale che il secondo abbia instaurato in nome proprio con il terzo” (Cass. n. 3479 del 1978; Cass. n. 11637 del 1991; Cass. n. 12102 del 2003) e che, proprio in base a tale principio si è precisato che “il contratto che il comproprietario di un immobile abbia stipulato nell'asserita qualità di proprietario esclusivo è inidoneo a produrre effetti diretti nei rapporti fra gli altri comproprietari ed il terzo contraente, in quanto nella gestione di affari non rappresentativa la ratifica non fa subentrare il dominus in luogo del gestore nel rapporto costituito da quest'ultimo in nome proprio con i terzi e i soggetti del rapporto restano quelli originari” (Cass. n. 3479 del 1978 cit). In questo senso, si è quindi affermato, con riguardo ad un fabbricato appartenente per porzioni distinte a due proprietari, che “il comportamento dell'uno, consistente nel concedere in locazione l'intero immobile e nel provvedere a
riscuoterne il canone, è qualificabile come negotiorum gestio di tipo rappresentativo, secondo la previsione degli artt. 2028 e segg. cod. civ., fino a quando il secondo non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nel proprio affare, con la conseguenza che, ove intervenga tale divieto, deve riconoscersi a detto secondo proprietario, divenuto anch'egli locatore e creditore del canone (per la parte di sua spettanza) per effetto di quella gestione, il diritto di ottenere direttamente dal locatario il pagamento della quota del canone medesimo, tenendo conto che fra più creditori di una prestazione divisibile non si presume il vincolo di solidarietà” (Cass. n. 3143 del 1984).
Dalla motivazione di tale pronuncia si evince che, in quel caso, la gestione rappresentativa era stata desunta implicitamente dal mero dato oggettivo che il comproprietario locatore avesse concesso in locazione l'intero bene (nel caso di specie, un'attività alberghiera); appare, peraltro, evidente come la soluzione della implicita rappresentatività della gestione non possa essere seguita, comportando essa ancora il riferimento ad un mandato presunto, in assenza di contemplatio domini; il che presterebbe il fianco alle critiche già riferite in precedenza.
Tuttavia, è innegabile che, pur in presenza di una gestione non rappresentativa, che si svolga quindi senza alcuna contemplatio domini, la ratifica determina, dal suo manifestarsi, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato (art. 2032 cod. civ.). E tra gli effetti del mandato vi è proprio quello di cui all'art. 1705, secondo comma, cod. civ., che abilita il comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla ratifica, il pagamento pro quota del canone al conduttore. La ratifica, giova soggiungere, non necessita di formalità particolari, ben potendo essere espressa dalla domanda che, come nella specie, il comproprietario non locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo alla ratifica.
Ovviamente, ove si tratti di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore non potrà svolgere altre azioni derivanti dal contratto, essendo la facoltà del mandatario di sostituirsi al mandante limitata dall'art. 1705, secondo comma, cod. civ., ai crediti derivanti dal contratto stipulato dal mandatario.
8.3. In conclusione, la questione sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite deve essere risolta con l'affermazione del seguente principio di diritto: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 cod. civ., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa”.
9. In applicazione del principio ora richiamato, il ricorso deve essere accolto, atteso che la Corte d'appello di Genova ha del tutto omesso di verificare se nella condotta della comproprietaria non locatrice fosse ravvisabile una ratifica del contratto di locazione sottoscritto dall'altra comproprietaria.
L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame della controversia alla luce dell'indicato principio di diritto, ad altra sezione della Corte d'appello di Genova.
10. La cassazione con rinvio della sentenza impugnata comporta l'assorbimento delle ulteriori censure svolte dalla ricorrente, atteso che le stesse involgono questioni relative allo svolgimento del giudizio di appello e all'omesso esame delle stesse da parte di quel giudice, che potranno essere prese in considerazione in sede di rinvio.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'appello di Genova.
8)COMPRAVENDITA: E’ SUFFICIENTE UNA DENUNCIA GENERICA DEI VIZI DEL BENE
OGGETTO DI COMPRAVENDITA
La denunzia dei vizi della cosa venduta ai sensi degli art. 1492 e 1495 c.c. non deve consistere necessariamente in una esposizione dettagliata dei vizi che presenta la res venduta, poichè in considerazione della finalità della denunzia consistente nel mettere il venditore sull'avviso in ordine alle intenzioni del compratore e contemporaneamente in condizione di verificare tempestivamente la veridicità della doglianza, una denuncia generica può essere idonea allo scopo, sempreché con essa il venditore sia reso edotto che il compratore ha riscontrato, seppure in maniera non ancora chiara e completa, che la cosa è affetta da vizi che la rendono inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027
Con la pronuncia dell’11 dicembre 2015, n. 25027, emessa in tema di compravendita, il S.C. chiarisce che la denuncia sull’esistenza di vizi da parte del compratore non deve necessariamente contenere nel dettaglio i vizi riscontrati nel bene oggetto di compravendita, essendo sufficiente rendere edotto il venditore, in maniera comunque chiara, che il bene in questione è affetto da vizi tali da renderlo inidoneo all’uso cui è destinato.
Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione con la sentenza in commento nasce dall’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla società acquirente avverso l’ingiunzione di pagamento emessa nei suoi confronti relativa al pagamento di alcuni beni oggetto di compravendita. L’opposizione si basa sull’esistenza di una serie di vizi riscontrati nei beni in questione: vizi che avrebbero dovuto comportare una riduzione del prezzo di vendita. L’opposizione viene rigettata in primo e secondo grado, con conferma del decreto ingiuntivo opposto, sul rilievo che la denuncia dei vizi sarebbe stata eccessivamente generica. La società acquirente promuove ricorso per cassazione, ponendo come motivo principale la circostanza che non sia necessario un dettagliato elenco dei vizi del bene, essendo per contro sufficiente una generica denuncia, dalla quale si comprenda, comunque, la natura dei vizi denunciati. Il S.C. accoglie tale motivo di ricorso e rimette alla Corte territoriale per un nuovo esame della causa.
Contratto di compravendita ed obblighi del venditore. Secondo quanto previsto dall’art. 1490 c.c. in tema di compravendita, il venditore deve agire con diligenza assicurando stato e qualità della merce oggetto del trasferimento giacché questi è obbligato a consegnare all'acquirente dei beni che presentino le caratteristiche promesse e risultino immuni da vizi in grado di incidere sull'idoneità del loro uso.
Vizi del bene del bene venduto e onere della prova. Sul punto, l'onere della prova per i vizi e difetti della stessa incombe sul compratore il quale dovrà fornire gli elementi da cui desumere un nesso causale tra i difetti rinvenuti e le conseguenze dannose subite mentre al venditore, per contro, spetterà la prova liberatoria della mancanza di colpa. In ogni caso, nell'ipotesi in cui non siano rispettati i termini di decadenza e di prescrizione per la denuncia dei vizi ai sensi dell'art. 1495 c.c. e risulti carente la prova sul nesso causale degli accadimenti, non potrà essere accolta la richiesta risarcitoria avanzata ai sensi dell'art. 1494 c.c..
Garanzia per i vizi: la tutela del compratore. Secondo la prevalente giurisprudenza – come anche secondo la sentenza in commento - la disciplina della garanzia per vizi si esaurisce negli artt. 1490 ss. c.c., che pongono il venditore in una situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo all'iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto od alla sua caducazione mediante
l'esperimento, rispettivamente, della actio quanti minoris o della actio redhibitoria. Da ciò discende che il compratore non dispone - neppure a titolo di risarcimento del danno in forma specifica - di un'azione "di esatto adempimento" per ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete soltanto in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita dei beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene.
Riconoscimento dei vizi da parte del venditore: non è richiesta una forma specifica. Sotto un diverso profilo, ossia con riferimento alla prospettiva del venditore, il riconoscimento dei vizi della cosa venduta da parte dello stesso venditore - che rende superflua la denunzia dei vizi stessi o la comunicazione della denunzia entro i prescritti termini - non è soggetto ad una forma determinata e può esprimersi attraverso qualsiasi manifestazione, purchè univoca e convincente, senza alcuna necessità che ad esso si accompagni l'ammissione di una responsabilità o l'assunzione di obblighi.
Garanzia del bene: non prevista per il contratto preliminare. La disciplina relativa alla garanzia per mancanza di qualità della cosa venduta (art. 1497 c.c.), al pari di quella relativa alla garanzia per vizi della cosa venduta (art. 1490 c.c.), è propria del contratto definitivo di compravendita ed è invece estranea al contratto preliminare di compravendita.
Compravendita e responsabilità extracontrattuale. In caso di inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di compravendita, oltre alla responsabilità contrattuale, potrebbe configurarsi anche una responsabilità extracontrattuale del venditore, ma soltanto qualora il pregiudizio arrecato al compratore abbia leso interessi di quest'ultimo che, essendo sorti al di fuori del contratto, abbiano la consistenza di diritti assoluti.
Risoluzione e risarcimento: i diversi presupposti per l’alienante. Fermo quanto precede, deve però precisarsi, in punto di onere probatorio, che l'azione di risoluzione per i vizi della cosa venduta non presuppone l'esistenza della colpa dell'alienante, contrariamente alla diversa ipotesi dell'azione di risarcimento dei danni, nella quale l'art. 1494 c.c. presuppone la colpa del venditore ponendo a suo carico una presunzione di conoscenza dei vizi.
Cassazione, sez. II, 11 dicembre2015, n. 25027 (Pres. Piccialli – Rel. Xxxxx)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 26.4.2002, la società Elettrikro s.n.c. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo con cui il Tribunale di Mantova le aveva ingiunto il pagamento di Euro 51.339,76, in favore di Unical A.G., quale residuo corrispettivo per la fornitura di alcuni condizionatori.
L'opponente chiedeva la revoca del D.I., previo accertamento dell'inadempimento dell'opposta all'obbligo di garanzia di buon funzionamento dei beni compravenduti, con conseguente riduzione del loro prezzo. L'opposta si costituiva chiedendo il rigetto dell'opposizione. Con sentenza 10.3.2005 il Tribunale di Mantova rigettava l'opposizione e le domande proposte da Elettrikro, condannandola alle spese di lite.
Avverso tale sentenza la soccombente proponeva appello cui resisteva l'Unical AG s.p.a..
Con sentenza depositata il 3.5.2010 la Corte di Appello di Brescia rigettava l'appello condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado.
Osservava la Corte di merito: che la testimonianza del P. non valeva a contrastare quanto affermato dal primo Giudice in punto di estrema genericità della contestazione dei vizi; che il materiale per la riparazione dei climatizzatori era stato montato dal terzi estranei sicché difettava la prova, a carico dell'opponente, "non solo dell'esistenza dei vizi ma anche della imputabilità degli stessi alla parte nei cui confronti é diretta la pretesa ad essi connessa".
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la s.n.c. Elettrikro formulando sette motivi. Resiste con controricorso e memoria Unical AG s.p.a..
Motivi della decisione La ricorrente deduce:
1) falsa applicazione dell'art. 1495 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato la necessità di una denuncia dei vizi analitica fin dal momento della denuncia stessa, escludendo che le caratteristiche dei vizi potessero essere specificate in corso di causa;
2) falsa applicazione dell'art.1495 c.c., non avendo la giudice di appello tenuto conto che non occorre la denuncia dei vizi quando il venditore, "anche per facta concludentia" (come l'effettuazione di riparazioni o l'invio di pezzi di ricambio da parte del venditore), abbia riconosciuto l'esistenza dei vizi;
3) falsa applicazione degli artt. 1494-1512 e 2697 c.c., posto che, a fronte del difettoso funzionamento dei condizionatori fatto pacifico), sarebbe stato onere dell'Unical dimostrare il venir meno del nesso eziologico tra la garanzia di buon funzionamento dei climatizzatori ed il loro mancato funzionamento;
4) manifesta contraddittorietà della motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio, quale il contenuto della denunzia dei vizi delle cose vendute in quanto, da un lato, si affermava in sentenza che non erano stati specificati i vizi, e dall'altro, che questi consistevano nel mancato funzionamento dei climatizzatori;
5) insufficiente motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio, avendo il giudice di appello rigettato la richiesta di C.T.U., necessaria per accertare se il mancato funzionamento dei beni venduti fosse ascrivibile a vizi redibitori o ad errori di installazione;
6) insufficiente motivazione sul fatto decisivo per il giudizio costituito dalla sussistenza dei vizi e dal loro riconoscimento da parte dell'Unical AG, come desumibile dall'esame delle testimonianze il cui esame era stato omesso;
7) omessa motivazione in ordine al fatto decisivo per il giudizio, riguardante l'obbligo di garanzia della Unical AG per i rapporti tra Eletrikro e tale S.F. ; in particolare, la sentenza impugnata aveva omesso di prendere in esame il fatto che la Elettrikro era stata chiamata in giudizio dallo S. , onde la Unical AG era tenuta alla garanzia di cui all'art. 1490 c.c. "in regresso rispetto all'azione intentata nei confronti della deducente dall'installatore".
I primi cinque motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, sono fondati.
Va, innanzitutto, evidenziato che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, la denuncia dei vizi della cosa venduta, sensi dell'art. 1492 e 1495 c.c., non richiede necessariamente una dettagliata esposizione dei vizi da cui sarebbe inficiata la "res vendita", consistendo la finalità della denuncia nel mettere il venditore sull'avviso in ordine alle intenzioni del compratore e, contemporaneamente, nel consentirgli di ve-rificare tempestivamente la veridicità della doglianza, sicché una denuncia, sia pure generica, può esser idonea a detto fine, ove con essa il venditore sia reso edotto che il compratore ha riscontrato, benché in modo non ancora esauriente e completo, che la cosa da lui acquistata è affetta da vizi che la rendono inidonea all'uso cui è destinata e ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (Cfr. Cass. n. 6234/2000).
Consegue che è errata la motivazione del giudice di appello sul mancato riconoscimento dei vizi da parte della venditrice, laddove afferma che gli interventi effettuati dalla Unical o l'invio di pezzi di ricambio, "in difetto di specifica individuazione del dedotto vizio", non possono essere apprezzati quale comportamento concludente al fine del riconoscimento stesso.
Va aggiunto che, inquadrata l'azione proposta nell'ambito della garanzia per vizi, come si desume dal rigetto dell'appello, fondato essenzialmente sulla genericità della denuncia dei vizi, non poteva poi, la Corte territoriale fare riferimento alla diversa garanzia di buon funzionamento dei beni venduti (climatizzatori), escludendone il vizio costruttivo per la estraneità della venditrice Unical alla fase della "installazione" dei beni. Al riguardo questa Corte ha, infatti, ribadito che la disciplina della garanzia per vizi si esaurisce negli artt. 1490 e ss. c.c. che pongono il venditore in una situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione rispetto all'iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto od alla sua caducazione mediante l'esperimento, rispettivamente, dell'azione "quanti minoris" o "redhibitoria", sicché il compratore non dispone di un'azione "di esatto adempimento" per ottenere dal venditore l'eliminazione dei vizi della cosa venduta, rimedio che gli compete solo in particolari ipotesi di legge (garanzia di buon funzionamento, vendita di beni di consumo) o qualora il venditore si sia specificamente impegnato alla riparazione del bene (Cass. S.U. n. 19702/2012).
Va rilevato sul punto che la garanzia per i vizi della cosa venduta disciplinata dagli artt. 1490 e segg. c.c., differisce da quella di buon funzionamento prevista dall'art. 1512 c.c., invocabile solo previa deduzione e dimostrazione dell'esistenza nel contratto di compravendita di un tale patto che, con l'assicurazione di un
determinato risultato (il buon funzionamento della cosa per il tempo convenuto) determina una più forte garanzia del compratore, in via autonoma ed indipendente rispetto alla garanzia per vizi ed alla responsabilità per mancanza di qualità. Anche sotto il profilo dell'onere probatorio dette garanzie si differenziano in quanto la garanzia di cui all'art. 1512 c.c. impone all'acquirente solo l'onere di dimostrare il cattivo funzionamento della cosa venduta, restando a carico del garante provare l'estraneità del cattivo funzionamento alla struttura della res, per essere esso dipendente da fatto del compratore o di terzi (Cass. n. 2328/72). La garanzia per vizi, invece, cui il venditore è tenuto per legge, impone all'acquirente l'onere di provare il vizio che rende la cosa venduta inidonea all'uso cui è destinata pur presumendosi la colpa del venditore in relazione alla sua conoscenza del vizio (Cass. n. 14665/2008; n. 4464/1997).
Tanto chiarito, considerata la non necessità di una denuncia dettagliata dei vizi della cosa venduta, non è precluso accertarne, mediante C.T.U., la natura intrinseca o meno e la loro sussistenza già al momento della consegna, potendo l'esatta identificazione del vizio intervenire anche all'esito di un accertamento tecnico in sede giudiziale. Alla stregua dei rilievi svolti vanno accolti i primi cinque motivi residui, rimanendo assorbiti gli altri due residui motivi. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio ad atra sezione della Corte di Appello di Brescia che dovrà provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi cinque motivi del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia anche per le spese del presente giudizio.
9)COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. NULLITÀ PER MANCANZA DELLA CONCESSIONE EDILIZIA: NON SI
APPLICA AL CONTRATTO PRELIMINARE
Va dichiarata la nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la promessa di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico; invero, il fatto che l'art. 40, comma 2, legge n. 47/1985, faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia immediata, mentre il contratto preliminare ha efficacia semplicemente obbligatoria, non elimina dal punto di vista logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo per contrarietà alla legge.
Deve pertanto ritenersi che il contratto preliminare avente ad oggetto la promessa di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è da considerare nullo per contrarietà alla legge, trattandosi di questione che non può trovare rimedio nella disciplina dell'inadempimento.
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483
Con la sentenza n. 8483 del 29 aprile 2016, il S.C. precisa il proprio orientamento in materia, chiarendo che la sanzione della nullità relativa ad immobili oggetto di compravendita privi della necessaria autorizzazione trova applicazione solo nei contratti ad efficacia traslativa e non si applica ai contratto preliminari di compravendita.
Il caso. La vicenda decisa dalla Cassazione verte sulla validità o meno di un contratto preliminare avente ad oggetto la compravendita di un immobile per il quale era stata accertata una irregolarità urbanistica, successivamente sanata. Le parti, infatti, sostenevano la reciproca inadempienza alle obbligazioni del contratto preliminare e, in particolare, il promissario acquirente sosteneva che l’immobile de quo fosse irregolare dal punto di vista urbanistico, con conseguente nullità del preliminare. Il S.C., confermando le decisioni dei giudizi di merito, evidenzia la validità del preliminare ed accoglie la domanda ex art. 2932
c.c. promossa in giudizio, rilevando che, successivamente al preliminare, l’immobile era stato sanato e che comunque la nullità non poteva riferirsi al preliminare ma solo al contratto definitivo in quanto traslativo di diritti reali.
Irregolarità urbanistica: quale conseguenza per il contratto? Da quanto espresso dal S.C. con la sentenza in esame, l'irregolarità urbanistica di un immobile promesso in vendita non determina la nullità del contratto preliminare, ma eventualmente ove si tratti di totale difformità dalla concessione, solo del contratto definitivo se tale irregolarità non viene sanata dopo la stipula del preliminare. La sanzione di nullità degli atti traslativi di immobili abusivi posta in essere dall'art. 40 della legge n. 47 del 1985, infatti, trova applicazione in ordine ai soli contratti ad effetti reali, dato che le relative previsioni non possono essere estese ai contratti ad efficacia meramente obbligatoria, quali i preliminari di vendita. Si osserva, al riguardo, che in seguito al contratto preliminare, può intervenire la concessione in sanatoria di eventuali abusi edilizi commessi. Ne deriva l'esclusione della predetta sanzione per il successivo contratto definitivo di vendita.
Concessione in sanatoria e trasferimento dell’immobile. Fermo quanto precede, deve però precisarsi che, anche se l'art. 40 l. n. 47 del 1985 consenta la stipula di un atto tra vivi con il quale venga trasferita la proprietà di un immobile costruito senza la necessaria licenza o concessione (o in difformità dalla stessa), purché l'alienante dichiari gli estremi della concessione in sanatoria o alleghi agli atti copia della
relativa domanda, è tuttavia necessario che la situazione dell'immobile venga resa nota in sede di preliminare di vendita e accettata dal provvisorio acquirente, essendo evidente che un tale immobile, ancorchè commerciabile, è pur sempre esposto al rischio del rigetto della domanda di concessione in sanatoria. Da ciò discende che il promissario alienante che abbia taciuto in sede di preliminare sulla pendenza della pratica di condono deve ritenersi inadempiente, con conseguente legittimazione del promissario acquirente all'azione di risoluzione, a nulla rilevando che la concessione in sanatoria sia stata successivamente ottenuta.
Contratti a prestazioni corrispettive e reciproca indipendenza. Il tema in esame consente altresì un chiarimento sull’attribuzione delle responsabilità in caso di inadempimento reciproco posto che, come anche richiamato nella pronuncia in commento, qualora, dagli atti del processo, emerga una reciprocità di inadempienze tra le parti, è necessario, al fine di una corretta pronuncia di risoluzione per inadempimento, il ricorso a un giudizio di comparazione che tenga conto del comportamento complessivo di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma; il relativo accertamento rientra nei poteri del giudice di merito ed è, pertanto, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.
Preliminare e definitivo: l’offerta del residuo prezzo. Ulteriore profilo di interesse del tema in esame riguarda le modalità di offerta del prezzo residuo; nel caso in cui le parti di un contratto preliminare di vendita immobiliare, infatti, abbiano convenuto che il pagamento del residuo prezzo debba essere effettuato all'atto della stipulazione del contratto definitivo, l'offerta di cui al comma 2 dell'art. 2932 c.c. è da ritenersi soddisfatta con la domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto, essendo tale offerta necessariamente implicita nella domanda, così che, in tale ipotesi, deve senz'altro essere emessa la sentenza produttrice degli effetti del contratto non concluso, ed il pagamento del residuo prezzo deve essere imposto come condizione per il verificarsi dell'effetto traslativo derivante dalla pronuncia del giudice.
Quando il pagamento del prezzo? Ne consegue, ancora, che, ove la prestazione a carico del promissario acquirente del bene preveda, al momento della stipula dell'atto definitivo, non solo il pagamento del residuo prezzo, ma anche l'accollo, da parte del promissario acquirente, del mutuo bancario gravante su detto immobile, questi non è tenuto a pagare il prezzo ovvero ad accollarsi il mutuo prima del contratto definitivo (o della domanda di esecuzione in forma specifica, o della stessa sentenza ex art. 2932), pur dovendosi l'esecuzione di dette prestazioni imporsi, in sentenza, come condizione dell'effetto traslativo divisato dalle parti.
Nullità applicabile anche al preliminare? La sentenza in esame smentisce un diverso orientamento, anche di legittimità, richiamato in motivazione, per il quale, contrariamente alla massima di cui sopra, va dichiarata la nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la promessa di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico; invero, il fatto che l'art. 40, comma 2, legge n. 47/1985, faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia immediata, mentre il contratto preliminare ha efficacia semplicemente obbligatoria, non elimina dal punto di vista logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo per contrarietà alla legge. Deve pertanto ritenersi che il contratto preliminare avente ad oggetto la promessa di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è da considerare nullo per contrarietà alla legge, trattandosi di questione che non può trovare rimedio nella disciplina dell'inadempimento.
Svolgimento del processo
Cassazione, sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8483 (Pres. Manna – Rel. Xxxxxxx)
Xx.Xx. , con atto di citazione del 23 maggio 2000, conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Tivoli, L.F. e, premesso di aver stipulato con il convenuto, in data 3 giugno 1996, una scrittura privata per la vendita di un immobile sito in (omissis) (appartamento e locale garage) chiedeva che accertato l’integrale pagamento del prezzo fosse emessa sentenza costitutiva ex art. 2932 cc., con vittoria di spese.
Si costituiva L.F. , eccependo la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto, che il prezzo versato di i 20.000.000 doveva considerarsi solo come anticipo del corrispettivo, tenuto conto del valore di mercato dei beni; che era il promissario acquirente inadempiente all’obbligo di corresponsione del prezzo e, pertanto, il contratto andava risolto per colpa dell’attore, che il contratto era nullo dato che il diritto di superficie che si assumeva essere stato trasferito non era accompagnato dalla forma scritta. Insisteva, in definitiva, per il rigetto della domanda o per la risoluzione del contratto, con vittoria delle spese di lite.
La difesa del convenuto chiedeva che venisse integrato il contraddittorio nei confronti del coniuge del convenuto in regime di comunione dei beni, ma la domanda veniva respinta.
La causa veniva rimessa sul ruolo per l’acquisizione di documentazione sulla regolarità edilizia degli immobili. All’esito del giudizio, il Tribunale di Tivoli, con sentenza n. 72 del 2006, accoglieva la domanda attrice e per l’effetto dichiarava trasferito, in favore del Pe. , l’appartamento ed il garage. Rigettava le domande riconvenzionali proposte dal convenuto e condannava lo stesso al pagamento delle spese del giudizio. A fondamento di questa decisione, il Tribunale di Tivoli riteneva che la scrittura intercorsa tra le parti, in data 3 giugno 1996, avesse tutti i requisiti di un contratto preliminare di vendita; accertava che l’abitazione era stata oggetto di concessione in sanatoria e quanto al garage era stata presentata domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione ai sensi della legge n. 326 del2003, a nulla rilevando che la regolarizzazione urbanistica dell’immobile fosse avvenuta successivamente alla stipula del preliminare, sulla base della sopravvenuta disciplina del condono degli abusi edilizi.
Avverso questa sentenza interponeva appello L.F. , chiedendo che venisse dichiarata la nullità assoluta ed insanabile del contratto intercorso tra le parti, non essendo stata provata la regolarità urbanistica e la commerciabilità del bene immobile promesso in vendita ai sensi della legge n. 47 del 1985, nonché venisse dichiarata la nullità, anche perché trattavasi di un bene di cui il convenuto dichiarava di essere superficiario e mancava la prova documentate del dedotto diritto di superficie, per l’inesistenza del prezzo derivante dall’irrisorietà dello stesso.
Si costituiva Xx.Xx. , resistendo al gravame e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4430 del 2013, rigettava l’appello e confermava la sentenza di primo grado, condividendo le ragioni già espresse dal Tribunale di Tivoli.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da P.L. , quale erede del marito L.F. per due motivi. Xx.Xx. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione 1.- P.L. denuncia:
a) Con il primo motivo del ricorso, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1376 cc e dell’art. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985 in relazione all’art. 360 n. 3 cpc. Secondo la ricorrente, la Corte romana avrebbe errato nel qualificare il contratto intercorso tra le parti quale contratto preliminare, non considerando che il contenuto di quell’accordo era definitivo (ad effetti reali come previsto dall’art. 1376 cc) tant’è che le parti non erano, neanche, impegnate a riprodurlo nella forma del rogito notarile proprio nella considerazione della definitività della loro pattuizione. Piuttosto, la Corte distrettuale qualificando il contratto, di cui si dice, quale contratto definitivo, avrebbe dovuto applicare l’art. 40 della legge n.47 del 1985 e dichiarare nullo tale contratto perché l’immobile risultava privo della necessaria concessione edilizia. Tuttavia, aggiunge la ricorrente, anche ammesso che l’accordo di che trattasi fosse un contratto preliminare, allo stesso andrebbe applicata la normativa di cui all’art. 40 della legge n. 47 del 1985 perché come è stato affermato da questa Corte con la sentenza n. 23591 del 2013, anche, il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, deve essere ritenuto nullo.
b) Con il secondo motivo, l’omessa motivazione per travisamento del fatto, circa un punto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 n. 5 cpc. Secondo la ricorrente, la Corte romana avrebbe omesso di indicare le ragioni per cui la scrittura privata del 3 giugno 1996 fosse un contratto preliminare e non un contratto definitivo.
1.1.- I motivi, che per la innegabile connessione tra gli stessi vanno esaminati congiuntamente, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
1.1.a) È inammissibile la deduzione in ordine alla qualificazione del contratto intercorso tra le parti, quale contratto definitivo, essendo stata dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione, posto che dalla sentenza impugnata risulta che l’attuale ricorrente eccepiva: a) la nullità del contratto preliminare del 3 giugno 1996, per mancanza di causa; b) la nullità assoluta del contratto derivante dalla violazione delle
norme urbanistiche ai sensi dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985; c) che il giudice non si era pronunciato in ordine all’irrisorietà del prezzo. Comunque, e tuttavia, va qui osservato che nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma debbono essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. o dell’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, e, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, debbono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla qualificazione del contratto), al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa.
1.1.b) Sono infondati nella parte in cui si ritiene che la normativa di cui all’art. 40 della legge n. 47 del 1985 sia estensibile anche al contratto preliminare di vendita. E principio consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte quello secondo cui la nullità prevista dall’art. 40 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 riguarda esclusivamente i contratti ad effetti traslativi, e non coinvolge il preliminare di vendita che abbia ad oggetto un immobile abusivo; e ciò, non soltanto, per un motivo di carattere letterale, in quanto la norma in questione attiene solo agli atti traslativi dei diritti reali sull’immobile, e non agli atti ad efficacia obbligatoria, ma per il rilievo che, successivamente al contratto preliminare, può intervenire la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al 1 settembre 1967, con la conseguenza che - in queste ipotesi - rimarrebbe esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita (Cass. n. 59/2002, n.6018/1999, n. 1501/1999, n. 8335/1997). Nella fattispecie in esame, successivamente alla stipulazione del preliminare, è intervenuta, come non è contestato e come è stato indicato dalla stessa sentenza impugnata, la concessione in sanatoria, per l’abitazione e quanto al garage era stata presentata domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione ai sensi della legge 326 del 2003, e, pertanto, deve ritenersi che, come era consentito stipulare validamente il contratto definitivo, allo stesso modo poteva essere emessa sentenza che producesse gli effetti di questo ai sensi del citato ad. 2932 c.c.. (Cass. n. 2204 del 30/01/2013; n. 28456 del 19/12/2013;n. 13117, del 28/05/2010 n. 14489 del 2005);
1.1.b) Questa Corte conosce la sentenza n. 23591 del 17 ottobre 2013, la quale interrompendo la continuità dell’orientamento costante espresso nella materia da questa Corte ha affermato il principio secondo cui "il contratto preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è nullo perla comminatoria di cui all’art. 40, secondo comma, della L. 28/02/1985 n. 47 che, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norme imperative".
Tuttavia, questo Collegio, approfondendo ulteriormente la questione, ritiene di dover confermare l’orientamento costante di questa Corte, intanto, perché: l’affermazione di cui alla sentenza indicata, integra gli estremi di un obiter dictum, la situazione esaminata dalla sentenza citata attiene ad un’ipotesi diversa da quella in esame dato che, in quel caso, l’irregolarità urbanistica riguardava un opera abusiva e non risultava fosse stata sanata, comunque, perché non può non esser rilevato che rimane insuperabile l’indicazione letterale di cui all’art. 40, più volte citato, laddove si afferma che la nullità riguarda esclusivamente i contratti ad effetti traslativi e il contratto preliminare è un tipico contratto ad effetti obbligatori. E di più, va ancora ribadito che secondo la normativa in esame, successivamente al contratto preliminare (che è pur sempre un contratto temporaneo), può intervenire la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si atti di immobili costruiti anteriormente al 1 settembre 1967, con la conseguenza che in queste ipotesi - rimane esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita.
Fermo restando il principio che qui si afferma, la nullità del preliminare di vendita avente ad oggetto un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, può, tutt’al più, sostenersi di fronte ad una irregolarità urbanistica grave, come può essere l’assenza di permesso a costruire (o l’equiparata difformità totale), attesa, in ragione del combinato disposto, dagli art. 1346 e 1418 cc., l’impossibilità giuridica dell’oggetto, tale da giustificare legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla conclusione dell’atto definitivo di compravendita.
In definitiva, il ricorso va rigettato e la ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo.
Il Collegio da atto che, ai sensi dell’art. 13 comma I del DPR n. 113 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento in favore di Xx.Xx. , delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.500,00di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge, dichiara la sussistenza delle condizioni per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. del DPR 115 del 2002.
10) COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. ANCHE SE NELL'ATTO DI COMPRAVENDITA È SCRITTO CHE IL
PREZZO È STATO CORRISPOSTO, È POSSIBILE FORNIRE PROVA DEL CONTRARIO
La prova del dolo può acquisirsi mediante testimoni. L'atto pubblico ha efficacia probatoria privilegiata limitatamente ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza, nonché, relativamente alla fonte-provenienza delle dichiarazioni, mentre, non è attestazione di veridicità delle dichiarazioni e di effettiva rispondenza alla intenzione delle parti.
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573
Il Caso. I comproprietari di un immobile vendevano il cespite ad una società che, successivamente, convenivano in giudizio al fine di accertare il dolo della parte acquirente nel corso delle trattative con conseguente richiesta di annullamento del contratto. Spiegava parte attrice che nel contratto si affermava che il prezzo di vendita era stato corrisposto per intero ma, in realtà, le somme dovevano essere corrisposte con un prodotto finanziario consegnato nelle mani dei venditori al momento della stipula con data di scadenza per l'incasso successiva. Tuttavia, il prezzo non era mai stato effettivamente corrisposto.
Il Tribunale, accertato il dolo dell'acquirente, dichiarava la nullità assoluta della transazione e condannava alla restituzione dell'immobile.
La Corte d'appello confermava la sentenza di primo grado e rilevava che, pur essendo scritto nel contratto che il prezzo era stato corrisposto anticipatamente, tempi, natura e importo del prodotto finanziario, lasciavano presumere che effettivamente la somma non era stata versata.
Prova di ciò era stata acquisita anche mediante testimonianza. Parte acquirente ha proposto ricorso per cassazione.
Attività giudiziale e formazione del giudicato. La Cassazione, riportandosi a principio consolidato, ha chiarito che il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della "ragione più liquida", basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti (Cass. Civ. n. 5264/2015). Pertanto, il giudicato si formerà solo e soltanto con riferimento alle questioni oggetto di espressa trattazione-pronuncia giudiziale.
Pagamento del prezzo. I Giudici di legittimità hanno rilevato che il giudice territoriale ha affermato che la veridicità del documento contrattuale (atto pubblico) pur dichiarando non corrispondente a verità la dichiarazione afferente il versamento del prezzo. Sul punto, la S.C. ha ribadito che l'efficacia probatoria privilegiata dell'atto pubblico è limitata ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni,
senza implicare l'intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all'effettiva intenzione delle parti (Cass. 11012/2013). Per vero, oggetto dell'accertamento territoriale, osservano i giudici, non è l'adempimento/inadempimento del prezzo bensì la condotta dolosa perpetrata dall'acquirente in danno dell'attore. Se questa è, come effettivamente è, la materia del contendere, la prova del dolo, contrariamente a quanto affermato da parte convenuta, può essere correttamente fornita mediante testimoni e non incorre nel limite di cui all'art. 2722 c.c.. Con queste argomentazioni la Cassazione ha respinto il ricorso.
Cassazione, sez. II, 5 settembre 2016, n. 17573 (Pres. Matera – Rel. Cosentino)
Svolgimento del processo
Con citazione del 21/11/86 i signori P.R. e P.G. , quest’ultimo anche quale procuratore speciale di R.N. , R.F. , P.P. e P.O. convenivano davanti al tribunale di Lamezia Terme Euromanagement Italia International Selettive Brokers spa (da ora, Euromanagement spa), Reno spa e Previdenza spa in l.c.a. - società tutte collegate tra loro e riferibili al signor S.L. - per sentir annullare il contratto 28/12/81 con il quale essi attori avevano venduto alla Euromanagement spa un edificio di loro proprietà per il prezzo di 200 milioni di Lire.
A fondamento della domanda gli attori deducevano il dolo della parte acquirente, assumendo che il loro consenso sarebbe stata viziato da errore essenziale sull’oggetto del contratto, indotto da un complesso di manovre e raggiri attuati subdolamente dagli agenti del suddetto
S. .
In particolare, per quanto qui ancora interessa, gli attori esponevano che:
- nonostante la fittizia dichiarazione contrattuale secondo cui il prezzo dell’immobile sarebbe stato interamente corrisposto prima della stipula del rogito di trasferimento, essi in realtà avevano accettato, quale corrispettivo della vendita, un certificato di investimento e prelievo automatico di 200 milioni di Lire, con scadenza 4 settembre 1984, loro rimesso dalla Reno spa il 9/1/82;
alla consegna di tale certificato aveva fatto seguito la nota 7/3/84 della Previdenza spa con la quale quest’ultima attestava di aver ricevuto dalla Reno spa l’incarico relativo alla posizione fiduciaria in questione, con il riepilogo delle quote investite dagli attori nella somma di 200 milioni di Lire;
- nonostante le richieste formulate dagli attori secondo le previsioni contrattuali, la Previdenza s.p.a. non ha mai provveduto al rimborso del capitale.
Nel corso del giudizio di primo grado - nel quale la Previdenza spa in l.c.a. si era costituita in persona del commissario liquidatore, professor Xxxxxxx Sarta, mentre non si erano costituite Euromanagement spa e Reno spa - quest’ultime venivano a loro volta poste in liquidazione coatta amministrativa e il contraddittorio veniva integrato nei confronti del loro commissario liquidatore (per entrambe, il medesimo professor Sa. ), il quale si costituiva in giudizio.
Il tribunale di Lamezia Terme accoglieva la domanda degli attori e dichiarava "la nullità assoluta e l’inefficacia" della compravendita 28/12/81 per dolo dell’acquirente, disponendo la restituzione dell’immobile venditori.
La Corte d’appello di Catanzaro, adita con l’impugnativa della Previdenza spa in l.c.a., della Euromanagement spa in l.c.a. e della Reno spa in l.c.a., rigettava i gravami e confermava interamente la sentenza di primo grado.
In primo luogo la Corte territoriale disattendeva il motivo di appello concernente la statuizione di primo grado di rigetto dell’eccezione di prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento contrattuale ex art. 1442 c.c., seguendo però un percorso argomentativo diverso da quello seguito dal primo giudice e censurato dalle appellanti. La Corte infatti giudicava erronea l’affermazione del tribunale secondo cui la notifica della citazione introduttiva alla Previdenza spa in l.c.a. avrebbe interrotto la prescrizione nei confronti della Euromanagement spa in l.c.a., sottolineando come gli attori avessero proposto una domanda di annullamento contrattuale e non una domanda risarcitoria, cosicché il richiamo del primo
giudice all’estensione dell’effetto interruttivo nei confronti dei condebitori solidali di cui all’articolo 1310 c.c. doveva giudicarsi fuori luogo. Essa, tuttavia premesso che la scoperta del dolo, momento di decorrenza del termine di prescrizione, risaliva al 23/9/85, data in cui
P.G. protestò per la prima volta per il mancato versamento delle somme dovutegli - affermava che la prescrizione doveva ritenersi validamente interrotta dalla citazione introduttiva notificata alla Euromanagement spa in bonis. In proposito - precisato che dagli atti risultava che a quest’ultima la citazione introduttiva era stata notificata mediante spedizione del plico a mezzo posta presso la sede di XXXXXX il 12/12/86 e che in atti non vi era traccia di una seconda notifica (apparentemente menzionata nel verbale dell’udienza del giudizio di primo grado del 14/3/90) - la Corte argomentava come non fosse necessario verificare la validità della notifica del 12/12/86, in quanto, non avendo Euromanagement spa in l.c.a. contestato la ricezione della citazione del 1986 da parte della destinataria, non sarebbe stato possibile rilevare di ufficio la questione di un’eventuale invalidità di tale notifica, "sia perché non eccepita dalla parte interessata nella prima difesa successiva alla propria costituzione in giudizio (art. 157 c.p.c.) sia perché non fatta oggetto di motivo di impugnazione, in ottemperanza al principio della conversione delle nullità i motivi di gravame".
In secondo luogo la Corte territoriale dichiarava l’appello inammissibile, per difetto di specificità, nella parte in cui le appellanti si limitavano a rinviare agli assunti difensivi svolti in primo grado, mentre lo rigettava nella parte in cui le appellanti lamentavano l’assenza di prova del mancato pagamento corrispettivo contrattuale. A quest’ultimo riguardo la Corte territoriale affermava che, ancorché nell’atto di compravendita i venditori avessero dato quietanza del pagamento del corrispettivo convenuto, la stretta concomitanza cronologica tra la cessione dell’immobile e l’emissione del certificato di investimento, nonché la perfetta corrispondenza tra la somma indicata nel certificato e quella indicata quale corrispettivo della vendita, ragionevolmente dimostravano che il trasferimento dell’immobile non era stato accompagnato dal versamento del corrispettivo, ma dalla mera assunzione di un debito, attraverso la consegna del documento attestante il transito della somma in un programma di investimento.
Previdenza spa in l.c.a., Euromanagement spa in l.c.a. e Reno spa in l.c.a. ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte catanzarese proponendo quattro motivi di doglianza.
I signori P.G. e P.R. resistono con controricorso.
La sola Euromanagement spa in l.c.a. ha depositato memoria.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza dell’8.3.16, nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione dell’articolo 2909 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non tenendo conto del giudicato interno asseritamente formatosi sulla statuizione del primo giudice, non impugnata con l’appello incidentale degli attori, con la quale - respingendo l’eccezione di prescrizione dell’azione di annullamento del contratto proposta Euromanagement spa in l.c.a. sul presupposto che il relativo decorso era stato interrotto dalla notifica della citazione alla Previdenza spa in l.c.a.
- sarebbe stato implicitamente accertato che tale decorso non era stato interrotto dalla notifica della citazione alla Euromanagement spa in bonis.
Il motivo non può trovare accoglimento perché l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, che la prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c. era stata interrotta, nei confronti della Euromanagement spa, dalla notifica della citazione introduttiva del 1986 alla Previdenza spa in l.c.a. non determina, contrariamente a quanto dedotto nel mezzo di ricorso, la formazione di alcun giudicato implicito sul fatto che la notifica di detta citazione alla stessa Euromanagement spa fosse priva di efficacia interruttiva della prescrizione perché viziata di nullità. Il primo giudice non ha accertato esplicitamente l’invalidità (e quindi la
inidoneità ad interrompere la prescrizione) dalla notifica della citazione introduttiva del 1986 alla Euromanagement spa, né tale accertamento costituisce un antecedente logico necessario dell’affermazione che la notifica della medesima citazione alla Previdenza spa in l.c.a. era idonea ad interrompere la prescrizione anche nei confronti della Euromanagement spa. La tesi dei ricorrenti, secondo cui, in mancanza di appello incidentale degli attori, si sarebbe formato un giudicato implicito sulla invalidità, e quindi sulla inidoneità ad interrompere la prescrizione, della notifica della citazione del 1986 alla Euromanagement spa va quindi disattesa, perché si pone in contrasto con il principio, costantemente affermato da questa Corte (da ultimo Cass. 5264/15), che il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della "ragione più liquida”, basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti.
Né, giova precisare, il motivo di ricorso in esame potrebbe trovare accoglimento alla stregua delle argomentazioni svolte della Euromanagement spa in l.c.a. nella memoria illustrativa depositata ai sensi dell’articolo 378 c.p.c. In tale memoria si lamenta che la Corte di appello, nell’affermare che la notifica della citazione del 1986 nei confronti della Euromanagement spa era idonea ad interrompere la prescrizione dell’azione di annullamento, avrebbe omesso di verificare la validità di tale notifica, sull’erroneo presupposto che l’eventuale nullità della stessa non potesse essere da lei rilevata, perché non rilevabile di ufficio e perché comunque sanata. In proposito il Collegio rileva che dette argomentazioni non si limitano ad illustrare la censura proposta nel mezzo di ricorso in esame - la quale concerne esclusivamente la pretesa violazione dell’articolo 2909 c.c. in cui la Corte distrettuale sarebbe incorsa trascurando il giudicato interno formatosi, secondo le ricorrenti, sulla invalidità della notifica alla Euromanagement spa della citazione del 1986 - ma propongono censure (concernenti l’errore in cui la Corte di appello sarebbe incorsa ritenendosi di poter rilevare la nullità della suddetta notifica in difetto di tempestiva eccezione e di specifica impugnazione al riguardo da parte della Euromanagement spa in l.c.a.) ulteriori e diverse rispetto a quella dispiegata nel ricorso, non ammissibili perché avanzate dopo la scadenza del termine di impugnazione.
Con il secondo motivo di ricorso le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1442 c.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa affermando che la notifica della citazione del 1986 nei confronti della Euromanagement spa era idonea ad interrompere la prescrizione dell’azione di annullamento contrattuale esercitata dagli attori senza tener conto del fatto che il giudice istruttore del tribunale di Lamezia Terme aveva accertato la nullità di tale notifica, come emerge dal rilievo che, appreso che la Euromanagement spa era stata posta in liquidazione coatta amministrativa, esso giudice non aveva dichiarato l’interruzione del giudizio, ma aveva disposto la rinnovazione della notifica della citazione a Euromanagement spa in l.c.a..
Anche questo motivo va disatteso.
Il fatto che il giudice istruttore del tribunale, acquisita contezza dell’intervenuta apertura della liquidazione coatta amministrativa della Euromanagement spa, abbia ordinato il rinnovo della citazione al commissario liquidatore, invece di dichiarare l’interruzione del giudizio, non costituisce di per sé accertamento della declaratoria di nullità della notifica della citazione 1986 alla società in bonis, giacché l’ordine di rinnovo della citazione al commissario liquidatore della società è un provvedimento privo del carattere della decisorietà.
Con il terzo motivo le ricorrenti propongono tre distinte censure - una riferita alla violazione dell’articolo 2700 c.c., una riferita alla violazione dell’articolo 2722 c.c. e una riferita alla violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. - in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa rigettando l’unico motivo d’appello dalla stessa riconosciuto ammissibile, vale a dire quello con cui le appellanti avevano censurato la sentenza di primo grado per avere ritenuto non pagato il corrispettivo della vendita, nonostante che nel contratto i venditori avessero rilasciato quietanza del prezzo. Le ricorrenti assumono:
a) che, a mente dell’articolo 2700 c.c., per rimuovere l’efficacia probatoria della dichiarazione di quietanza rilasciata in contratto sarebbe stata necessaria la querela di falso;
b) che l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, contrariamente a quanto dichiarato in contratto dai venditori, il prezzo dell’immobile non sarebbe stato pagato risulterebbe non supportata da alcuna prova, fondandosi esclusivamente "su tutta una teoria di presunzioni" (pag. 37, secondo cpv., del ricorso), priva di valore probatorio ai sensi degli articoli 2727 e 2729 c.c.;
c) che la prova per presunzioni della non veridicità della dichiarazione di quietanza del pagamento del prezzo dell’immobile sarebbe comunque inammissibile ai sensi dell’articolo 2722 c.c., in quanto contrastante con il contenuto di un documento.
Le suddette censure non possono trovare accoglimento.
Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 2700 c.c., la censura non risulta pertinente alla motivazione della sentenza gravata, giacché in tale sentenza non si nega che i venditori abbiano dichiarato in contratto di aver ricevuto il pagamento del prezzo pattuito, ma si afferma la non corrispondenza al vero di tale dichiarazione. La Corte distrettuale. in altri termini, nega la veridicità non del documento contrattuale, ma della dichiarazione di parte ivi documentata, la quale non è assistita da fede privilegiata, giacché, come questa Corte ha più volte affermato, l’efficacia probatoria privilegiata dell’atto pubblico è limitata ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni, senza implicare l’intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all’effettiva intenzione delle parti (si veda, tra le tante, Cass. n. 11012/13, proprio in tema di efficacia probatoria della dichiarazione contrattuale di versamento del prezzo). Quanto alla dedotta violazione degli articoli 2722 e 2729 c.c., la censura va giudicata inammissibile, perché non individua alcuna specifica violazione del disposto delle norme che si pretendono violate, ma si risolve in una manifestazione di dissenso rispetto all’apprezzamento delle risultanze di causa operato dal giudice di merito, non censurabile in questa sede se non sotto il profilo di cui all’articolo 360 n. 5 c.p.c..
Quanto alla dedotta violazione dell’articolo 2722 c.c., la censura va disattesa perché nel presente giudizio il mancato pagamento del prezzo viene in considerazione non come inadempimento contrattuale, ma come mero fatto storico. La domanda degli attori accolta nella sentenza gravata, infatti, non è né una domanda di adempimento (pagamento del prezzo), né una domanda di risoluzione per inadempimento, bensì una domanda di annullamento per dolo. Tale domanda - con la quale si mette in discussione la validità del contratto sin dalla sua nascita (cfr. Cass. 1573/68) - non implica alcun accertamento in punto di adempimento del contratto di cui si chiede l’annullamento, potendo riguardare egualmente tanto un contratto già completamento adempiuto da entrambe le parti, quanto un contratto rimasto in tutto o in parte inseguito. La circostanza del mancato pagamento del prezzo è quindi assunta dalla Corte di appello come mero fatto dimostrativo del dolo contrattuale della venditrice, con la conseguenza che la relativa dimostrazione processuale non incorre nei limiti di cui all’articolo 2722 c.c. (cfr. Cass. 6346/94, nella cui motivazione si legge: "Conseguentemente, la Corte di merlo ha errato nel ritenere sic et simpliciter che - per contrasto con contenuto dell’atto di compravendita - non potesse essere provata per testimoni e/o per presunzioni... la fittizietà del pagamento del prezzo della compravendita immobiliare... prova, invece, ammissibile... (ma, ovviamente, come mero fatto storico, avente un puro valore indiziario da utilizzare senza affatto rimettere in discussione il trasferimento della proprietà della casa)". Può ancora aggiungersi che, se è vero che nel presente giudizio il trasferimento della proprietà dell’oggetto del contratto viene rimesso in discussione, ciò tuttavia dipende non dal mancato pagamento del prezzo, ma dal dolo della venditrice, di cui il mancato pagamento del prezzo costituisce fatto indiziario, come tale apprezzato nella sentenza gravata e, in quanto tale, suscettibile di essere dimostrato per testi o per presunzioni.
Con il quarto motivo le ricorrenti denunciano la violazione dell’articolo 90 c.p.c. in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa condannando alle spese la Previdenza spa in l.c.a., e la Reno spa in l.c.a, pur avendo riconosciuto la loro estraneità all’azione annullamento contrattuale esercitato dagli attori.
Anche tale motivo va disatteso, perché dalla narrativa di fatto della sentenza gravata, sul cui contenuto non è stata sollevata alcuna contestazione nel ricorso per cassazione, non risulta che la Previdenza spa in l.c.a., e la Reno spa in l.c.a. avessero proposto alla Corte di Catanzaro motivi di appello diversi da quelli, rigettati, proposti dalla Euromanagement spa in
l.c.a. cosicché al rigetto di tali motivi non poteva che conseguire la loro condanna alle spese anche del secondo grado. Né, può aggiungersi, nel ricorso per cassazione si lamenta cha la Corte distrettuale abbia omesso di pronunciarsi su specifiche censure mosse alla sentenza di primo grado dalle suddette società in relazione alla loro legittimazione a resistere alla domanda di annullamento contrattuale proposta dagli attori.
Il ricorso va quindi in definitiva rigettato in relazione a tutti i motivi nei quali esso si articola. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna le ricorrenti a rifondere ai contro ricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.
11) PATTO COMMISSORIO. LA RETROVENDITA È NULLA SE STIPULATA PER CAUSA DI GARANZIA E
NON DI SCAMBIO
La vendita con patto di riscatto o retrovendita, anche se prevede il trasferimento del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia nell’ambito della quale il pagamento del corrispettivo, da parte dell’acquirente, non costituisce versamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serve solo a integrare una causa di garanzia provvisoria, capace di evolversi a seconda che il debitore adempia, o meno, l’obbligo di restituire le somme ricevute.
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075
Muovendo da tali premesse, la Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1075 del 21 gennaio 2016, ha rigettato il ricorso promosso dai venditori di un immobile che avevano tentato di dimostrare la sussistenza di un patto commissorio, sotteso alla compravendita.
I fatti. Nell’anno 1986 due coniugi vendevano il proprio immobile ad una società, riservandosi il godimento del bene, a titolo di comodato gratuito, con accollo di tutte le spese relative alla sua manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, e con diritto di esercitare il riscatto al 31.12.1989, previa restituzione del prezzo rivalutato.
Allo spirare di tale termine, pur non avendo esercitato il diritto di riscatto, la coppia si rifiutava di rilasciare l’appartamento, in conseguenza, l’acquirente si era visto costretto a citarli innanzi al Tribunale civile di Roma, per la declaratoria di cessazione del rapporto di comodato e condanna alla restituzione del bene.
I coniugi si erano opposti eccependo che la vendita era avvenuta al solo fine di garantire la restituzione di un prestito maturato nei confronti del legale rappresentante della società acquirente, che l’immobile aveva un valore commerciale superiore a quello indicato nel rogito, che vi era una contemporanea scrittura chiarificatrice, con la quale le parti avevano convenuto che l’acquirente avrebbe versato la residua parte del prezzo ad altre società, ed a garanzia di cessioni di pagamento, e che varie somme di denaro erano state restituite mediante effetti cambiari e assegni accettati dalla società acquirente, in tempi prossimi alla stipula della compravendita. A parere dei venditori, dunque, la fattispecie presentava tutti gli aspetti di un patto commissorio, conseguentemente nullo.
Il Tribunale rigettava la tesi di parte convenuta e la condannava al rilascio dell'immobile per non aver esercitato, nei termini, il diritto di riscatto.
Anche il giudizio di gravame subiva la medesima sorte, in quanto l’adita Corte d’appello dava atto della mancanza di prova della dedotta esistenza di un patto commissorio.
La vendita con patto di riscatto, o retrovendita. I coniugi hanno interposto ricorso innanzi alla Suprema Corte, lamentando, nell’ordine: a) mancata applicazione dell’art. 2744 c.c. per sussistenza del dedotto patto commissorio, posto che, in tesi, la vendita costituiva la garanzia per la restituzione dei crediti sorti tra le parti; b) mancata applicazione dell’art. 1418 c.c. poiché, dal rogito, il prezzo della compravendita risultava quietanzato mentre dalla scrittura dissimulata emergevano le dilazioni di pagamento; c) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non aver ricondotto le dilazioni di pagamento a patto commissorio, essendo legate ad accadimenti futuri ed incerti.
Gli Ermellini hanno trattato congiuntamente il I ed il III motivo, ritenendoli tra loro connessi ed entrambi infondati.
Premettendo che il divieto di patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c. si estende a qualsiasi negozio, ancorchè astrattamente lecito, hanno chiarito che la vendita con patto di riscatto, o retrovendita, è nulla se stipulata per una causa di garanzia, pur se prevede il trasferimento del bene.
Infatti, se il versamento del denaro non costituisce pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serve solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi a seconda che il debitore adempia, o meno, l’obbligo di restituire le somme ricevute, la vendita è caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissorio ed esprime, dunque, una causa illecita che rende applicabile la sanzione dell’art. 1344 c.c..
Esclusione del patto compromissorio. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di legittimità ha ritenuto corretta l’esclusione del patto commissorio applicata dalla Corte d’appello, poiché l’operazione non era finalizzata ad uno scopo di garanzia.
Invero, il debito dei venditori nei confronti dell’acquirente era precedente alla compravendita e parte del prezzo era stata utilizzata per il ripianamento dei debiti precedenti verso terzi e verso l’acquirente, in proprio, per modo che il contratto non poteva avere avuto lo scopo di garanzia della restituzione del mutuo, ma quello di fornire ai venditori la provvista per estinguere i debiti scaduti.
Quanto ai debiti non ancora esigibili alla data del rogito, trattavasi di rapporti verso società terze, la cui rateizzazione mensile dimostrava una delegazione di pagamento da parte del debitor debitoris, piuttosto che un finanziamento diretto della società acquirente.
In definitiva non era emersa la prova della connessione dei vari rapporti finalizzati al comune scopo di garanzia, pertanto, la decisione della Corte territoriale di merito è risultata immune da vizi logici e, nel merito, non sindacabile in sede di legittimità.
Il secondo motivo di diritto, invece, è stato giudicato inammissibile, ponendo una questione che non risultava dedotta in appello.
Per tutte le sopra esposte ragioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso formulato dai coniugi, condannandoli al pagamento delle spese di lite.
Cassazione, sez. II Civile, 21 gennaio 2016, n. 1075 (Pres. Piccialli – Rel. Matera)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato la P.O.F. s.r.l. esponeva di avere acquistato il 29- 1-1986 un appartamento in Roma, via (omissis) , del quale i venditori F.M. e R.S. avevano mantenuto il godimento, a titolo di comodato gratuito, con accollo di tutte le spese di riparazione e di manutenzione ordinaria e straordinaria, sino al 31-12-1989, e con riserva del diritto di esercitare a tale data il diritto di riscatto dell'immobile, previa restituzione del prezzo rivalutato secondo indici ISTAT e rimborso delle spese inerenti al contratto di vendita. L'attrice assumeva che, al termine previsto, il diritto di riscatto non era stato esercitato, il prezzo della compravendita non era stato restituito e ciò nonostante i venditori si erano rifiutati di consegnarle l'immobile a seguito del formale invito comunicato il 31-12-1990.
Tanto premesso, essa chiedeva dichiararsi l'avvenuta scadenza del termine pattuito senza che fosse stato esercitato il diritto di riscatto e la cessazione del rapporto di comodato, con ordine ai convenuti di rilascio dell'immobile e condanna degli stessi al risarcimento del danno per l'illegittima detenzione del bene.
Nel costituirsi, i convenuti eccepivano che la compravendita del suddetto immobile era avvenuta all'esclusivo fine di garantire la restituzione di un debito di lire 135.000.000 maturato nei confronti di Xx.Xx. per forniture di materiale e attrezzature strumentali all'attività didattica da essi esercitata; che l'immobile aveva un valore di mercato ben superiore al prezzo di vendita indicato nel contratto; che con una contemporanea scrittura di chiarimento era stato altresì convenuto che l'acquirente P.O.F. avrebbe versato la residua
parte del prezzo pattuito (lire 42.940.536) ad altre società controllate dal Po. ed a garanzia di cessioni di pagamento versate da F. ; che varie somme di danaro erano state restituite mediante effetti cambiari e assegni accettati con le firme autentiche degli amministratori della P.O.F., Xx.Xx. in tempi prossimi alla stipulazione della compravendita e G.M. successivamente. Nel sostenere, pertanto, che la fattispecie presentava tutti gli aspetti di un patto commissorio, i convenuti chiedevano che venisse dichiarata la nullità dell'atto di compravendita per difetto di causa, con conseguente rigetto della domanda attrice e condanna della società istante alla restituzione delle maggiori somme versate dai convenuti rispetto a quelle ricevute in mutuo, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria.
Con sentenza in data 25-6-2004 il Tribunale di Roma condannava i convenuti al rilascio dell'immobile in favore dell'attrice, dichiarando il mancato esercizio del diritto di riscatto e la cessazione del comodato; rigettava, invece, ogni altra domanda.
Avverso la predetta decisione proponevano appello i convenuti.
Con sentenza in data 25-2-2010 la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame, dando atto della mancanza di prova della dedotta esistenza di un patto commissorio.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso F.M. e R.S. , sulla base di tre motivi.
La P.O.F. s.r.l. ha resistito con controricorso e in prossimità dell’udienza ha depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando l'erronea interpretazione e la mancata applicazione dell'art. 2744 c.c., deducono che, alla luce dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza, nella specie deve ritenersi la sussistenza del dedotto patto commissorio. Dalla documentazione acquisita, infatti, si evince chiaramente che le somme considerate come prezzo della vendita costituivano, in realtà, una serie di prestiti, effettuati da Xx.Xx. (anche per mezzo di società a lui riconducibili) al F. , e successivamente restituiti a mezzo assegni e titoli cambiari da quest'ultimo e dalla sua società (Cisat Italia) al Po. . La vendita, pertanto, costituiva la garanzia per la restituzione dei crediti; tanto che il F. veniva lasciato nella piena disponibilità dell'immobile, a dimostrazione del fatto che al Po. (ergo, alla P.O.F.) nulla interessava dell'immobile, essendo la causa negoziale la restituzione dei debiti e non la compravendita.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano l'erronea interpretazione e la mancata applicazione dell'art. 1418 c.c..
Deducono che, mentre nell'art. 2 del contratto di compravendita il prezzo, indicato in lire 190.0000.000, viene dichiarato "completamente quietanzato" alla data del rogito, viceversa la scrittura di chiarimento evidenzia che ciò non è, in quanto, oltre a condizionare il pagamento di una quota parte del prezzo ad eventi futuri e incerti, rateizza il residuo importo di lire
52.940.536 in una prima rata di lire 10.000.000 e in successive rate mensili di lire 5.000.000 ciascuna. Sostengono che tale discrasia rende nullo il contratto, destituendo di verità la dichiarazione di quietanza e dimostrando, quindi, che il contratto non si è mai perfezionato. Con il terzo motivo, articolato in due censure, i ricorrenti lamentano l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. In primo luogo (3.1.), sostengono che la Corte di Appello ha erroneamente interpretato le somme contenute nella scrittura di chiarimento come imputabili ad un prezzo per intero definito e quietanzato, e di conseguenza estranee ad un patto commissorio.
Affermano, infatti, che alcune voci imputate costituiscono un accadimento futuro e incerto. Le stesse, pertanto, non potevano costituire semplici rate di pagamento, e il giudice di merito non poteva attribuire ad esse il semplice valore di delegazione di pagamento. In secondo luogo (3.2.), i ricorrenti deducono che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, il comodato concesso ai simulati alienanti costituisce indice evidente dello scopo di garanzia perseguito dalle parti.
2) Il primo e il terzo motivo, che per ragioni di connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il divieto del patto commissorio, sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall'ordinamento, di assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito (v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437; Cass. 11-6-2007 n. 13621; Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2, 20-7-1999 n. 7740).
In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissorio, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art. 1344 c.c. (Cass. 4-3-1996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900; Cass. 8-2-2007 n. 2725).
E stato rilevato, al contrario, che va esclusa la violazione del divieto del patto commissorio in caso di mancanza di prova del mutuo (cfr. Cass. 5635/05), oppure qualora la vendita sia pattuita allo scopo, non già di garantire l'adempimento di un'obbligazione con riguardo all'eventualità non ancora verificatasi che rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto (cfr. Cass. 19950/04, Cass. 7885/01), o quando manchi l'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito che viene a contrarre (cfr. Cass. 8411/03); e che il divieto di tale patto non è applicabile allorquando la titolarità del bene passi all'acquirente con l'obbligo di ritrasferimento al venditore se costui provvederà all'esatto adempimento (Cass. 17-3-10/4 n. 6175).
Nel caso in esame, la Corte territoriale, nel ritenere che, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, non erano configurabili gli estremi di un patto commissorio, non si è discostata dagli enunciati principi di diritto, avendo escluso che l'operazione fosse finalizzata ad uno scopo di garanzia.
La sentenza impugnata, infatti, nel premettere che il contratto di compravendita è stato stipulato dagli appellanti con la società acquirente P.O.F., allorché già sussisteva il debito dei venditori verso Xx.Xx. (che, all'epoca, era amministratore unico della società acquirente), ha accertato che il prezzo di compravendita di lire 190.000.000 è stato pagato in parte (lire 137.059.464) mediante il ripianamento di debiti precedenti verso terzi e verso il Po. in proprio, di modo che, per il relativo ammontare, il contratto di compravendita non poteva avere avuto lo scopo di garanzia della restituzione del mutuo, ma quello di fornire ai venditori la provvista per estinguere i debiti scaduti. Quanto ai debiti non ancora esigibili alla data del contratto di vendita (21-6-1986), il giudice del gravame ha rilevato che si trattava di debiti verso terze società, e che la rateizzazione mensile del prezzo residuo, eventualmente da versare alle società creditrici, prevista nel contratto di vendita, dimostrava una delegazione di pagamento di tali preesistenti obbligazioni da parte del debitor debitoris, piuttosto che un finanziamento diretto della società acquirente P.O.F. in favore dei venditori. Secondo la Corte territoriale, infatti, non risulta provato alcun collegamento o preordinazione negoziale tra la società acquirente e le società creditrici del F. , né vi è prova dell'asserita sproporzione tra il prezzo pattuito e il valore di mercato del bene alienato.
In definitiva, secondo il giudice di appello, non vi è alcuna prova che i vari rapporti negoziali siano stati concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, in modo da risultare idonei al raggiungimento di un comune scopo di garanzia.
Con l'ulteriore rilievo che, nel complessivo equilibrio dei contrapposti interessi, la concessione in comodato gratuito dell'appartamento ai venditori, per un periodo di tre anni sino alla data dell'eventuale esercizio del diritto di riscatto, costituisce il naturale completamento della definizione economica del corrispettivo di vendita e il contrappeso della rateizzazione del residuo prezzo dovuto dalla controparte.
La valutazione espressa al riguardo dal giudice di appello costituisce espressione di un apprezzamento in fatto che, in quanto sorretto da una motivazione immune da vizi logici, si sottrae al sindacato di questa Corte.
E, in realtà, con i motivi in esame, i ricorrenti propongono sostanziali censure di merito, basate su una ricostruzione della vicenda diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata. In tal modo, peraltro, si sollecita a questa Corte una diversa valutazione in fatto delle emergenze processuali, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. L'accertamento della effettiva volontà delle parti e della concreta portata degli atti dalle stesse posti in essere, infatti, è compito esclusivo del giudice di merito, che nella specie ha fondato il proprio giudizio su argomentazioni immuni da vizi logici.
3) Il secondo motivo è inammissibile, ponendo una questione che non risulta dedotta in appello e che, implicando la necessità di indagini di fatto, non può essere prospettata per la prima volta in questa sede.
Il motivo, inoltre, difetta di autosufficienza, non trascrivendo, per la parte che qui rileva, l'esatto contenuto della clausola contrattuale e della scrittura di chiarimento.
4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dalla resistente nel presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
12) IL CONTRATTO ESTIMATORIO È UN CONTRATTO REALE, IL VINCOLO SORGE CON LA
CONSEGNA DELLA MERCE
Elemento essenziale del contratto estimatorio è l'accordo in ragione del quale una parte consegna all'altra una certa quantità di beni mobili con l'intesa che il ricevente potrà acquistare e pagare la merce o restituirla materialmente. L'individuazione del termine di restituzione/pagamento non è essenziale a qualificare l'intesa come contratto estimatorio come anche non è essenziale la predeterminazione del prezzo di restituzione.
Cassazione, sez. III, 21 dicembre 2015, n. 25606
Il caso. Un operatore commerciale otteneva da un fornitore una certa quantità di beni mobili in ragione di contratto estimatorio. Il fornitore, rilevata la mancata restituzione dei beni, chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo per importo corrispondente. Il convenuto si difendeva rilevando l'inesistenza del contratto estimatorio e precisando che aveva acquisito il possesso della merce al solo fine di ricercare, nell'interesse del fornitore, partner commerciali.
Il Tribunale accoglieva la difesa di parte convenuta e revocava il decreto ingiuntivo. Il giudice osservava che il rapporto non poteva essere ricondotto alla fattispecie del contratto estimatorio, non risultava pattuito tra le parti alcun termine per la restituzione e, parte della merce, in conformità a quanto dichiarato dal convenuto, risultava ordinata dallo stesso ma inviata direttamente a terze parti.
La Corte d'appello riformava la decisione del Tribunale e condannava il convenuto a pagare in favore dell'attore una somma pari al valore della merce consegnata e mai restituita e/o pagata al fornitore.
Parte convenuta ha proposto ricorso per cassazione.
Elemento essenziale e caratterizzante del contratto estimatorio. La Corte d'appello ha chiarito che l'elemento essenziale del contratto estimatorio è l'accordo in ragione del quale una parte consegna all'altra una certa quantità di beni mobili con l'intesa che il ricevente potrà acquistare e pagare la merce o restituirla materialmente. L'individuazione del termine di restituzione/pagamento non è essenziale a qualificare l'intesa come contratto estimatorio, dunque, la sua assenza non determina la nullità della fattispecie contrattuale. Il giudice di merito, in assenza di atto scritto, ha correttamente dedotto l'esistenza del contratto estimatorio a seguito di accertamento giudiziale fondato sulla corrispondenza intercorsa tra le parti (in cui si parlava espressamente di contratto estimatorio) nonché dai documenti di trasporto (in cui si faceva riferimento a contratto estimatorio).
Il contratto estimatorio non trasferisce il diritto di proprietà dei beni. Il contratto estimatorio è un contratto reale, dunque il vincolo nasce con la consegna della merce, ma con il trasferimento dei beni non si trasferisce il diritto di proprietà che resta in capo al cedente. Chi riceve la merce materialmente non ne diventa proprietario. Il contratto estimatorio regolamenta l'interesse del cedente di vendere la propria merce a più soggetti a fronte dell'interesse del ricevente di ricavare un profitto dalla "intermediazione" e, in caso di mancata vendita, decidere se restituire i beni o acquistarli.