SISTEMI DI INQUADRAMENTO, RETRIBUZIONE C.D. SKILL-BASED E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola di Alta formazione Dottorale
Corso di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro Ciclo XXX
Settore scientifico disciplinare IUS 07
SISTEMI DI INQUADRAMENTO, RETRIBUZIONE C.D. SKILL-BASED E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Supervisore:
Chiar.mo dott. Paolo Tomassetti
Tesi di Dottorato Davide MOSCA Matricola n. 1036192
Anno Accademico 2016/17
“Well, then, says I, what’s the use you learning to do right when it’s troublesome to do right and ain’t no trouble to do wrong,
and the wage is just the same?”
Huckleberry Finn, in Adventures of Huckleberry Finn
Mark Twain, 1884
INDICE
CAPITOLO I
Posizione del problema e metodologia della ricerca
1. Retribuzione e competenze nel mondo del lavoro che cambia… 11
2. Definizione delle domande di ricerca… 19
3. Profili metodologici 21
3.1. Indagine su 50 modelli di classificazione del personale. Nota metodologica al Cap. III 21
3.2. Retribuzione c.d. skill-based e ruolo della contrattazione aziendale nella valorizzazione delle competenze. Nota metodologica al Cap. IV 28
4. Struttura della ricerca… 32
CAPITOLO II
Modelli di classificazione e valorizzazione economica delle competenze: framework teorico
Introduzione 34
1. Retribuzione e professionalità… 38
1.1. La retribuzione nella Costituzione… 38
1.1.1. La natura dell’art. 36 Cost… 38
1.1.2. I requisiti della retribuzione… 40
1.1.2.1. Segue: Professionalità e requisito di proporzionalità della retribuzione 41
1.1.2.2. Segue: Professionalità e requisito di sufficienza della retribuzione 42
1.2. Retribuzione e professionalità nella contrattazione collettiva 43
1.2.1. Retribuzione e professionalità nel rapporto di lavoro… 45
1.2.2. La valorizzazione economica delle competenze nella contrattazione collettiva decentrata… 46
1.3. Le implicazioni dei minimi salariali e del salario minimo legale su formazione e professionalità. 49
2. Inquadramento e retribuzione 52
2.1. Il sistema di inquadramento quale elemento incidente sulla retribuzione e sulla professionalità dei lavoratori… 52
2.1.1. Evoluzione e lineamenti dei sistemi di inquadramento… 52
2.1.1.1. Il sistema inquadramentale corporativo… 52
2.1.1.2. La prospettiva della job evaluation 54
2.1.1.3. Le origini del sistema di inquadramento unificato… 55
2.1.1.4. La crisi del sistema unificato di inquadramento… 58
2.1.1.5. I sistemi board banding e le evoluzioni più recenti nei sistemi di inquadramento… 60
2.2. La professionalità nel mercato del lavoro che cambia 63
2.2.1. La polarizzazione nel mercato del lavoro… 64
2.2.2. Lo sviluppo delle nuove competenze 65
2.3. Nuovi sistemi di inquadramento e retribuzione per la valorizzazione delle professionalità… 69
2.3.1. Le proposte di allineamento tra salari e professionalità… 71
3. I sistemi retributivi per la valorizzazione delle performance e delle competenze dei lavoratori 74
3.1. I sistemi retributivi incentivanti e legati alle performance 74
3.2. Modelli e indicatori dei sistemi retributivi incentivanti 76
3.2.1. Segue: I sistemi gain-sharing e profit-sharing. Cenni 77
3.2.2. Segue: I sistemi retributivi skill-based 79
3.3. Effetti, fattori di efficacia e ruolo della contrattazione collettiva nei sistemi retributivi incentivanti 81
3.3.1. Segue: Incrementi salariali a livello di azienda e “effetto produttivo” nella Teoria dei salari di efficienza. Cenni 86
3.3.2. Segue: Gli effetti dei sistemi incentivanti su produttività e forza lavoro 88
3.3.3. Segue: Implicazioni ed efficacia dei sistemi retributivi basati sulle competenze dei lavoratori… 92
3.3.4. Segue: La Teoria dell’equità organizzativa nei sistemi di valutazione delle performance e il coinvolgimento delle maestranze 95
3.4. Valutazione delle performance e fattori motivazionali 98
CAPITOLO III
Sistemi di inquadramento e competenze.
Indagine su 50 modelli di classificazione del personale.
SEZIONE I
Parte descrittiva
1. Introduzione al sistema di inquadramento unico dei lavoratori e alla descrizione di 50 modelli di classificazione del personale 100
1.1. Le prospettive di riforma e l’istituzione di commissioni sull’inquadramento 102
2. Orientamento classificatorio e salariale 104
2.1. Orientamento verticale… 105
2.2. Orientamento orizzontale 107
2.3. Orientamento misto… 111
3. Le scale parametriche 113
4. Automatismi promozionali e retributivi… 118
4.1. Passaggi di livello in base all’anzianità di servizio o per titoli… 118
4.2. Gli automatismi retributivi 122
4.3. Tentativi di riforma e aggiustamento in materia di automatismi 124
SEZIONE II
Analisi e discussione dei risultati
1. Evidenze dall’analisi su 50 sistemi di inquadramento… 126
1.1. Effetti e implicazioni dell’orientamento classificatorio… 126
1.2. Effetti e implicazioni delle scale parametriche 128
1.3. Effetti e implicazioni degli automatismi promozionali e retributivi 130
1.4. Una distinzione tra settori labour intensive e capital intensive alla luce dei sistemi di inquadramento 133
1.4.1. Analisi della distinzione settoriale 135
2. Motivi della staticità o riforma dei modelli di inquadramento del personale 137
2.1. Motivazioni di ordine strutturale e socioeconomico… 138
2.1.1. Discrezionalità datoriale e controllo sul costo del lavoro… 138
2.1.2. Fisionomia e caratteristiche del settore economico… 140
2.2. Motivazioni di ordine istituzionale 142
CAPITOLO IV
Retribuzione c.d. skill-based e ruolo della contrattazione aziendale nella valorizzazione delle competenze
SEZIONE I
Definizione di un modello ideal-tipico di sistema retributivo legato alle competenze dei lavoratori
1. Costruzione e definizione di un modello ideal-tipico di sistema retributivo correlato alle competenze dei lavoratori: i fattori qualificanti 145
SEZIONE II
Descrizione dei casi studio
1. Descrizione di sei sistemi retributivi c.d. skill-based 149
1.1. Il caso Manfrotto… 149
1.2. Il caso Nuovo Trasporto Viaggiatori (NTV) 152
1.3. Il caso Santander Consumer Bank… 155
1.4. Il caso Setten Genesio… 159
1.5. Il caso TenarisDalmine… 162
1.6. Il caso Tesmec 165
2. Comparazione descrittiva tra i sei sistemi di valutazione delle competenze 167
SEZIONE III
Analisi e discussione dei risultati
1. Contributo del sindacato alla qualità regolativa dei sistemi retributivi c.d. skill- based 171
CAPITOLO V
Conclusioni della ricerca
1. La valorizzazione delle competenze tra la staticità dei sistemi di inquadramento e i tentativi di aggiustamento della contrattazione aziendale 177
1.1. Le motivazioni dell’immobilismo dei sistemi di inquadramento del personale 177
1.1.1. Sullo sfondo: il contesto culturale del sistema di relazioni industriali 179
1.2. Il tour de force della contrattazione collettiva aziendale 181
2. Opportunità e implicazioni di una correlazione tra retribuzione e competenze dei lavoratori 182
3. Riforma dei sistemi di inquadramento e traiettorie evolutive: una proposta 187
Bibliografia… 198
Allegato 1. Tabella - Struttura e fisionomia di cinquanta sistemi classificatori 215
CAPITOLO I
Posizione del problema e metodologia della ricerca
Sommario: 1. Retribuzione e competenze nel mondo del lavoro che cambia. – 2. Definizione delle domande di ricerca. – 3. Profili metodologici. – 3.1. Indagine su 50 modelli di classificazione del personale. Nota metodologica al Cap. III. – 3.2. Retribuzione c.d. skill-based e ruolo della contrattazione aziendale nella valorizzazione delle competenze. Nota metodologica al Cap. IV. – 4. Struttura della ricerca.
1. Retribuzione e competenze nel mondo del lavoro che cambia.
La necessità delle imprese di stare sul mercato attraverso un’elevata qualità del prodotto, oggi sempre più soggetto a dinamiche di personalizzazione, si accompagna all’affermarsi di un lavoratore creativo, polifunzionale e multi-tasking (1). Nell’economia della conoscenza al lavoratore è richiesto di essere flessibile, dinamico, adattabile, polifunzionale. La stessa organizzazione economica e del lavoro richiederebbe, conseguentemente, un rapido ripensamento, calibrato su una competitività determinata non tanto dal prezzo, quanto piuttosto dalla qualità e, quindi, da un rilevante input di capacità professionali (2). Presupposto questo che fa da pendant al tema, di stretta attualità, della produttività del lavoro, che in Italia è ferma dai primi anni Novanta: se un lavoratore produce più di un altro è verosimile supporre che costui produca di più perché più svelto, perché spendibile sulla posizione lavorativa, perché più capace di risolvere i problemi, o ancora perché più partecipe alle scelte organizzative. In altri termini, aumentare la produttività significherebbe favorire l’espletamento delle competenze e valorizzare le stesse, realizzando, in tal modo, un
(1) Così NACAMULLI R., Professionalità e organizzazione, in NAPOLI M., a cura di, La professionalità, V&P Università, Milano, 2004, pagg. 63 e ss..
(2) Si veda MAGNANI M., Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, fasc. 101, n. 1, 2004, pagg. 165-201.
rapporto positivo tra qualità e produttività del lavoro (3).
Questa tendenza sembra destinata ad accentuarsi nel prossimo futuro, con l’affermarsi della c.d. Industry 4.0, termine che è oggi largamente utilizzato per indicare il recente fenomeno di interconnessione dinamica e circolare tra internet, macchine e persone, insito «tanto nei processi di produzione industriali manifatturieri quanto nei mercati dei prodotti e dei servizi, derivante dalla capillare diffusione di internet e dalla conseguente interconnessione tra dimensione reale/materiale e dimensione digitale/immateriale» (4). Si tratta di una novità dai contorni e dagli impatti ancora imprevedibili, risultante nel complesso da diverse innovazioni, tra le quali «l’addictive manufacturing, la robotica avanzata, l’analisi dei big data, i Cyber-Physics Systems», e cioè «tecnologie la cui applicazione implica una cesura con il passato qualitativamente sufficiente a individuare una Quarta rivoluzione industriale in atto» (5).
Se si volge lo sguardo al mercato del lavoro e all’aspetto della conformazione occupazionale, in effetti, è verosimile supporre che Industry 4.0 apra alla prospettiva della figura di un lavoratore nuovo, che deve operare autonomamente per progetti e risultati, invece che per procedure, ed essere così valorizzato per il proprio apporto al lavoro e alla produzione. Coerentemente, ed in prospettiva, i lavoratori sarebbero assegnati a compiti sempre meno predefiniti e sempre più basati su ruoli da interpretare, con carriere declinate più orizzontalmente che verticalmente, oltre che con prestazioni dai contenuti cooperativi anziché esecutivi (6). Il lavoratore diventerebbe dunque parte integrante del sistema azienda, per cui esso dovrebbe saper districarsi in ambienti più complessi, saper fronteggiare elementi di complessità con visione di intervento, saper gestire le continue innovazioni, saper lavorare in team e, nondimeno, essere in grado di
(3) Cfr. D’ONGHIA M., Un itinerario sulla qualità del lavoro, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, vol. 1, n. 2, 2009, pagg. 257-298.
(4) In tali termini TIRABOSCHI M., SEGHEZZI F., Il Piano nazionale Industria 4.0: una lettura lavoristica, in Labour & Law Issues, vol. 2, n. 2, 2016, pag. 4.
(5) Così SEGHEZZI F., Lavoro e relazioni industriali nell’Industry 4.0, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 1, 2016, pagg. 178 e ss..
(6) Cfr. LEONI R., Gli inquadramenti professionali tra modelli organizzativi, job design e contenuti del lavoro, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 3, 2005, pagg. 107-122. Per una lettura giuslavoristica, si rimanda invece nuovamente a MAGNANI M., op. cit..
individuare e risolvere celermente i problemi (7).
Da questo punto di vista, l’ascesa di Industry 4.0 è concatenata, quasi in un processo di causa ed effetto, al processo di polarizzazione del mercato del lavoro (8), in primis con riferimento a quei settori ove più hanno attecchito la manifattura digitale e l’automazione della produzione. Alla riduzione delle mansioni routinarie, invero, fa da contraltare l’affermazione delle specializzazioni (9). Le competenze strettamente tecniche e cognitive, sempre più necessarie per svolgere attività non routinarie, secondo tale ricostruzione, dovrebbero presumibilmente essere affiancate da competenze non cognitive e trasversali (ad esempio, la predisposizione all’ascolto, la polivalenza e la polifunzionalità, la capacità di risolvere i problemi, ecc.) (10).
Confluisce in questo scenario, o meglio in questo nuovo modo di lavorare e fare impresa, la figura del ricercatore, e quindi del lavoro di ricerca (11). Candidata a replicare la tendenza che negli anni Ottanta portò all’introduzione nei sistemi classificatori della categoria dei quadri, la figura del ricercatore può costituire il punto di congiunzione tra innovazione tecnologica e sistemi produttivi intelligenti, da un lato, e
(7) In tali termini, ad esempio, SEGHEZZI F., op. cit., pagg. 178-209, e DELL’ARINGA C., Professionalità e approccio economico, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., pagg. 95 e ss.. Negli anni Novanta, in questo senso già KERN H., SCHUMANN M., La fine della divisione del lavoro? Produzione industriale e razionalizzazione, Einaudi, Torino, 1991.
(8) Sul fenomeno della polarizzazione del mercato del lavoro, si veda ad esempio WRIGHT E. O., DWYER R. E., The patterns of job expansions in the USA: a comparison of the 1960s and 1990s, in Socio Economic Review, n. 1, 2003, pagg. 289-325.
(9) Tra gli studi più autorevoli si segnalano AUTOR D. H., KATZ L. F., KEARNEY, M. S., The polarization of the U.S. labour market, in The American Economic Review, vol. 96, n. 2, 2006, pagg. 189- 194; ACEMOGLU D., AUTOR D., Skills, Tasks and Technologies: Implications for Employment and Earnings, in Handbook of LaborEconomics, 2011, vol. 4, B, pagg. 1044-1171; e, da ultimo, AUTOR D. H., DORN D., The growth of low-skill service jobs and the polarization of the US labor market, in The American Economic Review, n. 5, 2013, pagg. 1553-1597. Ancor più recentemente, ARNTZ M., GREGORY T., ZIERAHN U., The risk of automation for jobs in OECD countries: a comparative analysis, in OECD Social, Employment and Migration Working Papers, OECD Publishing, n. 189, 2016, e CORTES G. D., JAIMOVICH N., SIU H. E., Disappearing routine jobs: who, how, and why?, NBER Working Paper, n. 22918, 2016.
(10) La distinzione tra competenze cognitive e non cognitive, in particolare, è mutuata da ACEMOGLU D., AUTOR D., op. cit.. In aggiunta, si veda ancora SEGHEZZI F., op. cit., pag. 189.
(11) Sul lavoro di ricerca, il contributo più recente e rilevante è rinvenibile in TIRABOSCHI M., L’inquadramento giuridico del lavoro di ricerca in azienda e nel settore privato: problematiche attuali e prospettive future, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 4, 2016, pagg. 933-993.
impresa, dall’altro (12). In forza di questa tendenza, il ricercatore potrebbe addirittura esemplificare la figura emergente del lavoratore creativo, spinta, come detto, dai processi di automazione della produzione e da Industry 4.0, potrebbe cioè coprire il vuoto lasciato dallo sgretolamento delle attività più routinarie e ripetitive e, giocoforza, pretendere un riconoscimento in sede di classificazione del personale.
In un mercato del lavoro con questi connotati, investire sulle competenze potrebbe divenire fondamentale, per cui si renderebbe necessario misurare le capacità espresse e acquisite dal lavoratore, entro una struttura classificatoria flessibile, orientata al riconoscimento e alla compensazione della professionalità. Ai lavoratori spetterebbe allora la possibilità di mutare mansione e svolgere più compiti autonomamente (13). La classificazione dei lavoratori, secondo tale prospettiva, sarebbe determinata non già dalle mansioni assegnate al lavoratore, quanto piuttosto dalle competenze possedute e esplicate, misurate e rilevate secondo appositi schemi valutativi, incentivando un modello di gestione delle risorse umane c.d. competence oriented (14).
Allo stato attuale il sistema di inquadramento unico dei lavoratori, istituto complementare al sistema retributivo (15) e concorrente nella determinazione del valore dello scambio con riferimento a prestazioni lavorative poste su livelli gerarchicamente differenti (16), costituisce una zavorra sistemica incubatrice del distacco tra professionalità e retribuzione (17). Mentre infatti negli anni Sessanta e Settanta le istanze
(12) Ciò secondo uno schema che ben combacia con la descrizione della società post-industriale tracciata in MORETTI E., La nuova geografia del lavoro, Mondadori, Milano, 2013.
(13) Sul punto, e di tale avviso, più Autori. In particolare, si segnalano CARABELLI U., Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, fasc. 101, 2004, pagg. 1 e ss.; D’ONGHIA M., op. cit.; e LEONI R., op. cit..
(14) Cfr. MAGNANI M., op. cit..
(15) Di tale avviso GIUGNI G., Intervento in Mansioni e qualifiche. Evoluzione e crisi dei criteri tradizionali, in AIDLASS, Atti delle giornate di studio di Pisa, 1973, e ZILIO GRANDI G., La retribuzione. Fonti, struttura, funzioni, Jovene editore, Napoli, 1996, pagg. 87 e ss..
(16) Così GUARRIELLO F., Organizzazione del lavoro e riforma dei sistemi di inquadramento, in
Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 3, 2005, pag. 52.
(17) Sul punto ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 87 e ss., e, più di recente, TIRABOSCHI M., Salari e professionalità: cosa dicono i contratti collettivi?, in Contratti & Contrattazione Collettiva, n. 5, maggio 2016, pag. 4. Si veda altresì VIVIANI F., FANELLI L., Il ruolo dei sistemi di risorse umane tra istanze di produttività e contrattazione collettiva, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 3, 2009, pagg. 703-714.
collettive e solidaristiche della classe dei lavoratori (18), combinate con l’avvento della
c.d. “Terza rivoluzione industriale” (19), avevano spinto all’introduzione dell’inquadramento unificato del personale, a partire dall’esperienza dei metalmeccanici, le trasformazioni odierne nel mercato del lavoro sembrano gettare una nuova luce sulla materia, rendendo evidente la rigidità del modello classificatorio e, giocoforza, salariale. Esemplificative in tal senso le affermazioni di Gino Giugni negli anni Novanta, quando, già incalzato circa la presunta obsolescenza dell’operaio-massa e la scomparsa del retroterra ideologico delle organizzazioni sindacali, rispondeva:
«Allora, l’operaio-massa era la realtà. Da ciò discendeva una visione fortemente egualitaria: era quasi inevitabilmente discriminatorio un trattamento differenziato nei confronti dell’operaio cosiddetto “taylorista”. Oggi le condizioni di lavoro sono diverse così come lo è l’organizzazione, molto più incentrata su aspetti diversi, di individualizzazione del lavoro. Quello che prima era offuscato dall’idea di fondo dell’operaio-massa riprende una sua funzione anche nel diritto del lavoro, che resta garanzia dell’uguaglianza delle opportunità» (20).
Tale ragionamento acquisisce altresì rilievo giuridico dal momento in cui, riconoscendo le implicazioni della prestazione lavorativa con le attitudini professionali, si identifica la professionalità del lavoratore quale «vero oggetto del contratto» (21). In forza di tale ricostruzione dottrinale, il rapporto di lavoro, arricchito dall’elemento formativo, «più che un dispiego di energie fisiche e psichiche è esplicazione di professionalità, cioè di
(18) Cfr. CELLA G. P., Divisione del lavoro e iniziativa operaia, De Donato, Bari, 1972, pagg. 139 e ss.; BACCARO L., LOCKE R. M., The end of solidarity? The decline of egalitarian wage policies in Italy and Sweden, in European Journal of Industrial Relations, vol. 4, n. 3, 1998, pagg. 283-308; nonché MARAZZA M., La crisi dell’egualitarismo sessantottino nella società del lavoro borghese: la subordinazione attenuata dell’epoca postindustriale, in Argomenti di Diritto del Lavoro, n. 4-5, 2007, pagg. 928-942.
(19) In tema si veda ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 87 e ss., oltre a CARINCI F., Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in AIDLASS, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro. Atti dell’VIII Congresso, 1985, e GALANTINO L., I riflessi dell’innovazione tecnologica sull’inquadramento professionale e sulla struttura retributiva dei lavoratori, in Il Diritto del Lavoro, vol. 1, 1986, pagg. 181 e ss.. Per una recente ricostruzione generale sull’avvento dell’inquadramento unico, si veda altresì CAZZOLA G., La lunga battaglia per l’inquadramento unico, nella rubrica Storia delle relazioni industriali, in www.ildiariodellavoro.it, 12 dicembre 2016.
(20) In questi termini GIUGNI G., Fondata sul lavoro?, Ediesse, Roma, 1994, pagg. 42-43.
(21) Così NAPOLI M., Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in Le ragioni del Diritto, Scritti in onore di Luigi Mengoni, Tomo II, Giuffrè, Milano, 1995, pag. 1057.
attitudini professionali richieste dalla natura delle mansioni da svolgere» (22). Pur tuttavia, alla luce di un diverso approccio dottrinale si potrebbe muovere dal presupposto che il contratto di lavoro è funzionale alla determinazione dell’organizzazione lavorativa, sicché l’oggetto dell’obbligazione, mediante un ampliamento della sfera debitoria del lavoratore, abbraccerebbe tanto il comportamento dovuto quanto il risultato atteso, soddisfacendosi già in tal modo l’interesse del creditore, e cioè del datore di lavoro, al coordinamento e all’organizzazione medesima (23). Secondo ulteriore dottrina, invece, per cui non assume rilevanza l’elemento della collaborazione, i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro e nei modelli organizzativi comporterebbero «non un’evoluzione della funzione o struttura dell’obbligazione di lavoro subordinato, ma piuttosto una ridefinizione dei contenuti della prestazione, e dunque di una delle partite dello scambio contrattuale» (24). Seppur tutte queste ricostruzioni dottrinali si distanzino tra loro e si caratterizzino per un approccio giuridico, il punto di caduta è comune e porta all’emersione del «profilo sinallagmatico della controprestazione, ovvero dell’altra partita dello scambio stesso» (25). Il presente costrutto è poi tanto più calzante quanto più si considera l’assunto dottrinale per cui è l’autonomia collettiva a creare e specificare i termini del paradigma dello scambio, dal momento in cui prestazioni apparentemente identiche, per mansioni e caratteristiche, possono potenzialmente trovare diverso trattamento (26).
Emerge a tal punto la rottura del collegamento, per obsolescenza, tra salario e tempo di lavoro. In altre parole, ci si domanda oggi come, in un’ottica di scambio e corrispettività, la prestazione lavorativa centrata sulle competenze possa essere compensata alla luce delle evoluzioni in atto nel mercato del lavoro. Le competenze non cognitive, o comunque acquisite, ed espresse sul luogo di lavoro, poste accanto a quelle
(22) Cfr. NAPOLI M., op. ult. cit., pag. 1120. In particolare, l’Autore si riferisce ad attitudini che si esprimono non solo e non tanto in una dimensione oggettiva, che è la sintesi descrittiva delle mansioni contenute nel contratto collettivo e nel contratto individuale di lavoro, ma anche e soprattutto in una dimensione soggettiva, che è espressione delle conoscenze, delle competenze e della personalità del lavoratore.
(23) Si vedano PERSIANI M., Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966, e MARAZZA M., Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002.
(24) Così CARABELLI U., op. cit., pag. 67.
(25) Cfr. Ibidem, pag. 67.
(26) Il riferimento è a LISO F., Autonomia collettiva e occupazione, in Atti AIDLASS, 23-25 luglio 1997, Milano, 1998.
specifiche, potrebbero costituire l’elemento dello scambio, mettendo in discussione la struttura salariale come oggi conosciuta. Da questo punto di vista, appare allora anacronistico che il salario possa ancora costituire una variabile indipendente dalle competenze trasversali espresse dal lavoratore e dalla qualità del lavoro espletato. Alcuni Autori hanno in effetti già notato che le nuove tecniche di gestione del personale
«puntano […] su capacità diverse dalle competenze tecniche (capacità relazionali, senso dell’amicizia, predisposizione al rischio, creatività, ecc.), e il rischio di coinvolgere la sfera personale e di allargare l’ambito del dovuto cresce esponenzialmente, sollevando, in una visione ottimistica che non voglia contestare la stessa legittimità del fenomeno, quanto meno le questioni del giusto corrispettivo – anche nella logica proporzionalistica dell’art. 36 Cost. – e del coinvolgimento e della partecipazione effettiva del personale nella conduzione aziendale» (27).
Non è un caso che in alcuni settori, e soprattutto in quelli in cui l’automazione della produzione ha inciso sulla conformazione occupazionale nel senso sopra evidenziato (28), le debolezze del modello di inquadramento e retributivo abbiano sollecitato la contrattazione aziendale a effettuare uno sforzo, quindi ad addossarsi un ruolo suppletivo nella valorizzazione economica delle competenze. Secondo tale prospettiva, la contrattazione aziendale potrebbe essere la sede ideale per l’individuazione di parametri oggettivi e dinamici cui legare la misurazione della professionalità espressa dal lavoratore (29), nonché per rafforzare il rapporto tra professionalità, classificazione e organizzazione del lavoro. In tale ottica, gli schemi retributivi non devono rappresentare meri strumenti di redistribuzione indiscriminata del reddito (30), ma devono costituire veri e propri modelli di gestione delle risorse umane, incentrati attorno ad una
(27) Così TURSI A., La responsabilità sociale delle imprese tra etica, economia e diritto, in MONTUSCHI L., TULLINI P., Lavoro e responsabilità sociale dell'impresa, Zanichelli, Bologna, 2006, pag. 99.
(28) Si rimanda nuovamente a AUTOR D. H., KATZ L. F., KEARNEY, M. S., op. cit.; ACEMOGLU D., AUTOR D., op. cit.; e AUTOR D. H., DORN D., op. cit..
(29) Di tale avviso LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., Contrattazione a livello di impresa: partecipazione allo sviluppo delle competenze versus partecipazione ai risultati finanziari, in Lavoro e Relazioni Industriali, n. 2, 1999, pagg. 115 e ss., nonché TIRABOSCHI M., op. ult. cit..
(30) Cfr. ACOCELLA N., LEONI R., La riforma della contrattazione: redistribuzione perversa o produzione di reddito?, in Rivista Italiana degli Economisti, n. 2, 2010, pagg. 237-274.
valorizzazione, altresì economica, delle competenze dei lavoratori (31).
Del resto, fermo restando la funzione di tutela del potere di acquisto in capo alla contrattazione collettiva nazionale (32), il processo di flessibilizzazione della retribuzione aziendale, linearmente allo spostamento del baricentro della contrattazione del salario, come auspicato sin dal protocollo del 23 luglio 1993, potrebbe passare (anche) per la valorizzazione economica, a livello di impresa, delle competenze dei lavoratori. Ciò tanto più agli occhi della letteratura socioeconomica, la quale ha mostrato come siffatti schemi retributivi arrechino un effetto positivo sulla crescita e sulla flessibilità organizzativa (33), nonché sulla produttività e sulla qualità del lavoro (34).
Con un approccio scevro da connotazioni ideologiche, infine, il tema si lega delicatamente al concetto di qualità regolativa del processo di valutazione dei lavoratori
(31) Sul tema si segnalano LAWLER E., LEDFORD G., A skill-based approach to human resource management, in European Management Journal, 1992, vol. 10, n. 4, pagg. 383-391, e LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., op. cit.. Più in generale, sulla certificazione delle competenze a livello aziendale, si veda CASANO L., Transizioni occupazionali e certificazione delle competenze, in Formazione Lavoro Persona, n. 12, 2014, pag. 22, secondo cui «le imprese dovrebbero adottare modalità organizzative ispirate alla valorizzazione delle competenze, integrando le funzioni di: valutazione delle competenze in ingresso ed in itinere; orientamento professionale dei lavoratori; mappatura dei fabbisogni professionali aziendali e definizione puntuale dei profili professionali esistenti e dei percorsi di carriera interni all’azienda; riconoscimento delle competenze sviluppate in azienda».
(32) Vale qui la pena ricordare che già il protocollo del 23 luglio 1993 stabiliva che la contrattazione di secondo livello ha il compito di legare la retribuzione ai risultati, registrati dagli andamenti in termini di produttività e redditività; d’altra parte, alla contrattazione collettiva nazionale spetta il compito di tutelare il potere di acquisto delle retribuzioni. Siffatta “regola aurea” del modello italiano di relazioni industriali, per vero, venne poi riconfermata dall’accordo quadro del 22 gennaio 2009. Sul tema, basti qui rimandare a TREU T., L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzione, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 1, 1993, pagg. 215 e ss.; LASSANDARI A., Contrattazione collettiva e produttività: cronaca di evocazioni (ripetute) e di incontri (mancati), in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 2, 2009, pagg. 299 e ss.; nonché TREU T., Le forme retributive incentivanti, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 4, 2010, pagg. 637-688.
(33) Sul punto si vedano GUPTA N., LEDFORD G. E., JENKINS G. D., DOTY D. H., Survey-based prescriptions for skill-based pay, in ACA Journal, vol. 1, n. 1, 1992, pagg. 48-59, e MITRA A., GUPTA N., SHAW J. D., A comparative examination of traditional and skill-based pay plans, in Journal of Managerial Psychology, vol. 26, n. 4, 2011, pagg. 278-296. Con riferimento al contesto socioeconomico italiano, più nello specifico, si veda ACOCELLA N., LEONI R., op. cit..
(34) Cfr. MURRAY B., GERHART B., An empirical analysis of a skill-based pay program and plant performance outcomes, in The Academy of Management Journal, vol. 41, n. 1, 1998, pagg. 68-78.
(35), inevitabilmente alla base della misurazione delle competenze e, conseguentemente, della determinazione del corrispettivo economico. Tali schemi c.d. skill-based, vale a dire basati sulle competenze espresse dalla forza lavoro, implicano effettivamente un giudizio, con certi livelli di discrezionalità, in grado di selezionare le competenze medesime, valutarle e quindi compensarle (36). Coerentemente, gli strumenti mediante cui valutare la qualità della prestazione lavorativa e determinare il relativo corrispettivo dovrebbero poggiare su criteri non discriminatori e ben lungi dal configurare occasioni di svilimento professionale (37).
2. Definizione delle domande di ricerca.
Premesse
Il problema, come posto, a fronte della rilevanza della componente competenziale nella prestazione lavorativa e dei cambiamenti in atto, giustifica la necessità di indagare circa l’incarico che la contrattazione collettiva, e più variamente le istituzioni di relazioni industriali, possono ricoprire nel legare il salario alle competenze espresse dai lavoratori.
Occorre in tale sede e in primo luogo premettere che la professionalità è qui e di seguito intesa non in senso lato, bensì nella sua dimensione distintiva individuata dalle competenze trasversali e comportamentali, richieste ed espresse nell’esecuzione della prestazione lavorativa. In secondo luogo, emerge che l’approccio utilizzato è interdisciplinare e, come si ripeterà anche di seguito, rispecchia a pieno il carattere
(35) Sui requisiti procedurali e distributivi nella percezione dell’equità sistemica, si rimanda, su tutti, a GREENBERG J., The distributive justice of organizational performance evaluations, in BIDHOFF H. W., COHEN R. L., GREENBERG J., a cura di, Justice in Social Relations, Plenum press, New York, 1986. Con riferimento poi all’importanza del tema nell’ambito dei sistemi di valutazione della professionalità, si vedano LEE C., LAW K., BOBKO P., The importance of justice perceptions on pay effectiveness: a two-year study of a skill-based pay plan, in Journal of Management, vol. 25, n. 6, 1999, pagg. 851-873, e LÉNÉ A., Skill-based pay in practice: an interactional justice perspective, in European Journal of Training and Development, vol. 38, n. 7, 2014, pagg. 628-641.
(36) Cfr. CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, La retribuzione. Struttura e regime giuridico, Jovene editore, Napoli, 1994, pagg. 70 e ss..
(37) Così D’ONGHIA M., op. cit..
proprio dell’area di studio delle relazioni industriali, sulla quale convergono variabili concettuali proprie delle scienze economiche, sociologiche, psicologiche, politologiche, nonché giuridiche.
Lo stato dell’arte
Se la letteratura scientifica straniera ha avuto modo di studiare e approfondire il fenomeno della retribuzione legata alle performance lavorative, in senso lato, la letteratura domestica ha toccato più raramente la materia. Invero, si registra una scarsità di apporti riguardanti i sistemi inquadramentali, retributivi e valutativi c.d. skill-based. Del resto, parte della dottrina italiana ha già rilevato la carenza di ricerche inerenti la correlazione tra retribuzione e contrattazione collettiva, nello specifico aziendale (38), e specialmente con riferimento alle esperienze di gestione degli inquadramenti e di valorizzazione delle competenze dei lavoratori (39). Il collegamento di tali temi con la materia dei sistemi nazionali di classificazione del personale rimane poi ancor più inesplorato.
In particolare, mancano ricerche sui margini di opportunità offerti dai sistemi di valorizzazione economica delle competenze, nonché sul ruolo che le istituzioni di relazioni industriali possono ricoprire nell’introduzione e gestione di tali schemi retributivi. Questa considerazione, come detto, è tanto più vera quanto più ci si riferisce al contesto italiano.
Domande di ricerca
Concluso questo ragionamento, coerente nella giustificazione di una indagine sul tema della valorizzazione economica della professionalità, è possibile giungere ad una definizione degli obiettivi della presente ricerca.
(38) Di tale avviso, ad esempio, TREU T., op. ult. cit..
(39) Così MAGNANI M., op. cit..
Nel merito, il presente lavoro, muovendo da uno studio della fisionomia e della complessità dei sistemi di inquadramento, come determinati dalla contrattazione collettiva nazionale, si interroga su quali fattori hanno determinato la rigidità, o diversamente il riformismo, ove e se v’è stato, degli schemi di classificazione del personale nel sistema di relazioni industriali italiano. L’obiettivo è dunque quello di indagare circa le motivazioni per cui, nonostante aziende e sindacati abbiano più volte annunciato l’intenzione di rivedere i sistemi di inquadramento o avviato un confronto sul tema, i propositi di riforma siano rimasti ad oggi disattesi.
In secondo luogo, la presente ricerca punta a indagare come e perché il sindacato e la contrattazione decentrata, incidendo sulla definizione dell’impianto e delle procedure valutative delle performance professionali, e sui meccanismi di collegamento tra professionalità e retribuzione, possono contribuire ad assicurare la qualità regolativa e, al contempo, a incanalare entro margini condivisi la discrezionalità valutativa nell’implementazione di schemi retributivi connessi alle competenze dei lavoratori. Per questo, si rende opportuno analizzare alcune sperimentazioni aziendali in materia di retribuzione legata a taluni aspetti della professionalità.
3. Profili metodologici.
3.1. Indagine su 50 modelli di classificazione del personale. Nota metodologica al Cap. III.
Definizione e descrizione dell’insieme di contratti collettivi
Per rispondere alle domande di ricerca individuate, definito il concetto oggetto di indagine, nel Cap. III verranno dapprima considerati i tratti specifici del sistema di inquadramento unificato, quindi, attraverso un’analisi testuale delle intese contrattuali, saranno descritte le caratteristiche dei sistemi di classificazione di un insieme di contratti collettivi nazionali di lavoro.
Su un piano definitorio è doveroso qui precisare che per sistema di inquadramento si intende quella costruzione concettuale che, sulla base di categorie, qualifiche e mansioni, come definite dalle fonti del diritto, tra cui in particolare l’autonomia collettiva, permette di classificare, e quindi inquadrare, il lavoratore dipendente nell’organizzazione aziendale e del lavoro, quindi stabilire il trattamento normativo- economico ad esso applicabile.
Coerentemente, la tabella (Tab. A), di cui all’Allegato 1 del presente lavoro, vuole essere un tentativo di categorizzazione e analisi della fisionomia inquadramentale di 49 contratti collettivi nazionali di lavoro, cui si aggiunge il contratto collettivo specifico di lavoro del Gruppo FCA CNH (7 luglio 2015), per un totale di 50 accordi, disponibili nella banca dati Adapt sulla contrattazione collettiva (www.farecontrattazione.it). Il CCSL FCA CNH, in particolare, data la rilevanza, è stato considerato contestualmente ai contratti collettivi nazionali di lavoro, allo scopo di fornire una rappresentazione il più possibile esaustiva della disciplina classificatoria applicata al personale dell’industria metalmeccanica, nonché in quanto contratto collettivo aziendale, di primo livello, regolante il sistema di inquadramento per tutti i lavoratori dipendenti del Gruppo.
I contratti collettivi in questione sono considerati nella versione più recente alla data del 31 luglio 2017 e sono di seguito riportati in ordine alfabetico: CCNL Artigianato area Alimentazione e Panificazione (23 febbraio 2017); CCNL Artigianato area Chimica e Ceramica (10 giugno 2015); CCNL Artigianato Edilizia (24 gennaio 2014); CCNL Artigianato Meccanica (16 giugno 2011); CCNL Artigianato area Tessile Moda (25 luglio 2014); CCNL Assicurazioni (22 febbraio 2017); CCNL Autostrade (29 luglio
2016), CCNL Calzature (27 aprile 2017); CCNL Cartai e Cartotecnici (30 novembre
2016); CCNL Cemento (24 novembre 2015); CCNL Ceramica e Piastrelle (16 novembre 2016); CCNL Chimico-Farmaceutico (15 ottobre 2015); CCNL Chimico PMI (26 luglio 2016); CCNL Concia (5 aprile 2017); CCNL Credito (31 marzo 2015); CCNL Distribuzione Cooperativa (22 dicembre 2011); CCNL Elettrici (25 gennaio 2017); CCNL Energia e Petrolio (25 gennaio 2017); CCNL Gas-Acqua (18 maggio
2017); CCNL Giocattoli (20 febbraio 2017); CCNL Gommaplastica (10 dicembre
2015); CCNL Igiene Ambientale - aziende private (5 giugno 2017); CCNL Igiene Ambientale - aziende pubbliche (10 luglio 2016); CCNL Industria Alimentare (5 febbraio 2016); CCNL Industria Edile e Cooperative (1 luglio 2014); CCNL Industria Turistica (14 novembre 2016); CCNL Laterizi e Manufatti (31 marzo 2016); CCNL
Lavanderie Industriali (13 luglio 2016); CCNL Legno (13 dicembre 2016); CCNL
Logistica e Trasporti (1 agosto 2013); CCNL Metalmeccanici (26 novembre 2016); CCNL Metalmeccanici PMI – Confapi (3 luglio 2017); CCNL Metalmeccanici PMI – Confimi (22 luglio 2016); CCNL Mobilità Ferroviaria (16 dicembre 2016); CCNL
Multiservizi (31 maggio 2011); CCNL Occhiali (19 luglio 2016, integrato dalla nuova normativa sulla classificazione del personale del 17 maggio 2017); CCNL Operai Agricoli e Florovivaisti (22 ottobre 2014); CCNL Pelli e Cuoio (23 dicembre 2016); CCNL Quadri e Impiegati Agricoli (23 febbraio 2017); CCNL Spazzole, Penne e Pennelli (22 novembre 2016); CCNL Telecomunicazioni (1 febbraio 2013); CCNL Terziario – Confcommercio (30 marzo 2015); CCNL Terziario – Confesercenti (12 luglio 2016); CCNL Tessile (21 febbraio 2017); CCNL Trasporto a Fune (12 maggio
2016); CCNL Turismo-Alberghi (18 gennaio 2014); CCNL Turismo-Pubblici Esercizi
(20 febbraio 2010); CCNL Vetro e Lampade (27 luglio 2016); CCNL Vigilanza Privata
(22 gennaio 2013).
Occorre precisare che la selezione di questi accordi non risponde a tecniche statistiche di campionamento casuale, ed è principalmente motivata, oltre che dalla rappresentatività storica e giuridica delle associazioni firmatarie, dalla rilevanza occupazionale dei settori dell’economia privata considerati e dalla tendenziale distribuzione tra settori labour intensive e capital intensive, nonché tra artigianato, industria, settore agricolo, terziario e servizi. In particolare, alla data del 31 luglio 2017, i contratti collettivi selezionati coprono complessivamente circa 13.600.000 lavoratori dipendenti del settore privato (dati Istat), qui esclusi quindi i lavoratori autonomi e i dipendenti della pubblica amministrazione, vale a dire approssimativamente il 94,4% del totale della forza lavoro occupata nell’economia privata.
Gli indicatori descrittivi
I contratti collettivi assunti a base di studio sono stati analizzati, da un punto di vista descrittivo, attraverso una operazione di analisi testuale, e, conseguentemente, mediante la costruzione di tre indicatori, originali, di riflesso presenti nelle colonne della tabella (Tab. 1) di cui all’Allegato 1. Tali indicatori tentano così di rappresentare la capacità del sistema di classificazione di valorizzare in termini economici alcune componenti distintive della professionalità dei lavoratori. Si tratta infatti di indicatori descrittivi, di cui si darà conto più approfonditamente nel prosieguo della trattazione, che permettono una scomposizione, e quindi una funzionale analisi e misurazione, seppur in termini di probabilità e non certezza, del concetto oggetto di ricerca, come proprio dell’indagine nelle scienze sociali.
In particolare, occorre qui specificare che il primo indicatore descrittivo assunto a riferimento consiste nell’orientamento classificatorio e retributivo del sistema di inquadramento del personale. Per orientamento classificatorio si intende la disposizione dei vari livelli classificatori e retributivi, nonché la collocazione dei lavoratori rispetto agli stessi. Tale disposizione, più nello specifico, può avvenire in senso verticale, orizzontale, oppure misto. Nel primo caso i livelli classificatori e retributivi sono disposti in senso gerarchico e crescente/decrescente, sicché ad ogni livello di inquadramento, così ordinato, corrisponde un solo livello retributivo. Nel secondo caso, diversamente, i livelli classificatori, comunque disposti in senso gerarchico ovvero ordinato, sono in numero contenuto e a ciascuno di essi corrisponde una ulteriore quota di livelli retributivi, variamente soppesati in relazione a determinati criteri o parametri in grado di apprezzare la professionalità dei lavoratori. Nel caso di orientamento misto, infine, i livelli classificatori sono orientati sì orizzontalmente, prevedendo un raggruppamento di più fasce retributive entro una medesima categoria o area professionale, ma senza che si configurino meccanismi di orizzontalità retributiva e di valorizzazione economica delle competenze dei lavoratori, con effetti al più tangibili in termini gestionali e organizzativi.
Il secondo indicatore descrittivo consiste nell’ampiezza e struttura della scala
parametrica. Le scale parametriche, nel merito, qui intese come l’insieme di parametri atti a quantificare gli incrementi retributivi per singolo livello, comprese tra un minimo ed un massimo, registrano ampiezze variabili da settore a settore. Tale indicatore viene completato dal valore dello discostamento medio tra i livelli retributivi previsti, ottenuto rapportando l’ampiezza della scala parametrica al numero totale di livelli retributivi medesimi previsti in ciascun contratto collettivo nazionale, e, nello specifico, rappresentativo della distanza media parametrica, e di conseguenza salariale, intercorrente tra i vari livelli o le varie categorie.
Infine, il terzo indicatore descrittivo consiste nella presenza di meccanismi di retribuzione o di promozione automatica. Gli automatismi promozionali e gli aumenti salariali periodici di anzianità sono infatti considerati contestualmente e comportano rispettivamente degli avanzamenti in termini di inquadramento e di retribuzione, conseguenti al raggiungimento di parametri oggettivi e verificabili, quali ad esempio il numero di mesi o di anni di servizio trascorsi dal lavoratore ad un determinato livello di inquadramento.
Conduzione dell’analisi dei sistemi di classificazione del personale
Sempre nell’ambito del Cap. III, per discutere ed analizzare i risultati dell’approfondimento descrittivo condotto, quindi al fine di indagare quali fattori o componenti del sistema di relazioni industriali domestico hanno determinato le evidenze rilevate, è stata utilizzata una metodologia di ricerca qualitativa. Per questo, tra il primo ottobre 2016 ed il 31 luglio 2017, e cioè nell’arco temporale di dieci mesi, sono state condotte 26 interviste semi-strutturate, segnatamente con 13 rappresentanti nazionali (o territoriali) datoriali e con 13 rappresentanti nazionali sindacali.
Le interviste qualitative semi-strutturate sono state condotte telefonicamente ovvero, in alcuni casi, mediante un incontro frontale. In quanto semi-strutturate, le interviste sono state condotte seguendo una traccia degli argomenti da trattare, ma, al contempo, senza tentativi di standardizzazione, e cioè mantenendo un significativo grado di libertà nella selezione dei punti da chiarire o approfondire. Coerentemente, mentre il contenuto delle
domande, mirate a cogliere le categorie mentali dell’intervistato, è stato prestabilito, così non è stato per la forma e la sequenza delle domande stesse. Con gli intervistati sono state dunque ampiamente approfondite, conversate e discusse le seguenti domande: “Quali sono i motivi che ostacolano il percorso di riforma dei sistemi di inquadramento del personale, nella direzione di una maggiore valorizzazione della professionalità?”; “Quali possono essere, eventualmente, le traiettorie da seguire per una riforma dei sistemi di inquadramento del personale?”.
La selezione delle persone da intervistare non è stata casuale, bensì soggettiva e motivata dalla rilevanza occupazionale dei settori dell’economia privata considerati, dalla tendenziale distribuzione tra settori labour intensive e capital intensive, nonché dall’evidente rilevanza di alcuni comparti in base a quanto emerso nell’ambito della descrizione dell’insieme dei modelli di classificazione del personale.
La tabella di seguito (Tab. 1) riporta nello specifico l’elenco, in ordine alfabetico, delle persone intervistate, per le quali si indicano il nome, gli estremi dell’associazione di rappresentanza di appartenenza, l’incarico ricoperto, nonché il settore economico di competenza.
Tab. 1 - Persone intervistate (1 ottobre 2016 – 31 luglio 2017).
Nr. | Persona intervistata | Nome associazione | Tipo associazione | Incarico ricoperto | Settore economico |
1 | Assogna Antonello | Femca Cisl | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Energia e Petrolio |
2 | Bentivogli Marco | Fim Cisl | Organizzazione sindacale | Segretario generale | Metalmeccanico |
3 | Benvenuto Giorgio | Uil | Organizzazione sindacale | Ex segretario nazionale | Generale |
4 | Bermani Marco | Flai Cgil | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Industria alimentare |
5 | Bianco Gianluca | Femca Cisl | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Chimico Farmaceutico |
6 | Bottelli Massimo | Assolombarda | Associazione datoriale | Resp. Lavoro e Welfare | Generale |
7 | Camellini Elisa | Filcams Cgil | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Multiservizi e Turismo |
8 | Candido Angelo | Federalberghi | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Turismo e Alberghi |
9 | Caprioli Giorgio | Fim Cisl | Organizzazione sindacale | Ex segretario generale | Metalmeccanico |
10 | Cuneo Paolo | Federchimica | Associazione datoriale | Funz. relazioni industriali | Chimico Farmaceutico |
11 | De Giuli Marco | Flaei Cisl | Organizzazione sindacale | Funzionario sindacale | Elettrico |
12 | Evaristo Daniele | Confindustria Energia | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Energia e Petrolio |
13 | Ficco Gianluca | Uilm Uil | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Metalmeccanico |
14 | Gasparato Massimo | Confindustria Verona | Associazione datoriale | Resp. Lavoro e Welfare | Generale |
15 | Gorga Mario | Assoelettrica | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Elettrico |
16 | Iorio Maria Rita | Farmindustria | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Chimico Farmaceutico |
17 | Lazzarelli Guido | Confcommercio | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Commercio |
18 | Mantegazza Stefano | Uila Uil | Organizzazione sindacale | Segretario generale | Industria alimentare |
19 | Marroni Marco | Uiltucs Uil | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Commercio e Turismo |
20 | Moretti Silvio | Fipe Confcommercio | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Turismo |
21 | Musolla Giuseppe | Confindustria Verona | Associazione datoriale | Funz. relazioni industriali | Generale |
22 | Nevi Matteo | Federturismo | Associazione datoriale | Resp. relazioni industriali | Industria turistica |
23 | Placido Massimiliano | Uiltec Uil | Organizzazione sindacale | Funz. sindacale | Elettrico |
24 | Serra Andrea | Federalberghi | Associazione datoriale | Funz. relazioni industriali | Turismo e Alberghi |
25 | Sesena Cristian | Filcams Cgil | Organizzazione sindacale | Segretario nazionale | Commercio e Turismo |
26 | Stoccoro Andrea | Fipe Confcommercio | Associazione datoriale | Funz. relazioni industriali | Turismo |
Le risposte alle interviste semi-strutturate così condotte, dunque, unitamente alle evidenze scaturite dall’approfondimento descrittivo e dall’analisi testuale delle intese contrattuali, hanno costituito la base di riferimento per la conduzione dell’analisi qualitativa.
Occorre da ultimo precisare che, in sede di discussione dei risultati, i nomi delle persone intervistate non sono stati riportati per esteso, bensì sono stati codificati con la dicitura “Intervistato”, seguita dal relativo numero come alla luce della prima colonna della Tab. 1, di cui sopra.
3.2. Retribuzione c.d. skill-based e ruolo della contrattazione aziendale nella valorizzazione delle competenze. Nota metodologica al Cap. IV.
Costruzione di un modello ideal-tipico di sistema retributivo legato alle competenze
Con riferimento al Cap. IV, la trattazione prende le mosse dall’analisi degli elementi che, alla luce della letteratura scientifica di ordine socioeconomico, sono ritenuti
fondamentali per il successo degli schemi retributivi basati sulle competenze, così da isolarne le peculiarità più rilevanti all’interno di un modello ideal-tipico.
Casi studio
Il capitolo in questione, quindi, è elaborato secondo una metodologia di tipo qualitativo, condotta mediante lo sviluppo di sei casi studio ed avente l’obiettivo di controllare l’aderenza dei medesimi al modello ideal-tipico delineato.
I casi studio oggetto di approfondimento e analisi, in particolare, riportati nel corpo dell’elaborato in ordine alfabetico, consistono in sei imprese site in Italia, complessivamente appartenenti a quattro comparti diversi, nelle quali la direzione d’azienda e le rappresentanze sindacali hanno negoziato un sistema per la valutazione e il riconoscimento economico di talune competenze trasversali e comportamentali dei lavoratori. Le aziende oggetto di studio sono nello specifico: Lino Manfrotto S.p.A., azienda metalmeccanica del britannico The Vitec Group che si occupa della produzione e distribuzione di supporti professionali per la fotografia, i video e l’illuminazione; Nuovo Trasporto Viaggiatori (NTV) S.p.A., impresa ferroviaria che opera nel campo dei trasporti ferroviari ad alta velocità; Santander Consumer Bank AG, istituto di credito al consumo, appartenente al Gruppo bancario spagnolo Santander; Setten Genesio S.p.A., azienda di costruzione facente parte del Gruppo Setten Genesio, particolarmente impegnata nell’edilizia (pubblica e privata), nella costruzione di nuove opere, nonché in attività di restauro; TenarisDalmine S.p.A., azienda metalmeccanica appartenente al Gruppo Tenaris e principalmente attiva nella produzione di tubature in acciaio per l’industria energetica e meccanica; Tesmec S.p.A., società metalmeccanica che progetta e realizza prodotti usati nella costruzione e manutenzione di infrastrutture, quali linee ferroviarie ed elettriche.
i più recenti ed aggiornati disponibili alla data del 31 luglio 2017: Manfrotto, Fim-Cisl (5 giugno 2013); NTV, Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uilt-Uil, Ugl Taf, Fast Mobilità (20 gennaio 2017); Santander Consumer Bank, Fisac-Cgil, Fabi (23 ottobre 2015); Setten Genesio, Fillea-Cgil, Filca-Cisl, Feneal-Uil (4 gennaio 2016); TenarisDalmine, Fiom-Cgil, Fim- Cisl, Uilm-Uil (26 giugno 2012, con aggiornamento alla luce dell’accordo ponte del 10 marzo 2017); Tesmec, Fiom-Cgil, Fim-Cisl (22 febbraio 2011).
Al fine di approfondire e comprendere le modalità di funzionamento dei sei sistemi valutativi, nel corso del 2016 e di inizio 2017 sono state condotte anche delle interviste non strutturate con alcuni degli attori coinvolti nel processo di progettazione e implementazione degli stessi, quindi con 13 sindacalisti, tra cui 2 ex rappresentanti aziendali dei lavoratori, e 5 HR manager, come riportato nello specifico nella tabella (Tab. 2) di cui di seguito. Le interviste sono state condotte telefonicamente ovvero, in alcuni casi, mediante un incontro frontale. In quanto non strutturate e libere, inoltre, le interviste sono state condotte senza seguire tracce prestabilite o itinerari di domande standardizzati. È stato altresì esaminato il materiale documentale fornito durante le interviste, consistente in manuali operativi e comunicati stampa.
Tab. 2 - Persone intervistate (2016 - 2017).
Persona intervistata | Azienda | Incarico ricoperto |
Agazzi Andrea | Tesmec | Funzionario sindacale Fiom Cgil Bergamo |
Amerio Paola | Santander Consumer Bank | HR Manager |
Andrei Laura | Ntv | Componente Direttivo Nazionale Filt Cgil |
Belometti Gianluigi | Tesmec | Funzionario sindacale Fiom Cgil Ponte S. Pietro |
Borella Eugenio | TenarisDalmine | Segretario Fiom Cgil Bergamo |
Caprioli Giorgio | TenarisDalmine | Ex segretario generale Fim Cisl |
D’Andrea Alberto | Santander Consumer Bank | Rappresentante sindacale Fabi |
Fantini Emanuele | TenarisDalmine e Tesmec | Segretario Fim Cisl Bergamo |
Insalata Libera | Manfrotto | HR Business Partner |
Izzo Rosario | Ntv | HR Manager |
Longaretti Pierangelo | TenarisDalmine | Ex rappresentante sindacale Fim Cisl |
Oberti Mario | TenarisDalmine | Ex rappresentante sindacale Fim Cisl |
Pelizzoli Numa | Tesmec | HR Manager |
Poli Adriano | Manfrotto | Componente Segreteria Fim Cisl Vicenza |
Quatrale Gianluca | Setten Genesio | Segretario Feneal Uil Treviso e Belluno |
Scippa Marco | Manfrotto | HR Manager |
Sturniolo Giacomo | Santander Consumer Bank | Segretario Fisac Cgil Piemonte |
Visentin Mauro | Setten Genesio | Segretario Fillea Cgil Treviso |
4. Struttura della ricerca.
Il presente lavoro di ricerca consiste complessivamente di cinque capitoli.
Successivamente al presente Cap. I, mirato a delineare il piano e la metodologia di ricerca, il Cap. II punta a rappresentare il framework di riferimento, a sostegno dell’intero elaborato. Conseguentemente, l’impalcatura teorica, a sua volta suddivisa in tre paragrafi, è stata pensata per l’approfondimento della relazione intercorrente tra l’articolazione della struttura salariale e la professionalità. Della struttura e composizione del Cap. II, tuttavia, si renderà più diffusamente conto nell’introduzione alla relativa sezione (Introduzione, Cap. II).
Il Cap. III, muovendo da una descrizione e analisi di 50 sistemi di inquadramento, afferenti altrettanti contratti collettivi, costituisce una indagine sul se e come la contrattazione collettiva medesima è in grado di valorizzare le competenze dei lavoratori, quindi sui motivi dello stato attuale, che vede i modelli di classificazione del personale tendenzialmente ancorati a logiche degli anni ‘70. La finalità principe è quella di carpire i fattori abilitanti o contrastanti, propri del modello di relazioni industriali domestico, verso la riforma dei sistemi di inquadramento, quindi quella di comprendere perché gli intenti delle parti sociali nel senso di una valorizzazione economica delle competenze siano ad oggi rimasti inattuati.
In particolare, la prima parte del Cap. III sarà volta ad analizzare, con un approccio descrittivo e strumenti di analisi testuale, la fisionomia dei sistemi di inquadramento e la predisposizione degli stessi a valorizzare, dal punto di vista salariale, la professionalità espressa dai lavoratori. La seconda parte del Cap. III, invece, e come anticipato, sarà volta all’analisi e alla discussione delle evidenze descrittive emerse. Tale seconda parte, più nello specifico, rappresenterà altresì una discussione dei risultati delle interviste semi-strutturate condotte, dunque tenendo in considerazione del punto di vista degli attori direttamente coinvolti nell’arena delle relazioni industriali.
Il Cap. IV è volto ad analizzare il ruolo suppletivo ricoperto dalla contrattazione collettiva aziendale verso una valorizzazione economica delle competenze espresse dai lavoratori, così da indagare anche la funzione che il sindacato può rappresentare in siffatti schemi valutativi e salariali.
Coerentemente, il Cap. IV si compone di tre parti. Nella prima parte si muoverà dalla letteratura di riferimento, per vero già rilevata nel Cap. II, allo scopo di tracciare un modello ideal-tipico di schema valutativo e retributivo legato alla professionalità espressa dai lavoratori. La seconda parte sarà volta alla costruzione di sei casi studio, rappresentati, come anticipato, da altrettanti imprese (Manfrotto, NTV, Santander Consumer Bank, Setten Genesio, TenarisDalmine e Tesmec) in cui management e sindacato hanno concordato un modello valutativo e retributivo legato alle competenze dei dipendenti, quindi ad una comparazione descrittiva dei sei casi studio medesimi assunti a unità di studio. La comparazione descrittiva svolta in occasione di tale seconda parte, invero, renderà possibile una analisi e discussione delle principali evidenze emerse, in tale sede tenendo conto del modello ideal-tipico tracciato nella prima parte del medesimo capitolo.
Il Cap. V, infine, fornirà le conclusioni del presente elaborato di tesi. Con esso si cercherà infatti di rispondere alle domande di ricerca delineate, nonché di tracciare le possibili traiettorie evolutive per la riforma dei sistemi di inquadramento del personale e della struttura salariale in Italia.
CAPITOLO II
Modelli di classificazione e valorizzazione economica delle competenze: framework teorico
Sommario: Introduzione. – 1. Retribuzione e professionalità. – 1.1. La retribuzione nella Costituzione. –
1.1.1. La natura dell’art. 36 Cost.. – 1.1.2. I requisiti della retribuzione. – 1.1.2.1. Segue: Professionalità e requisito di proporzionalità della retribuzione. – 1.1.2.2. Segue: Professionalità e requisito di sufficienza della retribuzione. – 1.2. Retribuzione e professionalità nella contrattazione collettiva. – 1.2.1. Retribuzione e professionalità nel rapporto di lavoro. – 1.2.2. La valorizzazione economica delle competenze nella contrattazione collettiva decentrata. – 1.3. Le implicazioni dei minimi salariali e del salario minimo legale su formazione e professionalità. – 2. Inquadramento e retribuzione. – 2.1. Il sistema di inquadramento quale elemento incidente sulla retribuzione e sulla professionalità dei lavoratori. –
2.1.1. Evoluzione e lineamenti dei sistemi di inquadramento. – 2.1.1.1. Il sistema inquadramentale corporativo. – 2.1.1.2. La prospettiva della job evaluation. – 2.1.1.3. Le origini del sistema di inquadramento unificato. – 2.1.1.4. La crisi del sistema unificato di inquadramento. – 2.1.1.5. I sistemi board banding e le evoluzioni più recenti nei sistemi di inquadramento. – 2.2. La professionalità nel mercato del lavoro che cambia. – 2.2.1. La polarizzazione nel mercato del lavoro. – 2.2.2. Lo sviluppo delle nuove competenze. – 2.3. Nuovi sistemi di inquadramento e retribuzione per la valorizzazione della professionalità. – 2.3.1. Le proposte di allineamento tra salari e professionalità. – 3. I sistemi retributivi per la valorizzazione delle performance e delle competenze dei lavoratori. – 3.1. I sistemi retributivi incentivanti e legati alle performance. – 3.2. Modelli e indicatori dei sistemi retributivi incentivanti. –
3.2.1. Segue: I sistemi gain-sharing e profit-sharing. Cenni. – 3.2.2. Segue: I sistemi retributivi skill- based. – 3.3. Effetti, fattori di efficacia e ruolo della contrattazione collettiva nei sistemi retributivi incentivanti. – 3.3.1. Segue: Incrementi salariali a livello di azienda e “effetto produttivo” nella Teoria dei salari di efficienza. Cenni. – 3.3.2. Segue: Gli effetti dei sistemi incentivanti su produttività e forza lavoro.
– 3.3.3. Segue: Implicazioni ed efficacia dei sistemi retributivi basati sulle competenze dei lavoratori. –
3.3.4. Segue: La Teoria dell’equità organizzativa nei sistemi di valutazione delle performance e il coinvolgimento delle maestranze. – 3.4. Valutazione delle performance e fattori motivazionali.
Introduzione
Contributi di discipline diverse, di stampo tanto giuridico quanto economico- organizzativo, insistono sul tema del collegamento tra retribuzione e competenze dei
lavoratori. Dal punto di vista del diritto, lo sguardo della letteratura è stato principalmente rivolto al più generale rapporto tra retribuzione flessibile e performance qualitativa e quantitativa, nella prospettiva della giusta retribuzione e della corrispettività nel rapporto di lavoro. Con riferimento al contesto domestico, esaustivi testi di riferimento sono rappresentati, su tutti, dalle monografie ad opera di Zoppoli, Caruso, Zoli e Zilio Grandi (40). Meno corposa, invece, la letteratura italiana strettamente attinente il tema più specifico dei modelli salariali e inquadramentali legati alla valutazione e valorizzazione delle competenze dei lavoratori, seppur sul punto non manchino contributi di taglio economico (41).
Nonostante la letteratura scientifica straniera abbia in larga parte studiato il fenomeno delle retribuzioni legate alle performance in senso lato, si registra una scarsità di apporti relativamente ai sistemi retributivi e valutativi c.d. skill-based (42), sebbene un filone di studi statunitense abbia approfondito la materia a partire dagli anni Novanta (43). Da tale scenario emerge la generale carenza di ricerche sui margini di opportunità offerti dai sistemi di valorizzazione economica delle competenze, nonché sul ruolo che le istituzioni di relazioni industriali possono ricoprire nell’introduzione e gestione di tali schemi retributivi. Questa considerazione, in particolare, è tanto più vera quanto più ci si riferisce al contesto domestico.
Scopo della presente Literature Review è quello di costruire un’impalcatura bibliografica e teorica a sostegno dell’elaborato di tesi, la cui finalità è indagare le reciproche interconnessioni tra articolazione della struttura salariale e professionalità.
(40) Il riferimento è indirizzato a ZOPPOLI L., La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, Napoli, 1991, quindi CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, La retribuzione. Struttura e regime giuridico, Jovene editore, Napoli, 1994, e ZILIO GRANDI G., La retribuzione. Fonti struttura funzioni, Jovene editore, Napoli, 1996.
(41) Si vedano, ad esempio, LEONI R., Gli inquadramenti professionali tra modelli organizzativi, job design e contenuti del lavoro, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 3, 2005, pagg. 107-122, ovvero LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., Contrattazione a livello di impresa: partecipazione allo sviluppo delle competenze versus partecipazione ai risultati finanziari, in Lavoro e Relazioni Industriali, n. 2, 1999, pagg. 115-152.
(42) Cfr. SHAW J. D., GUPTA N., MITRA A., LEDFORD G. E., Success and survival of skill-based pay plans, in Journal of Management, vol. 31, n. 1, 2005, pagg. 28-49.
(43) Su tutti, LAWLER III E. E., From job-based to competency-based organizations, in Journal of Organizational Behavior, vol. 15, n. 1, 1994, pagg. 3-15.
Come già anticipato in occasione del Cap. I, l’approccio utilizzato è interdisciplinare e rispecchia il carattere stesso dell’area di studio delle relazioni industriali, sulla quale convergono variabili concettuali proprie delle scienze giuridiche, economiche, sociologiche, psicologiche, nonché politologiche.
Il criterio utilizzato per l’analisi delle fonti considerate è primariamente tematico. La struttura della Literature Review, coerentemente, muove per sezioni tematiche, tra esse comunicanti. All’interno di ogni capitolo le fonti analizzate sono organizzate dapprima per nodi tematici, quindi per ordine cronologico, vale a dire dalla fonte meno recente a quella più recente. Le fonti cui si è fatto riferimento, in particolare, sono di tipo secondario, sicché quelle primarie, ivi costituite da fonti autonome, e cioè dai contratti collettivi, sono prese in considerazione direttamente nel corpo della tesi.
Nel merito della trattazione, il primo capitolo verte sul trinomio rappresentato da retribuzione, contrattazione collettiva e professionalità. Da questo punto di vista l’elaborato prende le mosse dalla ricostruzione del dibattimento giuridico sull’art. 36 Cost., con particolare attenzione al dibattito sorto attorno alla natura dello stesso (44) e ai requisiti di proporzionalità e sufficienza della retribuzione. Il secondo paragrafo si focalizza invece sui tentativi di valorizzazione delle competenze dei lavoratori nel rapporto di lavoro e nella contrattazione collettiva. L’ultimo paragrafo, muovendo da ricerche condotte nel campo dell’economia del lavoro, presenta una fotografia del dibattito circa gli effetti di un minimo salariale, fissato principalmente per legge, sullo sviluppo professionale.
Il secondo capitolo della Literature Review cerca di leggere il trinomio richiamato precedentemente alla luce del tema dei sistemi classificatori, assunti come istituti complementari e interfunzionali rispetto alla retribuzione (45). In primo luogo si traccia quindi il percorso evolutivo dei sistemi inquadramentali, sino ad evidenziarne i caratteri più recenti. In tale contesto vengono considerate anche le critiche rivolte all’attuale
(44) Tra tutti, vedi GIUGNI G., Prefazione in CRISTOFARO M. L., La giusta retribuzione: l’articolo 36 del comma I della Costituzione nella giurisprudenza delle corti di merito, Il Mulino, Bologna, 1971, pagg. 9 e ss..
(45) Cfr. ZILIO GRANDI G., La retribuzione. Fonti struttura funzioni, Jovene editore, Napoli, 1996.
sistema classificatorio unificato, che, primo indagato del distacco tra salari e professionalità (46), si preoccupa di stabilire soltanto quali funzioni i lavoratori sono tenuti a svolgere, ignorando il valore aggiunto espresso professionalmente dagli stessi (47). In un secondo momento, valorizzando al pari contributi di matrice giuridica (48) e socioeconomica (49), si è cercato di ricostruire il confronto sulle tendenze evolutive delle professionalità nel mercato del lavoro e dei connessi processi regolativi, nonché le ricadute sui modelli di retribuzione e classificazione dei lavoratori.
Da ultimo, il terzo capitolo muove dapprima dall’analisi dei tentativi dottrinali di definizione e classificazione dei modelli retributivi incentivanti. A tale scopo, si valorizzano apporti giuridici (50), nonché contributi prettamente derivanti dall’economia del personale (51). Più nello specifico, il primo ed il secondo paragrafo tentano di fornire una definizione ampia di sistema retributivo incentivante, assumendo a riferimento sia gli schemi collettivi e c.d. output-oriented (in particolare, i modelli gain-sharing e profit-sharing), sia gli schemi individuali e c.d. input-oriented (i modelli retributivi skill-based). Il terzo paragrafo analizza gli studi sugli effetti dei sistemi incentivanti su forza lavoro e produttività, nonché i fattori di efficacia dei medesimi modelli, con particolare riferimento ai piani legati alle competenze dei lavoratori; ulteriormente, l’ultima parte del terzo paragrafo ripercorre la Teoria della giustizia organizzativa nella valutazione delle performance lavorative (52), marcando la portata dei requisiti procedurali e distributivi nella percezione dell’equità sistemica. Il quarto ed ultimo paragrafo, infine, ripercorre il dibattito dottrinale concernente l’impatto dei sistemi valutativi, e incentivanti, sulla motivazione degli individui.
(46) Cfr. Ibidem.
(47) Così TIRABOSCHI M., Salari e professionalità: cosa dicono i contratti collettivi?, in Contratti & Contrattazione collettiva, n. 5, maggio 2016, pagg. 4-5.
(48) Si veda TREU T., Le istituzioni del lavoro nell’Europa della crisi, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, fasc. 140, n. 4, 2013, pagg. 597-640.
(49) Su tutti, AUTOR D. H., KATZ L. F., KEARNEY, M. S., The polarization of the U.S. labour market, in The American Economic Review, vol. 96, n. 2, 2006, pagg. 189-194.
(50) Si veda TREU T., Le forme retributive incentivanti, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 4, 2010, pagg. 637-688.
(51) Su tutti, LAZEAR E. P., Compensation, productivity and the new economics of personnel, Working Papers in Economics, The Hoover Institution, 1992.
(52) Vedi GREENBERG J., The distributive justice of organizational performance evaluations, in BIDHOFF H. W., COHEN R. L., GREENBERG J., a cura di, Justice in Social Relations, Plenum press, New York, 1986.
1. Retribuzione e professionalità.
1.1. La retribuzione nella Costituzione.
È bene premettere che il disposto costituzionale che incide maggiormente sull’obbligo retributivo è rappresentato dall’art. 36, comma 1, della Costituzione, a norma del quale
«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Attorno a tale disposto si sono concentrati molteplici ricostruzioni generali sulle fonti della retribuzione (53).
1.1.1. La natura dell’art. 36 Cost..
Attorno alla natura del cennato dettato costituzionale, sin dai primi anni, si generava un vivo dibattito teorico. Alcune prime interpretazioni propendevano infatti per decretare la natura meramente programmatica della norma, ovvero di affermazione di principio, rendendosi dunque necessario l’intervento applicativo del legislatore ordinario (54).
Diversamente, secondo un altro filone dottrinale la norma è immediatamente precettiva e, conseguentemente, direttamente richiamabile dal lavoratore in sede di giudizio (55). Ciò nonostante si sono sviluppati, anche di recente, ulteriori orientamenti di segno opposto (56), secondo cui il filone dottrinale favorevole alla natura precettiva del dettato
(53) Si vedano soprattutto ZOPPOLI L., La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, Napoli, 1991; CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, La retribuzione. Struttura e regime giuridico, Jovene editore, Napoli, 1994; ZILIO GRANDI G., La retribuzione. Fonti struttura funzioni, Jovene editore, Napoli, 1996; nonché CATAUDELLA M. C., La retribuzione nel tempo della crisi. Tra principi costituzionali ed esigenze del mercato, Giappichelli, Torino, 2013.
(54) Così, ad esempio, SERMONTI A., L’adeguatezza della retribuzione di fronte al C.C. di diritto comune e al 1° comma dell’articolo 36 della Costituzione, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 1952, pagg. 128 e ss.; evidenzia l’iniziale affermazione di tale linea dottrinale anche ZOPPOLI L., L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pag. 94.
(55) Cfr. GUIDOTTI F., La retribuzione nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1956, pagg. 79 e ss.
(56) Cfr. ICHINO P., La nozione di giusta retribuzione nell’art. 36 Cost., in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2010, fasc. 1, pagg. 731 e ss..
costituzionale si poneva in realtà già allora in palese contrarietà con le intenzioni originarie dei costituenti.
Partendo dall’assunto che il concetto di giusta retribuzione trova determinazione nel mercato, in cui incide anche il fenomeno sindacale, nei primi anni Cinquanta emerge altresì l’assunto di Pera, per il quale il principio di cui all’art. 36 Cost. rappresenta una affermazione di elevato valore nella transizione verso uno Stato democratico, senza tuttavia attribuire al singolo lavoratore un diritto soggettivo direttamente azionabile innanzi al giudice (57). Nello specifico, secondo tale impostazione, non solo non trovavano fondamento le argomentazioni di coloro che sostenevano la natura precettiva del dettato costituzionale, ma, d’altra parte, la medesima norma non assumeva nemmeno un valore programmatico, configurandosi come una affermazione di principio, il quale, come cennato, deve cercare definizione nelle logiche di mercato.
L’orientamento giurisprudenziale prevalente che scaturì dal dibattito segnò il favore per la natura precettiva dell’art. 36 Cost., sicché la norma, che era sì nata come programmatica e avrebbe dovuto poggiare sul «meccanismo di contrattazione con efficacia generale» (58), assunse però un’accezione pienamente precettiva proprio al fine di colmare il vuoto determinato dall’inattuazione dell’art. 39 Cost.. Nel medesimo solco dottrinale, segnato da Giugni, alcuni Autori sostengono che se l’art. 39 Cost. fosse stato attuato, l’articolo 36 Cost. sarebbe rimasto una mera affermazione di principio (59).
(57) Cfr. PERA G., La giusta retribuzione dell’art. 36 della Costituzione, in Scritti di Giuseppe Pera, Diritto del Lavoro, vol. 1, Giuffrè, Milano, 2007, pagg. 3-25.
(58) In questi termini GIUGNI G., Prefazione in CRISTOFARO M. L., La giusta retribuzione: l’articolo 36 del comma I della Costituzione nella giurisprudenza delle corti di merito, Il Mulino, Bologna, 1971, pag. 9.
(59) Di tale avviso CRISTOFARO M. L., op. cit., pagg. 40 e ss., e altresì ZOPPOLI L., L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pag. 95.
1.1.2. I requisiti della retribuzione.
Dai contenuti dell’art. 36 Cost. rilevano i criteri cui deve «commisurarsi la retribuzione dei lavoratori dipendenti», e cioè i requisiti di proporzionalità e sufficienza (60).
Tra i due requisiti richiamati, l’orientamento dottrinale prevalente attribuisce predominanza al criterio della proporzionalità, circoscrivendo invece la portata del principio di sufficienza (61). In questa direzione, invero, alcuni Autori hanno affermato che si tratta di criteri che, nel loro operare congiunto, «trovano armonizzazione alla luce della considerazione del criterio di sufficienza come sussidiario (residuale) rispetto a quello di proporzionalità», sicché la proporzionalità stessa «è generalmente adeguata a garantire un minimo sufficiente al lavoratore» (62).
Un ulteriore orientamento rileva che il dettato costituzionale fa riferimento a due concetti di retribuzione, e cioè quella giusta e quella sufficiente, sicché, nel concreto, la determinazione si può limitare alla valutazione del primo aspetto solo se il risultato per il lavoratore è più favorevole rispetto a quello derivante da una valutazione del secondo aspetto. La giurisprudenza, quindi, primariamente con riferimento agli anni Cinquanta e Sessanta, si è interessata maggiormente al concetto di giusta retribuzione, rispetto a quello di sufficienza. Tale tendenza è confermata altresì dal fatto che i giudici, nell’adeguare le retribuzioni, fanno affidamento alle tabelle retributive fissate dalla contrattazione collettiva, considerate quale giusta misura del mercato (63).
D’altra parte v’è invece chi, secondo un orientamento minoritario, attribuisce preminenza al criterio della sufficienza (64). Mentre occorre altresì evidenziare come più
(60) Così SCOGNAMIGLIO R., Il lavoro nella Costituzione italiana, Franco Angeli, Milano, 1978, pag. 73.
(61) Si veda PERONE G., alla voce Retribuzione, in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano, 1989, pag. 45.
(62) In questi termini CATAUDELLA M. C., op. cit., pagg. 14 e ss..
(63) Cfr. PERA G., La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in op. cit., pagg. 53 e ss..
(64) Si rimanda a ZOPPOLI L., La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, Napoli, 1991, pagg. 280 e ss..
di recente altri Autori (65) abbiano sostenuto la piena continuità e complementarietà tra i due requisiti della norma costituzionale.
1.1.2.1. Segue: Professionalità e requisito di proporzionalità della retribuzione.
Dall’art. 36 della Costituzione si desume una relazione tra retribuzione e qualità del lavoro. All’interno di quest’ultima categoria viene ascritta anche la professionalità del lavoratore. Tale relazione implica che la retribuzione possa crescere all’elevarsi delle capacità del lavoratore e, conseguentemente, della qualifica professionale dello stesso. Nel merito, secondo Cataudella il concetto di proporzionalità alla qualità del lavoro comporta la necessità che si determini un equilibrio oggettivo tra il compenso del lavoratore e le capacità e mansioni espletate dallo stesso; giustificando inoltre la corresponsione al lavoratore di retribuzioni legate alle performance (o premi di risultato, in senso lato), nonché superminimi individuali (66).
Di analogo avviso altri Autori, i quali, proprio sull’assunto che l’art. 36 Cost. richieda un rapporto di proporzionalità che colleghi la retribuzione anche alla qualità del lavoro prestato, giustificano una relazione diretta tra livello retributivo e qualità del lavoro stesso, sulla scia della regola civilistica della corrispettività delle prestazioni (67). Da tale precetto costituzionale muove quindi il collegamento dell’obbligazione retributiva alla quantità e, per quanto qui di nostro interesse, qualità del lavoro, deducendosi la nozione di retribuzione quale “obbligazione-corrispettivo” (68).
Nel medesimo solco dottrinale, ulteriormente, si muovono altri Autori, tra cui Liso e Ichino, secondo i quali, peraltro, sull’assunto costituzionale di cui all’art. 36 Cost. si può fondare la riduzione della retribuzione dell’apprendista, in compenso al tempo
(65) Tra i quali si segnala ad esempio PALLADINI S., I diritti costituzionali in materia di retribuzione, in GRAGNOLI E., PALLADINI S., a cura di, La retribuzione, Utet, Milano, 2012, pagg. 41 e ss..
(66) Cfr. CATAUDELLA M. C., op. cit., pag. 17.
(67) Cfr. NOVELLA M., La parità di trattamento a fini retributivi, in GRAGNOLI E., PALLADINI S., a cura di, op. cit., pag. 321.
(68) Cfr. ZOPPOLI L., L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 98 e ss..
dedicato alla formazione e, soprattutto, alla non ancora piena maturità professionale (69). Già precedentemente Zoppoli aveva sostenuto tale orientamento, poiché «il datore di lavoro, per un verso, riceve dall’apprendista una prestazione di valore minore rispetto a quella del lavoratore qualificato; per l’altro è egli stesso debitore di una prestazione di fare (l’addestramento professionale) che entra nell’equilibrio corrispettivo, consentendo una riduzione dei livelli retributivi» (70).
1.1.2.2. Segue: Professionalità e requisito di sufficienza della retribuzione.
È bene ricordare che, in aggiunta al requisito della proporzionalità, la retribuzione deve essere altresì sufficiente, ovvero tale da garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Si tratta di un caposaldo della disciplina costituzionale, sicché la retribuzione non acquisisce qui tanto una funzione di corrispettività, quanto piuttosto una funzione sociale (71), potendosi più precisamente parlare di una “obbligazione sociale” dalla portata universalistica (72).
Un altro orientamento giuslavoristico, forte del paradigma neo-costituzionalista, vale a dire di quella corrente di pensiero secondo cui diritto e morale si fondono, ridimensionando la componente strettamente legalista (73), definisce libertà e dignità come “meta principi” e vi accolla una preminente carica valoriale (74). Coerentemente, nel concetto di dignità viene individuato il diritto ad un livello retributivo in grado di consentire al lavoratore un’esistenza al di sopra della mera sopravvivenza, senza tralasciare il contesto familiare; con riferimento al concetto di libertà, d’altro canto, emerge la possibilità per il soggetto di esplicare pienamente la propria personalità, svincolato da condizioni di bisogno economico.
(69) Sul punto si vedano dunque LISO F., Autonomia collettiva e occupazione, in Atti AIDLASS, 23-25 luglio 1997, Milano, 1998, e ICHINO P., op. cit., pagg. 731 e ss..
(70) Così ZOPPOLI L., L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 136 e ss..
(71) Sul punto ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 401 e ss..
(72) Cfr. ZOPPOLI L., L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 98 e 136.
(73) In materia vedi MESSINA G., Il neocostituzionalismo, in Democrazia e Diritto, fasc. 1-2, 2011, pag. 384.
(74) Così RICCI G., Il diritto alla retribuzione adeguata fra Costituzione, mercato ed emergenza economica, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, n. 163, 2012.
Pur tuttavia, e fermo restando quanto detto, occorre notare che, in ordine alla relazione tra professionalità e requisito costituzionale di sufficienza della retribuzione, manca una solida letteratura di riferimento.
1.2. Retribuzione e professionalità nella contrattazione collettiva.
La dottrina ha diffusamente evidenziato la rilevanza in materia retributiva della contrattazione collettiva di livello nazionale, cui si aggiunge altresì lo sviluppo funzionale della contrattazione collettiva decentrata, con la tendenza a legare parte del salario a indici di produttività ovvero redditività (75). Coerentemente, è possibile rimarcare la centralità del sistema di relazioni contrattuali quale fonte di determinazione del trattamento economico dei lavoratori (76). Nel contratto collettivo di categoria, invero, si rintraccia la maggioranza degli istituti retributivi: su tutti, i minimi tabellari, le mensilità aggiuntive, le indennità e gli aumenti di anzianità.
Una particolarità del sistema contrattuale italiano consiste poi nell’estensione indiretta dei minimi retributivi fissati a livello nazionale, mediante una operazione giurisprudenziale che trova fondamento nel combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2099 c.c. (il quale, al secondo comma, recita «In mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali»). A fronte della natura precettiva del disposto di cui all’art. 36 Cost., il giudice può sindacare circa la retribuzione prevista nel contratto individuale di lavoro e verificare quindi il rispetto del
c.d. “minimo costituzionale”. In questa operazione, normalmente, la giurisprudenza
(75) Cfr., tra tutti, GIUGNI G., L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e mineraria (1953-1963), Giuffrè, Milano, 1964, e ZOPPOLI L., Nozione giuridica di retribuzione, incentivazione e salario variabile, in Diritto delle Relazioni Industriali, vol. 1, n. 1, 1991, pagg. 29-36.
(76) Si veda ZILIO GRANDI G., op. cit., pag. 78. Sul punto, anche FERRARO G., Retribuzione e assetto della contrattazione collettiva, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 4, 2010, pagg. 693 e ss., nota come la determinazione del costo del lavoro è affidata alla contrattazione, processo avente il fine precipuo di determinare i trattamenti salariali.
fonda il giudizio di adeguatezza e l’operazione correttiva assumendo quali parametri i contratti collettivi e, nello specifico, quelli nazionali (77).
Come già si è detto, dal disposto di cui all’art. 36 Cost. si desume una relazione tra retribuzione e qualità del lavoro prestato. Tale concetto richiede un equilibrio oggettivo tra il compenso del lavoratore, da una parte, e le capacità dello stesso, dall’altra, sicché il criterio della proporzionalità è da rinvenirsi anche in questo rapporto (78).
D’altra parte, sul rapporto tra contrattazione, retribuzione e professionalità, ivi intesa come qualità della prestazione, Liso ha evidenziato che la lettura dell’art. 36 Cost. si basa spesso sul falso presupposto che la qualità del lavoro prestato sia un elemento insito nella prestazione stessa, sicché all’autonomia collettiva spetta un mero ruolo di riconoscimento. Diversamente, infatti, la qualità della prestazione non sarebbe un elemento intrinseco della prestazione. Da questo punto di vista, la qualità del lavoro è un dato assegnato, e non rilevato, dall’autonomia collettiva, sulla base di determinati parametri. È l’autonomia collettiva medesima, quindi, che, secondo l’architettura del ragionamento di Liso, crea e specifica i termini del paradigma dello scambio, e cioè lavoro e retribuzione. Invero, dal momento che la configurazione di lavoro e retribuzione è permeabile alle dinamiche del mercato, consegue che sul livello retributivo possano ben influire anche fattori esterni ed estrinseci. Coerentemente con questa linea di pensiero, prestazioni apparentemente identiche per mansioni e peculiarità possono trovare diverso trattamento nell’autonomia collettiva, ad esempio in relazione alle logiche di mercato e gestionali, senza che questo pregiudichi il principio della proporzionalità (79).
(77) Per una ricognizione dottrinale sul tema si vedano CRISTOFARO M. L., op. cit., nonché PERA G., La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in op. cit., pagg. 53 e ss., e CATAUDELLA M. C., op. cit..
(78) Sul punto, si vedano CATAUDELLA M. C., op. cit., e NOVELLA M., La parità di trattamento a fini retributivi, in GRAGNOLI E., PALLADINI S., a cura di, op. cit..
(79) Così LISO F., op. cit., pagg. 34 e ss..
1.2.1. Retribuzione e professionalità nel rapporto di lavoro.
Parte della dottrina ha pur evidenziato lo stretto legame tra prestazione lavorativa e professionalità espressa. In uno studio di ricostruzione generale in materia di contratto di lavoro, condotto da Napoli, ad esempio, traspare che le ragioni alla base del contratto di lavoro consistono nel soddisfacimento di un interesse tipico del datore di lavoro. Lo svolgimento delle mansioni, dunque, «esige attitudini professionali che possono essere esplicate in relazione a determinate attività designate dalle mansioni esigibili», esprimendosi qui la tensione tra la professionalità soggettiva, intesa quale attitudine professionale certificata da attestati, e la professionalità oggettiva, quest’ultima intesa come la sintesi descrittiva delle mansioni da svolgere. Coerentemente, tale filone giunge a concludere che la prestazione lavorativa rappresenta l’esplicazione della professionalità e, conseguentemente, della personalità del lavoratore. In tal senso, l’obbligazione lavorativa non soddisfa solo un interesse tipico della parte datoriale, ma altresì un interesse, non patrimoniale, del lavoratore (80).
In materia, si sono per vero registrare differenti sfumature dottrinali. Mentre Romagnoli asserisce infatti che il rapporto di lavoro si concretizza proprio nello scambio tra professionalità e retribuzione (81), altri sostengono che, alla luce dei disposti civilistici, l’oggetto del rapporto di lavoro non è la professionalità, bensì la prestazione in senso stretto, individuata dall’insieme di mansioni che il lavoratore si impegna a svolgere in cambio di un salario (82). La professionalità, in particolare, secondo questo secondo orientamento dottrinale, è una sorta di prerequisito che consente l’adempimento della prestazione convenuta con il contratto di lavoro. Tuttavia, ciò non significa smorzare il valore professionale di chi si obbliga ad effettuare una prestazione lavorativa, sicché la contrattazione collettiva può ben determinare quale sia il livello delle competenze richiesto. Da questo punto di vista, la professionalità costituisce pur sempre un prerequisito per l’adempimento della prestazione convenuta nel contratto di lavoro.
(80) Così NAPOLI M., Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Giuffrè, Milano, 1996, pagg. 1120 e ss..
(81) Sul punto ROMAGNOLI U., Il diritto del secolo. E poi?, in Il diritto del mercato del lavoro, n. 2, 1999, pagg. 238 e ss..
(82) Così ad esempio LOY G., Professionalità e rapporto di lavoro, in NAPOLI M., a cura di, La professionalità, V&P Università, Milano, 2004, pagg. 7 e ss..
Altri Autori, tra cui Guarriello, in linea con quanto rilevato da Napoli, sottolineato l’importanza dell’elemento formativo, «indispensabile al fine di mantenere nel tempo inalterate le ragioni di scambio alla base del contratto di lavoro» (83).
Nel tentativo di riassumere lo scenario dottrinale, si potrebbe allora concludere che il dibattito circa la delimitazione dell’area del debito, e, di riflesso, circa il rapporto sinallagmatico tra professionalità e retribuzione, è stato negli ultimi anni vivace, sicché studiosi e accademici si sono diffusamente concentrati su come cambiano la funzione e l’oggetto del contratto di lavoro seguitamente all’emergere di elementi, quali la professionalità medesima, che, potenzialmente esterni all’attività lavorativa in senso stretto, si candidano ad arricchire la logica dello scambio. Se, in effetti, e come già evidenziato, un primo approccio assume la professionalità quale vero oggetto del contratto di lavoro (84), occorre precisare che un secondo approccio funzionalizza il contratto di lavoro alla determinazione dell’organizzazione del lavoro, accentuando le prerogative di coordinamento in capo al datore di lavoro e ingrandendo così la sfera debitoria del lavoratore (85), mentre un terzo approccio, ancora, sostenendo uno scambio secco tra lavoro e salario, colloca già la componente competenziale nella retribuzione (86).
1.2.2. La valorizzazione economica delle competenze nella contrattazione collettiva decentrata.
Numerosi studi rilevano come i sistemi retributivi siano sempre più collegati ad indicatori di poliprofessionalità dei lavoratori, sicché il baricentro risulta spostato verso indici sempre più dinamici e basati sulla valutazione delle attività e delle competenze. Questo mutamento di prospettiva, che nello specifico determina una variabilità della
(83) Sul punto GUARRIELLO F., Organizzazione del lavoro e riforma dei sistemi di inquadramento, in
Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 3, 2005, pagg. 51-69.
(84) Cfr. NAPOLI M., a cura di, La professionalità, V&P Università, Milano, 2004.
(85) Cfr. PERSIANI M., Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966, e MARAZZA M.,
Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002.
(86) Cfr. CARABELLI U., Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, fasc. 101, 2004, pagg. 1 e ss..
retribuzione, vede la contrattazione collettiva quale strumento più idoneo per espletare schemi di inquadramento dei lavoratori e piani salariali legati alla professionalità degli stessi (87).
Alcuni studi si sono quindi focalizzati su come la contrattazione collettiva di secondo livello ha provato, sin dagli anni Novanta, ad introdurre una diretta valorizzazione economica della professionalità espressa dai lavoratori.
In dottrina è stato peraltro correttamente rilevato come i fattori di debolezza della struttura inquadramentale e salariale domestica, di cui si darà conto più approfonditamente di seguito, «hanno sollecitato uno sforzo suppletivo ad opera della contrattazione collettiva aziendale» (88). La contrattazione collettiva aziendale, da questo punto di vista, può rappresentare la sede ideale per l’individuazione di indici e indicatori atti a misurare la professionalità espressa dai lavoratori e a valorizzare, in chiave incentivante e gestionale, le competenze trasversali degli stessi.
In tali casi, ad una logica di pay for job, intesa quale forma retributiva basata sulle caratteristiche oggettive del lavoro, si affianca una logica di pay for capacity, dal momento che una parte della retribuzione viene subordinata, a livello decentrato, all’espletazione di competenze professionali e lavorative. Alcuni Autori, a titolo di esempio, tra cui economisti, si sono concentrati sul caso studio della Tenaris di Dalmine, impresa che nel 1993 aveva istituito un apposito gruppo paritetico con lo scopo di implementare un sistema valutativo e incentivante fondato sulla professionalità e sui comportamenti lavorativi delle maestranze (89).
(87) Tra tutti, di questo avviso ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 106 e ss..
(88) In questi termini TIRABOSCHI M., Salari e professionalità: cosa dicono i contratti collettivi?, in
Contratti & Contrattazione collettiva, n. 5, maggio 2016, pagg. 4-5.
(89) Sul punto LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., Contrattazione a livello di impresa: partecipazione allo sviluppo delle competenze versus partecipazione ai risultati finanziari, in Lavoro e Relazioni Industriali, n. 2, 1999, pagg. 115 e ss.. Sul caso TenarisDalmine, in aggiunta, si veda MAGNANI M., Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 1, 2004, pagg. 170 e ss..
Ulteriormente, Leoni analizza i casi aziendali della Lamborghini e della IGMI (90). Nel primo caso, in particolare, management aziendale e sindacati hanno convenuto un Indice Globale di Professionalità, e cioè un sistema di indicatori capace di valutare le capacità gestionali dei dipendenti; nel secondo caso, analogamente, le parti hanno pattuito un sistema in grado di valorizzare economicamente l’autonomia dei lavoratori, la loro adattabilità ai cambiamenti nelle attività, nonché la capacità degli stessi di lavorare con gli altri colleghi.
Contributi di ricognizione descrittiva e analitica, tra i quali si annovera il Rapporto Adapt sulla contrattazione collettiva in Italia, esaminano quale riconoscimento economico si è cercato di garantire all’espletamento delle professionalità, con primo riferimento ai casi di contrattazione collettiva aziendale. Nel merito, pattuizioni in tal senso ricorrono nei contratti integrativi di alcune imprese metalmeccaniche, per precisione nel solco della nota a verbale alla terza categoria, sezione IV, titolo II, CCNL Metalmeccanici del 2009, la quale ha previsto la possibilità di individuare i lavoratori che, data una prolungata esperienza in azienda, operano su diverse funzioni apportando un miglioramento al processo, ovvero al prodotto, grazie alle proprie capacità professionali. A tali lavoratori, nello specifico, può essere riconosciuto un elemento retributivo di professionalità (ERP). In assenza di un completamento della disciplina a livello nazionale, talune aziende hanno regolato l’erogazione di tali elementi, in via temporanea. A titolo esemplificativo, in Isringhausen si è convenuta la corresponsione della 3a ERP ai lavoratori connessi al ciclo produttivo in grado di dimostrare particolari capacità trasversali, a seguito di una valutazione aziendale delle performance. La valutazione, in particolare, concerne la costanza e la determinazione del lavoratore nel perseguire i risultati, nonché l’autonomia, la qualità del lavoro svolto e la capacità di lavorare e interagire con i colleghi. Ad ognuna di queste voci è attribuito un punteggio compreso tra 1 e 5: l’erogazione della 3a ERP viene subordinata al superamento del punteggio complessivo di 16. In secondo luogo, è possibile richiamare nuovamente l’esempio del “Premio professionalità espressa” della TenarisDalmine, ove la professionalità dei lavoratori è legata a meccanismi premianti. L’ammontare del premio
(90) Cfr. LEONI R., Gli inquadramenti professionali tra modelli organizzativi, job design e contenuti del lavoro, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 3, 2005, pagg. 107-122.
è invero determinato dal grado di professionalità espresso dal lavoratore in seguito ad una precisa valutazione aziendale basata su diverse voci (su tutte, le conoscenze, le capacità relazionali, la polivalenza e polifunzionalità del dipendente, nonché la qualità dei risultati ottenuti) (91).
1.3. Le implicazioni dei minimi salariali e del salario minimo legale su formazione e professionalità.
Molteplici studi di economia del lavoro si sono concentrati sulla relazione intercorrente tra l’introduzione e la presenza di un minimo salariale, da un lato, e il livello di scolarizzazione, nonché di sviluppo professionale, dall’altro. Sul punto occorre però premettere che la maggior parte delle ricerche afferiscono gli effetti di un minimo salariale fissato per legge sullo sviluppo della professionalità, e concernono il contesto statunitense.
Uno dei primi contributi teorici, che ha costituito la base per i successivi lavori in materia, si deve alla teoria del Capitale Umano di Becker (92). Secondo tale teoria, in un modello di mercato perfettamente concorrenziale, le imprese non investono nella formazione dei lavoratori, e ciò soprattutto con riferimento alle competenze più generali; diversamente, invero, i datori di lavoro propendono ad investire soltanto sulle competenze specifiche, identificabili come quelle per cui l’impresa minimizza il rischio che i lavoratori, una volta formati, possano andarsene e spendere le conoscenze professionali acquisite presso altre aziende. In tale contesto, dunque, le imprese non investono nella formazione dei lavoratori, demandando l’onere agli stessi o, in alternativa, a forme di investimento pubblico. Coerentemente, minimi retributivi imposti per legge elidono la possibilità di ricorrere a salari più bassi e, di conseguenza, riducono l’impossibilità di investire in formazione, minimizzando l’accumulo di capitale umano.
(91) Per quanto detto si rimanda a La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pagg. 195 e ss.. Analogamente, per ulteriori pratiche aziendali esemplificative sul tema, tra cui quelle di Ducati e Santander Consumer Bank, si veda altresì La contrattazione collettiva in Italia (2015), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, pagg. 208 e ss..
(92) Cfr. BECKER G., Human capital, The University of Chicago press, Chicago, 1964.
Di segno opposto, invece, la teorizzazione di Acemoglu e Pischke (93), alla luce della quale in mercati non perfettamente concorrenziali, ove la distanza percepita tra salario erogato ai lavoratori e produttività degli stessi tende ad aumentare al crescere del capitale umano, le aziende sono più propense ad investire in formazione “on the job” e addestramento sul luogo di lavoro. Il salario minimo legale, come per vero anche altri istituti del mercato del lavoro, tra cui la contrattazione collettiva, comportano una compressione salariale, ponendo in essere le condizioni appena descritte, e cioè uno smorzamento dei differenziali retributivi cui conseguirebbero i margini necessari alle imprese per giustificare gli investimenti nello sviluppo professionale. A queste condizioni, e presupposta un’asimmetria informativa che concerne altresì le abilità messe in campo dai lavoratori e sconosciute all’azienda, il salario minimo legale spinge i datori di lavoro ad investire sulla formazione (anche generica, oltre che specifica) dei dipendenti, in particolare di quelli meno qualificati, allo scopo di avviare una significativa crescita in termini di capitale umano e, conseguentemente, di produttività.
Una prima indagine empirica in materia si rintraccia nel lavoro di Rosen (94), il quale giunge a concludere che salari minimi fissati per legge comportano delle decurtazioni alla formazione continua, e ciò soprattutto quando le imprese non hanno modo di corrispondere ai propri lavoratori un salario più basso in periodi di formazione. Premettendo dapprima che gli effetti dell’introduzione (ovvero dell’incremento) di un minimo salariale fissato per legge sul grado di scolarizzazione non sono sempre negativi, attraverso la sua indagine Rosen asserisce che vi sono effetti negativi sulla formazione professionale. Il salario minimo legale, infatti, rende impossibile la riduzione, almeno iniziale, della retribuzione di lavoratori ed apprendisti, soprattutto tra soggetti dal basso livello di istruzione, eliminando in tal modo la possibilità di finanziare la formazione degli stessi.
(93) Il riferimento è agli studi svolti da ACEMOGLU D., PISCHKE J., Beyond Becker: training in imperfect labor markets, in Economic Journal Features, vol. 109, n. 453, 1999, pagg. 112-142.
(94) Cfr. ROSEN S., Learning and experience in the labor market, in Journal of Human Resources, n. 7, 1972, pagg. 326-342. In questo senso anche MINCER J., LEIGHTON L., Effect of minimum wages on human capital formation, NBER Working Paper series, Cambridge, 1980.
Similmente, anche altri Autori osservano che, a fronte della crescita dell’importo del minimo salariale, diminuiscono i casi in cui un lavoratore possa usufruire di percorsi di formazione professionale, sicché il salario minimo legale disincentiverebbe la formazione on the job (95). La fissazione di un salario minimo legale riduce così l’occupazione e genera disoccupazione tra i lavoratori meno qualificati.
Più nello specifico, secondo approfondimenti più recenti, il salario minimo legale ritarda l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, e, soprattutto, scoraggia le imprese dallo svolgere la formazione sul luogo di lavoro, dunque ad investire in tali politiche, sacrificando l’eventuale momento di formazione iniziale e riducendo di conseguenza i margini di crescita del salario dei più giovani nel lungo periodo (96).
Di altro avviso, un diverso orientamento socio-economico ha notato che le aziende, dovendo puntare a livelli di efficienza più elevati, sarebbero più propense ad investire nella formazione dei propri dipendenti e nel capitale umano, in relazione a competenze sia specifiche che generali; i lavoratori, da canto loro, a fronte di un salario minimo fissato a livelli inferiori a quelli di libero mercato, e scienti delle esigenze delle imprese, sarebbero maggiormente portati ad accrescere le proprie competenze e a formarsi continuamente (97).
In linea con queste ultime deduzioni, già altri Autori avevano osservato, concentrandosi sul caso californiano, che un minimo salariale definito per legge, se contenuto, può configurare uno stimolo ad investire su percorsi di formazione e sviluppo professionale, soprattutto tra i lavoratori meno produttivi o qualificati (98).
(95) Cfr. NEUMARK D., WASCHER W., Minimum wages and training revisited, in Journal of Labor Economics, vol. 19, n. 3, 2001, pagg. 563-595.
(96) Cfr. KALENKOSKI C. M., The effects of minimum wages on youth employment and income, IZA World of Labor paper, 2016.
(97) Si vedano ACEMOGLU D., PISCHKE J., The structure of wages and investment in general training, in Journal of Political Economy, vol. 107, n. 3, 1999, pagg. 539-572; ACEMOGLU D., PISCHKE J., Minimum wages and on the job training, NBER Working Paper series, n. 7184, Cambridge, 2001; nonché SUTCH R., The unexpected long-run impact of the minimum wage: an educational cascade, NBER Working Paper series, n. 16355, Cambridge, 2010.
(98) Cfr. CARD D., KRUEGER A. B., Myth and measurement: the new economics of the minimum wage, Princeton University press, Princeton, 1995.
2. Inquadramento e retribuzione.
2.1. Il sistema di inquadramento quale elemento incidente sulla retribuzione e sulla professionalità dei lavoratori.
Nel tentativo di marcare lo stretto collegamento tra la classificazione del personale e l’istituto della retribuzione, parte della dottrina asserisce che i sistemi di inquadramento rappresentano un aspetto peculiare della contrattazione collettiva, sia sotto il profilo strutturale, sia soprattutto sotto il profilo salariale. I sistemi di inquadramento, infatti, concorrono a determinare il valore dello scambio, con riferimento a prestazioni lavorative poste su livelli differenti della gerarchia professionale (99). Conseguentemente, la questione retributiva e di incentivazione della qualità del lavoro si presenta strettamente connessa ai sistemi di inquadramento ed alla definizione delle declaratorie professionali (100).
Del resto, già precedentemente Giugni sosteneva che il livello di classificazione serve propriamente ad indentificare il trattamento economico-normativo del lavoratore (101). Tale assunto è dunque tanto più vero quanto più si considera l’inquadramento dei lavoratori come un istituto complementare al sistema retributivo e di valorizzazione della professionalità espletate dai lavoratori (102).
2.1.1. Evoluzione e lineamenti dei sistemi di inquadramento.
2.1.1.1. Il sistema inquadramentale corporativo.
Da un punto di vista storico, durante i primi anni dell’Italia repubblicana i sistemi di inquadramento hanno riproposto, pressoché fedelmente, i modelli di stampo corporativo, propri dell’esperienza fascista e costruiti attorno al concetto di qualifica.
(99) Si veda GUARRIELLO F., op. cit., pag. 52.
(100) Così D’ONGHIA M., Un itinerario sulla qualità del lavoro, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, vol. 1, n. 2, 2009, pagg. 257-298.
(101) Cfr. GIUGNI G., Intervento in Mansioni e qualifiche. Evoluzione e crisi dei criteri tradizionali, in AIDLASS, Atti delle giornate di studio di Pisa, 1973.
(102) Di tale avviso ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 83 e ss..
Nell’immediato dopoguerra, infatti, non era stata messa mano al sistema classificatorio e, dunque, era stata mantenuta la stretta divisione tra operai ed impiegati, in una soluzione di continuità rispetto alle leggi sul contratto di impiego privato del 1919 e del 1924. In tali anni, dunque, si è registrato il mantenimento dei sistemi corporativi di classificazione del personale (103).
Nello stesso solco, anche Zilio Grandi sottolinea che nell’immediato dopoguerra è rimasto fermo l’inquadramento di stampo corporativo. Coerentemente, è prevalsa in quel frangente storico la «concezione aprioristica e di chiara provenienza corporativa»
(104) di una struttura professionale rigida, articolata sulle fattispecie di cui all’originaria
versione dell’art. 2095 c.c. (e cioè dirigenti, impiegati e operai).
Tuttavia, il sistema inquadramentale, così impostato ed ereditato dal sistema corporativo, non era esime da valutazioni critiche. Le innovazioni tecnologiche apportate in quegli anni nei processi produttivi, infatti, evidenziavano l’obsolescenza di questi criteri classificatori. Si registrava in particolare la nascita di nuove figure professionali, le quali sempre più difficilmente riuscivano ad essere collocate esaustivamente nei vecchi sistemi di inquadramento. I sistemi classificatori si limitavano infatti a riproporre mere declaratorie dei compiti che il lavoratore era chiamato a svolgere (105).
In aggiunta, in considerazione di una recente ricostruzione di Cazzola (106), la classificazione ereditata dal periodo corporativo, e basata sulla netta separazione tra operai, impiegati e c.d. “equiparati”, ove ciascuna di queste categorie conteneva al suo interno un certo numero di parametri e di livelli retributivi, portava con sé più criticità. Ad esempio, i livelli degli impiegati, compresi quelli c.d. “d’ordine”, erano comunque
(103) Si vedano SCONAMIGLIO R., Mansioni e qualifiche. Evoluzione e crisi dei criteri tradizionali, in AIDLASS, Atti delle giornate di studio di Pisa, 1973, e CARINCI F., L’inquadramento dei lavoratori: l’evoluzione storica, in Studi in memoria di Marino Offeddu, Cedam, Padova, 1988, pagg. 101 e ss..
(104) Così ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 85-86.
(105) Sul punto si vedano VENETO G., Organizzazione e classificazione del lavoro: spunti critici storico- giuridici, in FERRI A., a cura di, Scienza e organizzazione del lavoro. Atti del convegno di Torino, 1973, ed altresì SCONAMIGLIO R., op. cit..
(106) Cfr. CAZZOLA G., La lunga battaglia per l’inquadramento unico, nella rubrica Storia delle relazioni industriali, in www.ildiariodellavoro.it, 12 dicembre 2016.
più elevati di tutti i livelli degli operai. Ancora, e sempre a titolo esemplificativo, nel mezzo si ponevano i c.d. “equiparati”, e cioè gli operai equiparati agli impiegati, la categoria dei quali era stata pensata in epoca fascista per inquadrare i lavoratori manuali di alta esperienza e specializzazione, chiamati nel concreto a svolgere il compito di “capo reparto”. Ad ognuna di queste categorie, come in parte anticipato, corrispondevano una specifica gerarchia professionale, nonché differenti trattamenti economici e normativi, le cui radici risalivano alla citata legge fascista sull’impiego privato.
2.1.1.2. La prospettiva della job evaluation.
Negli anni Sessanta si rinviene un tentativo di sviluppo dei modelli di inquadramento dei lavoratori, attraverso il sistema della c.d. job evaluation. Esso consisteva in pratiche di ricognizione delle attività e dei compiti lavorativi presenti in azienda, con contestuale valutazione diretta delle mansioni espletate dai lavoratori (107), con il desiderio, almeno iniziale, di rendere oggettivi i trattamenti retributivi e ridurre eventuali disparità tra dipendenti aventi identiche mansioni (108).
Tale modello è stato però osteggiato, soprattutto dalle organizzazioni sindacali, in quanto reputato uno strumento inadeguato, non tanto orientato ad un riconoscimento delle professionalità, quanto piuttosto ad avanzamenti demandati alla discrezionalità datoriale. La parentesi fu quindi tutto sommato marginale e circoscritta alle aziende siderurgiche a partecipazione pubblica (il riferimento va qui alle società Cornigliano e Ilva, successivamente confluite nell’Italsider), che già avevano sperimentato queste dinamiche negli anni antecedenti. Invero, da una analisi condotta da Giugni e focalizzata sul caso Italsider (109), emerge come la nuova società aveva implementato un
(107) Cfr. ICHINO P., Interesse dell’impresa, progresso tecnologico e tutela della professionalità, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, fasc. 4-5, 1976, pagg. 481 e ss.. Per una ricognizione invece più generale sull’esperienza del modello di “job evaluation” si rimanda nuovamente a SCONAMIGLIO R., op. cit., e CARINCI F., op. cit..
(108) Cfr. CRIPPA M., Valorizzazione delle competenze e flessibilità contrattuale: verso il superamento dei sistemi rigidi di classificazione contrattuale dei lavoratori, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 4, 2008, pagg. 1127-1153.
(109) Cfr. GIUGNI G., op. ult. cit., pagg. 35 e ss..
sistema di “job evaluation” per unificare i precedenti, ed eterogeni, sistemi di incentivo esistenti. Da tali esigenze è quindi scaturito un manuale di valutazione del lavoro contenete le varie regole tecniche per l’applicazione del sistema stesso. L’esperienza contrattuale dell’Italsider, dunque, vede quale suo tratto più peculiare proprio il sistema di job evaluation, che, nella fattispecie in esame, rappresenta uno stimolo alla revisione delle strutture organizzative e al rinnovamento dei meccanismi di gestione delle risorse umane.
2.1.1.3. Le origini del sistema di inquadramento unificato.
Dalle critiche al sistema della c.d. job evaluation, nonché al precedente modello corporativo, muovono le proposte volte all’introduzione dell’inquadramento unico. La macro-distinzione tra operai ed impiegati porgeva infatti sempre più il fianco a critiche. L’avvento della c.d. “Terza rivoluzione industriale” nella prima metà degli anni Settanta, in primo luogo, ha influenzato il rapporto tra lavoratori e realtà produttive, costringendo a cambiare una normativa che, altrimenti, sarebbe risultata ingessante (110).
Secondo un ulteriore orientamento, poi, il meccanismo della job evalutaion, nello specifico, risultava ancorato ad una logica fortemente tayloristica, quindi allora inadeguato rispetto ad un lavoro dove già contavano sempre meno le mansioni descritte in dettaglio (111).
Conseguentemente, con la tornata contrattuale dei primi anni Settanta, si afferma nel panorama delle relazioni industriali in Italia il sistema ad inquadramento unico. Il carattere che lo contraddistingue è il superamento del previgente sistema, strettamente basato sulle qualifiche, per approdare ad una scala classificatoria unica e slegata dalla
(110) Così ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 87 e ss.. Con simile orientamento anche CARINCI F., Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in AIDLASS, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro. Atti dell’VIII Congresso, 1985, e GALANTINO L., I riflessi dell’innovazione tecnologica sull’inquadramento professionale e sulla struttura retributiva dei lavoratori, in Il Diritto del Lavoro, vol. 1, 1986, pagg. 181 e ss..
(111) Così D’ONGHIA M., op. cit.. Sul punto, si veda altresì CRIPPA M., op. cit..
distinzione tra operai e impiegati (112), con la sola rilevante eccezione del settore agricolo.
Da un punto di vista socio-politico, Cella ha notato come il nuovo sistema d’inquadramento sia stato il risultato di un processo rivendicativo collettivo, e cioè delle iniziative dei lavoratori sorte a fine anni Sessanta (113). La divisione del lavoro si doveva misurare con novità sempre più concrete, non potendosi scollegare dal contesto sociale di quegli anni. Nello specifico, vengono individuati tre fattori, tra i più influenti e identificativi di questa fase evolutiva: il mutamento della struttura tecnologica propria nell’industria italiana; la fine del mercato del lavoro unitario, con l’affermazione di carriere meno strutturate e, diversamente, sempre più semi-qualificate; da ultimo, l’emergere di una carica politica in seno alle iniziative operaie, portatrici di rivendicazioni ugualitarie. Tali fattori non hanno soltanto spinto al superamento dello strumento della c.d. job evaluation, accusato di attribuire la qualifica (svuotata) alle mansioni, anziché al lavoratore, ma hanno altresì condotto le parti sociali a superare la divisione classificatoria tra operai e impiegati.
Mentre Marazza, con riferimento al contesto sociale e storico di fine anni Sessanta, rileva prevalentemente l’estrema uniformità del trattamento economico e normativo spettante ai lavoratori in quel frangente, con la predominanza dell’elemento collettivo su quello dell’autonomia individuale, in senso opposto a quanto si verificava in altri paesi (114), Baccaro e Locke, similmente a Cella per molti aspetti, individuano nel modello di inquadramento unico dei lavoratori un risultato delle campagne sindacali orientate a limare le diseguaglianze tra differenti categorie di lavoratori ed a rivedere, in ottica egualitaria, l’organizzazione del lavoro (115).
(112) Cfr. CARINCI F., op. cit.. Si veda anche CAZZOLA G., op. cit..
(113) Cfr. CELLA G. P., Divisione del lavoro e iniziativa operaia, De Donato, Bari, 1972, pagg. 139 e ss..
(114) Cfr. MARAZZA M., La crisi dell’egualitarismo sessantottino nella società del lavoro Borghese: la subordinazione attenuate dell’epoca postindustriale, in Argomenti di Diritto del Lavoro, n. 4-5, 2007, pagg. 928 e ss..
(115) Cfr. BACCARO L., LOCKE R. M., The end of solidarity? The decline of egalitarian wage policies in Italy and Sweden, in European Journal of Industrial Relations, vol 4, n. 3, 1998, pagg. 286 e ss..
Il sistema dell’inquadramento unico ha così convenzionalmente inizio a far data dai rinnovi contrattuali degli anni 1973 e 1974 (116).
Il rinnovo contrattuale del settore metalmeccanico (1973), in particolare, ha introdotto un sistema classificatorio articolato in più livelli individuati mediante criteri generali e riferito contestualmente a operai e impiegati, disposti su posizioni orientate gerarchicamente e cui si riconduce la descrizione di compiti e responsabilità. Con ulteriore riferimento al rinnovo dei metalmeccanici, Cazzola evidenzia che con il contratto del 1972 si creò un’ampia parte normativa comune. L’allineamento degli operai nei confronti degli impiegati, in particolare, secondo l’Autore, avvenne in due punti: l’operaio qualificato venne agganciato al medesimo parametro dell’impiegato d’ordine, mentre un gruppo ulteriormente selezionato di operai specializzati (c.d. “superspecializzati”) veniva intersecato con alcuni profili di impiegati di livello elevato (117).
L’inquadramento unico, più generalmente, segnando il superamento della divisione tra impiegati e operai, si basa su un’unica griglia classificatoria composta mediamente da sette o otto livelli, cui corrispondono specifiche mansioni. Il sistema è stato solo parzialmente ritoccato con la legge 13 maggio 1985, n. 190, la quale ha aggiunto la categoria dei quadri, nel concreto mediante l’individuazione di nuove figure nei livelli gerarchicamente più alti (118).
Siffatto modello, dunque, trasfuso in tutti i contratti collettivi nazionali, poggia su uno schema misto di declaratorie, nonché su elenchi di profili e figure professionali, demandabili alle declaratorie stesse. Ne risulta un certo numero di categorie o livelli, cui corrispondono dei minimi retributivi. Tali livelli, nello specifico, sono organizzati secondo una progressione di carriera verticale, giacché il funzionamento sistemico si basa sull’acquisizione della maggior specializzazione possibile nella singola mansione (119).
(116) Così ZILIO GRANDI G., op. cit., pag. 95, e LEONI R., op. cit..
(117) Cfr. CAZZOLA G., op. cit..
(118) Sul punto, si veda GUARRIELLO F., op. cit., pagg. 52 e ss..
(119) Cfr. CRIPPA M., op. cit..
2.1.1.4. La crisi del sistema unificato di inquadramento.
Negli anni successivi, e cioè dai primi anni Novanta, sino ad arrivare ai giorni nostri, sono occorsi ulteriori cambiamenti nel mercato del lavoro domestico. Su tutti, tali cambiamenti, secondo Leoni (120), sono demandabili alle nuove tecnologie di processo e all’affermazione della c.d. lean production; a confini di mercato più sfumati; alla riduzione dei livelli gerarchici, con l’affermazione di carriere orientate non solo verticalmente, ma altresì orizzontalmente; all’affermazione di compiti sempre meno predefiniti e, diversamente, sempre più basati su ruoli da interpretare. L’insieme di queste componenti ha investito la tecnologia, le imprese, l’organizzazione delle stesse, così come i contenuti delle prestazioni lavorative, cominciando a mettere in discussione la scala unica di classificazione.
Un gran numero di Autori converge così nel sostenere l’inattualità del sistema inquadramentale unico, seppur esso, nel concreto, sia rimasto in vigore sino ai giorni nostri (121).
Zilio Grandi, a titolo di esempio, evidenzia già negli anni Novanta la debolezza della contrattazione collettiva in materia classificatoria, primariamente perché l’innovazione tecnologica ha reso sempre più difficile ricongiungere nuovi lavoratori e nuovi lavori. Nello specifico, la contrattazione collettiva, contestuale al sistema di inquadramento unico, è rea di non aver saputo ripensare il rapporto tra tecnologie sempre più sofisticate, da una parte, e criteri di valutazione economico-professionale delle prestazioni lavorative, dall’altra (122). Il sistema ad inquadramento unico è tuttora rimandabile principalmente ad un’organizzazione del lavoro di stampo taylor-fordista, ove le mansioni sono prescritte rigidamente e codificate per lavoratori strettamente addestrati. Un’organizzazione che, insomma, non è più attuale perché incapace di segnalare i contenuti delle competenze richieste ed esprimibili dai lavoratori, soprattutto nei contesti produttivi a più alto contenuto tecnologico (123).
(120) Cfr. LEONI R., op. cit..
(121) Cfr. GUARRIELLO F., op. cit., e LEONI R., op. cit..
(122) Così ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 90 e ss..
(123) Di tale avviso LEONI R., op. cit..
Di analogo avviso, anche D’Onghia rileva l’inattualità del sistema di inquadramento unificato, notando come il tramonto della produzione di massa e l’emersione di strategie consumistiche abbiano di recente determinato il passaggio da una struttura organizzativa e produttiva rigida, a forme organizzative più snelle e basate su processi. Il declino della produzione di massa, in tal senso, ha portato alla luce la scarsa aderenza delle declaratorie e dei profili professionali alle situazioni lavorative prodotte dall’innovazione tecnologica (124).
Sulla rigida separazione tra professionalità, da un alto, e retribuzione e sistemi di inquadramento, dall’altro, Tiraboschi nota che il sistema classificatorio unificato stabilisce soltanto le funzioni e le mansioni che il lavoratore è tenuto a ricoprire, collegandovi un determinato livello retributivo. In tal senso, gli attuali modelli di inquadramento nulla dicono su come deve essere adempiuta la prestazione lavorativa in termini di valore aggiunto richiesto ed espresso (125).
D’altro canto, Ichino evidenzia come i sistemi classificatori odierni si basino su una c.d. “qualifica soggettiva”, e cioè su criteri attinenti la capacità professionale del lavoratore, intesa come quella acquisita dal dipendente mediante corsi di studio e formazione, oppure quella maturata attraverso pregresse esperienze aziendali (126). In tal senso, i sistemi di inquadramento, o, in senso lato, i contratti di lavoro, non sono capaci di valorizzare la professionalità espressa dal lavoratore, essendo incapaci di commisurare il trattamento al contenuto vero e proprio della prestazione. Più nello specifico, da tale ragionamento emergono i primi due criteri inquadramentali individuati, vale a dire i criteri attinenti il contenuto della prestazione ed i criteri relativi alla capacità professionale (ad esempio, come detto, il titolo di studio del lavoratore), cui si aggiunge poi un terzo criterio inquadramentale attinente elementi di natura diversa, quale può essere l’anzianità di servizio. Il sistema di inquadramento unificato, come inteso oggi,
(124) Così D’ONGHIA M., op. cit..
(125) In tali termini TIRABOSCHI M., op. cit.. Di analogo avviso già CRIPPA M., op. cit., ove l’Autore sostiene che declaratorie e qualifiche, di fatto, non hanno alcun legame con il reale contributo offerto dal lavoratore, garantendo sì una notevole omogeneità in termini di trattamento economico, ma perpetuando un generale appiattimento salariale.
(126) Così ICHINO P., Il contratto di lavoro, Fonti e principi generali; autonomia individuale e collettiva; disciplina del mercato; tipi legali; decentramento produttivo; differenziazione dei trattamenti e inquadramento, in Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, Milano, 2000, pagg. 527-541.
fissa sì le funzioni in capo al lavoratore, ma non collega il trattamento del medesimo al valore della prestazione, o meglio al “come” esso la esegue. Analogamente, Carabelli ha pure notato che dai sistemi di classificazione del personale resta esclusa la dimensione qualitativa della prestazione di lavoro, e cioè il “saper come fare”, esemplificativo della competenza del lavoratore, alimentabile dinamicamente pure mediante un percorso formativo continuo ed esperienze professionali differenziate (127). Ciò si manifesta nella capacità del lavoratore di “saper essere”, oltre che assumere autonomamente le scelte e decisioni necessarie per l’espletamento della sua prestazione e per il funzionamento del sistema. Questa criticità del sistema contrattuale italiano ha dovuto spesso richiedere ingenti sforzi affinché i contenuti della prestazione di lavoro trovassero riconoscimento anche sul piano salariale, e ciò in base al principio di corrispettività, sia da un punto di vista giuridico, sia da un punto di vista socioeconomico. A maggior ragione se alla luce delle recenti evoluzioni in termini di contenuti dell’obbligazione lavorativa. La soluzione, secondo tale orientamento, consiste nel riconoscimento di progressioni economiche orizzontali, mirate a valorizzare la componente della professionalità dei lavoratori, dunque le capacità e abilità del prestatore di lavoro, abbandonando elementi retributivi collegati alla posizione di servizio ovvero all’anzianità di servizio.
2.1.1.5. I sistemi board banding e le evoluzioni più recenti nei sistemi di inquadramento.
A fronte delle critiche, sempre più concrete, non sono mancati tentativi di revisione e di aggiustamento del sistema ad inquadramento unico. Negli anni Novanta, invero, successivamente agli accordi di concertazione ed al Protocollo del 23 luglio 1993 (c.d. Protocollo Giugni), alcuni attori negoziali hanno iniziato a pensare come poter coniugare il mutante quadro organizzativo-produttivo con le nuove esigenze normativo- inquadramentali (128).
Qualche settore (su tutti, il chimico) ha cercato di portare a compimento una riforma verso sistemi di inquadramento maggiormente basati sulle competenze. In questo senso,
(127) Così CARABELLI U., op. cit..
(128) Cfr. CARINCI F., op. ult. cit..
ad esempio, si è provato a superare i tradizionali meccanismi classificatori, basati su mansioni in senso stretto, per passare ad una classificazione “a maglie larghe”, invece costruita su un numero ridotto di fasce, articolate al loro interno su più gradini capaci di assicurare una valorizzazione retributiva della professionalità espletata. La contrattazione collettiva, dunque, ha ultimamente provato ad innestare un riconoscimento economico basato sui tratti qualitativi e quantitativi della mansione espletata dal lavoratore (129).
Il comune denominatore delle nuove esperienze è dato dal fatto che la struttura inquadramentale tenta di riconoscere non tanto mansioni e qualifiche, quanto piuttosto professionalità e competenze, così da consentire una gestione più funzionale e moderna del personale (130).
Alcuni tra gli aggiustamenti più recenti hanno allora superato la tradizionale suddivisione in livelli classificatori, accorpando gli stessi in un numero ridotto di fasce o aree professionale, con i relativi profili professionali esemplificativi, articolate quindi al loro interno in più livelli. In tal modo, i fattori della professionalità vengono graduati rispetto alle varie fasce o aree. Questo mutamento si riflette anche sulla gestione della forza lavoro, mediante un’estensione dell’area di equivalenza delle mansioni e dell’esigibilità delle stesse. Coerentemente, attraverso queste impostazioni, i datori di lavoro possono fare leva su una maggiore flessibilità gestionale, contando su confini delle mobilità orizzontale particolarmente estesi (131).
Nello specifico, taluni Autori hanno altresì riconosciuto la natura ancora ibrida dei sistemi di classificazione c.d. “a maglie larghe”, talvolta definendo queste aperture al tema della valorizzazione delle professionalità come il ricorso ad una «metodologia spuria, che innesta elementi soggettivi di classificazione delle persone su preesistenti
(129) Per un focus più approfondito sul Ccnl Industria Chimica del marzo 1994, quale caso esemplificativo delle novità occorse dagli anni Novanta, si rimanda ulteriormente a ZILIO GRANDI G., op. cit., e GUARRIELLO F., op. cit..
(130) Si veda MAGNANI M., Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 1, 2004, pagg. 165-201.
(131) Così D’ONGHIA M., op. cit..
elementi oggettivi di classificazione dei posti di lavoro» (132). Altri hanno rilevato come siffatti modelli si collochino ancora a “metà del guado”, giacché dietro le fasce professionali vi si ritrovano i vecchi livelli e le vecchie categorie. La crescita retributiva permane orientata solo verticalmente, ed è cioè attuabile soltanto mediante il passaggio al livello retributivo superiore: la persona acquisisce orizzontalmente nuove competenze, ma ottiene la retribuzione superiore solo se si sposta al livello successivo (133).
Con precipuo riferimento ai sistemi a bande larghe (vale a dire i sistemi comunemente denominati di broad banding), si tratta di un modello che scardina l’approccio più tradizionale nella definizione dei livelli di inquadramento. Tale sistema, come anticipato, si basa su più fasce, in numero comunque contenuto, entro cui si determinano dei percorsi di sviluppo generalmente e variamente basati su una valutazione e misurazione del contributo delle persone nel lavoro, con un peso accresciuto in capo alle competenze e alle performance professionali (134).
A conferma delle suddette traiettorie evolutive, il caso più esemplificativo è quello di alcuni settori, quale quello chimico e della gomma-plastica, in cui rileva una tendenza a fare affidamento su sistemi di inquadramento capaci di valorizzare l’apporto del singolo lavoratore e le competenze dello stesso. In altri settori, diversamente, quale quello della logistica e trasporti, i recenti rinnovi contrattuali hanno individuato nuovi livelli di inquadramento, contestualmente ad un aggiornamento delle declaratorie ed alla definizione di regole in materia di mobilità mansionale (135). Dall’esperienza ancora più recente emergono poi i casi esemplificativi del Ccnl Chimici e del Ccnl Energia e Petrolio, i cui sistemi classificatori non prevedono automatismi promozionali, bensì più
(132) In tali termini GUARRIELLO F., op. cit., pagg. 55-56.
(133) Cfr. CRIPPA M., op. cit., pagg. 1150-1151.
(134) In questi termini, VIVIANI D., FANELLI L., Il ruolo dei sistemi di risorse umane tra istanze di produttività e contrattazione collettiva, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 3, 2009, pagg. 703-714. Con parole simili, si veda nuovamente pure GUARRIELLO F., op. cit., pagg. 66 e ss..
(135) Si rimanda a La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pagg. 23 e ss..
livelli all’interno di una determinata categoria o area, con margini per una maggiore flessibilità classificatoria e mansionale, oltre che retributiva e gestionale (136).
2.2. La professionalità nel mercato del lavoro che cambia.
Con una panoramica generale sui cambiamenti occorrenti negli ultimi anni nel mercato del lavoro, Treu ha osservato che la recente crisi economica ha cambiato il «campo di gioco» entro cui operano gli attori economici, sottoponendo a dura prova gli istituti fondamentali del diritto del lavoro e delle relazioni industriali (137). La rottura dei confini nazionali, con la contestuale apertura ad un mercato sempre più globale e competitivo, ha invero indebolito le strutture regolative e la funzione delle stesse. Il diritto del lavoro e delle relazioni industriali, dunque, si deve oggi misurare con i parametri di efficienza e le necessità di competitività dei sistemi nazionali. In tale contesto, e per quanto qui di maggior interesse, si registra uno spostamento delle competenze lavorative verso livelli sempre più elevati, sulla scia delle odierne innovazioni tecnologiche e organizzative.
Analogamente, nel parere di altri Autori i nuovi problemi che incidono su occupazione e produttività sono riconducibili primariamente al generalizzato processo di ammodernamento del sistema produttivo che conduce a ridurre o mutare i posti di lavoro. Tale processo, in particolar modo, è stato amplificato dalla globalizzazione e dalla recente crisi economica (138), e, secondo altri studi, anche dall’affermazione della
c.d. Industry 4.0, termine largamente utilizzato per indicare il recente fenomeno di interconnessione dinamica e circolare tra internet, macchine e persone, insito «tanto nei processi di produzione industriali manifatturieri quanto nei mercati dei prodotti e dei servizi, derivante dalla capillare diffusione di internet e dalla conseguente interconnessione tra dimensione reale/materiale e dimensione digitale/immateriale»
(136) Sul punto, si veda La contrattazione collettiva in Italia (2015), Parte II, Salari e professionalità nella contrattazione collettiva, Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, pagg. 303 e ss..
(137) Cfr. TREU T., Le istituzioni del lavoro nell’Europa della crisi, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 4, 2013, pagg. 597-640.
(138) Così CATAUDELLA M. C., op. cit., pagg. 31 e ss..
(139). Il lavoratore diventerebbe dunque parte integrante del sistema azienda, per cui dovrebbe saper districarsi in ambienti più complessi, saper fronteggiare elementi di complessità con visione di intervento, saper gestire le continue innovazioni, saper lavorare in team e, nondimeno, essere in grado di individuare e risolvere celermente i problemi (140).
2.2.1. La polarizzazione nel mercato del lavoro.
Una parte della letteratura socioeconomica si è concentrata sul tema della polarizzazione del mercato del lavoro nelle economie avanzate. Il fenomeno della polarizzazione, nel merito, comporta il generale slittamento occupazionale verso posti di lavoro altamente qualificati e retribuiti, da un lato, ovvero verso posti di lavoro scarsamente qualificati e retribuiti, dall’altro, estremizzando la distanza tra le due categorie di lavoratori (141).
Un filone di ricerca economica ha posto quale motore principale della polarizzazione interna al mercato del lavoro la diffusione delle nuove tecnologie. Alcuni studiosi, in particolare, individuano uno spartiacque fondamentale nel calo dei prezzi dei computer, i quali, diventando più accessibili e trovando maggiore diffusione, hanno apportato forti cambiamenti nei sistemi produttivi (142).
(139) In tali termini TIRABOSCHI M., SEGHEZZI F., Il Piano nazionale Industria 4.0: una lettura lavoristica, in Labour & Law Issues, vol. 2, n. 2, 2016, pag. 4. In materia si registra poi un vasto numero di lavori, tutti incidenti sul tema ed editi nel corso del 2016, tra i quali, ad esempio, il progetto Fabbrica
4.0 di Confindustria, l’Indagine Industria 4.0 promossa da Federmeccanica e il Position Paper su Industria 4.0 realizzato dall’Area Industria e Innovazione e dal Centro Studi di Assolombarda - Confindustria Milano Monza e Brianza.
(140) Sul punto, ad esempio, cfr. SEGHEZZI F., Lavoro e relazioni industriali nell’Industry 4.0, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 1, 2016, pagg. 178-209.
(141) Sul punto si veda, ad esempio, WRIGHT E. O., DWYER R. E., The patterns of job expansions in the USA: a comparison of the 1960s and 1990s, in Socio Economic Review, n. 1, 2003, pagg. 289-325.
(142) Si veda AUTOR D. H., KATZ L. F., KEARNEY, M. S., The polarization of the U.S. labour market, in The American Economic Review, vol. 96, n. 2, 2006, pagg. 189-194. Ulteriormente, per un esame più approfondito si vedano AUTOR D. H., DORN D., The growth of low-skill service jobs and the polarization of the US labor market, in The American Economic Review, n. 5, 2013, pagg. 1553-1597, ove gli Autori confermano l’impatto delle nuove tecnologie sui connotati del mercato del lavoro. Tuttavia, una variante ed eccezione, che secondo Autor e Dorn non si limita ai confini statunitensi e merita di essere studiata, consiste nella crescita dell’occupazione e dei salari tra i lavoratori meno qualificati impiegati nei servizi.
Da analoghe considerazioni erano già mossi altri economisti, per vero con un occhio di riguardo verso le possibili evoluzioni. Nello specifico, taluni hanno sostenuto come inevitabile conseguenza una polarizzazione nel mercato del lavoro, e cioè uno distanziamento tra lavoratori sempre più qualificati e, di contro, colleghi dalle competenze sempre più deboli, con una seguente crescita delle diseguaglianze sociali ed economiche (143). Secondo alcuni studiosi, invero, alla riduzione delle mansioni routinarie fa da contraltare l’affermazione delle specializzazioni (144); altri hanno sostenuto che l’innovazione tecnologica, altresì accompagnata da un ruolo delle istituzioni e da una più funzionale offerta formativa, apporterà primariamente un accrescimento nelle competenze dei lavoratori (145).
Nellas e Olivieri hanno poi cercato di sottolineare come il processo di polarizzazione può essere mitigato dalla presenza di forti istituzioni nel mercato del lavoro, su tutte i sindacati e la contrattazione collettiva (146).
2.2.2. Lo sviluppo delle nuove competenze.
Molti altri contributi si sono focalizzati sulle competenze che stanno emergendo nel mercato del lavoro, per vero con un taglio maggiormente sociologico. Alcuni, ad esempio, notano anche come gran parte della letteratura scientifica, complice la concezione taylor-fordista di organizzazione del lavoro, abbia dedicato poco spazio alla componente meno manuale del lavoro. Da questo punto di vista, non è mai stata dedicata debita attenzione alla dimensione sociale del lavoro stesso, componente invece oggi crescente e identificabile nella capacità del lavoratore di operare in gruppo,
(143) Cfr. GOOS M., MANNING A., SALOMONS A., Job polarization in Europe, in The American Economic Review, vol. 99, n. 2, 2009, pagg. 58-63.
(144) Tra gli studi più autorevoli, in tal senso, si segnala nuovamente AUTOR D. H., KATZ L. F., KEARNEY, M. S., op. cit., oltre a ACEMOGLU D., AUTOR D., Skills, Tasks and Technologies: Implications for Employment and Earnings, in Handbook of LaborEconomics, vol. 4, B, 2011, pagg. 1044-1171.
(145) Cfr. OESCH D., RODRIGUEZ MENES J., Upgrading or polarization? Occupational change in Britain, Germany, Spain and Switserland (1990-2008), in MPRA Paper, n. 21040, 2010.
(146) Cfr. NELLAS V., OLIVIERI E., Job polarizations and labour market institutions, IZA Working Paper, 2011.
mediante cui, peraltro, lo stesso può sviluppare quella che viene definita la «produzione di sé» nel lavoro (147).
Un contributo rilevante allo studio della combinazione tra il “saper fare” ed il “saper essere”, arriva nel medesimo periodo, e cioè ad inizio anni Novanta, con Kern e Schumann. Con riferimento al contesto statunitense, si afferma l’idea che nell’industria ha cominciato a sgretolarsi una divisione prettamente tecnica del lavoro, a favore di un impiego più integrato della forza lavoro. A segnare questo passaggio è proprio l’accrescimento delle c.d. “skills sociali” dei lavoratori, obiettivo che passa per lo sviluppo delle capacità relazionali degli stessi (148). Ciò, è bene precisare, si affianca all’abilità professionale delle maestranze, senza sostituirla.
Dagli studi così condotti emerge la figura di un lavoratore che è dunque parte integrante del sistema azienda, sicché da esso ci si aspettano competenze tecniche largamente spendibili e visioni di intervento, in aggiunta a capacità relazionali, decisionali e di lavoro in squadra (149). In tale scenario assumono così una precipua importanza anche le competenze sociali dei lavoratori, e cioè la loro componente di “saper essere”. Coerentemente, Dell’Aringa sostiene che oggi, allora, la prestazione lavorativa «non consiste più nell’avvitare un bullone, bensì nella capacità di intervento nelle situazioni impreviste che si possono presentare, mettendoci impegno e professionalità» (150).
L’attuale necessità delle imprese di stare sul mercato può dunque essere perseguita mediante un’alta qualità del prodotto, nonché velocità e flessibilità nel passare da un lotto all’altro, con caratteristiche peraltro diverse. Coerentemente, si viene a delineare secondo Nacamulli la figura di un lavoratore multi-tasking, capace di lavorare in
(147) Il riferimento va a GORZ A., Metamormorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
(148) Cfr. KERN H., SCHUMANN M., La fine della divisione del lavoro? Produzione industriale e razionalizzazione, Einaudi, Torino, 1991.
(149) Oltre ai contributi già citati, sul tema si veda altresì CARABELLI U., op. cit..
(150) Così DELL’ARINGA C., Professionalità e approccio economico, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., pag. 95.
gruppo, perché è questa la via mediante cui realizzare alti livelli di efficienza e qualità (151).
Questo trend, ravvisato dalle imprese stesse, secondo cui cioè il lavoratore è parte integrante del sistema azienda, è ben esemplificato nelle parole di Morita, fondatore del gruppo nipponico Sony: «Nell’azienda tutti devono contribuire, e il contributo dei dipendenti dei gradini più bassi non deve limitarsi al lavoro manuale. Noi insistiamo perché tutti i dipendenti contribuiscano con il cervello» (152).
Altri Autori ravvisano nei cambiamenti più recenti la necessità di rivedere i sistemi di organizzazione e valorizzazione delle risorse umane, verso strutture maggiormente orientate in tal senso. Nello specifico, un filone di studi individua come fattori preminenti a guida del cambiamento: la natura del lavoro, in evoluzione in seguito alla crescita della globalizzazione economica e delle nuove tecnologie; la competizione globale, che spinge le imprese a puntare sempre più sulla qualità del prodotto; i cambiamenti organizzativi, sicché le aziende hanno un continuo bisogno di cambiare struttura produttiva, in modo da garantire elevate performance in tempi rapidi; la struttura dell’organizzazione di lavoro, sempre meno verticistica e sempre più piatta. In questo nuovo contesto si rendono necessarie imprese orientate sulla valorizzazione delle competenze, e, conseguentemente, su sistemi retributivi strategici, capaci di individuare margini per lo sviluppo professionale dei dipendenti e la valorizzazione economica degli stessi (153). Di diverso avviso, tuttavia, chi sostiene che le attuali tendenze nella progettazione organizzativa non richiedono necessariamente un cambiamento nel modo in cui i lavoratori sono valutati e, conseguentemente, pagati: i dipendenti sono ancora
(151) Sul punto NACAMULLI R., Professionalità e organizzazione, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., pagg. 63 e ss..
(152) Cfr. MORITA A., REINGOLD E., SHIMOMURA M., Made in Japan. Autobiografia del presidente della Sony, Edizioni di Comunità, Milano, 1987, pag. 175.
(153) Si veda LAWLER III E. E., From job-based to competency-based organizations, in Journal of Organizational Behavior, vol. 15, n. 1, 1994, pagg. 3-15. In questi termini già il precedente elaborato LAWLER E. E., LEDFORD G. E., A skill-based approach to human resource management, in European Management Journal, vol. 10, n. 4, 1992, pagg. 383-391.
qualificati in base alle loro funzioni, e la retribuzione continuerà a basarsi sulle mansioni svolte dagli stessi, piuttosto che sulle loro abilità (154).
Un ulteriore filone di studi, ad esempio, si è focalizzato sulla necessità di una nuova filosofia di c.d. empowerment delle risorse umane, sicché lo scambio tra lavoratore e impresa non è più poggiato su una prestazione meccanica e, in quanto tale, prevedibile e totalmente identificabile, quanto piuttosto su competenze espletate in situazioni incerte e variabili, influenzate da mercati globali, nuovi prodotti, nuovi cicli produttivi e diversi contenuti dei servizi offerti (155). Per questi motivi le esigenze di apprendimento sono oggi continue e soggette a forte incertezza, ed ai lavoratori sono richieste competenze nuove e più profonde, quali abilità gestionali, diagnostiche, relazionali, nonché maggiormente declinabili intellettualmente.
La società verso cui muoviamo è così caratterizzata sì da “lavoratori della conoscenza” (156), ma anche e soprattutto, nell’idea di Provasi, da “professionisti riflessivi”, e cioè lavoratori che devono comunque possedere e mettere in campo marcate capacità relazionali. Il dibattito sulla polarizzazione delle competenze, anche per questi motivi, merita di essere affrontato con ottimismo. Invero, i contenuti cognitivi e relazionali del lavoro sono destinati a diffondersi e, conseguentemente, ad accrescere i lavori di qualità (157).
Oltre alla diffusione delle alte professionalità, i nuovi criteri di organizzazione del lavoro e delle funzioni aziendali spingono a cercare ampi margini di flessibilità, autonomia e polivalenza nella forza lavoro. Ciò avviene anche tra le figure più basse,
(154) Così GIANCOLA F., New forms of organization don't justify skill-based pay, in Compensation Benefits Review. n. 3, 2007, pagg. 56-59.
(155) Cfr. CAINARCA G., ZOLLO G., Organizzare l’ambiguità, in Sviluppo e Organizzazione, n. 187, 2001, pagg. 107 e ss.; LEONI R., Le competenze lavorative in Italia: declinazioni, misurazioni, correlazioni e dinamiche, in Organizzazione, apprendimento, competenze. Indagine sulle competenze nelle imprese industriali e di servizi in Italia, Rapporto ISFOL, 2006, pagg. 73 e ss.
(156) Sulla nozione di knowledge workers si veda DRUCKER P. F., Post-capitalist society, Harper Business, New York, 1993.
(157) Così PROVASI G., Professionalità e società della conoscenza, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., V&P Università, Milano, 2004, pagg. 57 e ss..
stimolando così le stesse allo sviluppo sempre maggiore di conoscenze organizzative e competenze relazionali, nonché tecniche e specialistiche (158).
Da altre parti si sottolinea come oggigiorno il lavoro sia vissuto quale un’opportunità di realizzazione individuale (159). La stessa crescente complessità dei prodotti implica lavorazioni sempre più accurate, per cui si richiede lo sviluppo di nuove e forti competenze professionali. In tal senso, aumenta l’importanza degli individui nel lavoro. Non rileva quindi più solo la misura della produttività, ma anche della qualità della prestazione lavorativa espletata.
2.3. Nuovi sistemi di inquadramento e retribuzione per la valorizzazione delle professionalità.
È utile ripetere che gran parte delle indagini, su tutte quelle di taglio sociologico, tracciano nuovi caratteri delle prestazioni lavorative. Si affermano infatti lavoratori sempre più cognitivi e sempre meno esecutivi. Ciò determina, secondo la maggior parte degli studiosi, e come si è sopra evidenziato, la sostituzione delle mansioni con i più ampi ruoli, valorizzando un orientamento a favore di polivalenza e professionalità della prestazione.
Già si è detto, infatti, che una prima soluzione, che ha coinvolto anche il modello contrattuale domestico, è da rinvenirsi nella proposizione dei modelli c.d. broad banding. Invero, le mansioni vengono riaccorpate in ruoli, ove il valore della prestazione individuale dipende in misura rilevante dalle competenze professionali e da fattori motivazionali. Le competenze stesse, così, diventano il parametro di riferimento per misurare il contributo apportato dai lavoratori. Di contro, permangono dei fattori di rigidità nei casi in cui il salario viene posto quale variabile indipendente dal lavoro svolto e dalle prestazioni espletate (160).
(158) Si veda GUARRIELLO F., Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, Jovene editore, Napoli, 2000.
(159) Così VIVIANI D., FANELLI L., op. cit..
(160) Cfr. Ibidem.
In considerazione delle tendenze odierne, la salvaguardia del modello degli alti salari, secondo Magnani, richiede un rapido ripensamento dell’organizzazione economica, calibrato su una competitività non tanto determinata dal prezzo, quanto piuttosto dalla qualità. A tal fine, coerentemente, si richiede una valorizzazione delle capacità professionali. Ancora, in un mercato del lavoro in cui i lavoratori trovano fondamentale investire nella propria professionalità, si rende altresì necessario poter misurare le capacità che vengono acquisite dagli stessi sul luogo di lavoro (161).
Su un piano internazionale e comparato, occorre invece premettere la mancanza di studi attinenti i modelli di classificazione e valorizzazione del personale. Pur tuttavia, di recente Del Prado nota che il diritto del lavoro e i sistemi di inquadramento sono oggi sottoposti a varie pressioni che, unitamente, spingono ad una maggior flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Con un focus sui sistemi di inquadramento, lo studio di Del Prado affronta così una comparazione degli schemi classificatori europei, assumendo per questo ad esempio la Francia e la Spagna, a quelli statunitensi (162). Nel merito, emerge che mentre sui modelli di classificazione europei incidono sia la legge che la contrattazione collettiva, negli Stati Uniti il ruolo più rilevante è ricoperto dalla contrattazione individuale, in tal senso massima espressione della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. In Europa, dove un ruolo rilevante è ricoperto proprio dalla contrattazione collettiva, spetterebbe alle parti sociali un’opera di razionalizzazione delle categorie professionali e di flessibilizzazione dei modelli inquadramentali. Ciò nonostante, anche dove tali esigenze sono più avvertite, come in Spagna, la riforma dei sistemi di inquadramento sembra gravitare fuori dall’orbita delle priorità negoziali delle associazioni datoriali e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali.
(161) Si veda MAGNANI M., op. ult. cit..
(162) Cfr. DEL PRADO D. P., Nuevas tendencias en materia de clasificacion profesional en Europa y EE.UU., relazione “XXV Congreso Nacional de Derecho del Trabajo y de la Seguridad Social”, León, 2015.
2.3.1. Le proposte di allineamento tra salari e professionalità.
Vari Autori, quindi, hanno arricchito il dibattito in materia di sistemi di inquadramento, pensando quali margini evolutivi potrebbero ben contribuire ad una modernizzazione dei modelli classificatori e retributivi.
Il canale privilegiato per cogliere i cambiamenti di prospettiva delineati, secondo Zilio Grandi, può essere la contrattazione collettiva. Il lavoratore, del quale si discutono retribuzione e inquadramento, è diverso da quello degli anni precedenti, sicché le recenti esigenze rendono necessarie modificazioni sostanziali. I sistemi classificatori e retributivi dovranno quindi guardare a queste mutate professionalità, «capaci di reagire innanzi a particolari situazioni create da un’organizzazione produttiva informatizzata e automatizzata» (163). Il termine che riassume meglio la strada che le nuove scale classificatorie dovranno battere, secondo questo filone dottrinale, è quello di polivalenza, per la quale si intende la copertura di un ruolo non immediatamente identificabile con singole mansioni, bensì comprensivo di mansioni polifunzionali. Da queste considerazioni muove altresì una critica agli aumenti legati ad automatismi ovvero scatti di anzianità, i quali hanno oggi perso la funzione originaria di favorire (e premiare) l’attaccamento del lavoratore all’impresa. Anche da questo punto di vista, quindi, si devono piuttosto creare margini per legare maggiormente le retribuzioni alla professionalità. Di contro, gli automatismi retributivi, quali gli scatti di anzianità, non sono fondati sul merito, trattandosi al più di aumenti legati al decorso di un dato periodo di tempo del lavoratore in azienda.
I contratti collettivi nazionali si ostinano infatti a prevedere una vasta gamma di automatismi retributivi e promozionali, i quali, tuttavia, con riferimento all’economia privata, hanno perso la loro funzione originaria di fidelizzazione del dipendente alla realtà aziendale e sono definiti come un surrogato di più sostenibili progressioni di carriera. Gli scatti di anzianità, infatti, erano stati storicamente pensati quali soluzione a problemi irrisolvibili in materia di inquadramento: si pensi al commercio, ove, a fronte della prevalenza dei piccoli esercizi, le possibilità di carriera dei lavoratori appaiono
(163) Di questo avviso ZILIO GRANDI G., op. cit., pagg. 107 e ss..
drasticamente ridotte. In particolare, gli scatti d’anzianità operano come un limite automatico alla libertà negoziale dei contraenti, e, sebbene al passare del tempo non si leghi necessariamente una maggiore utilità della prestazione lavorativa, fanno sì che il datore di lavoro sia tenuto a compensare maggiormente il dipendente, per lo meno nella misura prevista dai contratti collettivi (164).
Secondo Fusconi, la soluzione in un contesto di mercato dinamico consiste nel bilancio delle competenze e nell’analisi delle potenzialità, ovvero capacità, di ciascun soggetto. In tal modo si rende possibile qualificare la professionalità spostando in questa direzione una parte della remunerazione stessa (165). A fronte delle nuove competenze richieste dalle imprese, nonché del progressivo svuotamento delle mansioni più semplici, un nuovo equilibrio non può quindi esaurirsi nella riscrittura dei profili professionali. Coerentemente, si richiede una ristrutturazione dell’intera scala classificatoria e retributiva, così da tenere conto degli effetti di up-skilling e delle capacità lavorative espletate dalle maestranze, ed occorre addivenire ad un sistema inquadramentale e retributivo dinamico, legato non tanto alle mansioni, quanto piuttosto ai ruoli, intesi come comportamenti attesi, ed alle competenze, pure cognitive e relazionali, dei soggetti (166).
I sistemi di inquadramento devono tenere conto che la qualità del lavoro pone il problema della misurazione della stessa sul piano classificatorio e della corrispettività. I nuovi modelli inquadramentali, dunque, richiedono un impianto retributivo ancorato non tanto alle mansioni contenute nella posizione lavorativa, quanto piuttosto schemi fondati sulla valutazione della professionalità e di determinati comportamenti, e cioè a variabili quali le competenze e le potenzialità del lavoratore. A ciò si allaccia anche il
(164) Cfr. ZOPPOLI L., La corrispettività nel contratto di lavoro, ESI, Napoli, 1991. Analogamente, DELL’ARINGA C., Professionalità e approccio economico, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., pagg. 96 e ss., riassume il suo parere nel dibattito di cui in parola con un esempio: i nuovi sistemi di inquadramento e retribuzione devono consentirci di «distinguere fra chi fa un armadio, e chi lo stesso armadio lo fa anche bello, perché ha capacità superiori agli altri». Nel pensiero dell’Autore, l’unica alternativa a tale modello consiste nel continuare a premiare l’anzianità di servizio, vale a dire «un elemento facilmente misurabile, ma che non necessariamente riflette la qualità della prestazione».
(165) Cfr. FUSCONI A., La professionalità nelle discipline economico-gestionali, in NAPOLI M., a cura di, op. cit., pag. 81.
(166) Cfr. LEONI R, op. cit..
concetto della produttività del lavoro: se un lavoratore produce più di un altro, oggi, è possibile che costui produca di più perché più svelto, perché spendibile sulla posizione lavorativa, perché più formato, perché sa risolvere i problemi più agilmente, o perché partecipante alle scelte organizzative. Per questo, aumentare la produttività significa favorire lo sviluppo delle competenze e la valorizzazione delle stesse, riconoscendo tali fattori negli inquadramenti contrattuali. Nel concreto, si tratterebbe di realizzare un rapporto positivo tra qualità e produttività del lavoro, con la contestuale fissazione di valori retributivi differenziati in relazione alla professionalità espressa (167).
Sul piano delle raccomandazioni di riforma, Crippa, muovendo dalla necessità di riconoscere le competenze dei lavoratori nel sistema retributivo e contrattuale, suggerisce ad esempio un nuovo modello salariale. Nel merito, nell’idea dell’Autore, tale sistema sarebbe costituto da un totale di quattro elementi, rispondenti all’esigenza di tutela retributiva generale (“Salario sociale”), di valorizzazione delle competenze specifiche con riferimento al ruolo ricoperto in azienda (“Salario di ruolo”), nonché di valorizzazione dei contributi professionali più strategici e distintivi (“Superminimo professionale” e “Superminimo distintivo”) (168).
Ulteriori contributi, come quello di Arca, si sono focalizzati su casi concreti, tra i quali si rintraccia l’esempio del rinnovo Ccnl Elettrici, occasione per la riforma del sistema di inquadramento (169). Nello specifico, le professionalità espresse nel settore e dettate dallo sviluppo tecnologico degli ultimi anni, l’abolizione del regime di monopolio a favore del mercato e la ristrutturazione delle principali società elettriche, cominciavano a rendere anacronistico il sistema previgente e a far emergere la necessità di garantire un sistema di inquadramento e retribuzione costruito orizzontalmente. Il precedente sistema, basato su un elevato numero di inquadramenti, aveva infatti innescato un innalzamento insostenibile del parametro medio della categoria, con conseguente aumento del costo del lavoro. I passaggi di categoria erano così per i lavoratori uno strumento di tutela del potere di acquisto, senza alcun presupposto meritocratico. In tal
(167) Cfr. D’ONGHIA M., op. cit..
(168) Si rimanda a CRIPPA M., op. cit..
(169) Si veda ARCA M., La riforma della classificazione del personale nel settore elettrico, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 1, 2012, pagg. 130-150.
modo si generava un «concorso senza regole», peraltro demandato alla discrezionalità del datore di lavoro. Una vera riforma, nell’idea di Arca, passa allora per la drastica riduzione del numero di inquadramenti, così da funzionalizzare il sistema di organizzazione del lavoro e valorizzare le competenze attraverso dinamiche retributive orientate orizzontalmente. I nuovi sistemi, coerentemente, dovranno essere in grado di rispondere alle diversità all’interno di ogni categoria, stabilendo criteri capaci di regolare crescite orizzontali del salario sulla base di miglioramenti qualitativi del lavoro prestato.
3. I sistemi retributivi per la valorizzazione delle performance e delle competenze dei lavoratori.
3.1. I sistemi retributivi incentivanti e legati alle performance.
Nella letteratura scientifica i tentativi di definizione degli schemi retributivi incentivanti non sono ricorrenti. La maggior parte degli studi, infatti, si focalizza piuttosto sulla struttura e sugli effetti di tali sistemi.
Giugni, ad esempio, prende a riferimento il settore dell’industria siderurgica e mineraria degli anni Sessanta e da qui muove per sottolineare la diffusione dei premi di produttività (170). Tali misure retributive, nello specifico, distinte dai sistemi a cottimo, erano scaturite in quegli anni dalle richieste dei lavoratori, desiderosi di vedersi riconosciuto il diritto alla condivisione dei benefici derivanti dagli incrementi di produttività aziendale, nonché dall’interesse dei datori di lavoro a sostituire gli schemi retributivi a cottimo, spesso poco performanti, con incentivi indiretti capaci di valorizzare l’apporto globale dei lavoratori.
Un tentativo, tuttavia, seppur più con riferimento al caso domestico ed ai sistemi retributivi a cottimo, e cioè quelle retribuzioni commisurate al risultato anziché al tempo
(170) Cfr. GIUGNI G., op. ult. cit., pagg. 70 e ss..
(171), si deve ancora a Giugni (172). Nello specifico, secondo l’Autore per retribuzione incentivante si deve intendere ogni elemento retributivo finalizzato ad un miglioramento quantitativo e qualitativo della prestazione espletata dal lavoratore.
Nel medesimo solco, altri giuslavoristi, tra cui Treu (173), asseriscono che le retribuzioni incentivanti (o a premio) rappresentano uno strumento estremamente importante delle relazioni industriali e della gestione del personale. Treu, nello specifico, ripropone la suaccennata definizione di Giugni, aggiungendovi che tali sistemi, sin dalle origini, sono stati pensati quali leve per spingere i lavoratori ad essere più performanti. Ulteriormente, anche altri Autori, con attenzione alla retribuzione a cottimo, identificano i sistemi incentivanti come i risultati di una certa idea di organizzazione del lavoro che predilige quote variabili del salario (174).
In talune opere di ricognizione descrittiva e analitica, tra cui, nuovamente, si considera il Rapporto Adapt sulla contrattazione collettiva in Italia, la retribuzione incentivante, qui nella forma del premio di risultato, viene definita mutuando le parole contenute nell’accordo integrativo aziendale della Heyes Lemmerz: essa «ha lo scopo di contribuire a massimizzare la partecipazione e il coinvolgimento dei collaboratori al conseguimento dei risultati aziendali», e, si aggiunge, «consiste in un’erogazione variabile connessa al conseguimento di obiettivi concordati tra le parti, misurati attraverso opportuni indicatori di performance» (175).
Alcuni studi si sono concentrati primariamente sugli aspetti psicologici e sociologici connessi ai sistemi retributivi incentivanti. Murphy, Cleveland e Williams, su tutti, hanno sostenuto che questi sistemi costituiscono un insieme di regole e procedure
(171) Per la cui definizione si rimanda a CATAUDELLA M. C., op. cit., pagg. 42 e ss..
(172) Cfr. GIUGNI G., Organizzazione dell’impresa e evoluzione dei rapporti giuridici. La retribuzione a cottimo, in Rivista di Diritto del Lavoro, n. 1, 1968, pagg. 3-85.
(173) Cfr. TREU T., Le forme retributive incentivanti, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 4, 2010, pagg. 637-688.
(174) Sul punto CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 49 e ss..
(175) Si rimanda a La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pagg. 228 e ss..
valutative a disposizione del datore di lavoro (176). L’imprenditore può così gestire meglio le retribuzioni e le misure premiali ad eventuale disposizione delle maestranze. In questo modo, infatti, il management aziendale può assicurare uno stretto collegamento tra l’attività lavorativa e gli obiettivi imprenditoriali, rendendo funzionale ai fini dell’azienda l’operato dei dipendenti stessi. Coerentemente, tali sistemi spingono ad un allineamento tra i comportamenti lavoratovi posti in essere dalle maestranze e le strategie aziendali (177).
3.2. Modelli e indicatori dei sistemi retributivi incentivanti.
Negli ultimi anni la letteratura scientifica si è sforzata di fornire una tassonomia, o comunque una classificazione complessiva, delle forme retributive incentivanti.
Una prima macro-distinzione, con riferimento al contesto italiano, porta a distinguere tra sistemi di incentivazione a carattere collettivo e sistemi di incentivazione a carattere individuale (178). I primi subordinano l’erogazione collettiva di una quota retributiva al raggiungimento di obiettivi dinamici, generalmente espressivi della produttività o della redditività dell’impresa. I secondi, diversamente, superano i meri modelli di retribuzione a cottimo e si basano su criteri di valutazione della singola prestazione lavorativa, con riferimento ai comportamenti del dipendente (quali, a titolo esemplificativo, l’impegno, la creatività, ovvero la capacità di problem solving) oppure ai risultati effettivamente conseguiti dallo stesso.
La letteratura statunitense si è invece principalmente focalizzata sui sistemi a cottimo (c.d. piece rates), in grado di valorizzare il contributo strettamente produttivo del lavoratore. Il dipendente, dunque, si vede in genere assicurata una paga base,
(176) Cfr. CLEVELAND J. N., MURPHY K. R., WILLIAMS R. E., Multiple uses of performance appraisal: prevalence and correlates, in Journal of Applied Psychology, vol. 74, n. 1, 1989, pagg. 130- 135, e MURPHY K. R., CLEVELAND J. N., Understanding performance appraisal: social organizational and goal-based perspectives, Sage Publication Inc., New York, 1995.
(177) Di tale avviso HOLBECHE L., Aligning human resources and business strategies, Elsevier, Oxford, 2009.
(178) Tale distinzione si rinviene in CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 70 e ss..
incrementata da una quota legata all’output determinato. Lazear, a titolo di esempio, affianca a questi meccanismi retributivi, basati sulla “performance assoluta”, altri meccanismi invece incentrati sulla “performance relativa” del lavoratore (179). Coerentemente, questi ultimi sistemi, seppur poco diffusi, identificano delle dinamiche “a torneo”, ove ad essere premiati non sono tutti i lavoratori, in proporzione all’apporto lavorativo e produttivo, quanto piuttosto solo ed esclusivamente i migliori per una data posizione od unità produttiva.
Un altro filone di studi basa la summa divisio circa i sistemi incentivanti su ulteriori caratteri, scindendo tra sistemi incentivanti output-oriented e input-oriented. Da questo punto di vista, a rilevare non è tanto la natura del sistema, quanto piuttosto il contributo considerato per la determinazione della quota di salario incentivante. I sistemi output- oriented, nel merito, non sono legati al conseguimento di obiettivi direttamente riconducibili ai lavoratori, bensì ai risultati conseguiti dal sistema aziendale. I sistemi input-oriented, diversamente, rappresentano incentivi economici in grado di collegare la retribuzione del dipendente alle competenze espletate dallo stesso. Mentre i sistemi output-oriented pongono dunque l’accento sulla misurazione dell’output, i sistemi input-oriented misurano il contributo del singolo lavoratore all’apprendimento del ruolo e allo sviluppo delle competenze (180).
3.2.1. Segue: I sistemi gain-sharing e profit-sharing. Cenni.
Nelle macro-distinzioni suindicate si pone poi una varietà di indicatori. Invero, alla costruzione dei sistemi retributivi incentivanti, possono esser assunti a riferimento diversi parametri, i quali più puntualmente segnano i caratteri del sistema premiale stesso. Le forme più tradizionali di retribuzione incentivante, almeno nel contesto domestico, sono quelle di gain-sharing e profit-sharing. Entrambi i modelli sono annoverabili come forme di retribuzione per obiettivi (management by objectives,
(179) Cfr. LAZEAR E. P., Compensation, productivity and the new economics of personnel, Working Papers in Economics, The Hoover Institution, 1992.
(180) Sul tema, si vedano ACOCELLA N., LEONI R., La riforma della contrattazione: una valutazione e soluzioni innovative. Un ruolo attivo per la politica economica, relazione seminario CNEL, 2009; ACOCELLA N., LEONI R., La riforma della contrattazione: redistribuzione perversa o produzione di reddito?, in Rivista Italiana degli Economisti, n. 2, 2010, pagg. 237-274; ed anche TREU T., op. ult. cit..
MBO). In generale, si tratta di sistemi salariali output-oriented e legati ad obiettivi predeterminati, con correlati corrispettivi economici (181).
I sistemi retributivi “gain-sharing”
I sistemi gain-sharing hanno la caratteristica di far riferimento alla produttività ed efficienza dell’intero complesso produttivo, ovvero dello stabilimento o fattore lavoro, collegandovi una quota di salario variabile (182). Le tecniche fondate sulla produttività legano così il surplus salariale ad indicatori tecnico-produttivi, capaci di misurare le variazioni della produttività in termini fisici (ad esempio, i volumi produttivi) ovvero qualitativi (ad esempio, l’efficienza del processo o la qualità dell’output) (183).
Con attenzione alle tendenze più attuali, recenti approfondimenti confermano che gli indicatori di produttività utilizzati dalle aziende sono i più disparati (184). Nello specifico, comunque, la produttività del lavoro è ottenuta come ammontare o valore di output prodotto sulla quantità del lavoro utilizzato. In genere, dunque, l’output prodotto è identificato nel valore aggiunto o nei volumi prodotti, mentre l’input è interpretato come il numero di lavoratori o di ore impiegate.
I sistemi retributivi “profit-sharing”
I sistemi profit-sharing collegano invece una quota di salario variabile agli utili di bilancio e ad indici di redditività aziendale (185). In effetti, anche la letteratura giuslavoristica identifica i modelli basati sulla redditività come quelli che poggiano su indici economico-aziendali rappresentativi dell’andamento economico e di mercato
(181) Cfr. CATAUDELLA M. C., op. cit., pagg. 51 e ss..
(182) Si veda LOY G., I vantaggi economici per i lavoratori legati ai risultati dell’impresa, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 2, 2002, pagg. 175-188.
(183) Così CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 70 e ss..
(184) Cfr. La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pagg. 230 e ss., e La contrattazione collettiva in Italia (2015), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, pagg. 203 e ss..
(185) In questi termini, ad esempio, LOY G., op. ult. cit., e, similmente, PINI P., Partecipazione, flessibilità delle retribuzioni ed innovazioni contrattuali dopo il 1993, in Tecnologia e società. Tecnologia, produttività, sviluppo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2001.
dell’azienda (quali, in genere, il fatturato, l’utile netto ovvero il margine operativo lordo) (186).
In tema, altri studi analizzano pratiche contrattuali recenti nella fissazione dei parametri di redditività (187). I casi più ricorrenti sono quelli in cui l’erogazione dell’ammontare premiale è subordinata al superamento di un valore soglia del margine operativo lordo (MOL), del fatturato, o, ancora, come ad esempio nel caso del contratto collettivo aziendale concluso in Vodafone, dell’EBITDA (Earnings Before Interests, Taxes, Depreciation and Amortization, vale a dire l’utile prima degli interessi passivi, delle imposte, delle svalutazioni e degli ammortamenti).
I sistemi retributivi “misti”
È bene precisare che, nel concreto, si verificano anche casi di modelli incentivanti misti, ove convivono insieme gli indici cennati. Nei sistemi misti, dunque, più indicatori contribuiscono contestualmente alla determinazione del salario variabile (188).
3.2.2. Segue: I sistemi retributivi skill-based.
I sistemi incentivanti skill-based, in senso lato, consistono in quei modelli di salario variabile direttamente collegati alle competenze espresse del singolo lavoratore rispetto a quelle richieste (189). Si tratta cioè di sistemi che, per quanto detto, nel pensiero di Leoni, Tiraboschi e Valietti, sono catalogabili principalmente come individuali e input- oriented. Coerentemente, vengono assunti a riferimento i comportamenti lavorativi
(186) Sul punto CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pag. 72.
(187) Si rimanda a La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pag. 231, e La contrattazione collettiva in Italia (2015), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, pagg. 204 e ss..
(188) Cfr. LOY G., op. ult. cit., e CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 72 e ss..
(189) Cfr. LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., Contrattazione a livello di impresa: partecipazione allo sviluppo delle competenze versus partecipazione ai risultati finanziari, in Lavoro e Relazioni Industriali, n. 2, 1999, pagg. 115-152, secondo i quali, inoltre, tali incentivi salariali hanno in particolare la funzione di far crescere le competenze e le capacità del singolo dipendente.
misurabili dei lavoratori, e cioè le conoscenze (il bagaglio di sapere specifico, gestionale, nonché organizzativo richiesto dalla professione), le capacità (le abilità professionali connesse allo svolgimento dell’attività) ed i comportamenti (come il lavoratore si comporta nel contesto organizzativo e nella rete del sistema azienda).
Nello stesso solco della definizione avanzata da Leoni, Tiraboschi e Valietti, si pone De Silva (190), il quale, nel tentativo di fornire una ricostruzione generale della materia, definisce i sistemi retributivi skill-based come quei sistemi in cui gli aumenti salariali sono collegati al numero ed alla profondità delle competenze richieste al lavoratore, e espletate dallo stesso. Tali sistemi, tendenzialmente individuali, incoraggiano lo sviluppo delle professionalità, e, ulteriormente, rendono i lavoratori più flessibili e produttivi in quanto facilitati nell’ampliare e spendere maggiormente le loro capacità.
Altri Autori, come Caruso e Ricci (191), riconducono questi sistemi retributivi legati alle performance ed ai comportamenti del dipendente al novero dei sistemi merit pay, basati cioè su criteri oggettivi di valutazione della prestazione lavorativa. Contestualmente, si evidenziano altresì le difficoltà riscontrabili nell’implementare simili programmi, i quali richiedono giocoforza un giudizio dei superiori gerarchici in grado di selezionare la professionalità e compensare la singola performance lavorativa.
Nel caso domestico, sistemi retributivi di tipo skill-based hanno trovato esempi di concretizzazione a livello aziendale, come già si è sopra precisato. Invero, a livello di impresa si è cercato di porre in essere, mediante meccanismi valutativi, una valorizzazione salariale delle competenze e professionalità espletate dai lavoratori. In questo modo, quindi, si assicura un riconoscimento retributivo alle professionalità attraverso forme di retribuzione incentivante (192).
(190) Cfr. DE SILVA S., An introduction to performance and skill-based pay systems, in International Labour Organization Publications, 1998.
(191) Cfr. CARUSO B., RICCI G., Sistemi e tecniche retributive, in CARUSO B., ZOLI C., ZOPPOLI L., a cura di, op. cit., pagg. 70 e ss..
(192) Per i casi più recenti ed esemplificativi, si rimanda nuovamente a La contrattazione collettiva in Italia (2012-2014), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2015, pagg. 195 e ss., ed a La contrattazione collettiva in Italia (2015), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, pagg. 208-209, nonché, con focus su salari e professionalità nella contrattazione collettiva aziendale, pagg. 313 e ss..
Pur tuttavia, secondo alcuni (193), tali sperimentazioni, nell’ambito della contrattazione collettiva, ed in particolar modo nell’ambito di quella di livello aziendale, mostrano ancora una scarsa diffusione, giacché forme variamente articolate di premi di risultato collegati alla professionalità dei lavoratori registrano una frequenza estremamente bassa. Se da un lato questo dato non toccherebbe il grado di innovatività di questi modelli salariali, dall’altro dimostrerebbe che simili pratiche restano escluse dalle priorità negoziali di aziende e sindacati.
3.3. Effetti, fattori di efficacia e ruolo della contrattazione collettiva nei sistemi retributivi incentivanti.
I fattori abilitanti l’introduzione di sistemi retributivi incentivanti
Parte della letteratura scientifica si è concentrata sui caratteri che un sistema di valutazione delle performance deve registrare per essere performante. Brown (194), a titolo di esempio, evidenzia come ogni sistema retributivo implichi dei costi di monitoraggio in grado di determinarne la buona riuscita: più questi costi sono bassi, maggiore è la possibilità di una efficiente implementazione del sistema. Nel caso dei modelli basati sulla valutazione delle performance dei lavoratori, come ad esempio i sistemi c.d. merit pay, i costi più rilevanti sono legati alla costruzione di attenti parametri valutativi, alla presenza e formazione di valutatori oggettivi, nonché alla capacità di far percepire ai lavoratori tali modelli come equi. Coerentemente, imprese di grandi dimensioni e nelle quali i lavoratori ricoprono una grande varietà di compiti potrebbero tendere a preferire un sistema basato su retribuzioni standard e in cifra fissa, escludendo l’adozione dei più onerosi sistemi incentivanti. Brown volge altresì lo sguardo ad altre caratteristiche che possono rendere le imprese più o meno propense ad adottare sistemi retributivi incentivanti, sicché nota che la buona implementazione di un
(193) Si veda, su tutti, TIRABOSCHI M., op. cit.. L’Autore, infatti, come precisato anche in altri studi, tra i quali La contrattazione collettiva in Italia (2015), Rapporto Adapt, Adapt University Press, 2016, evidenzia come su un campione di 915 contratti aziendali sottoscritti nel periodo 2012-2015, soltanto l’1,5% degli accordi prevede simili pratiche salariali.
(194) Cfr. BROWN C., Firms’ choice of method of pay, in Industrial and Labor Relations Review, vol. 43, n. 3, 1990, pagg. 165-182.
sistema incentivante è inversamente proporzionale al tasso di sindacalizzazione in azienda.
Con attenzione all’effetto del tasso di sindacalizzazione presente nell’impresa, è bene notare come altre ricerche, contrariamente a Brown, abbiano mostrato che la contrattazione collettiva e la presenza di sindacati aumentano il ricorso a forme di retribuzione variabile (195). Ulteriormente, occorre però notare che altri studiosi hanno condotto una analisi su un campione di imprese britanniche, appurando che la relazione tra il tasso di sindacalizzazione e il ricorso a misure di flessibilizzazione salariale è rappresentata da una curva a “U”, per cui gli schemi retributivi incentivanti sono più facilmente adottati da imprese con una forte sindacalizzazione o, viceversa, una sindacalizzazione nulla, mentre sono difficilmente adottati dalle aziende che, per tasso di sindacalizzazione, si pongono nel mezzo della distribuzione (196).
Effetti ed efficacia dei sistemi retributivi incentivanti
Altra parte della dottrina economica ha invece individuato le potenziali criticità riscontrabili nei modelli retributivi incentivanti, nello specifico collettivi. Booth e Frank (197), su tutti, richiamando lo studio OECD, Employment Outlook (1995), 1995, commentano che i sistemi incentivanti possono trovare ostacolo nei comportamenti di free-riding posti in essere da quei lavoratori che, consci di non essere direttamente controllati, cavalcherebbero i risultati ottenuti dai colleghi. Da questo punto di vista, secondo gli Autori, il problema è riscontrabile soprattutto nei sistemi profit-sharing, ove, a differenza dei sistemi di valutazione della performance, la valutazione non incide sull’operato del lavoratore. Il lavoratore stesso, infatti, non avrebbe incentivo ad impegnarsi e mettere in campo le proprie qualità, preferendo far leva sul lavoro altrui.
(195) Cfr. DAMIANI M., RICCI A., Decentralised bargaining and performance-related pay: evidence from a panel of Italian firms, in International Journal of Manpower, vol. 35, n. 7, 2014, pagg. 1038-1058.
(196) Cfr. BRYSON A., FREEMAN R. B., LUCIFORA C., PELLIZZARI M., PEROTIN V., Paying for performance: incentive pay schemes and employees’ financial participation, Centre for Economic Performance paper, n. 1112, Londra, 2012.
(197) Cfr. BOOTH A. L., FRANK J., Earnings, productivity, and performance-related pay, in Journal of Labor Economics, vol. 17, n. 3, 1999, pagg. 447-463.
Tuttavia, secondo un’altra e più recente ricerca (198), condotta su un campione di imprese canadesi, i sistemi retributivi legati alla redditività, nel lungo periodo, possono determinare un vantaggio competitivo. Per quanto concerne i lavoratori, invero, simili schemi retributivi comportano dei benefici in termini salariali, nonostante alcune fluttuazioni nel breve periodo, ed in termini di stabilità occupazionale, nella misura in cui il datore di lavoro può far leva su una maggiore flessibilità retributiva senza dover ricorrere a tagli di personale. Dal punto di vista delle imprese, all’adozione di sistemi profit-sharing si legano più elevati livelli di produttività. Altri studi, similmente, hanno evidenziato come più elevati livelli di soddisfazione della forza lavoro si leghino al ricorso a sistemi salariali collettivi, legati alla redditività e alla partecipazione finanziaria dei lavoratori stessi, anziché a modelli retributivi individuali e connessi alla produttività ovvero al cottimo (199).
Ulteriori filoni di studio evidenziano l’importanza di presupposti quali l’autonomia del dipendente e la capacità dello stesso di influenzare la propria prestazione in relazione agli incentivi e ai processi valutativi, nonché la chiarezza, precisione e puntualità nella misurazione di obiettivi e performance, subordinandovi l’efficacia di sistemi retributivi legati alle performance stessi. Analogamente, fattore certamente rilevante è quello della trasparenza del sistema e del funzionamento dello stesso, in quanto le informazioni devono ben essere comunicabili e accessibili ai lavoratori (200). Sul punto, una ricerca empirica condotta da Lee, Law e Bobko (201), si concentra sui sistemi di valorizzazione individuale ed economica della professionalità, evidenziando che i modelli più performanti sono quelli meglio comunicati e, dunque, meglio compresi dai lavoratori. Similmente, altri Autori concludono che un meccanismo è incentivante ed efficace se gli obiettivi sono ben individuati e percepiti (al che si rende necessario un coerente
(198) Cfr. LONG R. J., FANG T., Do strategic factors affect adoption of profit sharing? Longitudinal evidence from Canada, in International Journal of Human Resource Management, vol. 26, n. 7, 2015, pagg. 971-1001.
(199) Cfr. BRYSON A., CLARK A. E., FREEMAN R. B., GREEN C. P., Share capitalism and worker wellbeing, in Labour Economics, vol. 42, 2016, pagg. 151-158.
(200) Cfr. TREU T., op. ult. cit.; con riferimento ai sistemi individuali di valorizzazione delle competenze dei lavoratori, vedi GUPTA N., LEDFORD G. E., JENKINS G. D., DOTY D. H., Survey-based prescriptions for skill-based pay, in ACA Journal, vol. 1, n. 1, 1992, pagg. 50-61.
(201) Cfr. LEE C., LAW K., BOBKO P., The importance of justice perceptions on pay effectiveness: a two-year study of a skill-based pay plan, in Journal of Management, vol. 25, n. 6, 1999, pagg. 851-873.
sistema informativo), ben verificabili, sufficientemente stimolanti (quindi raggiungibili e perseguibili, ma al medesimo tempo non immediati) (202). Se la valutazione incide poi sulla prestazione lavorativa del singolo individuo, si rende inoltre necessario che gli indicatori siano il più possibile vicini allo stesso. Da questo punto di vista, l’analisi dei comportamenti lavorativi, secondo questi Autori, deve muovere da quelli reputati eccellenti, assumendo a riferimento le competenze specifiche considerate più strategiche ai fini aziendali, così da orientare la prestazione di tutti i soggetti verso gli standard più elevati presenti nell’organizzazione.
Un filone di ricerca anglosassone si è concentrato negli anni Novanta sull’efficacia dei sistemi salariali legati alle performance dei lavoratori, muovendo da indagini qualitative. Alcuni economisti (203), con riferimento al caso britannico, ad esempio, hanno evidenziato che i sistemi più performanti sono quelli in grado di coinvolgere il dipendente, o comunque quelli posti in essere attraverso l’istituto della contrattazione collettiva. I sistemi di valutazione e di premiazione delle performance peggiori, di contro, sono quelli posti unidirezionalmente dal management aziendale, senza alcun coinvolgimento delle maestranze. Analogamente, alcuni studiosi americani quali Black e Lynch (204) notano che le aziende in cui i dipendenti sono soggetti ad efficaci sistemi incentivanti di valutazione delle performance, registrano anche gli incrementi di produttività maggiori. In questa direzione, gli Autori evidenziano che, nello specifico, le realtà più performanti sono quelle sindacalizzate in cui rileva una partecipazione dei lavoratori nell’adozione delle misure incentivanti. Specularmente, le aziende meno performanti sono invece quelle non sindacalizzate e non in grado di coinvolgere i dipendenti. La conclusione cui giungono Black e Lynch, dunque, è che più si garantisce un coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali e valutativi, più le ricadute sulla produttività dell’impresa ovvero dello stabilimento sono positive. I due studiosi hanno replicato le loro ricerche anche negli anni successivi, rimarcando nuovamente come incrementi in termini di produttività sono attribuibili all’assunzione di nuove
(202) Si veda LEONI R., TIRABOSCHI L., VALIETTI G., op. cit..
(203) Su tutti, FERNIE S., METCALF D., Participation, contingent pay, representation and workplace performance: evidence from Great Britain, in British Journal of Industrial Relations, n. 3, 1995, pagg. 7- 80.
(204) Cfr. BLACK S., LYNCH L., How to compete: the impact of workplace practices and information technology on productivity, Centre for Economic Performance, Discussion paper n. 376, 1997.
pratiche di gestione delle risorse umane, tra le quali proprio sistemi incentivanti che premino l’apprendimento del lavoratore e le competenze dello stesso, costruiti e implementati con il coinvolgimento dei lavoratori (205). Occorre precisare che a conclusioni analoghe e, quindi, a sottolineare il ruolo centrale rivestito dal coinvolgimento della forza lavoro, erano giunti anche altri studiosi (206).
Alcune ricerche si sono invece concentrate sull’efficacia strutturale dei sistemi incentivanti, notando ad esempio che i sistemi di valutazione più performanti sono quelli che incidono su più parametri, anziché su uno solo (207). Una molteplicità di indicatori, invero, se comunque non eccessiva, può rappresentare una correzione di eventuali distorsioni e manipolazioni. Anche altri Autori avevano toccato tale aspetto, mostrando che gli incentivi e i sistemi valutativi più efficaci sono quelli che, se da un lato attribuiscono ai lavoratori obiettivi chiari e semplici, dall’altro si basano su più parametri, e cioè su tutte le variabili caratterizzanti il comportamento del soggetto ed in grado di influenzare la prestazione dello stesso (208).
Con riferimento agli schemi individuali di valutazione delle performance lavorative, Gomez Mejia (209) osserva l’importanza di meccanismi di feedback tra lavoratore e valutatore. Nello specifico, l’Autrice sostiene che la previsione di momenti di riscontro entro sistemi valutativi delle performance rappresenta uno stimolo cruciale per il lavoratore. Invero, in caso di feedback positivo il dipendente tenderà a mantenere il
(205) Il riferimento è a BLACK S., LYNCH L., How to compete: The impact of workplace practices and information technology on productivity, in Review of Economics and Statistics, vol. 43, n. 3, 2001, pagg. 434-445; ed altresì BLACK S., LYNCH L., What’s driving the new economy? The benefits of workplace innovation, in The Economic Journal, n. 114, 2004, pagg. 97-116.
(206) Si vedano COOPER C. L., DYCK B., FROHLICH N., Improving the effectiveness of gain-sharing: the role of fairness and participation, in Administrative Science Quarterly, vol. 37, n. 3, 1992, 471-490, e, con riferimento ai sistemi retributivi basati sulle competenze (c.d. sistemi skill-based), GUPTA N., LEDFORD G. E., JENKINS G. D., DOTY D. H., op. cit..
(207) Sul punto GIBBS M. J., MERCHANT K. A., VAN DER STEDE W. A., VARGUS M. E., Performance measure properties and incentive system design, in Industrial Relations, vol. 48, n. 2, 2009, pagg. 237-264.
(208) Si veda PFEFFER J., SUTTON R. I., Do financial incentives drive company performance? An evidence based approach to motivation and rewards, in Hard facts, dangerous half truths, and total nonsense: profiting from evidence based management, Harvard Business School press, Cambridge, 2006.
(209) Cfr. GOMEZ MEJIA L. R., Increasing productivity: performance appraisal and reward systems, in
Personnel Review, vol. 19, n. 2, 1990, pagg. 21-26. Sul punto si veda anche DE SILVA S., op. cit..
medesimo comportamento lavorativo, mentre in caso di feedback negativo, o assente, il dipendente tenderà a mutare comportamento.
De Silva (210), infine, giunge a concludere che la buona riuscita dei modelli di valorizzazione delle performance, tra cui in particolar modo quelli legati alla valutazione delle competenze, dipende da una serie di circostanze tra le quali il modello di contrattazione collettiva e la cultura sindacale in gioco. L’Autore, nel merito, evidenzia anche come le imprese hanno sempre più deciso di perseguire obiettivi di efficienza e performance a livello di impresa, e non al di fuori dallo stesso, sicché, coerentemente, è in tale sede che il datore di lavoro pensa a declinare sistemi salariali legati alle performance. In tale logica, è dunque la contrattazione collettiva a livello di azienda che garantisce una funzione di equità procedurale contestuale al perseguimento di margini di competitività.
3.3.1. Segue: Incrementi salariali a livello di azienda e “effetto produttivo” nella Teoria dei salari di efficienza. Cenni.
La Teoria dei salari di efficienza muove dal presupposto che le aziende non considerano il salario come un fattore imposto dal mercato. Infatti, e diversamente da quanto si verifica in contesti teorici di concorrenza perfetta, le imprese possono optare, più o meno autonomamente ed entro determinati vincoli istituzionali, per una loro politica salariale. Per completezza, la Teoria dei salari di efficienza spiega come i salari possano comportare il fenomeno della “disoccupazione involontaria di equilibrio”, ricondotta proprio alle funzioni allocativa e incentivante del salario. Il sunto teorico consiste nel trade-off per il quale se il salario assolve un compito di incentivo, giocoforza, non può svolgere la sua funzione allocativa e di equilibrio nel mercato del lavoro. Per quanto qui di interesse, non rileva tanto l’aspetto dell’equilibrio occupazionale, quanto piuttosto come la Teoria dei salari di efficienza sia riconducile al fenomeno degli incentivi o incrementi salariali determinati, anche a titolo premiale, a livello di impresa.
(210) Cfr. DE SILVA S., op. cit..
Occorre premettere che, preliminarmente, alcuni Autori, tra cui Solow, si sono concentrati sugli effetti di salari reali elevati e rigidi determinati a livello di azienda. L’ipotesi principale e di base è che al crescere del salario aumentino positivamente impegno e produttività dei lavoratori. Si assume che la produttività della forza lavoro, invero, dipende dal livello salariale, sicché un potenziale aumento della retribuzione aziendale non comporta un aumento dei costi in capo al datore di lavoro (211). La politica salariale dell’impresa, da questo punto di vista, porta così alla luce un effetto produttivo (cd. effort function) della retribuzione. Vale qui la pena evidenziare come dal modello di Solow consegue il summenzionato fenomeno della disoccupazione involontaria, sicché l’impresa, aumentando i livelli salariali, affronta un incremento del costo del lavoro compensato da un effetto positivo sulla produttività. L’ipotetica impresa di cui in oggetto attirerà un numero di individui disposti a lavorare in misura maggiore rispetto alla domanda di lavoro: in tal modo, una parte dell’offerta di lavoro risulterà in eccesso.
Secondo un altro filone di studi, gli incentivi salariali non determinano per il lavoratore una condizione di benessere solo ed esclusivamente economico, ma altresì relazionale. Sul tema, Akerlof (212) ha teorizzato il meccanismo socio-pscicologico del “dono e controdono” (letteralmente, gift exchange). Invero, l’Autore ha mostrato che l’impresa, mediante incrementi nella retribuzione aziendale, comunica alle maestranze apprezzamento e stima. Di conseguenza, il lavoratore ricambia il datore di lavoro con maggior dedizione e, di riflesso, impegno lavorativo.
Altri economisti, quali Shapiro e Stiglitz (213), hanno cercato di spiegare la Teoria dei salari di efficienza in relazione ai provvedimenti disciplinari comminabili ai lavoratori. Nello specifico, i due studiosi assumono che un’azienda può rendere più efficace la minaccia di licenziamento se assicura livelli salariali più elevati rispetto a quelli di mercato. In questo modo, l’impresa rende i propri dipendenti consci della condizione
(211) Cfr. SOLOW R. M., Another possibile source of wage stickiness, in Journal of Macroeconomics, vol. 1, n. 1, 1979, pagg. 79-82.
(212) Cfr. AKERLOF G., Labor contracts as partial gift exchange, in Quarterly Journal of Economics, n. 4, 1982, pagg. 543-569.
(213) Cfr. SHAPIRO C., STIGLITZ J., Equilibrium unemployment as a worker discipline device, in
American Economic Review, vol. 74, n. 3, 1984, pagg. 433-444.
che potrebbero perdere a fronte di un licenziamento, e, di riflesso, li rende più produttivi.
Un diverso filone di studi ha criticato le conclusioni di Shapiro e Stiglitz, muovendo primariamente dal fatto che il salario non può aprioristicamente essere assunto come lo strumento ottimale, a disposizione delle aziende, per incentivare i lavoratori. Si è allora sottolineato come i contesti siano più complessi, tanto da pregiudicare la stabilità della Teoria dei salari di efficienza, rea di non considerare tutte le alternative alla leva retributiva ed il carattere informativo (non sempre asimmetrico, secondo gli Autori cennati) delle relazioni tra gli attori (214).
Ulteriori ricerche hanno rievocato più specificatamente la Teoria dei salari di efficienza in relazione al tema della produttività del lavoro. La produttività, come detto, sarebbe una funzione crescente del salario reale, per cui ciascun lavoratore fornisce un contributo maggiore all’attività produttiva a fronte di più elevati livelli salariali. Di contro, anche in presenza di una forte offerta di manodopera all’interno del mercato del lavoro, ovvero a fronte della presenza di individui disposti a lavorare a livelli retributivi più bassi, le aziende, dati i risultati in termini di produttività, non sarebbero incentivate ad assumerli per abbattere i costi, giacché ogni riduzione salariale implicherebbe una diminuzione della produttività della forza lavoro (215).
3.3.2. Segue: Gli effetti dei sistemi incentivanti su produttività e forza lavoro.
Molti studi di economia del lavoro si sono concentrati sugli effetti dei sistemi retributivi incentivanti, primariamente sulla forza lavoro e sui livelli di produttività. Alcuni economisti statunitensi (216) hanno evidenziato che i sistemi retributivi legati alle performance possono avere effetti positivi sulla produttività, e ciò per due principali ragioni: si determina un effetto incentivo in capo ai lavoratori e, inoltre, si configura un
(214) Cfr. MAC LEOD W. B., MALCOMSON J., Implicit contracts, incentive compatibility and involuntary unemployment, in Econometrica, vol. 57, n. 2, 1989, pagg. 447-480.
(215) Si veda WEISS A., I salari di efficienza. Una teoria della disoccupazione, Laterza, Roma, 1995.
(216) Su tutti, si veda LAZEAR E. P., Salaries and piece rates, in Journal of Business, vol. 59, n. 3, 1986, pagg. 405-431.
c.d. sorting effect, sicché le aziende che adottano tali modelli attirano i lavoratori più capaci e qualificati, quindi i più produttivi. Più nello specifico, Lazear giunge a tali conclusioni assumendo un mercato del lavoro caratterizzato da asimmetria informativa, ove i lavoratori, a differenza delle aziende, conoscono i livelli di abilità che possono garantire. Coerentemente, i lavoratori meno abili si collocano nelle imprese che garantiscono una retribuzione fissa, e cioè nelle aziende che non adottano sistemi retributivi flessibili. D’altra parte, i lavoratori migliori e più capaci scelgono di lavorare nelle imprese in cui le loro capacità sono valutate e valorizzate, muovendo così verso quelle aziende ove le abilità hanno peso sui salari. In un successivo elaborato Lazear si focalizza sul caso studio della Safelite Glass Corporation (217). L’Autore conferma le sue precedenti deduzioni e sottolinea che l’azienda oggetto di esame, grazie all’adozione di un sistema incentivante legato alla performance del lavoratore, ha registrato un incremento nei propri livelli di produttività aziendale di circa il 44%, in gran parte determinata dallo slittamento verso una manodopera sempre più qualificata. Per dipiù, il livello di soddisfazione dei clienti, in seguito all’adozione del sistema incentivante, è arrivato a toccare livelli ben più alti rispetto ai precedenti, segnando così un miglioramento del prodotto anche in termini qualitativi. Similmente a Lazear, anche Paarsch e Shearer (218), hanno mosso la loro analisi da un caso studio, osservando che il sistema di retribuzione incentivante aveva accresciuto la produttività del 23%.
Altri Autori hanno cercato di carpire l’effetto dell’implementazione di sistemi retributivi incentivanti sui livelli retributivi dei lavoratori. Booth e Frank (219), a titolo esemplificativo, hanno mostrato che sistemi salariali legati alle performance accrescono la retribuzione degli uomini di circa il 9%, e quella delle donne approssimativamente del 6%. Tali aumenti, secondo gli Autori, sono collegabili proprio ai differenziali di produttività determinati dai nuovi sistemi.
(217) Cfr. LAZEAR E. P., Performance pay and productivity, in The American Economic Review, vol. 90, n. 5, 2000, pagg. 1346-1361.
(218) Cfr. PAARSCH H. J., SHEARER B., Piece rates, fixed wages, and incentive effects: statistical evidence from payroll records, in International Economic Review, vol. 51, n. 1, 2000, pagg. 59-92.
(219) Cfr. BOOTH A. L., FRANK J., op. cit..
Anche studi europei si sono mossi nel medesimo solco degli approfondimenti statunitensi. Gielen, Kerkhofs e Van Ours (220), ad esempio, hanno impostato un’indagine empirica partendo da un campione di imprese olandesi. Gli Autori sono giunti a dimostrare che le aziende che adottano sistemi retributivi legati alle performance registrano crescite in termini di produttività e occupazione, rispettivamente nella misura del 9% e del 5%.
Similmente, altri Autori (221), muovendo da un campione di imprese italiane operanti nel settore metalmeccanico, con focus su sistemi incentivanti collettivi, dimostrano una crescita nei livelli di produttività positiva, tra il 3% e il 5%, con i livelli più alti registrati in quelle imprese che adottano sistemi non eccessivamente complessi e slegati dall’andamento della redditività aziendale. Nello specifico, secondo tali Autori non v’è alcuna evidenza circa un effetto positivo dei sistemi profit-sharing su occupazione e produttività, in quanto tali sistemi configurano modelli difficilmente comprensibili ai lavoratori, peraltro slegati dalle abilità e dalle prestazioni effettivamente svolte dagli stessi.
Un’altra parte della letteratura scientifica si è espressa diversamente dai suddetti orientamenti, evidenziando come sistemi retributivi incentivanti possono portare a livelli inefficienti di mobilità occupazionale e produttività aziendale. In questi termini, ad esempio, si segnalano gli studi di Beer e Cannon (222), nonché Mardsen (223). Mentre Mardsen si è concentrato sul modello salariale degli insegnanti, Beer e Cannon, in particolare ed a titolo esemplificativo, hanno affrontato il tema attraverso lo studio del caso Hewlett Packard. La compagnia di informatica, infatti, negli anni Novanta ha deciso di introdurre in via sperimentale dei sistemi retributivi legati alle performance dei dipendenti. Pur tuttavia, gli Autori rilevano come l’iniziativa abbia registrato un forte
(220) Cfr. GIELEN A. C., KERKHOFS M. J. M., VAN OURS J. C., How performance related pay affects productivity and employment, in Journal of Population Economics, vol. 23, n. 1, 2010, pagg. 291-301.
(221) Cfr. LUCIFORA C., ORIGO F., Performance-related pay and firm productivity: evidence from a reform in the structure of collective bargaining, in Industrial and Labor Relations Review, n. 3, 2015, pagg. 606-632.
(222) Cfr. BEER M., CANNON M. D., Promise and peril in implementing pay for performance: a report on thirteen natural experiments, in Human Resource Management, vol. 43, n. 1, 2004, pagg. 3-48.
(223) Cfr. MARDSEN D., The paradox of performance related pay systems: why do we keep adopting them in the face of evidence that they fail to motivate?, in LSE Research online, 2009.
insuccesso. Il sistema incentivante generava in realtà forti disparità tra i vari team, in quanto i lavoratori mostravano reticenza nell’accettare e integrare in squadra quei colleghi che reputavano esser meno qualificati e competenti. In aggiunta, siccome inizialmente il sistema incentivante sembrava segnare ottimi risultati, i manager delle varie unità produttive avevano incrementato dopo poco tempo i livelli degli obiettivi, generando però in tal modo un c.d. ratchet effect (traducibile come “meccanismo a ruota dentata”, ovvero, letteralmente, “meccanismo d’arresto”), per cui le maestranze hanno preferito tutelarsi non perseguendo livelli di produttività ottimali, temendo un ulteriore innalzamento degli obiettivi da raggiungere. I dipendenti, inoltre, cominciavano a esternare forte demotivazione e, ancora, i livelli di produttività calavano.
Circa il c.d. ratchet effect, in particolare, si era già espresso anche Lazear (224). Tale potenziale criticità è riscontrabile in quei processi ove, una volta raggiunto un determinato livello, non è più possibile tornare indietro. I lavoratori, quindi, per evitare spiacevoli conseguenze future potrebbero tendere ad impegnarsi meno di quello che invece la loro abilità consentirebbe, se non addirittura a rifiutare sistemi retributivi legati alle performance. Coerentemente, nel pensiero dell’Autore, se i lavoratori sanno che gli obiettivi futuri sono determinati da ciò che fanno ora, potrebbero essere portati ad impegnarsi meno del dovuto. L’economista statunitense, in particolare, rilevava altresì che, nei modelli collettivi, alcuni lavoratori possono cercare di indurre i colleghi a mantenere bassi livelli di produttività, timorosi che la direzione aziendale, alla luce di ottimi risultati, possa esser portata ad innalzare gli obiettivi pattuiti. Tuttavia, Lazear evidenzia anche come questo problema sia risolvibile ponendo in essere sistemi che, almeno nel primo periodo, partono da obiettivi bassi, poi eventualmente incrementabili in base alle evidenze.
Alcuni Autori hanno sostenuto che una soluzione al c.d. ratchet effect può consistere nel cambiare regolarmente le caratteristiche e le mansioni della prestazione del lavoratore (225), mentre altri studiosi, più di recente, hanno mostrato come promesse formalizzate dall’impresa di non tagliare comunque le retribuzioni legate alla performance possono
(224) Cfr. LAZEAR E. P., op. cit..
(225) Cfr. ICKES B. W., SAMUELSON L., Job transfers and incentives in complex organizations: thwarting the ratchet effect, in RAND Journal of Economics, vol. 18, n. 2, 1987, pagg. 275-286.
spingere i dipendenti a lavorare efficientemente, neutralizzando il verificarsi dei c.d. “meccanismi di non ritorno” (226).
3.3.3. Segue: Implicazioni ed efficacia dei sistemi retributivi basati sulle competenze dei lavoratori.
Con specifico riferimento ai sistemi di valutazione e valorizzazione economica delle competenze lavorative, Murray e Gerhart (227), hanno condotto un’analisi empirica per carpire l’effetto dei cennati sistemi su produttività, qualità e costo del lavoro, a 37 mesi di distanza. I risultati della ricerca segnano un effetto positivo dei c.d. sistemi retributivi skill-based: la produttività, misurata come ore lavorate per prodotto, registra un incremento del 58%; la qualità segna un forte miglioramento, sicché si registra una netta diminuzione degli scarti sul totale del prodotto, quantificata dell’82% rispetto al periodo di riferimento precedente; da ultimo, il costo del lavoro, seppur accresciuto da un generale aumento nelle retribuzioni erogate ai lavoratori, viene più che compensato dai maggiori risultati ottenuti in termini di produttività e qualità del lavoro.
Come già parzialmente anticipato, Lee, Law e Bobko (228), hanno svolto uno studio su un’azienda statunitense, esaminando gli effetti dell’introduzione di un sistema di valutazione della professionalità a distanza di due anni. Nello specifico, gli Autori hanno dimostrato che i meccanismi valutativi più chiari e meglio compresi dai lavoratori, nonché i sistemi legati ad appositi programmi formativi, comportano un accrescimento nella percezione di equità procedurale e, conseguentemente, una migliore percezione sistematica. Queste condizioni determinano l’efficacia e successo di tali piani di valutazione e valorizzazione delle competenze, segnando incrementi in termini di produttività aziendale.
(226) Così CARMICHAEL H. L., MACLEOD W. B., Worker cooperation and the ratchet effect, in
Journal of Labor Economics, vol. 18, n. 1, 2000, pagg. 1-19.
(227) Cfr. MURRAY B., GERHART B., An empirical analysis of a skill-based pay program and plant performance outcomes, in The Academy of Management Journal, vol. 41, n. 1, 1998, pagg. 68-78.
(228) Cfr. LEE C., LAW K., BOBKO P., op. cit..
Fatti salvi gli studi summenzionati, la letteratura economica è unanime nel riconoscere la scarsezza di un filone di ricerca empirica circa gli effetti dei sistemi skill-based sulle performance aziendali. Di questo avviso, a titolo di esempio, si attestano Shaw, Gupta, Mitra e Ledford (229), i quali avanzano piuttosto un focus su potenziali fattori di successo dei sistemi retributivi basati sulle competenze. Muovendo invero da un’analisi qualitativa, condotta attraverso questionari sottoposti a 97 aziende, gli studiosi sono giunti a concludere che i sistemi meglio funzionanti sono quelli in grado di valutare una scala sufficientemente ampia di competenze, nonostante ciò richieda uno sforzo e sia indirettamente proporzionale ai costi in capo all’azienda; quelli capaci di assicurare un contatto diretto tra lavoratori e supervisori; nonché quelli implementati in realtà manifatturiere (230), siccome in questi contesti le competenze delle maestranze risultano più facilmente monitorabili e valutabili. Secondo gli Autori, inoltre, questi fattori preminenti spingono le imprese a mantenere e migliorare continuamente i loro sistemi valutativi, garantendone longevità, oltre che ad avere a disposizione una forza lavoro maggiormente flessibile.
Nell’idea di De Silva (231), schemi di tal tipo, basati sulle competenze, sono comunque più facilmente implementabili nelle imprese maggiormente legate allo sfruttamento di conoscenze e capacità tecniche, alla scarsa presenza di gerarchie e ad una pratica gestionale partecipativa. D’altra parte De Silva, benché senza basare le proprie supposizioni su evidenze empiriche, e come sopra anticipato, asserisce che i sistemi retributivi skill-based portano con sé tanto potenziali criticità (ad esempio, i costi per la formazione sono elevati, oltre alla possibilità che si determini un incremento dei salari, pure a favore di competenze potenzialmente inutili), quanto potenziali vantaggi (facilità nell’aggiornamento rispetto alle innovazioni tecnologiche, creazione di una manodopera flessibile e spendibile su più posizioni o ruoli, incentivo per il lavoratore e riduzione della necessità di guardare alle promozioni come unica possibilità di crescita).
(229) Cfr. SHAW J. D., GUPTA N., MITRA A., LEDFORD G. E., Success and survival of skill-based pay plans, in Journal of Management, vol. 31, n. 1, 2005, pagg. 28-49.
(230) Su questo punto, per vero muovendo da assunti teorici più che empirici, vedi anche DE SILVA S.,
op. cit..
(231) Cfr. Ibidem.
Altri studiosi, più nello specifico, hanno dimostrato che l’adozione di sistemi salariali basati sulla professionalità spinge le imprese a puntare sulla formazione delle competenze specifiche dei lavoratori. Invero, quanto detto fa sì che ai dipendenti valutati per la loro professionalità, data la formazione specifica ricevuta, risulti ancor più difficile trovare stipendi superiori e più attraenti sul mercato, sicché si determina altresì una decrescita nei livelli di turnover e di ricambio forzoso della manodopera (232).
Mitra, Gupta e Shaw (233), ulteriormente, hanno condotto una comparazione dei risultati ottenuti sulla forza lavoro da 214 imprese che ricorrono a diversi schemi retributivi (a differenza che il salario sia legato alla mansione svolta, alla concorrenza sul mercato, ovvero alle competenze). Gli Autori, nel merito, hanno registrato l’impatto più positivo sulla flessibilità della forza lavoro, nonché sul comportamento della stessa, nei casi di schemi salariali collegati alle competenze. In tal modo, questo orientamento dottrinale assume che i c.d. skill-based pay plans contribuiscono ad aumentare il livello di produttività aziendale.
Alcuni economisti (234), infine, marcano, entro il più recente dibattito dottrinale, l’opportunità dell’adozione di tali meccanismi incentivanti basati sulle competenze dei lavoratori. Secondo questa letteratura, infatti, solo schemi incentivanti così impostati possono stimolare i comportamenti organizzativi desiderati nei confronti dei lavoratori, evitando distribuzioni a pioggia degli incentivi. Diversamente, i sistemi profit-sharing considerano semplicemente ex-post le condizioni della capacità di pagare dell’impresa, senza dar luogo a incentivi “ex-ante” percepibili dai singoli lavoratori come tali e riconducibili ai loro sforzi. In aggiunta, sistemi diversi da quelli skill-based rischiano di generare risultati negativi sull’inflazione: a titolo esemplificativo, accordi di profit-
(232) Cfr. GUTHRIE J. P., Alternative pay practices and employee turnover: an organization economics perspective, in Group and Organization Management, vol. 25, n. 4, 2000, pagg. 419-439. Del medesimo avviso, anche marcando il fatto che la formazione specifica accresce la flessibilità della forza lavoro, giacché retribuire i dipendenti in base alle competenze significa spingerli a formarsi e, conseguentemente, perseguire alti livelli di flessibilità lavorativa delle maestranze, si segnala DIERDORFF E. C., SURFACE
E. A., If you pay for skills, will they learn? Skill change and maintenance under a skill-based pay system, in Journal of Management, vol. 34, n. 4, 2008, pagg. 721-743.
(233) Cfr. MITRA A., GUPTA N., SHAW J. D., A comparative examination of traditional and skill-based pay plans, in Journal of Managerial Psychology, vol. 26, n. 4, 2011, pagg. 278-296.
(234) Sul punto, si veda in particolare ACOCELLA N., LEONI R., op. cit..
sharing possono derivare da calcoli sul possibile incremento dei prezzi, e, quindi, da un ipotetico aumento dei valori nominali degli indicatori pattuiti, con la conseguenza che l’impresa può accontentarsi di redistribuire parte dei risultati raggiunti pagando esclusivamente gli incentivi legati al successo delle strategie aziendali, e cioè al successo delle strategie inflazionistiche nel mercato del bene o servizio. Diversamente, sistemi skill-based evitano il verificarsi delle cennate controfinalità e, d’altra parte, spingono verso alti livelli di innovazione organizzativa e di sviluppo delle competenze dei dipendenti, proprio in cambio di una reale e sostenibile crescita del salario.
3.3.4. Segue: La Teoria dell’equità organizzativa nei sistemi di valutazione delle performance e il coinvolgimento delle maestranze.
Un vasto numero di contributi in materia convergono sulla necessità che i sistemi di valutazione individuale delle performance siano percepiti come giusti ed equi. Nello specifico, la teoria della giustizia organizzativa si deve al sociologo e psicologo del lavoro americano Greenberg. Il modello, per precisione, muove a sua volta dalla Teoria dell’equità di Adams (235), la quale tenta di spiegare i diversi gradi di soddisfazione percepita dai lavoratori all’interno di un’organizzazione. I lavoratori, infatti, tendono a mantenere in parità il rapporto tra input apportati sul posto di lavoro (si intende la quantità e qualità del lavoro svolto) e gli esiti (nel concreto, la retribuzione). Da questo punto di vista, la scontentezza sul luogo di lavoro deriva da iniquità, in primo luogo retributive, dettate per esempio da sistemi incentivanti entro cui i lavoratori non si sentono partecipi, ovvero da sistemi incentivanti eccessivamente soggettivi nelle dinamiche valutative.
(235) Cfr. ADAMS J. S., Towards an understanding of inequity, in Journal of Abnormal and Social Psychology, vol. 67, n. 5, 1963, pagg. 422-436; ADAMS J. S., Wage inequities, productivity and work quality, in Industrial Relations, vol. 3, n. 1, 1963, pagg. 9-16; per un’ampia ricostruzione teorica, vedi GREENBERG J., A taxonomy of organizational justice theories, in Academy of Management Review, vol. 12, n. 1, 1987, pagg. 9-22.
Come accennato, Greenberg costruisce il proprio modello di giustizia organizzativa muovendo dalla teoria di Adams (236). Secondo la teorizzazione di Greenberg, la percezione di giustizia dei lavoratori dipende da tre principali componenti: la giustizia distributiva, la giustizia procedurale e la giustizia interazionale. Nel merito, la giustizia distributiva rappresenta l’equità percepita circa il modo in cui gli individui credono di essere trattati e, quindi, il modo in cui le ricompense sono assegnate e decise; la giustizia procedurale rappresenta l’equità percepita relativamente al come le decisioni vengono prese, dunque con riferimento al processo decisionale in senso stretto; la giustizia interazionale indica invece l’equità percepita dai soggetti contestualmente all’applicazione delle decisioni. Secondo Greenberg, maggiore è il coinvolgimento dei lavoratori nelle dinamiche organizzative e valutative, e cioè più essi si sentono vicini a tali meccanismi, maggiore è la percezione di equità e giustizia.
Il modello di giustizia organizzativa trova un ulteriore approfondimento nei successivi studi di Greenberg (237), ove è il medesimo Autore a condurre una ricerca qualitativa su un campione di manager, chiedendo loro quali determinanti sono di maggior importanza nei sistemi di valutazione delle performance. Per quanto qui di interesse, dallo studio è emerso che tra i fattori procedurali i più importanti consistono nella coerenza nell’applicazione dei parametri valutativi, nella previsione di colloqui e confronti tra le parti, nella possibilità di conoscere i parametri di valutazione prima che la valutazione abbia luogo, nella trasparenza dei meccanismi valutativi, ovvero nella possibilità di adire contro la valutazione stessa; tra i fattori distributivi rilevano la presenza di incentivi o promozioni effettivamente basate sui sistemi valutativi, nonché la possibilità per il dipendente di visionare e ricevere la valutazione finale.
Successivi studi si sono concentrati sulla dimensione della giustizia interazionale, arrivando infatti a sancire un modello di giustizia organizzativa bi-fattoriale, ove la
(236) Cfr. GREENBERG J., The distributive justice of organizational performance evaluations, in BIDHOFF H. W., COHEN R. L., GREENBERG J., a cura di, Justice in Social Relations, Plenum press, New York, 1986.
(237) Cfr. GREENBERG J., Determinants of perceived fairness of performance evaluations, in Journal of Applied Psychology, vol. 71, n. 2, 1986, pagg. 340-342.
giustizia interazionale è insita e assorbita nella componente procedurale (238). Secondo altri Autori, quale ad esempio Bies (239), il fattore interazionale è contestuale alle relazioni intercorrenti sul luogo di lavoro e rappresenta quindi una terza e distinta dimensione dei modelli di giustizia organizzativa.
Anche parte della letteratura economica, muovendo da assunti teorici, si è soffermata su tali aspetti connessi al concetto di equità procedurale nei sistemi di valutazione delle performance lavorative. Alcuni studiosi, coerentemente, sottolineano l’importanza del coinvolgimento dei lavoratori per la buona riuscita di sistemi organizzativi basati sulla valutazione e valorizzazione delle professionalità (240). Similmente, altri hanno rimarcato come il tema degli schemi retributivi legati alle performance, con particolare riferimento ai sistemi skill-based, sia strettamente legato all’equità e giustizia procedurale percepita dai lavoratori, l’operato dei quali è infatti oggetto di valutazione (241). Da questo punto di vista, il coinvolgimento del sindacato nella determinazione dei criteri e delle procedure valutative potrebbe assicurare alti livelli di equità sistemica e, conseguentemente, una buona riuscita dei modelli incentivanti.
Più di recente, Léné (242) ha sostenuto che la percezione di giustizia organizzativa costituisce un elemento cruciale per la buona implementazione di sistemi salariali legati alla professionalità. In particolare, il modo in cui il management mette in atto piani retributivi basati sulle competenze influenza gli atteggiamenti e i comportamenti dei dipendenti. Invero, quando i lavoratori ritengono che le decisioni siano stabilite sulla base di criteri privi di legittimità e non condivisi, tendono ad adottare un comportamento di reticenza e avversione verso i sistemi di valutazione. In aggiunta, anche parte della dottrina giuslavoristica non ha mancato di esprimersi sul punto: gli strumenti di valutazione attraverso cui effettuare l’apprezzamento della qualità della
(238) Cfr. CROPANZANO R., GREENBERG J., Progress in organizational justice: tunneling through the maze, in International Review of Industrial and Organizational Psychology, vol. 12, 1997, pagg. 317-372.
(239) Cfr. BIES R. J., The predicament of injustice. The management of moral outrage, in CUMMINGS L. L., STAW B. M., Research in organizational behavior, JAI press, Greenwich, 1987.
(240) Sul punto, si vedano GUPTA N., LEDFORD G. E., JENKINS G. D., DOTY D. H., op. cit., e LAWLER E. E., op. cit..
(241) Cfr. ACOCELLA N., LEONI R., op. ult. cit..
(242) Cfr. LÉNÉ A., Skill-based pay in practice: an interactional justice perspective, in European Journal of Training and Development, vol. 38, n. 7, 2014, pagg. 628-641.
prestazione lavorativa e determinare il corrispettivo retributivo, devono poggiare su valutazioni non discriminatorie, che non celino intenti di svilimento professionale (243).
3.4. Valutazione delle performance e fattori motivazionali.
Come anticipato, i modelli salariali legati alle performance dei lavoratori arrivano a coinvolgere la motivazione professionale e lavorativa delle maestranze. Alcuni studi di psicologia e sociologia del lavoro, invero, si sono focalizzati su questi aspetti. Secondo la Teoria dei risultati attesi di Vroom (244), applicata alle forme di retribuzione incentivante, la motivazione dei lavoratori è legata all’aspettativa ed alla valenza. L’aspettativa consiste nella percezione della probabilità che una determinata azione del lavoratore possa condurre ad ottenere un risultato, mentre la valenza è l’attrattività e soddisfazione che l’individuo attribuisce al raggiungimento dell’obiettivo. Nel concreto, dunque, al crescere dell’aspettativa e della valenza del sistema incentivante, aumenta anche la motivazione nel lavoratore.
La successiva letteratura scientifica, nel merito, è stata solita distinguere principalmente tra fattori motivazionali intrinseci ed estrinseci. I primi studi in materia si devono alla Teoria dell’auto-determinazione (Self-determination Theory) di Deci e Ryan (245). Nello specifico, gli Autori hanno distinto tra diverse forme di motivazione. In particolare, i fattori motivazionali intrinseci implicano che un’attività venga svolta per la soddisfazione della stessa, senza che intervengano in tal senso premi o incentivi di alcun tipo. I fattori motivazionali estrinseci, diversamente, implicano che un’attività venga svolta allo scopo di ottenere un riconoscimento, anche economico. Posta questa distinzione, Deci e Ryan, alla luce di alcuni esperimenti condotti primariamente su gruppi di studenti, giungono a concludere che i risultati migliori si ottengono in quei casi in cui ai soggetti viene lasciata ampia autonomia, senza ricorrere dunque a
(243) Così D’ONGHIA M., op. cit..
(244) Per cui si rimanda a VROOM V. H., Work and motivation, Jossey-Bass Business and Management Series, San Francisco, 1964.
(245) Cfr. DECI E. L., RYAN R. M., Intrinsic motivation and self-determination in human behavior, Plenum press, New York, 1985; successivamente, RYAN R. M., DECI E. L., Intrinsic and extrinsic motivations: classic definitions and new directions, in Contemporary Educational Psychology, n. 25, 2000, pagg. 54-67.
pressioni, contesti competitivi, scadenze e incentivi. Le performance più elevate, invero, si riscontrano nei contesti in cui i superiori valorizzano il più possibile la motivazione intrinseca degli individui.
Da ultimo, una ricognizione generale del dibattito in materia si rintraccia in Risher (246). L’Autore, in particolare, si mostra scettico verso le conclusioni di Deci e Ryan. Secondo Risher i nuovi lavori richiedono una componente di abilità così elevate da racchiudere, a prescindere, una motivazione intrinseca. Ulteriormente, nel pensiero dell’Autore le conclusioni dei due psicologi sono inconsistenti in quanto i nuovi contesti lavorativi, ben diversi da quelli scolastici, implicano un aspetto retributivo congenito. I sistemi incentivanti sono ancor più forti quando mirati a valutare le competenze dei lavoratori e, conseguentemente, a spingere verso un funzionale sviluppo delle stesse, al che fattori motivazionali estrinseci si rendono prodromici a tal fine.
In senso contrario a Deci e Ryan si era già precedentemente pronunciato pure Lazear (247). Alla luce degli studi dell’economista statunitense, infatti, l’evidenza empirica mostra un effetto positivo dei sistemi retributivi legati alle performance sulla motivazione dei dipendenti e, quindi, sull’impegno professionale profuso dagli stessi.
(246) Cfr. RISHER H., It’s not that simple: extrinsic versus intrinsic rewards, Editorial, in Compensation and Benefits Review, vol. 45, n. 1, 2013, pagg. 3-6.
(247) Cfr. LAZEAR E. P., op. ult. cit..