UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, GIURIDICHE E STUDI INTERNAZIONALI
Corso di laurea Triennale in DIRITTO DELL’ECONOMIA
L'evoluzione normativa del contratto a termine con specifico riferimento alla causale
Relatore: Xxxx. XXXXXXXXX XXXXXX
Laureando: XXXXXXX XXXX
matricola N. 1054459
PREMESSA E CENNI STORICI
CAPITOLO 1: STORIA ED EVOLUZIONE NORMATIVA DEL CONTRATTO A TERMINE
1.1) La l. 230/1962: la prima disciplina del contratto a termine e la tassatività delle cause.
1.2) L’ampliamento delle causali stabilito dall’art. 23 della legge 56/1987.
1.3) Il d.lgs 368/2001 ed il ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva.
1.4) La limitazione temporale della reiterazione di contratti a termine: le modifiche al d.lgs 368/2001 sancite dalla legge 247/2007.
1.5) L’impiego del contratto a termine anche per le attività ordinarie dell’impresa, l. 133/2008.
CAPITOLO 2: LA PROGRESSIVA ELIMINAZIONE
DELL’OBBLIGO DELLA CAUSALE NEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO
2.1) La riforma Fornero (l. 92/2012) e il contratto c.d. acausale.
2.2) La prorogabilità del contratto acausale, il d.l. 76/2013 e le modifiche alla l. 92/2012.
2.3)La riforma Xxxxx (d.l. 34/2014) e le differenze rispetto a legge Fornero.
2.4) Il d.lgs. 81/2015 e l’attuazione dei propositi del Jobs act.
CONCLUSIONE BIBLIOGRAFIA
RINGRAZIAMENTI
Ai miei genitori e i miei fratelli per avermi sempre sostenuto durante questi tre anni di università
Alla prof. Limena per la sua disponibilità e professionalità
Ai miei compagni che mi hanno sempre aiutato nei momenti di bisogno
PREMESSA E CENNI STORICI
Il mito della stabilità del posto di lavoro, così diffuso e garantito negli anni ’60, diretta conseguenza del grande sviluppo economico, del rapido processo di industrializzazione e del basso tasso di disoccupazione (3,9%, il minimo storico in Italia), inizia ad essere messo in discussione con l’emanazione della prima norma che disciplina in modo chiaro il contratto a tempo determinato, la legge 18 aprile 1962 n. 230. Per contestualizzare bene questa importante norma occorre subito rilevare che l’emanazione avviene in pieno “boom economico” dell’Italia e si inserisce in un contesto normativo, per certi versi, ancora carente di tutele e limiti al potere di recesso del datore di lavoro.
Non è da escludere pertanto che il legislatore, con tale scelta apparentemente anomala, potesse pensare che il lavoratore che avesse avuto un contratto a tempo determinato fosse più tutelato quantomeno se la durata fosse stata sufficientemente lunga, essendo possibile il solo recesso per giusta causa ex art. 2119 cod. civ. rispetto ad un contratto a tempo indeterminato, proprio in virtù della libertà di recesso vigente.
Questo, perlomeno, il pensiero di parte della dottrina dell’epoca.1
Infatti solo con la l. 15.7.1966 n. 604 vennero introdotti dei limiti al potere di recesso da parte del datore di lavoro, mentre prima era nel pieno diritto di quest'ultimo di poter recedere “ad nutum” cioè senza necessità di alcuna motivazione o causa.
Tuttavia occorre rilevare che non esistendo, prima dell’introduzione della l. 230/62, alcuna norma che prevedesse il divieto di
1 Xxxxxxx; La stabilità convenzionale del posto di lavoro, in Mass. Giur. Lav. 1962, 82; Xxxxxxxxxx; Contratti di lavoro a termine e clausole di durata minima nei contratti di lavoro a tempo indeterminato in relazione alla legge 18 aprile 1962 n. 230, in Mass. Giur. Lav. 1964, 123; Xxxxxxxxxxx; Il rapporto di lavoro con durata minima garantita, in Xxxxx. Giur. Lav. 1965, 95
discriminazione, il contratto a termine in realtà godeva di diritti economici notevolmente inferiori rispetto al contratto a tempo indeterminato, basti pensare che non erano previste le ferie, gli scatti di anzianità, l'indennità di anzianità ecc.
Certo è che, indipendentemente dalle maggiori o minori tutele previste per coloro che avevano stipulato un contratto a tempo determinato, per i primi anni di vigenza della legge istitutiva del contratto a termine, vi è stato un contenzioso particolarmente contenuto e quasi mai rivolto ad ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Xxxxxxxxxxx che si è particolarmente accentuato una volta che il legislatore ha deciso di istituire un complesso regime limitativo dei licenziamenti dapprima con la ricordata legge n. 604/66 e successivamente con l'art. 18 l. 20.5.1970 n. 300 e che ha trovato terreno fertile nell’estrema rigidità della l. 230/62 quanto alle ipotesi legittimanti il ricorso al contratto a termine, dal regime della proroga ivi previsto e dalle conseguenze sanzionatorie in caso di violazione delle disposizioni.
Solo con l'introduzione di quanto previsto dall'art. 23 della legge del 28 febbraio 1987, n. 56, grazie al coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, si è avuto un momento di attenuazione del contenzioso poiché fu previsto, in aggiunta alle tassative ipotesi contenute nella l. 230/62, anche altre ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro e furono introdotte limitazioni quantitative e un diritto di precedenza.
Con il d.lgs del 6 settembre 2001 n. 368 (attuativo della direttiva della Comunità Economica Europea n.76/99 che ha recepito l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato), si ha una ulteriore spinta evolutiva verso una maggiore liberalizzazione del contratto a termine, con l’abrogazione della l. 230/62 e l’eliminazione della rigida elencazione tassativamente ivi prevista; con l’introduzione, al suo posto, della famosa norma “generale” (c.d. "causalone"), ovvero la possibilità di poter stipulare un contratto a tempo determinato solamente laddove esistessero "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.
Purtroppo neanche tale intervento normativo, che pure sembrava aver circoscritto in modo più preciso le ipotesi legali di apposizione del termine al contratto di lavoro, riconducendole a quattro precise tipologie, ha ridotto il contenzioso, che anzi ha trovato maggiori appigli proprio nella genericità ed astrattezza delle ragioni.
Si assiste in questi anni ad un rilevante ed indiscriminato uso del lavoro a termine, che contribuisce alla diffusione della condizione di precariato. Così con la l. 247/2007, di attuazione del protocollo su previdenza, lavoro e competitività, stipulato tra Governo e parti sociali il 23/7/2007, viene modificato nuovamente il d.lgs. 368/2001 e viene reintrodotto il principio per cui il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato, riportando l’attenzione su tale tipologia di contratto atto a generare stabilità nel rapporto di lavoro.
Ma oramai la strada verso una decisa liberalizzazione del contratto a termine è pressoché tracciata e si può affermare che, anche nell’ordinamento italiano, si stia andando verso una sempre maggiore liberalizzazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato.
In un contesto di piena crisi economica e di uno scenario politico totalmente diverso, una decisa rivisitazione dell’istituto viene attuata con l’introduzione della l. 92/2012, la cosiddetta “legge Fornero”, il cui impatto è di non poco conto, essendo stata toccata la maggior parte dei caratteri sostanziali della relativa disciplina.
Muovendosi nella stessa direzione del protocollo del Welfare, e affermando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro (art. 1, co. 1, d.lgs. 368/2001, come modificato) la riforma Fornero ha il chiaro fine dichiarato dal legislatore di favorire la c.d. “flessibilità buona”, ovvero l'utilizzo del lavoro a termine come tipologia contrattuale che possa incoraggiare le assunzioni soddisfacendo possibili esigenze aziendali, senza però che questo possa trasformarsi in un costante ricorso, da parte delle imprese, a ripetute assunzioni a
termine per una stessa attività ed esigenze produttive permanenti che ben potrebbero essere realizzate, invece, con assunzioni definitive.
La principale novità della riforma è stata l’introduzione nell’ordinamento italiano del contratto a termine “acausale”, cioè la possibilità di apporre un termine al primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, senza la necessità di individuare ragioni giustificatrici.
Decisa la spinta della riforma verso la liberalizzazione del contratto a termine che incontra il gradimento dei datori di lavoro sottolineata anche da parte della dottrina.2
Si è quindi arrivati ai giorni d'oggi, in cui il legislatore, con l'introduzione delle previsioni contenute nel d.l. 34/2014 convertito, con modificazioni nella l. 78/2014, ha radicalmente sovvertito i principi sino ad oggi esistenti, inserendo un ulteriore tassello normativo con cui costruire la flessibilità in entrata. Infatti, con tale ultimo provvedimento, che ben possiamo definire “rivoluzionario”, si attua una diversa modalità di assunzione (con contratto a tempo determinato), in quanto non più legato ad esigenze temporanee, a ragioni o cause, ma ad una temporaneità voluta dalle parti (sia pur con limiti quantitativi e temporali imposti dalla legge).
Il d.lgs. 81 del 15 giugno 2015 di recente emanazione, all’art.19 intitolato “Apposizione del termine e durata massima” così recita:
1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi. 2. Fatte salve le diverse
2 Secondo SERRA, in “La riforma Fornero-Monti e il nuovo contratto a tempo determinato”, in nel xxxxxx.xx del 28 giugno 2012, “l’introduzione della acausalità del termine è in linea con quanto già affermato dalla Corte di Giustizia europea secondo la quale l’accordo quadro siglato dalle Parti Sociali europee non aveva l’obiettivo di contrastare i contratti a termine in quanto tali, bensì la loro reiterazione. Per tale motivo, il primo (o unico) contratto di lavoro a tempo può essere stipulato indipendentemente dall’esistenza di “ragioni obiettive” che andrebbero identificate solo nel caso di rinnovo del contratto (clausola 5, punto 1, lett. a, Accordo), ancora affermando che la Corte con la sentenza del 23 aprile 2009 ha temperato il principio della acausalità stabilendo che le “ragioni obiettive” che consentono la reiterazione non possono che riferirsi a esigenze “provvisorie” del datore di lavoro e non a quelle “permanenti e durevoli””
disposizioni dei contratti collettivi, e con l'eccezione delle attività stagionali di cui all'articolo 21, comma 2, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, non può superare i trentasei mesi. Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato. Qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento”
Concludo tale excursus storico evidenziando come il contratto a termine sia a pieno titolo considerato dal legislatore come uno strumento idoneo ad attuare quella flessibilità nei rapporti di lavoro che tanto sta a cuore all’imprenditoria per rilanciare la competitività e superare la stagnazione economica. Pertanto, quando si parla di flessibilità, ci si riferisce all’autonomia delle parti, e riguarda il modo di organizzare il proprio lavoro, gli spazi, gli orari, la snellezza delle procedure. Diventa tuttavia necessario affiancare tale autonomia organizzativa con vincoli e tutele a favore del lavoratore in qualità di contraente più debole, affinché tale autonomia non si trasformi in precarietà.
CAPITOLO 1: STORIA ED EVOLUZIONE NORMATIVA DEL CONTRATTO A TERMINE
1.1)La legge 230/1962, la prima disciplina del contratto a termine e la tassatività delle cause
Come già anticipato nella premessa, in Italia la prima disciplina del contratto a tempo determinato si ha con la legge 230 del 1962, la quale abroga, con l’art. 9, l’art. 2097 del codice civile.3
Come si è giunti all’emanazione di tale norma? Occorre evidenziare come l’art. 2097 ponesse in evidenza il favore legislativo per l’interesse del lavoratore alla continuità dell’occupazione, in un momento storico caratterizzato da un mercato fondato sulle molteplici economie locali, ove le attuali esigenze di flessibilità del lavoro non erano ancora avvertite e, di conseguenza, non se ne teneva conto.
Tutele a favore del lavoratore più formali che sostanziali, essendosi di fatto diffuse pratiche elusive, fondate per altro sul fatto che l’onere della prova fosse a carico dello stesso lavoratore, circa la dimostrazione dell’intento fraudolento delle intenzioni del datore di lavoro.
Ciò ha indotto il legislatore del ’62, in un’epoca caratterizzata da un forte fermento sindacale, all’emanazione di una disciplina severa e rigida, dettata dallo specifico intento di reagire alla carenza della legge.
3 L’art. 2097 del Cod. Civile recitava: “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In quest'ultimo caso l'apposizione del termine è priva di effetto, se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato. Se la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il contratto si considera a tempo indeterminato. Salvo diversa disposizione delle norme corporative se il contratto di lavoro è stato stipulato per una durata superiore a cinque anni, o a dieci se si tratta di dirigenti, il prestatore di lavoro può recedere da esso trascorso il quinquennio o il decennio, osservata la disposizione dell'articolo 2118”.
Viene dunque emanata la l. 230/62, che all’art. 9 abroga espressamente l’art. 2097 del codice civile, come precedentemente ricordato.
La legge disciplina il contratto a termine in maniera precisa, circoscrivendo le possibilità di utilizzo dello stesso ad un elenco tassativo di casi e situazioni particolari in cui sia possibile l’apposizione del termine; inserisce inoltre elementi di rigidità circa la forma, le proroghe, l’onere della prova, la parità di trattamento economico e le conseguenze circa l’elusione di tali disposizioni.
L’ art. 1 asserisce infatti: “ il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate:…”
Si evince dunque chiaramente nel legislatore sia la volontà di tutelare e mantenere prioritaria l’istituzione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, in quanto considerati, a ragione, più tutelanti della sicurezza lavorativa ed economica del lavoratore dipendente, sia la diffidenza nei riguardi del contratto a tempo determinato, nell’intento di prevenire eventuali abusi da parte dei datori di lavoro.
Inoltre, l’apposizione del termine deve risultare da atto scritto, altrimenti si considera priva di effetto, a meno che la durata del rapporto di lavoro puramente occasionale sia inferiore a dodici giorni. Fatto questo che testimonia, ancora una volta, la volontà del legislatore di offrire la massima tutela al lavoratore assunto a termine.
Esaminando la legge in maniera più dettagliata e approfondita, essa consente il ricorso al contratto a termine quando (art.1):
a) sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima
b) l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempre che nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione
c) l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale
d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell’ambito dell’azienda
e) nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli
Si può dedurre in maniera dunque abbastanza evidente come l’elemento comune di questi cinque casi sia l’eccezionalità e la temporaneità del rapporto di lavoro, e la necessità che in ognuno dei cinque casi sopraelencati esso termini una volta conseguito l’obiettivo per cui sia stato stipulato ( nel punto b, ad esempio, la sostituzione di un lavoratore temporaneamente assente, o nel punto c il completamento di un’opera o un servizio occasionale).
L’art.2 stabilisce invece le modalità di proroga e di continuazione del rapporto di lavoro anche in seguito alla scadenza del termine. Esso stabilisce che il termine del contratto a tempo determinato possa essere prorogato solo una volta, per una durata non superiore a quella del contratto iniziale, e comunque solamente con il consenso del lavoratore. La proroga deve essere, inoltre, dovuta ad “esigenze contingenti ed imprevedibili” , e deve riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato.
Si tratta, evidentemente, di una norma anch’essa antielusiva, volta ad evitare un abuso del ricorso al contratto a tempo determinato, e a prevenire atti che abbiano il solo scopo di mascherare un’assunzione stabile del lavoratore.
A questo proposito, è chiara la finalità antielusiva dell’ultimo comma dell’art. 2, il quale sancisce infatti che “il contratto di lavoro si consideri egualmente a tempo indeterminato quando il lavoratore
venga riassunto a termine entro un periodo di quindici ovvero trenta giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi e, in ogni caso, quando si tratti di assunzioni successive a termine intese ad eludere le finalità della presente legge”.
Al lavoratore assunto con contratto a tempo determinato spettano inoltre (art. 5) “ le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità ed ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori regolamentati con contratto a tempo indeterminato, in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine”.
Tali e rilevanti sono le novità introdotte con questa norma, da indurre parte della dottrina a sostenere che il disvalore tra contratto a termine e contratto a tempo indeterminato nell’ordinamento italiano, abbia raggiunto il suo apice.4
1.2) L’ampliamento delle causali stabilito dall’art. 23 della legge 56/1987
Una prima apertura verso un più ampio utilizzo del contratto a tempo determinato si ha con l’entrata in vigore della legge del 28 febbraio 1987 n° 56, che permette di derogare alla rigidità dell’art. 1 della legge 230 del 1962, consentendo un utilizzo del contratto a termine anche al di fuori delle tassative cause da esso previste.
L’art.23 primo comma, infatti, stabilisce che “ l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi previste dall’art. 1 della l.230/1962, (…), è consentita nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con
4 Xxxxxx, Il lavoro a termine nell’evoluzione dell’ordinamento, Xxxxxxx, 2010, pag. 106-112
contratto a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.
Ne risulta un forte potere assegnato ai contratti collettivi e ai sindacati, una sorta di “delega in bianco” a loro favore, potendo essi ricorrere al contratto a tempo determinato anche per causali di carattere diverso, sia oggettivo che , anche se soltanto in particolari casi valutati sul piano nazionale e locale, di carattere “soggettivo”; questo poiché il lavoratore viene ritenuto comunque sufficientemente tutelato nei propri diritti dall’accordo raggiunto dall’incontro delle parti sociali.
Tale facoltà, riconosciuta al contratto collettivo, ha determinato negli anni passati una ricca produzione di regole negoziali, capaci di allentare notevolmente il rigore della disciplina legale previgente. Il criterio regolativo fatto proprio dall’opzione normativa della legge n. 56/1987, postulava che il rinvio ad un sistema di produzione di norme alla contrattazione collettiva avesse maggiori capacità di adattamento ai mutamenti del contesto produttivo e dei rapporti socio-economici oggetto di disciplina.
Si era ritenuto, infatti, che le norme di origine negoziale fossero maggiormente in grado di realizzare un compromesso alle esigenze delle parti che danno vita al sistema di relazioni industriali, senza scontare i tempi lunghi dell’ intervento legislativo. Se il legislatore del 1987 ha dovuto stimolare una negoziazione in tema di lavoro a termine, anziché recepirla dalla prassi del sistema contrattuale, ciò è dipeso evidentemente dal solo fatto che quella materia fosse fino ad allora sottratta alla capacità regolativa delle parti sociali, attesa l’inderogabilità della disciplina legale dettata dalla legge n. 230/1962.
L’introduzione, ad opera dell’autonomia collettiva, di fattispecie nelle quali è consentita l’apposizione del termine al contratto di lavoro ha determinato, quale primo rilevante fenomeno, il superamento di alcune questioni interpretative insorte in relazione alle ipotesi previste dalla l. 230/1962.
Tanto con riferimento alle assunzioni a termine per la sostituzione di lavoratori in ferie, quanto in ordine alla questione delle cosiddette punte stagionali, la contrattazione collettiva, sempre muovendo in direzione di una maggiore flessibilità, ha di fatto neutralizzato alcuni orientamenti giurisprudenziali di segno marcatamente restrittivo, realizzando un’operazione già preconizzata dalla dottrina.
Va, in ogni caso, ricordato che l’art. 23 della legge n. 56/1987 imponeva, quale limite all’autonomia collettiva, che i contratti dessero indicazione del “numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.
Nell’attuare tale previsione legislativa, le parti sociali hanno spesso determinato, oltre alla suddetta percentuale, un numero minimo, in cifra fissa, di lavoratori che potevano essere assunti a termine qualora il datore di lavoro ricadesse al di sotto di certe soglie occupazionali; il che ha consentito alle imprese di minori dimensioni di coprire, con i contratti a termine, porzioni assai più consistenti dell’intera forza- lavoro.
La richiamata indicazione dei limiti quantitativi alla stipulazione di contratti a tempo determinato costituiva l’unico necessario bilanciamento – a pena di invalidità delle clausole collettive – per l’esercizio del potere normativo delegato. Tuttavia la contrattazione collettiva ha spesso dettato una serie di ulteriori obblighi e limitazioni, che condizionavano la possibilità di fruire delle previsioni contrattuali. In tal modo, l’autonomia collettiva nell’individuare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, ha liberamente creato alcuni vincoli volti a compensare la spinta liberalizzatrice.
In particolare, sul piano sostanziale, una prima tipologia di limitazione è consistita nella fissazione di termini di durata minima del contratto, allo scopo di garantire una prospettiva minimale di garanzia dell’impiego; in altri casi è stata, invece, indicata una durata massima del rapporto, nelle ipotesi autorizzate ex art. 23, al fine di arginare
possibili abusi e contenendo quindi la precarietà del rapporto entro periodi temporali limitati.
Sul piano procedimentale, inoltre, numerose clausole contrattuali hanno previsto che le assunzioni a termine, effettuate dall’azienda attingendo alle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, fossero precedute (o, in altri casi, solamente seguite) da una procedura informativa in favore delle rappresentanze sindacali aziendali ovvero delle organizzazioni sindacali territoriali.
1.3) Il decreto legislativo n. 368/2001 ed il ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva.
Con l’approvazione del d. lgs. 368/2001 si assiste immediatamente ad un ridimensionamento del ruolo del contratto collettivo e tramonta definitivamente il modello del numero chiuso delle ipotesi di legittima assunzione a termine, a favore di una causale assai ampia che possiamo definire “ in bianco”.
Il d.lgs. in esame è il frutto del recepimento in Italia della direttiva 99/70/Ce sul contratto a termine. Nel corso del 2001, il Governo aveva richiesto alle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori di raggiungere un accordo su di un testo condiviso (il c.d. "avviso comune") che potesse poi essere tradotto in legge con il consenso pieno delle parti sociali. Tale testo, a seguito di approfondimenti e non poche discussioni fra le parti, è poi confluito in un accordo quadro5 sottoscritto da tutte la organizzazioni sindacali ad eccezione della CGIL, ed è, di fatto e salvo alcune lievi modifiche, il testo del decreto legislativo poi licenziato dal Governo.
Abrogando e superando la precedente disciplina che prevedeva ipotesi tassative in cui era consentita l'apposizione di un termine al contratto
5 Nel gennaio 2001 tra le parti era stato trovato un accordo non molto distante da quello finale. Quest’ultimo, stipulato il 27 aprile e il 4 maggio 2001, non è stato sottoscritto dalla CGIL in quanto nel testo è stato eliminato il potere della contrattazione collettiva di individuare le ipotesi in cui è legittima l’apposizione del termine.
di lavoro (art. 1, l. 230/1962) con l’ampliamento, come abbiamo visto, solo in seguito (art. 23, legge n. 56/1987) di ulteriori ipotesi introdotte dalla contrattazione collettiva nazionale o locale, il decreto legislativo 368/2001 ha "liberalizzato" la possibilità di stipulare contratti a termine a fronte di ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo” (art. 1, decreto cit.).
In assenza di ulteriori specificazioni, tali “ragioni” devono intendersi piuttosto estese e tali da ricomprendere tutte le ipotesi in precedenza utilizzate per la stipulazione del contratto a termine (picchi di lavoro, sostituzioni personale, attività straordinarie etc.).
E’ chiaro, quindi, l’intento del legislatore di operare un ulteriore e deciso passo verso una liberalizzazione di questa importante condizione di flessibilità contrattuale. Si può infatti osservare come l'ampio ventaglio delle espressioni sopra richiamate possa coprire, dal punto di vista pratico, l'intera gamma delle ipotesi normalmente utilizzate nelle aziende per l'utilizzo del lavoro a termine.
Così come previsto dall'art. 1, comma 2, nel contratto di assunzione, la cui forma scritta è obbligatoria, andranno specificate le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto a termine. Più in particolare, non sarà sufficiente la mera riproduzione letterale delle ragioni contenute nell'art. 1 della legge, ma sarà compito delle parti (ed in particolare dei datori di lavoro) di "specificare" in che cosa si traduca la ragione che consente l'apposizione di un termine.6
Sotto il profilo della forma, come precedentemente accennato, la legge prevede che l'apposizione del termine sia priva di effetto se non risulta
6 La circolare 42/2002 del Ministero del Lavoro, interpretativa del d. lgs. 368/2001, si orienta in tal senso, sostenendo la necessità di specificare concretamente la ragione di apposizione del termine. Essa infatti sostiene che “al regime della generale negazione del ricorso al contratto a termine tranne in alcuni casi tipizzati, si sostituisce, recependo ormai un progressivo mutamento della funzione economico sociale riconosciuta a detta forma contrattuale, il principio in base al quale "il datore di lavoro può assumere dei dipendenti con contratti a scadenza fissa, dovendo fornire contestualmente e in forma scritta le (note) ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".
“direttamente o indirettamente” da atto scritto, da cui necessariamente discende il requisito della forma scritta.
Il d.lgs. non disciplina una durata minima o massima del contratto a termine, salvo che per quanto concerne il contratto a termine dei dirigenti, che non può superare i 5 anni di durata. Tuttavia, un limite si evince dall’art .4 del citato decreto in tema di xxxxxxx, il quale dispone che il termine del contratto possa essere prorogato solo con il consenso del lavoratore, e comunque solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni.
Al di là di tale ipotesi, tuttavia, la durata iniziale del contratto è lasciata alla determinazione delle parti. Tornando alle ipotesi di proroga, sempre l’art. 4 dispone che sia ammessa una sola volta ed a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive, e si riferisca alla " stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato".
E’ evidentemente un tentativo di arginare il ricorso fraudolento a questa forma contrattuale, che peraltro trova terreno fertile proprio nella genericità delle ragioni richieste; ragione per cui la legge vincola chiaramente la proroga del contratto a termine al programma negoziale espresso inizialmente nella lettera di assunzione: da un lato deve rimanere immutata l'attività lavorativa7 svolta dal lavoratore, dall'altro debbono esistere ragioni oggettive che richiedono la proroga del termine inizialmente previsto, attribuendo al datore di lavoro l'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che ne giustificano il ricorso. Per ovviare a tale rigidità, è invece possibile stipulare un successivo contratto a termine per una differente causale.
Vi sono invece alcuni casi di ipotesi vietate di ricorso al contratto a termine:
a) per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
7Sentenze Cass., n. 10140/2005 e n. 9993/2008 in merito sul concetto di “stessa attività
lavorativa”. Secondo tali sentenze, la proroga è ammessa purché il lavoratore continui ad essere adibito ad attività correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato.
b) all'interno di unità produttive interessate nei 6 mesi precedenti da licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori con le stesse mansioni oggetto delle assunzioni a termine, salvo che tale facoltà non sia prevista da accordi sindacali;
c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale (Cig) che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto;
d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex art. 4 d.lgs. n. 626/1994.
1.4) La limitazione temporale della reiterazione di contratti a termine, le modifiche al d.lgs 368/2001 sancite dalla legge 247/2007
Xxxxxxx detto che il d.lgs 368/2001 costituisce attuazione della direttiva 1999/70/Ce. E’ quindi importante analizzare la filosofia di tale direttiva, per capire la logica che ha spinto il legislatore ad emanare la successiva legge 247 del 2007 che, ancora una volta, interviene con il preciso intento di tutelare i lavoratori che potrebbero essere attratti in una spirale di reiterazione di rapporti di lavoro, legittimi nella forma, ma generatori di precariato nella sostanza.
Opinione questa diffusa fra gli esperti della dottrina, i quali affermavano che “la filosofia della direttiva è chiarissima nel senso di considerare potenzialmente pericolosa solo la successione di contratti a termine, perché idonea a precarizzare un rapporto durevole tra le stesse parti, mentre il primo isolato contratto a termine è valutato favorevolmente”8. Infatti nella direttiva 1999/70/Ce si incentivano tutte le forme flessibili di lavoro che rispondano “sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività”, ma soprattutto si precisa che l'intenzione delle parti, nell'approvare l’avviso comune recepito dalla Direttiva Ce, è di “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l'applicazione del principio di non
8 Vallebona e Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, Padova, 2001, pag. 37
discriminazione, nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti a tempo determinato” (punto 14 della premessa della direttiva).
Sulla base di questi presupposti, la lunghezza del primo o unico contratto è irrilevante, perché quel che nuoce al lavoratore è la successione di più contratti. Come accennato in premessa, un contratto lungo può essere invece vantaggioso per il lavoratore, che si garantisce l'occupazione per il periodo considerato mediante uno strumento perfino più forte della c.d. tutela reale contro i licenziamenti (art. 18 St. lav.), dato che, come noto, il rapporto a termine può cessare solo per giusta causa.
La Legge 247/2007 interviene con due principali modifiche al d. lgs 368/2001; all’art. 1, con l’introduzione del comma 01 (abbastanza inusuale la numerazione adottata), in base al quale si afferma che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, come anche ribadito l'indirizzo dalla circolare del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali n. 13 del 2 maggio 20089.
Tale principio è molto attenuato, come vedremo in seguito, dal comma immediatamente successivo, il numero 1, con il quale il c.d. "causalone", ossia le esigenze di carattere, tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, è ammesso anche se riferibile alla ordinaria attività del datore di lavoro (quest'ultima specificazione è stata successivamente introdotta dall'art. 21, comma 1, della legge n.133/2008).
Si ha anche un secondo intervento, con l’introduzione del nuovo comma 4-bis all'art. 5 del d.lgs. n.368/2001, il quale prevede che,
9 La circolare ministeriale n°13 del 2/5/2008 così recita: “ E’ altresì da rilevare l’introduzione di un comma 01 all’art. 1 del d.lgs. 368/2001, secondo il quale “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”; previsione che, pur non reintroducendo una presunzione legale a favore del contratto a tempo indeterminato, esprime l’intento del legislatore di ribadire che tale tipologia contrattuale rappresenta la fattispecie “ordinaria” di costituzione di rapporti di lavoro”
ferma restando la disciplina della successione di contratti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato a partire dall'ultimo contratto. La disposizione è entrata in vigore il 1° aprile 2009 dopo un periodo transitorio.
La novità introdotta dalla l. 247/2007 consiste nel fatto che entrino nella sommatoria, ai fini del raggiungimento del tetto massimo, tutti i contratti a tempo determinato stipulati tra le parti (anche precedentemente), indipendentemente dai periodi di interruzione intercorsi tra gli stessi, con conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato in caso di superamento dei 36 mesi.
La libertà della durata sul contratto unico ha avuto numerose conferme. Va ricordato l'orientamento di parte della dottrina che ritiene “pacifico che il limite dei 36 mesi valga per una successione di contratti, e non per unico contratto, e solo in caso di mansioni equivalenti”.10 Nello stesso senso si sono espressi altri autori che affermano: “il limite legale dei 36 mesi non funge né da termine finale massimo né da limite di durata massima ad uno specifico contratto di lavoro, in quanto non è destinato a operare con riferimento a un unico contratto, ma a una pluralità di contratti a termine (quelli che danno luogo al fenomeno della successione) intercorsi tra le stesse parti”.11
La legge 247/2007 prevede anche alcune deroghe; rimangono sottratti al vincolo temporale massimo di 36 mesi, di cui al comma 4 bis dell’art. 5, i rapporti di lavoro a termine stipulati:
- con i dirigenti il cui contratto continua ad avere una durata massima di 5 anni (art. 10 co. 4 d. lgs 368/2001);
10 Xxxxxxxx, Il lavoro a tempo determinato, in Il Collegato lavoro 2008, Xxxxxxx Xxxxxx Italia, 2008, pag. 266
11 Maresca, Apposizione del termine, Rivista italiana di diritto del lavoro, 2008, vol.3, pag. 299
- per le attività stagionali di cui al DPR 1525/63 (art.5, comma 4 ter d. lgs 368/2001);
- per le attività individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative (art. 5 co. 4 ter d.lgs 368/2001);
- tra prestatore e somministratore di lavoro nell’ambito del contratto di somministrazione (art. 22 co. 1 d.lgs 276/2003);
1.5) L’impiego del contratto a termine anche per le attività ordinarie dell’impresa, l. 133/2008
Con l’approvazione della legge 133/2008 si assiste all’ennesimo intervento del legislatore sull’istituto del contratto a termine nell’arco di appena pochi mesi dall’introduzione della l. 247/2007 di cui al precedente capitolo. Salta immediatamente all’occhio che, anche se a brevissima distanza, le due disposizioni sono connotate da una visione diametralmente opposta dell’istituto, ma come se non bastasse, nell'art. 21, comma 4 nella legge di conversione del d.l. 112/2008 è prevista una "verifica" della nuova normativa al fine di valutare la necessità di ulteriori interventi del legislatore. Si può dire che il contratto a termine non trova pace.
Ciò premesso, occorre subito precisare che l'intervento del legislatore si è focalizzato, principalmente, su quattro aree:
a) la precisazione delle causali che consentono il ricorso al contratto a termine;
b) l'introduzione di un limite massimo alla successione di contratti a termine;
c) il diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda dei lavoratori assunti a termine;
d) la disciplina provvisoria per le controversie in corso.
Per quanto di nostro interesse nella presente trattazione ci limiteremo all’analisi riguardante le “cause” del ricorso al contratto a termine.
L'art. 21 della legge n. 133 del 2008 ha integrato l'art. 1, comma1, della legge n. 368/01 precisando che l'apposizione del termine è consentita anche quando le ragioni previste dalla norma sono “riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.
Se solo pochi mesi prima, con l’aggiunta del comma 01 all’art. 1 del d.lgs 368/2001, ad opera della l. 247/2007, si rafforzava il concetto che il contratto a tempo indeterminato fosse “la regola”, ora con tale intervento il principio viene messo in discussione, non costituendo più il contratto a termine un’eccezione, o quanto meno non dovendosi più reggere su ragioni di carattere eccezionale.
Concetto ripreso anche dall’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003 che disciplina la somministrazione a termine,12 il quale sembra escludere la temporaneità dell’esigenza lavorativa quale condizione necessaria per l’apposizione del termine. Anche la circolare del Ministero del Lavoro del 22 febbraio 2005 n. 7, in tema di somministrazione, esprime lo stesso concetto di temporaneità.13
In sostanza, “il contratto a termine dovrà essere considerato lecito in tutte le circostanze, individuate dal datore di lavoro sulla base di criteri di normalità tecnico-organizzativa ovvero per ipotesi
12 Il comma 4 dell’art. 20 del d.lgs. 276/2003 asserisce che: “La somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore. L’individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all'art. 10 del d. lgs. 6 settembre 2001, n. 368”.
13 La circolare del 22/2/2005 n°7 dice che: “Il termine costituisce la dimensione in cui deve essere misurata la ragionevolezza delle esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive poste a fondamento della stipulazione del contratto di somministrazione”.
sostitutive, nelle quali non si può esigere che il datore di lavoro assuma necessariamente a tempo indeterminato o, il che è lo stesso, l'assunzione a termine non assume una finalità chiaramente fraudolenta sulla base dei criteri di ragionevolezza desumibili dalla combinazione della durata del rapporto e attività lavorativa dedotta in contratto”.14
Anche se tale orientamento è di gran lunga prevalente, non mancano comunque opinioni opposte a sostegno della necessaria presenza di una esigenza comunque temporanea anche se nell’ambito dell’ordinaria attività di lavoro.15
In ogni caso, al di là delle diverse opinioni, non possiamo che affermare come l’introduzione di questa disposizione abbia accelerato il processo verso una maggiore liberalizzazione dell’ istituto del contratto a termine, “secondo la quale la ragione giustificatrice del termine non deve necessariamente avere carattere temporaneo, caratterizzandosi, invece, solo per la sua specificità che vincola il datore di lavoro ad utilizzare il lavoratore assunto a termine esclusivamente nell'ambito e con stretto collegamento alla specifica ragione indicata per iscritto nel contratto di lavoro”.16
In tema di successione di contratti a termine e con specifico riferimento al tetto dei 36 mesi, un cenno merita anche l’altra importante novità introdotta con la legge 133/2008 in commento; mi riferisco al secondo comma dell'art. 21, che aggiunge all'art. 5, comma 4-bis del d. lgs 368/2001 “e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. In tal modo il legislatore riconosce un ruolo fondamentale alla contrattazione collettiva e all’autonomia delle parti
14 Xxxxxxxxxx, Il pacchetto Xxxxxxx sul lavoro: prima interpretazione, in Guida Lavoro, 2008, pag. 28
15 Romei e Visonà, La nuova disciplina sul contratto a termine. Opinioni e Rassegne, Dir. Lav. Rel. Ind. 2008, pag. 291 ss.
16 Xxxxxxx, Apposizione del termine, Rivista italiana di diritto del lavoro, 2008, vol.3, pag. 305- 306
sociali, che, consentendo di derogare al tetto massimo di 36 mesi, meglio rispondono alle esigenze delle singole aziende, essendo la loro presenza maggiormente radicata sul territorio. E’ importante notare come le deroghe possano essere apportate anche da contratti collettivi di secondo livello stipulati a livello territoriale e aziendale, oltre che ovviamente dalla contrattazione nazionale, sempre chiaramente all’interno del rispetto della disciplina comunitaria in materia.
CAPITOLO 2: LA PROGRESSIVA ELIMINAZIONE DELL’OBBLIGO DELLA CAUSALE NEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO
2.1) La riforma Fornero (l. 92/2012) e il contratto c.d. acausale
Prima di entrare nel dettaglio delle disposizioni che qui più interessano ai fini della presente trattazione, merita di essere analizzato il titolo della legge 92/2012, comunemente nota come legge Fornero: “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.
Da sottolineare come tale riforma costituisca una parte del decreto legge “Salva Italia”, varato dal governo Xxxxx a fine 2011. In effetti tale riforma, in un contesto economico particolarmente critico, è stata presentata come una delle condizioni da cui far dipendere la stessa permanenza in Europa del nostro Paese.
Nelle intenzioni del legislatore, per spingere la stagnante economia verso una progressiva ripresa, si dovevano scardinare alcuni punti fermi del modello socio-economico su cui si era basata, da sempre, la nostra economia, come ad esempio in particolare, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Molti sono i temi trattati dalla riforma: dalla flessibilità, sia in entrata che in uscita, all’apprendistato, agli ammortizzatori sociali e alle pensioni.
La rivisitazione del contratto a termine è forse, tra le novità introdotte in materia di contratti di lavoro, quella che ha destato i maggiori commenti - e anche qualche critica – essendo il contratto a termine il principale istituto utilizzato dalle aziende, quale strumento di flessibilità. È proprio dalla sua ampia diffusione ed applicazione che sono pertanto scaturiti i maggiori dibattiti, e anche le prime perplessità in merito all'effettiva efficacia della riforma.
Significative, ad ogni modo, le intenzioni del legislatore come riportato nell'inciso contenuto nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, ossia l'obiettivo di “contrastare non l'utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l'uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato”.
Per perseguire tali obiettivi, la legge interviene su diversi punti, principalmente proprio la modifica del comma 01 dell'art. 1 del d.lgs.
n. 368/2001, nel quale viene affermato quanto previsto dalla direttiva 199/70/Ce, e cioè che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Si ribadisce quindi, ancora una volta, che il contratto a tempo determinato non rappresenta in sé una eccezione, purché sorretto da “ragioni oggettive”, come affermato anche dalla Corte di Cassazione.17
17 Cass. Sez. lav. 21 maggio 2008, n. 12985: «L'art. 1 del d. lgs. n. 368/2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall'art. 39 della legge n. 247/2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione del termine un'ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l'apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell'interpretazione dello stesso
Ma qui la legge si spinge oltre, nell’offrire un’interpretazione secondo la quale non sia più necessaria una ragione a supporto dell’apposizione di un termine (le cosiddette “ragioni oggettive”) ma sia sufficiente una concreta esigenza temporanea idonea a rispondere ad esigenze di flessibilità. A queste esigenze risponderebbe proprio il contratto acausale che, per la prima volta, viene introdotto nell’ordinamento italiano pur con la limitazione massima di 12 mesi non prorogabili.
Importante soffermarci sul concetto di “temporaneità”, inteso ora quale criterio di valutazione di una durata ragionevole idonea ad evitare abusi, ma allo stesso tempo utile a consentirne un uso agevolato, quando l'esigenza si configuri in modo effettivo, come una forma di flessibilità positiva ed organizzata.
Già con l’interpello n. 61 del 2009 il Ministero del Lavoro, a seguito delle modifiche introdotte all'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 dalla legge
n. 247/2007 e, poi dal d. l. n. 112/2008 a commento delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, “anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro” , aveva ritenuto di precisare a riguardo che: “sulla base di tale previsione, ai fini della stipulazione di contratti a termine non è necessario che l'impresa si trovi a dover fronteggiare esigenze valutabili esclusivamente in termini di eccezionalità o straordinarietà, in quanto viene consentita la fruibilità di tale strumento contrattuale anche a fronte di situazioni rientranti nella normale ed ordinaria attività imprenditoriale”. E ancora, “la temporaneità del vincolo contrattuale rappresenta il parametro in relazione al quale deve essere misurata la fondatezza delle esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive poste a fondamento della stipulazione del contratto, nei casi in cui non si rinvenga la necessità di assunzioni a tempo indeterminato”.
art. 1 citato nel quadro delineato dalla Direttiva comunitaria 199/70/Ce (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all'illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l'invalidità parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato».
In pratica, con l’introduzione dell’ art. 1 bis al D.Lgs 368/2001, l’assunzione a tempo determinato può avvenire senza necessità di individuare la ragione giustificatrice e di riportarla per iscritto nel contratto, nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione.
In fatto di “acausalità” un ruolo importante viene riservato anche alla contrattazione collettiva che, nei limiti del 6% dei lavoratori occupati nell’unità produttiva, possono prevedere assunzioni con contratto a termine senza necessità di una specifica ragione giustificatrice, quando si verifichino determinate circostanze della vita di un’impresa nell'ambito di un processo organizzativo determinato:
• dall'avvio di una nuova attività;
• dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo;
• dall'implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico;
• dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo;
• dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente.
Occorre, inoltre, ricordare come la riforma Fornero intervenga comunque anche su molteplici altri aspetti attinenti il rapporto a tempo determinato, in particolare con l’introduzione di un’aliquota aggiuntiva dell’ 1,40 %, quale contributo a favore del fondo per la disoccupazione, che rende maggiormente oneroso il contratto a termine, allo scopo di limitarne l’abuso ed incentivarne la stabilizzazione; con l’ampliamento dei tempi, in caso di “prosecuzione di fatto”, dei periodi di stacco, in caso di riassunzione dello stesso lavoratore; il criterio di determinazione della durata massima di 36
mesi del rapporto a termine, il ruolo della contrattazione collettiva nella determinazione dei limiti quantitativi.
2.2)La prorogabilità del contratto acausale, il d.l. 76/2013 e le modifiche alla l. 92/2012
Il d.l. n. 76 del 28 giugno 2013, ritorna sul contratto a tempo determinato, modificando la recente riforma della legge 92/2012, su aspetti rilevanti.
Con l’abrogazione del comma 2 bis dell’art. 4 del D.Lgs 368/2001, viene ammessa la prorogabilità anche del contratto “acausale”, sempre comunque nell’ambito della durata complessiva di 12 mesi. Inoltre, anche per questa specifica tipologia di contratto a tempo determinato, è ora ammessa la prosecuzione del rapporto oltre il termine pattuito, per 30 giorni, se la durata del contratto è inferiore a 6 mesi, o per 50 giorni, se la durata del contratto è superiore a 6 mesi.
E ancora, ripristino degli intervalli temporali in vigore antecedentemente alla riforma Fornero in caso di riassunzione a termine dello stesso lavoratore:
-10 giorni dalla data di scadenza di un contratto sino a sei mesi;
-20 giorni dalla data di scadenza di un contratto superiore ai sei mesi.
La norma, poi, esclude espressamente dai vincoli temporali indicati nel computo degli intervalli sia i lavoratori stagionali, sia tutte le ipotesi di successione di contratti a termine individuate dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, comunque riferita alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Anche dalla lettura di tale modifica, risulta chiaro l’intento legislativo di lasciare alle parti sociali ampi margini di gestione della c.d. flessibilità.
Computo del contratto acausale nei c.d. limiti quantitativi individuati nei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ed esclusione dal campo di applicazione del D.Lgs. 368/2001 dei contratti a tempo determinato di cui all’art. 8 comma 2 della legge n. 223/1991, che viene formalmente qualificato come contratto “speciale”.
Importante anche l’eliminazione di alcuni vincoli nei confronti della contrattazione collettiva, anche aziendale, (sempre, tuttavia, nel contesto di organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) che ora, può individuare ogni altra ipotesi di acausalità senza rispettare l’ambito di un processo organizzativo nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nella unità produttiva. La c.d. flessibilità diviene nell’ottica legislativa, uno strumento raggiungibile attraverso la concertazione.
2.3)La riforma Xxxxx (d.l. 34/2014) e le differenze rispetto a legge Fornero
Altrimenti noto come Jobs act il d.l. 34/2014 entrato in vigore il 21 marzo del 2014, convertito, con modifiche, dalla legge 16 maggio 2014 n. 78, ha dato l’ennesima e decisiva spinta verso la liberalizzazione del contratto a termine. Ancora una volta, con la modifica al comma 1 dell’art. 1 del d.lgs n. 368/2001, si interviene sulle ragioni giustificatrici del contratto, abolendole totalmente, ed introducendo, in via generale, il contratto “acausale” che pertanto non sarà più limitato al primo contratto a termine (la cui durata comprensiva della proroga era di dodici mesi). Ora il contratto a tempo determinato potrà essere stipulato per un massimo di trentasei mesi, comprensivi di eventuali proroghe, per qualsiasi tipo di mansione, anche con riferimento al contratto di somministrazione.
L’art. 4, comma 1, infatti, dopo aver affermato che per la proroga del contratto occorre il consenso del lavoratore, afferma che lo stesso può esser prorogato soltanto quando la durata iniziale è inferiore ai trentasei mesi. Quindi, un rapporto può essere prorogato entro tale limite massimo e la durata successiva può ben essere superiore al contratto iniziale. Rimane il riferimento alle “condizioni oggettive”, perciò, in vigenza del presente decreto, le proroghe sono ammesse, per un massimo di otto volte, ridotte a cinque dopo la conversione in legge, condizionate però allo svolgimento della stessa attività lavorativa per la quale è stato stipulato l’iniziale contratto.
Questa importante apertura viene tuttavia mitigata dall’introduzione di un limite legale del 20% (contenuta all’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368/2001) del numero complessivo dei rapporti a termine che si possono stipulare, rispetto all’organico complessivo dell’azienda riferito al 1° gennaio di ciascun anno (o alla data di inizio attività se successiva).
Le imprese dimensionate fino a cinque unità possono comunque, sempre stipulare un contratto a tempo determinato.
Altre disposizioni già vigenti sono state confermate, come lo stacco tra un contratto ed un altro (anche se di interesse molto attenuato in virtù delle notevoli proroghe possibili). Restano invariati i divieti (art. 3), la scadenza del termine e lo sforamento dello stesso, lo “stacco” tra un contratto e l’altro, la sommatoria dei 36 mesi tra rapporto a termine e somministrazione presso lo stesso datore di lavoro, la possibilità di un ulteriore contratto “in deroga assistita” sottoscritto presso la Direzione territoriale del Lavoro, i contratti stagionali, i diritti di precedenza, e le condizioni ai fini della fruizione degli incentivi.
Sotto il profilo della forma, rimane ferma la necessità dell'atto scritto, che priva di ogni effetto l'atto che non risulti, direttamente o indirettamente, in forma scritta. Lo prevede l'articolo 1, comma 2, del
d. lgs. n. 368/2001, come modificato dall'articolo 1 del citato decreto.
Il d.l. 34/2014 in esame, pur apportando, come abbiamo visto, radicali novità alla disciplina del contratto a termine, non ha abbandonato la strada del coinvolgimento della contrattazione collettiva per migliorare, ove possibile, la flessibilità in entrata, a vantaggio dell’occupazione ed aumentare le tutele dei lavoratori occupati con contratti a termine.
Facendo salve le disposizioni contenute nel comma 7 dell'articolo 10 del d. lgs. n. 368/2001, si attribuisce ai sindacati comparativamente più rappresentativi, di individuare limiti quantitativi all’utilizzazione del contratto a termine, diversi rispetto alla previsione normativa del 20% , che potrebbero essere superiori ma anche inferiori a quello ora stabilito dalla norma di legge.
Il richiamato comma 7 conferma inoltre, l’esenzione, da limitazioni quantitative per i contratti a tempo determinato conclusi:
a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici
b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell'elenco allegato al .DP.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;
c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
d) con lavoratori di età superiore a 55 anni.
Sotto il profilo sanzionatorio, continuano a trovare applicazione le precedenti disposizioni, che generano conversione del rapporto a tempo indeterminato per le violazioni relative al mancato rispetto degli intervalli temporali di stacco, al mancato rispetto del limite dei
36 mesi in caso di successivi rinnovi di contratti a termine, e al mancato rispetto della procedura di stipula dell’ulteriore contratto
davanti alla Direzione Territoriale del Lavoro, oppure per un periodo superiore da quello previsto dalla contrattazione collettiva.
Mentre per la violazione del limite legale del 20% è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro (art. 5, co. 4- septies, D.Lgs. n. 368/2001). Nel caso in cui si applichi il limite percentuale previsto dal contratto collettivo, la sanzione amministrativa consegue al superamento di tale limite.
Importante sottolineare come in sede di conversione del d.l. 34/2014 ad opera della legge 78/2014, il legislatore abbia previsto tramite l’articolo 2-bis una disciplina transitoria, che ha fatto salvi gli effetti prodotti durante la vigenza del decreto legge, ad esempio in materia di proroghe, ritenendo applicabili le disposizioni della legge 78/2014 solo per i contratti stipulati a partire dal 20 maggio 2014, data di conversione in legge.18
A pochissimi mesi di distanza quindi, l’intervento della riforma “Xxxxx” ha inciso e modificato in maniera profonda, la neo nata riforma “Fornero”. Tuttavia, abbracciando i due interventi normativi vari temi (contratto a termine, apprendistato, licenziamenti, tutele, pensioni, ammortizzatori sociali ecc. ) spesso strettamente concatenati ed inscindibili agli effetti del risultato perseguito e dichiarato dal legislatore, non risulta agevole esprimere un giudizio esaustivo sui due provvedimenti.
Emerge dunque chiaramente, visto il continuo susseguirsi di interventi negli ultimi anni, che il contratto a tempo determinato sia di gran lunga la forma di flessibilità maggiormente richiesta ed utilizzata dalle imprese. Flessibilità di cui le imprese hanno bisogno, per uscire da quella stagnazione economica, che dura ormai da diversi anni. Sotto questo punto di vista, l’introduzione da parte della riforma Fornero, per la prima volta, del contratto “acausale”, è stata molto
18 L’art. 2-bis così recita: “Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente decreto”
“coraggiosa”, ed ha aperto la strada alla completa liberalizzazione poi portata avanti come cavallo di battaglia da Xxxxx.
Tuttavia, la quasi totale liberalizzazione del contratto a termine (per lo meno per i primi 36 mesi), operata dal Jobs act, è maggiormente esposta a rischi di precarizzazione, in quanto, di fatto, un datore di lavoro non avrebbe più alcun interesse ad instaurare un rapporto a tempo indeterminato, se non per usufruire di sgravi e agevolazioni, che difatti sono state prontamente introdotte proprio per creare maggiore stabilità ed incentivare il ricorso al contratto a tempo indeterminato.
Con l’approvazione della legge 190 del 2014 “legge di stabilità 2015”, infatti, allo scopo di promuovere forme di occupazione stabili, è stato previsto un esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro per tre anni, per le nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel corso del 2015. Ancora, con l’approvazione del d. lgs n.23 del 04 marzo 2015, che ha introdotto le cosiddette “tutele crescenti”19 al contratto a tempo indeterminato, si rafforza ulteriormente la spinta verso una stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Tuttavia, essendo alcuni benefici limitati nel tempo, come ad esempio l’esonero contributivo, potrebbero non essere sufficienti a contrastare in futuro, il ricorso massiccio al contratto a tempo determinato.
19 Le “tutele crescenti” prevedono, in caso di licenziamento illegittimo, un risarcimento economico progressivo, legato all’anzianità del lavoratore, che il datore di lavoro deve corrispondere, in luogo della reintegra nel posto di lavoro. Secondo l’art. 3 della l. 23/2015, infatti , “(…) Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.”
2.4) Il d.lgs. 81/2015 e l’attuazione dei propositi del Jobs act
Nella Gazzetta Ufficiale del 24 giugno 2015 è stato pubblicato il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni. Il decreto, di attuazione all’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (c.d. Jobs Act), si propone il riordino e la revisione delle tipologie contrattuali flessibili con l’obiettivo di sostenere forme di lavoro a tempo indeterminato e rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione.
Il primo punto che si vuole evidenziare riguarda il limite massimo di durata del contratto a termine. L’art. 19, oltre alla durata massima del singolo contratto, pari a 36 mesi, disciplina anche la sommatoria dei contratti intercorsi tra le stesse parti che non può superare tale limite. Rispetto alla disciplina previgente, però, dove si utilizzava la nozione di mansioni equivalenti, il computo della sommatoria deve ora essere effettuato in riferimento ai contratti per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale (art.19 comma 2). La modifica si è resa necessaria essendo stato eliminato il principio dell’equivalenza dall’art. 2103 cod. civ., molto più restrittivo ai fini della variabilità delle mansioni, per cui si è proceduto alla sua sostituzione anche in riferimento al contratto a termine e ai limiti massimi. Da un punto di vista operativo, diventa possibile ricorrere al contratto a termine anche oltre i 36 mesi con lo stesso lavoratore, se adibito a mansioni appartenenti a un diverso livello di inquadramento, o ad una differente categoria legale.
Sempre in materia di successione di contratti a termine, il comma 3 dell’art. 19 del d.lgs. 81/2015 consente al datore di lavoro, che ha raggiunto il limite massimo di 36 mesi per sommatoria, di stipulare un ultimo contratto, per quel livello di inquadramento ovviamente, di durata non superiore a 12 mesi: non è quindi più prevista una delega diretta alla contrattazione per la definizione della durata massima del contratto ulteriore.
In base all’art 22 comma 2 del d. lgs. 81/2015, in caso di prosecuzione oltre la scadenza del termine per più di 30 o 50 giorni, di contratti di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
In materia di divieti, il nuovo art. 20 del d.lgs. 81/2015 appone un’importante novità in riferimento alle unità produttive nelle quali si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato le stesse mansioni cui si riferisce il contratto a termine: non è infatti più prevista alcuna possibilità di derogare con accordi sindacali a tale divieto, temperato esclusivamente dalla possibilità di assumere con contratti di durata non superiore a tre mesi, ovvero in sostituzione di lavoratori assenti o, infine, per assumere lavoratori iscritti alle liste di mobilità.
Riguardo ai lavoratori stagionali, il riferimento rimane temporaneamente il DPR 1525/63, nell’attesa dell’emanazione di uno specifico decreto ministeriale che ne identifichi in maniera precisa le attività. Agli stessi, inoltre, non si applica la conversione a tempo indeterminato del secondo contratto, in caso di riassunzione dello stesso lavoratore effettuata senza il rispetto dello stacco di giorni 10 o 20, a seconda della durata del primo contratto, se rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi.
Per quanto concerne i limiti quantitativi di utilizzo, oltre a una diversa impostazione della norma rispetto alla disciplina previgente, l’art. 23 del d.lgs. 81/2015 consente anche alla contrattazione di livello aziendale di intervenire sulla materia. In assenza, opera il limite legale del 20%.
Sono previste una serie di eccezioni, parzialmente coincidenti rispetto alla disciplina previgente, esenti da limitazioni, sia in riferimento al 20% legale, sia in riferimento al limite contrattuale: in particolare si è abbassata a 50 anni l’età del lavoratore che esclude dal computo.
Importanti precisazioni in ordine alle sanzioni: il superamento dei limiti quantitativi non può determinare la trasformazione a tempo indeterminato, ma solo l’applicazione di una sanzione amministrativa, confermata nonostante, in una delle ultime bozze del d.lgs.81/2015, si fosse trasformata in una indennità retributiva in favore dei dipendenti in eccesso.
L’ultima, importante, novità riguarda i criteri di computo: ora l’art. 27 del d.lgs. 81/2015 fissa una regola generale in base alla quale, salvo diverse espresse discipline, si tiene conto del numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.
CONCLUSIONE
Aver trattato l’evoluzione del contratto a tempo determinato con particolare riferimento all’evoluzione della causa, analizzandolo anche dal punto di vista storico oltre che dal contesto politico e sociale in cui si sono succedute le diverse norme, dalla legge 230/62 fino alle più recenti riforme Fornero e Xxxxx , è stato molto interessante per capire quale sia l’importanza di questo istituto nel panorama giuslavoristico italiano. E’ il segno evidente dell’evoluzione dell’economia, dei bisogni delle imprese e delle esigenze della politica non sempre coincidenti ed interpreti delle reali esigenze delle imprese e dei lavoratori.
Il contratto a termine è probabilmente il più importante strumento per perseguire quella “flessibilità buona” in entrata, tanto auspicata dal mondo imprenditoriale, ma è anche indiscutibilmente indice di precarietà, di instabilità e mancanza di sicurezza economica per molti lavoratori. Conciliare queste esigenze contrapposte non è sicuramente facile, ma è ciò che tutte le norme succedutesi nel tempo hanno perseguito, soprattutto cercando di evitarne l’abuso.
Siamo passati da una tutela legata in maniera rigida a cause tassative (L.230/62) quale presupposto per l’utilizzo del contratto a termine, che per decenni ha costituito un punto fermo (sia pure con progressive aperture) dell’istituto e che ha generato infiniti dibattiti giurisprudenziali e contenziosi; ad un concetto di tutela diametralmente opposto, legato alla “durata” del rapporto (massimo 36 mesi) indipendentemente da ogni motivazione. Punto di rottura di questa evoluzione è sicuramente la legge 92 del 2012 (riforma Fornero) che ha introdotto per la prima volta il contratto “acausale”.
Oggi il contratto a termine, che è bene ricordarlo, è il frutto del recepimento della Direttiva Europea 99/70/Ce, ha di molto ridimensionato il nobile principio contenuto proprio nella citata direttiva e trasfuso nella nostra legislazione, secondo cui la “forma comune” del rapporto di lavoro sarebbe il tempo indeterminato.
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