CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE E AZIENDALI “M. FANNO”
CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA
PROVA FINALE
“La legittimità dell’accordo parasociale contenente opzioni put a prezzo fisso”
Relatrice:
Xx.xx Prof.ssa Xxxxxxxx Xxxxxxx
Candidato:
Xxxxxxx Xxxxxxxxx Matricola n. 1160657
ANNO ACCADEMICO 2019-2020
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO I: L’accordo parasociale che elude il divieto di patto xxxxxxx
1.1 Finanziamenti in forma partecipativa 5
1.2 Effetto del prezzo in una clausola put 6
1.3 Ragioni alla base della clausola put 8
1.4 Incidenza con la ratio del divieto di patto leonino 9
1.5 Ricerca della “causa concreta” 10
CAPITOLO II: Il primo riferimento normativo: Cass. 8927/1994
2.1 La vicenda 12
2.2 Svolgimento del processo e principi enunciati 13
2.1.1 Primo principio 13
2.1.2 Secondo principio 14
2.2 Xxxxx e quesiti della dottrina 15
CAPITOLO III: Il revirement della Suprema Corte: Cass. 17498/2018
3.1 Fatti di causa 18
3.2 Questioni affrontate 20
3.2.1 Divieto di patto leonino nelle società di capitali 20
3.2.2 Ratio del divieto di patto leonino 21
3.2.3 Divieto di patto leonino nei patti parasociali 22
3.2.4 Requisito della meritevolezza 22
3.3 Decisione finale della Corte di Cassazione 23
3.3.1 Caratteristiche della manleva 23
3.3.2 Condizioni di legittimità dell’opzione put 24
CONSIDERAZIONI FINALI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
INTRODUZIONE
Il seguente elaborato ha l’obiettivo di fornire un’esposizione delle dinamiche problematiche e dei fatti causali rilevanti, intercorsi negli ultimi anni, legati alle pattuizioni tra soci comprendenti clausole di tipo put a prezzo preconcordato, al fine di poter effettuare un’analisi dei principali motivi che hanno recentemente portato ad un intervento della Suprema Corte.
Nel 2018, infatti, i Giudici di diritto si sono pronunciatati in merito al caso che vede coinvolte “DeA Partecipazioni s.p.a.” e “Sopaf s.p.a.”, perdurante dal 2011, sovvertendo le sentenze del Tribunale di Milano precedentemente proclamate e inasprendo un dibattito giurisprudenziale che oramai da qualche anno divide il panorama giuridico del nostro ordinamento.
Il dibattito in questione verte sul fatto che la suddetta tipologia di accordo parasociale sia, o meno, nulla per contrasto al divieto di patto leonino.
Il precetto ex art. 2265 c.c. è un imperativo fondamentale su cui si basa la legislazione in riferimento alle società e il fatto di poterlo eludere attraverso un’operazione legalmente valida corrisponde ad un serio problema giuridico, per il quale è giusto interrogarsi tenendo in considerazione vari aspetti.
Attraverso un’accurata lettura dei punti di vista della dottrina, si può distintamente comprendere quanto, nell’arco degli ultimi trent’anni, la questione sia diventata, in maniera esponenziale, oggetto d’interesse per la dottrina giuridica, suscitando svariati interrogativi ad esso derivati.
Sostanzialmente, il quesito fondamentale consiste nel valutare se l’opzione put a prezzo fisso integri il divieto di patto leonino e, se sì, a che condizioni.
È necessario chiarire, fin da subito, che non esiste una risposta netta a questa domanda, bensì è necessaria una valutazione diligente “caso per caso” che tenga in considerazione la totalità delle componenti presenti, quali ad esempio la funzione essenziale delle parti contraenti, le condizioni a cui viene sottoposto il patto contenente la clausola put, la condotta dei soci nella gestione dell’impresa, l’ambito di applicazione delle norme considerate, ecc...
In relazione alle suddette dinamiche la dottrina giuridica si esprime assumendo posizioni divergenti, in riferimento a precedenti normativi di fattispecie similari.
Si tratta dunque di un dibattito aperto su più fronti, non circoscritto in un unico frangente.
Ciò su cui è necessario porre l’accento è la difformità di visioni in merito, qualità che, da sempre, arricchisce qualsiasi tipologia di dibattito, altresì per il fatto che l’incontro tra due opinioni contrastanti può portare ad una maggiore efficacia ed efficienza di un risultato conseguito per l’interesse comune.
Il seguente documento è rivolto ad argomentare questa tesi, con la consapevolezza che non possa esistere una verità assoluta e che il concetto di ciò che è giusto o sbagliato rimane relativo al singolo individuo.
Premesso ciò, il lavoro è formalmente suddiviso in tre sezioni: inizialmente viene presentato un preambolo dei concetti chiave trattati, in cui si evidenziano gli aspetti ritenuti rilevanti ai fini del quesito ultimo; successivamente, nei capitoli II e III è posta una disamina di due pronunce della Corte di Cassazione che hanno offerto le linee di pensiero per l’applicazione normativa considerata, con riguardo all’approfondimento dei criteri interpretativi utilizzati e alla gestione giuridica in due differenti periodi storici; in conclusione viene effettuata un’indagine per valutare le possibili ragioni scatenanti, congiuntamente ad una visione prospettica della questione.
La qualità di socio è un beneficio che necessita di norme per essere tutelato e il divieto di patto leonino ne rappresenta una indispensabile. Il postulato porta a configurare come situazione principale quella in cui un socio venga estromesso, a sua insaputa, dagli utili conseguiti dall’attività d’impresa, ma nei casi oggetto di questo argomento, viene considerata la contingenza opposta, ovvero quella in cui un socio, per propria volontà, si escluda dalle perdite (e alle volte, simultaneamente, anche dagli utili) della propria impresa, utilizzando le finalità della clausola put come giustificazione lecita.
È possibile che la legge permetta di poter eludere tale divieto senza incorrere nella sanzione civilistica della nullità?
Ebbene, ovviamente la risposta è no, tuttavia nella prassi si presentano frequentemente circostanze il cui riconoscimento e categorizzazione risultano complesse e, soprattutto, difformemente percepite dalla dottrina.
Dopo anni di interrogativi in merito alla questione, la Suprema Corte, nel 2018, ha ripreso in mano il problema, offrendo una visione innovativa e in linea con l’economia odierna; ma prima di affrontare i nuovi principi enunciati, è necessario soffermarsi su ciò che la legislatura prevede a riguardo degli argomenti trattati e sui criteri valutativi a cui i Tribunali si sono precedentemente attenuti, allo scopo di comprendere appieno le motivazioni di tali cambiamenti.
CAPITOLO I: L’accordo parasociale che elude il divieto di patto xxxxxxx
All’interno del contesto di un’impresa, il patto parasociale ha la funzione di definire dei vincoli alla condotta dei soci, così da potersi coordinare al meglio per la salvaguardia dell’interesse personale1. Secondo l’art. 2341-bis c.c. può essere stipulato in qualunque forma, non può avere durata superiore ai cinque anni ed è rinnovabile alla scadenza (come stabilito dalla riforma del diritto societario del 20032). Un aspetto importante da tenere in considerazione è che il patto parasociale vincola esclusivamente i contraenti, senza prevedere effetti nei confronti dei terzi. Un eventuale inadempimento, dunque, rileva fonte di responsabilità contrattuale, prevedendo un risarcimento dei danni.
1.1 Finanziamenti in forma partecipativa
Accanto agli accordi regolati dall’articolo sopra citato, si colloca “l’universo delle espressioni negoziali appartenenti alla dinamica societaria strategica dei patti parasociali”3, ovvero le clausole che possono essere poste, in comune accordo tra i contraenti, per stabilire un assetto di governance societario. A questo scopo, gli strumenti più utilizzati per assumere una posizione sono i contratti di opzione, disciplinati dall’art. 1331 c.c., i quali prevedono una proposta di compravendita. Specificatamente, è possibile distinguere tra clausole di opzione “call” e “put”: le prime conferiscono il diritto di acquisto di una partecipazione con l’obiettivo di incrementare il proprio investimento; le seconde attribuiscono il diritto potestativo di vendere una partecipazione alla controparte, o ad un altro socio, realizzando così una possibile tecnica di way out dell’operazione economica.
Proprio quest’ultime (opzioni put) rientrano, per affinità alle ragioni di utilizzo, nello spetto delle “partecipazioni a scopo di finanziamento”, ovvero dei finanziamenti effettuati mediante diretta partecipazione al capitale di rischio delle imprese. Viste da questo punto di vista, le opzioni put, possono contribuire a perseguire diversi obiettivi societari, quali: sostegno finanziario nella fase di avvio (start-up); investimenti nello sviluppo di nuovi prodotti o tecnologie; finanziamenti volti a risanare imprese in crisi; finanziamenti di programmi a lungo termine e ammodernamenti dell’azienda4.
1 CIAN (a cura di), Manuale di diritto commerciale, Terza edizione, Torino, 209, p. 413.
2 Riforma del Diritto Societario ex X.Xxx n. 6, 17 gennaio 2003.
3 DI PRETORO, SINDONA, Opzioni incrociate put & call nella dinamica societaria, in Il Sole 24 ore, SISTEMA SOCIETÀ, 4 maggio 2020.
4 COSSU, Opzione put e patto xxxxxxx, Commento a Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 3 dicembre 2018, p. 3.
La situazione tipica a cui fare riferimento, per poter comprendere al meglio l’argomento, comprende la presenza di un accordo parasociale contenente una clausola put, la quale “comporta l’impegno irrevocabile di acquisto in capo ad “Alfa”, qualora “Beta” intenda vendere le sue partecipazioni della società di cui entrambe sono socie”5. Nei casi esaminati nel corso del documento, il mancato pagamento a seguito dell’esercizio di un’opzione put, è una situazione ricorrente che rientra nel campo della responsabilità contrattuale, rilevando una condizione di inadempimento del soggetto concedente, a cui spetta il risarcimento del danno. Per inciso, il danno dev’essere “conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento” e “ricomprende tanto la perdita subita quanto il mancato guadagno”6.
Riprendendo la situazione tipica di riferimento di cui sopra: se, al momento dell’esercizio dell’opzione put da parte di “Beta”, “Alfa” non riscatta la quota al prezzo stabilito precedentemente, “Beta” può, indubbiamente, citare in giudizio “Alfa” per inadempimento. La fattispecie descritta avviene frequentemente nella prassi e i motivi possono essere diversi: “Alfa” potrebbe ritenere “estorsivo” il patto inizialmente stipulato (o, più verosimilmente, un’eventuale modifica ad esso successivamente apportata) e quindi decidere di non rispettare gli accordi; in alternativa, “Alfa” potrebbe pure non disporre, materialmente, della cifra richiesta a causa di un momento di crisi d’impresa. Il ruolo del Giudice dunque, in questo caso, è quello di analizzare l’accordo tra le parti, al fine di poterne giudicare la validità. Come verrà presentato in seguito, l’indagine normativa in questione deve prendere in considerazione diversi aspetti e caratteri presenti nel patto, in primis le condizioni specifiche della clausola put.
1.2 Effetto del prezzo in una clausola put
In collegamento al paragrafo precedente, ciò che spesso contribuisce alla decisione finale in un processo e quindi alla conseguente validità, o invalidità, dell’accordo non è tanto la natura della clausola apposta, di per sé giuridicamente valida, ma le condizioni a cui è sottoposta. Un’opzione put, infatti, può essere regolarmente concessa tramite un patto tra soci, ma è necessario che questa non violi norme imperative dell’ordinamento. Per verificare che questo fatto non sussista, i Giudici di merito devono indagare gli estremi pattuiti, a partire dalle suddette condizioni: esse solitamente riguardano il periodo di tempo in cui tale diritto può essere esercitato (durata) o, ancor più rilevante, il prezzo a cui la partecipazione potrà essere venduta.
5 BUSANI, Opzione put nulla senza perdite o utili, in Il Sole 24 ore, NORME E TRIBUTI, 4 maggio 2016.
6 Trib. Milano, 9 agosto 2017, n. 8651, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
Soffermandosi su quest’ultimo fattore (il prezzo), occorre specificare che per entrare in una determinata compagine sociale è necessario acquistare delle partecipazioni, il cui prezzo è strettamente legato al capitale sociale dell’impresa e, come tale, può certamente variare nel tempo. La partecipazione conferisce al socio il diritto agli utili o alle perdite scaturiti dall’attività d’impresa e, di conseguenza, si può dire che esista un esplicito legame tra la qualità di socio e l’interesse al buon andamento dell’impresa.
Premesso ciò, l’opzione put a prezzo predeterminato, conferisce ad un socio il diritto di poter liquidare la propria quota allo stesso prezzo precedentemente esborsato per l’acquisto o, addirittura, ad un prezzo maggiore.
Com’è noto, infatti, l’art. 1331 c.c., che disciplina i contratti di opzione, non menziona obblighi legati al prezzo, lasciando alle parti contraenti libera scelta (tant’è che, per quanto concerne la norma, un’opzione potrebbe anche essere venduta a titolo gratuito).
Ebbene, l’interrogativo che coinvolge la dottrina giuridica consiste nel ritenere nulla questa tipologia di operazione, poiché al soggetto a cui viene concessa può venir meno l’interesse al buon andamento dell’impresa, in quanto consapevole che, in qualunque momento, potrà essere rimborsato del prezzo d’acquisto, senza incorrere in eventuali perdite.
Esprimendo il concetto mediante un esempio pratico si potrebbe dire che: un’ipotetica impresa “A”, con qualità di socio partecipativo in una seconda impresa “B” (acquistata mediante quota, al prezzo di mercato, in un determinato periodo), in futuro potrebbe, per effetto di un accordo parasociale contenente una clausola put a prezzo fisso stipulato con consenso comune, esercitare il diritto di opzione e vedersi risarcire l’intera quota, anche nel caso in cui l’impresa “B” abbia subito delle perdite e dunque il valore delle proprie azioni sia diminuito.
Questa situazione, in particolare può essere ricondotta alla dinamica del “prezzo vile”7, ovvero un prezzo più basso del valore di mercato e, dunque, non corrispondente al reale prezzo di vendita della partecipazione.
Si può dire, dunque, che il prezzo abbia un effetto diretto nella valutazione della clausola e questo suo aspetto determinante si traduce in una controversia giuridica più che mai attuale: sicuramente, una visione “etica” della questione suggerirebbe la nullità, ma rimane preponderante in dottrina la salvaguardia del principio di auto-responsabilità e libera disponibilità della posizione patrimoniale di ciascun individuo, cosicché, in altri termini, la rinuncia ad un “tetto minimo” di prezzo pari al valore di mercato possa essere frutto della libera scelta dell’aderente al patto, non opponibile a terzi.
7 DIVIZIA, Patto di opzioni put and call, in Notariato, 2017, pp. 350 ss.
1.3 Ragioni alla base della clausola put
Alla luce degli aspetti precedentemente presentati, potrebbe, indubbiamente, sorgere una domanda: cosa porta un soggetto ad accettare un patto che può prevedere il totale rimborso di una quota partecipativa in favore di un socio?
Ebbene, l’inserimento di una clausola di tipo put in un accordo parasociale può essere frutto di diversi scopi, alcuni legittimi, altri eticamente discutibili.
Non risulta semplice in nessun caso stabilire il reale intento iniziale delle parti, perciò è possibile affermare che tale clausola possa essere giudicata, talvolta, pericolosa.
Il motivo generale su cui fa leva questa tipologia di strumento risiede nell’interesse e nelle necessità di una società, ad esempio, nel caso in cui un’impresa “𝛼” (impresa finalizzata allo sviluppo di un prodotto), titolare di un diritto di esclusiva per l’acquisto di partecipazioni in “𝛿” (impresa operante nella raccolta di materie prime utili ad “𝛼”), decidesse di effettuare l’investimento, potrebbe avere necessità di essere affiancata da “𝛽” (impresa finanziaria) la quale, dal canto suo, potrebbe avere interesse ad investire e sarebbe, inoltre, decisamente più incentivata, vista la possibilità di poter liquidare la quota in qualunque momento (opzione put)8.
Quest’ultima caratteristica rappresenta la reale finalità dell’opzione put, il “suo scopo ordinario”, ovvero permettere ad uno dei soci di dismettere la propria quota dopo un certo periodo di tempo. In particolare, si tratta del caso in cui un socio abbia fin dall’inizio programmato una permanenza “temporanea” nella società e voglia riservarsi il diritto “di uscire” a suo piacimento dalla compagine sociale9.
Si riscontrano, dunque, due interessi distinti delle parti: il finanziatore mira a conseguire un ritorno economico nel proprio finanziamento; i soci “imprenditori”, invece, desiderano reperire i fondi a loro necessari per perseguire l’interesse imprenditoriale10. Il patto stipulato consente, certamente, alle parti di rispondere ai suddetti interessi specifici, ma nel caso concreto, si assiste ad un’esclusione dagli utili, dalle perdite, o da entrambi, in capo all’impresa opzionaria (“𝛽”), poiché il prezzo di riscatto richiesto (preconcordato) potrebbe non coincidere col prezzo di mercato attuale della partecipazione.
8 App. Milano sez. I civ., 19 febbraio 2016, n. 636, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
9 DIVIZIA, (nt. 7), p. 347.
10 COSSU, (nt. 4), p. 3.
Nell’ottica sopra descritta la funzione della clausola si riconduce ad un vero e proprio finanziamento, tuttavia è da ricordare che non necessariamente potrebbe esistere questo legame: infatti, un patto parasociale contenente un’opzione put potrebbe essere stipulato da due soci con nessuna finalità di credito, ma piuttosto come soluzione alternativa in momenti di crisi, per evitare uno “stallo societario”. In questo caso il vincolo contrattuale può permettere ad uno dei due di “svincolarsi” e acquisire le quote dell’altro, evitando di partecipare alle perdite.
1.4 Incidenza con la ratio del divieto di patto leonino
Ne consegue, dunque, che tale accordo viene spesso ricondotto alla violazione del divieto di cui all’art. 2265 c.c., che cita: “è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”.
Il divieto in questione trae origine dal diritto romano e inizialmente era limitato all’esclusione dagli utili, ma successivamente venne presa in considerazione anche l’esclusione alle perdite, per evitare finanziamenti usurari.
Il nome del patto prende ispirazione dalla favola esopiana del leone che non spartisce la preda con coloro che hanno cooperato alla cattura11 e ciò che vuole essere evitato nella realtà dei fatti è la situazione in cui un socio possa influenzare la gestione dell’impresa pur non sopportando il rischio economico delle decisioni adottate dalla società12.
La ragione alla base del fondamento risiede nella volontà di rendere tutti i membri di un gruppo partecipi al rischio d’impresa conseguente all’attività svolta, al fine di garantire un esercizio corretto dei relativi poteri, ovvero, preservare la purezza della causa societatis.
La suddetta causa è descritta nell’art. 2247 c.c. il quale richiede il conferimento “di beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” e, per simmetria implicita, le perdite.
Negli anni è stato assodato che tale divieto risulti estendibile a tutti i tipi sociali. Sebbene, infatti, l’art. 2265 c.c. sia dettato in tema di società semplice, viene reputato dall’orientamento maggioritario una norma “transtipica”13.
11 XXXXXXXXX e VENTORUZZO, La put non è un patto leonino – capitali (più facili) per le imprese, in
L’Economia (Corriere della Sera), 24 settembre 2018, p. 16.
12 COSSU, (nt. 4), pp. 2, 3.
13 Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxx.xx.
Il collegamento tra divieto di patto leonino e opzioni put a prezzo fisso risiede nella possibilità, per il nuovo socio proprietario di quest’ultima, di poter disporre di una sicura way out dalla società, con la garanzia di realizzo di un prezzo precedentemente concordato, a prescindere dall’andamento della stessa. La condotta del socio opzionario potrebbe, dunque, essere inficiata da una deresponsabilizzazione agli aspetti gestori, derivante dalla sicurezza di un rischio assente: comportamento, evidentemente, in contrasto col precetto di cui all’art. 2265 c.c.
1.5 Ricerca della “causa concreta”
Sebbene, dunque, la clausola put costituisca uno strumento validamente esercitabile, la situazione da cui deriva potrebbe non essere corretta. Come detto precedentemente, non risulta mai facile riconoscere i motivi alla base dell’operazione, ma la funzione essenziale del patto non può, certamente, essere trascurata. Diventa, perciò, compito fondamentale del Giudice di merito la valutazione della causa del patto parasociale. In questo frangente si dirama un ulteriore dibattito dottrinale, avente ad oggetto l’entità di tale causa, tra chi sostiene che l’indagine debba essere svolta ricercando la “causa concreta” e chi attribuisce maggiore importanza a quella “astratta”.
Secondo i sostenitori di quest’ultima non dovrebbe essere considerato alcun elemento soggettivo, psicologico e finalistico dei contraenti, ma si dovrebbe identificare la causa con l’oggettiva funzione del negozio. La ricerca della causa astratta è una lettura decisamente pragmatica del patto parasociale, che esclude un’eventuale malafede delle parti in causa e giudica l’accordo come una mera operazione finanziaria. La finalità dei soci deve essere presa in considerazione per evitare la stipulazione di accordi volti alla sola elusione di norme imperative.
A questa contrapposta, resiste la “lettura concreta” dell’essenza causale ovvero, la funzione economico-sociale del contratto, comprendendo lo scopo e la finalità ultima delle parti, così da poter escludere un’elusione volontaria del divieto in questione. Uno strumento utile all’analisi in questione è rappresentato dallo studio dei “triggering events”14, ossia quegli eventi che le parti, dal momento della stipula, individuano essere d’ostacolo alla prosecuzione del rapporto sociale. L’indagine dovrà, quindi, secondo il principio espresso, riservarsi di riconoscere la “causa concreta” nella gestione di tali eventi e nelle soluzioni alle conseguenze da essi derivanti.
14 DIVIZIA, (nt. 7), p. 350.
Nell’ambito amministrativo di un’impresa è fondamentale per un socio prendere decisioni dettate dall’interesse al buon andamento della stessa; in mancanza di tale interesse (che corrisponde ad un aspetto psicologico) la risoluzione delle vicende potrebbe risultare viziata e concorrere, quindi, a determinare il reale scopo iniziale.
Attualmente, rimane maggioritaria la tesi per la quale debba essere posta prevalenza alla “causa concreta” rispetto alla “causa astratta”.
Pertanto, in conclusione è possibile affermare che la legislatura preveda delle regole generali in relazione alle vicissitudini trattate, che necessitano di un’interpretazione autorevole, al fine di poter svolgere una funzione di orientamento alle decisioni prese dai giudici di merito. A tal proposito, è proposta un’osservazione cronologica di due distinte sentenze della Corte di Cassazione, giunte a seguito di due differenti faccende, ritenute fondamentali nella dottrina giuridica.
CAPITOLO II: Il primo riferimento normativo: Cass. 8927/1994
Un capitolo fondamentale ai fini della questione in esame è stato scritto da un popolare caso che ha interessato l’ultimo ventennio del secolo scorso.
È utile sottolineare che la sentenza qui di seguito presentata risulta essere il primo autorevole precedente giurisprudenziale legato alla connessione tra finanziamenti partecipativi e patto xxxxxxx. Stante questa non indifferente caratteristica, alla luce delle decisioni prese dalla Corte e dei principi enunciati, è stata palese, fin da subito, “una cospicua difformità di vedute in merito”15 la quale, con gli anni, ha generato la controversia giuridica oggetto del documento.
2.1 La vicenda
Sommariamente, nel 1980 tale società “Friulia s.p.a.”, società finanziaria volta a promuovere lo sviluppo regionale del Friuli ed operante con finalità di reintegrare le condizioni delle imprese in crisi, stipula un accordo di acquisto di una partecipazione azionaria di “Laminatoio di Buttrio s.p.a.”, all’interno del quale sono previsti degli obblighi, a carico dei soci di maggioranza di quest’ultima, e due clausole specifiche legate ad essi:
- in caso di inadempimento, “Friulia” può esigere il riacquisto delle azioni vendute allo stesso prezzo da lei esborsato con aggiunta di interessi (opzione put);
- in caso contrario, dunque, di adempimento dei soci di “Laminatoio di Buttrio”, gli stessi possono riscattare le azioni da “Friulia” a prezzo predeterminato ed entro un certo termine (opzione call).
A seguito della cessazione dell’attività da parte di “Laminatoio di Buttrio” nel 1985, “Friulia” chiede ingiunzione di pagamento alla Corte di Appello di Trieste contro l’impresa cessata, per non aver proseguito la produzione. La richiesta viene revocata due anni dopo per nullità dell’accordo stipulato tra le due e l’elemento essenziale per la sentenza è l’opzione put prevista in caso di inadempimento, la quale viene giudicata inottemperante del divieto di patto leonino.
Il punto focale della narrazione si raggiunge nel 1994 quando, conseguentemente ad un ricorso da parte della società condannata sulla base di due motivi, la Corte di Cassazione, attraverso la sentenza n. 8927, si pronuncia dettando una linea di opinione che sarebbe poi stata seguita dai Tribunali italiani, a riguardo dei casi similari, nel corso degli anni avvenire.
15 CIAFFI, Finanziaria regionale e patto leonino, in Giur. comm., 1995, p. 478, nota a Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, sez. I.
2.2 Svolgimento del processo e principi enunciati
La Suprema Corte, dopo aver chiarito l’estendibilità del divieto di patto leonino a tutti i tipi sociali, tratta i due motivi congiuntamente, ponendosi un quesito fondamentale, e cioè se l’esclusione integri il divieto di patto leonino anche quando le clausole pattizie non siano parte del contratto sociale, ma di patti parasociali e, inoltre, quando non sia una situazione assoluta, ma sia sottoposta a condizioni coordinabili con il perseguimento di una funzione, in ipotesi meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c., ed espressione dell’autonomia negoziale.
La Corte si sofferma sulle situazioni caratterizzanti il precetto vincolante dell’art. 0000 x.x., xxxxxx: (x) il patto nullo sussiste quando un socio viene escluso da “ogni” partecipazione a utili o perdite, ed a maggior ragione quando venga escluso da entrambe le forme di partecipazione indicate; e (ii) il patto, normalmente, costituisce parte del contratto sociale, individuando la posizione di un socio nell’ambito societario e nella compagine sociale.
(i) I Giudici fanno notare che, in base alla prima situazione caratterizzante la fattispecie, un socio viola il divieto di patto xxxxxxx quando “la rispondenza tra poteri, da un lato, diritti e rischi, dall’altro, risulti nulla”16. Assume, dunque, rilievo l’individuazione dell’eliminazione del rischio di impresa e il limite invalicabile dedotto risulta essere “l’esclusione assoluta e sostanziale di tale rischio”.
Viene, inoltre, posto l’accento sul fatto che la partecipazione ad utili e perdite, in relazione al conferimento, differenzia il socio dal semplice associato ed è quindi da ritenersi elemento essenziale.
Alla luce di queste considerazioni, esprime, dunque, il primo criterio valutativo.
2.1.1 Primo principio
Secondo la Corte, poiché il limite all’autonomia statutaria sussista, è necessario che “l’esclusione dagli utili o dalle perdite costituisca una situazione assoluta e costante”17.
Questo primo principio si riferisce ad una interpretazione letterale del divieto di patto leonino ed ha lo scopo di chiarirne gli estremi. Nel nostro ordinamento, come precedentemente ricordato, tale divieto risponde alla necessità di fare in modo che sia presente una correlazione tra il rischio d’impresa e potere amministrativo di un’attività, per non incorrere in situazioni di deresponsabilizzazione di un determinato socio.
16 CIAFFI, (nt. 15).
17 Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, in Giur. comm., 1995.
Ciò che acquista primaria importanza, quindi, nello svolgimento della suddetta analisi, è l’entità sostanziale dell’esclusione: si ha un’esclusione “assoluta” se un socio non percepisce nessun utile e, simultaneamente, non subisce alcuna perdita derivante dalla gestione; l’attribuzione della “costanza”, invece, discende dalla posizione ricoperta dal socio nella compagine sociale, delineata nel contratto di società e si riferisce all’arco temporale dell’esclusione.
Di conseguenza, secondo questi presupposti, una clausola put contenuta in un patto parasociale che esclude un socio da una percentuale, che non corrisponde alla totalità, di utili o perdite conseguiti, o che lo esclude solamente per un periodo circoscritto di esercizio di tale diritto, non incorre nel divieto di cui all’art. 2265 c.c. ed è quindi da ritenersi valida.
(ii) Successivamente, la Cassazione si riserva di chiarire la situazione in cui le clausole risultino contrarie al precetto dell’art. 2265 c.c. In particolare, pone il quesito se incida, ai fini del giudizio di merito, il fatto che dette clausole fossero state inserite in un patto parasociale e non fossero espressione di un’autonomia statutaria. In risposta, suggerisce una verifica sostanziale della funzione essenziale del patto parasociale.
Il seguente principio espresso è finalizzato a fornire un riferimento all’analisi causale del patto, qualora i requisiti dettati dal primo principio dovessero sussistere.
Risulta interessante osservare, fin da subito, come venga attribuita maggiore importanza all’entità materiale dell’esclusione, collocando l’aspetto psicologico, ovvero il reale intento delle parti, in un livello secondario. Invero, l’indagine relativa alle ragioni del patto, dovrebbe, secondo la Corte, trovare applicazione solo nel caso in cui l’esclusione venisse giudicata contraria al vincolo dettato dal patto leonino: caratteristica che sarà oggetto di un particolare confronto con la sentenza del 201818.
2.1.2 Secondo principio
Per la verifica della funzione essenziale del patto, la Corte riconosce due possibili esiti: il patto parasociale ha la funzione essenziale di eludere il divieto di patto leonino; o il patto ha una sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c.
Nel primo caso diverrebbe, senza dubbio, un negozio in frode, incorrente nella previsione di nullità dell’art. 2265 c.c., poiché le norme imperative e gli obblighi in capo ai contraenti, previsti dalla legge, non possono essere contraddetti dai soci terzi.
18 Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxx.xx.
Nella seconda situazione, invece, ovvero in cui il patto risponda ad un’autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c., la Corte si appella ad un caso passato, la cui sentenza ricadeva sotto la vigenza del precedente codice (Cass. 14 giugno 1939, n. 2475), nella quale veniva ritenuta ammissibile la validità del patto, in quanto integrante un accordo causalmente separato dal contratto sociale.
Pertanto, appare chiaro che, con il suddetto secondo principio, la Corte voglia lasciare più spazio all’interpretazione e al giudizio soggettivo dei giudici di merito, nell’affrontare i singoli casi.
Riassumendo l’orientamento espresso, “ai fini della valutazione di un patto parasociale come indirettamente illecito per frode leonina, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2265 e 1344 c.c., occorre la ricorrenza di un duplice requisito: un requisito oggettivo (o sostanziale): i.e., esclusione “totale e costante” dai risultati sociali, attivi e/o passivi, il quale requisito sarebbe, invece, sufficiente a far scattare la sanzione invalidatoria di un patto statutario leonino, come tale, direttamente illecito, in quanto contrario alla norma imperativa di ordine pubblico ex art. 2365 c.c.; un requisito funzionale: i.e., assenza di meritevole “causa concreta” connessa al buon andamento dell’impresa sociale”19.
La “causa concreta”, sopra citata, si attiene agli interessi perseguiti considerati nella loro oggettività. In particolare, l’analisi si riserva di verificare che questa “non sia contrastante con l’esigenza di salvaguardare l’interesse dei soci coinvolti alla buona gestione dell’impresa”20.
2.2 Dubbi e quesiti della dottrina
Nel corso degli anni successivi alla sentenza, i tribunali si sono espressi in maniere differenti nella questione e tali divergenze sono probabilmente dovute all’opacità di alcuni tratti della statuizione della Corte Suprema. Non può passare inosservato il fatto che entrambi i criteri enunciati abbiamo dei dubbi applicativi di base: il primo principio presenta delle ambiguità in merito alla valutazione della costanza, mentre nel secondo non risulta chiaro se l’interesse dei contraenti debba avere prevalenza in quello della società, o viceversa.
19 DI BITONTO, Opzioni “put” parasociali su azioni: profili di (in)validità – il commento, in Società, 2016, 286, nota a Trib. Firenze, 16 luglio 2015.
20 Trib. Milano, 18 ottobre 2017, n. 10426, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
Per quanto riguarda la costanza (requisito necessario per la valutazione dell’esclusione espresso nel primo criterio) la dottrina segnala come “sia ricorrente il quesito se essa implichi che l’esclusione sia vietata soltanto allorché convenuta per tutta la durata della società, od invece altresì quando risulti circoscritta ad una frazione temporale corrispondente alla durata di una partecipazione sociale”21. Dipendentemente dal fatto che non esista un preciso referente normativo, tale requisito è stato oggetto di svariati casi di incertezze nei limiti della proibizione.
Nella circostanza descritta dal secondo principio, invece, entra in gioco una componente che, secondo diversi punti di vista, potrebbe risultare astratta e dunque concorrere a creare controversie: la “meritevolezza” degli interessi realizzati. A tal proposito è opportuno tenere in considerazione che la Cassazione non rende chiaro se la valutazione debba essere effettuata avendo riguardo degli interessi delle parti contraenti o a quelli della società. Invero, se da un lato, il richiamo all’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. porta a ritenere che debba essere data rilevanza agli interessi dei soci, dall’altro lato, il riferimento alla buona gestione dell’impresa conduce ad una valutazione di carattere opposto, tesa a dare rilievo agli interessi della società22.
L’art. 1322 co. 2 c.c., infatti, esprime la possibilità per i soci “di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, locuzione che evidentemente riconosce i soci come soggetti principali. Tuttavia, il postulato enunciato dalla Suprema Corte sposta la prospettiva nella posizione opposta, rilevando il fatto che, tali interessi, “debbano essere “sociali” e soprattutto “connessi” al buon andamento dell’impresa”23.
Per concludere, dalla lettura dei principi è possibile osservare una propensione, della Corte, ad assegnare un ruolo sostanziale all’entità dell’esclusione, affidando un criterio relativamente soggettivo ai Giudici di merito, ovvero quello della ragione basilare del contratto.
Vengono quindi rimandate al giudizio “caso per caso” le situazioni che potrebbero avere come funzione essenziale quella di eludere il divieto in contesti difficoltosi per l’impresa.
Effettivamente, fino al 2018, i Tribunali italiani si sono ispirati a questi criteri valutativi, dichiarando valide clausole che li rispettavano, senza però disporre di strumenti adeguati ad indagare il motivo implicito dell’operazione24.
21 DI BITONTO, (nt. 19).
22 TESTA, legittimità delle opzioni put a prezzo fisso e divieto di patto leonino, in Xxxxxx.xxx, 18 maggio 2017.
23 Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, in Giur. comm., 1995.
24 Trib. Milano 3 ottobre 2013, n. 12213, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
L’analisi della meritevolezza, dunque, spesso finiva per essere circoscritta al valore del corrispettivo pattuito, alla concessione di un’opzione call aggiuntiva o ad un termine di esercizio concordato, i quali, per quanto possano essere criteri autorevoli nell’effettiva esclusione da utili o perdite, non forniscono un profilo oggettivo per comprendere la volontà primaria delle parti.
Nonostante, dunque, il caso di specie possa sembrare datato, ciò che è emerso assume una rilevanza quanto mai attuale poiché costituisce ancora oggi un importante punto di riferimento per la giurisprudenza e, inoltre, fornisce un prezioso termine di paragone alla visione innovativa espressa nel 2018 dalla Corte di Cassazione.
CAPITOLO III: Il revirement della Suprema Corte: Cass. 17498/2018
A distanza di quasi 25 anni, i Giudici di diritto tornano a pronunciarsi in merito alla questione “accordi tra soci che eludono il divieto di patto leonino” e lo fa attraverso una sentenza che presenta diversi aspetti contrastanti con il precedente orientamento.
Sebbene, però, le due disposizioni presentino delle divergenze, le due casistiche alle quali sono riferite sono caratterizzate da alcuni elementi comuni: primo fra tutti, il fatto che le società opzionarie siano entrambe di natura finanziaria.
Questo, non è un dettaglio trascurabile, poiché ammette che tra i motivi alla base dell’operazione ci possa effettivamente essere il finanziamento partecipativo per finalità di pubblico interesse, scopo decisamente meno plausibile, ad esempio, per un’impresa volta allo sviluppo di un prodotto.
3.1 Fatti di causa
Il caso trattato inizia nel 2007 quando, a seguito dell’autorizzazione della Banca d’Italia, “DeA Partecipazioni s.p.a.” (impresa finanziaria), “Sopaf s.p.a.” (impresa industriale) e il gruppo “Aviva Holding s.p.a.” intraprendono un’operazione di compravendita di partecipazioni per circa l’80% del capitale di “Bipielle Net s.p.a.”, con una divisione che prevede quote equivalenti per le prime due imprese.
Simultaneamente, “DeA” e “Sopaf” stipulano un accordo di concessione, in capo a “Sopaf”, di un’opzione put a favore di “DeA”, nel quale è ammessa, all’impresa finanziaria, la possibilità di liquidare l’investimento mediante la cessione della propria quota in “Bipielle” alla suddetta società industriale, o ad un nuovo acquirente individuato da quest’ultima, ad un prezzo non inferiore a quello corrisposto per l’acquisto, con l’aggiunta di interessi convenzionali.
Nel 2008 il patto subisce una modifica tale per cui ogni ulteriore versamento a patrimonio netto che “DeA” avesse effettuato nei confronti di “Bipielle” avrebbe dovuto contribuire a formare il valore di liquidazione della partecipazione.
Circa due mesi dopo, “Dea” effettua il primo aumento di capitale in “Bipielle”.
Nel 2011, dopo aver manifestato più volte la volontà di esercitare l’opzione, “DeA” agisce per la prima volta in giudizio nei confronti di “Sopaf”, chiedendo l’inadempimento e il risarcimento della quota: richiesta che viene prontamente respinta dal Tribunale di Milano.
Il Giudice di merito, a questo proposito, giudica il negozio di cessione “elusivo della ratio della disciplina del patto leonino” ravvisando pertanto che non ci sia “alcuna specifica autonoma funzione meritevole di tutela”25.
Nel 2016, a seguito dell’impugnazione con annessa proposta di integrale riforma della precedente sentenza da parte di “DeA”, la Corte d’Appello di Milano, seppur dopo una più attenta analisi effettuata in tre ambiti, conferma quanto precedentemente decretato.
In prima istanza viene considerata l’entità dell’esclusione, giudicata “assoluta” e “costante”. In questo frangente costituisce elemento essenziale la modifica apportata al patto nel 2008 la quale, secondo la Corte d’Appello, “venne effettuata al solo scopo di apportare un aumento di capitale: conseguentemente a tale data, infatti, “DeA” avrebbe potuto versare qualsiasi importo o votare in assemblea senza nessun rischio”26.
Secondariamente, non viene ravvisato alcun interesse meritevole di tutela poiché mancante una condizione futura e incerta: “DeA”, infatti, avrebbe avuto la possibilità di esercitare, o meno, l’opzione a suo mero piacimento, in qualunque momento.
Anche nella valutazione di un’autonoma funzione economica meritevole di tutela la modifica del 2008 pare essenziale, in quanto l’interesse della finanziaria a mantenere alto il valore della partecipazione svanisce, in conseguenza della certezza che “Sopaf ” avrebbe liquidato il prezzo originario, tuttalpiù maggiorato di interessi convenzionali.
La svolta rilevante nella disputa si raggiunge nel 2018 quando, dopo alcuni anni, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema in questione. Come detto in precedenza, infatti, l’ultimo riferimento autorevole concerneva il caso “Laminatoio di Buttrio”27, pertanto aleggiava nel panorama giuridico italiano l’esigenza di un aggiornamento nella linea di pensiero.
25 Trib. Milano, 30 dicembre 2011, n. 15833, in Giur. comm., 2012.
26 App. Milano, 19 febbraio 2016, n. 636, in Soc., 2016.
27 Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, in Giur. comm., 1995.
3.2 Questioni affrontate
Il processo si svolge seguendo i cinque motivi proposti da “DeA Partecipazioni s.p.a.”, attraverso i quali la finanziaria deduce “violazione” e “falsa applicazione”28, da parte della Corte d’appello di Milano, di norme giuridiche riguardanti il divieto di patto leonino e dei principi a cui si è riferita per la sentenza (principi dettati da Cass. 8927/1994).
Ripercorrendo le ragioni presentate dalla ricorrente, la Suprema Corte affronta i seguenti argomenti posti alla sua attenzione29, al fine di determinare se sia valido ed efficace il patto parasociale con cui una parte si obbliga ad acquistare azioni ad un prezzo predeterminato, il quale potrebbe, da un lato non rispecchiare il valore effettivo delle partecipazioni al momento dell’acquisto nonché, dall’altro, neutralizzare l’eventuale perdita avvenuta medio tempore30.
3.2.1 Divieto di patto leonino nelle società di capitali
Inizialmente, la Suprema Corte ribadisce la natura “transtipica” del divieto di patto leonino, in risposta alla ricorrente, la quale col primo motivo, ritiene che l’art. 2265 non troverebbe applicazione nell’ambito delle società di capitali.
A questo proposito i Xxxxxxx, pur riconoscendo che il divieto sia previsto con riferimento solamente alle società di persone, reputano che sia ormai appurata l’applicabilità della norma a tutte le imprese organizzate in forma societaria, ivi incluse le società di capitali, in quanto l’articolo attiene alle condizioni del tipo “contratto di società”, ai sensi dell’art. 2247 c.c.
Tuttavia, considerate le differenze che intercorrono tra le società di persone e le società di capitali, il divieto può essere applicabile a quest’ultime solo con i necessari adattamenti31. Nel caso di applicazione in una società di capitali, infatti, è opportuno tenere conto della presenza di interessi diversi e propri della società capitalistica, tra cui lo sviluppo dell’impresa e il reperimento di risorse finanziarie per il suo buon funzionamento32.
Pertanto, la Corte di legittimità si allinea ai pareri precedentemente espressi e all’orientamento giuridico maggioritario giudicando, dunque, il primo motivo infondato.
I motivi successivi vengono poi trattati congiuntamente in un’indagine dedita a far chiarezza sui principi finora utilizzati e sulle questioni oggetto di controversie.
28 Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxx.xx.
29 XXXXXX, Opzioni put a prezzo predefinito nelle pattuizioni parasociali: la Cassazione esclude il divieto di patto leonino, in Xxxxxxxxxxxx.xx, 26 ottobre 2018, commento a Xxxx. 4 luglio 2018, n. 17498.
30 SCORDO, Partecipazioni sociali, clausole di opzione put e interessi dell’impresa, in Giur. comm., 2020, pp. 300-315.
31 COSSU, (nt. 4), p. 3.
32 SCORDO, (nt. 30).
3.2.2 Ratio del divieto di patto leonino
Secondariamente, la Corte interviene sul primo requisito relativo all’entità dell’esclusione (Cass. 8927/1994). In linea generale, il suddetto principio mirava a valutare se l’esclusione integrasse gli attributi di “assolutezza” e “costanza”, ritenendo, in caso positivo, che non fosse preservata la purezza della causa societatis e che, dunque, la clausola fosse in contrasto con l’interesse alla corretta amministrazione della società. In sostanza, seguendo i canoni del precedente riferimento, posta l’assenza di una funzione meritevole di tutela, una clausola che prevedesse un’esclusione assoluta e costante dalle perdite e dagli utili era da ritenere contraria alla ratio del divieto di patto leonino.
Ciò che dà origine alla prima distinzione tra i due riferimenti interpretativi consiste nel fatto che, secondo la sentenza n. 17498, un’analisi concernente il fondamento del patto ex art. 2265 dovrebbe vertere, non tanto sulla presenza (o meno) delle due caratteristiche legate all’esclusione, ma sull’effettiva alterazione della “causa concreta” del rapporto partecipativo. Nel caso specifico, la Corte ritiene corretto valutare se la clausola put in questione, che esonera “DeA Partecipazioni s.p.a.”, costituisce una deviazione irrimediabile dalla causa alla base del rapporto partecipativo con “Sopaf s.p.a.”, poiché solo in tal caso potrà dirsi violato l’art. 2265 c.c.
Essenzialmente, la valutazione a cui rimanda la Cassazione, si basa sul reale motivo che avrebbe potuto spingere “DeA” a richiedere la clausola put: qualora la società finanziaria avesse come funzione essenziale il finanziamento di imprese volto al pubblico interesse economico-sociale (funzione che peraltro rappresenterebbe un aspetto comune a “Friulia s.p.a.”, protagonista nel caso del 1994), l’opzione in esame non ne altererebbe l’entità; una deviazione irrimediabile si potrebbe ravvisare, piuttosto, in una fattispecie comprendente due imprese, con nessuna finalità di credito, nella quale una di queste decidesse di richiedere un’opzione put per disporre di una “uscita sicura” dall’investimento, nel caso si dovesse constatare un risultato negativo.
Viene dunque riconosciuta dai Giudici una sostanziale importanza al mutamento della causa derivante dalla clausola apposta, ai danni della concreta determinazione dell’esclusione.
L’approccio proposto, in questo caso, si discosta dalla pronuncia del 1994 senza smentirne gli estremi. I criteri valutativi relativi all’esclusione, infatti, rimangono inalterati, tuttavia viene operata una rilettura generale del principio, volta a considerare un diverso oggetto principale nell’analisi di inottemperanza al divieto di patto xxxxxxx.
3.2.3 Divieto di patto leonino nei patti parasociali
La sentenza del 2018 diverge ulteriormente dall’orientamento precedente, riformando l’ambito di applicazione dell’art. 2265 c.c. negli accordi parasociali. Se, infatti, nella formulazione del 1994, il divieto di patto leonino “concerneva sia le clausole statutarie, che le pattuizioni parasociali”33, coi nuovi dettami, la Corte di Cassazione rileva l’impossibilità, per il divieto, di trovare spazio negli accordi tra soci, fondamentalmente, per la mancanza di un “impatto esterno”34 nei confronti della società. Specificatamente, ci si riferisce alla situazione in cui il patto sia frutto di un accordo meramente interno tra soci (rimane soggetto al divieto l’accordo stipulato tra società e il socio). Ciò vale, specialmente, quando tale accordo nasce da una negoziazione intervenuta tra soci al fine di finanziamento, mediante versamento di capitale di rischio.
La ragione alla base di questa conclusione risiede nel fatto che il divieto di patto leonino, come più volte sottolineato, ha la finalità di preservare la causa della società, perciò non può essere applicabile agli accordi che regolano i rapporti interni dei soci, essendo irrilevante il trasferimento del rischio fra soci che non ne alteri le posizioni nei confronti della società.
3.2.4 Requisito della meritevolezza
I Giudici di diritto, infine, si sono soffermati sul concetto di “meritevolezza”, da tempo oggetto di numerose controversie data l’opacità della dottrina di riferimento. La Corte, in particolare, suggerisce un’analisi dell’interesse perseguito in concreto dalle parti, cioè della ragione pratica dell’affare, dovendosi valutare l’utilità del contratto e, quindi, la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale.
Nel caso di un’opzione put, la causa dell’operazione può essere il finanziamento ad un’impresa: è risaputo, infatti, che un socio possa avere la possibilità di fare ricorso a tali tipologie di accordi, nei quali la “causa concreta” possa definirsi mista, in quanto associativa e di finanziamento.
Secondo la Corte, dunque, “un accordo allestito al fine di sostenere l’attività d’impresa, favorendo l’afflusso di risorse finanziarie”35, è da ritenersi meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.
33 BUSANI, Stop alla nullità dell’opzione put che consente di recuperare capitale, in Il Sole 24 ore, NORME E TRIBUTI, 5 luglio 2018.
34 XXXXXX, (nt. 29).
35 BUSANI, (nt. 33).
In conclusione, appare chiara la propensione dei Giudici a tutelare quelle che vengono definite forme “atipiche” di finanziamento per le imprese, proposte sempre più spesso come alternativa al credito bancario negli ultimi anni.
3.3 Decisione finale della Corte di Cassazione
Dopo aver trattato tutti i vari argomenti oggetto di controversie, i Giudici di Corte riepilogano le posizioni intraprese espletando un unico principio di diritto:
“È lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”36.
Per concludere la discussione è necessario soffermarsi sull’interpretazione giuridica della manleva di un socio e sulle situazioni in cui una clausola put a prezzo fisso possa ritenersi valida.
3.3.1 Caratteristiche della manleva
La manleva citata nel postulato della sentenza del 2018, costituisce un negozio di garanzia “atipico” che prevede l’obbligo di un soggetto di sollevare un’altra parte, la quale simultaneamente acquisisce il diritto di essere tenuta indenne da eventuali conseguenze negative patrimoniali.
Per la configurazione di una manleva valida è necessario tenere in considerazione due elementi essenziali: la “causa” e la “determinabilità dell’oggetto”37.
La causa consiste nel concreto interesse che la manleva sia diretta a soddisfare e, per essere valida, occorre che giustifichi legittimamente l’assunzione degli obblighi da parte del soggetto mallevadore.
36 Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxx.xx.
37 FRANCHI, L’opzione di vendita put e la manleva del nuovo socio dalle conseguenze negative dell’investimento in società, in Xxxxxxxxxxxx.xx, 6 novembre 2018, commento a Cass. 4 luglio 2018, n. 17500.
Per quanto riguarda, invece, la determinabilità dell’oggetto, risulta doveroso che la manleva non abbia forma generica, (dunque che debba necessariamente indicare una precisa situazione dalla quale possa nascere il debito futuro) e che indichi la previsione di un importo massimo garantito.
Secondo la dottrina maggioritaria una manleva con forma generica è da ritenersi nulla per contrasto con l’art. 1346 c.c., in tema di requisiti dell’oggetto di un contratto, mentre una manleva non contenente un importo massimo garantito, altresì è considerata nulla, per contrasto con la previsione dell’art. 1938 c.c. in tema di fideiussione per obbligazioni future38.
3.3.2 Condizioni di legittimità dell’opzione put
Dalla lettura del principio di diritto enunciato si denota un’area ben definita all’interno della quale le opzioni put a prezzo fisso possono ritenersi valide; in particolare è necessaria la presenza delle seguenti condizioni39:
- l’opzione deve essere esercitabile solo in una limitata finestra temporale;
- il socio finanziatore non deve interferire nella gestione della società;
- deve essere concessa un’opzione call al socio imprenditore sulle medesime azioni e sul medesimo prezzo;
- il patto parasociale contenente la clausola put dev’essere funzionale alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, in virtù del buon funzionamento dell’impresa;
- la put non deve tenere indenne l’opzionario dal rischio di perdita totale del capitale sociale che si può verificare nell’intervallo temporale tra il momento dell’investimento e il momento dell’esercizio dell’opzione.
È osservabile come la Corte di Cassazione intenda escludere la situazione “problematica” per la quale due soci di un’impresa abusino di tale clausola al solo scopo di non incorrere in eventuali perdite. I criteri previsti per la stipulazione, infatti, richiedono dei vincoli chiari e precisi, oltre i quali l’accordo è da giudicarsi nullo.
Nella presente pronuncia, pur mantenendo saldi gli attributi di assolutezza e costanza dell’esclusione, assume una collocazione preponderante la funzione psicologica dei contraenti. La principale dinamica aleatoria riscontrata a seguito della sentenza del 1994 consisteva nella valutazione di meritevolezza degli interessi dei soci, poiché alcuni aspetti erano ritenuti poco chiari e, di conseguenza, acquisiva un ruolo importante la decisione soggettiva del Giudice di merito.
38 Cass. 23 settembre 2015, n. 18771; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1520, in xxxxxx.xx.
39 COSSU, (nt. 4), p. 10.
Con la stipulazione dei nuovi criteri valutativi viene colmato il gap di oggettività attinente all’analisi da svolgere e, inoltre, viene posta rilevanza sostanziale all’interesse generale dell’impresa, il quale rappresentava un ulteriore fattore di incertezza del precedente riferimento.
Attualmente, dunque, è possibile ritenere la partecipazione a scopo di finanziamento un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, co. 2 c.c., in quanto strumento volto a favorire il reperimento di risorse “finalizzate a rafforzare o permettere la realizzazione di un’impresa economica collettiva, diverse dai tradizionali canali di ricorso al credito bancario”40.
40 Cass. 4 luglio 2018, n. 17498, in xxxxxxxxxxxx.xx.
CONSIDERAZIONI FINALI
Alla luce del recente arresto giurisprudenziale, l’ultimo interrogativo rimasto parrebbe essere se un’opzione put a prezzo fisso contenuta in un accordo parasociale, finalizzato al finanziamento di un’impresa, possa essere considerato un buon motivo per bypassare il divieto di patto leonino, o se quest’ultimo debba mantenere la propria autorevole funzione vincolante in qualsiasi fattispecie societaria.
Al momento, come riportato nel capitolo precedente, la visione della Corte di Cassazione accetta questa tipologia di operazione come finanziamento partecipativo lecito, purché attenga a determinate condizioni.
Al netto del fatto che si possa essere d’accordo, o no, la posizione assunta dai Giudici di legittimità comprende una decisione fondata e coerente con l’andamento dell’economia odierna, nonché con le concrete necessità aziendali.
A tal proposito, appare chiara la volontà della Suprema Corte di attribuire un ruolo prevalente alle argomentazioni e alla natura delle previsioni contenute negli accordi parasociali, discostandosi dalla pronuncia del 1994, in cui l’elemento fondamentale per il giudizio di legittimità risultava essere la meritevolezza, requisito soggetto ad una valutazione assolutamente discrezionale dei giudici di merito.41 Riconoscere una funzione non necessariamente determinante a quest’ultima può, indubbiamente, provocare un effetto di maggiore certezza per gli operatori del mercato e, dunque, costituire un incentivo al ricorso di metodi alternativi al credito bancario.
La coerenza del riferimento è osservabile se questo viene posto in relazione ad altri numerosi spunti legislativi recenti, volti a contribuire a rendere tipici taluni innovativi strumenti finalizzati alla raccolta di capitale per la crescita dell’impresa.42
L’analisi valutativa mirata a ricercare un fattore causale degli orientamenti offerti dai Giudici di diritto non può che produrre come risultato una risposta ai bisogni commerciali maggioritari delle imprese.
41 XXXXXX, (nt. 29).
42 SCORDO, (nt. 30).
Nell’indagine congiunta delle due sentenze in esame è necessario considerare il momento storico nelle quali sono state espresse: dopo la crisi dei mercati finanziari del 2008, infatti, è cresciuta l’esigenza di supporto allo sviluppo per le imprese italiane e, simultaneamente, gli interventi normativi volti all’utilizzo di strumenti finanziari alternativi al canale bancario sono stati numerosi.43
Il ricorso a tali operazioni è divenuto, negli ultimi anni, sempre più frequente e la ragione alla base risiede nella necessità per le imprese di essere più resistenti al rischio di credito e poter, dunque, effettuare investimenti di capitale più sicuri. Evidentemente, a tale bisogno nel 1994 non veniva riconosciuta una primaria importanza, probabilmente in ragione dell’estensione ancora ridotta del suddetto finanziamento partecipativo.
Nonostante ciò, attualmente, le banche ricoprono ancora un ruolo preponderante nella vita aziendale, ma non è da escludere che in futuro possa prendere piede sempre più prepotentemente il ricorso a canali sostitutivi.
È da segnalare, in aggiunta, che sebbene il proponimento della Suprema Corte possa ritenersi apprezzabile e condivisibile da parte della dottrina, il dibattito giuridico non può ritenersi concluso e le situazioni in cui la clausola put contenuta in un patto parasociale viene ritenuta nulla sono ancora numerose44. Effettivamente, il vincolo posto dall’art. 2265 rappresenta un caposaldo, in tema di diritto commerciale, all’interno del nostro ordinamento giuridico e la relativa violazione potrebbe essere ritenuta superflua nell’ambito del ricorso al credito. Tuttalpiù, non risulta affatto immediata la valutazione dei motivi che potrebbero spingere due società ad effettuare questo tipo di operazione e, indubbiamente, si potrebbe incorrere in una mancata riconoscenza di una ragione scorretta.
A partire da queste argomentazioni, dunque, si esprime la parte della dottrina contraria alla decisione della Corte, sostenendo la totale nullità, in qualsiasi circostanza, della clausola put a prezzo fisso, ritenuta contraria alla configurazione di patto leonino.
43 XXXXXXXXX, XXXXXXXXX e XXXXXXXXX, Strumenti di finanziamento alternativi per le imprese: opportunità e prospettive future, in xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 30 Luglio 2018.
44 Cass. 21 ottobre 2019, n. 26774, in xxxxxxxxxxxxxxx.xx; App. Milano, 13 febbraio 2020, n. 1195, in xxxxxx.xx;
Trib. Milano, 23 luglio 2020, n. 4628, in xxxxxxxxxx.xx.
Secondo la mia personale opinione, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 2018 risulta essere di appoggio ai metodi innovativi per il ricorso al credito.
Trovo, inoltre, che una normativa aggiornata che regolasse le clausole put a prezzo fisso fosse necessaria nel nostro ordinamento, al fine di poter escludere, in forza di legge, situazioni di opportunismo da parte dei soci.
A riguardo dei due principali casi studiati, credo che l’opzione put possa rappresentare un valido strumento, se circoscritta a fini di finanziamento e concessa a società a questo dedite.
Una caratteristica fondamentale per la validità risiede nel fatto che le società opzionarie non debbano in alcun modo incidere nella gestione dell’impresa a cui l’opzione fa capo e questo, secondo me, è un aspetto molto importante poiché contribuisce a mantenere stabile l’iniziale causa societatis.
Inoltre, trovo corretto che, dal momento in cui venga reso ammissibile l’utilizzo di strumenti di partecipazione societaria per realizzare operazioni con garanzia di rimborso, venga assicurato il fatto che all’investitore non sia dato modo di esercitare irresponsabilmente diritti sociali45.
45 DE XXXX, Il socio “leone”. Il revirement della Cassazione su opzioni put a prezzo definito e divieto di patto leonino, in Banca, Borsa, Tit. Cred., 2019, pag. 81, nota a Xxxx. 4 luglio 2018, n. 17498.
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