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L’archetipo contrattuale transattivo:
radici storiche e ruolo attuale nell’ordinamento
1. Premessa – 2. L’inquadramento del negozio transattivo fra i singoli contratti nel diritto civile italiano vigente –
3. La transazione nella previsione codicistica e nella dottrina precedenti il codice del 1942 – 4. Le radici storiche del modello codicistico – 5. « La transazione è il contratto con cui le parti … pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere» – 6. «… mediante il quale le parti dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualcosa …» – 7. Sopravvivenza e vitalità di elementi eterodossi rispetto all’archetipo contrattuale transattivo ac- colto nel codice del 1942.
1. In un sistema, come quello italiano, retto da una complessa gerarchia delle fonti e ormai da quasi due secoli permeato dalla filosofia della codificazione e dai suoi due corollari (l’esaustività del codice civile 1 e il primato, ufficioso oltre che ufficiale, della fonte legislativa sugli altri formanti) 2 non do-
1) Frutto dell’influenza diretta della codificazione francese, modello per tutti i successivi codici nazionali: cfr. sul punto A. PADOA SCHIOPPA, Dal codice napoleonico al codice civile del 1942, in «Studi in onore di X. Xxxxx», Milano, 1994, I, p. 951, che concludendo il proprio saggio osserva come «dai primi grandi Codici – ma soprattutto dal Co- dice napoleonico – deriva […] l’idea stessa fondamentale di codice come sede privilegiata e omnicomprensiva della disciplina normativa del diritto privato.». E’ ben vero che la legge del 27 ventoso dell’anno VIII (28 marzo 1800) aveva abolito il «référé législatif» e ciò parrebbe deporre contro l’idea che, nella mente dei suoi padri, il «Code civil des Français» (1804), come qualunque altra opera legislativa, fosse completo. Tuttavia la dialettica tra l’eredità rivo- luzionaria (ossia il divieto al giudice di porre delle norme) e il realismo giuridico (ossia la consapevolezza dell’impos- sibilità di creare una disciplina che prevedesse tutti gli aspetti della vita dei consociati) è ben visibile nel rapporto tra gli art. 4 e 5 del «Code», con i quali si imponeva ai giudici di giudicare anche in caso di oscurità o insufficienza della legge (4) e di non dettare disposizioni di carattere generale o regolamentare. La legge del 16 settembre 1807, poi, introducendo un nuovo «référé» (questa volta al capo dello stato), cui era demandata l’attività interpretativa supre- ma, volta a risolvere i contrasti tra le diverse giurisdizioni, verrà abrogata solo da una legge del 30 luglio 1828, men- tre ancora nel 1823 il Consiglio di Stato (pur in regime di monarchia costituzionale) ribadiva come la norma del 1807 fosse «parfaitement compatible avec le régime constitutionnel établi par la Charte» (X.-X. XXXXXXXX, Histoire du droit privé français depuis 1804, Paris, 1996, p. 52). Questo sia detto a testimonianza del perdurare di una radicata sfi- ducia nell’interpretazione e, soprattutto, nella creazione di norme al di fuori dell’ordinamento basato sulla «plus grande, la plus utile, la plus solennelle transaction dont aucune nation ait jamais donné le spectacle à la terre» (così il tribuno Albisson, nel riferirsi al «Code civil des Français» [1804], davanti all’assemblea legislativa: P.-X. XXXXX, Re- cueil complet des travaux préparatoires du Code civil, Osnabrück, 1968 [Réimpression de l’édition 1827], XV, p. 120).
In realtà il concetto di esaustività del codice non rappresenta un’innovazione «tout court», al pari, viceversa della codificazione intesa come tecnica legislativa (per la quale preesistevano al «Code civil des Français» [1804] modelli a dir poco parziali e comunque strettamente legati alla tradizione: il Xxxxxx Xxxxxxxx [1713], il Codex Maximilianeus ba- varicus civilis [1756] e, soprattutto, l’ «Allgemeines Landrecht für die königlichen - Preussischen Staaten» [1794]). Che una compilazione, destinata a regolare ogni aspetto della vita dei sudditi, o di una vasta parte di essi, dovesse avere carattere esaustivo e determinare l’abbandono delle fonti normative precedenti è idea che forse per la prima volta, ironia della sorte, fece capolino proprio in quella che più tardi sarebbe stata nota come Francia, per opera del legislatore visigoto Xxxxxxx XX, promulgatore in Tolosa, nel 506 d.C., della più nota ed importante delle cd. «leggi romano-barbariche», la Lex Romana Visigotkorum (cfr. sul punto X. XXXXXXXXXX, La codificazione di Alarico II 2, Torino, 1990, p. 13 ss.). E’ poi generalmente noto che la caratteristica della (pretesa) omnicomprensività fu propria, per vo-
vrebbe essere necessario procedere ad un’indagine sull’inquadramento sistematico della transazione nel diritto civile 3.
lere espresso di Xxxxxxxxxxx, anche del suo Corpus iuris, il quale è però di oltre vent’anni recenziore rispetto al Brevia- rium Alarici.
2) Un principio, ci sia concesso il gioco di parole, codificato dalle disposizioni sulla legge in generale, le cd.
«Preleggi», ed in particolare dalla gerarchia delle fonti contenuta all’art. 1 di queste.
3) La premessa ad un lavoro che mira ad individuare il reticolo di norme spesso confliggenti tra loro, elabo- rate dal legislatore, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, con riferimento al negozio transattivo, ricalca qui voluta- mente una critica portata avanti da X. XXXXX, Introduzione al diritto comparato 5, Torino, 1992, p. 47.
A quest’Autore si deve la fortunata introduzione del termine «formanti», nel lessico giuridico, per indicare i compo- nenti (di questo secondo e più generico significante, in luogo del sostantivo tratto dalla fonetica, l’Autore [p. 51 nt. 1] aveva fatto uso sino al 1979) del sistema giuridico e ciò rende, di per sé, evidente l’importanza della «critica» ri- chiamata. Tuttavia una considerazione di ordine logico si frappone immediatamente tra noi e colui che è, fondata- mente, considerato uno dei padri della scienza comparatistica italiana. Scrive infatti Xxxxx che la tendenza a vedere nel sistema «una volontà del legislatore, che crea la norma, e una dottrina ed una giurisprudenza, che interpretano e applicano questa volontà» rappresenterebbe un «iter logico» non fruibile dal comparatista: ciò non è, a nostro pare- re, pienamente condivisibile.
Quest’iter logico, infatti, non è fruibile, e mai dovrebbe esserlo, al giurista «tout court». Dall’impostazione di Rodol- fo Sacco sembra trasparire, la convinzione che le branche più tradizionali (e, talora anche, tradizionaliste) della scienza giuridica custodirebbero un’illusione: che la legge rappresenti ormai l’unico centro di creatività normativa all’interno di un sistema, capace di annichilire il ruolo di dottrina e giurisprudenza (ma anche, aggiungiamo noi, della prassi negoziale «quotidiana»). Per questo la comparazione si leverebbe a svelare l’erroneità di un simile con- vincimento. A nostro dire, contra, è la stessa esperienza giuridica romana ad insegnare non solo il valore, ma anche l’efficacia, di un sistema all’interno del quale lo ius controversum (splendido ossimoro) era la regola.
Lo studio del diritto («tout court», non del solo diritto romano, del diritto civile o dei fondamenti del diritto euro- peo) condotto con metodo storico, cui questa ricerca aspira a contribuire, testimonia proprio la bimillenaria vivacità creativa dei molteplici componenti del sistema giuridico anche se, ed in ciò sembra delinearsi una ulteriore differen- za rispetto al punto di vista del giurista torinese ricordato, questo risultato speculativo non ci consente di esimerci dal rilevare come sia necessario, in nome dei principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dalla carta costituzio- nale, rispettare il ruolo che il primato della legge, frutto e successo di una secolare evoluzione, ha, d’ufficio, asse- gnato alla scienza giuridica ed ai giudici. Può essere utile a chiarire questa nostra posizione il confronto, proprio in tema di transazione, con il pensiero di P.G. MONATERI, Questioni generali in materia di transazione, in «La transazione nella prassi interna ed internazionale» − cur. X. XXXXXXXX −, Padova, 2000, p. 38. L’Autore esordisce affermando
che oggi nessuno più dubita della natura contrattuale della transazione, quindi aggiunge che «è vero che è lo stesso codice civile a qualificare la transazione come contratto. Ma in un paese di civil law questa circostanza non è decisi- va» perché il legislatore può qualificare la transazione come un contratto, «ma occorre poi verificare che su tale con- figurazione siano d’accordo la dottrina e la giurisprudenza». La posizione, a nostro parere evidentemente debitrice nei confronti dei risultati raggiunti da Xxxxx, conduce l’Autore a proseguire osservando che «Xxxxxxxxxx non era af- fatto d’accordo nel qualificare la transazione come un contratto, ma è prevalsa l’opinione contraria di Xxxxxxx- Xxxxxxxxxx, secondo cui è un contratto. Quali sono le conseguenze di tale posizione? La prima conseguenza è quella per cui l’accordo è sottoposto alle regole contrattuali di ermeneutica, e, dunque, agli art. 1362 ss. c.c.» Se ben com- prendiamo la posizione dell’Autore e ci è concesso riassumerne i contenuti, l’elemento decisivo nell’inquadramento della transazione fra i contratti non è tanto la lettera del codice, ma la convergenza venutasi a creare nell’ambito dell’interpretazione dottrinale.
Di fronte all’univocità di simili affermazioni sorge in noi qualche interrogativo (il diritto posto dal legislatore, espressione [almeno oggi] dei cittadini attende la conferma della dottrina per dispiegare la propria efficacia? Al be- neplacito della scienza giuridica si ricollega l’applicazione della disciplina contrattuale generale anche alla transazio- ne? Nel caso in cui l’unanimità circa la natura della transazione non fosse stata raggiunta in dottrina, in che modo il cittadino interessato a concludere una transazione potrebbe conoscere quale disciplina ermeneutica si applicherà al negozio?). Le notazioni di Monateri ci paiono decisamente estreme, in quanto basate su di una svalutazione del ruolo del legislatore potenzialmente dannosa, e, in certa misura, fuori bersaglio: riteniamo infatti che l’auspicabile rivalutazione del ruolo della dottrina e della giurisprudenza non passi attraverso lo svilimento di quello della fonte legislativa, né attraverso la sottovalutazione di quanto possa offrire, specie in termini di suum cuique tribuere, una rigo- rosa attività ermeneutica condotta sulle norme dettate dalla costituzione e dalle fonti che essa legittima. Per questo ci pare preferibile la posizione di X. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto secondo Xxxxxxx : una dottrina da riconsiderare, in «Roma e America. Diritto romano comune», VII, 1999, p. 56, secondo il quale «lo studioso del diritto è vincolato alla disci- plina giuridica posta legislativamente ai vari livelli (costituzionale, comunitario, nazionale, etc.)». Anche se, di nor- ma, «il vincolo non si estende alle categorie giuridiche enunciate dal legislatore e al sistema da lui delineato», ciò è vero «salvo in quanto (nei limiti in cui) essi coinvolgano la disciplina disposta». Cfr., per una concreta applicazione di questo criterio, X. XXXXX, Norme penali e norme eccezionali nell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, in «Rivista
O per lo meno dovrebbe essere legittimo aspettarsi di faticare poco nello svolgere questo compito.
Si rimane quindi francamente sorpresi (e, sotto il profilo dell’indolenza insoddisfatta, delusi) nello scoprire come a fronte di una tradizione codicistica apparentemente salda nel considerare la transazione un contratto consensuale – caratterizzato, per quanto concerne il contenuto, dalla ne- cessità che tutte le parti coinvolte siano gravate dell’onere di una attività od omissione transigendi cau- sa – la giurisprudenza e la dottrina si siano rese protagoniste di significativi slanci d’autonomia. Spesso questi slanci si sono trasformati in autentici, seppur impliciti, ammutinamenti, verso le re- gole riguardanti l’interpretazione della legge in generale, premesse al codice del 1865 come a quello del 1942 4, e, considerati sotto una diversa angolazione (quella meramente speculativa), hanno rap- presentato, e rappresentano tuttora, i sintomi della vitalità di costruzioni dogmatiche che la vincente tradizione contrattuale, mutuata dal «Code Napoléon», non è riuscita a soffocare. Si tratta addirittu- ra – se individuiamo correttamente la causa di quest’ultimo fenomeno – di costruzioni capaci, in tempi a noi più prossimi, di influenzare potentemente anche il governo (nell’occasione legislatore supplente), impegnato a modificare parzialmente, mediante una novella di natura regolamentare, la disciplina inerente la transazione all’interno di contesti circoscritti, propri della disciplina giuslavori- stica.
2. La transazione è definita 5 e disciplinata, nell’ordinamento vigente, dagli art. 1965-1976 cod. civ. it. (1942) 6, raccolti nel Capo XXV, sotto la rubrica «Della transazione». Oltre a questa specifica re-
di Diritto Civile», XLVII, I, 2001, p. 2 nt. 3.
4) Condividiamo le critiche mosse a Xxxxxxx xx XXXXX, Norme penali, cit., p. 2 nt. 3, quand’egli afferma che «il distacco dai dati legislativi ha portato lo studioso a posizioni palesemente in contrasto col sistema vigente». Ci per- mettiamo di aggiungere che, se una tale operazione è in minima parte giustificabile con la funzione di fucina delle proposte de iure condendo, che la dottrina necessariamente deve rivestire nel sistema per svolgere un ruolo pienamente utile ed efficace, la medesima spiegazione non vale per tutte le sedi e le occasioni in cui la dottrina non formula sif- fatte proposte, ma gabella la propria eterodossia per interpretazione, fornendo il sostrato logico-argomentativo di cui le corti, verosimilmente, si servono per individuare in via ermeneutica, talora stravolgendo significativamente le fonti, le norme da applicare.
5) Xxxxxx, forse troppo, giudizi riguardo all’attività definitoria svolta nell’occasione dal legislatore, si rinvengo- no in X. XXXXX, Intorno alla natura della transazione, in «Rivista di Diritto Commerciale», XLVII, 1950, p. 453; più mediato il punto di vista di X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, La transazione. I 2, Napoli, 1963, p. 4 che non manca di ricono- scere all’articolo in esame la dote d’indicare con precisione, per lo meno, la funzione della transazione. Cfr. sul punto anche X. XXXXXXXXX, Il problema delle definizioni nel codice civile, Torino, 1977, passim e in particolare p. 106 ss.
6) Per la dottrina fiorita sul codice vigente, senza pretesa di esaustività, si vedano: X. XXXXXXX, Il negozio d’accertamento, Torino 1942; E. VALSECCHI, Transazione e negozio d’accertamento, in «Riv. Dir. Comm.», XLI, 1944, p. 181 ss., X. XXXXX, Accertamento convenzionale e confessione stragiudiziale, Firenze, 1948, specialmente p 62 ss., X. XXXXXXXXX, Della transazione, in «Commentario del codice civile. Libro delle obbligazioni II, Dei contratti speciali» − cur. X. X’XXXXXX, E. FINZI −, Firenze, 1949, p. 448 ss., FURNO, Intorno alla natura della transazione, cit., p. 453 ss., X. XXXXXXXXXX, La transazione è un contratto?, in «Rivista di Diritto e Procedura Civile», I, 1953, p. 185 ss., E. VAL- SECCHI, Ancora sulla natura della transazione, in «Riv. Dir. Comm.», XLVII, 1950, p. 468 ss., Gioco e scommessa. Transa- zione, in «Trattato di diritto civile» − cur. X. XXXX, X. XXXXXXXX −, XXVII.2, Milano, 1954, p. 139 ss., X. XXXXXXX, La transazione, in «Trattato di diritto civile» (X. XXXXXXXX), Torino, 1956, R.A. CAPOTOSTI, L’alea nella transazione, in
«Foro It.», I, 1957, c. 1126, X. XXXXXXXX, Appunti sulla natura e sul concetto di transazione, in «Annali Bari», XV, 1958, p.
157 e ss., X. XXXXXXX, ‘Transazione (diritto vigente) ’, in «NNDI.», XIX, Torino, 1973, p. 481 ss., XXXXXXX- XXXXXXXXXX, La transazione, I, cit., L.V. MOSCARINI, La transazione mista, in «Studi in onore di X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx», XXX, Xxxxxx, 0000, p. 449 ss., P. X’XXXXXXX, Della transazione, in «Commentario del codice civile» 2 − dir. X. XXXXXXXX, X. XXXXXX −, Bologna-Roma, 1974, p. 219 ss., X. XXXXXXX, La transazione 2, in «Giurisprudenza Sistema- tica civile e commerciale» − dir. X. XXXXXXX −, Torino, 1980, p. 353 ss., X. XXXXXX, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell’obbligazione, in «Raccolta di scritti», I, Milano, 1980, 382 ss., X. XXXXXXXX, Composizione della lite e tutela dei creditori, I, La transazione, Milano, 1980, A. PALAZZO, La transazione, in
«Trattato di diritto privato» − dir. X. XXXXXXXX x, XXXX, Xxxxxx, 0000, 295 ss., E. XXXXXXXXX, Transazione e cessazione
della comunione, in «Riv. Dir. Comm.», II, 1987, p. 37 e ss., X. XXXXXXXX, La contestazione della transazione, in «Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile», 1990, p. 413 ss., Della transazione, in «Codice civile annotato»2 − cur. X. XXXXXXXXXXX −, Libro IV, Bologna-Napoli, 1991, p 1607 ss., E. DEL PRATO, La transazione, Milano, 1992, ‘Transa-
golamentazione, che non casualmente trova posto nella parte conclusiva del libro IV, dedicato alle obbligazioni 7, il contratto di transazione (così qualificato dal codice proprio all’art. 1965 8, I c.) viene in altri tre luoghi, del vigente codice civile (1942), esplicitamente richiamato:
– dall’art. 764, II c., in tema di rescissione della divisione o di negozi ad essa affini (essendo esclusa la rescissione del negozio avente effetti analoghi a quelli della divisione quando questo sia, in realtà, una transazione);
– dall’art. 1350, n. 12, ove la transazione è inclusa fra i contratti per i quali è richiesta ad substantiam
la forma scritta, qualora essa crei, modifichi o estingua un diritto reale;
– dall’art. 2113, nella regolamentazione di rinunce e transazioni intercorse fra dipendenti e datori di lavoro 9.
All’interprete balza agli occhi, immediatamente, un dato rilevante.
Sembra abbastanza riconoscibile, storicamente, un certo imbarazzo 10 del legislatore di fronte
zione ’, in «ED.», XLIV, Milano, 1992, p. 813 ss., ove utilmente una ricca bibliografia alfabeticamente ordinata (p. 866), X. XXXXXXX, La transazione nella giurisprudenza, Milano, 1993, L.V. XXXXXXXXX, X. XXXXX, ‘Transazione 1) Di- ritto civile ’, in «Enciclopedia Giuridica», XXXI, Roma, 1994, X. XXXXXXXX XXXXXXX, La transazione novativa, Milano, 1996, A. PALAZZO, ‘Transazione ’, in «Digesto delle Discipline Privatistiche. Sezione civile», XIX, Torino, 1999, 386 ss. (cui adde utilmente la bibliografia premessa), X. XXXXX, L’oggetto della transazione, Milano, 1999, «La transazione nella prassi interna ed internazionale» − cur. X. XXXXXXXX −, Padova, 2000, e X. XXXXXXXX, La transazione, Padova, 2001.
Una rassegna della dottrina fiorita sul codice civile del 1942 è in GITTI, L’oggetto della transazione, cit., p. 23 nt. 64, del quale si rivela utile, per uno sguardo d’insieme, la diligente disamina delle dottrine dei più autorevoli autori dedicati- si (sotto l’impero del vecchio come del nuovo codice) alla transazione. Per quanto concerne gli apporti più risalenti, e comunque antecedenti al 1933, si veda l’ordinata e ampia bibliografia premessa al proprio lavoro da X. XXXXXX, La definizione dei rapporti incerti I. Delle transazioni, Torino, 1933.
7) La non casualità della scelta sistematica è una deduzione che fondiamo sul fatto che la dottrina precedente al codice del 1942 appare percorsa da diversi orientamenti riguardo all’inquadramento dell’istituto, esaurientemente tratteggiati e sintetizzati dal BUTERA, La definizione dei rapporti incerti, cit., p. 9. Una simile varietà di vedute, in verità, risulta poco rispettosa della definizione e dell’inquadramento sistematico (formalmente univoci) dati all’istituto dal codice del 1865, ma è implicitamente riconosciuta come un dato di fatto, dovuto anche all’ambiguità individuata nella precedente disciplina codicistica, dalla relazione ministeriale al nuovo codice (Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile preceduta dalla Relazione al disegno di legge Sul «Valore giuridico della Carta del lavoro», in «Gazzetta Ufficiale», LXXXIII, 79bis, 4 aprile 1942, p. 172 n. 772). Per la verità, val la pena di anticiparlo, se non proprio i medesimi, xxx- xxxxx, critici, fermenti nei confronti dell’art. 1965 vigente, è dato riscontrare, sin dal titolo in CARNELUTTI, La tran- sazione è un contratto?, cit., p. 185 ss. Riguardo alla collocazione sistematica del Capo XXV, cfr. infra, nt. 8 e nel testo.
8) Giova senz’altro ribadirlo a fronte di un atteggiamento, oggettivamente e consapevolmente contra legem nel riconoscere un inquadramento non del tutto sovrapponibile a quello legislativo, tuttora presente in dottrina (il rife- rimento è alle parole di DEL PRATO, La transazione, cit., p. 1 s., riguardo al ruolo della causa transattiva nei confronti delle prestazioni scaturenti da fattispecie di transazione complessa o mista: «la nozione fornita dall’art. 1965 cod. civ., secondo cui ‘la transazione è il contratto col quale le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere fra loro’, non individua un tipo contrattuale in base al contenuto di una od entrambe le prestazioni, ma descrive una funzione assolvibile da qualsiasi prestazione di cui le parti possono disporre: porre fine ad una lite già incominciata o prevenire una lite che può sorgere»). Storico al- fiere della natura non contrattuale della transazione disciplinata nel nuovo codice fu CARRESI, La transazione, cit., p. 42 e 51 ss. Sulla questione cfr. anche FURNO, Intorno alla natura, cit., p. 452 ss. e la risposta alle posizioni di quest’ul- timo, in una «querelle» che per la verità riguardava più gli elementi essenziali della transazione che non l’inqua- dramento sistematico della stessa, di VALSECCHI, Ancora sulla natura, cit., p. 468 ss.: anche quest’ultimo è storica- mente annoverato tra i sostenitori della natura dichiarativa della transazione.
9) Parzialmente novellato dall’art. 3, II c., del D.P.R. n. 120 del 23 marzo 1988 (cfr. infra, nel testo). La norma trova il proprio corrispondente, in diritto agrario, nell’art. 23, L. 11 febbraio 1971, n. 11, in base al quale «le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti dell’affittuario derivanti dalla presente legge e da ogni altra legge, na- zionale o regionale, non sono valide» (comma 1). «Sono validi – peraltro – tra le parti, anche in deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari, gli accordi anche non aventi natura transattiva, stipulati fra le parti stesse in materia di contratti agrari con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole maggiormente rap- presentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali..» (comma 3).
10) Solleva senz’altro lo spirito, pur contenendo una profonda verità, un’espressione cara a X. XXXXXXXXX, Della transazione secondo il diritto romano, Torino, 1900, p. 115: «Leggendo la trattazione rapida che ne fanno diversi manuali, la transazione ci apparisce come l’ospite sgradito che si sfama in fretta e furia per esserne presto liberati.
alla «sfuggente» materia transattiva (o per lo meno la sua difficoltà nell’individuare un inquadra- mento sistematico tanto soddisfacente da meritare di consolidarsi in una tradizione), emergente dalla collocazione riservata ex rubrica alla disciplina della stessa. Si tenga presente infatti che nel co- dice del 1865 il titolo XII dedicato alla transazione trovava posto fra la trattazione del mandato e della costituzione di rendita 11, mentre nel codice vigente la disciplina dedicata al negozio transattivo è contenuta fra il Capo XXIV dedicato all’anticresi ed il capo XXVI dedicato alla cessione dei beni ai creditori. Ci sembra di poter notare che la transazione è oggi topologicamente inserita tra due modi di estinzione delle obbligazioni 12 (pur non essendolo 13, a sua volta, se non in una sua sotto-
Per parte nostra, crediamo di non ingannarci soggiungendo che la malferma posizione della transactio nel sistema ha contribuito all’omissione completa di essa in vari trattati elementari …». Non temiamo smentita nel sostenere che le stesse osservazioni hanno piena validità anche oggi, ad ormai quasi duecento anni dall’inquadramento della transa- zione fra i contratti operata dal «Code civil des Français» [1804] (art. 2044 e ss). Ebbene la problematica posizione occupata dal negozio in esame, nella più recente codificazione unitaria italiana avvalora questo rilievo, in uno con la considerazione di come la dottrina attuale sembri trascurare l’indagine dei problemi sistematici suscitati dalla transa- zione e di come, alla scienza civilistica post 1942, la collocazione del Capo XXV non paia aver offerto nessun moti- vo di riflessione degno d’approfondimento.
11) Sull’inquadramento sistematico della transazione nel primo codice civile unitario aveva pesato non tanto la tradizione del «Code civil des Français» (1804), all’interno del quale la materia transattiva ha ricevuto trattazione nel titolo V (art. 2044 ss.) che segue il titolo IV «Du cautionnement» (art. 2011 ss.), quanto piuttosto l’elaborazione dottrinale, in particolare di C.S. ZACHARIAE, Handbuck des Französiscken Civilreckts 5, Heidelberg, 1839, II, trad. fr. – Cours de droit civil français –, cur. X. XXXXX, F.-X. XXX, Strasbourg, 1839-1846, II, trad. it. da quella francese – Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxx xxxxxxxx –, Xxxxxx, 0000, III, p. 197 ss., e Napoli, 1868, cur. F. XXXXXX, p. 52 ss., il cui contributo alla for- mazione dell’attuale definitio codicistica sarà oggetto di particolare indagine nei prossimi paragrafi. L’Autore renano infatti includeva la transazione tra i contratti di garanzia (insieme a fideiussione, pegno, ipoteca e arresto conven- zionale) e ne trattava immediatamente dopo aver concluso il paragrafo dedicato all’estinzione del mandato all’interno del suo manuale che tanta considerazione trovò nella dottrina civilistica italiana dell’Ottocento. E’ però necessario effettuare alcune ulteriori precisazioni riguardo a quest’opera. L’ «Handbuck des französiscken Civilreckts» nella sua V ed. (1839) venne tradotto in francese e migliorato col consenso dell’Autore dai professori Xxxxx e Rau dell’Università di Strasburgo. Questi, esponenti dell’ «école de l’éxegèse», negli anni successivi curarono diverse ul- teriori edizioni del «Cours de droit civil français», mutandone gradualmente il carattere da traduzione ad opera au- tonoma: una trasformazione ch’è evidente nella terza edizione, pubblicata fra il 1855 e il 1866. In ogni caso le tra- duzioni italiane citate – due delle sette che l’opera ebbe nella penisola nel corso del solo ’800 – fanno tutte riferi- mento alla prima edizione francese (1839-46), che, come precisato, presenta ancora i caratteri di una traduzione, pur
«riveduta e aumentata». Cfr. X. XXXXXXXX, ‘Xxxxx Xxxxxxx ’, in «NNDI.», I2, Torino, 1958, p. 0000, ‘Xxx Xxxxxxxx- Xxxxxxx ’, xx «NNDI.», XIV, Torino, 1967 (rist. 1980), p. 908, X. xXXXXX-XXXXXXXXX, ‘Zackariae von Lingentkal Xxxx Xxxxxxx ’, in «NNDI.», XX, Torino, 1975, p. 1094.
12) Con anticresi (art. 1960 cod. civ. it. [1942]) e cessione di beni ai creditori (art. 1977 cod. civ. it. [1942]) si fa infatti riferimento, in un modo unitario che riteniamo condivisibile, a situazioni di «soggezione volontaria alle con- seguenze della responsabilità patrimoniale» (l’espressione, felice, è presa a prestito da X. XXXXXXXXX, Istituzioni di di- ritto civile 39, Padova, 2000, p. 615) il cui comune denominatore è la funzione satisfattoria, anche se ciò è stato posto in discussione per lo meno con riferimento all’anticresi (cfr. infra, nel testo e nt. 17): in ogni caso con riferimento ad anticresi e cessione dei beni la gamma di inquadramenti possibili è ristretta a due caratteristiche funzionali, vale a di- re la garanzia o la soddisfazione dei creditori. Certamente lo stesso non può dirsi della transazione. Infatti il Tra- xxxxxx dedica a queste due fattispecie un paragrafo inserito nella trattazione della tutela del credito e delle garanzie dell’obbligazione ben lontano dal § 361, dedicato alla transazione e collocato in apertura dell’organica disamina de- dicata ai «contratti diretti alla soluzione di controversie», ove l’oggetto della nostra ricerca si trova in compagnia del compromesso, anche se l’inquadramento sistematico del Trabucchi non è condiviso da tutta la dottrina (e trattan- dosi di transazione, occorre dirlo, ci si stupirebbe del contrario).
Il filone più consistente fra gli autori di manuali è quello che tratta la transazione unitamente alla cessione dei beni, ma separatamente dalla anticresi: X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto privato 12, Milano, 1998, p. 499 ss., trattando dei contratti diretti a dirimere controversie (cap. LXVIII) si occupa di transazione e cessione dei beni ai creditori. In questa direzione anche X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato 16, Milano, 1999, p. 606 ss., che se- para le trattazioni dell’anticresi e della cessione dei beni ai creditori, inserendo la prima fra i contratti diretti a costi- tuire una garanzia ed includendo la seconda invece nel gruppo dei contratti diretti a dirimere una controversia in- sieme alla transazione, seguito su questa rotta da X. XXXXXXXXXXXXX, Xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxxx 0, Xxxxxx, 2000, p. 1065 ss., il quale peraltro aggiunge alla transazione (§ 290) ed alla cessione dei beni (§ 292) il sequestro convenzio- nale (§ 293), il cui ruolo fra i «contratti per la soluzione di controversie» (titolo, appunto, del capitolo in esame, il
IX) ci risulta ancora più oscuro di quanto non sia quello della cessione dei beni. Benché infatti appaia diffuso in
specie, la cd. transazione novativa) aventi sì natura contrattuale, ma nei confronti dei quali, in modo particolare per la sua funzione (l’eliminazione o la prevenzione di una controversia e non certo, semplicemente, l’estinzione di un’obbligazione o tanto meno la garanzia della stessa), non presenta segni di omogeneità 14.
Unico «trait d’union» fra le tre figure, quindi, il dato linguistico costituito dall’impiego del si- gnificante «contratto» nelle rispettive definitiones.
In effetti, non ci pare che qualche ulteriore elemento accomuni gli ultimi tre capi del III titolo del IV libro (XXIV, XXV, XXVI) e, per questa ragione, il fatto che essi siano trattati contiguamente dal legislatore del 1942 si presenta allo studioso come un fatto carente di elementi intrinseci di giu- stificazione. Ora, non si vuol certo sostenere che il legislatore sia obbligato a muoversi sempre se- condo linee sistematiche chiare e soprattutto lineari per logica, tuttavia la sensazione, che il posto ri- cavato per la transazione denoti un certo disagio (analogo a quello che sembra di poter dedurre dalla constatazione dell’inserimento del contratto di donazione nel libro I), emerge dalla struttura del codice vigente. L’indagine dei presupposti materiali, delle rispettive funzioni e dell’aspetto strut- turale dei tre istituti può contribuire a rendere ancora più evidenti i fondamenti delle considerazioni appena svolte.
L’anticresi e la cessione di beni ai creditori presuppongono l’esistenza di un precedente rap- porto obbligatorio fra i contraenti: viceversa questo può ben mancare nella transazione in cui unico, generico 15, presupposto è la lite attuale o potenziale 16.
dottrina il convincimento che la cessione dei beni ai creditori sia un contratto volto a dirimere una controversia, non ci pare che una simile posizione possa essere condivisa, stante il fatto che il contratto disciplinato dagli art. 1977 ss. mira ad evitare l’avvio di una procedura esecutiva su istanza dei creditori, non ad eliminare una situazione attualmente o potenzialmente litigiosa. Presupposto della cessione dei beni ai creditori è infatti che il credito van- tato nei confronti del cedente sia stato accertato giudizialmente o per lo meno da questi riconosciuto: risulta quindi illogico pensare ad una controversia da scongiurare mediante il contratto, giacché manca del tutto la res dubia di ul- pianea memoria. Diversamente dagli altri autori, X. XXXXXXX, Diritto privato 7, Padova, 1999, p. 627 ss., tratta della transazione, dell’anticresi, della cessione dei beni ai creditori e del sequestro convenzionale nello stesso capitolo, in- dicato con la rubrica «I contratti nelle liti», a nostro parere non felicissima, data la superfluità di un conflitto in cor- so per l’impiego del contratto di anticresi o della cessione dei beni ai creditori. Anche X. XXXXX, Istituzioni di diritto privato, Torino, 1999, p. 644, utilizza quest’ultima rubrica per il capitolo dedicato, però, solo alla transazione ed alla cessione dei beni ai creditori.
L’excursus proposto non presenta, e non intende presentare, caratteristiche di completezza né di elencazione né, tantomeno, di disamina, ma semplicemente fare cenno a quelli che sono oggi i manuali di riferimento per i corsi di istituzioni di diritto privato nella soverchia maggioranza delle facoltà di giurisprudenza italiane, onde metterne in lu- ce un carattere ben preciso: nessuno dei testi presi in considerazione, ad eccezione di quello del Xxxxxxx, rispetta la sistematica del codice civile. Il dato è significativo alla luce del fatto che emerge come l’unico negozio sicuramente costruito per dirimere le controversie sia la transazione (e il dato si deduce anche dalla possibile, rudimentale colla- zione dei manuali citati): per quanto concerne le altre figure ad essa da taluno accostate si assiste alla più ampia fluttuazione, giacché nel raggruppamento di volta in volta coniato, entrano figure assai diverse, dal sequestro al compromesso. Il guasto è frutto forse dell’incoerenza sistematica, che già X. XXXXX, Il quarto libro nel quadro del pro- getto del codice civile, in «Scritti giuridici in onore di Xxxxx Xxxxxx», IV, Padova, 1940, p. 31 ss., lamentava con riferi- mento al libro IV del futuro codice: la stessa che concorre forse a spiegare, a distanza di quasi sessant’anni, le oscil- lazioni poste in luce, rivelando così l’attualità di un’istanza sistematica che il legislatore non può sottovalutare, per lo meno quando si avventuri nella riforma o nella sistemazione degli istituti privatistici di più antica origine.
13) In effetti l’estinzione delle obbligazioni è risultato tipico della cosiddetta transazione novativa, che costitui- sce senz’altro una species rispetto al genus transactionis così come lo stesso dettato codicistico (art. 1976) sembra inten- dere. E’ infatti fuor di dubbio, in dottrina, che non ogni transazione sia novativa, ragion per cui permangono le perplessità inerenti la collocazione della trattazione dedicata alla transazione nel codice civile. Sul punto negli anni si è sviluppato il dibattito alimentato da una folta dottrina ripercorsa dalla XXXXXXXX XXXXXXX, La transazione novativa, cit., p. 8 ss. (nt. 1-6) nel suo recente lavoro dedicato a questa fattispecie.
14) Vale la pena di anticipare come questa parte della nostra ricerca tenterà di offrire una chiave di lettura an- che di questo fenomeno. E’ possibile, anche se riteniamo invero poco probabile, che l’inquadramento sistematico della transazione nel vigente codice sia stato influenzato dal modello dell’ «ABGB.», nel quale la transazione viene appunto trattata come specie rientrante nel genus novazione: sul punto cfr. infra, nt. 54.
15) Genericità che emerge dal raffronto fra il presupposto di una non meglio definita situazione attualmente o
Per quanto concerne l’aspetto funzionale, sebbene sia lecito osservare che «è dubbio se l’an- ticresi abbia funzione satisfattiva, o assicurativa, o mista» 17, per la cessione di beni ai creditori la funzione solutoria/satisfattoria sembra ormai essersi definitivamente affermata. In modo affatto di- verso, nella transazione la causa è individuata (anche se oggi questo concetto si presenta talora più approssimato 18 che in passato) 19 nell’eliminazione di una controversia, o di un rischio-controversia,
potenzialmente controversa e quello di un rapporto necessariamente di natura obbligatoria.
16) Si sono avvicendati in dottrina diversi orientamenti riguardo al reale definiendum corrispondente al termine
«lite» utilizzato dal legislatore nella formulazione dell’art. 1965. Ci pare resti valida a tutt’oggi la mediata definizione di lite offerta da X. XXXXXXXXX, Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza 2 − cur. X. XXXXXXXXXXX −, IV.2, Bologna, 1991, p. 1607: «la nozione di lite deve ritenersi coincidente con quella di conflitto giuridico, quale si de- termina tra una parte che afferma un proprio diritto ed un’altra che afferma un proprio diritto contrapposto o, co- munque, nega il diritto della prima. […] Di conseguenza, la distinzione tra la lite, intesa come conflitto giuridico, ed il conflitto meramente economico o di semplici interessi può così cogliersi: la lite investe il regolamento di una si- tuazione che si assume già disciplinata dal diritto, il conflitto economico determina le parti a regolare contrattual- mente i loro interessi». La chiusa della classificazione citata pare certamente meno felice dell’apertura, poiché sem- bra lasciare la transazione al di fuori dell’ambito contrattuale, contra codicem: risulta tuttavia impossibile attribuire con
certezza questo atteggiamento ad una costruzione extracontrattuale della transazione da parte dell’Autore. Le parole di Xxxxxxxxx testimoniano la resistenza, oltre che dell’ordinamento italiano, anche di una consistente parte della dottrina, all’introduzione al di qua delle Alpi del requisito della «Ungewißheit», mediante il quale una parte dei giuri- sti continentali diede una originale e fortunata lettura della ‘res dubia ’, necessario oggetto del ‘transigere ’ in base a D.
2.15.1. La storia del sorgere e dell’affermarsi di questo concetto in Germania, in evidente contrapposizione all’appiattimento della transazione sul piano della lite processuale determinato dalla tradizione inaugurata dal codice civile francese, è nitidamente ricostruita da GITTI, L’oggetto della transazione, cit., p. 14 ss. La dottrina nazionale ha molto discusso sull’opportunità di riconoscere una valenza giuridica al requisito della res dubia, inducendo tra l’altro la suprema corte ad offrire, in diversi momenti, alcuni elementi per una (superflua, stando alla lettera del codice) de- finizione di res dubia.
E’ appena il caso di osservare che al successo della teoria basata sulla necessità di riconoscere una compiuta auto- nomia ai negozi di accertamento, cui è conseguita l’introduzione dell’incertezza tra le situazioni del reale, cui le parti possono rimediare mediante una transazione, è stato favorito, per quanto riguarda la disciplina del «Vergleichsver- trag» che qui interessa e trova considerazione nel § 779 «BGB.» (cfr. infra, nt. 114), dal fatto che in Germania a dif- ferenza dell’Italia transazione («der Vergleich») e transazione processuale («der Prozeßvergleich») abbiano, sin dalla promulgazione del «BGB.» e del «ZPO.», goduto di piena autonomia.
17) Così X. XXXXXX, L’anticresi, in «Giurisprudenza sistematica civile e commerciale. Sequestro convenzionale Fideiussione Mandato di credito Anticresi Transazione Cessione di beni ai creditori » − cur. X. XXXXXXX −, Torino, 1980, p. 268.
18) Ci sia concesso l’aggettivo utilizzato in ragione del disagio che sembra trasparire, in una recente monogra- fia sull’oggetto della nostra ricerca, proprio in relazione alla funzione della transazione. DEL PRATO, La transazione, cit., p. 1, scrive infatti (come già ricordato supra, nt. 8) che la nozione codicistica del contratto di transazione «non individua un tipo contrattuale in base al contenuto di una od entrambe le prestazioni, ma descrive una funzione as- solvibile da qualsiasi prestazione di cui le parti possano disporre»: il tenore atecnico dell’espressione utilizzata dall’Autore non riesce nell’intento di celare le difficoltà di fronte alla transazione, la quale è spesso causa di altri ne- gozi (che rispetto ad essa, a nostro parere, sono in realtà oggetto) non astratti: è il caso, ad esempio, della compra- vendita conclusa sul bene oggetto di una controversia ad un prezzo minore di quanto originariamente richiesto, ma superiore a quanto l’acquirente-litigante si fosse detto, in prima battuta, disposto a pagare. Del Prato manifesta il di- sagio del giurista di fronte ad una figura negoziale che non può stare a sé ma abbisogna di atti, negozi o addirittura contratti che ne costituiscano il corpo e le diano sostanza ontologica: e, in verità, non è in questo il primo, poiché già CARNELUTTI, La transazione è un contratto?, cit., p. 185, scriveva che «L’ambiguità sta in ciò che la transazione non è mai sola. Una donazione, una locazione una vendita sta a sé; una transazione, no. La donazione esclude la loca- zione: la transazione invece implica qualcos’altro. A titolo di transazione si vende, si dona, si dà in affitto qualche cosa. In tali casi il contratto è vendita, donazione, locazione o transazione? Oppure sono due contratti collegati? O è un contratto solo?». Tutto ciò nonostante la presunzione, evidentemente rimasta tale, manifestata dal ministro Xxxxxx (Relazione del ministro, cit., p. 172 n. 772), secondo il quale il nuovo codice aveva definitivamente dissipato i dubbi sulla natura della transazione, ancora annidati nella disciplina del codice precedente nel quale «pur essendosi affermata la natura contrattuale della transazione, vi erano traccie della vecchia concezione che considerava la tran- sazione come una causa generale di acquisto» (cfr, infra, § 7, nt. 172). A fronte di ciò due sono le interpretazione possibili: o il Del Prato non ha tenuto in conto il tenore letterale dell’art. 1965 (anche in considerazione del non inarrivabile livello tecnico della sua formulazione) e la relazione del Guardasigilli al codice, oppure egli appalesa l’indipendenza della dottrina nell’evolvere i propri schemi secondo una tradizione sostanzialmente impermeabile anche all’innovazione legislativa, come riteniamo, infra, nel testo, di poter testimoniare. Non ci pare pertanto di po-
per mezzo di reciproche concessioni.
Le rispettive funzioni negoziali si presentano quindi nettamente distinte ed agevolmente di- stinguibili, anche se un fragile tratto unificante può forse intravedersi fra transazione e cessione di beni ai creditori, con riguardo ad una comune caratteristica. Entrambi i negozi infatti presentano un duplice livello funzionale: una causa teleologica20 (soddisfazione dei creditori a fronte dell’eli- minazione di una controversia) diversa dalla causa del negozio (quella del mandato nella cessione dei beni 21, a fronte di quella d’una serie di possibili atti negoziali transigendi gratia nella transazione) immediatamente posto in essere con l’obiettivo, naturalmente, di perseguire quello che ci sembra calzante definire come l’interesse determinante22.
Per quanto concerne la struttura del contratto, va premesso che l’anticresi presenta una intrin- seca ambiguità, già rilevata, dovuta sia alla contemporanea presenza di una funzione satisfattiva e di una funzione di garanzia, sia alla soddisfazione di quest’ultima mediante l’attribuzione di un diritto di godimento «con chiara destinazione estintiva del credito per interessi e, in subordine, per capita- li» 23. Ne consegue, anche nella dottrina più recente, che «la riscontrata ambiguità rende difficile di- stinguere l’anticresi non tanto […] dai diritti reali di garanzia in senso proprio, quanto dai diritti di godimento e dagli istituti che, come la dazione in pagamento (art. 1197 cod. civ. it. [1942]) realizza- no un’estinzione satisfattoria del credito» 24.
Dal canto suo, la cessione dei beni ai creditori presenta invece la struttura di un mandato irre- vocabile, caratterizzato dal determinare una perdita per il cedente della possibilità di stare in giudizio relativamente alle azioni patrimoniali che ai beni stessi si ricollegano 25, il cui contenuto risulta fis- sato dal dettato del codice civile, e pertanto ci sembra degna d’accoglimento la sua assimilazione ad un contratto di mandato, avente struttura, quindi, imperfettamente bilaterale.
La transazione, infine, può sì assumere connotati diversi da quelli propri della cosiddetta tran- sazione «pura», descritta dal I comma dell’art. 1965 26 (risultando così plasmata dalla struttura tipica dei differenti contratti tramite i quali la sua funzione è realizzabile 27), ma, a rigore, deve pur sempre
ter accogliere l’icastico rilievo di XXXXXXXX, Questioni generali, cit., p. 38, secondo il quale «per quanto riguarda la natura, nessuno più dubita che (scil. la transazione) sia un contratto». Un punto di vista basato sull’osservazione che sulle perplessità del Carnelutti sarebbe prevalsa la tesi contrattualistica portata avanti dal Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx (cfr. su- pra, nt. 3). L’Autore, in effetti, non pare prendere in considerazione, nel suo saggio, il punto di vista di Xxx Xxxxx né alcune recenti pronunce della corte di Cassazione (cfr. infra, nel testo).
19) Il Guardasigilli GRANDI, Relazione del ministro, cit., p. 172 n. 772, individuava senz’incertezze la funzione della transazione nella composizione della lite. In questa costruzione si riconosceva anche XXXXXXXXXX, La transa- zione è un contratto?, cit., p. 185, verosimilmente anche perché proprio quest’Autore aveva contribuito a determinarne la fortuna (cfr. X. XXXXXXXXXX, Studi di diritto civile, Roma, 1916, p. 494).
20) Mutuiamo la felice espressione dal X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico 2, in «Trattato di diritto civile italiano» − cur. X. XXXXXXXX −, XV.2, Torino, 1952, p. 174.
21) «Il contratto di cessione dei beni non ha effetto reale (cioè immediatamente traslativo della proprietà) dei beni ceduti, ma ha la natura caratteristica del mandato, di una specie di mandato che il legislatore ha ritenuto op- portuno tipizzare autonomamente in considerazione della peculiarità della causa»: così X. XXXXXX, ‘Cessione dei beni ai creditori ’, in «Dig. Disc. Priv. – Sez. Civ.», II, Torino, 1988, p. 280 e nt. 11, cui adde utilmente la ricca bibliografia ci- tata, in cui si dà conto anche delle, peraltro poche, opinioni critiche sul punto. La giurisprudenza della suprema corte ha contribuito alla vittoria dell’interpretazione della cessione dei beni con un «mandato irrevocabile, in quanto conferito anche nell’interesse dei mandatari»: Xxxx., Sez. III, 26 febbraio 1965, n. 319, in «Foro It.», I, 1965, c. 1259.
22) XXXXX, Teoria generale, cit., p. 178.
23) In questi termini XXXXX, ‘Anticresi ’, cit., p. 341.
24) Così ancora XXXXX, ‘Anticresi ’, cit., p. 341: sulla discutibilità dell’assimilazione di un contratto ai diritti che esso può far sorgere, riteniamo non sia questa la sede in cui pronunciarsi. Ci limitiamo a registrare l’evidente debo- lezza della costruzione dogmatica sottesa al pensiero citato, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso Autore nelle pagine precedenti definiva l’anticresi un contratto di garanzia a titolo oneroso.
25) In questi termini Cass. 26 febbraio 1965, n. 319, cit., supra, nt. 21.
26) Così definita da DEL PRATO, La transazione, cit., p. 25.
27) Nel comma 2 dello stesso art. 1965 si trova la sanzione legislativa di questa possibilità che risulta sfruttata, recentemente, dalla suprema corte (Cass., sez. III, 16 luglio 1998, n. 6980, in «Rep. Foro It.», 1998, ‘Contratti Agrari ’ [1710], n. 212; di questa – come di tutte le sentenze degli ultimi dieci anni, e di molte meno recenti, citate in seguito
presentare i caratteri essenziali di un contratto bilaterale 28. Questo, in base alla lettera del codice, deve necessariamente basarsi, prima di tutto, su concessioni reciproche 29, caratterizzate dalla natura di accoglimento p a r z i a l e e r e c i p r o c o delle pretese avanzate dalla controparte 30, an-
– è indicata la sezione della suprema corte autrice della decisione, onde consentire al lettore di scorgere e seguire più agevolmente gli orientamenti talora venutisi a formare in seno alle tre civili ed alla sezione lavoro) nell’affermare che nonostante il rapporto giuridico tra le parti si ricolleghi «al contratto di transazione, non è determinato nella sua natura da tale contratto, che è soltanto l’elemento genetico della sua costituzione o modificazione, restando qualifi- cato dalle situazioni giuridiche sostanziali che lo strutturano», per sostenere che «ove le parti a seguito di transazio- ne stipulata nel rispetto della legge in vigore, convengano sostanzialmente soltanto una ulteriore predeterminata du- rata del già vigente rapporto di affitto di fondo rustico a coltivatore diretto con la rinuncia, da parte dell’affittuario, della proroga legale e l’impegno al rilascio per una determinata data, il nuovo rapporto resta s t r u t t u r a t o e quindi, qualificato, come affitto di fondo rustico, con la conseguenza che ove sorga controversia deducendosi in causa tale rapporto, la competenza resta devoluta alla sezione specializzata agraria». In verità, la ripetuta afferma- zione della natura contrattuale della transazione sembra, in certo qual modo, depotenziata dalla sostanza della deci- sione. Cosa significherebbe infatti che la transazione rappresenta «l’elemento genetico» della costituzione del rap- porto giuridico se questo, al momento dell’accordo transattivo, è «già vigente» (trascuriamo di indagare cosa do- vrebbe significare l’espressione «rapporto vigente»), «resta strutturato» e «quindi qualificato come affitto di fondo rustico»? Quali effetti dovrebbero poi riconoscersi alla transazione se la suprema corte ritiene che possa nuova- mente sorgere una controversia su quel rapporto fonte della materia del contendere, ma sopravvissuto immutato nella struttura e nella qualificazione ad onta del contenuto dell’accordo transattivo? Si ha l’impressione che dietro l’ossequio per la lettera del codice (palesato dall’esplicito richiamo alla transazione come contratto) si celino una reale identificazione della stessa con una semplice causa negoziale e un certa disinvoltura nei confronti della disci- plina codicistica. Vale poi la pena di segnalare come la sentenza in esame appaia contrastare con i toni ed i conte- xxxx delle di poco più risalenti decisioni della Cass., sez. III, 21 aprile 1997, n. 712, in «Rep. Foro It.», 1997, ‘Contratti agrari ’ [1710], n. 153 e Cass., Sez. II, 30 dicembre 1994, n. 11357, in «Rep. Foro It.», 1996, ‘Arbitrato ’ [480], n. 56.
28) Notoriamente CARNELUTTI, La transazione è un contratto?, cit., p. 187 ss., sostenne una tesi assolutamente eterodossa rispetto a quella che ci pare di poter trarre da una interpretazione rispettosa dei caratteri della fattispecie tratteggiati dal codice civile. L’Autore sostenne infatti che la transazione consisterebbe essenzialemente in uno scambio di atti unilaterale sostanziantisi in altrettante rinunce. La tesi ha incontrato le severe critiche di XXXXXXX- XXXXXXXXXX, La transazione I 2, cit., p. 91 ss. e, in tempi assai più recenti di DEL PRATO, La transazione, cit., p. 2, ma non avrebbe forse meritato l’attenzione di quest’ultimo (a quasi quarant’anni dalla propria apparizione) se nel 1990 la suprema corte non avesse pronunciato una sentenza (Xxxx., Sez. III, 27 giugno 1990 n. 6546, in «Vita notarile», 1990, p. 533) apparentemente accordata sulle tonalità carneluttiane nel sostenere che «la rinuncia di un soggetto ad un diritto nell’ambito di un rapporto contrattuale può essere subordinata alla condizione potestativa di una rinuncia ad un altro diritto, derivante dal rapporto, dell’altro contraente ed in tal caso la prima rinuncia, che normalmente realizza un negozio giuridico unilaterale, può assumere in relazione all’altra, la natura di negozio giuridico bilaterale, anche di carattere transattivo, ove le due rinunzie si pongano, secondo la volontà dei rinuncianti, non in modo au- tonomo, ma in posizione di corrispettività, tenuto conto dei reciproci sacrifici e vantaggi». L’immediata, agevole, osservazione di come, nell’affermazione della cassazione, il ruolo del consenso (fondamentale nel contratto di tran- sazione come in ogni altro, se non altro proprio allo scopo di poter affermare la sussistenza dell’animus transigendi ) appaia larvato, per non dire assente, e la causa negoziale tipica (l’estinzione o la prevenzione di una controversia tramite reciproche concessioni) nemmeno trovi asilo, e ciò nonostante si spenda l’aggettivo transattivo per un si- mile negozio, ci pare testimoniare autorevolmente, al di là di ogni legittimo dubbio, un significativo episodio di (inopportuno) sganciamento dei supremi giudici dal tenore letterale della disciplina codicistica. Cfr., sul punto, X. XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 10 ss.
29) Circa il contenuto di tali concessioni reciproche hanno oggi fissato il punto fondamentale quattro sentenze
della suprema corte (Cass., Sez. I, 1 settembre 1995, n. 9229, in «Rep. Giust. Civ.», 1995, ‘Transazione ’, n. 1; Cass., 4 settembre 1990, n. 9114, in «Rep. Foro It.», 1990, ‘Transazione ’ [3181], n. 3; Cass., 14 luglio 1981, n. 4612, in «Rep.
Giur. it.», 1981, ‘Transazione ’, n. 1; Cass., 7 febbraio 1979, n. 854, in «Rep. Giur. It.», 1979, ‘Transazione ’, n. 2) stabi- lendo una relazione biunivoca fra il contenuto delle reciproche concessioni e le pretese e contestazioni dedotte nella transazione, da un lato, senza riconoscere alcun legame (scil. alcuna necessità di un legame) tra le reciproche conces- sioni e i diritti effettivamente spettanti e, dall’altro, sancendo la necessità di un legame che rappresenta l’xxxxxx- secazione del carattere proprio di concessione. Per l’esame in dottrina delle pronunce PALAZZO, ‘Transazione ’, cit.,
p. 387. A conferma delle decisioni citate si aggiunge un recentissimo pronunciamento della suprema corte: Xxxx., Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1980, in «Rep. Foro It.»., 2000, ‘Transazione ’ [6730], n. 1.
30) Così la citata Cass. 22 febbraio 2000, n. 1980 nonostante la corte, pur nell’evidente intento definitorio del pronunciamento, faccia esplicito riferimento a negozio transattivo e non al contratto di transazione, conservando in tal modo (forse non del tutto volontariamente) un indeterminatezza del definiendum che comunque incuriosisce l’in- terprete. L’impressione che si trae è che la pronuncia della suprema corte sottenda la possibilità di individuare ne-
che se qualche dubbio in proposito sembra attanagliare persino il governo, fonte secondaria (oltre alla massima giurisprudenza) 31, impegnato a novellare in modo, come vedremo, non «indolore» per le categorie poste dalla disciplina codicistica, nello specifico ambito di determinati rapporti di lavo- ro. Emblematica, a riguardo, la formulazione dell’art. 3, II c., del D.P.R. n. 120 del 23 marzo 1988, che ha reso esecutivo l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti convenzionali (in materia di prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio effettuate in regime di autorizza- zione sanitaria), imponendo, ai soggetti che intendessero continuare ad operare in convenzione, di farne richiesta con specifica domanda, a patto di riconoscere «valore transattivo alla corresponsione dei compensi arretrati» (corsivo nostro) spettanti loro:
Con la suddetta domanda (scil. volta ad ottenere la conferma del rapporto di convenzione con la struttu- ra sanitaria statale in vigore alla data del 23 luglio 1987) si dichiara di rinunciare a qualsiasi pretesa e azione anche futura, comunque collegata alla controversa interpretazione del punto 4 dell’accordo 22 febbraio 1980, reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1980, riconoscen- do valore anche transattivo alla corresponsione dei compensi arretrati.
Sulla base della lettera dell’articolo, se l’ex-lavoratore riceverà il denaro dovutogli come corrispettivo dell’opera prestata (sia che abbia sollecitato il pagamento, sia che si sia astenuto dal farlo) perderà il diritto ad adire il giudice, allo scopo di dedurre innanzi a quest’ultimo il rapporto con l’U.S.L.
Il punto è che la norma, esplicitamente, ricollega un effetto che il codice civile disciplina e considera in riferimento ad un tipo contrattuale ben determinato, alla semplice corresponsione dei compensi arretrati, apparentemente trascurando che (sotto il profilo strutturale) questa non rappre- senta che un mero atto materiale e che (sotto il profilo sostanziale) questi compensi sono d o - v u t i dall’U.S.L., proprio in quanto arretrati. Quindi, anche a voler cercare i punti di contatto fra la fattispecie regolata dal D.P.R. 120/88 e la figura definita e disciplinata dagli art. 1965 ss. cod. civ. it. (1942), non si può far altro che notare come, con riferimento alla fonte recenziore, oltre che in una forma di accordo che appare, ci sia consentito l’eufemismo, larvata 32, ci si imbatte in una evi- dente assenza di concessioni da parte dell’Unità Sanitaria Locale 33. In mancanza della necessità di una contestazione e di una parvenza di conventio transigendi gratia, l’impressione è di trovarsi di fronte
xxxx transattivi di natura non contrattuale ed intenda fissare anche per essi i requisiti fondamentali affinché di tran- sazione si possa comunque parlare e possa essere applicata a questi negozi la disciplina dettata per la transazione. Della necessità di questo possibile risultato (l’affermazione di una generica possibilità di transigere senza ricorrere allo strumento c o n t r a t t u a l e transattivo) è lecito dubitare, data la delicatezza dei rapporti dedotti normal- mente in un accordo transattivo e la particolare resistenza alle impugnazioni per vizi del consenso (art. 1418 ss. cod. civ. it. [1942]) che il codice riconosce, ovviamente, all’archetipo da esso definito all’art. 1965. In particolare l’esten- sione dell’applicazione di queste norme che rappresentano un nucleo di disciplina che caratterizza il tipo contrat- tuale, suscita autentiche perplessità per un uso dell’interpretazione sistematica potenzialmente (quando cioè motivi l’estensione analogica, a fattispecie non contrattuali, delle norme dettate per un contratto nominato) in contrasto con la lettera della definitio codicistica. A tal proposito, cfr. l’opinione di X. Xxxxx, circa il rapporto fra dottrina e ca- tegorie utilizzate dal legislatore riportata supra, nt. 3.
Di diverso avviso, vale a dire propensa ritenere perfettamente efficiente, ed identificabile con le transazioni attual- mente realizzate nella prassi, l’archetipo contrattuale costruito dal codice civile, pare X. XXXXXXX, La legge applicabile alle transazioni internazionali, in «La transazione nella prassi», cit., p. 251 ss.
31) Cfr. supra, nt. 27.
32) Somiglia infatti ad un’operazione di ortopedia giuridica il vedere, nella domanda presentata dal soggetto interessato ad ottenere la conferma del rapporto convenzionale (ai sensi dell’art. 3, I c.), la proposta di transazione che sarebbe poi accettata tacitamente dall’U.S.L. mediante il pagamento degli arretrati: il fatto che un soggetto per vedersi rinnovata una convenzione che gli consenta di operare al servizio di una U.S.L. debba riconoscere valore transattivo all’atto (che dovrebbe essere fisiologico) di liquidazione delle sue spettanze da parte dell’ente, pare one- stamente difficile da configurare come un negozio (non parliamo poi di contratto) bilaterale senza costringerne la natura in modo procusteo.
33) Qualora non si intenda, con una certa ironia, che pagare i compensi maturati dai collaboratori costituisca una vulgo dicta «gentile concessione».
al riconoscimento quasi ex lege di valore transattivo ad un «reçu pour solde de tout compte» o, peg- gio ancora, ad un caso che non vediamo come ricondurre entro i confini della contrattualità34.
Malauguratamente, una recente pronuncia della Suprema Corte 35, potenzialmente estrema- mente interessante per cogliere gli effetti dell’innovazione regolamentare sul sistema, non ha per- messo di cogliere l’orientamento dei supremi giudici (e di riflesso l’effettiva portata dell’art. 3 nel si- stema) circa il contenuto di questa norma: nel caso di specie infatti il ricorrente deduceva che, con una propria deliberazione, la USL n. 15, il 30.3.1990, gli aveva riconosciuto degli arretrati e quindi d o v e v a r i t e n e r s i i n t e r v e n u t o i l n e g o z i o t r a n s a t t i v o p r e v i - s t o d a l l ’ a r t . 3 d e l c i t a t o D . P . R . , con conseguente impossibilità di esperire l’azione di ripetizione delle somme (corrispondenti, per l’appunto, agli arretrati) versate.
Com’è agevole notare, dal piano dell’efficacia transattiva, il ricorrente ed il suo difensore sono passati, secondo un procedimento logico non privo di mende e tuttavia comprensibile, a quello del nogozio transattivo. Sfortunatamente, però, il motivo sul quale, per esplicita ammissione dei giudici, ha particolarmente insistito il difensore della società ricorrente in sede di discussione orale, è risul- tato inammissibile, in quanto prospettante una censura non sollevata in grado di appello.
Ebbene, non ci pare di esagerare affermando che al di là della menda procedurale, corretta- mente opposta al ricorrente dalla Sezione I della Corte di Cassazione, in presenza del medesimo ri- lievo, elevato dinanzi al giudice di merito, ben difficilmente quest’ultimo avrebbe potuto esimersi dal considerarlo corretto, riconoscendo, in conformità alla norma del D.P.R. 120/88, la realizzazio- ne di un effetto transattivo mediante un mero atto unilaterale (vale a dire l’adempimento dell’ob-
34) Risulta pressoché impossibile conciliare la natura di contratto bilaterale consensuale della transazione ex art. 1965 cod. civ. it. (1942), con il tenore letterale del D.P.R. citato e non è questa la sede per prendere in conside- razione il problema (di competenza della scienza costituzionalistica) di una fonte secondaria che ne contraddice una primaria, seppure in sede di recepimento di un accordo nazionale in materia lavoristica. Se infatti il codice stabilisce che la transazione è un contratto e non disciplina una categoria di atti aventi analoga efficacia, pare problematico che questo possa fare una fonte di natura regolamentare, seppure prevista dalla Costituzione, come un D.P.R.
Il problema non è puramente speculativo, dal momento che la disciplina speciale, prevista dal codice per il con- tratto tipico di transazione, non può essere applicata a cuor leggero a situazioni giudicate simili alla transazione solo da una fonte inferiore a quella che pose la categoria: in caso contrario sarebbe possibile per il governo classificare dei contratti, la cui causa (sotto un profilo strutturale) sia lo scambio di cosa contro prezzo, come concessioni, sen- za quindi qualificarli come compravendita, al solo scopo di esonerare la Pubblica Amministrazione dalle obbliga- zioni tipiche di quest’ultimo contratto. Nel caso in esame il potere esecutivo-fonte secondaria pare potersi assimila- re all’interprete al solo scopo di estendere anche ad esso le illuminanti considerazioni di X. Xxxxx riportate supra, § 1 nt. 3, in chiusura. A sostegno di questa nostra interpretazione, in base alla quale un atto non può, senza contrastare con la lettera del codice civile, essere annoverato fra le transazioni, sembra potersi citare anche XXXXXXXX, La tran- sazione, cit., p. 2, quando sostiene che «la lite e le reciproche concessioni, dunque, sono i caratteri causalmente ido- nei ad identificare il tipo contrattuale della transazione, escludendo che altri contratti possano essere ricondotti in questo schema, pur potendo appartenere al più ampio genere dei contratti che risolvono le liti», anche se non ci sentiamo di appoggiarne altrettanto serenamente l’affermazione secondo cui «anche il mutuo dissenso (art. 1372, I c., c.c.) può avere una finalità solutoria di una lite in atto. Tuttavia il modo in cui questa viene superata non con- sente di annoverare questo contratto al genere delle transazioni.». La nostra perplessità non scaturisce solo dalla po- sizione dogmatica secondo cui la transazione sarebbe un genere di cui diversi contratti rappresenterebbero altret- tante species (posizione che sembra vagamente riproporre teoria carneluttiana in base alla quale la transazione non può star da sola, e per questo pone tanti problemi all’interprete), quanto per la sorprendente inclusione del mutuo dissenso nel genere dei contratti.
In ogni caso, anche qualora non si condividesse questa nostra opinione ci pare difficilmente controvertibile la con- statazione che la costruzione dogmatica della fattispecie cui vengono ricollegati effetti transattivi, resi scoperti dalla scelta linguistica operata dal Governo, testimonî il rinnovamento un filone, storicamente florido, caratterizzato dall’individuare nella transazione non già una fattispecie compiutamente definita quanto piuttosto qualcosa di più simile ad una semplice causa negoziale (la fine di una situazione controversa), con la conseguente sottovalutazione degli aspetti plurilaterali dell’istituto.
35) Cass., Sez. I, 15 giugno 2000, n. 8161 (abbiamo potuto effettuare la citazione di questa sentenza – e di tutte le altre citate in seguito, salvo diversa indicazione – utilizzando la sezione «Sentenze della Cassazione Civile. Testo integrale» della banca dati «Juris Data»).
bligazione di retribuire le prestazioni lavorative ricevute) in contraddizione logica, peraltro, con le recenti decisioni in tema di necessità, contenuto e forma delle reciproche concessioni nella transa- zione 36, pronunciate proprio dalla suprema giurisprudenza di legittimità.
Volendo quindi riassumere i dati posti in luce preliminarmente, questi rendono evidente come i capi XXIV, XXV e XXVI siano dedicati a fattispecie accomunate dal fatto di essere (precipua- mente ex voluntate legislatoris, considerati i dubbi a tutt’oggi presenti in dottrina circa la natura non solo della transazione, ma anche dell’anticresi) definite contratto, pur mancando, questa parte del titolo quarto, di una reale tensione sistematica; allo stesso tempo, questo excursus iniziale ha già non solo, in qualche misura anticipato, ma anche contribuito a mettere in luce, come nemmeno, il solo apparentemente, incontrovertibile dato letterale costituito dalla definitio legislativa rappresenti, negli ultimi anni, un elemento indiscusso ed indiscutibile per la dottrina, per la giurisprudenza37 e per il governo-legislatore: esattamente come non lo aveva rappresentato (ed è questo il punto di partenza per giungere alla diagnosi cui mira questa nostra ricerca) per la dottrina confrontatasi con il primo codice unitario. Per queste ragioni, prendendo a prestito l’espressione dal linguaggio medico, indivi- duati i sintomi, muoviamo alla ricerca dei fattori scatenanti di queste manifestazioni, mirando, in- nanzitutto, ad individuare una qualche, eventuale forma di «ereditarietà».
3. Le posizioni più diverse erano vive, e rappresentate ancor nel primo dopoguerra, in seno al di- battito scientifico intorno all’inquadramento sistematico della transazione.
Il plotone di queste (costituito, conformemente alla temperie di quegli anni, dagli apporti della dottrina romanistica nazionale e tedesca, oltre che della scienza civilistica) annoverava fra i propri ranghi l’opinione di chi trattava della transazione nella parte generale delle obbligazioni, come causa di estinzione delle stesse38 (fra costoro non mancò chi preferì enfatizzare gli aspetti propri dell’isti- tuto che ne fanno talora una sorta di novazione) e chi, contra, preferiva evidenziare, nella conven- zione in esame, la natura di causa di formazione del vincolo obbligatorio 39. Ci pare che le due posi-
36) Cfr. infra, § 7 nt. 191.
37) Si rinvengono nelle sentenze degli ultimi anni (per rimanere alle pronunce della suprema corte, significati- ve perché quest’ultima dovrebbe ispirare la propria azione alla funzione nomofilattica) approcci al fenomeno tran- sattivo molto diversi fra loro, seppur accomunati da una visibile difficoltà nell’utilizzare un linguaggio tecnico, se non chiaro, per lo meno univoco. Cfr. a tal proposito, oltre alle sentenze considerate supra, nt. 29, Cass. , Sez. LL., 11 agosto 2000, n. 10657, in «Rep. Foro It.», ‘Transazione ’[6730], n. 13, in cui la Corte si pronuncia su di un diritto oggetto di un «atto transattivo»; Cass., Sez. LL., 18 maggio 1999, n. 4811, in «Rep Foro It.», 1999, ‘Previdenza sociale ’ [5150], n. 241-242; Cass., Sez. LL., 2 giugno 1998, n. 5412, in «Rep. Foro It.», 1998, ‘Previdenza sociale ’ [5150], n. 265, in cui la Corte ha addirittura parlato di «erogazioni economiche del datore di lavoro previste in occasione di transa- zioni o conciliazioni giudiziali», non individuando, evidentemente, il legame fra l’accordo transattivo e le reciproche concessioni o, peggio ancora, non scorgendo nelle «erogazioni economiche» una delle concessioni richiamate dal- l’art. 1965 cod. civ. it. (1942) cosa che invece aveva fatto, poco più di un anno prima, la stessa Caxx., Sex. LL., 23 gennaio 1997, n. 712, in «Rep. Foro It.», 1997, ‘Confessione civile ’ [1560], n. 5, affermando che una delle reciproche concessioni «s’inserisce nel contenuto del contratto transattivo ed è strumentale al raggiungimento dello scopo di questo». Il dato evidenziato dalle pronunce più recenti ci sembra quindi essere l’allontanamento progressivo delle decisioni della sezione lavoro dalla disciplina codicistica della transazione sia per quanto riguarda gli schemi sia per quanto concerne le categorie linguistiche: cfr. sul punto Cass., Sez. LL., 5 settembre 1997, n. 9170, in «Rep. Foro It.», 1997, ‘Sanitario ’ [6030], n. 96 e Cass., Sez. LL., 27 maggio 1996, n. 4872, in «Rep. Foro It.», 1996, ‘Agenzia ’ [240], n. 27.
38) Su queste posizioni si collocavano in particolare alcuni esponenti della dottrina civilistica tedesca della se- conda metà dell’ ’800: X.X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxxx xxxxxxx Xxxxxxxxxx 0, Xxxxxxx, 0000, XX, p. 490; X.X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, II, p. 417, e F.H. VERING, Gesckickte und Pandekten des römiscken und keutigen gemeinen Priva- treckt 5, Xxxxx, 0000, p. 626.
39) Così A. XXXXXX, Istituzioni di diritto romano 2, Firenze, 1866, II, p. 293 ss., più cauto X. XXXXX, Istituzioni di diritto romano 2, Torino, 1899, II, 239 ss.. Cfr. anche A.H. DERNBURG, Lekrbuck der Pandekten 5, Berlin, 1896-1897, trad. it. – Pandette. Diritto delle obbligazioni –, Torino, 1903, II (cur. F.B. CIXXXX), p. 462 ss., X. XXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano 8, Torino, 1909, I, p. 145 s. (che peraltro attribuisce alla transazione uno spettro più largo di possibilità:
«il riconoscimento o l’estinzione totale o parziale del credito o anche produrre o mettere fuori di contesa una obbli- gazione di una delle parti ad una prestazione determinata»), X. XXXXXXXX, Xxxxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxx 0, Xxxxxx, s.d.
zixxx, benché accomunate dal risultato di circoscrivere l’efficacia del negozio al campo delle obbli- gazioni, siano paradigmatiche della varietà di opinioni sul punto specifico, presente negli anni im- mediatamente precedenti la promulgazione del nuovo codice 40.
Accanto alle elaborazioni ricordate non mancò poi chi preferì trattare della transazione nella parte generale dedicata al processo 41, chi scorgeva in essa niente più che un possibile contenuto del negozio giuridico 42 e chi, infine, riconosceva nella transazione una causa di estinzione dei rapporti giuridici 43 o più generalmente un possibile scopo dei negozi giuridici 44.
Questi elementi, in uno con le sconnessioni presenti nella disciplina codicistica della transa- zione e le peculiarità del dibattito dottrinario sorto intorno ad essa, fanno, della disciplina del nego- zio transattivo contenuta nel primo codice unitario, il punto di partenza privilegiato per una com- piuta indagine, allo stesso tempo diacronica e comparativa, del fenomeno: un’indagine volta ad in- dividuare le cause storicamente determinanti l’attuale assetto legislativo, giurisprudenziale e dottri- nario del fenomeno.
Anche nel codice del 1865 la fattispecie transattiva trovava una specifica regolamentazione: in un titolo autonomo (il XII del III libro) 45, composto dagli art. 1764 e ss., fra i quali, come in quello vigente, il primo recava una definizione di transazione.
Art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865: «La transazione è un contratto con cui le parti, dando, promet- tendo o ritenendo ciascuna qualche cosa, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere.» 46
Art. 1965, I c., cod. civ. it. (1942): «La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro».
E’ pacifica in dottrina la comune discendenza, di quella parte dei due articoli citati (riferenti la ne- cessità, rispettivamente, che le parti diano, promettano o ritengano ciascuna qualche cosa, e si fac- ciano reciproche concessioni) 47, dal principio espresso in un celebre rescritto dioclezianeo48, poi
(ma 1912), p. 000, x X. XXXXX, Xxxxx xx xxxxx xxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000, II, p. 382 ss.
40) Analoghe notazioni in merito allo stato della dottrina successiva alla promulgazione del primo codice uni- tario in GITTI, L’oggetto della transazione, cit., p. 9.
41) In questi termini X. XXXXX, Xxxxxxxx xxx Xxxxxxxxx, Xxxx, 0000, p. 280 s., E. XXXXXX, Pandekten. Allgemeine Lekren, Freiburg i.B., 1891, p. 000, x X. XXXXX, Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, p. 205, che parla esplicitamente di surro- gato della sentenza, una delle definizioni di transazione storicamente più fortunate, anche perché debitrice della propria origine addirittura verso C.F. Savigny.
42) X. XXXXXXXX, Lekrbuck des Preussiscken Privatreckts und der Privatrecktsnormen des Reicks, Halle a.S., 1884, I, p. 180.
43) Xxx. X. XXXXX, Xxxxxxxx xxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx, 0000, I, p. 382 ss.
44) E.I. XXxxXX, System des keutigen Pandektenreckts, Weimar, 1889, II, p. 261 ss.
45) Il quale, va sottolineato in considerazione della nomea di pedestri imitatori del legislatore francese nor- malmente attribuita ai padri del «Codice Civile Italiano» (1865), non è rubricato «Delle transazioni», come il titolo XV del «Code civil des Français» (1804), ma «Della transazione», coerentemente allo schema definitorio adottato per i singoli contratti nominati.
46) La stessa formulazione, oltre che nel progetto Xxxxxxxxx (cfr. infra, nt. 52), si trovava già nel progetto di re- visione del Coxxxx Xxxxxxxxx xiretto da G.B. Cassinis all’art. 1933 (MMGGC., Lavori preparatori del codice civile del Re- gno d’Italia 2, Roma, 1888, II.I, p. 482) e nel progetto curato, pochi anni dopo, da X. Xxxxxxxxx xll’art. 1796 (MMGGC., Lavori preparatori2, cit., Roma, 1892, VII, p. 400 s.). Giova aggiungere che nelle rassegne pubblicate delle discussioni e dei suggerimenti provenienti dalle corti del Regno non si inviene segno che la modifica al tenore della norma albertina possa essere stata indotta da queste ultime, dal che è possibile derivare ch’essa si debba proprio al Cassinis o ad un suo collaboratore.
47) Nonostante la comune discendenza, avremo modo di chiarire come i due contenuti rappresentino posi- zioni, storicamente assai diverse, ancor oggi influenti. Sul contenuto delle concessioni reciproche, risulta fonda- mentale la pur risalente interpretazione del supposto requisito delle reciproche concessioni e dei suoi effetti operata da X. XXXXXX, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell’obbligazione, in
«Ann. Messina», VII, 1932-33, x. 000 xx.
00) X.X. 0.0.00: IDEM AA. (DIXXXXXXXXXX XT MAXXXXXXXXX) ET CC. THEODOTIANO. Transactio nullo dato vel retento seu promisso minime procedit. S. VIII x. XXX. NICOMEDIAE CC. CONSS. [a. 294].
entrato (pur avulso completamente dall’originario contesto) 49 nel Codex Repetitae Praelectionis di Giu- stiniano.
Per i motivi che chiariremo, n o n è invece possibile affermare, come ci si aspetterebbe logi- camente, che nel codice del 1942 la necessità di reciproche concessioni sia stata ereditata dal codice del 1865 50. La definizione di transazione contenuta in quest’ultimo, infatti, non spingeva, sino a questo punto, la pure indubbia rottura, anche sul piano terminologico, operata dalla legislazione ita- liana rispetto alla tradizione francese 51 (sino a quel momento supinamente seguita nei codici della
49) Il contesto originario, per una fortunata coincidenza, è possibile ricavarlo ricorrendo ad un’altra costitu- zione contenuta nel codice giustinianeo, in C.I. 6.31.3. Ci troviamo infatti di fronte ad una lex geminata, il cui testo, per quanto riportato in maniera non poco diversa, compare in due diversi titoli della compilazione. Il più lungo te- sto, tratto dal titolo de repudianda vel abstinenda kereditate, ci permette di affermare che alla base della controversia portata all’attenzione della cancelleria imperiale è la natura da attribuirsi alla remissio litis donationis causa realizzata dall’erede. Cfr. BEXXXXXXX, Xxxxx xransazione, cit., 70 ss.
50) Ciò sia detto nonostante ci si imbatta normalmente in letture, dell’evoluzione dal primo al secondo codice unitario, che lasciano intendere un simile percorso, presumibilmente sulla scorta del linguaggio della dottrina che parlò sempre di reciproche concessioni anche con riferimento alla previsione dell’articolo 1764 «Codice Civile Ita- liano» (1865), sin dalla sua emanazione.
51) L’art. 2044 del «Code civil des Français» (1804) recita infatti, semplicemente: «La transaction est un contrat par lequel les parties terminent une contestation née, ou previennent une contestation à naître». Il «Journal du Palais. Répertoire général», XII, Paris, 1858, p. 127 n. 1, riconduce la definizione del codice a Xxxxxxx (sebbene ciò vada inteso nel senso che essa va ricondotta al concetto di contratto offerto da quest’autore), ma riconosce che fu soprattutto dalle osservazioni di X. Xxxxx xx Xxxxxxxxx (incaricato insieme a X. Xxxxxx x X. Xxxxx xi presentare il titolo «Des transactions» al «corps législatif» nella seduta del 15 marzo 1804) che esso venne plasmato:
«Législateurs, de tous les moyens de mettre fin aux différends que font naître entre les hommes leurs rapports variés et multipliés à l’infini, le plus hereux dans tous ses effets est la transaction, ce contrat par lequel sont terminées les contestations existantes, ou par lequel on prévient les contestations a naître.
Chaque partie se dégage alors de toute prévention. Elle balance de bonne foi et avec le désir de la conciliation l’avantage qui résulterait d’un jugement favorable et la perte qu’entraînerait une condemnation; elle sacrifie une partie de l’avantage qu’elle pourrait espérer, pour ne pas éprouver toute la perte qui est à craindre; et lors même que l’une d’elles se désiste entiérement de sa pretention, elle se détermine par le grand intérêt de rétablir l’union et de se garantir des longueurs, des frais et des inquétitudes d’un procès.
Un droit douteux et la certitude que les parties ont entendu balancer et régler leur intérêts, tels sont les caractères qui distinguent et qui constituent la nature de ce contrat.» (P.-A. XXXXX, Recueil complet des travaux préparatoires, cit., p. 103).
Nella sua presentazione Bigot de Prxxxxxxx xaceva propria – come dimostra l’esemplificazione offerta, consistente in una fattispecie transattiva mancante dell’aliquid retentum – la posizione di J. DOMAT, Les loix civiles dans leur ordre naturel, le droit public, et legum delectus, Xxxxx, 0000, I, p. 112, secondo il quale le reciproche concessioni non sarebbero affatto un elemento essenziale del negozio transattivo («Ce qui est dit dans la loi 38. C. de trans. qu’il n’y a point de transaction si l’on ne donne, & ne promet rien, ou si on ne retient quelque chose, ne doit pas être pris à la lettre; car on peut transiger sans rien donner, & sans rien promettre, ni rien retenir …»).
Queste posizioni costarono al Domat più di un’esplicita reprimenda. «C’est Domat qui est la cause de cette imperfection» così R.-T. TROPLONG, Du cautionnement et des transactions. Commentaires des titres XIV et XV, livre XXX, xx xxxx xxxxx, Xxxxx, 0000, p. 552 e 563, il quale (sulla scorta delle perplessità precedentemente già espresse da C.S. ZACHARIAE, Corso di diritto, cit., p. 52 nt. 1* e da A. XXXXXXXX, Cours de droit français, suivant le code civil, X, Bruxelles, 1834, p. 145 s.) sostiene (p. 552) che «l’art. 2044 omet, en effet, un des caractéres les plus saillants de la transaction, savoir: la chose donnée, retenue ou promise, l’aliquo dato, vel retento, vel promisso, sans lequel il n’y a pas de transaction».
La critica dell’eclettico magistrato Troplong (questa la descrizione icastica di J.-X. XXXXXXXX, Histoire du droit, cit., p.
63) dovette apparire motivata, e la scienza civilistica transalpina ne ha senz’altro riconosciuta la ragionevolezza, se la novantasettesima edizione Dalloz (Paris, 1997) del «Code civil des Français» (1804) chiosa riguardo al I comma dell’art. 2044 (1590 n. 1): «Constitue une transaction au sens de l’art. 2044 un accord qui a pour objet de mettre fin à un différend s’étant élévé entre les parties et qui comporte des concessions reciproques, quelle que soit leur importance relative» sulla scorta di un’autorevole giurisprudenza. Si noti tuttavia come, in questo caso, a quella di
«contrat» – la categoria utilizzata nell’art. 2044 – si preferisca quella nettamente più elastica di «accord».
Aprendo una breve parentesi sulle posizioni della dottrina sviluppatasi oltralpe a partire dalla promulgazione del
«Code civil des Français» (1804), ci pare che i rilievi del Troplong andassero oltre uno sterile sussieguo, nei con- fronti di una pur autorevole tradizione, nel valutare le ragioni del Domat. Quest’ultimo infatti coerentemente con una definizione negoziale evidentemente basata su quella che per lui era la causa della transazione (l’estinzione della
penisola) 52 benché la innovasse profondamente.
Sebbene infatti l’espressione «le parti, dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa» possa apparire equipollente a quella, recenziore («le parti, facendosi reciproche concessioni») ci pare di poter sostenere come nella prima manchi un nesso fra i tre atti tipizzati e il rapporto sul quale le parti transigono: con l’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 si impone a ciascuno dei transigenti
controversia) non poteva non valutare come una semplice sfumatura la presenza o meno di reciproche concessioni: una diretta conseguenza della propria scelta che ricollegava l’effetto transattivo al momento del consenso interve- nuto fra le parti. Dal Troplong ci si attenderebbe, altrettanto coerentemente, che respingesse in toto questa lettura della transazione ed ecco che invece si rimane, più che sorpresi, nel leggere: «Je dis que ce contrat est consensuel; car le consentement suffit pour lui donner sa perfection» (p. 561). Impossibile non domandarsi se l’Autore abbia ri- flettuto su quale ruolo tocchi alle reciproche concessioni, dal momento che il contratto è perfetto, e si direbbe di conseguenza efficace, in virtù del semplice consenso, ragion per cui il suo effetto di estinzione della controversia di- scende dall’accordo (cfr.infra, § 7). Sembrerebbe potersi ipotizzare che le reciproche concessioni siano il contenuto del contratto obbligatorio per legge, ma ciò è esattamente il contrario di quanto esprime la lettera del «Code civil des Français» (1804). Delle due l’una: o il Troplong prescindeva tout court dal codice oppure la sua interpretazione tendeva a far emergere dalla disciplina codicistica – forzandola – un elemento non previsto dall’art. 2044 (le reci- proche concessioni) come necessario perché non voluto dai padri del codice. D’altro canto poi, l’interpretazione del Troplong, alla prova dei fatti si dimostra debole perché nel tentativo di salvare caxxx x cavolo (la natura di contratto consensuale della transazione e l’essenzialità, per l’efficacia della stessa, delle reciproche concessioni), essa soccom- be di fronte alla precisione dell’icastica formulazione del Domat, nella quale la funzione socioeconomica del nego- zio prevale nettamente sull’eredità storica derivante dalla sistematica medievale dei pacta, fra i quali era inclusa anche la transazione (cfr. infra, nt. 55). E la prova definitiva di quanto fosse corto il fiato dell’interpretazione del Troplong viene dalla presenza nel codice civile francese di una norma (l’art. 2052) anch’essa ricalcata su di un’espressione del Domat, con la quale viene sancita l’impossibilità di risolvere la transazione per inadempimento ed anzi, a quest’ultima, è riconosciuto l’effetto di una sentenza tra le parti: se è lecito dubitare che simili caratteristiche siano conciliabili con la natura di «contrat consensuel», a maggior ragione esse autorizzano a sospettare dell’effettiva ne- cessità di reciproche concessioni. Sul punto cfr. infra, § 5.
52) Analogo rilievo in A. XXXXXXX, La transazione nel diritto italiano civile, commerciale e penale. Note di dottrina e di giurisprudenza, Torino, 1887, p. 6, che definì i codici preunitari sul punto una «ricopiatura» ed una disamina dell’influenza francese sulle legislazioni preunitarie in tema di transazione rende in effetti difficile confutare una si- mile affermazione di fronte al tenore letterale degli articoli dedicati alla transazione nei codici in questione:
«Codice per lo Regno delle Due Sicilie» (1819), art. 1916:
La transazione è un contratto col quale le parti pongono fine ad una lite già incominciata, o prevengono una lite che sia per nascere. 1. Questo contratto debbe essere ridotto in iscritto.
«Codice per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna» (1837), art. 2083:
La transazione è un contratto con cui le parti pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che sia per nascere.
«Codice civile per gli stati estensi» (1851), art. 1838:
La transazione è un contratto mediante cui le parti pongono fine ad una lite già incominciata, o prevengono una lite che sta per nascere.
Alla luce della straordinaria uniformità di formulazione (fatta eccezione per l’uso della preposizione «mediante» nel codice estense, che pare nulla più che una mera variante linguistica), desta anche maggiore sorpresa il tono delle due relazioni (Ministeriale e Senatoria) presentate dal Ministro Guardasigilli Xxxxxxxxx xispettivamente il 26 novembre 1863 e il 29 giugno 1864. Al n. 185 della Relazione Senatoria si legge infatti: «Non occorre far parola del contratto di società, di mandato, della transazione, del giuoco e della scommessa, del comodato, del deposito e del sequestro, del pegno e dell’anticresi, perché il progetto non contiene sui medesimi veruna innovazione di qualche importanza in raffronto ai vigenti codici italiani» (sic !). Dexxx xtesso tenore la Relazione Ministeriale al n. 261: «Stimeremmo so- verchio intertenere il Senato con la nostra relazione di altri contratti particolari, rispetto ai quali né il progetto ha in- novato nulla nel raffronto dei Codici vigenti, né la commissione ebbe a negare sostanziali modificazioni al progetto medesimo. Tali sono i contratti di permuta, di società, di mandato, di comodato, di deposito e di sequestro, di pe- gno e di anticresi, della transazione, della rendita vitalizia, del giuoco e della scommessa». Nemmeno la fretta, con cui i commissari dovettero necessariamente lavorare per redigere il primo codice dell’Italia unita, sembra sufficiente a spiegare l’innovazione nella formulazione dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865), ma piuttosto l’opinione delle commissioni Ministeriale e Senatoria secondo cui il tenore letterale dello stesso non fosse dissimile da quello dei codici preunitari e, per ovvia conseguenza, da quello dell’art. 2044 del «Code civil des Français» (1804).
La modifica testuale, che invece, a nostro parere, riveste ben altra importanza, si deve, con ogni probabilità alla commissione che redasse sotto la guida del Guardasigilli Xxxxxxxxx xl progetto che proprio dal ministro avrebbe preso il nome, pur sulla falsariga dei progetti precedenti (cfr. supra, nt. 46).
l’onere di una prestazione (intesa nel senso classico del termine, ovvero quello di contenuto dell’ob- bligazione) il cui oggetto non viene determinato al di là delle modalità dell’agire che i soggetti deb- bono seguire.
In sostanza il codice dice loro soltanto «come», non anche «che cosa».
Per contro, l’art. 1965, I c., cod. civ. it. (1942) richiede ad ognuna delle parti un sacrificio che può sì consistere in un atto analogo al dare, promettere o ritenere, ma può anche consistere in un
«fare» qualsiasi e, soprattutto, deriva la propria qualifica di concessione dall’imprescindibile legame con il rapporto dedotto nell’accordo transattivo. Quest’ultimo dato, forse talora sottovalutato, è ad- dirittura comprovato dal fatto che il II comma dell’art. 1965 preveda esplicitamente la possibilità che le concessioni concernano rapporti diversi da quelli in conflitto, poiché in tal modo il legislatore ha implicitamente riconosciuto come il principium faccia riferimento a sacrifici che sono tali solo in quanto rappresentano un superamento delle posizioni (pretese e contropretese) all’origine del con- flitto. Infatti, ad atti dispositivi o comportamenti diversi da queste, la qualifica di concessione è stata estesa expressis verbis e non è dato pensare che tutto sarebbe stato uguale in assenza dell’art. 1965 ca- poverso.
Cercando infine di qualificare logicamente le differenze fra le due formulazioni codicistiche, se partiamo dalle nozioni di reciprocità e corrispettività, la cui differenza sta nel fatto che la prima pre- suppone il contraccambio, mentre la seconda più staticamente scolpisce, in un rapporto giuridico, la posizione del sacrificio rispetto al vantaggio, ci sembra che quest’ultimo concetto informi la defini- zione dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 (ove la prestazione di ciascuna parte non è rixxxx- sta nell’ottica dello scambio con quelle altrui, ma fotografata nella propria contrapposizione al van- taggio di vedere estinta o prevenuta una lite) mentre il primo, al di là del riferimento esplicito, in- nervi l’art. 1965 cod. civ. it. (1942), che risulta addirittura imperniato sullo scambio di sacrifici.
Soccorre, per meglio illustrare la teoria ora esposta, un caso esemplificativo: se A pretende 10 da B e quest’ultimo contrappone a tale richiesta un’offerta di 5, l’accordo transattivo in base al quale B verserà 8 ad A non costituisce (a rigore) una transazione ex art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865, poiché A non dà, non ritiene e non promette nulla, in quanto anche la rinuncia all’azione non può essere qualificata come un promittere, dal momento che il venir meno della materia del conten- dere – e quindi dell’azione – rappresenta l ’ e f f e t t o del contratto. Viceversa, la medesima convenzione rappresenta un perfetto paradigma di transazione ex art. 1965 cod. civ. it. (1942), in quanto i sacrifici di entrambi i transigenti sono del tutto evidenti: A rinuncia infatti a 2 mentre B ri- nuncia a 3, rispetto alle posizioni iniziali.
Ciò non significa certo che transazioni come quella descritta non fossero qualificate come tali nella dottrina e nella giurisprudenza sotto l’impero del vecchio codice. Semplicemente esse non rientravano della definizione dettata dall’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 ed anche se questo fatto non ebbe conseguenze pratiche non se ne può sottovalutare la portata in una ricognizione delle linee che hanno condotto agli sviluppi attuali in tema di transazione.
A partire dalle differenze 53 salienti fra le formulazioni del «Codice Civile Italiano» 1865 e del codice civile italiano (1942), è possibile cercare di scorgere i segni delle linee evolutive che condus- sero alla formulazione, nel secondo, di una definizione di transazione non solo formalmente, ma anche sostanzialmente diversa e migliore di quella adottata nel 1865.
L’aspetto, forse, più eclatante della differente scelta definitoria è reso manifesto da due caratte- ristiche dell’art. 1764 del «Codice Civile Italiano» 1865: la riproposizione (a tutta prima ‘kata poda ’, ma in realtà completamente disarticolata) del dettato dioclezianeo, come tramandatoci dal Codex Re-
53) «Ça va sans dir» che ci pare impossibile rispettare il dettato normativo e, al contempo, condividere l’affermazione di BAXXXXXX, Appunti sulla natura, cit., p. 162, secondo cui l’art. 1965 del vigente codice sarebbe «so- stanzialmente identico» all’art. 1764 del precedente.
petitae Praelectionis 54 (‘nullo dato vel retento seu promisso ’ diventa infatti dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa55) e la conseguente assenza di un riferimento esplicito56 1) alla n e c e s - s i t à d i c o n c e s s i o n i 57 e 2) alla r e c i p r o c i t à (poiché l’elenco delle azioni di dare, promettere e ritenere, come abbiamo cercato di porre in luce, non presentano le stesse caratteristi- che delle concessioni considerate nell’attuale art. 1965) 58.
54) Inserimento non già unicamente determinato dall’influenza delle fonti romane, come sembra credere SCEVOLA, La transazione, cit., p. 6 s., ma dovuto verosimilmente all’influenza del Xxxxxxx (infra, nel testo) più ancora che del codice civile austriaco, il quale, pure, alle fonti romane più direttamente attinse (cfr. X. XXXXXX, Annotazioni praticke al codice civile austriaco 6, Milano, 1855, p. 3) per la formulazione del § 1380. Il paragrafo citato (nell’unica ver- sione ufficiale per il Regno Lombardo-Veneto del codice austriaco , la seconda edizione italiana pubblicata a Milano nel 1815) recita infatti: «Il contratto di novazione, mediante il quale i diritti controversi o dubbj vengono determi- nati in guisa che c ias c u na d e ll e par t i s i obbl ighi v e rs o l’altr a a d a re , a far e , o a tralas ciare q u al che cosa, chiamasi transazione. La transazione appartiene ai contratti bilaterali, e si re- gola secondo gli stessi principi.». La strada scelta dal legislatore austriaco diverge evidentemente da quella francese: nel codice asburgico infatti la transazione è trattata come species del genus novazione, mentre nel «Code civil des Français» (1804) essa mantiene una sostanziale natura dichiarativa. La coerenza degli austriaci nell’accogliere ed ap- plicare anche alla transazione la definizione di contratto di Xxxxxxx (cfr. infra, nel testo e nt. 127) appare evidente. Tuttavia, dell’ «ABGB.» ci interessa maggiormente porre in risalto il richiamo esplicito alla bilateralità ed all’elemento della reciprocità delle obbligazioni, perché anche nella formulazione riportata manca l’affermazione della necessità di reciproche concessioni. Il Basevi non commenta la formulazione del codice, nella parte in cui essa prescrive gli acta, in cui si concretano le prestazioni oggetto delle obbligazioni sorgenti dal contratto in capo ai sog- getti transigenti, e ciò non stupisce troppo apparendo il codice asburgico chiaro nel determinare il possibile oggetto di tali obbligazioni. La presenza di un esplicito riferimento alle obbligazioni reciproche assunte con la transazione («ciascuna delle parti si obblighi verso l’altra a dare, a fare, o a tralasciare qualche cosa») non fa però che aumentare la nostra curiosità verso l’atteggiamento della scienza giuridica italiana che di fronte ad una formulazione dell’art. 1764 del «Codice Civile Italiano» 1865, tanto difforme da quella appena vista, non cessò mai di inserire, in apertura delle proprie trattazioni dedicate alla transazione, un richiamo alla reciprocità: della precisazione «verso l’altra», in- fatti, nell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 non si trova traccia.
55) Per quanto concerne la, riteniamo, errata comprensione del dettato dioclezianeo alla base della formula- zione codicistica, cfr. infra, nt. 61. Aggiungiamo solo che la sconnessione provocata dal mancato rispetto dell’ordine dato dalla cancelleria imperiale ai tre atti posti in essere ‘transigendi causa ’ (‘dare, retinere, promittere ’ ) venne del tutto sottovalutata: noi ne abbiamo trovato considerazione nel solo SCEVOLA, La transazione nel diritto italiano civile, cit., p. 8, il quale osservava come «si può transigere in due modi, e cioè col fatto materiale, dando o ritenendo una cosa – o colla volontà, cioè con la promessa di dare, e col consenso a che sia ritenuta una cosa. E questo sia detto unica- mente per accennare alla impropria redazione letteraria dell’articolo, poiché il concetto della promessa – morale – anziché in effetto attuale materiale, doveva necessariamente venir ultimo, siccome si riscontra nei testi della dottrina Romana». Coglie di sorpresa che allo stesso Autore possa ascriversi, contestualmente, l’apprezzamento per la defi- nizione del codice perché «precisa e seria» (p. 3) che «migliorò di molto e perfezionò affatto quella dei codici prece- denti, ricopiatura del Codice francese» (p. 6) in quanto «aggiunte le parole «dando, promettendo o ritenendo ciascu- no qualche cosa» conserva integra (sic !) la figura, e mantiene la natura propria della transazione, quale ci fu traman- data dalla sapienza romana, e quale è precisamente per propria indole.» (p. 6 s.).
56) Non riteniamo infatti di poter escludere a priori che, implicitamente, il legislatore abbia ritenuto inserito un simile riferimento, ma ciò non risulta suscettibile di apprezzamento mediante l’esegesi dell’art. 1764 e nemmeno si trova aiuto, in questo senso, nei lavori preparatori del «Codice Civile Italiano» (1865).
57) Le quali sono biunivocamente collegate alle pretese, che costituiscono il prius logico e cronologico del ne- gozio transattivo, a differenza dei tre generici atti (dare, ritenere o promettere) presenti nella definizione dell’art. 1764: cfr. supra, nel testo.
58) L’assenza di un riferimento espresso alla reciprocità è evidente giacché è proprio di ciò che è reciproco il fatto di essere «scambievole o presupporre il contraccambio da parte di altre persone» (così X. XXXXXXXXX, ‘Recipro- cità ’, in «Grande dizionario della lingua italiana», XV, Torino, 1990, p. 645): cfr. supra, nel testo.
Quanto ci preme sottolineare ancora una volta è che non vi è nel testo, dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865), alcun rinvio al meccanismo in base al quale, quando uno dei transigenti riceve qualcosa in meno di quanto pretendesse, ciò che ottiene rappresenta comunque la concessione fattagli dal suo avversario, mentre il minus ri- spetto alla propria pretesa iniziale costituisce la sua. Nel codice Xxxxxxxxx si rinviene solo la prescrizione, per ognuna delle parti transigenti, di dare, promettere o ritenere alcunché, per cui stando alla lettera dell’art. 1764 ciascuna delle parti transigenti deve svolgere almeno una delle tre attività tipizzate, ma l’attività di ognuno dei transigenti non ne- cessariamente rappresenta il parziale accoglimento dell’altrui pretesa né risulta correlata da un meccanismo di scam- bio a quella dell’altro o degli altri.
Il carattere della traduzione (solo ingannevolmente pedestre) è la cifra evidenziata dall’assimilazione di ‘vel ’ e ‘seu ’ sotto il denominatore linguistico – comune sì, ma grossolanamente errato – di una imprecisata disgiuntiva59. Viceversa non può sfuggire, anche all’interprete meno at- tento, come la formulazione dioclezianea, in cui risulta utilizzato il ‘vel ’, presenti – a dispetto della mutilazione 60 cui dovette sottostare il rescritto originario per trovare posto nel titolo de transactioni- bus del Codex – i segni del principio ispiratore, destinato ad essere sintetizzato, secoli dopo, nel bro- cardo «aliquo dato, aliquo retento ». Il dettato di C.I. 2.4.38, infatti, è più nitido di quanto la sintetica espressione lasci intuire: ognuna delle parti potenzialmente o attualmente in lite transige inefficace- mente se non ottiene parte (‘nullo ’ ) 61 di ciò che chiede all’avversario, rinunciando, al contempo, in favore di quest’ultimo, ad una porzione di quanto egli, a sua volta, postuli (‘dato vel retento ’ ) – oppure prometta di compiere la propria concessione a fronte dell’altrui concessione o di un corrispondente impegno solennemente assunto (‘seu promisso ’ ) – e in questo modo consenta, anche al proprio anta- gonista, di ottenere una parziale soddisfazione delle pretese avanzate 62.
59) Che classicamente ‘vel ’ abbia un significato analogo a ‘seu ’, e venga utilizzato in modo analogo al più reciso ‘aut ’, è senz’altro vero. Tuttavia non mancano casi in cui il suo ruolo è quello di una congiunzione (come nella locu- zione ‘pariter pietate vel armis ’ che si rinviene in Virgilio) e addirittura, negli Scriptores Historiae Augustae, si incontra questa particella utilizzata col significato identico alla congiunzione ‘et ’: dato il limitato lasso di tempo intercorrente fra l’emanazione di C.I. 2.4.38 e l’opera degli scriptores (X. XXXXXXXXX, I volti della storia nella «Historia Augusta», in
«Scrittori della Storia Augusta» − cur. X. XXXXXXXX −, I, Milano, 1985, p. VI, prudentemente colloca la redazione
delle ventotto biografie imperiali fra il 284 – anno in cui Xxxxxxxxxxx ascese al trono – ed il 395 d.C.), sembra op- portuno non sottovalutare la possibilità che anche nel rescritto dioclezianeo il significato di ‘vel ’ fosse quello di «ed anche» (cfr. X. XXXXXXXX, ‘vel ’, in «Dizionario latino-italiano 3», Torino, 1965, c. 2869). Questo rilievo sembra sfug- gire, probabilmente in virtù della scarsa attenzione esegetica, ai commenti dotati di una forte connotazione erme- neutica (che sono in verità pochissimi) dedicati all’opera – visibilmente, non certo priva di mende – del legislatore del 1865. Cfr. per tutti X. XX XXXXXXXX, Xxxxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxx 0, Xxxxxxx, 0000, XX, p. 431, il quale definisce l’attività dei soggetti che pongono in essere una transazione sulla base delle reciproche concessioni («mercé recipro- che concessioni essi pongono fine all’incertezza, troncando la lite in corso o impedendo ogni lite futura»), salvo poi chiosare che «è adunque la transazione, come esattamente definisce l’art. 1764: ‘un contratto con cui le parti dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere’». Se queste osservazioni, da un lato, possono indurre a considerare compatto il fronte della dottrina nei confronti dell’art. 1746, si tenga tuttavia presente, dall’altro, che nel primo lavoro italiano moderno dedicato alla transazione, sotto il profilo romanistico, BERTOLINI, Della transazione, cit., p. 74, aveva, non senza una vena misura- tamente polemica, posto in luce la carente formulazione dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865) sotto lo speci- fico profilo della reciprocità di sacrifici a carico dei transigenti: per questo motivo il romanista torinese si chiedeva se non fosse il caso di passare ad una diversa definizione di transazione, sostanzialmente analoga, ma questo siamo noi a dirlo, a quella proposta dallo Xxxxxxxxx.
60) Cfr. supra, nt. 48.
61) In effetti anche l’errata interpretazione dell’ablativo ‘nullo ’ ha significato molto nella lettura tradizionale di
C.I. 2.4.38 e nelle operazioni ermeneutiche che sullo stesso si sono svolte. Tradotto normalmente come un caso obliquo del pronome ‘nikil ’, il segno in questione è stato generalmente assolutizzato, senza tener conto del fatto che l’apparente mancanza di ogni richiamo a cosa il pronome stesse a rappresentare, nel rescritto dioclezianeo, è senz’altro da imputare alla mancata conservazione del quesito cui il rescritto rispondeva o alle forbici dei compilato- ri. Maggior considerazione avrebbe poi dovuto suscitare negli interpreti il confronto con la normale forma letteraria di un rescritto: cfr. sul punto X. XXXXXXXXX, in «Lineamenti di storia del diritto romano» (dir. X. XXXXXXXXX), Milano, 1990, p. 418 s. Invece il segno ‘nullo ’, nel caso di C.I. 2.4.38, ci sembra fare riferimento all’oggetto della lite in corso (al bene controverso, al diritto posto in dubbio da una contestazione): per questa ragione Xxxxxxxxxxx pre- scriveva non già di dare e ritenere (o promettere di dare e ritenere) qualcosa in generale, quanto piuttosto di dare e ritenere (o promettere di dare e ritenere) qualcosa (una parte) di quanto costituiva l’oggetto della pretesa e della contestazione.
A nostro parere l’equivoco esegetico segnalato rappresenta una ulteriore conseguenza della duplicazione interpreta- tiva medievale che, nelle azioni descritte nel rescritto dioclezianeo, individuò, da un lato, l’aliquo dato aliquo retento e, dall’altro, vi scorse un’esemplificazione di altrettanti vestimenta pactorum. Gli autori dell’ «ABGB.» e del «Codice Civile Italiano» (1865), peraltro sulla scorta della ricordata tradizione secolare (cfr. infra, nel testo), non seppero cogliere questo dato, viceversa imprescindibile, che ben diversamente avrebbe illuminato l’operazione ermeneutica, alla base dell’opera di codificazione, loro ascrivibile.
62) Questa a grandi linee è la costruzione del contratto di transazione offerta già da X. XXXXX, Istituzioni di di- ritto civile italiano, Milano, 1905, p. 465, che tra i requisiti del contratto annovera la necessità che alle parti spetti «un
Evidenziato il «misunderstanding», non è però possibile limitare a questa constatazione l’inda- gine, alla luce dell’indubbia rilevanza della formulazione codicistica, essendo necessario, allo scopo di chiarirne le ragioni, dare spazio ad alcune precisazioni riguardo alla vicenda storica dei sacrifici ri- chiesti alle parti per la validità della transazione dipanatasi nei sedici secoli intercorsi tra il rescritto dioclezianeo e la promulgazione del «Codice Civile Italiano» 1865.
L’elemento essenziale delle reciproche concessioni, nell’elaborazione romana dell’istituto tran- sattivo, è esplicitamente richiesto per la prima volta, proprio dal rescritto dioclezianeo ora citato: si- no ad allora, vale a dire alla fine del III secolo, di sacrifici reciproci come requisito del contenuto per la validità di una transazione non avevano parlato i giuristi né le costituzioni imperiali 63. Il prin- cipio formulato da Xxxxxxxxxxx non aveva avuto mai, agli occhi dei prudentes romani, di cui ci sono pervenuti contributi in tema di transactio, la dignità di requisito «tout court» per la validità del placitum transactionis 64.
Questo dato va ribadito insieme con la recisa esclusione di ogni apporto, nella medesima dire- zione, da parte di un celebre frammento ulpianeo:
D. 2.15.1 (Ulp. 50 ad ed.): Qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita transigit, qui vero pa-
qualche diritto su di essi (scil. sugli oggetti dedotti in transazione e leciti), il quale è causa appunto di presente o futu- ra controversia e p e r il quale si verifica la reciprocità di un sacrificio delle parti»: se ben interpretiamo la preposi- zione «per» essa significa, nel caso, «attraverso, mediante», vale a dire che con essa l’Autore intende precisare che agendo sul diritto vantato si compiono le concessioni, i reciproci sacrifici. Giova ribadire che però tale raffinata lettura, la qual pur preconizza il dettato dell’art. 1965 cod. civ. it. (1942), manca di fondamento nella lettera del pri- mo codice italiano. La posizione e la connessione fra i verbi nel rescritto rendono evidente (specie qualora questo venga considerato nella stesura più completa, presente in C.I. 6.31.3) il riferirsi delle tre azioni indicate dai verba im- periali all’oggetto del contendere e quindi il loro carattere di concessioni e non di mere prestazioni.
63) Riteniamo di poter sostenere questa posizione nonostante la moderna romanistica appaia compatta nel considerare necessaria, affinché di transazione si possa parlare, la presenza di reciproche concessioni: si veda sul punto X. XXXXXXXX, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1987, (ristampa della I ed., del 1961), p. 541, secondo il quale «con il termine transactio e con il verbo transigere i giuristi classici indicano la convenzione con la quale gli in- teressati, ciascuno reciprocamente rinunziando a favore dell’altro a una parte delle proprie pretese, regolano una questione dubbia o un rapporto controverso» (fra le fonti citate dal Volterra nella nota 5 nessuna, ci pare, fa riferi- mento alle, addirittura reciproche, rinunce); cfr. X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni di diritto romano 14, Napoli, 1976, p. 400, per il quale la transazione è il fine «di metter fine a una controversia (lite presente o futura) mediante recipro- che concessioni» (l’influenza della formulazione codicistica non necessita di essere rimarcata), X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 643, il quale definisce la transazione «l’accordo col quale, mediante reci- proche concessioni (aliquo dato, aliquo retento dicevano i medievali), le parti pongono fine ad una controversia esi- stente fra loro (anche se solo potenziale)», ed X. XXXXXXX, Diritto privato romano 10, Napoli, 1994, p. 964, che defini- sce la ‘transactio ’ come «l’accordo di porre fine ad una controversia facendosi reciproche concessioni» e cita, come ad avallare questa lettura delle fonti romane, proprio il brocardo medievale «aliquo dato aliquo retento »; anche X. XXXXX, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli arcketipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di imposta- zioni moderne, II, Torino, 1995, p. 247, pure nell’atto di riferire un’ipotesi dello Xxxxxxxxx, sembra ritenere che le re- ciproche attribuzioni e rinunce caratterizzino la transazione. Si scorge in questi autori lo stesso approccio venato di astoricità di X. XXXX, Commentariorum ad Pandectas libri L, Xxxxxxxx, 1804, trad. it. – Commento alle pandette – (cur. X. Xxxxxx), I, Venezia, 1837, p. 486.
Fuori dal coro si colloca X. XXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano 3, Torino, 1991, p. 924, che, cogliendo, a nostro pa- rere giustamente, l’essenza della transazione nel diritto romano classico, la tratteggia come l’ «accordo fra due o più soggetti di dirimere pacificamente una controversia fra loro»: la mancanza di ogni riferimento al requisito dell’ ‘ali- quo dato aliquo retento ’ risulta perfettamente coerente con la testimonianza delle fonti ed ispirata da un maggiore rigo- re storico. La stessa linea di rigore storico ci pare ispirare la disamina del negozio transattivo di D. DALLA, X. XXXXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano, Torino, 1996, p. 384, i quali ben evidenziano le differenze sostanziali fra l’assetto del fenomeno transattivo nella sistematica giustinianea (ove esso risulta assimilato ai contratti) e la sua po- sizione nel diritto romano classico (ove sembra sicura la sua presenza fra le cause negoziali).
64) Ciò affermiamo, contra quanto sostenuto, forse un po’ apoditticamente, nei manuali editi tra fine ’800 ed inizio ’900. Cfr. sul punto DOVERI, Istituzioni 2, cit., p. 293, XXXXX, Istituzioni 2, cit., p. 237 ss. Quest’ultimo dà anche, della necessità delle reciproche concessioni, una semplicistica, quanto inaccettabile, giustificazione sostenendo che
«una rinuncia senza compenso sarebbe una donazione e non una transazione (p. 239), XXXXXXXX, Istituzioni 8, cit., p. 145, BONFANTE, Istituzioni 5, cit., p. 477.
ciscitur donationis causa rem certam et indubitatam liberalitate remittit,
che pure per secoli venne interpretato 65 come recante traccia della stessa ratio sottesa a C.I. 2.4.38. L’incomprensione della tecnica diairetica ulpianea ha per secoli condizionato l’esegesi di que-
sto passo: in esso infatti è stata ravveduta la contrapposizione fra la transazione con cui si transige (la ripetizione ricalca il tenore letterale del testo nell’edizione oggi in uso 66) su di una res dubia o una lite dall’esito incerto, oltre che, naturalmente, non conclusa, e il patto donationis causa con cui si ri- mette una posizione giuridica attiva certa e fuor di contestazione.
Ulpiano è stato per secoli frainteso. Anche a prescindere da considerazioni filologiche e palin- genetiche di carattere specialistico 67 riguardo al tenore del passo, ci pare di poter evincere che
65) Non si rinviene ancora nel commento a D. 2.15.1 di BARTOLUS, In primam digesti veteris partem Commentaria, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, 1589, p. 117, un’affermazione della necessità che la transazione preveda prestazioni a carico di tutti i soggetti che le danno vita, anche se un’accurata analisi è dedicata all’esame del rapporto fra transazione e patto (individuati come specie e genere). XXXXXX XXXXXX, Commentaria in primam Digesti Veteris Partem, Venezia, 1572,
p. 168, non si discosta dall’insegnamento del maestro ed anzi rende con un’icastica perifrasi il dettato ulpianeo:
Transactio fit de re dubia, pactum gratuitum de re certa. koc dicit & ponit differentiam inter pactum gratuitum et transactionem, pur continuando a lasciare in sospeso una definizione di transactio.
Tuttavia l’interpretazione che avrebbe condotto all’errata interpretazione che lamentiamo vide la luce, già nell’opera
di qualche glossatore e grazie ai commentatori riuscì a sopravvivere ed a trovare diffusione in tutt’Europa. Testi- monia infatti questo mutamento di prospettiva colui che è considerato l’ultimo corifeo della scuola dei commenta- tori: XXXXXX DEL XXXXX, Primam Digesti veteris partem Commentaria, Venetiis, 1546, 187, nell’analizzare il frammento ulpianeo si astenne, conformemente alla tradizione bartolista, dall’esprimersi riguardo al significato di ‘transigere ’, ma è di particolare interesse la sua espressione
Transactio est de re dubia et non gratuita, pactio vero de re certa et gratuita
con cui inizia il commento a D. 2.15 (aperto, come al solito, da un sunto del frammento esaminato). Possiamo os- servare come egli non degni d’attenzione la seconda ricorrenza della voce verbale ‘transigit ’ (che pure doveva già comparire nelle edizioni a stampa del digestum vetus) e si limiti a trarre dal testo indicazione dell’ambito d’applicazione dei due negozi. Sembrerebbe anche che il giureconsulto lombardo non tenesse in gran conto nem- meno il verbo ‘remittit ’. Tuttavia il prosieguo del suo commento smentisce – in modo per noi estremamente interes- sante – quest’impressione. Scrive infatti Xxxxxx del Xxxxx nel § 15 del proprio commento che tre sono le caratteri- stiche che deve avere la transazione: a ) deve vertere su una re dubia che sia b ) attualmente o potenzialemente alla ba- se di un processo e, infine, c ) non deve essere posta in essere («fiat ») gratis perché «ut kic innuitur ex differentia pacti ». L’onerosità quindi distingue la transazione dal patto, ed infatti (così nel paragrafo successivo) «remissio quae fit per pactum simplex dicitur esse donatio ». Il pactum simplex, nel caso, altro non sembra essere che un patto non vestito. Per una più organica disamina delle dottrine medievali qui richiamate, cfr. infra, nel testo. Non è dato sapere se a Giason del Xxxxx vadano ascritte le notazioni riportate, che appaiono originali nel confronto con Xxxxxxx e Xxxxx. Tuttavia quand’anche queste risalissero a più oscuri autori o addirittura ad esponenti della scuola dei glossatori, è tuttavia ve- rosimile che sia stata la larga fortuna, anche internazionale, dei «commentaria » di Xxxxxx del Xxxxx a contribuire in modo determinante alla loro diffusione.
66) Il riferimento è all’edizione (cd. ‘Maior ’) del Digesto curata da Th. MOMMSEN e X. xXXXXX («Digesta Iu- stiniani Augusti», Berlin, 1870), base di tutte le edizioni successive (anche di quelle indicate come ‘Minor ’ ), ma il medesimo rilievo resta valido per le edizioni delle Pandette succedutesi dal medioevo ad oggi. In sostanza la ripeti- zione presente nella Littera florentina (a proposito della cui tradizione cfr. X.X. xXXXXXXXXXX, Über die Entstekung der Digestenvulgata. Ergänzungen zu Mommsen, in «ZSS.», XXX, 1909, p. 228), e segnalata dal Mommsen, viene emen- data nello stesso modo, uniformemente, sin dal medioevo.
67) Sintetizzando i risultati di una più completa indagine in corso, di respiro prettamente romanistico, ci pare interessante segnalare che il dettato di D. 2.15.1 pone rilevanti problemi di tradizione testuale. L’incertezza deter- minata dalla reiterazione del verbo ‘transigere ’ ha segnato l’elaborazione dottrinale sul punto. XXXXXXXXX, Della tran- sazione, cit., p. 79, parlava al riguardo di un «transigere usato in senso largo di definire risolvere e simili (sic !), alla fine della prima proposizione …»; per parte sua la M.E. PETERLONGO, La transazione in diritto romano, Milano, 1936, p. 11, pur negando recisamente le interpretazioni del secondo ‘transigere ’ come sinonimo di decidere (Xxxxx) o utiliz- zato in senso largo (Xxxxxxxxx), forte della propria asserzione di interpolazione del testo non sente la necessità di sciogliere il dubbio sul significato del segno; X. XXXXXXXXX, Studi sulle logicke dei giuristi romani, Napoli, 1971, p. 172 e nt. 4, tace sul punto pur biasimando la critica «eccessiva» della Peterlongo; X. XXXXXXX, Contrakere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano, Napoli, 1994, p. 276 ss., non aggiunge un’ipotesi sul significato del se- condo ‘transigere ’ a quella di una calliditas stilistica cui la reiterazione sarebbe da ascrivere; X. XXXXX, Synallagma e con- ventio II, cit., p. 248 e 249 nt. 18, critica sia le radicali tesi interpolazionistiche, che l’ipotesi di una ripetizione inten-
l’intento del Prefetto del Pretorio di Xxxxxxxxxx Xxxxxx fosse la definizione, nell’ambito dei mezzi a disposizione delle parti per porre fine ad una controversia ereditaria, del genere remissio mediante la contrapposizione di due negozi unilaterali, aventi le caratteristiche di una rinuncia: l’uno di una po- sizione giuridica incerta (la transazione), l’altro di una certa (il pactum donationis causa ).
Non vi è nulla nel testo ulpianeo, così come prevenutoci, che richiami la necessità di una con- troprestazione affinché possa parlarsi di transazione e differenziare quest’ultima dal pactum donationis causa. La distinzione tra i due negozi, nell’ «Anfangstelle» del titolo de transactionibus è basata unica- mente sulla natura dell’oggetto dell’atto di remissione e sulla causa di quest’ultima.
Anche qualora si volesse sostenere che Xxxxxxx intese distinguere patto donationis causa e tran- sazione, sulla base della precisazione che il patto posto a confronto con la transazione è un atto di liberalità, si incorrerebbe in un errore o per lo meno si pretenderebbe di trarre, dal testo pervenuto- ci, più del lecito.
L’ablativo ‘liberalitate ’ è ricollegato alla voce verbale ‘remittit ’ (non a ‘paciscitur ’ ): una remissio, è, indubbiamente, sempre posta in essere con la liberalità come causa ultima (come ogni rinuncia d’altronde, anche se tramite essa si aspiri a raggiungere uno scopo ulteriore) e l’elemento distintivo fra le due fattispecie, chiaramente delineato, è la certezza di quanto rimesso nella seconda fattispe- cie. Ciò non può che significare, a nostro parere, che se dovesse mancare questo tratto distintivo le due fattispecie sarebbero identiche: lo prova la precisazione ‘donationis causa ’ che individua il patto tramite il quale si rinuncia ad una propria posizione giuridica soggettiva fra le innumerevoli varianti che lo strumento negoziale atipico per eccellenza del diritto romano presentava nella prassi.
Se si volesse viceversa sostenere che Xxxxxxx abbia inteso distinguere un negozio bilaterale a prestazioni corrispettive (la transazione) da uno unilaterale a titolo di liberalità (il pactum donationis causa ) occorrerebbe altresì spiegare
che bisogno avrebbe avuto di farlo (stante l’autoevidenza di una simile differenza);
come questa scelta avrebbe potuto inserirsi nell’applicazione corretta della tecnica diairetica 68;
per quale ragione il giurista del II secolo fece ricorso proprio al criterio distintivo (peraltro as- sai sottile), basato sulla res certa, quando ciò sarebbe stato evidentemente superfluo una volta affer-
xxxxxxx del verbo «oltre che nel definiendum, anche nel definiens» ed a sua volta suggerisce una soluzione del problema paventando la possibile svista di un copista che avrebbe scritto (e quindi ripetuto) ‘transigere ’ in luogo di una più ap- propriata forma verbale usata nell’originale.
La testimonianza del Codex Florentinus, da noi sul punto indagata, depone in un certo senso a favore dell’ipotesi di X. Xxxxx. Infatti il tenore letterale del passo nel manoscritto, recentemente riprodotto fotograficamente («Iustiniani Augusti Pandectarum codex florentinus» – cur. X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXXX –, Firenze, 1988, I, 52v), è il seguente:
qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita transigit ‘quasi de re dubia et lite incerta neque finita ’ qui vero paciscitur …
Gli apici, che incorniciano la parte ripetuta del pensiero ulpianeo appaiono già nel manoscritto fiorentino (il primo dei due, per la verità, minuscolo sulla pergamena del VI sec.: prova, forse, che la questione sul dove collocare l’inizio della ripetizione non è problema che ci poniamo per primi). Non è oggettivamente dato sapere però se la ri- petizione evidente sia stata il prodotto di un errore del copista, o se l’anonimo autore del manoscritto non avesse piuttosto scorto la ripetizione, e avendone verificata la presenza già nell’originale ne avesse permessa la tradizione riportando diligentemente l’intera espressione così come questa appariva nell’originale. Ciascuna delle due ipotesi non sposta il dato per noi fondamentale: nel testo si rinviene una ripetizione che l’interprete insertore degli apici – sicuramente vissuto assai dopo l’epoca in cui il gruppo di amanuensi cui si deve il codice xxxxxxxxxx operò – ritenne iniziare dal ‘quasi ’, ma che nulla seriamente (nemmeno le regole grammaticali, che, talora, paiono obliterate negli scritti dei prudentes, specie in conseguenza dell’escerzione compilatoria) ci impedisce di ritenere inizi con il secondo ‘transigit ’. Con la conseguenza che il testo da sottoporre all’esegesi risulterebbe avere questo tenore:
qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita qui vero paciscitur donationis causa rem certam et indubitatam libertate remittit.
68) La diairetica, che rappresenta uno dei due procedimenti di cui consta la dialettica platonica, è contrapposta alla sinottica, che con uno sguardo d’insieme mira a cogliere i tratti di unità in cose disperse e molteplici: essa infatti consiste nel saper dividere secondo le idee, seguendo alle articolazioni proprie di queste in natura, cercando di non spezzare mai (cfr. X. XXXXXXX, L’ancienne rkétorique, Xxxxx, 0000, trad. it – La retorica antica –, Milano, 1980 [cur. X. XXXXXX], p. 17). Xxxxxxx pare avere fatto ricorso a questa tecnica con una certa assiduità, dando un’ossatura logica (invero non sempre ineccepibile) ad alcune parti dei propri vasti commentari.
mata l’onerosità della transactio.
Quindi il brocardo «aliquo dato aliquo retento » (che certamente è un prodotto medievale 69, come rileva anche una parte della dottrina romanistica moderna la quale pure sembra ritenere essenziale, nella transactio romana classica, la reciprocità delle concessioni) 70 trae fondamento, con fondata sicu- rezza, dalla sola C.I. 2.4.38: la presunzione della sua validità per il diritto romano tout court, e quindi anche per i giuristi classici, senza distinzione di periodi, è il frutto di una immotivata retrodatazione. A questo punto però occorre tentare di trovare una motivazione soddisfacente di un altra ca- ratteristica della trasmissione del frammento dioclezianeo, vale a dire la sopravvivenza disarticolata del rescritto contenuto in C.I. 2.4.38 nella forma ‘dato aliquo, seu promisso 71, aut retento ’ che ( come ve- dremo infra, nel testo) è testimoniata in Vinnio e Xxxxxxx e con ogni verosimiglianza affonda le pro- prie radici in una tradizione ancor più risalente che ci pare opportuno tentare di ricostruire. A no- stro parere il rimescolamento del dettato dioclezianeo e il conseguente affiancamento al brocardo
«aliquo dato aliquo retento », ermeneuticamente corretto, di quello «aliquo dato, seu promisso aut retento », molto meno rispettoso del dettato originario, è stata possibile grazie all’affermarsi alle soglie dell’età moderna 72 della convinzione che la transactio appartenesse al genus pacti equindi vi si dovesse applica- re la teoria dei vestimenta pactorum 73 allo scopo di assicurare anche a questo tipo di conventio un’azio- nabilità che diversamente, alla luce del principio «ex nudo pacto actio non oritur », sarebbe mancata an- che di fronte all’inadempimento 74.
In quest’ottica, verosimilmente, parve naturale individuare nei tre verbi utilizzati da Dioclezia- no le prestazioni che, in qualità di vestimentum, avrebbero reso azionabile il placitum transattivo non rispettato e, di conseguenza, il nesso logico-linguistico originario perse interesse agli occhi dei giuri- sti, determinando la trasformazione dell’esemplificazione delle reciproche concessioni dioclezianea nella elencazione delle prestazioni efficaci allo scopo di «vestire» l’accordo col quale si poneva fine alla controversia o la si preveniva. Si noti a tal proposito come l’ordine sconvolto, in cui ‘promittere ’ segue immediatamente ‘dare ’, ripropone esattamente, e a nostro dire non casualmente, l’ordine se-
69) Presumiamo sulla base – è opportuno anticiparlo anche se la trattazione del problema è rinviata ad uno studio monografico prettamente romanistico sul punto – di una errata comprensione di Ulpiano 50 ad ed. (D. 2.15.1) favorita dalla (come ricordato) corrotta tradizione letterale della fonte.
70) TALAMANCA, Istituzioni, cit., p. 643: cfr. supra, nt. 38.
71) Meriterebbe un’indagine linguistica, che i limiti naturali di questa nostra impediscono, il fatto che Xxxxxx riproponga in modo errato i tre verbi, ma riservi a ‘promisso ’ una congiunzione (‘seu ’ ) diversa da quelle preferite per ‘dato ’ e ‘retento ’ (‘aut ’ ). Non è forse troppo ardito ipotizzare che il giurista nutrisse qualche perplessità sull’effettiva opportunità dello stravolgimento operato.
72) Nonostante il fatto che sia Xxxxxxx che Xxxxx si mostrassero riluttanti ad utilizzare la categoria pattizia per includervi la transazione (il secondo anche a pena di offrire una definizione certamente poco conferente, come messo in luce supra, nt. 65) sembra che invece non avesse analoghi problemi Giason del Xxxxx, proprio sulla scorta della sistematica glossatoria strutturata da Piacentino e Azzone.
73) Tesi, quella dell’inclusione della transazione fra i patti, sostenuta già da X. XXXXXXXXX, ‘Transazione (diritto intermedio ) ’, in «ED», XLIV, Milano, 1992, p. 800, il quale però non collegava, a questo fatto, la disarticolazione del precetto dioclezianeo da noi individuata, trattandosi in effetti di un punto ai limiti della sua ricerca. Per ulteriori elementi circa la teoria dei vestimenta pactorum e della sua fortuna, cfr. I. BIROCCHI, Causa e categoria generale del contratto. Un problema dogmatico nella cultura privatistica dell’età moderna. I. Il cinquecento, Torino, 1997, p. 31 ss., R. VOLANTE, Il si- stema contrattuale del diritto comune classico. Struttura dei patti e individuazione del tipo. Glossatori e ultramontani, Milano, 2001,
p. 91 ss.
74) Una lucida ricostruzione dell’approccio medievale alla tematica transattiva in X. XXXXXXXXX, Il patto e il dolo, in «Studi in onore di X. Xxxxx», Milano, 1994, I, p. 605 ss. (in particolare p. 609), che ci lascia qualche dubbio soltanto riguardo all’asserita corrispondenza dell’inclusione della transazione fra i patti, da parte dei glossatori, «al modello romano» (un’affermazione che l’Autore, peraltro, giustifica citando X. XXXXXXX, ‘Transazione (diritto roma- no ) ’, in «ED». XLIV, Milano, 1992, p. 771, anche se il romanista napoletano a noi pare, nella circostanza, piuttosto cauto, poiché riconosce sin dall’apertura «l’ambiguità che l’istituto presenta tra la zona ampia e spesso indeterminata del pacisci e quella dei contractus, atipici o cosiddetti sine nomine »). La prudenza ci pare nel caso preferibile, in primo luogo, perché occorrerebbe intendersi su cosa rappresenti la locuzione «modello romano» ed in secondo luogo per- ché ci pare lecito preferire una maggiore attenzione nel considerare l’apporto dei singoli giuristi classici sul punto.
guito da Azzone nell’elencare i vestimenta pactorum 75.
Svolte queste necessarie precisazioni è possibile guardare all’epoca della redazione del codice civile francese (quando all’interno del corps legislatif, il dibattito sul punto poté svilupparsi acceso e veder prevalere l’orientamento di Domat 76, contrario a riconoscere carattere di essenzialità alle reci- proche concessioni) senza che ciò rappresenti un’autentica frattura col diritto romano, come alcuni hanno sostenuto 77, ma semplicemente un orientamento diverso sia rispetto alla legislazione di un imperatore, Xxxxxxxxxxx 78 – che sicuramente fu rilevante per la disciplina della materia transattiva 79, ma certo anche indipendente e, a nostro dire, eterodosso rispetto alle dottrine dei prudentes che in precedenza avevano offerto contributi sul tema –, sia rispetto alla tradizionale teoria medievale dei vestimenta.
Ben diverso, da quello del Domat, l’atteggiamento che, fra il XIX e il XX secolo, tenne la dot- trina italiana, sia civilistica che romanistica80 (quest’ultima, evidentemente con maggior colpa), trat- tando sempre l’ «aliquo dato aliquo retento » come un requisito essenziale 81 della transazione, trascu-
75) «Re, verbis, consensu, litteris, contractus cokarentia, rei interventu, rei principio » (Summa Azonis locuples iuris tkesaurus, Venezia, 1584, ad tit. de pactis, n. 15).
76) Il principio (che, come vedremo, infra, § 4, ha una tradizione parallela a quella delle reciproche concessioni, ma è, a nostro parere, più risalente) è perfettamente sintetizzato da X. Xxxxx de Préameneu (riportato da P.-X. XXXXX, Recueil complet, cit., p. 103) nelle sue osservazioni presentate al corps législatif: «et lors même quand l’une d’elles (scil. le parti transigenti) se désiste entièrement de sa prétention, elle se détermine par le grand intéret de réta- blir l’union et de se garantir des longueurs, des frais, et des inquétudes d’un procès» (cfr. supra, nt. 43).
Osservava X. XXXXXXX, Commentario del codice civile italiano, IV.I, Torino, 1878, p. 1121 e s.: «Questo del d a r e e r i t e n e r e (spaziatura nostra) è uno degli essenziali della transazione. Sono le pretese che si affacciano nel miti- gato … A questa specialità si prestò attenta la legge romana. Meritò quindi censura e non gli fu risparmiata, l’art. 2044 del codice francese, che taque di questa formola capitale; ed è a lodarsi il nostro art. 1764, che, quasi meravi- gliato che i codici intermedi l’abbiano dimenticata (ipotizziamo che l’Autore non conoscesse il precedente dell’
«ABGB.» – supra, nt. 54 – o forse per orgoglio nazionale ne taccia) all’uso del francese, la riassume.» Xx Xxxxxxx fece difetto, presumibilmente, anche uno studio dei lavori preparatori del «Code Napoléon» e soprattutto delle opere del Domat, ispiratore del legislatore transalpino sul punto, altrimenti avrebbe potuto ricordare che non di dimenticanza si trattò, ma di una precisa scelta di politica legislativa, adottata da chi non era persuaso che reciproche concessioni fossero necessarie alla transazione. Naturalmente però, anche una simile manifestazione di scarsa conoscenza dei modelli (romano e francese) serve, fornendoci qualche elemento della temperie culturale dell’epoca, a comprendere il tenore dell’art. 1764 e l’atteggiamento delle corti nell’applicarlo. Infatti la falsa convinzione che i francesi (e tutti i legislatori che nella frazionata penisola li avevano presi a modello) avessero d i m e n t i c a t o di menzionare i sa- crifici reciproci (o, sul modello dell’ «ABGB.», le prestazioni corrispettive) fra gli essentialia negotii, aveva evidente- mente informato anche i giudici, oltre che, come abbiamo visto, la dottrina. Per queste ragioni, di conseguenza, ai commissari posti di fronte al testo del progetto Xxxxxxxxx non pare che vi siano variazioni significative (cfr. supra, nt.
52) rispetto al testo dei corrispondenti articoli dedicati alla transazione nei codici preunitari: l’impressione per essi fu quella di trovarsi dinanzi, al massimo, un’esplicitazione, non già una vera una innovazione. Il codice civile italia- no del 1865, agli occhi dei suoi padri, dei pratici e dei giuristi in genere, conduceva fuori dall’ombra ciò che gli ope- ratori del diritto avevano sin lì ritenuto come semplicemente sottinteso, più che mancante, al dettato dell’art. 2044
«Code civil des Français» (1804).
77) Cfr. supra, nt. 76.
78) Sulla base del giudizio del Domat (cfr. supra, nt. 43) riguardo alla tassatività della previsione contenuta in
C.I. 2.4.38 è verosimile congetturare che, alla luce della particolare distinzione fra norme naturali e norme arbitrarie praticata dal giurista transalpino, la norma dioclezianea andasse inserita fra le seconde.
79) Se non altro per l’alto numero di rescritti di Xxxxxxxxxxx pervenutici in tema di transazione: basti pensare che ben oltre il cinquanta per cento del titolo ‘De transactionibus ’ nel Codex Repetitae Praelectionis è composto dalle ri- sposte dell’imperatore ai quesiti posti dalla prassi, risposte per lo più emanate in un ristrettissimo ambito cronologi- co (il periodo fra il 293 ed il 295 d.C.).
80) Cfr. supra, nt. 31.
81) Così X. XXXXXXX, Istituzioni di diritto civile italiano 2, Milano-Torino-Roma, 1912, II, p. 191, DE XXXXXXXX, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 469; in modo singolare E. PACIFICI-XXXXXXX, Istituzioni di diritto civile Italiano 5, Torino 1927, V.II, p. 330, definisce la transazione come il «contratto con cui i contraenti, rinunziando ciascuno a parte delle sue pretese, o facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere» e precisa, fra gli elementi essenziali del negozio, «la concessione o il sacrificio che i contraenti r e c i p r o c a m e n t e si fanno».
rando una, più che opportuna, corretta collocazione storica del concetto, e traendo a più riprese ar- gomento di censura, per l’operato del legislatore francese, proprio da questa convinzione.
Tuttavia, date simili premesse, sarebbe stato del tutto logico che, per lo meno, la definizione di transazione da introdurre nel nuovo codice tenesse in debito conto simili posizioni: invece il com- patto atteggiamento tenuto da dottrina e giurisprudenza non fu sufficiente a garantire che nel «Co- dice Civile Italiano» 1865 la transazione fosse regolata davvero alla luce del principio espresso da Xxxxxxxxxxx.
Ciò accadde, a nostro giudizio, proprio perché quel principio (complice l’accennata sovrappo- sizione storica di due tradizioni interpretative) non fu correttamente inteso.
Nella formulazione del «Codice Civile Italiano» 1865, non solo il contenuto, ma anche la ratio del rescritto è andata smarrita: la lettera del codice non consente di scorgere alcuna prescrizione di uno scambio di concessioni o, per lo meno, di una reciprocità dell’obbligo di dare, promettere o ri- tenere qualcosa che grava su ciascuna delle parti coinvolte, né di cogliere con certezza un riferi- mento degli atti realizzanti lo scopo transattivo all’oggetto della controversia. La formulazione
«dando, promettendo o ritenendo ciascuno qualcosa» perde il senso profondo del rescritto impe- riale che pure la ispirò: la mancanza di un segno analogo al ‘vel ’ fra «dando» e «ritenendo», e so- prattutto il fatto che i due gerundi non siano presentati l’uno vicino all’altro 82, delineano una co- struzione che appare disgiuntiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, dei tre modi di transigere e ap- palesano l’errore commesso nel leggere e nell’interpretare l’originario dettato dioclezianeo. Quest’ul- timo era infatti ispirato alla ratio che ciascuna delle parti dovesse ‘aliquid 83 dare a t q u e retinere ’ (o impegnarsi a farlo) e non certo ‘aliquid dare a u t aliquid retinere ’ 84, come invece il «Codice Civile Italiano» 1865 sembra affermare, in virtù dell’inequivocabile tenore letterale dell’art. 1764, mancante di ogni legame tra ciò che si dà, si promette o si ritiene e l’oggetto della controversia.
L’art. 1764 paga quindi, a nostro giudizio, un pesante pedaggio alla teoria medievale dei vesti- menta pactorum introducendo una definizione legislativa assolutamente carente e potenzialmente pe- ricolosa per la prassi negoziale 85.
La scarsa qualità del lavoro svolto dalla commissione Xxxxxxxxx sul punto avrebbe, in effetti, potuto determinare effetti molto significativi sulla prassi e soprattutto sulle decisioni giurispruden- ziali del neonato Stato italiano e invece la scadente tecnica definitoria del legislatore 86 non produsse i guasti possibili. All’aberrazione insita nel dettato legislativo 87 si contrappose 88, sin da subito,
82) Quasi a significare che i due verbi, insieme a «promettendo», rappresentassero, per il legislatore, elementi caratterizzati dal godimento della proprietà commutativa. E ciò pare davvero la compiuta dimostrazione di quanto la fonte classica fosse rimasta incompresa.
83) Dove riteniamo che ‘aliquid ’ stesse ad indicare una parte della materia del contendere e non genericamente
«qualcosa».
84) Nel quadro legittimamente desumibile dal dettato dell’art. 1764, che già una prima superficiale esegesi mette in luce, non pare azzardato ipotizzare che avrebbe integrato gli estremi del contratto di transazione tipizzato dal legislatore, al di là dell’assurdità logica del caso, addirittura un accordo fra due parti in lite sulla spettanza di un oggetto (il quale si trovasse nella materiale disponibilità di una di loro) con cui si ponesse fine alla controversia per mezzo della ritenzione della cosa da parte del possessore attuale e del trasferimento di una somma di denaro dalla controparte rivendicante, sempre al possessore attuale: per il semplice fatto che ciascuna dà o ritiene qualcosa per- seguendo lo scopo fissato convenzionalmente di estinguere la lite in corso. Ciò è possibile perché poco importa ai fini della piena efficacia del negozio concluso (conformemente alla lettera del «Codice Civile Italiano» [1865]) che la bilancia dei sacrifici penda su uno solo dei soggetti transigenti.
85) Cfr. il caso di scuola prospettato supra, nt. 84.
86) Di cui fu certo corresponsabile la dottrina romanistica, incapace di comprendere la reale ratio del rescritto.
87) Che peraltro sfuggì anche ad un autore come il BERTOLINI, Della transazione, cit., p. 69, (normalmente tanto attento da cogliere la non altrettanto evidente distorsione dell’originale precetto dioclezianeo: p. 73 e s.), il quale ritenne espresso nel primo codice unitario il principio della reciprocità associando, forse, un simile contenuto, come altri suoi contemporanei, al significante «ciascuna».
88) Va precisato come mai si sia trattato di contrapposizione esplicita: semplicemente le sentenze dei tribunali leggevano l’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865) come se vi si parlasse di reciproche concessioni oppure, con
l’orientamento unanime delle corti, fino al punto di far trattare come ovvio il principio che «manca anche la transazione ove manchi l’aliquo dato, aliquo retento, o altrimenti l’kinc inde remissum.» 89 nelle rassegne di giurisprudenza.
Il risultato fu che l’art. 1764 nella sua parte precettiva, riguardo al contenuto del negozio, ven- ne immediatamente disapplicato. Tuttavia, e questo fatto rappresenta un’anomalia nell’anomalia, ciò non accadde per una scelta consapevole degli interpreti, dettata dall’individuazione di un’inadeguata formulazione 90 codicistica, ma, semplicemente, poiché le corti e la dottrina continuarono a fruire di un modello transattivo astratto, modellato da una lunga ed ininterrotta tradizione (rispetto alla quale il contributo di Domat presentava le caratteristiche dell’eccezione), basato sulla reciprocità funzio- nale delle concessioni e, sostanzialmente, su di una migliore comprensione della disposizione impe- riale contenuta in C.I. 2.4.38 e sul suo errato ed astorico, coordinamento con D. 2.15.1.
Non è, viceversa, onestamente sostenibile che in quegli anni la giurisprudenza delle corti e l’elaborazione dottrinale in tema di transazione abbiano utilizzato un archetipo ricavato dall’inter- pretazione del dettato codicistico, giacché in tal caso dovremmo, almeno in qualche occasione, rin-
grande disinvoltura, facevano riferimento ad una koiné transattiva che non è quella tratteggiata dal legislatore. In ogni caso i giudici non dimostrarono grande considerazione per la normativa codicistica (cfr. infra, nt. 39).
89) Così poteva riassumere, partendo dalle sentenze citate, X. XXXXX, Codice civile del Regno d’Italia illustrato con le principali decisioni delle corti del regno, Firenze, 1897, p. 491 nt 2 – continua a pag. 492 –, il quale, peraltro, sembra tratta- re il principio come immanente all’ordinamento e, va da sé, pienamente ed efficacemente operante (benché esso non solo non sia espresso dal legislatore, ma quest’ultimo ne esprima uno affatto contrario) ad onta dell’art. 3 delle Disposizioni sulla pubblicazione ed applicazione delle leggi in generale (il cui ruolo nel codice vigente è svolto dall’art. 12 delle Preleggi) che recitava: «Nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio si- gnificato delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore» e nel quale X. XXXXXXX-PAS- SARELLI, Dai codici preunitari al codice civile del 1865, in «Studi in memoria di X. Xxxxxxxx», Milano, 1968, II, p. 1042, ha riconosciuto una delle maggiori innovazioni del primo codice italiano rispetto a quello francese: quest’ultimo, infat- ti, nel regolare il processo interpretativo aveva mirato, prevalentemente, a garantire la decisione del caso concreto. I magistrati, conoscitori del diritto romano evidentemente migliori di quanto non fosse stato il legislatore del 1865, in più di un’occasione si ispirarono all’inespresso, ma evidentemente ritenuto ovvio, principio della necessaria recipro- cità delle prestazioni/concessioni (ci pare inutile ricercare all’epoca i tratti di una distinzione tutta attuale: cfr. infra.,
§ 7) per stabilire proprio quando di transazione si fosse, o meno, trattato. Cfr. le sentenze sui casi: Xxxxxxxxxx c. Xx- xxxxxxx (Cass. Torino, 17 giugno 1885, in «Giur. it.», 1885, I, p. 1687) nel cui testo insieme con il richiamo al testo dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865) si legge che «se dunque non vi fu da parte dei contraenti veruna reci- proca concessione o sacrificio di credito qualsiasi, è impossibile sostenere con profitto che si trattasse di transazio- ne»; di analogo tenore, Mutti x. Xxxxxxx (App. Bologna, 22 agosto 1885, in «Giur. it.», 1885, II, p. 551), Gallotti x. Xxxxxxxx (App. Milano, 26 luglio 1886, in «Giur. it.», 1887, II, p. 174), nel testo della quale si trova riportato il testo di C.I. 2.4.38 corretto … alla luce dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865) (‘transactio nullo dato, vel retento, vel pro- misso, minime procedit ’ ) e di conseguenza si considera dall’articolo in questione «felicemente completata, sulle traccie della dottrina, la monca dizione dell’art. 2044 del Codice civile francese», Saglio c. Sarrigo (App. Milano, 27 giugno 1887, in «Giur. It.», 1887, II, p. 441), in cui esplicitamente si legge: «l’assenza di materia controversa e di qualsiasi rinuncia o rimessione da parte dell’uno a favore dell’altro paciscente esclude […] qualsiasi concetto di transazione». Sulla base di dottrina e giurisprudenza può il D’ONOFRIO, Della transazione, cit., p. 227 (cui adde la bibliografia citata sul punto alla nota 30) affermare che «la necessità di reciproche concessioni ai fini aversi un contratto di transazione è insegnamento tradizionale nella dottrina e nella giurisprudenza» anche con riguardo all’epoca di vigenza del- l’abrogato codice.
90) Vale a dire analogamente a quanto era successo in Francia ove, a seguito dell’emanazione del «Code civil des Français» (1804), la formulazione dell’art. 2044 aveva prodotto la classificazione di negozi mancanti del requi- sito delle reciproche concessioni, ma volti a dirimere una controversia, come transazioni, con la conseguente appli- cazione agli stessi della disciplina dettata per il negozio transattivo. E’ il caso della causa Delonne x. Xxxxx (Journal du Palais, cit., 1814-juillet 1815, XII, p. 590) in cui una transazione tra le parti era intervenuta a seguito della conte- stazione del credito da parte del debitore: il contenuto dell’accordo era il riconoscimento del debito e la dichiara- zione di disponibilità a prestarlo. La Cassazione ritenne, proprio sulla base dell’art. 2044, ed evidentemente dei «tra- vaux», che di transazione si fosse trattato e cassò la sentenza della corte di Riom che aveva giudicato sulla fattispecie nonostante il contratto transattivo intervenuto. Pochi anni dopo l’emanazione del codice, un generale cambio di rotta della dottrina avrebbe determinato l’abbandono delle posizioni maggiormente rispettose del dettato codicisti- co, sino ad allora tenute, per un ritorno ad una costruzione del negozio transattivo ispirata ad una tradizione auto- revole, che però alla definizione legislativa non aveva contribuito.
venire un’espressione contrariata per la tecnica utilizzata dal legislatore, per l’assenza d’un riferi- mento alla reciprocità, per l’incauto posizionamento dei verba dioclezianei (che solo in un caso iso- lato si rinviene 91) o per la loro connessione mediante disgiuntive. Più semplicemente, e quindi a no- stro parere anche più probabilmente, il modello transattivo descritto nell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 era ben diverso da quello utilizzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza e questi ulti- mi due formanti si guardarono bene dal mutare i propri orientamenti ermeneutici in ossequio alla lettera del primo codice italiano.
Ovviamente questa vicenda, che non farebbe specie in altri ordinamenti 92, motiva un certo stupore nel sistema italiano anche alla luce dell’art. 3 93 delle norme sull’interpretazione della legge premesse al «Codice Civile Italiano» 1865: tramite queste, infatti, il legislatore del Regno appena nato aveva inteso offrire (evidentemente senza fortuna) un valido baluardo alla supremazia della legge nella gerarchia delle fonti, preservandola da sedicenti 94 interpretazioni capaci di mutarne il senso, quando non, addirittura, di stravolgerlo.
4. Se è vero che la formulazione del 1865 richiama il dettato dioclezianeo, secondo il quale, tuttavia, era essenziale una reciprocità di concessioni – per quanto esemplificate tramite una corrispettività di prestazioni (e non già di obbligazioni) – affinché si abbia una transazione, abbiamo però posto in luce come questo legame si fermi al livello di suggestione linguistica95, di fronte all’insuperabile dato letterale del codice Xxxxxxxxx che non rispetta l’ordine originario dei verbi (‘datum vel retentum seu pro- missum ’ ) e la loro connessione nel rescritto imperiale, smarrendo il senso della costruzione.
Ci è stato possibile dimostrare come la letteratura fiorita sul «Codice Civile Italiano» 1865 ab- bia inteso prescindere dall’art. 1764, e da una sua interpretazione esegeticamente corretta, proprio perché questo sanciva sì una necessaria c o r r i s p e t t i v i t à d i p r e s t a z i o n i (prescri- vendo l’onere per ciascun contraente di compiere uno dei tre atti tipizzati), ma non già una r e - x x x x x x x x à d i c o n c e s s i o n i (poiché non richiedeva che gli atti transigendi gratia fossero oggetto di scambio, di modo che la concessione di uno dei transigenti rappresentasse un vantaggio per l’altro e, di conseguenza, il sacrificio di uno fosse riequilibrato da quello dell’altro).
Ma qual è la giustificazione storica di una simile evoluzione ? Quali sono le ragioni di un simile atteggiamento ?
A nostro parere, la scienza giuridica poté agire nel modo rilevato per due ragioni. Da un lato esisteva una tradizione interpretativa tanto solida da avere, già in precedenza, giustificato la miopia dimostrata (e da noi già segnalata) verso la costruzione della transactio nel «Code Napoléon» ispirata
91) SCEVOLA, La transazione, cit., p. 8.
92) Il riferimento è naturalmente ai sistemi di «common law», in cui proprio il susseguirsi delle sentenze fissa normalmente gli elementi definitorî e di disciplina delle fattispecie realizzate nella prassi, dando vita ad un sistema che non è meno positivista né, in Inghilterra e Xxxxxx, per lo meno a partire dal 1875, meno formalista di quello nei voti dei codificatori continentali, sebbene, senza dubbio, veda all’opera una maggiore pluralità di fonti del diritto, se ci è concessa l’espressione, «ufficiali».
93) Cfr. supra, nt. 73.
94) Se l’aggettivo utilizzato può apparire troppo forte, si consideri però ch’esso pone bene in risalto l’incom- patibilità, dell’operazione svolta dalle corti del Regno d’Italia dopo l’emanazione del «Codice Civile Italiano» (1865), con i caratteri dell’interpretazione della legge, riassumibili, per colui che la ponga in essere, nel dover restare «sem- pre fedele alla lettera della legge, secondo l’opinione più temperata» pur nella necessità di «valutare con la dovuta sensibilità le mutate esigenze sociali» (così X. XXXXXXX, ‘Interpretazione della legge ’, in «NNDI.», VIII, Torino, 1962,
p. 896). Il lasso di tempo, estremamente breve, intercorso tra la promulgazione del «Codice Civile Italiano» (1865) e le sentenze citate (cfr. supra, nt. 73) pare escludere l’intervento di mutate esigenze sociali e, allo stesso tempo, favo- rire l’impressione che la giurisprudenza abbia tenuto un atteggiamento rispetto alla formulazione codicistica, pur innovativa rispetto alla tradizione napoleonica e preunitaria, tamquam non esset.
95) Dell’avviso che invece l’art. 1764 conservasse addirittura «integra la figura, e […] la natura propria della transazione, quale ci fu tramandata dalla sapienza romana», era lo SCEVOLA, La transazione, cit., p. 6 s. Rilievi impli- citamente ed esplicitamente analoghi in CATTANEO, Il codice civile, cit., p. 1376 s.
dal Domat e quindi, oseremmo dire a fortiori, perfettamente in grado di fondare un analogo atteg- giamento nei confronti della codificazione italiana del 1865; dall’altro pesava, nei lavori preparatori del «Codice Civile Italiano» 1865, l’assenza di una motivazione esplicita sia per la modificazione del testo di un articolo come il 2083 del codice sardo (sostanzialmente il 2044 del «Code civil des Français» (1804) napoleonico semplicemente, pedissequamente, tradotto 96, in tutta legislazione preunitaria), sia per l’accoglimento di una formulazione, in definitiva, simile a quella dell’ «ABGB.», anche se la matrice del testo dell’art. 1764 è indubbiamente più risalente del codice asburgico vi- gente nel regno lombardo-veneto.
Il Cattaneo 97 ci informa che l’articolo in esame sarebbe debitore, del proprio tenore, verso il Xxxxxxx. L’informazione è senz’altro degna di fede anche se ci pare di poter rettificare, parzialmente, questa affermazione in primo luogo nel senso che la definizione codicistica di transazione dipende in misura forse maggiore dalla traduzione delle Pandette riordinate dal Xxxxxxx e dall’indice delle Pandette di Xxxxxxxxxxx, curati in Italia da Xxxxxxx Xxxxxxxxx00 e, in secondo luogo, nel senso che il Xxxxxxx sembra adottare una soluzione definitoria diversa, nella sostanza, da quella poi entrata nel
«Codice Civile Italiano» 1865.
Nell’Indice delle Pandette 99, alla voce «transazione», si legge:
La transazione è una convenzione con cui si dà o si promette o si ritiene qualche cosa affine di estingue- re una lite già mossa o da muoversi. Quindi è differente dal patto a titolo di donazione 100.
Così il Bazzarini sintetizzava la definizione di transazione del Xxxxxxx compilando il proprio «Indi- ce». Diversamente optava per la scelta dell’espressione «troncare la lite», in luogo di «estinguere la lite», nella traduzione integrale dell’immane opera del giurista transalpino 101.
Già di primo acchito, non ci pare possibile una perfetta sovrapposizione del significato di
«estinguere» e «troncare», ma bisogna vieppiù rimarcare come nell’originale del Xxxxxxx fosse utiliz- zata un’espressione il cui significato appare senz’altro più fedelmente reso (anche se con l’enfasi ti- pica delle imitazioni) dall’italiano «troncare», piuttosto che dal generico «estinguere»:
Transactio est conventio quâ, litis motæ aut movendæ d e x x x x x x x 000 xxxxx, xxxxxxx datur aut
96) Cfr. supra, nt. 44.
97) X. XXXXXXXX, Il codice civile annotato, Torino, 1865, II, p. 1377.
98) X. XXXXXXXXX, ‘Transazione ’, in «Indice alfabetico ragionato delle Pandette di Giustiniano riordinate da
R.G. Xxxxxxx», Venezia, 1835, II, p. 1462, Le Pandette di Giustiniano disposte in nuovo ordine da R.G. Potkier, I, Venezia, 1841, p. 136.
99) Cfr. supra, nt. 98.
100) Si noti come la locuzione, ed in particolare il nesso di causalità presente fra i due periodi, contribuisca a fugare in modo definitivo i dubbi circa le matrici storiche dell’impostazione del Xxxxxxx e, specificamente, la sua co- struzione della transactio come patto, volto a decidere una controversia attuale o potenziale, «vestito» da una dazio- ne, una promessa o una ritenzione di qualcosa.
101) Le Pandette di Xxxxxxxxxxx, cit., p. 136: «La Transazione è una convenzione con cui si dà o si promette o si ritiene qualche cosa a fine di troncare una lite già mossa o da muovere.»…
102) La definitio del Xxxxxxx, ed in particolare il riferimento alla transazione come decisione, in essa contenuto, ci pare informata ad un’espressione di X. XXXXXXX, In primam partem pandectarum, sive Digestorum, metkodica enarratio, in Omnia quae quidem kactenus edita fuerunt opera, Frankfurt a.M., 1598, p. 61, che iniziando l’esame di D. 2.15 ‘De tran- sactionibus ’ affermava «Specialiter autem sub koc titulo transactio accipitur pro decisione rei dubiæ, litisue incertæ, data retenta aut promiss re aliqua ». Ci pare che, viceversa al Xxxxxxx, o meglio ad una differente, già considerata, influenza vada ascritta la destrutturazione del principio contenuto in C.I. 2.4.38, giacché questo si presenta fedelmente riportato, e quindi verosimilmente ben compreso, nella metkodica enarratio. Nel fatto che la decisio duareniana divenga nell’ela- borazione di Xxxxxxx una conventio decidendi causa, sembra doversi individuare, viceversa, una significativa influenza di
H. XXXXXXXX, Commentaria in Codicem Xxxxxxxxxx, in «Opera omnia», Firenze, 1846, VII, p. 265, che annovera la tran- sactio fra le conventiones lato sensu intese. Questa equiparazione (transazione-decisione) che sarebbe sfociata, anche nella sistematica domatiana e quindi nei codici civili moderni, nel riconoscimento di forza di giudicato alla transa- zione, non presenta radici risalenti quanto l’inclusione della transactio fra i pacta : nessuna identificazione fra transa-
promittitur, aut retinetur. Hinc differt a pacto donationis causâ 103.
«Decidere» e «troncare» riconducono l’attività transattiva nella sfera cui appartengono le pronunce giudiziali, riconoscendo implicitamente all’accordo transattivo quel valore di giudicato fra le parti che non solo storicamente viene attribuito alla transazione. Viceversa al verbo «estinguere» si ap- punta una maggiore gamma di significati (fra i quali rientrano sì «decidere» e «troncare», ma non solo): il suo uso indica quindi un allontanamento dalla costruzione della transazione come ıoµý 104 per porla tra confini meno rigidi (e limitanti) e trova nel «Codice Civile Italiano» 1865 un fautore di quest’opzione, che si rivela con la locuzione «pongono fine a».
Tuttavia, dalla definizione del Xxxxxxx, oltre al dato letterale è possibile trarre un’informazione circa la struttura della transazione di grande importanza: sembra infatti emergere, in questa, come la conventio, in cui si identifica la transazione, sia lo s t r u m e n t o per dare, promettere o si ritenere qualcosa, al fine decidere la controversia.
Il dato linguistico presenta un ordine dei fattori che non è certo ininfluente sul piano della co- struzione giuridica. Infatti, traducendo il più possibile in modo letterale, la ‘transactio ’ è la conventio c o n l a q u a l e 105 si effettua o si promette una determinata prestazione allo scopo di decidere (non «d’autorité» come sarebbe nel caso di una sentenza, ma «par un consentement réciproque»)106 la lite in corso o potenziale: è quindi di fondamentale importanza nell’analizzare l’opinione del Xxxxxxx tenere a mente che il rapporto conventio - datio/retentio/promissio individua la causa immediata del negozio transattivi, mentre quello conventio - litis decidendae causa individua la causa teleologica dello stesso.
Risultano così chiari due punti.
xxxxx e decisione della controversia si rinveniva infatti,in XXXXXXXX, In primam digesti, cit., p. 117 e XXXXXX XXXXXX, Commentaria in primam, cit., p. 168 nel commentare il frammento ulpianeo contenuto in D. 2.15.1. Significativamente questa posizione è testimoniata nel testo dei Basilici: Bas. 11.2.1 = D. 2.15.1: OtáZjo∂ç soıtv àvftþaZZoµ◊voj nqáyµaıoç ıoµý (anche se nella più recente edizione critica di questa codificazione, la parte contenente l’identificazione della transazione con la decisione è sospettata di provenire dall’opera dell’antecessor Xxxxxxx e non dalla traduzione condotta dall’Anonimo sul testo del Digesto). Al di là dello specialistico problema filologico ci pare interessante osservare che, data la diffusione dei Basilici fra i giureconsulti europei solo a partire dal XVI sec. (forse il Cuiacio per primo ne fece un uso di qualche momento), ciò potrebbe contribuire a spiegare il tardivo affermarsi dell’individuazione nella transazione di un «Urteilssurrogat».
103) R.J. XXXXXXX, Pandectæ Justinianeæ, in novum ordinem digestæ: cum legibus codicis et novellis, quæ Jus Pandectarum confirmant, explicant, aut abrogant, I, Paris, 1748, p. 80. Si osservi come nella definizione del Xxxxxxx il baricentro della differenza fra transazione e pactum donationis causa sia compiutamente identificata nell’onerosità della prima. (cfr. su- pra, nt. 56).
104) Sostantivo che indica il tagliare sia in senso materiale che figurato, cioè decidere, ed in questa seconda ac- cezione si ritrova nei Basilici per indicare la natura di decisione della cosa dubbia propria della transazione (àvftþaZZoµ◊voj ıoµý): cfr. supra, nt. 102.
105) In che modo con una convenzione si dia o si ritenga qualcosa non è dato comprendere senza tenere a mente l’intrinseca ambiguità della definizione di contratto derivata dal Xxxxxxx nei codici civili, francese ed italiano, e basata su di una sfasatura dei significati di ‘conventio ’/«convention» e ‘consensus ’/«consentement», che invece, a tutta prima, sembrerebbero indicare significati perfettamente sovrapponibili: cfr. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto, cit., p. 41 ss. Tuttavia l’interpretazione dell’ablativo ‘quâ ’ nel senso di un complemento di mezzo pare l’unica plusibile. In questa chiave la formulazione del Xxxxxxx evidenzierebbe un altro elemento in comune con l’art. 1764 «Codice Civile Ita- liano» 1865. Comunque, per comprendere la definizione citata, sembra necessario dimenticare la connessione tra contratto e «convention» nei termini posti dal «Code civil des Français» (1804): la ‘conventio ’ per Xxxxxxx, nel conte- sto in esame, era il medesimo componente elementare di ogni negozio giuridico, descritto da Xxxxxxx sulla scorta di un’elaborazione probabilmente debitrice nei confronti dei giuristi antoniniani Xxxxxxxx e Xxxxx:
D. 2.14.1.3 (Ulp. 4 ad ed.) Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens de quibus negotii contrakendi transigendique causa.
Pur tralasciando in questa sede l’analisi della contrapposizione diairetica contrakendi transigendique causa, è possibile cogliere nel punto di vista del giurista xxxxxxxxx, assolutamente libero, nel trattare la transazione, dall’oggi assor- bente prospettiva contrattualistica, e osservare come sulla stessa lunghezza si collochi l’elaborazione del Xxxxxxx, il quale utilizza sì la categoria conventio per includervi la transazione, ma senza confusione con la categoria contrattuale.
106) Così TROPLONG, Du cautionnement et des transactions, cit., p. 552 s.
In primis si evidenzia la ragione che ci vede propendere per un’influenza dell’Indice delle Pan- dette compilato dal Xxxxxxxxx, sulla genesi dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865, perfino mag- giore di quella esercitata dalla traduzione delle Pandette stesse, per quanto concerne la perifrasi adottata allo scopo di descrivere il risultato della transazione: «por fine» risulta assimilabile ad
«estinguere», più che a «decidere» o «troncare». Questo elemento, oltre a fornirci la (traduzione del- la) definizione del Xxxxxxx, contribuisce, in modo determinante, a dissipare il mistero che circonda il modello dell’ottusa versione, del principio dioclezianeo ‘transactio nullo dato vel retento seu promisso mi- nime procedit ’, utilizzata per l’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 da parte del legislatore. Il som- mo giurista francese infatti, ad onta della sua indubitabile grandezza, perpetuava lo stravolgimento delle posizioni dei verba imperiali e separando i singoli atti posti in essere decidendi causa, secondo quanto convenuto fra le parti, con la disgiuntiva ‘aut ’, contribuiva in modo decisivo allo smarri- mento del senso originario del testo 107 da parte della commissione Xxxxxxxxx, che, incapace di coglie- re le differenze tra le reciproche concessioni e gli atti indicati dal Xxxxxxx, nel caso di specie epigono della dottrina dei vestimenta pactorum, ritenne fungibili le due espressioni.
In secundis la convenzione transattiva, secondo il Xxxxxxx, si configura come il mezzo tramite il quale le parti danno, promettono o ritengono qualcosa, piuttosto che come il mezzo tramite il quale le parti pongono fine alla lite in corso o prevengono la lite potenziale: anche l’oscillazione dell’art. 1764, tentennante nella propria formulazione fra il ricollegare l’effetto transattivo agli atti piuttosto che al consenso (cfr. infra, nel testo), trova quindi in quest’autore un autorevole modello. E non potrebbe essere diversamente data la derivazione, a nostro parere evidente, della visione del giurista transalpino dalla teoria dei vestimenta pactorum.
Sulla scorta del dato letterale, possiamo quindi affermare che la propensione emergente, se non evidente, nel «Codice Civile Italiano» 1865, per la seconda opzione (il ricollegare l’effetto tran- sattivo al consenso e non agli atti) non può agevolmente ricondursi all’opera di colui che, col Do- mat, è a buon diritto considerato il padre del codice civile francese: la posizione del legislatore ita- liano, sul punto, è piuttosto determinata dall’influenza dell’art. 2044 del «Code civil des Français» (1804) − importante l’inserimento della transazione fra i contratti − e, di conseguenza, soprattutto dalla definizione di contratto accolta nell’art. 1098 che deriva, con tutte le sue mende, dal Xxxxxxx,
benché da quest’ultimo, xxxxx ricordarlo, non fosse stata elaborata per ricomprendere anche la tran- sazione.
E’ necessario precisare che lo stesso Xxxxxxx aveva certamente avuto dei modelli. Tuttavia, sebbene sulla definizione di transactio da lui proposta possa avere pesantemente influito la concezio- ne della stessa adottata, a suo tempo, dal Vinnio 108 (‘neque aliud in proposito est transigere, quam rem du- biam litemve incertam consensu terminare, dato aliquo, seu promisso, aut retento ’ ) per il giurista olandese, come ovviamente per Domat, era certamente il consenso a porre fine alla controversia (o alla sua possibi- lità) e gli acta dioclezianei altro non rappresentavano che modalità d’esecuzione del placitum 109 tran-
107) A. VINNII, Tractatus quinque, nempe de pactis, jurisdictione, collationibus, transactionibus, et quæstionibus juris selectis, Venetiis, 1736, p. 142.
108) Occorre in ogni caso rimarcare altre differenze minori fra la definizione del Vinnio e del Xxxxxxx: l’autore olandese non parla di ‘transactio ’, ma di ‘transigere ’, non di ‘conventio ’ ma di ‘rem dubiam litemve incertam consensu termina- re ’, e bisogna senza dubbio precisare che il mantenere l’uso del ‘seu ’ dianzi al participio ‘promisso ’ appare come un paravento, reso ridicolo dal già più volte deplorato uso dei tre verbi come dotati di proprietà commutativa (mutan- do, insieme con la posizione, il senso dato agli stessi dalla cancelleria imperiale dioclezianea).
109) Xxxx stesso giurista sono ascrivibili alcune acute precisazioni in merito ai rapporti fra transazione, contratti e xxxxx:
Vulgo loco generis pactum seu pactio ponitur: sed non satis subtiliter mea quidem opinione. Etenim pactiones & contractus non sunt genera transactionis, sed modi transigendi …
Si rinvengono, in nuce, le intuizioni di un natura metacontrattuale della transazione che, presente già nelle fonti ro- mane sarebbe ricomparsa in tempi molto più recenti, nella codificazione italiana del 1865 e, oltre un secolo dopo, nella giurisprudenza della suprema corte e nella legislazione lavoristica.
sattivo (quasi una sorta di contenuto obbligatorio del negozio) e, al contempo, altrettante condizio- ni poste all’azionabilità della convenzione.
Per le ragioni che si possono dedurre dai dati offerti, ci sembra pertanto rispondere meglio alla realtà storica instaurare un parallelo fra l’elaborazione di Vinnio e di Domat piuttosto che fra quella di Vinnio e di Xxxxxxx 110.
Il presente passivo preferito dal Xxxxxxx (‘datur aut promittitur aut retinetur ’ ) risulta assai prossi- mo al «dando, promettendo o ritenendo» del «Codice Civile Italiano» 1865: tuttavia la natura del rapporto fra i tre verbi e la conventio appare ben diversa da quella del legame che già Xxxxxx scorse tra il consensus e il litem terminare. Per contro, nell’elaborazione di quest’ultimo, il senso dell’attualità necessaria di dare, promettere o ritenere, per ottenere lo scopo transattivo, risultava smorzato anche dall’opzione per l’ablativo assoluto d’impronta dioclezianea ( ‘dato xxxxxx, seu promisso, aut retento ’ ).
Il codice civile del 1865 presenta quindi realmente elementi rinvenibili nell’elaborazione di Xxxxxxx e Vinnio 111 (oltre, «ça va sans dir», alle tracce del «Code civil des Français» (1804) e di Do- mat sul punto), ma non può esaurirsi, in questi dati evidenti, la ricerca dell’autentica matrice del- l’articolo. Infatti, il vero «trait d’union» fra gli autori ricordati, la loro elaborazione e la lettera del- l’art. 1764, ci pare essere riconoscibile nello Zachariae 112, che, a sua volta, offrì una definizione di transazione destinata ad una vasta fortuna, , ma fu il primo degli autori ricordati sin’ora a farlo dopo la promulgazione del codice dei francesi:
La transazione è un contratto sinallagmatico perfetto, con cui i contraenti, rinunciando ciascuno ad una parte delle loro pretese, o per via di reciproche concessioni, terminano una controversia già nata o pre- vengono una controversia avvenire113.
110) Diversamente da quanto preferì fare il Cattaneo (cfr. infra, nt. 111).
111) Come già ricordato da X. XXXXXXXX, Il codice civile annotato, Torino, 1865, II, p. 1377.
112) xxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx (il predicato nobiliare xxx Xxxxxxxxxx gli venne concesso nel 1842) padre del ce- lebre bizantinista xxxx Xxxxxx, fu professore a Wittemberg ed Heidelberg. Compose nel 1808 l’Handbuck des fran- zösiscken Civilreckts, considerata la prima sistemazione scientifica del diritto civile francese, che ebbe una fortuna enorme non solo in Francia e nelle zone della Germania annesse alla Francia in epoca napoleonica e rimaste sog- gette al «Code civil des Français» (1804) anche dopo il 1815, ma anche in tutte le nazioni europee che accolsero il codice civile promulgato nel 1804, ove giunsero l’originale (raramente) e le traduzioni (assai più spesso) «rielabora- te» in francese ed eseguite dai francesi Xxxxx e Rau. Cfr. supra, nt. 8.
113) C.S. ZACHARIAE, Handbuck des Französiscken Civilreckts 5, Heidelberg, 1839, II, trad. fr. – Xxxxx xx xxxxx xxxxx xxxxxxxx –, Xxxxxxxxxx, 0000-0000, XX, trad. it. da quella francese – Corso di diritto civile francese –: III, Torino, 1845, p.
197. E’ opportuno spendere due parole ulteriori circa la tradizione di questi concetti, tanto rilevanti nella forma as- sunta dgli stessi nelle traduzioni italiche. Premesso che non abbiamo potuto effettuare un confronto fra la prima edizione dell’ «Handbuch» e le versioni apparse nella penisola, per la materiale irreperibilità della prima, possiamo tuttavia, con un grado di ragionevole sicurezza, affermare che non si trovava ancora in quella un riferimeno al «ge- genseitiges Nachgeben»: infatti sia nella terza (C.S. XXXXXXXX, Handbuck des Französiscken Civilreckts 3, Heidelberg, 1827, II, p. 431) che nella sesta edizione tedesca dell’opera (C.S. XXXXXXXX XXX XXXXXXXXXX, Handbuck des Fran- zösiscken Civilreckts 6 − Hrg. X. XXXXXXX −, Xxxxxxxxxx, 0000, II, p. 641) non troviamo un espressione equipollente al fortunatissimo sintagma «concessioni reciproche». Tuttavia possiamo constatare che Xxxxxxxxx, lungi dal riproporre pedestremente i verba dioclezianei, definisce la transazione come il contratto «mediante il quale le parti eliminano o
prevengono le controversie, dando, rinunciando o trattenendo ciascuna qualcosa».
I segni del passaggio potrebbero essere solo difficilmente più chiari: i singoli atti sono ancora separati da disgiuntive (retaggio della tradizione dei vestimenta, a nostro dire, e della cattiva esegesi di C.I. 2.4.38) ma tra di essi fa capolino il rinunciare («aufgeben») e con esso l’idea di sacrificio si insinua nell’archetipo, andando ad affiancarsi alla corrispet- tività. Xxxxx e Xxx (inaugurando una tradizione assolutamente vincente oltralpe: cfr. P. PONT, Explication tkéorique et pratique du Code civil contenant l’analyse critique des auteurs et de la jurisprudence, Paris, 1867, IX2, p. 230) tradussero gli spunti già presenti nel testo renano nella più elastica formulazione facente riferimento ai sacrifici reciproci (la reci- procità era d’altronde sottesa alla definizione del «Vergleich» come «vollkommer synallagmatischer Vertrag») anche sulla scorta dell’elaborazione di J.-B.-X. XXXXXXX, Traité des transactions d’après les principes du Code civil, Paris, 1824, p. 5, che per primo, a quanto ne sappiamo fece uso del significante «sacrifice» con riferimento alla transazione. A no- stro giudizio, proprio il concetto di «sacrifice», sufficientemente elastico da ricomprendere l’abbandono di qualcosa, la sua alienazione o la semplice rinuncia ad una pretesa, ha costituito il «trait d’union» logico fra le prestazioni della tradizione medievale dei vestimenta ed il concetto di concessione che oggi è assolutamente centrale nell’elaborazione
Da questa formulazione (o meglio, ancora una volta, dalla definizione contenuta nelle traduzioni di quest’opera circolate in Italia prima del 1865 e basate sulla versione francese della stessa) 114 deriva, a
in tema di transazione.
114) Cfr. supra, nt. 113. Il xxxxx xxxxx Xxxxxxxxx xxxx xxxxxxxxxxx xxxxxxx xx Xxxxxx per tutto il secolo XIX e non solo. La traduzione italiana non rispettò, tuttavia, la lettera dell’originale: basti a testimoniarlo il fatto che in ognuna delle molteplici traduzioni apparse nel nostro paese (Torino 1845, Palermo 1851 e Napoli 1868) gli articoli del «Co- de civil des Français» (1804) sono di volta in volta sostituiti dalla citazione di quelli preunitari (salvo in quella napo- letana ove la citazione dei corrispondenti tratti dal codice borbonico e da quello sabaudo si trova acclusa fra paren- tesi, forse in virtù del loro superamento da parte del neonato codice civile italiano), senza alcuna cura per una eventuale mancata corrispondenza della traduzione e col risultato di non restituire sempre al lettore, propriamente, il «corso di diritto civile f r a n c e s e » (aggettivo che infatti manca nell’intestazione della traduzione siciliana). Nella ricordata impossibilità di un confronto con la prima edizione del corso compilato dallo Zachariae, ci pare tut- tavia significativo rilevare che in una più recente edizione del Handbuck des Französiscken Civilreckts 8 − bearb. C. CRO- ME −, Freiburg i.B., 1894, II, p. 702, la costruzione della frase non corrisponde più alla citata traduzione italiana:
«Der Vergleich ist ein Vertrag, durch welchen die Parteien ein unter ihnen streitiges oder ungewisses Rechtsver- hältnis in der Weise (vorbeugend) regeln, dass beide Parteien etwas geben oder aufgeben».
Risulta chiaro che fra il raggiungimento della finalità transattiva e le concessioni reciproche non vi è il rapporto de- lineato dalla traduzione italiana condotta sull’edizione francese di Strasburgo di mezzo secolo anteriore: le differen- ze si spiegano alla luce del fatto che l’edizione del Crome costituisce in realtà «praticamente un’opera nuova». Di conseguenza analoghi tratti di novità presenta la traduzione italiana compilata su quest’ultima edizione dal Barassi nel 1907 (cfr. xXXXXX-XXXXXXXXX, ‘Zackariae von Xxxxxxxxxx’, cit., p. 1094).
E’ assolutamente fuori di dubbio che sia rinunciando alle proprie pretese o facendosi reciproche concessioni che le parti eliminano la situazione di controversia attuale o potenziale esistente fra loro. Nell’edizione di fine Ottocento dell’ «Handbuch» le parti regolano il rapporto già oggetto di lite o per lo meno dubbio, in modo che ognuna di esse dia o riceva qualcosa: l’incomprensione del dettato dioclezianeo non appare ancora del tutto superata, in questa più recente formulazione, e sembra tornare a far capolino la logica del vestimentum (sotto le spoglie del contenuto con- trattuale) accluso come necessario al semplice consenso perché quest’ultimo spieghi appieno i propri effetti.
Il linguaggio di questa definizione avrebbe pesantemente influenzato la lettera del § 779 «BGB.», il quale però pre- senta una peculiare definizione di transazione:
«Ein Vertrag durch den der Xxxxxx oder die Xxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxx xxxx xxx Xxxxxxxxxxxxxxx xx Xxxx xxxxxxxx- xxxxx Nachgebens beseitigt wird (Vergleich), ist unwirksam, wenn der nach dem Inhalte des Vertrags als festehend zugrunde gelegte Sachverhalt der Wircklichkeit nicht entspricht und der Xxxxxx oder die Ungewißheit bei kenntniss der Sachlage nicht entstanden sein würde.
(2) Der Ungewißheit über ein Rechtsverhältnis steht es gleich, wenn die Verwircklung eines Anspruchs unsicher ist.»
La definizione del contratto (poiché anche il «BGB.» tratta di un contratto [«Vertrag»] per porre fine alle controver- sie o all’incertezza mediante concessioni reciproche definendolo «Vergleich») deve essere tratta dalla prima parte del primo comma, dato che l’articolo in realtà sembra determinare i casi di inefficacia del negozio piuttosto che fissare una definizione del medesimo. All’elaborazione dello Zachariae sembra verosimilmente riconducibile l’indivi- duazione dell’oggetto della transazione (anche se il § 779 presenta come autonome la lite [«der Xxxxxx»] e l’incertezza [«die Ungewißheit»] presenti nel rapporto giuridico intercorrente fra le parti [«Rechtsverhältnis»], piuttosto che pre- sentare questo come litigioso od incerto [« ein streitiges oder ungewisses Rechtsverhältnis»]).
Ci sembra particolarmente significativa, al fine di stabilire un parallelo proprio tra la definizione dello Zachariae e il
§ 779, l’assenza, nella disciplina del «BGB.» dedicata al «Vergleich», di ogni accenno alla sua natura di «Urteilssurro- gat» che pure aveva avuto, proprio nella dottrina tedesca, un notevole seguito (cfr. F.C. VON SAVIGNY, System des keutigen römiscken Reckts, Berlin, 1840-1849, trad. it. – Sistema del diritto romano attuale –, 7, Torino, 1896, VII [cur. X. XXXXXXXX], § 000, X. XXXXX, Die Lekre vom Vergleick mit Aussckluß des Eides und Compromisses nack gemeinem Civilreckte, Erlangen, 1855, p. 00, X. XXXXX, Xxx Xxxxx vom Anerkennungsvertrag, in «Jherings Jahrbücher», VII, 1866, p. 180 ss.) e tra l’altro aveva visto una graduale modificazione del concetto di surrogato: da decisione extragiudiziale a – proprio con l’Xxxxx – «semplice strumento contrattuale che in modo alternativo alla sentenza consente di raggiungere il medesimo risultato pratico di comporre la lite tra le parti» (così GITTI, L’oggetto della transazione, cit., p. 19). Occorre però segnalare che un’analoga varietà di qualificazioni del rapporto fra transazione e sentenza era rinvenibile in Xxxxxxx, o per lo meno nelle sue traduzioni italiane: cfr. infra, paragrafo successivo.
Con le stesse finalità dell’analoga segnalazione a proposito del Xxxxxxx, ci pare opportuno segnalare come la princi- pale differenza fra la costruzione del giurista di Heidelberg e quella entrata, tramite il § 779 nel «BGB.», stia nel fatto che per il primo quid essentiale della transazione era il regolamento del rapporto controverso mentre nel secondo il contratto di transazione ha il fine di eliminare la lite e financo l’incertezza: la differenza terminologica ci pare testi-
nostro parere, la scelta dei verbi al gerundio («dando promettendo o ritenendo»), adottata nel «Co- dice Civile Italiano» 1865, e la sicura individuazione della causa contrattuale nell’estinzione della controversia attuale o potenziale.
La commissione Xxxxxxxxx avrebbe, a nostro parere, unito l’impiego della categoria contrattuale, mutuata dal «Code civil des Français» (1804) e considerata degna di improntare il futuro art. 1764, con elementi tratti dalla tradizione romanistica (attraverso la deformante interpretazione nell’ottica del vestimentum testimoniata da Xxxxxx e Xxxxxxx) e dalla definizione dello Zachariae .
Proprio il ruolo di quest’ultima opera merita, di conseguenza, un ulteriore approfondimento.
Benché, evidentemente, il nucleo centrale 115 della nozione elaborata sulla base degli elementi forniti dal maestro di Heidelberg, non abbia trovato accoglimento in nessuna formulazione codici- stica ottocentesca, la dottrina del XIX secolo, come abbiamo già avuto modo di anticipare116, guar- dò con giusta ammirazione a questa definizione nella quale emergono non solo i tratti della koiné transattiva che abbiamo evidenziato come utilizzata dalle corti e dai giuristi (che la preferirono sen- za eccezioni invece di applicare ed interpretare l’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865), ma anche una precisa anticipazione, perfino nel tenore letterale, dell’art. 1965 cod. civ. it. (1942).
Ed è addirittura possibile trarre un ulteriore spunto proprio da questo frutto dell’elaborazione dello Zachariae: infatti la tecnica definitoria del maestro di Heidelberg, del tutto involontariamente, rende evidente l’abuso della categoria contrattuale (così come concepita nel «Code Napoléon» e an- cora nel «Codice Civile Italiano» 1865) quando essa serva per farvi rientrare la transazione (cfr. infra,
§ 5).
Dovendo concludere la fase di questa ricerca dedicata ai modelli definitori del legislatore ita- liano, ci pare di poter affermare che proprio l’accostamento delle definizioni di transazione del Vin- nio, appunto, del Xxxxxxx (in originale e nella tradizione del Bazzarini), dello Zachariae, del «Code civil des Français» (1804) e dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 rende evidenti le molteplici influenze che determinarono le scelte della commissione Xxxxxxxxx nel redigere quest’ultimo, contri- buendo a svelare i caratteri dell’archetipo sopravvissuto in dottrina e, di conseguenza, nelle corti, e ad evidenziare le crepe presenti nell’impianto dogmatico sotteso alla definizione ed alla disciplina adottate per la transazione, cui è ora opportuno volgere la nostra attenzione.
5. L’affermazione della natura contrattuale della transazione deriva in Italia, indubbiamente, dalla tradizione dell’art. 2044 «Code civil des Français» (1804), in questo senso (più che semplice fonte d’ispirazione per tutti i codici preunitari italiani e non solo) autentico oggetto di pedissequa imita- zione.
Nelle opere dei padri della codificazione francese (Xxxxxxx e Domat) non si parla di transazio- ne come contratto, ma di ‘conventio ’ o, appunto, «convention», che, è quasi superfluo precisarlo, in diritto romano, come nel diritto civile francese ed italiano (nonostante l’infausta formulazione degli art. 1101 «Code civil des Français» (1804), 1098 «Codice Civile Italiano» 1865 e 1321 cod. civ. it. [1942]), è cosa ben diversa dal contratto 117.
L’inclusione della transazione fra i contratti va pertanto attribuita alla commissione presieduta
moniare una diversa propensione per una lettura, rispettivamente, novativa e dichiarativa del negozio.
115) Vale a dire l’esplicito riferimento alle rinunzie ed alle concessioni reciproche che evidenzia la fine tecnica interpretativa delle fonti classiche propria dello Zachariae, unico fra i giuristi moderni sino a quel tempo confronta- tisi con C.I. 2.4.38, ad averne compreso la ratio celata dietro l’ermetica formulazione e resa ulteriormente difficile da cogliere a causa della tradizione glossatoria che vide nei verba dioclezianei l’esemplificazione dei vestimenta atti a ren- dere azionabile la transactio pacto solo facta : cfr. supra, nt. 113.
116) Cfr. supra, nel testo e nt. 113.
117) Più arduo sostenere lo stesso riguardo alla formulazione delle norme generali sui contratti contenute nel
«Code civil des Français» (1804), agli art. 1101 ss., ove il contratto viene presentato come una specie del genere
«convention», fornita necessariamente di una causa ed importante almeno per una delle parti (della quale è pertanto necessaria la volontà d’assumere l’obbligo) il sorgere d’un obbligazione.
dal Portalis, incaricata di redigere il quarto progetto di «Code civil des Français» (1804) ed autrice anche del titolo «des transactions», che non rientrava nel progetto organico, ma venne preparato ed approvato solo successivamente a quest’ultimo 118.
L’uso della categoria contrattuale per la transazione rappresenta, una rottura rispetto alla tradi- zione che dagli interpreti medievali arriva a Xxxxxxx: una rottura che non può però, almeno questa volta, essere imputata al Domat nonostante quest’ultimo, abbiamo avuto modo di constatarlo, abbia rappresentato sotto altri aspetti, un formidabile elemento di rottura col passato. Scriveva infatti il Domat:
La Transaction est une convention entre deux ou plusieurs personne, qui, pour prévenir ou terminer un procès, règlent leur différend de gré à gré, de la manière dont ils conviennent; & que chacun d’eux pré- fère à l’espérance de gagner, jointe au péril de perdre 119.
Il fulcro della definizione del Domat è il regolamento d’interessi convenzionalmente raggiunto dalle parti sulla spinta della comune predilezione per la rassicurante certezza di un «traité» 120, amichevol- mente concluso, rispetto all’aleatoria speranza di un esito processuale favorevole.
Merita di essere posto in luce come l’Autore lasci in piedi una sorta di diaframma fra «conven- tion» e «réglement d’un différent de gré à gré». Egli non scrive infatti che la transazione è la con- venzione con cui due parti eliminano il rischio di un processo o vi pongono fine: forse perché il so- stantivo, nella sua elaborazione, indica esclusivamente l’accordo intervenuto fra due parti che rag- giungano un regolamento convenzionale del rapporto giuridico oggetto attuale o potenziale di una controversia 121.
L’elemento convenzionale, infatti, è necessariamente presente fra le parti se queste eliminano una lite (anche solo possibile fra loro), tuttavia la formazione di un compiuto regolamento di inte- ressi, teleologicamente volto a questo scopo, può ben iniziare anche indipendentemente dal prece- dente formarsi del consenso 122.
Il Domat, a nostro giudizio scientemente123, si astenne dal parlare di transazione come di un contratto, ma non fu seguito su questa strada, come testimoniano i «travaux préparatoires du Code civil » 124, dai legislatori francesi che, apparentemente per coerenza con la scelta (adottata in occasio-
118) Presumibilmente, essendo questi incaricato di presentare il titolo al «corps législatif», è al Bigot de Xxxx- xxxxx che va riconosciuto un apporto particolarmente significativo nella redazione del titolo XV: il tono della pre- sentazione sembra autorizzare quest’opinione (cfr. supra, nt. 43).
119) DOMAT, Les loix, cit., p. 112. Sull’interpretazione del pensiero domatiano cfr. CARRESI, La transazione 2,
cit., p. 58.
120) DOMAT, Les Loix, cit., p. 111.
121) Si noti la profonda analogia fra la costruzione emergente dalle righe del Domat e quella riconducibile allo Zachariae (cfr. supra, nt. 97) soprattutto per quanto concerne proprio l’accento sul carattere di regolamento con- venzionale di un rapporto giuridico costituito dalla transazione.
122) E’ il caso della dazione, effettuata a favore di chi si accinge ad agire in giudizio per far valere una propria pretesa, da parte di colui verso il quale la pretesa dovrebbe essere indirizzata, nella speranza che il potenziale attore possa per lo meno soprassedere. Qualora le caratteristiche della dazione fossero tali da rappresentare una soddisfa- zione parziale delle pretese azionabili (in grado quindi di convincere l’attore della preferibilità della ricezione della datio, rispetto all’alea del processo) essa potrà determinare, di fatto, un compiuto e potenzialmente definitivo rego- lamento d’interessi. Si potrà eccepire che la dazione rappresenterebbe in realtà una proposta di transazione e che la sua accettazione coincida in realtà con il raggiungimento dell’accordo transattivo. Tuttavia, anche ritenendo valida questa lettura del fenomeno, non si potrà non riconoscere come la prestazione del possibile convenuto preceda il pur necessario consenso e presenti indubbie caratteristiche di indipendenza da questo, salvo stravolgere la realtà dei fatti. Tutto ciò sia detto tenendo presente che, qualunque sia l’interpretazione del reale adottata, in capo alle parti non sorgono obbligazioni discendenti dal consenso, comunque manifestato.
123) Secondo un orientamento, vale la pena di ribadirlo, condiviso anche dal Vinnio e dal Xxxxxxx.
124) Infatti la formulazione del futuro art. 2044, dal momento in cui venne presentato al «Conseil d’état», per conto di X. Xxxxx-Prémeneu, da X. Xxxxxxx, non venne modificato né emendato in alcun modo, restando tale e quale fino alla definitiva promulgazione: cfr. FENET, Recueil complet, cit., XV, p. 91 ss.
ne della redazione del progetto di codice poi approvato 125: il cd. progetto Portalis, cioè il quarto realizzato dopo i tre portati a termine dal Cambacérès) di sostituire fra le fonti delle obbligazioni, la categoria delle «conventions» (preferita nel II progetto Cambacérès 126 oltre che nelle «coutume d’Orléans» raccolte dal Xxxxxxx 127 come fulcro della teoria delle obbligazioni) con quella dei «con- trats» 128, operarono coerentemente sulla definizione di transazione del Domat.
Dall’opera di quest’ultimo, però, i padri del «Code civil des Français» (1804) trassero oltre al- l’art. 2044, anche il riconoscimento della forza propria della cosa giudicata alla transazione (art. 2052
«Code civil des Français» (1804) 129):
Les transactions ont une force pareille à l’autorité des choses jugées, parce qu’elles tiennent lieu d’un ju- gement d’autant plus ferme que les parties y ont consenti, & que l’engagement, qui délivre d’un procès, est tout favorable 130,
che, se possibile, completa il quadro della transazione intesa come regolamento convenzionale d’in- teressi.
Balza agli occhi in modo, a nostro dire, evidente come l’uso dei termini «jugement» da parte del Domat e di ‘decisio ’ di Vinnio e Xxxxxxx con riferimento alla transazione, consentano di indivi- duare, identificando sostanzialmente la transazione nella amichevole decisione stragiudiziale della controversia, un tratto comune alle proprie formulazioni definitorie131 del negozio transattivo, che pure per altri versi si presentano radicalmente differenti. E questo dato letterale potrebbe di per sé significare una certa omogeneità fra le costruzioni dogmatiche del negozio transattivo riconducibili
125) In realtà sotto questo punto di vista la commissione composta presieduta dal Xxxxxxxx non fece che torna- re sui passi percorsi nel primo progetto di codice civile (presentato il 9 agosto 1793) dal Cambacérès (cfr. FENET, Recueil complet, cit., I, p. 65), nel cui libro delle obbligazioni l’art. 2 individuava come fonte naturale appunto delle obbligazioni i contratti e identificava questi con le convenzioni tramite cui una persona si obbliga verso un’altra. Nel secondo progetto (presentato il 9 settembre 1794) il termine contratto scompariva dal libro terzo e fonte delle obbligazioni, insieme alla legge, divenivano le «conventions formé entre les parties»: evidentemente colta la molti- plicazione di segni indicanti, comunque, sempre l’accordo fra le parti, si procedette ad una semplificazione termi- nologica radicale. Favorito dalla promiscuità nell’uso di «contratto» e «convenzione» fatto, a suo dire, dal Xxxxxxx (cfr. FENET, Recueil complet, cit., I, p. 170), il Cambacérès poté conservare la formulazione ora ricordata anche nel terzo progetto, presentato due anni dopo.
Il progetto definitivo che nel 1804 diverrà il codice civile francese tornerà alle origini, come ricordato: i «contrats», esplicitamente riconosciuti, insieme con le successioni, come i grandi mezzi per acquistare (cfr. FENET, Recueil com- plet, cit., I, p. 509), saranno regolati secondo le regole sviluppate a partire da quel diritto naturale che, sulla scorta di Domat e della sua elaborazione sul tema, appariva applicabile a tutti. Va altresì precisato che il titolo XV dedicato alle transazioni non faceva parte del progetto presentato dal Xxxxxxxx col discorso or ora citato (ciò che aggiunge un alone di fascino ulteriore alle vicende, già tormentate, del negozio in esame nel «Code civil des Français» [1804]»), ma venne presentato dal Xxxxxxx, per conto del Bigot-Préameneu, al Consiglio di Stato in data 6 marzo 1804, per passare quindi all’esame del tribunato l’8 marzo 1804 ed essere esaminato il 13 marzo stesso. Nello stesso giorno il Consiglio di Stato varava il testo definitivo e lo trasmetteva al Corps Législatif perché ivi Bigot-Préamenu e Boulay lo presentassero il 15 marzo successivo. Il 30 marzo 1804, uditi anche gli interventi dei tribuni Albisson e Xxxxxx, l’assemblea approvava il testo del titolo XV.
126) FENET, Recueil complet, cit., I, p. 123.
127) R.J. XXXXXXX, Coutume d’Orléans, in «Oeuvres de Xxxxxxx» − cur. X. XXXXXX −, I, Paris, 1845, p. 43.
128) La testimonianza del riferito andamento dei lavori delle assemblee legislative incaricate di redigere il «Co- de civil des Français» (1804) è agevolmente rivenibile confrontando FENET, Recueil complet, cit., I, p. 123; p. 277 (ove è possibile consultare il secondo ed il terzo progetto Cambacérès) e l’attuale stesura dell’art. 1101 del «Code civil des Français» (1804).
129) Art. 2052 «Code civil des Français» (1804): «1. Les transactions ont, entre les parties, l’autorité de la chose jugée en dernier ressort. 2. Elles ne peuvent être attaquées pour cause d’erreur de droit, ni pour cause de lesion».
130) DOMAT, Les loix, cit., p. 112.
131) Il dato era sfuggito, a suo tempo, a CARRESI, La transazione2, cit., p. 58, peraltro assai acuto nel cogliere nel carattere di decisione loco sententiae della transazione l’elemento caratterizzante di questa agli occhi dell’autore de
«Les loix civiles».
ai giuristi del sei-settecento e quella del Savigny132.
Per quanto invece propriamente concerne le implicazioni della caratteristica di avere «une for- ce pareille à l’autorité des choses jugées» è ovvio come ciò non significhi che il contenuto di una transazione non può essere soggetto a sindacato da parte del giudice ordinario 133, ma semplice- mente che la controversia, chiusa dall’accordo fra le parti non poteva (e non può) essere riaperta, di fronte al giudice senza incorrere nella censura della Suprema Corte 134, sulla base dalla cessazione della materia del contendere.
In ogni caso, almeno un effetto sicuramente ulteriore (vale a dire l’immutabilità dell’assetto raggiunto transigendo) rispetto a quelli voluti dalle parti (vale a dire il risultato delle prestazioni po- ste in essere o l’assunzione di determinate obbligazioni allo scopo di segnare la fine di una contro- versia), pur trovando il proprio momento genetico nel negozio venuto in essere, rimane, propria- mente, un prodotto della normativa codicistica (nel solco di una tradizione, per la verità, assai risa- lente) 135, determinando fondamentali problemi ermeneutici per l’interprete proprio a causa del ca- rattere d’irrevocabilità del placitum transattivo, che viene così legislativamente imposto alla transa- zione, nonostante si voglia quest’ultima inserita fra gli istituti privatistici e la si regoli in effetti, sotto la maggior parte dei punti di vista, come tale.
Naturalmente nulla vieta al legislatore di attribuire ad un contratto degli effetti peculiari, tutta- via, sulla base della derivazione degli effetti negoziali dal consenso, la sottrazione dell’assetto rag- giunto transattivamente ad un successivo, comune, ripensamento, sembra costituire un intervento capace di snaturare l’inquadramento della transazione fra i contratti.
E non è questa l’unica perplessità legittima, riguardo all’inquadramento fra i contratti del ne- gozio di cui ci occupiamo.
L’inserimento fra i contratti di una simile convenzione non avrebbe dovuto avere luogo per un motivo ulteriore che (come abbiamo già anticipato supra, § 4) proprio l’indagine della definizione dello Zachariae – peraltro fautore della necessità di sacrifici e/o concessioni a carico di ciascuna parte come elemento essenziale della transazione – permette di scorgere.
Lo Zachariae, a differenza di tutti i giuristi che lo avevano preceduto, partiva necessariamente dalla definizione codicistica e non intendeva, né poteva efficacemente, discuterne il contenuto (al-
132) Cfr. supra, nt. 97.
133) Poiché l’interpretazione del negozio, qualora fosse necessario procedervi, restava comunque di compe- tenza dei tribunali, come quella di ogni altra convenzione: così ZACHARIAE, Corso di diritto civile (Napoli), cit., p. 52 sulla scorta di una giurisprudenza costante delle corti transalpine (Journal du palais, XXXVI, p. 662).
134) Come la stessa Corte di Cassazione francese confermava, cassando la sentenza pronunciata nella causa Deloune x. Xxxxx dalla corte di Riom nonostante la transazione intervenuta fra le parti proprio perché in violazio- ne, fra gli altri, degli art. 2044 e 2052 (Journal du Palais. Répertoire, cit., XII, p. 590): cfr. supra, nt. 90.
135) Troviamo tracce consistenti di questo atteggiamento del potere statuale, che può forse essere definito ‘fa- vor transactionis ’, già nelle fonti romane. Appaiono infatti ispirate dalla stabilità, che l’imperatore riteneva di dover ac- cordare alle transazioni, l’orazione marciana con cui vennero regolamentate le transazioni in materia alimentare (D. 2.15.8), le risposte negative di Xxxxxxxxxx Xxxxxx agli eredi di una donna, che aveva transatto rinunciando ad una querela inofficiosi testamenti e che desideravano riaprire la lite (C.I. 2.4.6, a. 230), e di Xxxxxxx x’Xxxxx ad un postulante che voleva agire, contro i figli del proprio fratello, col quale aveva validamente transatto, per la medesima contro- versia (C.I. 2.4.10, a. 244). Sarà però con Xxxxxxxxxxx (C.I. 2.4.16, a. 293) e con Xxxxxxxxxx che l’irrevocabilità del placitum transattivo diventerà un principio alla luce del quale le cancellerie imperiali risponderanno alle questioni po- ste dalla prassi. Il codice teodosiano conserva l’icastica sanzione del principio da parte dell’imperatore autore dell’Editto di Milano:
(X.Xx. 2.9.1) IMP. XXXXXXXXXXXX X. AD RUFINUM PP. POST ALIA : Litigia sententiis vel tra [ns]actionibus terminata non sinimus re- staurari. DAT. IIII ID. MAI. IPSO A. V ET L[IC(INIO) C. CONSS.]. (a. 319).
Il fatto che di una costituzione certamente più lunga (lo testimonia al di là di ogni dubbio l’incipit post alia) i compi- latori del codice teodosiano abbiano ritenuto di trarre il principio citato, sinteticamente espresso, dimostra che se non già all’epoca di Xxxxxxxxxx, per lo meno alla metà del V sec. d.C., questo rivestiva un ruolo fondamentale nella disciplina vigente in tema di transazioni.
meno sotto questo profilo) 136, tuttavia egli si confrontava con l’esigenza di conciliare la definizione del Domat (punto di partenza riconosciuto del legislatore) con la qualifica di contratto data alla transazione.
Non ci è dato sapere se ciò accadde coscientemente, ma l’obiettivo sembra essere raggiunto dal giurista renano presentando l’esigenza delle obbligazioni corrispettive («gewisse Verbindlichkei- ten») come un’ovvia integrazione del lacunoso art. 2044, proprio perché in questo restava assoluta- mente centrale la qualifica contrattuale da interpretarsi, ovviamente, alla luce dell’art. 1101 e quindi basata sul sorgere, dal consenso, di almeno un’obbligazione. Tuttavia, anche questa scelta non pare eliminare ogni problema interpretativo e comunque alcune perplessità.
Partiamo dal presupposto che l’efficacia di giudicato che la transazione ha fra le parti (art. 2052, I c., «Code civil des Français» [1804]), in cui si identifica la fine o la prevenzione della contro- versia, non è certo frutto dell’assunzione dell’obbligo di non adire un giudice a transazione conclu- sa, perché ben poca forza avrebbe un «giudicato», quantunque convenzionale, se fosse destinato a cadere per l’inadempimento di uno dei suoi fautori. Ne deriva che la forza attribuita alla transazione è frutto della disciplina legislativa della stessa e che non può costituire oggetto di un’obbligazione, nascente dalla transazione, l’impegno a non adire il giudice sulla questione transatta, giacché questa si tradurrebbe in un obbligarsi a rispettare la legge.
Ciò detto, si tenga conto del fatto che, per rinunziare o farsi concessioni scambievoli non v’è, propriamente, necessità di contrarre un’obbligazione 137.
Risulta quindi concepibile una transazione senza assunzione di obbligazioni e quindi una tran- sazione che, qualora si continui a volerla definire come contratto non integrerebbe lo schema di contratto dell’art. 1101 del «Code civil des Français» (1804) – 1098 «Codice Civile Italiano» 1865 – nel quale il contratto è definito come la convenzione che determina il sorgere di almeno una obbli- gazione – e tuttavia produrrebbe comunque l’effetto di estinguere definitivamente la controversia, cioè realizzerebbe la propria causa negotii.
Inutile precisare che simili problemi non si sarebbero posti se all’epoca fosse stata in vigore una definitio legislativa di «contratto» simile a quella dell’articolo 1321 cod. civ. it. (1942) («il con- tratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridi- co patrimoniale»): la definizione assai più larga (e di conseguenza la categoria concettuale ancor più debole di quella utilizzata nella redazione dell’art. 1098 «Codice Civile Italiano» 1865) 138 risulta cal- zante ad un insieme di esplicazioni dell’autonomia privata nel quale s’inserisce senza problemi an- che l’accordo transattivo non produttivo di obbligazioni.
Nel «Code Napoléon», solo in assenza dell’art. 2052 (come nel «Codice Civile Italiano» 1865 in assenza dell’art. 1772) la costruzione di transazione come contratto avrebbe potuto avere una certa validità. Sarebbe bastato costruire il rispetto del «reglément» e la conseguente rinuncia ad adire il giudice, come un obbligo semplicemente, ed ineluttabilmente, assunto dai soggetti transigenti. Vice-
136) Viceversa, i rilievi negativi riguardo alla presunta vaghezza della definizione non vennero risparmiati dallo Zachariae ed assumono nelle traduzioni nostrane tratti addirittura comici perché nel tradurre la nota che li contiene i curatori delle edizioni apparse in Italia pensarono bene di sostituire la menzione dell’art. 2044 con quella dell’articolo relativo alla definizione di transazione quivi in vigore (cfr. supra, nt. 52).
137) Si pensi al caso di due parti coinvolte in diverse controversie tra loro, determinate da più pretese contrap- poste. L’accordo in base al quale ciascuna di esse rinuncerebbe ad una di queste, a fronte di un analogo comporta- mento dell’avversario rispetto alla propria contropretesa (determinato magari dalla materiale scarsa rilevanza della li- te e del diritto controverso), determinerebbe effetti indubbiamente transattivi, con riguardo al rapporto giuridico precedentemente «tormentato», pur senza far sorgere obbligazioni di sorta a carico delle parti coinvolte. Natural- mente ciò è vero esclusivamente sotto l’impero di una norma come l’art. 2052 del «Code civil des Français» (1804), da cui direttamente discende l’impossibilità di ricorrere al giudice per un rapporto precedentemente oggetto di tran- sazione.
138) Xxxxxx xxxxxxx critici, scaturenti da un’analisi approfondita della definizione di contratto presente nel codice civile italiano, in X. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto, cit., p. 51 ss.
versa, peraltro con finalità assolutamente condivisibili, venne preferito un «patchwork» realizzato utilizzando, da una parte, la categoria contrattuale elaborata dal Pothier139 ed accolta dalla commis- xxxxx Xxxxxxxx e, dall’altra, la definizione di «transazione», su cui si innesta il riconoscimento di forza pari al giudicato, riconducibile al Domat: il tutto con risultati insanabilmente contraddittori e le con- seguenze, ben note, in tema di qualificazione della transazione come contratto ad effetto dichiarati- vo 140 piuttosto che dispositivo.
E’ ben condivisibile l’ipotesi che siano stati, ad un tempo, la mancanza di un «Traité des tran- sactions» del Xxxxxxx e l’ossequio (conseguente?) verso Domat a determinare la conservazione nei codici ottocenteschi di una trattazione dettata da quest’ultimo, quasi due secoli prima, pensando a generici regolamenti di interessi, indifferentemente raggiunti con strumenti contrattuali ed extra- contrattuali, destinati a ristabilire la pace sociale e, per questo a giudizio dell’Autore de «Les loix ci- viles», meritevoli di essere equiparati, sotto il profilo della stabilità alle pronunce del giudice.
Quindi, benché il legislatore italiano si fosse mosso nel solco tracciato da Vinnio e Xxxxxxx, l’eredità di Domat ha verosimilmente determinato l’innesto dell’elemento normativo positivo (l’art. 1772 «Codice Civile Italiano» 1865), avulso da quel contesto privatistico, che, grazie all’opera dello Zachariae, aveva saldamente inglobato la transazione, con effetti decisivi anche per il tenore della normativa contenuta nel «Codice Civile Italiano» 1865.
Chiarita così, speriamo in modo condivisibile, la genesi anche di quest’aspetto della disciplina del «Codice Civile Italiano» 1865, resta ancora sul tappeto un problema interpretativo riguardante, questa volta, esclusivamente il codice Xxxxxxxxx.
Nel vigente «Code civil des Français» (1804)e, come nel «Codice Civile Italiano» 1865, non v’è dubbio che l’accordo concluda il contratto e che il contratto, mantenendosi nel solco tracciato da Vinnio 141 per l’attività transattiva, estingua la controversia: tuttavia la formulazione dell’art. 1764 abbandona la strada battuta dal giurista culto nel momento in cui questo effetto non risulta legare funzionalmente fra di loro le prestazioni eseguite dalle parti (o assunte come obbligo dalle stesse) e il venir meno della controversia142.
Sorge pertanto un interrogativo cui diviene fondamentale rispondere: il dare, il promettere o il ritenere qualcosa, nella prima struttura contrattuale data alla transazione nell’Italia unita, a quale esi- genza dovrebbero rispondere?
6. Per le ragioni che questa indagine ci ha finora permesso di evidenziare, nonostante l’apertura ine- quivocabile («La transazione è un contratto», pertanto si basa sul consenso143 ed a questo si ricolle-
139) «Convention par laqualle les deux parties réciproquement ou seulement l’une des deux, promettent et s’engagent envers l’autre a lui donner quelque chose ou à faire ou à ne pas faire quelque chose», in Traité des obligations, in «Oeuvres de Xxxxxxx» – cur. X. XXXXXX –, II, Paris, 1845, p. 15.
140) X. XXXXX, L’oggetto, cit., p. 11 ss.
141) Xxxxxx addirittura non parlava di ‘transactio ’, ma, rispettoso della fonte ulpianea da cui, come tutti gli auto- ri di commenti alle Pandette, traeva la radice della propria definizione, preferiva limitare al transigere il proprio sforzo dogmatico e scioglieva l’attività transattiva nella conclusione consensuale della lite (che più tardi Xxxxxxx avrebbe sintetizzato, mediante il sostantivo ‘conventio ’ ) una volta dato, o promesso o ritenuto qualcosa (essendo dato, pro- messo o ritenuto qualcosa). Ed è in questa lettura che separa nettamente il momento dell’estinzione della contro- versia dal momento della prestazione causalmente indirizzata, proprio all’estinzione, che si scorge l’embrione della frattura presente ancora nell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865), segnalata come retaggio di un passato da can- cellare nella relazione del Guardasigilli Grandi al codice del ’42.
142) L’incerta formulazione codicistica risulta ambigua in quanto alle parti transigenti è dato di ottenere l’effetto desiderato col contratto di transazione «dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualcosa»: nella somma dei due complementi di mezzo si trova certo un segno del problema ermeneutico.
143) L’art. 1098 del medesimo codice recita infatti: «Il contratto è l’accordo di due o più persone per costituire, regolare o sciogliere fra loro un vincolo giuridico». Per ciò che concerne i guasti determinati dalla definizione di contratto sull’elemento dell’accordo (che di esso, allo stesso tempo, risulta essere solo uno degli elementi essenziali: art. 1104) e sul suo debito verso la dottrina del Savigny, cfr. X. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto, cit., p. 51 ss.
gano i suoi effetti), il contratto-transazione sembra conservare, nella seconda parte della formula- zione codicistica ottocentesca, caratteri propri degli anonyma synallagmata 144 giacché è «dando, pro- mettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa» che le parti eliminano la lite attuale o potenziale: l’efficacia transattiva dei singoli atti si s o v r a p p o n e a quella del consenso 145.
Non è per nulla chiaro in che modo ciò avvenga in un sistema che accoglie la sistematica con- trattuale del «Code civil des Français» (1804), anche se le vicende storiche brevemente ripercorse, con il sovrapporsi di due linee interpretative, muoventi l’una dall’interpretazione di C.I. 2.4.38 e l’altra, principalmente, dall’inclusione dogmatica della transazione nel novero dei pacta necessitanti un vestimentum, riteniamo possano fornire elementi utili a spiegare l’ambiguità.
A nostro parere, con riferimento alla formulazione dell’art. 1764, non sembra azzardato ricor- rere, sin d’ora, al concetto di «ridondanza» 146.
Nell’assenza di un richiamo alla reciprocità delle prestazioni, a dispetto di più d’una tesi in ma- teria 147, non già nel rapporto (che nel testo normativo è letteralmente assente) fra questi atti sembra da ravvisarsi la causa 148 strutturale della transazione alla luce del dettato dell’art. 1764 «Codice Civile
144) Lo affermiamo sulla base della nota schematizzazione della causa (intesa nel senso di struttura negoaziale) operata da Xxxxxxx che, unitamente al fatto che nel caso di questi negozi in epoca giustinianea era ormai possibile mirare all’adempimento in forma specifica mediante l’agere praescriptis verbis, consente una trattazione complessiva delle varie figure raggruppate, dai giuristi bizantini, sotto la comune denominazione ricordata: cfr., per tutti, TALAMANCA, Istituzioni, cit., 554 ss.
145) Anche il ‘promittere ’, rientrando nel genus ‘facere ’, contribuisce a questo inquadramento sistematico, e per- tanto non stupisca la nostra ripresa di un argomento critico caro al Guardasigilli Grandi. Che ciò rappresenti un portato della tradizione medievale non è lecito dubitare: per l’efficacia della transazioni informalmente conclusa era infatti normalmente richiesta l’esecuzione di una prestazione. Tuttavia va rimarcato come la transazione rientrasse senza dubbio fra i patti e non fra i contratti, nell’elaborazione dei glossatori e poi dei giuristi protagonisti del ius commune continentale: cfr. XXXXXXXXX, Il patto, cit., p. 605 ss.
146) Al concetto di «ridondanza normativa» faceva riferimento X. XXXXX, L’oggetto della transazione, cit., p. 3 e nt. 8, sulla scorta del fondamentale apporto fornito sul punto dagli autori rappresentanti del cd. «realismo giuridico», individuandone un esplicazione nel rapporto fra gli art. 1772 e 1134 «Codice Civile Italiano» (1865). La sovrapposi- zione segnalata è intravista dall’Autore fra la forza di legge accordata ai contratti legalmente conclusi dall’art. 1134 e la forza di una sentenza irrevocabile riconosciuta al contratto transazione. Non ci pare tuttavia che la critica del Gitti vada del tutto a bersaglio: la sua «vuole essere una valutazione tecnica e non un’osservazione generale sullo stile del legislatore», ma in realtà è solo sotto il secondo aspetto che essa sembra poter reggere. E’ vero infatti che la pompa del dettato legislativo riconosce alla transazione forza di legge e di sentenza insieme (sic !), ma i due profili non ci sembrano sovrapporsi, giacché la genesi storica dell’attributo entrato poi nel 1772 (a partire dalle costituzioni imperiali postclassiche, passando attraverso la lente del Domat) chiarisce che esso non riguarda, come ritiene invece l’Autore, la natura di «comando concreto» che la sentenza, e quindi la transazione, avrebbero, ma piuttosto la pecu- liarità, per il risultato del negozio transattivo, di essere ex lege sottratto alla modificazione da parte dei soggetti tran- sigenti tramite un nuovo e diverso accordo sul medesimo oggetto che viceversa è una caratteristica comune a tutti i contratti, a partire dalla disciplina del «Code civil des Français» (1804).
Nessun dubbio il Gitti avrebbe dovuto nutrire sulla reale peculiarità della transazione rispetto agli altri contratti alla luce dell’illuminante testimonianza ch’egli pure riporta (p. 3 nt. 7), riconducibile a X. Xxxxx Xxxxxxxxx intento a presentare il titolo «des trasactions» al «Corps Législtif»: «C’est l’irrevocabilité de ce contrat qui le met au rang de ceux qui sont les plus utiles à la paix des familles». Inoltre, e forse questo dato è al Gitti sfuggito, l’articolo proposto da X. Xxxxx Xxxxxxxxx si presentava al primo alinea, conformemente al modello costituito dal Domat, semplice- mente nella formulazione: «Les transactions ont entre les parties l’autorité de la chose jugée», e fu all’interno del Conseil d’État che, su proposta di X. Xxxxxxxx, e non senza che dal consigliere Xxxxxxx l’addizione venisse etichet- tata come superflua, si aggiunse in calce al primo alinea la dicitura «en dernier ressort» (FENET, Recueil, cit., p. 15, 94), con l’evidente scopo di eliminare ogni incertezza riguardo all’intenzione del legislatore di dare la massima stabi- lità all’assetto di interessi determinato dall’accordo transattivo. Tutti i contratti bilaterali sono unilateralmente irre- vocabili, in questo hanno forza di legge fra le parti: solo la transazione ex art. 1772 «Codice Civile Italiano» (1865) e 2052 «Code civil des Français» (1804), era irrevocabile «tout court» e per tal ragione quest’ultima norma non ci pare determinare una reale ridondanza, sovrapponendosi al dettato dell’art. 1134.
147) Cfr. supra, §§ 2 e 3.
148) Come invece fa il BUTERA, Della transazione, cit., p. 23. La deficitaria elaborazione teorica intorno al con- cetto di causa, autonomamente intesa accanto al concetto di consenso, viene da X. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto, cit., p. 52, condivisibilmente imputata insieme alla dilatazione del ruolo del consenso nella dottrina dei contratti, al Savigny,
Italiano» 1865, quanto nell’esecuzione degli stessi, (formalmente indipendenti), al fine di eliminare o scongiurare una controversia.
Le attività descritte nella formulazione codicistica, «dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa» si presentano come altrettante «zweckbestimmte Leistungen» 149: nonostante infatti le obbligazioni a carico delle parti sorgano dall’accordo – e dallo stesso derivino gli effetti sulla lite at- tuale o potenziale (nonché la stabilità garantita dal legislatore a questi ultimi) – alle prestazioni indi- rizzate causalmente viene ulteriormente ricollegato proprio l’effetto estintivo o preventivo della lite. O, per lo meno, questo è il contenuto desumibile dalla formulazione codicistica nel rispetto dei cri- xxxx ermeneutici dettati dall’art. 3 Preleggi «Codice Civile Italiano» 1865.
Volendo porre in essere un’interpretazione quanto più conservativa del dettato codicistico, l’accordo rileverebbe per determinare, in primo luogo, i rapporti su cui si transige e, in secondo, gli importi e le modalità d’adempimento degli obblighi sorgenti in capo ad ognuno dei transigenti, ma è poi a p p a r e n t e m e n t e dall’adempimento di questi, e non solo dal consenso prestato, che discende l’effetto transattivo o per lo meno la sua stabilità. Parafrasando la formulazione codicistica, il contratto (concentrato sostanzialmente nell’accordo) costituirebbe il mezzo attraverso il quale lo scopo si persegue (ben lo esemplifica il «mediante» dell’articolo 1764), ma sarebbe dando (cioè c o n i l dare), promettendo (cioè c o n i l promettere) o ritenendo (cioè c o n i l ritenere ) qualcosa che pongono fine o prevengono una controversia: tornano alla luce, in un sol colpo, la co- struzione della transazione come patto necessariamente vestito per essere azionabile, quella più ri- salente della transactio-contratto innominato e, addirittura, si manifesta la radice più profonda e risa- lente della transazione in diritto romano, vale a dire la sua esistenza plurisecolare come causa nego- ziale, realizzata nella pratica mediante negozi adattabili allo scopo 150.
L’oscillazione fra le due diverse costruzioni potrebbe essere stata favorita anche dalla presen- za, storica ed attuale, di due significati normalmente distinti per l’unico significante «transazione», individuante in senso generale (ed anche nel linguaggio comune) un trasferimento da una parte ad un’altra di un bene o una quantità di beni e, in senso tecnico, il contratto de quo. Il fatto che talora i due significanti appaiano tangenti 151 è alla base di possibili confusioni che già il tribuno Albisson
nella cui prospettiva, secondo il romanista torinese, «non c’è spazio per la causa».
149) Sintagma mutuato da X. XXXXXXXX, X. xXXXXX, X. xXXXXXX, H.H. XXXXXX, Corpus Iuris Civilis – Text und Übersetzung, II, Heidelberg, 1995, p. 227, per rendere il significato di causa secondo l’elaborazione aristoniana del synallagma. Della formulazione tedesca ha fornito una versione italiana, che rappresenta a tutti gli effetti una sorta di
«interpretazione autentica», X. xXXXXX, La causa nella dottrina dei patti, in «Causa e contratto nella prospettiva stori- co-comparatistica (II Congresso Internazionale ARISTEC. – Palermo 7-8 1995)» − cur. X. XXXXX −, Torino, 1997, 144, traducendo l’espressione «zweckbestimmte Leistung» con «prestazione per uno scopo fissato».
150) X. XXXXX, Synallagma e conventio II, cit., p. 246 Cfr. anche X. XXXXXXX, Contrakere pacisci transigere, Napoli, 1995, e ancor più recentemente – su questo che si conferma un tema «caldo» nel dibattito scientifico giusromanisti- co a partire dall’innovativo, per non dire audace, lavoro di X. XXXXXXXXX, Studi sulle logicke dei giuristi romani, Napoli, 1971 – X. XXXXXXX, Tra causa e tipo negoziale dal diritto classico al postclassico in tema di transazione, in «Separata de Semi- narios Complutenses de Derecho Romano (IX-X 1997-1998)», Arganda del Rey (Madrid), 1999, p. 43 e ss.
151) La sovrapposizione concettualmente problematica fra i due significati di transazione si verifica, ad esem- pio, allorché una transazione, intesa nel senso di trasferimento di denaro da una parte ad un’altra, rappresenti il
«dando» mediante il quale si realizza il negozio transattivo: in tal caso il contratto di transazione viene eseguito (o perfezionato a seconda di quanto del dettato dell’art. 1764 si intenda conservare) da una delle parti tramite una … transazione. In tempi assai recenti anche X. XXXXXXXX, Droit civil. Les contrats spéciaux 2, Montchresien, 1995, p. 565, ha posto in luce come nella prassi venga utilizzato il termine «transazione» con un significato generale, ma non cre- diamo che egli abbia correttamente individuato quale sia questo significato generale. Sostiene infatti l’Autore che la parola «transazione» indica nel linguaggio corrente il contratto in genere adducendo che si parla «ainsi de la neces- saire rapidité des ‘transactions commerciales’, ou encore du souci d’engager la «sécurité des transactions», ma non si accorge che le espressioni citate non si riferiscono solo a contratti, ma perlomeno anche a spostamenti di determi- nate quantità di beni da un soggetto ad un altro. Ogni dubbio sul punto può essere fugato da un esempio tratto dalla vita di ognuno di noi: se all’acquisto di una qualunque merce decidiamo di pagare tramite una carta di credito elettronica, questa verrà fatta scorrere su di un lettore ottico che metterà in comunicazione l’esercizio in cui ci tro- viamo e la sede della società di credito. A questo punto il venditore digiterà l’importo che sarà così comunicato alla
ritenne di dovere fugare a vantaggio dei membri del Tribunato 152, chiamati a pronunciarsi sul pro- getto del titolo «des transactions». Proprio l’affermazione del tribuno è tanto più interessante in quanto evidenzia, a nostro parere già a partire dall’adozione del plurale («des transactions»), desti- nato a divenire la rubrica del titolo XV nel codice francese, il persistere di una costruzione della transazione come atto anche unilaterale che pone fine ad una controversia o la scongiura: fra le tante transazioni che vengono normalmente realizzate i padri del codice francese sono invitati dal relatore a concentrarsi su quelle che vengono realizzato in vista o per concludere un processo e il tribuno sprona i propri colleghi a distinguere fra i due negozi non in base all’unilateralità dell’uno ed alla plurilateralià dell’altro, ma principalmente sulla base dell’oggetto. Vale a dire che, in sostanza, il tribuno Xxxxxxxx, non è dato sapere se scientemente, ripropone quello che a nostro parere è l’ele- mento qualificante (lite incerta neque finita ) della transactio offerto sedici secoli prima da Ulpiano e per- venutici tramite D. 2.15.1.
Nonostante le «altre» transazioni non siano negozi bilaterali, né convenzioni, né tantomeno contratti, ma semplicemente trasferimenti di determinate quantità di beni 153, rilevanti sotto il profilo patrimoniali, lo zelante tribuno ritenne possibile una confusione proprio perché evidentemente egli per primo individuava nella dazione (magari effettuata affinché il titolare della medesima rinunci al- l’azione) il paradigma di un atto unilaterale capace di produrre effetti transattivi, in concorrenza con il regolamento di interessi consistente nella ‘conventio transigendi gratia ’: egli potrebbe, semplicemente, avere ben presente un modello di transazione, storicamente florido, in cui l’accordo non avrebbe avuto alcun valore senza il vestimentum della datio, della promissio o, in omaggio ai verba dioclezianei riordinati secondo la sequenza di Azzone 154, della retentio.
Analogamente (e il fatto non rappresenta, a nostro parere, una mera coincidenza), gli atti delle parti transigenti sono considerati singolarmente, dalla commissione Xxxxxxxxx, e, quel che più conta, individualmente: «dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa» è formulazione che non
società medesima: se la nostra spesa risulta «coperta» l’emissione di uno scontrino si accompagnerà alla dicitura
«transazione eseguita». Vi è forse chi, giurista, pensi a questa transazione come al contratto di compravendita con- cluso piuttosto che al pagamento dell’importo dovuto? E’ poi appena il caso di aggiungere che notoriamente, con questo significato, i calchi linguistici modellati sul latino ‘transactio ’ (vale a dire «transaction» e «Transaktion») ven- gono utilizzati anche in quelle lingue germaniche (inglese e tedesco) che pure, per indicare il contratto di cui questa ricerca si occupa, utilizzano ben diversi significanti («settlement»/«compromise» e «Vergleich»). Evidentemente l’uso nella lingua italiana del significante, esemplificato con riferimento al pagamento elettronico, rappresenta ciò che i linguisti usano definire «prestito di ritorno».
152) Il tribuno precisava infatti (FENET, Recueil, cit., XV, p. 113) che le transazioni descritte nel titolo in discus- sione destinato al «Code civil des Français» (1804) erano le transazioni su un processo (sottintendendo attuale o potenziale) «car, dans le projet dont il s’agit, c’est dans ce sens particulier que doit s’entendre le mot de transaction, employé q u e lq u e f o is d a n s u n acc e ption p l u s gén é rale ». Lo stesso tribuno col proprio intervento testimonia la convinzione degli autori del futuro art. 2044 e la sua personale di sposare la tesi del Domat nel definire e regolare la transazione perché con questo negozio «sont les parties elles-mêmes qui, éclairéees sur leurs droits respectifs, se rendent volontairement la justice qu’elles jugent leur être due, ou se éterminent, par lassitude ou par générosité, soit à se départir en tout ou en partie de leur pretentions, soit à se relâcher de leurs droits, et a s’affranchir par des sacrifices offerts et acceptés librement des peines et des inquiétudes auxquelles une plus longue lutte les eût laissées exposées». Questa testimonianza ulteriore della convinzione, radicata nei padri
«Code civil des Français» (1804), non può che rendere ancora più stupefacente il voltafaccia della dottrina transalpi- na sin dagli anni immediatamente successivi alla codificazione e il parere di quanti ritengono che l’art. 1764 «Codice Civile Italiano» (1865) ricalchi ancora il francese 2044.
153) Un significato del termine che ancora continua verosimilmente determinato da ciò che i linguisti chiama- no «prestito di ritorno» (cfr. supra, nt. 151). «Transaction» infatti non significa transazione in diritto inglese, ma tra- sferimento di beni o più semplicemente esecuzione di un contratto: dalla ligua della più grande potenza commer- ciale della storia moderna il significante è tornato sul continente sovrapponendosi, semanticamente, alla radice lati- na. Emblematico di questo processo è, a tutt’oggi, il rinvenimento di espressioni quasi comiche come «tant’è che i Xxxxxx avevano chiesto, in via riconvenzionale, che la t r a n s a z i o n e fosse dichiarata idonea ai fini della t r a n s a z i o n e di detti beni a loro favore» (spaziato nostro) che traiamo dalla Cass., Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13954.
154) Cfr. supra, nt. 75.
può lasciare spazio a dubbi sul fatto che la transazione nel codice del 1865 fosse sì un contratto plu- rilaterale, nella misura in cui ognuna delle parti avrebbe assunto un’obbligazione, ma che questi one- ri gravanti sulle parti non fossero legati fra loro dalla reciprocità, né, expressis verbis, dipendenti, per quanto attinente al loro contenuto, dalle pretese, contrastanti o contrastate, origine della controver- sia.
I diversi atti c o n c u i si elimina la controversia o il rischio della stessa secondo l’art. 1764 (tutti caratterizzati da una evidente unilateralità funzionale) non sono necessariamente concessioni e nemmeno sono correlati tra loro (come abbiamo avuto modo di porre in luce, si coglie in questa considerazione la distanza fra questa formulazione e la bilateralità immanente all’espressione «fa- cendosi reciproche concessioni» dell’art. 1965 cod. civ. it. [1942]) 155, inoltre la sola limitazione nella scelta degli atti, rappresentata dallo scopo che tramite essi viene realizzato, ci pare rivestire la mede- sima funzione della precisazione tribunizia ricordata e rende palese il perpetuarsi di uno sbilancia- mento del baricentro della transazione nel senso dell’atto giuridico unilaterale, genericamente inteso, posto in essere allo scopo di scongiurare o chiudere una situazione di conflitto interpersonale. Inu- tile precisare che si tratta di un concetto di transazione assai più vago di quello di negozio giuridico bilaterale, sebbene concluso col medesimo fine.
Ma che siano solo 156 i tre atti tipizzati dal legislatore a permettere il raggiungimento dello sco- po transattivo è ipotesi che entra in crisi di fronte all’ulteriore elemento normativo già più volte ri- cordato: l’impossibilità di risolvere la transazione per inadempimento.
Abbiamo già posto in luce come questa scelta fosse coerente con la definizione di «transazio- ne» data dal Domat 157, non già con quella accolta nella disciplina codicistica.
Questo divieto, che discende, sotto l’impero del «Codice Civile Italiano» 1865, dall’art. 1772 («Le transazioni hanno fra le parti il valore di una sentenza irrevocabile»), deporrebbe infatti, nell’ottica degli atti transattivi tipizzati, a favore della definitiva collocazione della transazione fra i contratti consensuali, per cui il legislatore, riconoscendo nell’accordo fra le parti il nucleo del nego- zio transattivo 158, ne terrebbe fermi i risultati, quasi a voler conservare il consenso espresso, anche a fronte della mancata esecuzione di una o più delle prestazioni (pur previste nella definizione offerta dall’art. 1764) cui i transigenti si erano obbligati. Tuttavia altro è l’interesse dello Stato, a che la tran- sazione sia efficace pienamente sul piano della pace sociale e della risoluzione delle controversie (interesse che dalla norma dell’art. 1772 «Codice Civile Italiano» 1865 era senz’altro efficacemente difeso), e altro è la struttura del negozio transattivo delineata nell’art. 1764.
E’ ovvio infatti come la norma dell’art. 1772 «Codice Civile Italiano» 1865 imponga un tratto che della transazione, stando alla costruzione dell’art. 1764, non è caratteristico: se infatti è d a n - d o , p r o m e t t e n d o o r i t e n d o q u a l c o s a che s i p o n e f i n e alla contro- versia, appare del tutto logico come n o n d a n d o , n o n p r o m e t t e n d o o n o n r i t e n e n d o ciascuna parte qualcosa n o n s i p o n e fine alla stessa 159.
155) Non riteniamo di dover ribadire le ragioni per cui concordiamo con GITTI, L’oggetto, cit., p. 68, secondo cui la nozione di transazione, «fondata sull’elemento funzionale della composizione della lite e sull’elemento stru- mentale delle reciproche concessioni», sarebbe rimasta sostanzialmente immutata nel passaggio dal vecchio al nuo- vo codice. Le parole dell’Autore ci sembrano, nella migliore delle ipotesi, dettate dall’errata convinzione che la dot- trina fiorita sul codice Xxxxxxxxx si servisse dell’archetipo transattivo fornito da quest’ultimo e non ne prescindesse invece «allegramente» come riteniamo di aver posto in luce.
156) Con i problemi conseguenti alla mancata menzione fra le attività realizzabili transigendi gratia, del «fare».
157) Che di questo principio fu, con ogni probabilità, il primo moderno fautore.
158) Conformemente a quel principio immanente alla sistematica negoziale disciplinata nel «Code civil des Français» (1804) («le libre consentement est la condition nécessaire et suffisante pour qu’un engagement soit sanc- tionné par la loi»): uno dei portati maggiormente rilevanti del «Code Napoléon», come ricorda condivisibilmente XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dai codici preunitari, cit., p. 1035, riprendendo un’espressione di Xxxxxx.
159) Ad un fenomeno analogo si assiste nel nuovo codice con riferimento all’art. 1976 che sancisce l’irri- solubilità per inadempimento della transazione novativa: è infatti evidente come una simile previsione mal si adatti
La storia ci consegna, pertanto, un legislatore del 1865 sostanzialmente bifronte, dal momento che, dopo avere affermato espressamente l’intimo legame tra lo scopo transattivo e gli atti tipici fi- nalizzati 160 al suo raggiungimento, impone che, anche qualora questi atti non vengano posti in esse- re, il risultato della transazione resti fermo: in nome dell’esigenza di preservare la pace sociale, con- seguente alla sua conclusione, si interviene sulla struttura di un istituto privatistico, intaccando il ri- gore di una disciplina organica 161 dei contratti, basata sul consenso.
Da questa ennesima cartina di tornasole della tecnica legislativa ottocentesca affiorano i troppi, e troppo differenti, contributi ed i precedenti normativi in tema di transazione che influenzarono pesantemente l’opera della commissione Xxxxxxxxx, determinando forse l’impossibilità 162 di scegliere una linea normativa pienamente coerente, tanto che la formulazione adottata non fu in grado nem- meno di esplicitare la necessità del requisito dell’ «aliquid datum aliquid retentum », ormai affermatosi nella dottrina e nei tribunali, perché a rigore fra le parti che concludono la transazione ex art. 1764 non tutte debbono d a r e e r i t e n e r e qualcosa, ma piuttosto d a r e o r i t e n e r e qualcosa.
La precarietà dell’archetipo ricavabile dall’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 è nuda di fronte a questi rilievi: prova ne sia proprio l’alacre attività ricordata, svolta in particolare dalla giuri- sprudenza, negli anni successivi alla sua promulgazione, e destinata, più o meno consciamente, ad una correzione delle sbavature e delle incongruenze legislative 163.
Dato saliente, fra quelli posti in evidenza con l’analisi condotta, è quindi l’emergere delle tracce di ciascuna delle diverse matrici (oltre a quella intuibile costituita dai codici precedenti), nella defini- zione e nella normativa del «Codice Civile Italiano» 1865 dedicate alla transazione. Da un lato pesa infatti l’opera di Domat padre dell’art. 2044 del «Code civil des Français» (1804) (radice invero ese- crata sul punto specifico dai contemporanei) 164: non solo e non tanto per quanto concerne la defi- nizione contenuta nell’articolo d’apertura del titolo dedicato alla transazione quanto, viceversa, per il fondamentale inserimento dell’art. 1772. Dall’altro i padri del «Codice Civile Italiano» 1865 trassero il proprio materiale da almeno altre tre diverse fonti: alle elaborazioni del Vinnio e del Xxxxxxx, si ri- volsero per l’individuazione della causa transigendi e, specie a quest’ultimo, per trarne l’ultima applica- zione della teoria dei vestimenta pactorum alla transazione; dal «Code civil des Français» (1804) presero l’inserimento della transazione tra i contratti; infine, nell’elaborazione dello Zachariae (influenzati, giovi ribadirlo ancora una volta, dalle traduzioni del suo trattato) trovarono gli elementi perdelineare il r a p p o r t o fra il contratto e i tre atti transattivi tipizzati legislativamente sulla scorta dalla tradizione prudenziale del rescritto dioclezianeo contenuto in C.I. 2.4.38.
L’intuibile inconciliabilità fra tanti svariati apporti, frutto di filoni interpretativi diversi e talora
all’oggetto della generale definizione contenuta nell’art. 1965. Per aversi un inadempimento, occorre che dalla tran- sazione sia nata un’obbligazione: cosa che, abbiamo già chiarito non sempre si verificava in passato (vanificando l’introduzione della transactio fra i contratti e richiedendo – verosimilmente – la correzione operata dallo Zachariae) e non è sempre vera oggi, potendo ben darsi una transazione che preveda reciproche rinunce ad altrettante pretese corrispettive e che non richieda alcun adempimento successivo al suo perfezionamento. Cfr. sul punto XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 395.
160) La pedestre tipizzazione contenuta nell’art. 1764 lascia fuori dalle attività efficacemente transattive tutta la sfera del fare, con l’eccezione, ovviamente, di quel pur rilevante sottoinsieme contenuto nella stessa e rappresentato dal dare. Come a dire che, alla luce di una rigorosa interpretazione, dando qualcosa sarebbe stato possibile transige- re mentre genericamente facendo qualcosa il medesimo risultato non sarebbe stato possibile raggiungere.
161) Il collasso normativo che emerge da quanto rilevato pare in effetti inevitabile se si pensa all’eterogenea provenienza dell’impianto definitorio adottato nella redazione dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865 ed alla di- stanza che separa quest’articolo dalla tradizione e dalla ratio dell’art. 1772.
162) Causata anche dalla mancanza di una classe di giuristi, anche solo lontanamente paragonabile a quella che avrebbe prestato la propria opera alla redazione del cod. civ. it. (1942), capace di adottare una linea scientificamente univoca.
163) Cfr. supra, nt. 73.
164) Cfr. supra, nt. 43.
originali, determinò i guasti appalesati dal Capo XII e determinò l’inutilizzazione (e, aggiungiamo noi, l’inutilità) della definizione contenuta nell’art. 1764, resa evidente dal comportamento dei giuri- sti e delle corti financo a partire dagli anni immediatamente successivi al 1865.
Fu, quindi, per necessità che la prassi e la dottrina non cessarono di fare riferimento ad un pa- radigma di transazione sintetizzato, con acume, dallo Zachariae e destinato, non a caso a fornire il modello dell’art. 1965 del cod. civ. it. (1942).
7. Alla luce delle premesse storiche esaminate, non possiamo osservare col medesimo stupore, ma- nifestato inizialmente, quell’insieme di particolarità elencate in apertura (segnalate con riferimento all’attuale assetto normativo, giurisprudenziale e dottrinale della transazione) ed anzi siamo final- mente in grado di tentare una spiegazione delle più recenti novità legislative, sul tema, e degli ultimi sviluppi determinati sul tema dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Il punto di partenza è che nonostante le parole di condanna per la definitio del «Codice Civile Italiano» 1865 (e per gli elementi extracontrattuali in essa presenti), contenute nella relazione del Guardasigilli Grandi 165, e l’integrale accoglimento per la redazione dell’art. 1965 della definizione offerta dallo Zachariae con il tramite e l’ausilio dei Xxxxx e Rau 166, (rodata da oltre un secolo di in- condizionate adesioni, spesso implicite, al di qua ed al di là delle Alpi), le contraddizioni che già era- no insite nella formulazione abrogata167 non solo non sono definitivamente venute meno, ma anzi sono tornate a mostrare segni della propria sopravvivenza a mano a mano che ci si allontanava dal- l’epoca di promulgazione del codice e, di conseguenza, diminuiva la soggezione per la lettera del- l’art. 1965. Questo è potuto accadere, metaforicamente, perché gli archetipi transattivi non-con- trattuali, come irriducibili nemici, sconfitti, ma tutt’altro che domi, non solo non hanno cessato di vivere, ma nemmeno (qualcuno in misura maggiore, altri in misura minore) di offrire prova della propria vitalità, continuando ad operare pur in contrasto con la lettera e la volontà espresse dal legi- slatore del 1942.
Questo fatto ci sembra fondamentale per affermare che la trattazione dedicata all’istituto tran- sattivo nel «Codice Civile Italiano» 1865 non fu il frutto di semplici contraddizioni e incongruenze testuali (che verrebbe naturale ascrivere esclusivamente, e a nostro dire troppo semplicisticamente, ad una carente preparazione tecnico-legislativa della commissione Xxxxxxxxx) 168, ma di una forzata presenza, «gomito a gomito», dell’eredità rappresentata da diverse costruzioni teoriche, tutte dotate, nel proprio ambito originario, di elementi di validità 169, ma altresì di peculiarità tali da rendere il contrasto insanabile, nel caso di coabitazione coatta.
Certo è innegabile che nel codice civile italiano (1942) i principali problemi definitori segnalati nel corso dell’indagine storica 170, siano stati risolti sia mediante l’eliminazione del riferimento ad atti tipici fruibili a scopo transattivo («facendosi reciproche concessioni» ha preso il posto di «dando,
165) Cfr. infra, nt. 172.
166) La precisazione, oltre a rendere conto in modo più puntuale del ruolo interpretato dai traduttori e curatori francesi, consente di precisare meglio che facciamo riferimento alla definizione contenuta nelle edizioni ottocente- sche precedenti a quella curata dal Xxxxx, nella quale lo stravolgimento della soluzione adottata dal maestro di Heidelberg appare evidente sebbene ispirato dall’evoluzione vissuta dal «Vergleichsbegriff» in Germania nella se- conda metà del XIX secolo: cfr. supra, nt. 114.
167) E che comunque fu determinata, in certa misura, dal fatto che i suoi padri furono «costretti a procedere, per le esigenze politiche del momento, con una velocità inusitata e senza l’ausilio di quegli studi e di quelle indagini che sogliono far corona all’opera di codificazione»,come efficacemente scrive il XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dai codici preunitari, cit., p. 1041.
168) Spiegazione che il Guardasigilli Grandi implicitamente offre nella propria relazione, presentando il capo dedicato alla transazione.
169) Derivanti loro dall’enfatizzare maggiormente un aspetto della realtà negoziale piuttosto che un altro (pri- vilegiando l’atto rispetto alla convenzione ad esempio).
170) Cfr. supra, §§ 3 ss.
promettendo o ritenendo ciascuna qualcosa», codificando una costruzione ormai assolutamente maggioritaria nella prassi n o n o s t a n t e – diciamo noi – la lettera dell’art. 1764 «Codice Civile Italiano» 1865), sia grazie alla presenza nel codice civile italiano (1942) di una definizione di con- tratto assai diversa da quella del precedente. La bilateralità funzionale delle reciproche concessioni, richiesta già da Zachariae/Xxxxx-Xxx, ha (condivisibilmente) preso piede, trovando esplicita previ- sione normativa, e non vi è motivo di dubitare che ciò sia avvenuto proprio in ossequio all’indirizzo interpretativo testimoniato dalle parole del Guardasigilli Grandi, in merito alla natura della transa- zione 171.
Anche i problemi ermeneutici posti dall’attribuzione di forza pari al giudicato alla transazione sono venuti meno perché la norma dell’art. 1772 «Codice Civile Italiano» 1865 è stata cancellata dall’ordinamento, benché una significativa traccia del suo contenuto sia conservata nell’art. 1976, col quale anche il cod. civ. it. (1942) sancisce la sopravvivenza dell’assetto di interessi raggiunto dalle parti all’inadempimento di queste. Solo però nel caso che esse abbiano dato vita ad una transa- zione novativa.
Molto significativamente nella relazione ministeriale 172 si assiste all’assimilazione di questa norma abrogata alle tracce di una concezione causale della transactio che sarebbero state contenute nel vecchio art. 1764 e in queste debolezze dogmatiche della vecchia disciplina viene individuato l’emblema della scarsa tecnica legislativa dei padri del «Codice Civile Italiano» 1865: a qualcuno dei commissari non doveva essere sfuggita l’inconciliabilità della struttura di causa/contratto innomi- nato con il principio contrattualistico accolto nel cod. civ. it. (1942)173.
Inutile ribadire che simili rilievi, a firma del ministro Xxxxxx, confortano in modo definitivo l’opinione che non da mere contraddizioni terminologiche o sintattiche fosse affetto l’abrogato art. 1764, perché troppe e troppo gravi sarebbero in tal caso le mende del lavoro svolto dai commissari guidati dal Xxxxxxxxx, e che il nuovo codice, nella volontà del legislatore, dovesse, riguardo alla tran- sazione, rappresentare una rottura col precedente e con la tradizione di cui questo rappresentava l’epigono 174.
L’art. 1976 ha spezzato una millenaria tradizione che voleva lo stato «nume tutelare» del placi- tum transattivo 175, introducendo la formale risolubilità per inadempimento della transazione (sempre che questa non sia novativa): così facendo il legislatore, mentre ha per certi versi improntato la pro- pria la visuale a quella del Domat (col prestare attenzione principalmente agli aspetti di composizio- ne di una lite presenti nella transazione) ha rifiutato la secolare attribuzione alla transazione di una natura metanegoziale, onde rinnovarne e rafforzarne l’inserimento fra i contratti inaugurato dal
«Code civil des Français» (1804).
L’impressione complessiva che se ne trae è, pertanto, che il Guardasigilli Xxxxxx, nella propria relazione abbia mirato ad enfatizzare i caratteri schiettamente contrattuali degli art. 1965 ss., offren-
171) Cfr. infra, nt. 172.
172) Relazione del Ministro Guardasigilli, cit., p. 172 n. 772. «Queste norme (scil. gli art. 1767, 1768, 1770, 1771, 1773 «Codice Civile Italiano» 1865, non riprodotti nel cod. civ. it. [1942]) si spiegavano nel codice del 1865, nel quale, pur essendosi affermata la natura contrattuale della transazione, v i e r a n o t r a c c i e d e l l a v e c - ch ia co n c e z io n e ch e co n s id er ava la tr an s a zio n e co me un a ca usa g e n e r ale d i acq u is to e vi era sopra ttu tto la t e n d enza a d as simil a re la transa zione alla c o s a g i u d i c a t a (art. 1772 primo comma); m a non a v e v ano più al c u na ragion d ’ e s s e re nella n u ova d i s c iplina, che è e s cl u s i v amen te ispira ta a l prin cipio contrat- tu ali sti c o, e ne lla q u ale è s c omparsa l’a ssim ila zione s u d d etta » (Spaziato nostro).
173) Si tratta naturalmente di una supposizione, per quanto fondata sul tenore letterale della relazione proposta dal Guardasigilli, la cui verificabilità è, ahinoi, resa impossibile dalla mancanza, per l’Italia, di un lavoro analogo a quello svolto dal Fenet per i lavori preparatorti del «Code civil des Français» (1804): cfr. sul punto PADOA SCHIOP- PA, Dal codice napoleonico, cit., p. 946.
174) Inutile ribadire pertanto l’inaccettabilità della posizione sul punto sostenuta dal Barbiera: cfr. supra, nt. 53.
175) Cfr. supra, nt. 135. Circa l’effettiva operatività attuale di questa norma, cfr. il nostro Transazione. Sintesi di informazione, in corso di pubblicazione in «Riv. Dir. Civ.», XLVIII, 2002.
do, in tal modo, una giustificazione (nel nome di una dogmatica comunque poco rispettosa dei dati offerti dalla realtà) 176 dell’inserimento del titolo dedicato alla transazione fra quelli intitolati all’an- ticresi ed alla cessione di beni ai creditori. Nel far ciò egli evidenziava, ed in tal modo riconosceva, le eterodossie rappresentate dagli spunti presenti nel «Codice Civile Italiano» 1865, analizzati nel corso di questa ricerca, ed abrogati dal codice civile italiano (1942), sancendone la natura di frutti derivanti da differenti posizioni dottrinali 177 e non di semplici prodotti dell’imperizia.
Questo dato fondamentale avrebbe dovuto indurre gli interpreti della disciplina successiva alla promulgazione del nuovo codice a sospettare che la scelta definitiva operata a favore dell’inclusione della transazione fra i contratti non sarebbe stata al sicuro da una futura, e prevedibile, riscossa delle elaborazioni rifiutate dal legislatore del 1942: un ritorno incerto nel quando, ma, a nostro avviso, certo nell’an.
Trattandosi, infatti, di differenti letture di un analogo fenomeno giuridico (diverse certo, ma, a priori, non meno valide – non da un punto di vista normativistico, certo, bensì scientifico – di quella accolta dal legislatore) 178, l’individuazione nella transazione di un atto più che di un contratto o di una causa negoziale tout court avrebbero prima o poi finito per tornare a fare capolino: ma mentre questo fatto non avrebbe destato nessuno stupore se ne fosse stata protagonista solo ed esclusiva- mente la dottrina (magari in seno ad istanze de iure condendo), ci è, viceversa, parso di poter affermare che il più nitido segnale di una riemersione della costruzione causale della transazione, oltre che nelle oscillazioni presenti in modo più o meno evidente in alcune recenti sentenze, vada ricono- sciuta nella norma contenuta nell’art. 3, II c., del D.P.R. 120/1988.
Dal tenore di quest’ultimo si evince infatti la sopravvivenza, almeno per i firmatari dell’ac- cordo collettivo nazionale cui il D.P.R. diede esecuzione, di un «Vergleichsbegriff» che prescinde dal consenso (e si colloca quindi al di fuori del, pur vastissimo, genus contrattuale, codicisticamente inteso) 179 e la sopravvenienza, allo stesso tempo, di un istituto radicalmente nuovo, i cui effetti (pur conseguenti cronologicamente ed eziologicamente ad un mero atto) dovrebbero essere analoghi a quelli del contratto definito dall’art. 1965, ma solo in virtù dell’applicazione di una norma positiva, la cui emanazione non sembra agevolmente conciliabile con il principio contrattualistico, anima, mezzo secolo prima, della definizione di transazione 180
176) Cfr. supra, § 2.
177) Riassunte nella sprezzante formulazione «la vecchia concezione» (cfr. supra, nt. 172).
178) Sebbene in contrasto con questa e pertanto non considerabili, al di là della mera speculazione scientifica, altrettanto «buone»: ciò non solo per il contrasto che un simile atteggiamento inevitabilmente determinerebbe con le norme sull’interpretazione della legge in generale, tuttora vigenti, nonostante la frequente, colpevole, loro preteri- zione, ma anche, sotto un profilo, se vogliamo «più alto», per i problemi di rispetto del principio di uguaglianza che un simile atteggiamento potrebbe comportare. Giovi a questo proposito richiamare le considerazioni operate supra,
§ 1 nt.3, con riferimento all’ingiustizia potenziale derivante dal ricollegare efficacia ed effetti dal legislatore voluti per un contratto ad un mero atto, per impulso di un formante costituzionalmente e politicamente non legittimato a farlo.
179) Alla luce, quindi della definizione di contratto contenuta nell’art. 1321.
180) L’inconciliabilità paventata presenta due distinti profili: uno formale e l’altro sostanziale. Il dato formale è il problema creato, nella gerarchia delle fonti del diritto da una fonte secondaria (il D.P.R.) che ne contraddice una primaria (il codice civile): cfr. per quanto concerne il ruolo dei regolamenti nel sistema delle fonti, cfr. X. XXXXX- XXXXxX, Diritto costituzionale. Il sistema delle fonti, Torino, 1988, p. 205 ss. Sotto il profilo sostanziale, lungi dal voler porre in essere o giustificare operazioni di «ortopedia giuridica», tendenti a ricondurre la fattispecie descritta nel
D.P.R. del 1988 nell’alveo dei contratti (ipotizzando ad esempio che con il fatto di ricevere il pagamento si accetti in sostanza la proposta transattiva), riteniamo senz’altro di dover prendere atto di un autentico slancio di creatività posto in essere dal legislatore. Non infatti dalla ricezione di un importo (questa sì presupponente un’offerta ed un’accettazione, cui più coerentemente ricollegare l’effetto transattivo) sono fatti discendere gli effetti transattivi, ma dal v e r s a m e n t o («riconoscendo valore anche transattivo alla corresponsione dei compensi arretrati»): ci pare che tanto basti a fugare ogni ragionevole dubbio riguardo al fatto che nel D.P.R. 120/1988 si assista alla rego- lamentazione di una fattispecie proposta dalla prassi, facendone discendere gli effetti previsti per un preciso tipo negoziale nel codice, senza tuttavia tenere in considerazione il modello e le categorie utilizzate in quest’ultimo: cfr.,
E non è questo l’unico segno di decadenza della costruzione della transactio accolta nel codice. Abbiamo già avuto modo di segnalare le preoccupanti incertezze, sia linguistiche che giuridiche, manifestate dalla corte di cassazione nell’occuparsi di transazione 181, ma due dati ci paiono ancora utilmente rilevabili: il primo ancora derivato dalla secolare concorrenza delle due letture della tran- sazione – quasi due facce della stessa medaglia – vale a dire quelle caratterizzate, rispettivamente, dalla richiesta reciprocità delle concessioni, da un lato, del vestimentum pacti, dall’altro; il secondo le- gato ai presupposti della transazione, che, alla luce delle più recenti sentenze della Suprema Corte, risultano fissati solo ufficialmente in modo vincolante dal legislatore del 1942.
Procedendo con ordine, rileviamo come la reciprocità delle concessioni, perfetto parallelo lin- guistico del tedesco «gegenseitiges Nachgeben» scolpito nel § 779 «BGB.», nelle intenzioni del legi- slatore ha definitivamente sganciato la transazione dall’ambito, a torto o a ragione considerato bru- moso, delle cause negoziali e dei contratti innominati, eliminando il riferimento alle prestazioni, per secoli necessarie onde vestire il placitum e renderlo efficace.
Ebbene, sembrerà un’ovvietà, ma l’espressione «concessioni reciproche» non è fungibile con un’altra, che usualmente s’incontra in ambito contrattuale, vale a dire «prestazioni corrispettive» 182.
Il primo dei due sintagmi determina infatti, mercé l’efficacia del codice, la necessità che i liti- ganti (siano essi attuali o potenziali) facciano ognuno un passo verso l’altro nel predisporre l’assetto di interessi destinato, una volta approvato, a condurli al di là della situazione litigiosa o potenzial- mente litigenetica.
a proposito dell’irrinunciabilità delle categorie poste dal legislatore quando un comportamento diverso involga la di- sciplina ricollegata alle stesse, le parole di X. Xxxxx riportate supra, nt. 3.
181) Cfr. supra, § 2 nt. 27.
182) Pertanto l’affermazione che la transazione sarebbe un contratto a prestazioni corrispettive (come sostiene XXXXXXXXX, Transazione, cit., p. 464, sulla scorta forse della dottrina fiorita sul codice Xxxxxxxxx, che viceversa tale opinione poteva legittimamente sostenere) appare scorretta, potendo le reciproche concessioni esser fatte senza che sorga alcuna obbligazione e senza che vi sia a carico delle parti alcun comportamento attivo od omissivo: si pensi al caso in cui il consenso suggelli, sic et simpliciter, la rinuncia dei soggetti transigenti ad alcune o a tutte le contrapposte pretese. Più corretto risulta quindi il maggiormente prudente inserimento della transazione fra i contratti a titolo oneroso. Non ci paiono poi condivisibili le osservazioni che DEL PRATO, La transazione, cit., p. 1 s., trae dalla for- mulazione dei due commi dell’art. 1965 unitamente considerati. Nell’intento di dimostrare la natura di causa nego- ziale della transazione l’Autore sostiene l’identità fra le «concessioni» scolpite nella definizione e le generiche «pre- stazioni» possibili. In questo modo egli, scientemente, preterisce il collegamento funzionale che invece, fortunata- mente, la suprema corte stessa (cfr. nt. 191) ha confermato come necessario, fra l’oggetto delle pretese ed il conte- nuto delle concessioni. Ciò sia detto volendo tacere del problema posto dal significato da attribuirsi al termine «pre- stazione» in questo caso: se infatti si associa ad esso il significato «classico» di «contenuto dell’obbligazione», rimar- ranno prive di considerazione le molte possibili (e concretamente frequenti) concessioni che prescindono dal sorge- re di un’obbligazione. L’Autore appare significativamente tentennante, fra l’ossequio alla lettera del codice e la sem- plificazione (concessioni = prestazioni) premessa alla propria trattazione dell’istituto, quando più organicamente si occupa delle reciproche concessioni, appunto, e della funzione della transazione. Egli infatti, pur iniziando (25) col rilevare che le «disposizioni» reciproche non debbono avere necessariamente ad oggetto la situazione sostanziale, ma piuttosto la lite, aggiunge che è quest’ultima «a fornire di supporto le attribuzioni patrimoniali disposte a titolo transattivo» (26) come se vi dovessero sempre essere «attribuzioni» di carattere patrimoniale per il venire in essere di una transazione (ammesso che noi s’intenda correttamente il significato del termine attribuzione): tutto ciò scrive l’Autore poche righe prima di affermare che «il contenuto prestatorio delle reciproche concessioni può essere il più vario» ed egli stesso fa l’esempio della rinuncia al ricorso amministrativo, da parte di uno dei due contenedenti in una particolare controversia, come concessione transattiva. Ci chiediamo a questo punto se non sia problematico ravvisare in tale rinuncia una prestazione discendente dalla transazione (stante il fatto che successivamente al con- senso il rinunziante non deve, materialmente, «fare» più nulla) e soprattutto in cosa consisterebbe l’attribuzione pa- trimoniale in una simile fattispecie transattiva. Ci pare invero di poter riaffermare, di fronte alla debolezza della co- struzione dell’Autore basata sul concetto di prestazione, che non a caso e non per un mero scopo di varietà lingui- stica, il legislatore ha fatto ricorso ad un sintagma (reciproche concessioni) che, oltre a rappresentare il distillato di una felice e rodata tradizione della quale sono parte lo Zachariae, la dottrina italiana sorta sul vecchio codice e «last but not least» il «BGB.», scolpisce uno dei caratteri principali della transazione (l’essere espressione del massimo li- vello di autonomia concessa ai privati) mediante una formula che non limita all’angusto ambito delle prestazioni il novero delle attività, latu sensu, consentite alle parti per porre fine o prevenire una controversia.
Ciò significa, in parole povere, che, se vi sono o sono preconizzabili 183 delle pretese e, rispetti- vamente, la negazione di queste e/o delle contropretese, la transazione, per rispondere ai canoni posti dal codice, necessiterà che le parti abbandonino, per lo meno, queste loro posizioni, in tutto o in parte. Ciò non toglie (e qui sta il senso dell’espressione «per lo meno») che al citato abbandono (che integra di per sé le caratteristiche della concessione) si possa affiancare e addirittura sostituire un’azione diversa (come prevede espressamente il comma 2 dell’art. 1965), magari in funzione di conguaglio. Tuttavia la possibilità che i sacrifici interessino anche rapporti diversi da quelli alla base della controversia è evidentemente trattata dal codice come una mera eventualità.
Per questa ragione il caso in cui una parte rinunci integralmente alla propria pretesa, anche se l’altra parte effettua a vantaggio della rinunziante una qualunque prestazione di carattere patrimo- niale, la quale però non rappresenti in nessun modo un accoglimento seppur parziale della pretesa oggetto di rinunzia 184, non sembra rientrare a pieno titolo nel genus transattivo (tanto da richiedere il grimaldello dell’art. 1965, II c. – come chiarito supra, nel testo – per esservi ricompreso), giacché non pare potersi ravvisare quel collegamento tra datum e retentum, da un lato, ed oggetto della prete- sa, dall’altro, richiesto recentemente e costantemente, anche da parte dei supremi giudici. Per con- tro, scendendo sul piano pratico, a fronte della rinuncia ad una pretesa azionabile per il ripristino di una servitù prediale, la semplice disponibilità 185 del proprietario del potenziale fondo servente a vendere transigendi gratia la porzione necessaria al passaggio da e per il fondo finitimo, determina l’esistenza dei requisiti del contratto di transazione ex art. 1965, II c., cod. civ. it. (1942) 186 perché configura una concessione187 (anche, e ci mancherebbe altro, in assenza di ogni sconto sul prezzo),
183) E’ orientamento derivabile da alcune recenti pronunce della suprema corte la possibilità che vi sia una transazione «anche quando le parti non abbiano ancora dato alle rispettive tesi la determinatezza propria della pre- tesa»: così Xxxx., Sez. LL., 11 agosto 2000, n. 10657, in «Rep. Foro It.», 2001 ‘Transazione ’ [6730], n. 13, e Cass., Sez. III, 3 marzo 1999 n. 1787, in cui si rinviene una formulazione più che analoga («perché possa configurarsi transa- zione rispetto a lite non ancora insorta non è necessario che le parti abbiano dato alle rispettive tesi la determina- tezza propria della pretesa; è bensì sufficiente che una contrapposizione si sia manifestata circa aspetti del rapporto, sul quale sia poi intervenuto l’accordo della cui natura e dei cui effetti si discuta»). Cfr. anche sul punto le più risa- lenti Cass. 1 giugno 1983 n. 3758 e Cass. 3 agosto 1977 n. 3454, richiamate dalla corte stessa.
184) «Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione».
185) All’interno della struttura transattiva è la disponibilità soltanto a rilevare, essendo la compravendita dotata di una causa autonoma, realizzata dallo scambio di cosa contro prezzo.
186) Cass., Sez. II, 4 aprile 1997, n. 2910.
187) Una mentalità moderna e soprattutto urbana assume, quasi inevitabilmente, che comprare e vendere siano le due facce di una stessa medaglia e quindi non vi sia nulla di più o di diverso, nella disponibilità a vendere, di quanto costituisca la disponibilità a comprare. Lo studio del diritto romano (con quello straordinario paradigma, del concetto che intendiamo affermare, che è la mancipatio : l’archetipo di compravendita, nel quale però il venditore non svolgeva alcun ruolo) e soprattutto il privilegio di vivere in un contesto rurale, consentono di guardare al fenomeno della compravendita liberi dalla deformante lente della vita cittadina, necessariamente basata sul presupposto che ciò di cui si necessita, o di cui si ha semplicemente voglia, si compra. In realtà non esiste alcun automatismo, come si sarebbe tentati di credere (anche se la società moderna è indubbiamente assai più attenta alla possibilità di com- prare piuttosto che alla disponibilità a vendere, che viene letteralmente presupposta): il desiderio e la possibilità di comprare sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, a far sorgere un contratto di compravendita. La disponi- bilità a cedere una cosa propria contro un prezzo rappresenta sempre una concessione più o meno grande che non raramente sfugge ad una limitante logica economica. Se il nostro discorso appare troppo astratto o lontano dalla realtà attuale, si pensi ad un collezionista che trovi un pezzo di straordinario valore presso un privato del tutto igna- ro di ciò che possiede e gli faccia un’offerta, ricevendo in cambio un rifiuto immotivato o motivato con ragioni af- fettive. Si dubiterà ancora che l’accoglimento della proposta, magari dopo un «corteggiamento» estenuante da parte del tenace collezionista, rappresenti il semplice incontro di due volontà e non piuttosto una concessione cioè, meta- foricamente, un cedere alle insistenze di una parte da parte dell’altra? Xxxxxx considerazioni ci sembrano, nel loro fondamento, in grado di evidenziare ed anche di fondare un parziale dissenso rispetto al punto di vista espresso da
X. XXXXXXX, La proprietà. Beni, proprietà, comunione, in «Trattato di diritto privato» (cur. X. XXXXXX, X. XXXXX), Mila- no, 1990, p. 22 s., a proposito del significato economico della distinzione tra beni immobili e beni mobili ed in par- ticolare dell’alto valore storicamente riconosciuto ai primi. In particolare, ci pare meritevole di una rimeditazione l’affermazione secondo cui «non oggi, ma sempre, la ricchezza mobiliare basata sul denaro, sui crediti e sul com-
mentre, di certo, non costituisce una prestazione in senso classico.
Non inganni quindi il secondo alinea dell’art. 1965, perché esso non significa che qualunque prestazione patrimoniale prevista da un accordo con finalità transattive integri i requisiti della con- cessione. Il comma contribuisce piuttosto a delineare meglio le modalità operative del contratto di transazione ed il ruolo strumentale delle reciproche concessioni all’interno di questo: è noto infatti come, ex. art. 1321, sia l’accordo tra le parti, determinando il sorgere del contratto, a creare modifi- care o estinguere rapporti giuridici patrimoniali, mentre nell’art. 1965 cpv. questo è il risultato delle reciproche concessioni. Da questo dato s’inferisce come le reciproche concessioni rivestano nel contratto di transazione un compito normalmente svolto dal consenso e ciò accade, a nostro parere, non tanto per un retaggio dell’inquadramento della transactio fra i contratti innominati, quanto per- ché la realizzazione delle reciproche concessioni c o i n c i d e con il momento in cui le parti per- vengono all’accordo transattivo 188: solo se la realizzazione di una o di entrambe dovesse richiedere un comportamento ulteriore o diverso da parte di uno o di entrambi i contraenti, questi assumerà, col consenso, la relativa obbligazione, cui adempirà, questa volta senza dubbio, con una prestazione di carattere patrimoniale (ex art. 1966). Tuttavia questa sua obbligazione discenderà eziologicamente dalla concessione, fatta allo scopo di raggiungere il risultato transattivo mediante l’accordo, la quale di conseguenza, in perfetto accordo con la lettera del codice, non può che rappresentare un prius, non fungibile, rispetto alla solo eventuale prestazione.
Così si spiega per quale ragione, per due volte, abbiamo fatto uso dell’espressione «per lo me- no» nell’esemplificare i paradigmi essenziali di ogni transazione. Quello descritto, infatti, è solo il contenuto tipico della transazione; nulla vieta che in essa siano presi in considerazione, o ad essa si riconducano, altri rapporti. In simili casi la transazione da pura si trasforma in complessa, acco- gliendo sotto l’egida della causa teleologica della conclusione o prevenzione d’una controversia, ob- bligazioni o addirittura negozi assai diversi tra loro 189.
Naturalmente, a questo punto, la constatazione che non può esservi spazio per una qualche considerazione di simili, eventuali, prestazioni in una ricostruzione volta ad individuare gli elementi essenziali del negozio, né per una valutazione delle concessioni che le equipari, sostanzialmente, a delle semplici prestazioni, appare quasi un corollario dell’esegesi che proponiamo: emblematico, a tal proposito, il precetto contenuto nell’art. 1970 col quale il legislatore ha sancito l’impossibilità di risolvere la transazione invocando la laesio enormis. Infatti, tenendo presente il principio contrattuali- stico che ha guidato i padri del codice nella redazione della disciplina dedicata alla transazione 190, ci pare verosimile ritenere che l’esclusione della transazione, dal novero dei negozi cui si applica la di- sciplina dell’art. 1448 cod. civ. it. (1942), non sia stata introdotta per la ragione metagiuridica che il
mercio è stata più importante e più produttiva del patrimonio terriero»: se infatti quella attribuita alla ricchezza mo- biliare è un’importanza astratta per la società umana, l’idea dell’Autore può reggere, costituendo i traffici un motore dello sviluppo sociale; viceversa se egli vuole intendere che in termini assoluti, per un ipotetico proprietario, di qualunque tempo e luogo, sarebbe sempre e comunque stato meglio possedere denaro e crediti invece di terreni, crediamo che l’approfondimento dei meccanismi economici in determinate fasi della storia potrebbe offrire l’opportunità di una smentita.
A partire dalle osservazioni proposte è poi possibile confutare la pur logica obiezione che anche un offerente di una merce deve convincere un potenziale compratore e quindi in teoria rischia di incontrare delle difficoltà analoghe a quelle del compratore che offre il prezzo per una res : uno dei presupposti della scienza economica classica, infatti, è che la disponibilità di beni non è illimitata, a differenza di quella del denaro che può ben tendere all’infinito. Quan- do poi si tratta di beni rientranti fra i mezzi di produzione e limitati dalla fisicità del pianeta che abitiamo, quali la terra, questa scarsezza è addirittura autoevidente: tanto basta differenziare anche sotto un profilo più strettamente economico compratore e venditore.
188) A nostro parere infatti non è questo semplicemente il momento «in cui valutare l’esistenza delle recipro- che concessioni» come scrive MONATERI, Questioni generali, cit., p. 40.
189) Rinnovando in tal senso l’attualità delle parole di Carnelutti (cfr. supra, nt. 18), circa la difficoltà della tran- sazione a presentarsi da sola, vale a dire nella sua forma cd. «pura», nella realtà.
190) Cfr. le parole del guardasigilli Grandi al proposito: supra, nt. 172.
legislatore ritenga i positivi effetti per la pace sociale conseguti mediante la transazione portatori, di per sé, di un valore, e pertanto occorra preservarne ad ogni costo i risultati, quanto piuttosto per la considerazione tecnica che le concessioni, necessariamente reciproche, non possono essere valutate con i criteri e sulla base di principi elaborati per definire le prestazioni e, segnatamente, per i con- tratti caratterizzati dalla sinallagmaticità delle medesime 191.
Se i risultati di questa nostra analisi possono apparire un poco scontati, si resterà allora ancor più sorpresi constatando che in dottrina e nella recente giurisprudenza sono presenti punti di vista affatto diversi da quello scolpito nel codice e recentemente riaffermato dalla giurisprudenza. In par- ticolare questioni come l’opportunità di dare un qualche rilievo all’ «adequacy of consideration», impegnano i supremi giudici 192 e agitano il dibattito fra i giuristi.
In tempi recenti la Cassazione si è trovata più volte a riaffermare l’assoluta indifferenza delle concessioni reciproche a criteri di valutazione economica, che puntino ad individuare l’equivalenza delle stesse, ed ha inoltre indicato quali caratteristiche debbano avere gli impegni assunti dalle parti transigenti per poter essere considerate come concessioni193.
Se tuttavia la confusione fra concessioni e prestazioni ancora non affligge le pronunce della Suprema Corte, la frequenza delle medesime sul punto e il tenore dei commenti e delle elaborazioni dottrinali 194 testimoniano il fatto che, nella realtà, la marea sale. Come abbiamo potuto porre in lu- ce, si assiste fra i giuristi, oggi come in tempi meno prossimi, a prese di posizioni non nitide sul punto e in particolare ad affermazioni che denunciano l’imperfetta comprensione 195 della differenza
191) Si tenga presente su questo punto la sentenza Xxxx., Sez. III, 22 aprile 1999, n. 3984, che ha ribadito nel segno del pieno rispetto della lettera del codice la piena validità dell’art. 1970, chiarendone la ratio basata sulla con- statazione che «la considerazione dei ‘reciproci sacrifici e vantaggi ’ è a carattere soggettivo, essendo rimessa all’autonomia negoziale delle parti (cfr. Cass. 20 maggio 1965 n. 1591; Cass. 1987 n. 1209)» e nulla ha a che fare, an- che linguisticamente (ci sembra lecito precisarlo) con la sfera della sinallagmaticità delle prestazioni, condicio sine qua non per l’applicazione degli schemi propri della laesio enormis.
192) Si pensi alla sentenza Xxxx. 23 gennaio 1980, n. 565, in «Rep. Foro It.», 1980, ‘Transazione ’, c. 2668, n. 5, secondo la quale il giudice di merito nell’individuare il contenuto delle reciproche concessioni «non può sostituirsi alle parti stesse, nell’apprezzamento circa la loro congruità, ma, dovendo tendere ad accertare quale sia stata l’effet- tiva volontà negoziale, può e deve ricercare la loro ragionevolezza e verosimiglianza». Ci sembra che i due requisiti oggetto d’indagine da parte del giudice di merito, quantunque non aprano esplicitamente la strada ad una valutazio- ne economica basata sul principio dell’equivalenza, meritino comunque una riflessione da parte dell’interprete.
193) L’assoluta ininfluenza di un qualche rapporto di equivalenza fra il datum ed il retentum è stata in tempi re- centi energicamente riaffermata dai supremi giudici: cfr. Cass., Sez. LL., 11 agosto 2000, n. 10657; Cass., Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1980; Cass., Sez. LL., 12 novembre 1998, n. 11458. La giurisprudenza della suprema corte è pe- raltro conforme in questo senso sin dagli anni ’50 del secolo scorso: Xxxx. 24 ottobre 1956, n. 3899, in «Rep. Foro It.», 1956, ‘Transazione ’, c. 2897, n. 24-26.
Una sentenza non recentissima (Cass. 6 gennaio 1983, n. 75, in «Massimario Giustizia Civile», 1983, p. 26-27) forni- sce un criterio per individuare l’eventuale natura di concessione delle prestazioni descritte nella quietanza cui si in- tenda attribuire valore probatorio di una transazione: deve risultare dalla scrittura «su quali contrapposte pretese viene ad incidere l’effetto abdicativo del negozio, così da delineare l’ambito preclusivo di ulteriori pretese risarcito- rie». La linea è la medesima seguita da una fiorente corrente interpretativa fautrice della necessità che le reciproche concessioni siano ancorate non già ai diritti effettivamente esistenti, quanto piuttosto alle pretese ed alla/alle conte- stazione/i delle medesime (cfr. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, La transazione. I 2, cit., p. 14, il quale alla nt. 22 menziona gli altri fautori dell’efficacia costitutiva della transazione sostenitori, in precedenza, della medesima lettura delle reci- proche concessioni.
194) MONATERI, Questioni generali, cit., p. 35 ss.
195) Esemplificativo in questo senso XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 111, quando scrive che «una volta stabi- lito che le reciproche concessioni delle parti altro non sono che sacrifici c o r r i s ponde n ti […], è spianata la via per catalogare le trans a zioni f r a i contr a tti sin allagma tici, a xxxx lo onero- s o , d a i qu ali d e rivano pre s taz i oni c o rris p e ttiv e » (spaziature nostre). L’Autore prima tratta come fungibli gli aggettivi reciproco e corrispondente (il che già di per sé non depone a favore di un’esegesi pienamente rispettosa del dettato legislativo), dopodiché, non si deve certo sforzare per saltare dal palo dei sacrifici corrispondenti alla frasca delle prestazioni corrispettive che oltretutto deriverebbero dal contratto, mentre egli stes- so in precedenza precisava che «la transazione deve registrare un mutamento della posizione originaria delle parti in lite» (p. 26): un mutamento che, non è forse superfluo ribadirlo, può ben precedere il consenso o coincidere con
abissale che separa la mera prestazione (esemplificata nel vecchio art. 1764 dai tre verbi cui tanta attenzione abbiamo dedicato) dalla concessione 196.
E veniamo in conclusione ai risultati dell’ultimo sforzo, della dottrina e della giurisprudenza, forse ancor più pericoloso del precedente, xxxx all’affermazione di un requisito del contratto non solo non presente, ma scientemente rifiutato dai padri del codice civile.
Ormai regolarmente la Suprema Corte di trova costretta a misurarsi con l’esigenza di definire la res dubia, trattandola come un presupposto essenziale per la conclusione di un negozio transattivo nonostante questo requisito non sia richiesto, ma anzi, stante la precedenza storica del § 779
«BGB.», contenente l’esplicito riferimento all’ «Ungewißheit», scientemente escluso dalla formula- zione codicistica della definitio transattiva.
Per chi volesse ricercare nelle fonti romane la matrice di questo requisito, è opportuno sgom- brare il campo da ogni dubbio (ci si perdoni il gioco di parole) chiarendo come sia ingannevole l’ap- parente ossequio linguistico alla distinzione tra ‘transigere ’ e ‘pacisci ’ tratteggiata da Ulpiano in D.
2.15.1 197: la res dubia nella sua attuale individuazione non ha nulla a che vedere con la prospettiva del giurista xxxxxxxxx 198, che con il sintagma in esame definiva, con tutta probabilità, semplicemente il contrasto tra posizioni giuridiche divergenti, sebbene non ancora giunto innanzi ad un giudice. La res dubia «moderna» trova le proprie radici negli sviluppi del negozio di accertamento e della transa- zione determinati dalla dottrina tedesca dopo il 1850 con un iter, efficacemente ripercorso dal Git- ti 199, che ha condotto all’introduzione dell’ «Ungewißheit» (un concetto di incertezza dotato di vita propria, rispetto alla prospettiva processuale) fra le situazioni cui il contratto di transazione pone
questo. Tanto basta a confutare l’affermazione che necessariamente dalla transazione discenderebbero prestazioni corrispettive ed a farci giudicare inaccoglibile la definizione di transazione (e la sua conseguente catalogazione) pro- posta dall’Autore, giacché «ogni definizione, in campo giuridico, deve essere aperta a tutti i casi che vi rientrano» (così X. XXXXX, Xxxxxxxxx e atto, cit., p. 52).
196) PALAZZO, ‘Transazione ’, cit., p. 408, inizia la propria trattazione dell’argomento con una rubrica significati- va («Reciproche concessioni ed equivalenza delle attribuzioni») ed introduce il tema chiedendosi «se la proporzione tra i rispettivi aliquid datum ed aliquid retentum possa essere tale che le concessioni divengano non reciproche per di- sfunzione quantitativa riducendosi a stare da una sola delle parti». La formulazione dell’apparentemente valido que- sito denuncia una comprensione non impeccabile della categoria linguistica della reciprocità, oltre che di quella delle concessioni, paventando la possibilità che la reciprocità si ricolleghi ad un qualche criterio di proporzionalità. Può certo apparire iniquo censurare il tenore della più recente voce enciclopedica dedicata alla transazione basandosi solo sui termini in cui viene proposto un problema, ma, se possibile, il giudizio si fa più severo allo scoprire che, dopo aver citato alcune decisioni della corte di Cassazione, recisamente contraria a riconoscere un qualche ruolo all’equipollenza delle concessioni, l’Autore afferma che il quid medium di cui i giudici (Cass. 9 ottobre 1974, n. 2739,
«Rass. Giur. ENEL.», 1975, p. 376) parlano in riferimento al contemperamento degli interessi alla base delle pretese (necessario per il venire in essere di una transazione fra datore di lavoro e lavoratore) per richiederne la verifica da parte dal giudice di merito, onde evitare un vizio per incontraddittoria ed insufficiente motivazione, «significa che se non sono necessarie l’equivalenza e l’omogeneità delle prestazioni, è tuttavia necessario a seconda del tipo di inte- ressi in gioco che si salvi, attraverso la reciprocità delle concessioni, la giustizia delle attribuzioni». Difficile non cre- dere che l’Autore pensi alle concessioni come al dare, promettere o ritenere ciascuno qualcosa transigendi gratia e che, nella sua esegesi, l’aggettivo «reciproche» indichi semplicemente un qualche rapporto di proporzionalità fra le attri- buzioni. Si perpetua quindi, nelle parole del Palazzo, l’equivoco determinato dalla tradizione dei vestimenta pactorum, soprattutto in considerazione del fatto che il maggior vantaggio che deriva a tutti i soggetti transigenti (secondo una tradizione condivisa anche dagli autori, come il Duranton, fermamente convinti che Domat errasse nel non richie- dere l’esecuzione di prestazioni in aggiunta alla conventio transigendi) è il venire meno del rischio d’una controversia giudiziale, con conseguente risparmio di tempo, denaro e nervi: un vantaggio frutto dell’efficacia peculiare del con- tratto e non di un’attribuzione. Tutto questo poi, nonostante il Palazzo nella medesima voce enciclopedica (p. 389) avesse affermato che le «reciproche concessioni consistono in sacrifici reciproci, di cui non è rilevante l’equivalenza, essendo richiesto l’abbandono della pretesa e della contestazione che vengono sacrificate per venire alla determina- zione di un diverso assetto d’interessi.»
197) Cfr. supra, § 3.
198) Erra a nostro giudizio XXXXXXX-XXXXXXXXXX, La transazione I 2, cit., p. 10 s., nel ritenere che il § 779
«BGB.» si ricolleghi alla tradizione romanistica. Ben ha illustrato il Gitti (citato infra, nt. 199) la reale genesi del rife- rimento all’ «Ungewißheit» nel paragrafo in questione ed in particolare l’originalità tedesca sul punto.
199) GITTI, L’oggetto, cit., x. 00 xx.
xxxxxxx.
Parte della dottrina italiana dell’ultimo secolo ha ritenuto che questo sviluppo potesse effica- cemente migliorare le caratteristiche della transazione descritta dall’art. 1965 (probabilmente consi- derata come eccessivamente appiattita su di un piano processuale) ed ha perciò iniziato a considera- re e conseguentemente a richiedere la presenza di una res dubia, diversa dalla presenza di una nega- zione della pretesa o di una contropretesa 200, e caratterizzata invece dall’elemento soggettivo dell’in- certezza 201, alla cui luce la causa della transazione si identificherebbe con quella del negozio d’ac- certamento 202. E’ assai interessante constatare come questa istanza scientifica abbia ottenuto, nel- l’ultimo trentennio, il sostanziale avallo della massima giurisprudenza 203, nonostante non solo non
200) Considerato il presupposto fondamentale per l’applicazione dello schema negoziale tratteggiato dal legi- slatore mediante l’art. 1965, da CARRESI, La transazione2, 61.
201) Campione di questa tesi è stato, negli anni immediatamente successivi alla promulgazione del codice ’42 VALSECCHI, Transazione e negozio, cit., p. 199 nt. 1.
202) E’ questa la tesi sostenuta da XXXXXXXXX, Della transazione, cit., p. 455.
203) Un avallo ancor più stupefacente, stante il fatto che fino agli anni settanta, sulla scia dell’interpretazione carneluttiana dei presupposti della transazione (X. XXXXXXXXXX, Xxxxx causa della transazione, in «Riv. Dir. Comm.», XI, 1914, p. 573) la suprema corte parlava di res dubia attribuendo un significato all’espressione maggiormente ri- spettoso del dettato codicistico e dell’originario impiego della medesima da parte di Xxxxxxx, vale a dire, servendo- sene per indicare la presenza di una pretesa contestata: cfr. Cass. 18 marzo 1971, n. 787, in «Rep. Foro It.», 1971, ‘Transazione ’, c. 3031, n. 16; Cass. 17febbraio 1968, n. 555, in «Rep. Foro It.», 1968, ‘Transazione ’, c. 2818, n. 3.
Oggi viceversa la suprema corte conferma ormai costantemente un orientamento controcorrente, riaffermando che
«affinché un negozio possa essere considerato transattivo è necessario, da un lato, che esso abbia ad oggetto una res dubia, e cioè cada sopra un rapporto giuridico avente, almeno nell’opinione delle parti, carattere d’incertezza» (cfr., da ultima, Cass., Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1980). Con questa pronuncia, conforme ad una serie di precedenti degli ultimi anni (Cass., Sez. LL., 12 novembre 1998, n. 11458; Cass., Sez. LL., 18 novembre 1997, n. 11471; Cass., Sez. II, 2 ottobre 1996, n. 8620; Cass., Sez. II, 19 gennaio 1994, n. 434; Cass., Sez. LL., 4 luglio 1991, n. 7393; Cass., Sez. III, 21 maggio 1991, n. 5711) essa ha riproposto testualmente un’affermazione dei requisiti della transazione che ri- sale a trent’anni orsono: Xxxx. 13 aprile 1972, n. 1157, in «Rep. Foro It.»., 1972, ‘Transazione ’, c. 2889, n. 5 e 10. Non sembra invero aver colto la portata delle posizioni giurisprudenziali, basate sull’esistenza «almeno nell’opinione delle parti» dell’incertezza, XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 9 nt. 19, presumibilmente perché si limita a considerare il precedente rappresentato dalla sentenza 11471 del 1997 e la ratio decidendi che ne trae.
I giudici di legittimità della I sez. civile, con la sentenza 1980/2000, hanno una volta di più riconosciuto all’in- certezza soggettiva una posizione che, viceversa, la giurisprudenza più risalente le rifiutava: se infatti, da un lato, l’astratta possibilità di una controversia non era considerata sufficiente per attribuire ad un negozio giuridico la qua- lifica di transazione (App. Napoli 10 luglio 1952, in «Rep. Foro It.», 1953, ‘Transazione ’, c. 2370, n. 5), d’altro canto il semplice timore di una lite ed il desiderio di evitarla, anche se chi transige fosse convinto di non dovere nulla, e quindi non nutrisse alcuna incertezza subiettiva circa il rapporto controverso, costituiscono i presupposti di una va- lida transazione (App. Firenze 21 ottobre 1953, in «Rep. Foro It.», 1954, ‘Transazione ’, c. 2705, n. 10). Il tentativo di salvare in extremis questa interpretazione della giurisprudenza di legittimità passa attraverso l’osservazione che co- munque, anche se le parti non nutrono incertezze sul rapporto oggetto di transazione, per lo meno non potrebbero essere sicure dell’esito della lite giudiziale. In verità la Cassazione, in una serie di sentenze tutte piuttosto risalenti, non ha espresso un orientamento consolidato, anche se le pronunce più recenti sembrano riconoscere un ruolo a questa incertezza «processuale» (Cass. 2 aprile 1969, n. 1080, in «Rep. Foro It.», 1969, ‘Transazione ’, c. 2943, n. 11; Cass., 31 maggio 1966, n. 1457, in «Rep. Foro It.», 1967, ‘Transazione ’, c. 2980, n. 1; contra Cass., 16 giugno 1962, n. 1506, in «Rep. Foro It.», 1962, ‘Transazione ’, c. 3007, n. 4). In realtà anche il presupposto logico di questa estrema giustificazione del ruolo riconosciuto all’incertezza ci pare debole: in ogni caso, infatti, non si tratta di una incertez- za in ordine al rapporto su cui si transige, ma di un dubbio che riguarda il processo.
L’ossequio che la suprema corte, anche oggi, tributa alla propria trentennale tradizione., sebbene risulti via via più vuoto (non è infatti impedito alle parti agire in giudizio nonostante l’assenza di incertezza, perché dovrebbe esserlo transigere? E’ questa la domanda che acutamente si pone PALAZZO, ‘Transazione ’, cit., p. 388) viene sottovalutato dalla dottrina. Se si prende, ad esempio, lo stesso PALAZZO, loc. ult. cit., questi riconosce che la suprema corte parla ancora di incertezza (diciamo ancora perché questo presupposto era caro ai sostenitori della natura dichiarativa del negozio transattivo come Xxxxxx, Xxxxxxxxx e Carresi), ma attribuisce a quest’espressione il senso di «contrapposizio- ne giudiziale o sostanziale delle parti» capace di eliminare «definitivamente l’inutile discussione sull’incertezza». A sostegno della propria tesi però egli non cita nessuna delle sentenze conformi degli anni novanta elencate supra e si basa, piuttosto, su precedenti piuttosto risalenti (p. 390 nt. 18). Non ci pare che la sistematica riproposizione di un principio da parte della corte (seppure sporadicamente contraddetto, e non troppo recentemente, da decisioni iso-
vi sia incertezza nella communis opinio scientifica circa l’origine extra-codicistica (e secondo noi, addi- rittura, contra codicem ) del contenuto di questo requisito 000, xx xxxxxxx xxx xxx xxxxxxxxxx xx xxxxxx- xx una posizione assolutamente egemone 205 circa questa impostazione 206.
Al di là della constatazione che questo dato prova, oltre ogni ragionevole dubbio, la natura di formante incisivo sulla realtà giuridica della speculazione scientifica di cui è protagonista la dottri- na 207, ci pare opportuno porre in luce come l’interpretazione, data negli ultimi anni, dalla Corte di Cassazione al presupposto dell’incertezza, ponga dei seri problemi di carattere ermeneutico, stante il fatto che i giudici sembrano orientati a dare un’importanza all’elemento soggettivo assai maggiore di quella riconosciuta, in ambito negoziale, al motivo per cui un contratto viene concluso. Certamente si può eccepire che, in questo caso, non di un motivo si tratterebbe, quanto piuttosto di un autenti- co presupposto. In primo luogo, però, è la verifica di questo ad essere tanto disagevole da sconsi- gliarne la prescrizione: il limite della temerarietà della pretesa, alla validità di una transazione 208, non rientra in un sistema di norme che permette di riconoscere anche al dubbio soggettivo il carattere di
late come Cass., Sez. LL., 23 gennaio 1997, n. 712) possa essere liquidato con una operazione ermeneutica di questo tipo e nemmeno con l’identificazione incertezza-lite operata da XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 17 nt. 39, senza (apparentemente) tenere conto dei più recenti precedenti sul punto. Quest’ultimo Autore opera applicando in modo non condivisibile la proprietà transitiva: identifica la res dubia nella lite sulle orme di Xxxxxxxxxx; constata l’orientamento della Cassazione (ma cita la sola sentenza 4106 del 1985) e ne trae l’identificazione fra res dubia e in- certezza; a questo punto propone come «non arbitrario» il fatto che «incertezza divenga sinonimo di lite».
Invero ci pare che se la suprema corte avesse voluto esprimersi in questi termini avrebbe potuto confermare il prin- cipio espresso proprio nella sentenza 712/1997 nella quale è chiaramente affermati come, affinché la transazione abbia ad oggetto una res dubia è necessario, che «sorga un conflitto fra discordanti e incompatibili valutazioni di in- teressi e pretese» e cioè che il negozio cada sopra un rapporto giuridico costituito dalla fra le parti e quindi, anche solo potenzialmente, di una controversia. Che questo fosse assolutamente preferibile (e lo sia tuttora) è possibile in- ferirlo dagli stessi fatti alla base del ricorso su cui venne emessa la sentenza ultima citata: il ricorrente infatti (dato che le parti conclusero una transazione su di una controversia già decisa dalla suprema corte con esito noto alle parti, ma non ancora pubblicata) lamenta la mancanza dell’incertezza subiettiva (non certo la presenza del giudicato, che avrebbe imposto un richiamo all’art. 1969 cod. civ. it. [1942]) come impedimento alla validità della transazione. Così facendo suscita la curiosa scelta della cassazione che, nel rigettare il ricorso, enuncia il «solito» principio e lo interpreta dando però all’incertezza subiettiva il senso di controversia: vale a dire piegando le regole della lingua ita- liana ad un’assurda conservazione.
204) Scrive infatti PALAZZO, ‘Transazione ’, cit., p. 388, «di questo presupposto del dubbio non vi è traccia nella legge che si limita a parlare di lite.». Dello stesso avviso XXXXXXXX, La transazione, cit., p. 8 s. entrambi gli Autori non sembrano tenere in considerazione le più recenti pronunce della suprema corte ed in particolare, sebbene Xxxx- xxxx (8 s. nt. 19) ricordi una recente sentenza in cui l’incertezza subiettiva viene richiesta (Xxxx., Sez. LL., 18 no- vembre 97, n. 11471: cfr. supra, nt. 203, e infra, nt. 209), i due più recenti indagatori dei presupposti della transazione non paiono registrare la recente assiduità dei giudici nel richiedere una situazione di incertezza soggettiva che, pe- raltro col Xxxxxxxx, riteniamo non dovrebbe trovare considerazione da parte degli interpreti, in primo luogo per l’esclusione della stessa dalla disciplina dettata dal legislatore ed in secondo luogo per il generale dovere dell’in- terprete di lasciare la valutazione delle riserve mentali (e, in generale, delle convinzioni pur alla base del comporta- mento negoziale) al di fuori della propria attività ermeneutica.
205) I giudizi su questa corrente interpretativa sono stati talora addirittura recisi. Scrive infatti CARRESI, La transazione 2, cit., p. 3 che si «esimerà […] dal prendere in esame altre questioni che solitamente si dibattono in sede di studio del contratto di transazione e che invece non hanno c on e s s o al c u na e ffe tti va atti- n e n z a » (spaziato nostro), precisando (nt. 2) come egli si riferisca «in particolar modo, alle questioni, annose e prolissamente dibattute, se la lite che la transazione compone debba essere incerta o no, se l’incertezza debba essere oggettiva o soggettiva o tutte e due le cose insieme». Ancor più deciso XXXXXXX-XXXXXXXXXX, La transazione I 2, cit.,
p. 10, quando sostiene che «in nessun caso, l’incertezza può annoverarsi fra i presupposti della transazione».
206) Non sostiene ad esempio l’idoneità a fugare un dubbio, vale a dire ad accertare alcunché della transazione,
X. XXXXXX, ‘Accertamento ’, in «ED.», I, Milano, 1959, p. 217. In uno con l’attribuzione alla transazione di un’efficacia che non sarebbe né dichiarativa né costitutiva, ma preclusiva, osserva l’Autore che «la transazione, dunque, è un ne- gozio ad efficacia preclusiva, ma non un fenomeno di accertamento, perché essa, svolgendosi interamente sul terre- no formale delle pretese, non si fonda sul momento della conoscenza che rappresenta un dato necessario di ogni fi- gura di accertamento».
207) Con l’onere della responsabilità che da questa posizione discende.
208) Art. 1971 codice ’42.
presupposto del contratto, con la conseguenza di mal tollerare indebite modificazioni extra-legi- slative del campo d’applicazione della transazione.
A ciò si aggiunga il fatto che la Suprema Corte dimostra di avere in certo senso gerarchizzato i diversi gradi di incertezza (quella subiettiva sarebbe la più lieve e dovrebbe di conseguenza essere sempre presente, anche ove manchi l’incertezza oggettiva) in uno sforzo che non pare coronato da risultati privi di mende.
E’ infatti un orientamento, recentemente più volte rinverdito dai giudici di legittimità, che l’incertezza subiettiva rappresenti un grado di dubbio più lieve, se rapportato all’incertezza oggetti- va, e sia pertanto richiamabile con una formulazione (riportata infra) utilizzata allo scopo di esplicare in quale senso la transazione necessiterebbe di avere ad oggetto una res dubia. Sostiene la Cassazione che «la transazione deve avere ad oggetto una «res dubia (e, cioè, cadere sopra un rapporto giuridico avente, a l m e n o nella opinione delle parti, carattere di incertezza)» 209. Con una simile espres- sione si stabilisce un legame, tra l’incertezza subiettiva e quella obiettiva, apparentemente analogo a quello comunemente rinvenuto fra la colpa ed il dolo mentre, su un piano pratico, l’avverbiale «al- meno» induce ad identificare nell’incertezza subiettiva il minimo comun denominatore delle situa- zioni in cui sia possibile 210 concludere una transazione.
Non pare che questa scelta ermeneutica, che abbiamo definito «gerarchizzazione dell’in- certezza», corrisponda in modo soddisfacente alle caratteristiche del reale, pur rappresentando negli ultimi anni una costante nei criteri interpretativi giurisprudenziali utilizzati dai giudici incaricati del controllo di legittimità, in materia transattiva: l’enunciazione sembra infatti voler significare che l’incertezza oggettiva (derivante dal fronteggiarsi di due contrapposte pretese) rappresenti un quid pluris rispetto all’incertezza delle singole parti, la quale comunque sussisterebbe sempre quando venga in essere una transazione e, anzi, costituirebbe un presupposto del contratto. Ci pare, in tutta franchezza, che possa darsi il caso di una i n c e r t e z z a o g g e t t i v a derivante dal fronteg- giarsi di due pretese che, rispettivamente, si fondino sull’assoluta c e r t e z z a s o g g e t t i v a , delle singole parti 211, circa le spettanze da cui scaturiscono le pretese (o, rispettivamente, pretesa e contestazione): è ovvio come in un caso simile l’avverbiale «almeno» perda gran parte del suo signi- ficato rendendo preferibile, a quella prescelta dai supremi giudici, una più corretta, sebbene meno lineare, espressione con la quale si richieda che la transazione ricada su di un rapporto giuridico controverso 212, fonte, anche solo potenzialmente, di un conflitto.
209) L’identica espressione, che esclude di per sé un possibile fenomeno di casualità o episodicità, si rinviene in una serie di pronunce degli ultimi dieci anni citate supra, nt. 203, che la stessa corte riallaccia ad alcune altre pro- prie decisioni (Xxxx. 10 luglio 1985, n. 4106; Cass. 13 aprile 1972, n. 1157; Cass. 10 dicembre 1970 n. 2624; Cass. 17 febbraio 1968 n. 555). Ci pare interessante rilevare, in chiusura, come nella sentenza 11471 del 18/11/97 la sezione lavoro sia tornata ad utilizzare il verbo troncare con riferimento però al dubbio e non più alla controversia come nella tradizione delle Pandette del Xxxxxxx (cfr. supra, § 4 nel testo). Ci pare questo un esempio significativo del
«mélanges», fra diverse costruzioni teoriche dell’archetipo transattivo, volto, più o meno consciamente, a risolvere il problema della natura dichiarativa, costitutiva o preclusiva (per usare la terminologia cara al Falzea) della transazio- ne, col solo risultato, a nostro dire del tutto insoddisfacente, di collegare un effetto costitutivo-preclusivo al dubbio: un elemento che, per ammissione della stessa suprema corte, può avere natura meramente subiettiva e pertanto pre- senta un’intrinseca resistenza alla possibilità di riuscire «troncato».
210) Tant’è che in tal senso l’incertezza della singola parte è stata intesa da almeno un ricorrente in cassazione: cfr. supra, nt. 203.
211) Accogliamo sul punto l’opinione di DEL PRATO, La transazione, cit., p. 23, giacché condividiamo l’idea che
«il dubbio soggettivo sulla situazione di diritto non impronta la transazione neppure quando vi sia controversia: possono contrapporsi pretesa e contestazione ed una od entrambe le parti essere convinte dell’infondatezza dell’avversa tesi.»
212) La pretesa infatti che entrambe le parti coinvolte nella transazione nutrano dei dubbi circa la situazione che la transazione andrà a modificare per rendere stabile è un elemento di ulteriore debolezza che emerge dalla massima costante della suprema corte. Pretendere infatti che entrambi («almeno nell’opinione delle parti» non sem- bra potersi interpretare come almeno nell’opinione di una delle parti) i transigenti versino nell’incertezza circa la si- tuazione che vanno a modificare e rendere stabile con la transazione, riduce ulteriormente l’ambito d’applicazione
Nei confronti di questo atteggiamento della suprema corte, sono riproponibili le censure (circa le conseguenze, che l’incertezza subiettiva richiesta come presupposto porrebbe) già elevate in tem- pi meno recenti dalla dottrina: prima fra tutte quella basata sulla conseguente possibilità di impu- gnare la transazione qualora si potesse fornire la prova della mancanza d’una condizione psicologica d’incertezza al momento di concludere la stessa. L’antieconomicità, oltre alla contrarietà alla lettera del codice, di simili implicazioni ci paiono giustificare l’auspicio di un ritorno a meno avventurose valutazioni, pur evitando con cura le conclusioni, definite «scarnificanti» dal Gitti213, del Carresi 214.
Tuttavia, anche per noi che assumiamo volentieri un atteggiamento di difesa della disciplina codicistica contro, è il caso di dirlo, le forze centrifughe215, riesce impossibile non constatare le av- visaglie del tramonto ( o per lo meno di una significativa eclissi) di un modello transattivo a suo tempo «preferito» dal legislatore (quello contrattuale) a vantaggio di un seppur episodico ritorno ad archetipi transattivi che, volendo preservare il dettato legislativo da forzature e improprie «correzio-
di una definizione di transazione che si basi sulla massima della suprema corte, rendendola, de facto, inadatta allo scopo.
213) XXXXX, L’oggetto, cit., p. 82, afferma che il Carresi mirerebbe, in nome della propria «accademica» nostalgia per la natura dichiarativa della transazione, alla scarnificazione del negozio per ridurlo all’osso e «farne un semplice contratto dichiarativo».
214) Xxxxxxxx XXXXXXX, La transazione 2, cit., p. 2 ss., in modo per certi versi apodittico, che «per principio quando viene posto in essere un negozio giuridico entrambe le parti, nella cui sfera gli effetti sono destinati a riper- cuotersi, conoscono la situazione giuridica su cui l’atto è destinato ad operare e soprattutto concordano nella valu- tazione di questa situazione, onde sono in grado di prevedere quale sarà la situazione finale che seguirà al compi- mento di esso e di statuire in relazione a tale previsione. Quando invece vi sia incertezza sulla situazione iniziale non è possibile che le parti agiscano su tale situazione, posto che una modificazione […] presuppone logicamente che si conosca quel che s’intende di immutare». L’esposizione dicotomica consente all’autore di precisare oltre (p.
9) «che mentre l’ignoranza sia della norma che del fatto determina necessariamente uno stato d’inerzia, l’incertezza intorno all’uno o all’altro di questi due elementi induce piuttosto i soggetti interessati a formulare contrastanti valu- tazioni della situazione giuridica. Ciascuno di essi insomma si formerà un proprio convincimento in ordine a tale situazione così da prospettarla nel modo che ritiene a sé più favorevole». Conseguenza diretta dell’evoluzione com- piuta dall’incertezza sarebbe la pretesa (p. 12) «la quale consiste in un’affermazione di subordinazione dell’interesse altrui al proprio fatta nell’interesse del titolare dell’interesse che si assume subordinato». Il sorgere del convinci- mento sulla base dell’incertezza muterebbe la res dubia in res litigiosa.
Il discorso del Carresi, che altrove sostiene come la causa di accertamento rappresenti la funzione della transazione (affermazione che rinveniamo nel suo testo a p. 61), ha il merito, a nostro dire, di porre perfettamente in luce come sia la posizione della pretesa, conseguente al raggiunto convincimento, a spalancare le porte del processo, sottinten- dendo che la medesima pretesa può, ovviamente, venire da un soggetto assolutamente certo sui fatti e sulle norme riguardanti il rapporto. Il risultato di tale prospettazione è proprio quello auspicato dall’Autore (p. 3) vale a dire l’assoluta inconferenza del requisito dell’incertezza alla costruzione dell’archetipo transattivo, il cui ambito d’appli- cazione, in modo non equivoco, è stato tracciato dal legislatore. Ci convincono meno invece alcune affermazioni che non riusciamo ad inquadrare che come altrettanti (inutili) assunti: non ci sembra affatto sicuro né obbligatorio che quando viene posto in essere un negozio giuridico le parti debbano essere non solo a conoscenza della situa- zione su cui il loro atto di volontà va ad insistere, ma addirittura concordi nella valutazione della medesima; non ci pare sufficientemente provato che vivendo nell’incertezza circa la situazione le parti non possano compiere alcun negozio poiché non conoscerebbero cosa intendono mutare: è ben possibile infatti che, pur senza sentire il bisogno di trar fuori dal dubbio le proprie reciproche posizioni le parti, entrambe incerte, decidano di sostituire alla situa- zione misconosciuta una nuova, certa perché basata sul loro accordo (negare questa possibilità condurrebbe alla ne- gazione della natura negoziale della transazione in una delle sue tipiche applicazioni); non ci riesce agevole condivi- dere l’opinione che l’ignoranza (sul fatto o sul diritto) muoverebbe all’inerzia (ci si perdoni il gioco di parole): non è infatti per nulla infrequente assistere, nella prassi negoziale, all’avanzamento di pretese a dir poco «avventurose», proposte quasi per tentare la sorte e basate sull’assoluta ignoranza della situazione che di esse dovrebbe costituire la base; non ci soddisfa infine, per una analoga ed agevole osservazione empirica, l’affermazione che «l’incertezza in- torno all’uno o all’altro di questi due elementi induce piuttosto i soggetti interessati a formulare contrastanti valuta- zioni della situazione giuridica»: per buona sorte dell’amministrazione della giustizia non è infrequente osservare un prudente atteggiamento di inerzia da parte di chi non è affatto convinto dei termini delle proprie spettanze e, nono- stante Carresi, non si sente coartato a formarsi un proprio convincimento in grado di vincere il dubbio e di fondare una pretesa.
215) Utilizziamo l’endiadi, presa a prestito dalla terminologia della fisica, perché ben ci pare descrivere le ca-
ratteristiche del contrasto esaminato con il principio della centralità della legge.
ni», non possono che definirsi semplicemente (ed anche così con un certo disagio) «negoziali» o
«causali», identificati ed individuati, nella quasi totalità 216 dei casi, dalla funzione di estinguere o scongiurare definitivamente una situazione litigiosa, ma senza ulteriori significativi elementi acco- munanti.
Il dato è stato colto molto recentemente dal Gitti, il quale però, a nostro avviso, forse troppo preso dal ripercorrere le vicende che contrapposero i sostenitori della natura di negozio dichiarativo della transazione e quelli della natura schiettamente contrattuale, rileva sì come questi ultimi siano risultati vincenti – anche se, nelle singole scelte di disciplina, il tradimento della verità di cui «oggi più nessuno dubita» 217 è assolutamente sistematico 218 –, ma ci sembra altresì circoscrivere la vicenda ad un dualismo (efficacia dichiarativa-efficacia costitutiva) che invece, scientemente, abbiamo inteso spezzare 219, ponendo piuttosto in luce come in realtà le tradizioni interpretative, all’interno delle quali la dottrina si è mossa negli ultimi due secoli, non traggano le mosse da un capo del Codice ci- vile del 1942, del 1865 e nemmeno dal «Code civil des Français» (1804) 220, ma da un fascio di letture di un fenomeno (quello transattivo) che nella prassi, straordinariamente, resta sempre uguale a stes- so 221, anche nel corso dei secoli, mentre nella dottrina, nella giurisprudenza e nella legislazione (tutte e tre lato sensu intese) muta qualificazione. Ciò accade conformemente al prevalere di sempre troppo costrittive costruzioni dogmatiche generali (cui peraltro il nostro istituto risulta, da secoli, insoffe- rente) e quando non una sola costruzione teorica prevalga, essendo storicamente impossibile, si scorgono, analizzando i cinque formanti individuati dal Sacco 222, le sconnessioni chiaramente visi- bili durante la vigenza del codice civile 1865.
Certamente la scelta codificatoria, e soprattutto la gerarchia delle fonti impostasi a seguito di quella nei paesi dell’Europa continentale, comporta che gli slanci ermeneutici, ed a maggior ragione quelli creativi, eterodossi, compiuti dalla giurisprudenza e dalla dottrina rispetto agli archetipi nego- ziali, accolti e regolati nel codice, debbano essere considerati contra codicem. Ogni qualvolta siano le corti a rendersi protagoniste di simili posizioni o queste ultime siano il prodotto della dottrina (non già impegnata in proposte de iure condendo, ma di pseudo-interpretazione) dovrebbero essere senza
216) E’ d’obbligo l’eccezione per il caso all’origine della pronuncia Cass., sez. III, 27 giugno 1990 n. 6546, cfr.
supra, § 2 nt. 28.
217) Xxxxxxxx a prendere a prestito le parole di XXXXXXXX, Questioni generali, cit., p. 38, per dare maggiore ef- ficacia al punto di vista del Gitti circa la crisi della vittoriosa tesi contrattualistica che, in parte, riteniamo condivisi- bile.
218) GITTI, L’oggetto, cit., p. 129.
219) Lo stesso XXXXX, L’oggetto, cit., p. 128 ss, si professa convinto contrattualista, ed in ciò seguace di France- sco Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, considerando come sola antagonista di questa impostazione quella «romantica» dei sosteni- tori della natura di negozio dichiarativo della transazione. E’ ovvio come in tal modo si spieghi il fatto che gli pos- sano sfuggire le linee interpretative risalenti a ben più antichi archetipi.
220) Xxxxx, a corroborare questa affermazione, l’empirica osservazione che nella dottrina italiana successiva alla promulgazione del nuovo codice raramente si scorge un abbandono critico degli apporti derivanti dalla dottrina precedente circa la ricostruzione dell’archetipo transattivo nelle sue linee essenziali, motivando questa scelta con il superamento della disciplina codicistica. Si tende piuttosto ad omogeneizzare i contenuti del vecchio 1764 con quelli del nuovo 1965, sostenendone una sostanziale identità al di là di una formulazione che persino in anni recen- tissimi si considera semplicemente «più felice» (opinione espressa da GITTI, L’oggetto, cit., p. 68, la cui opinione circa l’identità contenutistica dei due articoli definitorî è recentissima, e per questo ancor più rilevante). Questo atteggia- mento mima un ossequio alla lettera del codice che, in realtà, cela l’assoluta indipendenza della scienza giuridica ci- vilistica dalla contingenza normativa. Un atteggiamento che, se ha consentito la sopravvivenza di costruzioni dog- matiche altrimenti destinate all’oblio, ha però anche determinato il risultato, a nostro dire deprecabile, di offrire un sostrato scientifico alla forzatura della tipicità delle fonti del diritto e all’obliterazione del principio d’uguaglianza.
221) Operando costantemente nel risolvere o prevenire – mediante lo strumento del compromesso, atecnica- mente inteso, che risulta utilizzato regolarmente sin dall’epoca delle Dodici Tavole in Roma (cfr. Tab. VIII.2, in X. XXXXXXXXX, J. BAVIERA, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX-XXXX, Fontes iuris romani anteiustiniani, Firenze, 1968, I, p. 53) – controversie che nelle linee essenziali, forse necessariamente, risultano, tutto sommato, sempre molto simili, a dispetto del fluire dei secoli.
222) XXXXX, Introduzione, cit., p. 44.
remore riconosciute e censurate. Ciò, se non altro, in Italia, sulla base del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, irrimediabilmente violato ogni volta in cui gli operatori del di- ritto fruiscano di costruzioni dogmatiche, e relative discipline, che a differenza di quanto accade per quelle considerate nella legislazione nazionale, non devono necessariamente, e talora non possono, essere conosciute dai consociati. Con quale giustificazione costituzionale si potrebbe, infatti, pre- tendere da questi ultimi di determinare il proprio comportamento sulla base di regole non derivanti dall’opera dei propri rappresentanti e, talora, in contrasto con questa? 223
Ciò non toglie che, una volta riaffermato il principio, quando si assista alla riproposizione di posizioni come quella testimoniata dai giudici della suprema corte con la sentenza Xxxx. 27 giugno 1990 n. 6546 224 o dal governo, legislatore supplente, con il D.P.R. 120/1988 225, occorra essere pronti a ricercare, ben aldilà della dottrina degli ultimi centovent’anni e di alcune, pur cruciali, codi- ficazioni nazionali, le radici e, conseguentemente, la spiegazione (che è ben altra cosa rispetto ad una giustificazione o all’approvazione), di simili possibilità ermeneutiche e normative.
223) La domanda è particolarmente suggestiva (forse persino eccessivamente evocativa rispetto al tema in esame), ma dato che scaturisce dalle considerazioni svolte supra, § 1 nt. 3, sulla base delle affermazioni di un ottimo conoscitore della realtà giuridica, della storia e della cultura giuridica statunitensi come P.G. Xxxxxxxx, ci è parsa in- dicata per concludere la nostra indagine. Essa offre una giustificazione alla nostra posizione, che potrebbe apparire conservatrice (se non retrograda), rendendone evidente la connessione con uno dei concetti fondanti proprio la sto- ria giuridica e costituzionale americana: l’inaccettabilità di norme, di rango primario, poste da chi non sia a questo scopo delegato dai consociati, fatte salve limitatissime eccezioni fra le quali (oggi, in Italia) non rientrano le corti e la dottrina.
224) Cfr. supra, § 2.
225) Cfr. supra, § 2.