Avv. Daniela Anselmi)
CONCESSIONE DI SERVIZI NEI SETTORI ORDINARI E NEI SETTORI “ESCLUSI”
(Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx)
1. Nozione e differenze dagli appalti.
Nel nostro ordinamento si suole definire servizio pubblico quello che l’ente locale rende a terzi, nelle forme previste dalla legge, il cui corrispettivo sia in tutto o in parte a carico degli utenti, differenziando così i servizi pubblici dagli appalti pubblici di servizi. Questi ultimi consistono in prestazioni rese da un imprenditore a favore dell’amministrazione, che ne corrisponde il controvalore economico.
Nel diritto comunitario non sussiste una netta distinzione tra appalti pubblici di servizi e servizi pubblici, vi è una triplice configurazione delle modalità attraverso le quali le amministrazioni possono affidare a terzi la gestione di servizi pubblici.
La prima è l ’appalto pubblico di servizio che ricorre quando un’amministrazione pubblica affida ad un soggetto terzo l’espletamento di un servizio obbligandosi al pagamento di un corrispettivo.
La seconda modalità è la concessione di servizi che si verifica quando il corrispettivo per l’affidamento di un servizio pubblico derivi dalla gestione del servizio medesimo. In questa ipotesi, dunque, l’amministrazione può non obbligarsi al pagamento di un corrispettivo, o pagare solo parte della tariffa e il gestore, conseguentemente, trae il proprio profitto in tutto o in parte dall’utenza, accollandosi il rischio di impresa.
Come precisato1, nella logica comunitaria la concessione è differente dall’omonimo istituto del nostro ordinamento, il quale presuppone necessariamente l’assegnazione al concessionario del diritto ad esercitare poteri tipicamente autoritativi e pubblicistici nei confronti dell’utenza.
Al contrario, nell’ordinamento comunitario si ha concessione per il solo fatto che il soggetto ricava dalla gestione del servizio tutta o parte della remunerazione, non rilevando la natura giuridica della propria attività.
Pertanto, sia nel caso dell’appalto pubblico di servizio, sia della concessione di servizi, la normativa europea richiede l’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica.
La terza modalità di assegnazione dei servizi viene definita, in ambito europeo, come delega interorganica o affidamento in house.
La Commissione europea muove dalla distinzione fra appalto pubblico di servizio e concessione di servizi, distinzione esplicitata nella “Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario” (2000/C 121/02), in base alla quale si ha appalto pubblico di servizi quando l’amministrazione affida un servizio dietro pagamento di un corrispettivo. Viceversa, ricorre la figura della concessione di servizi quando, a fronte dell’affidamento di un servizio, il corrispettivo consiste anche o solo nella gestione dello stesso.
Inoltre, nell’ipotesi da ultimo descritta, l’alea della gestione ricade sul concessionario2.
Secondo la Commissione, dall’art. 22 non è dato evincere la natura esatta dell’affidamento, a titolo di appalto oppure di concessione. Nel caso di
1 Così AA.VV., I servizi pubblici locali, II ed., Cosa & Come, 2004, p. 350.
2 Cfr., in proposito, p. 3 e 4 Comunicazione interpretativa e p. 2 Atto di costituzione in mora.
concessione di servizi non trovano applicazione le direttive 92/50 CE e 93/38 CE.
Nondimeno, le concessioni di servizi ricadono nel campo di applicazione delle norme del Trattato in tema di libera circolazione delle merci, libertà di stabilimento e soprattutto di libera prestazione di servizi, nonché dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia3: in particolare di trasparenza (comportante l’obbligo di rendere pubblico l’intenzione di affidare ad un terzo la gestione di un servizio) e di parità di trattamento o di non discriminazione (comportante che la scelta sia assunta in base a criteri obiettivi e nel rispetto delle regole e dei requisiti inizialmente fissati).
Come già accennato, il rispetto delle norme e principi in tema di appalti pubblici di servizi e di concessione di servizi non è richiesto nel caso di affidamento del servizio ad un soggetto che non si configuri “terzo” rispetto all’ente locale ai sensi della pronuncia Teckal, ossia nei casi in cui ricorra l’ipotesi della delega interorganica ovvero dell’affidamento c.d. in house.
L'unica definizione di concessione rinvenibile nel diritto comunitario derivato e' quella contenuta nella direttiva 2004/18/CE che all’art. 1, lett. d) definisce come "un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi […]".
In ambito nazionale la necessità del rispetto delle regole comunitarie in materia di evidenza pubblica e' stata rilevata dal decreto 22 novembre 2001 dal Ministero dell'Ambiente e dalla correlata circolare applicativa 17 ottobre 2001,
n. GAB/2001/11559/B01, riguardanti le modalità di affidamento in concessione
3 Sentenza 18 novembre 1999, causa C-275/98, Unitron Scandinavia.
a terzi della gestione del servizio idrico integrato, a norma ex art. 20, comma 1, legge 5 gennaio 1994, n. 36.
La dottrina tradizionale e la giurisprudenza hanno individuato la distinzione fra l’appalto di servizi e la concessione di servizi pubblici, in base a molteplici criteri fra cui rilevano:
a) la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico, contrapposta al carattere negoziale dell’appalto;
b) il carattere surrogatorio dell’attività del concessionario di pubblico servizio, chiamato a realizzare i compiti istituzionali dell'ente pubblico concedente, mentre l’appaltatore compie attività di mera rilevanza economica nell’interesse del committente pubblico;
c) il trasferimento di potestà pubbliche al concessionario, mentre l’appaltatore esercita solo prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico.
In particolare, per la giurisprudenza del Consiglio di Stato le concessioni di servizi pubblici, nel quadro del diritto comunitario, non si distinguono dagli appalti di servizi per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato.
Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sull’utente mediante la riscossione di un canone o tariffa, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della
concessione dall’appalto di servizi. Pertanto un servizio pubblico si rivela quale appalto di servizi quando il suo onere sia interamente a carico dell’amministrazione, mentre se il servizio venga reso non a favore dell’amministrazione ma di una collettività indifferenziata di utenti e venga almeno in parte pagato dagli utenti all’operatore del servizio, allora si è in ambito concessorio4.
In sintesi, dunque, il raffronto tra l’art. 3 comma 1, d. lgs. n. 157/1995 e l’art. 113 d. lgs. n. 267/2000 evidenzia che nel primo caso si è al cospetto di una prestazione di facere resa nei confronti del soggetto aggiudicatore, nel secondo, invece, si assiste alla soddisfazione dell’interesse della collettività a fruire di prestazioni, remunerata da utenti su base tariffaria5.
Come evidenziato dall’Avvocato Generale6, “nel caso degli appalti il beneficiario del servizio reso è ritenuto essere lo stesso ente appaltante, mentre, nel caso della concessione, il beneficiario del servizio è un terzo estraneo al rapporto contrattuale, di norma la collettività, che riceve la prestazione e che paga, in relazione al servizio ricevuto, un corrispettivo […] Altro elemento che denota la concessione è quello relativo alla remunerazione, la quale è, in tutto o in parte, ricavata dalla stessa prestazione del servizio che il concessionario effettua in favore dei beneficiari”.
Spunti interessanti si traggono dalle conclusioni dell’Avvocato Generale Xxxxxx, il quale ribadisce sia che la direttiva 92/50 si applica solo
4 FLORIS, L’appalto di servizi nella disciplina nazionale e comunitaria, su xxx.xxxxxxx.xxx.
5 CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Xxxxxxx, 2001, p. 605 ha evidenziato che “non è servizio pubblico quello reso all’Amministrazione (si pensi al servizio di pulizia o manutenzione degli immobili) ovvero l’attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti”
6 La Pergola, conclusioni presentate il 19 febbraio 1998 nella causa C-360/96.
agli appalti di servizi, sia che – pur non esistendo una definizione uniforme di concessione nel diritto comunitario – tuttavia i beneficiari delle prestazioni da svolgere devono essere terzi non contraenti, la prestazione deve costituire la realizzazione di un compito di interesse generale e il concessionario deve sopportare il rischio economico nello svolgimento del suo incarico.
Va, infine, segnalata la Comunicazione interpretativa della Commissione CE sulle concessioni nel diritto comunitario 12 aprile 2000.
La Comunicazione, dopo aver rilevato che le concessioni non vengono definite nel Trattato e che nel diritto comunitario derivato si menziona la sola concessione di lavori, dà le seguenti indicazioni:
- l’elemento differenziale tra appalto e concessione di lavori va individuato nella circostanza che nel primo il costo dell’opera grava sull’autorità aggiudicatrice, mentre nella seconda la remunerazione avviene attraverso i proventi riscossi dagli utenti, dunque ciò che rileva è la presenza del rischio di impresa;
- applicando i medesimi principi, si ha concessione di servizi quando l’operatore assume il rischio della relativa gestione rifacendosi sull’utente per mezzo della riscossione di qualsiasi tipo di canone;
- per distinguere concessioni di lavori e di servizi occorre verificare l’oggetto principale del contratto; pertanto un contratto di concessione che contempli lavori solo a titolo accessorio va trattato come concessione di servizi7;
7 Occorre, altresì, tener conto della circostanza per cui possono darsi servizi per attività complementari, ma differenti dalla gestione dell’opera, ad esempio, i servizi di ristoro ben appaiono suscettibili di essere oggetto di una concessione diversa da quella afferente alla gestione dell’autostrada.
- le concessioni di servizi sono al di fuori dell’ambito di applicazione delle direttive appalti, ma alle medesime si applicano gli artt. da 28 a 30 (ex artt. da 30 a 36) e da 42 a 55 (ex artt. da 52 a 60) del Trattato, nonché i principi stabiliti dalle pronunce della Corte di Giustizia e precisamente:
parità di trattamento, per cui il concessionario deve essere individuato in base a criteri obiettivi e all’esito di una procedura predefinita;
trasparenza, proporzionalità, i n f o r z a d e i q u a l i o g niprovvedimento deve essere necessario ed adeguato rispetto all’oggetto della concessione.
E’ altresì intervenuta la circolare del Dipartimento delle Politiche Comunitarie 1 marzo 2002, n. 3944, ove si individua, quale criterio distintivo tra concessioni di pubblico servizio ed appalto di servizi, quello relativo all’oggetto, nel senso che “l’appalto di servizi concerne prestazioni rese in favore dell’amministrazione, mentre la concessione di servizi riguarda sempre un articolato rapporto trilaterale, che interessa il concessionario, l’amministrazione e gli utenti”.
Dopo aver evidenziato il panorama legislativo comunitario e nazionale, è a questo punto opportuno esaminare la posizione della giurisprudenza italiana.
Recentemente diverse sentenze del Consiglio di Stato sono intervenute precisando i criteri distintivi delle due figure.
Più nello specifico “Non costituisce servizio pubblico, inteso come produzione di beni o attività rivolti ai fini sociali e di promozione economica, il
servizio che non viene svolto dal Comune a favore della collettività, ma viene erogato in senso inverso, cioè a favore del Comune; tale erogazione è qualificabile quale pura e semplice prestazione economica sia pure svolta nei confronti di un soggetto pubblico. Un tale servizio non può annoverarsi nella nozione di pubblico servizio, non solo per le suddette modalità di erogazione, ma soprattutto perché mancano quelle connotazioni sociali insite nella nozione in questione”8.
Nello stesso senso: “In caso di concessione di pubblici servizi, l’Ente non gestisce direttamente tramite contratti di appalto le diverse operazioni, ma si spoglia della gestione commettendola ad altro soggetto”9.
Non solo.
“Le concessioni di servizi pubblici, nel quadro del diritto comunitario, non si distinguono dagli appalti di servizi per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato. Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sull’utente mediante la riscossione di un canone o tariffa, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi. Pertanto un servizio pubblico si rivela quale appalto di servizi quando il suo onere sia interamente a carico dell’amministrazione, mentre se il servizio venga
8 Consiglio di Stato, sez. V, 10 marzo 2003, n. 1289.
9 Consiglio di Stato, sez. V, 7 febbraio 2003, n. 645.
reso non a favore dell’amministrazione ma di una collettività indifferenziata di utenti, e venga almeno in parte pagato dagli utenti all’operatore del servizio, allora si è in ambito concessorio.
Sono applicabili alle concessioni di servizi i principi comunitari di non discriminazione in ragione della nazionalità, di parità di trattamento, di trasparenza, di mutuo riconoscimento, di proporzionalità”10.
“Riguardo la delimitazione della figura dell’appalto di servizi, in rapporto alla contigua nozione della concessione - od affidamento - di servizi pubblici, il concetto di servizio pubblico locale non preesiste alla decisione di assunzione dell’ente locale, ma viene definito dalla P.A. territoriale, nel quadro della propria autonomia, in relazione agli obiettivi volti allo sviluppo sociale ed economico della collettività; per contro gli appalti pubblici di servizi sono definiti dalla normativa come contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice, rinviando ad un'elencazione degli appalti di servizi di carattere enumerativo. La dottrina tradizionale ha individuato la distinzione fra l’appalto di servizi e la concessione di servizi pubblici, in base a molteplici criteri fra cui: la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico, contrapposta al carattere negoziale dell’appalto; il carattere surrogatorio dell’attività del concessionario di pubblico servizio, chiamato a realizzare i compiti istituzionali dell'ente pubblico concedente, mentre l’appaltatore compie attività di mera rilevanza economica nell’interesse del committente pubblico; il trasferimento di potestà pubbliche al concessionario, mentre l’appaltatore esercita solo prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico. La dottrina
10 Consiglio di Stato, sez. 6a, n. 2634 del 15 maggio 2002.
più recente ha posto l’accento sulla diversità dell’oggetto dei due contrapposti istituti: l’appalto di servizi concerne prestazioni rese in favore della P.A., mentre la concessione di servizi riguarda sempre un rapporto trilaterale, fra P.A., il concessionario e gli utenti del servizio; nella concessione di pubblici servizi il costo del servizio grava sugli utenti, mentre nell’appalto di servizi spetta alla P.A. compensare l’attività svolta dal privato”11.
In tal caso, pertanto, non si ha l’affidamento di un servizio pubblico, ma di un appalto, con conseguente obbligo di affidamento tramite procedura concorsuale. Infatti, la possibilità, derogatoria, prevista dall’ordinamento di prescindere dal previo esperimento di procedure selettive deve trovare giustificazione non nella semplice riconducibilità del servizio ad un ente pubblico, ma nella sua realizzazione di prevalenti fini sociali e di promovimento dello sviluppo economico e civile delle relative comunità, realizzazione che certo non può essere riferita ad una mera prestazione economica svolta a favore di un Comune.
11 Consiglio di Stato, sez. V, 30 aprile 2002, n. 2294.
2. Ambito di applicazione e normativa di riferimento: dalla L. 142/90 alla Legge Comunitaria
La prima previsione normativa riguardante la gestione diretta dei servizi ad opera dell’ente locale risale alla L. 29/03/1903, n.103 modificata dal X.X. 00/00/0000, n.3047.
La materia de quo trovò successivamente una più dettagliata disciplina con il T.U. 2578/1925.
L’ente locale, secondo la normativa predetta, aveva un’ampia discrezionalità nell’individuazione degli strumenti per realizzare questa gestione diretta, potendo scegliere tra:
1. l’azienda speciale, nella sua triplice veste di azienda semplice per la gestione di un solo servizio, azienda cumulativa per la gestione di più servizi, azienda consortile per la gestione di uno o più servizi da parte di più enti;
2. la gestione diretta in economia;
3. la concessione a terzi.
A tali forme di gestione previste espressamente dal T.U. del 1925, se ne aggiungevano nella prassi delle altre; ci si riferisce, in particolare, al consorzio e all’azionariato pubblico, che trovarono, tra l’altro, anche un avallo da parte della giurisprudenza.
Con D.P.R. 4/10/1986 n.902 fu poi approvato un regolamento che prevedeva la disciplina attuativa della nuova legge sui servizi pubblici. Poiché, a tutt’oggi, tale legge non è stata ancora approvata, il regolamento va riferito al citato T.U. del 1925.
In seguito è intervenuta la L. 142/1990, la quale, agli artt. 22 e 23 [ artt. abr.; cfr. artt. 113 e 114 T.U.e.l.] ha introdotto nuovi principi in tema di servizi pubblici.
L'art. 22 prevedeva la nozione di servizio pubblico connotandone i caratteri fondamentali, indicando i presupposti e le situazioni che giustificano l'assunzione di un pubblico servizio.
Tale norma disponeva: "I comuni e le province, nell'ambito delle rispettive competenze provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano ad oggetto la produzione di beni ed attività, rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità"12.
La legge sull'Ordinamento delle autonomie locali, dunque, ha fornito un concetto di ampio respiro; il servizio pubblico veniva individuato in ogni attività volta al soddisfacimento di esigenze fondamentali della collettività, sia sociali, sia economiche, per il soddisfacimento delle stesse l'amministrazione si proponeva di avvalersi dei modelli gestionali normativamente previsti.
La dottrina13 evidenzia come un contributo normativo all'individuazione di tale nozione sia scaturito dalla direttiva della Presidenza del Consiglio del 27/01/199414: sono considerati servizi pubblici, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione, quelli tesi a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla salute, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione e alla libertà di comunicazione, alla libertà e alla sicurezza della persona, alla libertà di circolazione, ai sensi dell'art. 1
12 L'art. 113 T.U.e.l., in sostanza, ribadisce il disposto del previgente art. 22 legge 142/1990.
13 Cfr. XXXXXXXXXXX, L'organizzazione dei pubblici servizi a mezzo delle società miste nell'esperienza delle amministrazioni degli enti locali: problemi di concorrenza e profili istituzionali, in Riv. trim. degli appalti, 1991, 1, p. 7 ss..
14 La dir. P.C.M. 27/01/1994 è stata emanata in attuazione dell'art. 5, c. 2, lett. b), e), ed f) della legge 23/08/1988, n. 400, a sua volta realizzata in conformità all'art. 95, c. 1, della Costituzione.
della legge 12 giugno 1190, n. 146, e quelli di erogazione di energia elettrica, acqua e gas.
Quanto alle finalità, la L.142/1990 aveva rilevato la necessità che l’erogazione dei servizi rispondesse a criteri generali quali:
l’efficacia, ovvero la capacità di una gestione di conseguire il raggiungimento degli obiettivi prefissati;
l’efficienza, ovvero la capacità di una gestione di conseguire gli stessi obiettivi ai minimi costi;
la distinzione fra il momento delle scelte politiche (di competenza degli organi di governo) e quello delle effettive scelte gestionali (di competenza dei dirigenti e dei responsabili dei servizi).
Successivamente15, la legge 11/07/1995, n. 273, all'art. 2, c. 1, ha individuato i seguenti servizi pubblici: sanità, assistenza, istruzione, comunicazione e trasporti, energia elettrica, acqua e gas.
Il D.lgs. 267/2000 disciplina al Titolo V i servizi e gli interventi pubblici locali, estendendo le relative disposizioni a tutti gli enti locali e superando così il dettato della L.142/1990 limitato solo ai Comuni e alle Province.
L’art.112 del T.U., inoltre, applica alla materia in esame il capo III del D.lgs. 286/1999, relativo alla qualità dei servizi pubblici locali e carte dei servizi.
Infine, con la L.448/2001 (finanziaria 2002) il settore dei servizi pubblici viene organicamente ridisciplinato alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale in materia e delle novità tecnologiche intervenute.
15 Per brevità ci limitiamo a citare alcuni provvedimenti legislativi che sono intervenuti a chiarire l'ampiezza del concetto di servizio pubblico: d.P.R. 533/1996; art. 17, c. 59, legge 127/1997.
In particolare, gli aspetti salienti della riforma condensati in un unico articolo della legge (art.35 poi modificato dalla L.326/2003) possono così enuclearsi:
introduzione del criterio della rilevanza economica quale elemento di discrimine fra i diversi servizi pubblici locali;
scissione del legame diretto fra imprese e amministrazioni locali attraverso la trasformazione degli attuali gestori a struttura non societaria in società di capitali, cui delegare la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale;
garanzia di standard uniformi e costi trasparenti attraverso l’istituzione di una competente autorità di settore;
la scelta delle società di capitali cui conferire la titolarità del servizio con procedure di gara ad evidenza pubblica;
la regolazione a mezzo di contratti di servizio dei rapporti fra enti locali e società di erogazione del servizio e società di gestione delle reti e degli impianti;
il divieto per gli enti locali di cedere la proprietà delle reti e dei relativi impianti fissi se non alle società di capitali di cui i medesimi enti locali detengono la maggioranza, che è incedibile.
Fra le altre modificazioni apportate al D.lgs.267/2000, rileva l’espressa abrogazione del coma 2 dell’art.112 (di recepimento dell’art.22, L.142/1990) che rimetteva alla legge la definizione dei servizi riservati in via esclusiva a Comuni e Province.
Infine, è intervenuto il D.L. 269/2003, convertito nella L.326/2003, il cui art.14 ha riscritto ancora una volta l’art.113 (e l’art.113 bis) del D.lgs. 267/2000,
sostituendo alla distinzione tra servizi di rilevanza industriale e servizi di rilevanza non industriale, quella tra servizi di rilevanza economica16 e confermando la regola generale dell’obbligo di indire procedure ad evidenza pubblica per la selezione del soggetto cui affidare il servizio, con la sola eccezione di due ipotesi contemplate dalle lett. b) e c) del dettato normativo.
La prima si riferisce alle società a capitale misto (pubblico – privato), nelle quali il socio privato sia scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, il che garantisce comunque, in via indiretta, il meccanismo del gioco concorrenziale, in un mercato, dunque, aperto all’ingresso di soggetti privati.
La seconda riguarda il caso dell’affidamento c.d. in house, ossia l’assegnazione diretta alla società a capitale pubblico totalitario sulle quali l’ente eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, a condizione che tali società realizzino la parte più importante della propria attività con l’ente controllante17.
Da ultimo, occorre citare la L.62/2005 (Legge comunitaria 2004), la quale ha abrogato a far data dalla sua entrata in vigore (12 maggio 2005)l’art.6, comma 2, della L.537/1993, come sostituito dall’art.44 L.724/1994: da tale data non è quindi più possibile procedere al rinnovo dei contratti per la fornitura di beni e servizi richiamando esclusivamente la predetta norma e, dunque, solo sulla base della convenienza (economica) e del pubblico interesse (opportunità). Va tuttavia osservato come la stessa Legge comunitaria 2004 non abbia vietato
16 L’art.35 della Legge finanziaria per il 2002 aveva sostituito la formula “servizio pubblico di rilevanza imprenditoriale” con quella, indubbiamente più restrittiva, di “servizio pubblico di rilevanza industriale”. L’art.14 del D.L. 269/2003 compie una decisiva inversione di rotta, adottando una formula più ampia possibile, concernente tutti i servizi di “rilevanza economica”.
17 Cfr. X. Xxxxx, La tormentata disciplina dei servizi pubblici locali, in Urbanistica e appalti 2/2005
in modo espresso, in qualsiasi forma, la possibilità di rinnovo o prosecuzione dei rapporti contrattuali della P.A., limitandosi invece ad espungere dall’ordinamento una disposizione non conforme ai superiori principi comunitari ed applicata con estrema disinvoltura dalle pubbliche amministrazioni a detrimento dei principi di concorrenza e trasparenza, così come posto in rilievo dalla stessa Commissione europea.
Può ritenersi che queste prassi delle pubbliche amministrazioni abbiano costituito il motivo principale che ha condotto la Commissione europea ad avviare a suo tempo la procedura di infrazione e, di seguito, la L.62/2005 ad abrogare una disposizione che poteva peraltro già essere disapplicata in relazione al contrasto con la superiore disciplina comunitaria. Tutte le direttive sugli appalti, oltre a non prevedere in nessuna ipotesi di affidamento a trattativa privata la fattispecie del riaffidamento del servizio sulla base della sola convenienza economica e del pubblico interesse, stabiliscono, alla fine della elencazione dei casi in cui è ammessa la procedura negoziata, che “in tutti gli altri casi si osservano le procedure aperte o ristrette”. Con la conseguenza che il rinnovo ex art.6 L.537/1993 non poteva trovare pacifica applicazione per gli appalti di rilievo comunitario anche prima della legge 62.
Il rinnovo rimane peraltro istituto tuttora previsto e ammesso dalla disciplina comunitaria, ma la cui applicabilità richiede ben altri presupposti rispetto alla sola convenienza economica e al pubblico interesse.
Si legga l’art.9, comma 1, della nuova direttiva comunitaria unificata 2004/18/Ce laddove, con riguardo ai “Metodi di calcolo del valore stimato degli appalti pubblici, degli accordi quadro e dei sistemi dinamici di acquisizione” si stabilisce che “il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico è basato
sull’importo totale pagabile al netto dell’IVA, valutato dall’amministrazione aggiudicatrice. Questo calcolo tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni e di rinnovi eventuali del contratto”.
Dunque il rinnovo – proroga che risulti “programmato” come facoltà eventuale negli atti di gara e computato nel valore complessivo dell’appalto, è tuttora ammesso dall’ordinamento comunitario. In questo caso, infatti, la concorrenza è informata sin dall’inizio dello sviluppo potenziale ulteriore del rapporto contrattuale. Il Consiglio di Stato ha attentamente osservato come in tal caso non vi sia incisione dei principi di trasparenza e di concorrenza “in quanto a tutti i partecipanti alla gara è reso noto che un determinato contratto è esposto ad un prolungamento della sua durata e, quindi, tutti possono tenerne conto ai fini della partecipazione alla gara e della formulazione delle proprie offerte”18.
In tal senso attenta dottrina19 ha affermato la piena legittimità del rinnovo – proroga quale “tecnica di determinazione della durata del contratto” mediante la previsione, accanto alla durata certa, della facoltà di ulteriore prosecuzione del rapporto contrattuale, beninteso nel limite novennale di durata dei contratti che comportano una spesa ordinaria ai sensi dell’art.12, comma 2, R.D. 2440/1923. Come già riferito, tale facoltà di rinnovo – proroga è subordinata alla duplice condizione per cui: 1) essa deve essere prevista nel bando di gara e nel contratto;
2) il valore complessivo dell’appalto deve tenere necessariamente conto dell’importo riferito al periodo di rinnovo – proroga20.
18 Cfr. Consiglio di Stato, sez.V, 11/5/2004 n.2961
19 Cfr. X. Xxxxxxxxx, Ambiti di ammissibilità del rinnovo dei contratti, in xxx.xxxxxxxx.xx n.4/2004 20 Cfr. X. Xxxxxxx, Il rinnovo e la prosecuzione dei rapporti contrattuali della P.A. conformi al diritto comunitario, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx 09/05/2005
3. Analisi ed esame della proposta di Direttiva Comunitaria in materia
La proposta di direttiva del parlamento europeo e del Consiglio in tema di “Servizi nel mercato interno”21 ha per obiettivo l’individuazione di un quadro giuridico europeo che possa favorire la realizzazione del mercato interno dei servizi nell’Unione europea, con l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri ed alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi. Tale obiettivo, ad oltre dieci anni (1992) che avrebbe dovuto sancire il completamento del mercato interno, è ancora lontano dall’essere raggiunto.
Il numero e la varietà dei procedimenti innanzi alla Corte di Giustizia e le dettagliate analisi della Commissione sulle frontiere esistenti22 segnalano le dimensioni del problema e l’urgente necessità di porvi rimedio.
Dal punto di vista economico, i vantaggi dell’apertura del mercato dei servizi sono evidenti ed ancora più evidente è l’effetto in termini di crescita della produttività e di contributo al commercio estero. La Commissione europea, in una comunicazione sulla produttività del maggio 200223, nota che “alcuni elementi lasciano supporre che gli Stati membri in cui si è tempestivamente provveduto a liberalizzare il terziario abbiano realizzato una crescita della produttività più veloce degli altri. Nel periodo 1995-1999, per esempio,
21 COM (2004) 2 del 13 gennaio 2004
22 “Lo stato del mercato interno dei servizi”, COM (2002)441 del 30 luglio 2002
23 “Produttività: la chiave per la competititvità delle economie e delle imprese europee”, COM(2002)262 del 21 maggio 2002
Finlandia e Regno Unito hanno registrato per l’insieme dei servizi alle imprese una crescita della produttività della manodopera superiore a quella degli altri Stati membri per i quali sono disponibili dati a confronto”. A supporto di tale ipotesi, studi Ocse suggeriscono che esiste una relazione tra la rigidità del quadro regolamentare ed il tasso di crescita della produttività.
Numerose ricerche internazionali concludono che in Italia esiste una regolamentazione particolarmente restrittiva in numerosi comparti del settore dei servizi. Di conseguenza, tra i paesi dell’Unione europea, in Italia più che altrove è necessario ed urgente promuovere processi di apertura effettiva alla concorrenza nel settore dei servizi, così da contribuire in modo significativo all’aumento di produttività e alla crescita economica e sociale del paese nel suo complesso.
La proposta in esame si configura come un intervento normativo quadro di natura strategica, stabilendo condizioni generali e principi per favorire lo sviluppo competitivo del settore. In particolare, l’affermazione del principio di libera circolazione dei servizi nel mercato interno all’UE contenuto nella proposta è in perfetta sintonia con la necessità di creare condizioni favorevoli alla crescita dei servizi nell’impresa.
L’intervento comunitario in materia di servizi, con una direttiva avente tenore generale, dunque, è rilevante non solo per la disciplina comunitaria, ma anche per il diritto interno, perché assume il significato di ordinamento di settore al quale si riconducono tutti i servizi. La valenza dell’intervento è pertanto duplice: la normativa in gestazione riguarda i servizi transfrontalieri, ma ricade anche sui servizi interni.
Innanzitutto, si è in presenza di una direttiva “quadro” che, per esplicito assunto del legislatore, non intende fissare norme dettagliate e neppure armonizzare compiutamente il complesso delle norme degli Stati membri applicabili alle attività di servizi. Piuttosto, la direttiva proposta intende affrontare le questioni fondamentali dalla cui soluzione dipende il regolare funzionamento del mercato interno dei servizi24.
Ma analizziamo ora la proposta di direttiva più nello specifico.
Campo di applicazione (art.2)
Il settore dei servizi risulta nella realta estremamente vasto e multiforme e così viene riconosciuto dal Trattato e dalla giurisprudenza. Il testo in esame non intende affatto modificare la giurisprudenza della Corte e, in particolare, per quanto concerne la nozione stessa di servizio o la distinzione tra servizi economici e non. In proposito, la proposta di direttiva dà una definizione di servizio: è tale “qualsiasi attività economica non salariata di cui all’art.50 del trattato che consiste nel fornire una prestazione dietro un corrispettivo economico”.
Libertà di stabilimento dei prestatori: semplificazione amministrativa, autorizzazioni, requisiti (artt.5-15)
In materia di semplificazione amministrativa (artt.5-8), vengono previsti la semplificazione delle procedure e delle formalità, l’istituzione di uno sportello unico per i servizi (presso il quale svolgere tutte le procedure necessarie e presentare le domande di autorizzazione), il diritto all’informazione dei prestatori e le procedure per via elettronica. Tutte queste riforme potranno forse richiedere più tempo di quanto prevede il testo e potranno essere esaminate
24 Cfr. X. Xxxx, Note sulla proposta di direttiva sui servizi nel mercato interno, in Economia e diritto nel terziario 3/2004
diverse modalità di attuazione, infatti, come detto in precedenza, si tratta di una proposta per direttiva quadro, che andrà recepita e adattata alle specifiche esigenze nazionali e locali, e non di un regolamento dettagliato.
In materia di regimi di autorizzazione (artt.9-13), la Commissione intende per lo più portare avanti principi che si potrebbero definire di buon senso: non discriminazione, necessità, proporzionalità, giustificazioni obiettive, chiarezza e precisione, imparzialità e trasparenza, motivazione delle decisioni, tempi di risposta ragionevoli e il principio del silenzio assenso, tranne quando obiettivamente giustificato.
La proposta elenca requisiti vietati (art.14, requisiti che risultano incompatibili con il mercato interno) oppure da valutare (art.15). Nel caso dei requisiti da valutare – che comprendono le restrizioni quantitative o territoriali, l’imposizione di uno statuto giuridico al prestatore, le tariffe obbligatorie minime, ecc. – si prevedono uno “screening” della legislazione, una valutazione circa il rispetto dei criteri di non discriminazione, necessità e proporzionalità, l’eventuale adeguamento delle norme e la presentazione di una relazione alla Commissione. Tale metodologia, che rispetta pienamente la sussidiarietà e favorisce gli scambi di esperienze, può rivelarsi efficace, permettendo di rivedere la normativa in senso meno restrittivo.
Principio del paese d’origine e deroghe (artt.16-19)
Il principio del paese d’origine suscita molte e legittime preoccupazioni. Nella dialettica di chi contesta questa proposta, esso sarebbe associato ad una generale ed incontrollata liberalizzazione e deregolamentazione. Inoltre, il principio ostacolerebbe la tutela dell’ordine, della sicurezza e della sanità pubblica.
Alcuni sottolineano come, in realtà, non vi sia nulla di nuovo nel principio del paese d’origine: esso corrisponde al mutuo riconoscimento nel campo delle merci ed ha permesso di risolvere numerose situazioni per le quali gli Stati membri non riuscivano a concordare una piena armonizzazione delle norme, facendo progredire il mercato interno.
È possibile affermare che il principio del paese d’origine sposta l’onere della prova dagli operatori – che troppo spesso devono sperare in una benemerenza dell’amministrazione per accedere ad un mercato – alle amministrazioni, che dovranno giustificare in modo più specifico e più obiettivo i vincoli che pongono allo sviluppo delle attività produttive25. Il suddetto principio è quindi essenziale al conseguimento degli obiettivi della direttiva e segnatamente della libera circolazione dei servizi.
Non ci sono rischi di deregolamentazione generalizzata e pericolosa per l’interesse generale poiché al principio del paese d’origine (art.16) vengono associati nei tre articoli successivi ben 29 deroghe, 23 delle quali di carattere generale. Di conseguenza, le Autorità conserveranno un ampio margine di manovra per vincolare la libera circolazione dei servizi quando sia necessario e giustificato, ma soltanto in questo caso.
Queste deroghe escludono dal campo di applicazione del principio del paese d’origine numerosi ed importanti settori e ambiti regolamentari quali i servizi postali, la distribuzione di energia elettrica, i servizi di distribuzione di gas e acqua, il distacco dei lavoratori, le disposizioni UE in materia di regimi di sicurezza sociale, il riconoscimento delle qualifiche professionali, i requisiti
25 La citata relazione della Commissione sullo stato del mercato interno dei servizi ricorda che “secondo la giurisprudenza della Corte, spetta invece all’autorità nazionale giustificare il ricorso alle eccezioni (ai principi della libera circolazione), eccezioni che, in ogni caso, non possono essere applicate in modo generale e sistematico”
specifici legati alle caratteristiche locali relative ad ordine pubblico, sicurezza pubblica, protezione della salute pubblica o ambiente e i contratti conclusi dai consumatori se la materia del contratto non è stata completamente armonizzata a livello comunitario. In tutte queste materie, ad esempio, non si applicherà il principio del paese d’origine ma quello del paese nel quale si sposta il prestatore. Inoltre, viene affermata la libertà degli interessati di scegliere il diritto applicabile al loro contratto.
Il rischio implicito in questa lunga lista sta nella possibilità di introdurre nuovi ostacoli, tenuto conto della creatività legislativa e regolamentare di cui possono dar prova gli Stati membri in queste materie. La Commissione europea ha già tenuto conto di molte esigenze e richieste. Ogni nuova richiesta di deroga andrà giustificata in modo dettagliato ed essere il più possibile mirata al problema che si vuole affrontare e non introdurre categorie troppo generali di esclusione poiché le eccezioni, come si è visto, sono già assai numerose.
Diritti dei destinatari dei servizi (artt.20-23)
Questa sezione della direttiva impone agli Stati membri una serie di obblighi volti a rimuovere alcuni ostacoli alla fruizione dei servizi da parte dei destinatari, in base al principio della non discriminazione (che dovrebbe rispettare anche il prestatore), e a fare in modo che i destinatari possano ottenere alcune informazioni (norme sulla tutela dei consumatori, sui mezzi di ricorso).
Inoltre, l’art.23 prevede specifiche norme in materia di assunzione degli oneri finanziari delle cure sanitarie (non ospedaliere) fornite in un altro Stato membro.
Sarà importante preservare, come sembra fare la proposta, l’autonomia dei prestatori nell’identificazione delle modalità di servizio che sono disposti a
fornire ai clienti e nel diritto di differenziare in funzione delle specifiche strategie commerciali.
Distacco dei lavoratori (artt.24-25)
Al di là delle indicazioni contenute nell’art.17 (sulle deroghe generali al principio del paese d’origine), si ritiene che non vi sia la necessità di individuare, con l’art.24, ulteriori norme in materia di distacco dei lavoratori (già disciplinato dalla Direttiva del 16 dicembre 1996, n.71). sotto tale profilo, infatti, la proposta di direttiva in esame appare come una proposta integrativa delle misure già adottate dalla Direttiva 96/71/CE le quali, invece, sono da considerarsi esaustive sotto ogni profilo.
In particolare, per quanto concerne l’art.24, comma 1, si esprime contrarietà al divieto contenuto nella lett.a) in quanto contrasta con la disciplina italiana di recepimento della Direttiva 96/71/CE26, la quale prevede, in presenza di talune circostanze, che le agenzie di lavoro interinale (stabilite in un altro Stato UE e che forniscono il proprio servizio in Italia) siano previamente autorizzate dalle proprie autorità.
L’art.24, comma 2, poi, non sembra offrire le necessarie garanzie di affidabilità che dovrebbe dare. La prevista raccolta di informazioni viene infatti rimessa alla responsabilità dello Stato d’origine, ma di fatto essa è accollata al prestatore di servizi, senza peraltro alcuna garanzia circa il buon esito di tale meccanismo di controllo. In particolare, si fanno presenti non solo le difficoltà di comunicazione poste dalle differenze linguistiche ma anche la carente conoscenza da parte dello Stato d’origine della normativa applicabile nello Stato di distacco.
26 V. art.4, comma 2, D.lgs.72/2000
Un profilo di non poca importanza è anche quello definitorio. Gli artt.24 e 25 della proposta di direttiva si occupano del “distacco dei lavoratori” senza tuttavia che l’art.4 della stessa, dedicato alle definizioni, contenga sufficienti indicazioni in materia. Ciò può ingenerare dubbi quanto all’ambito di applicazione della parte della direttiva dedicata appunto al distacco dei lavoratori, il quale, si ritiene, non può che coincidere con il campo di applicazione definito dalla Direttiva 96/71/CE.
Relativamente all’art.27, la norma impone un obbligo aggiuntivo per le imprese italiane di servizi, già tenute, in base ai vigenti obblighi di legge, ad assicurare i lavoratori presso un ente pubblico per gli infortuni che si possono verificare nell’esercizio della propria attività professionale. Tale disposizione implica, tra l’altro, che il prestatore debba essere adeguatamente assicurato per il servizio che fornisce anche in uno o più stati membri diversi da quello d’origine27.
Qualità dei servizi (artt.26-33)
Le disposizioni in materia di qualità sembrano, in linea di principio, condivisibili, ma va evitato un aumento degli oneri a carico delle imprese. Dovrebbero quindi essere approfonditi gli aspetti relativi agli artt.26 (informazioni sui prestatori e i loro servizi), 27 (assicurazioni e garanzie in caso di responsabilità professionali), 28 (garanzia post vendita) e 32 (risoluzione delle controversie).
Con estremo favore si possono accogliere i provvedimenti degli artt.29-30 in materia di comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate (i divieti totali, evidentemente sproporzionati, vengono soppressi nel rispetto di
27 Cfr. 63° considerando
principi quali l’indipendenza, dignità e il segreto professionale) e di attività pluridisciplinari (che vengono autorizzate, tranne in alcuni casi). Per quest’ultima disposizione (art.30, lett.a), tuttavia, là dove si deroga al principio di libero esercizio di più attività in modo congiunto o in associazione, si esprimono riserve, in quanto verrebbe a permanere di fatto l’impossibilità di esercitare, in modo congiunto o in associazione, diverse attività regolamentate: sarebbe opportuno invece far sì che tale limite venisse circoscritto non a tutte le attività regolamentate, ma solo agli atti professionali sottoposti a “riserva” per i quali tale limite sia giustificato in virtù di un’oggettiva esigenza di tutela dell’interesse generale.
Per quanto riguarda la politica della qualità dei servizi (art.30), non si può che appoggiare un approccio volto alla definizione di norme volontarie e al coinvolgimento diretto di ordini professionali e imprese, ma si dovrà tuttavia fare attenzione, in fase di attuazione, a non introdurre definizioni troppo rigide.
Controllo (artt.34-38)
Questo insieme di provvedimenti fissa una serie di obblighi per gli Stati membri, in termini di controllo dei prestatori e di assistenza reciproca, compreso nel caso dello spostamento del prestatore in un altro Stato membro. Tali misure sono necessarie per rafforzare la fiducia fra Stati membri, giustamente identificata dalla Commissione come una delle cause principali del moltiplicarsi di frontiere giuridiche e amministrative e di forti pregiudizi.
I contenuti della proposta di direttiva appaiono, ad una prima lettura, sostanzialmente condivisibili, in quanto, attraverso la semplificazione delle procedure amministrative, l’istituzione di punti unici di contatto per favorire lo
stabilimento del prestatore di servizi in un altro Stato membro, l’introduzione d e l p r i n c i p i o d e l p a e s e d ’ o r i g i n e , i n t e n d o n o p r o m u o v e r e l’internazionalizzazione e la creazione di un libero mercato dei servizi. Inoltre, la proposta di direttiva, non entrando nel merito delle singole e diverse regolamentazioni nazionali, lascia ai singoli paesi la libertà di trovare le vie più consone a rendere ciascun sistema compatibile con i principi essenziali di libertà di stabilimento e libera circolazione dei servizi.
La proposta, inoltre, contiene elementi di innovazione, laddove “impone” agli Stati membri l’eliminazione delle c.d. “prescrizioni non ammesse”; disposizioni queste suscettibili di avere un impatto positivo sugli assetti giuridici interni degli Stati, dovendo questi effettuare una sorta di screening nella rispettiva legislazione per valutare la presenza di eventuali “prescrizioni da valutare” ed eliminando conseguentemente quelle che non siano giustificabili secondo i criteri della non discriminazione, proporzionalità ed oggettività.
4. Criteri di affidamento nell’attuale assetto normativo: l’affidamento diretto a società miste e/o totalmente pubbliche
Attualmente i servizi pubblici e le forme di gestione degli stessi sono disciplinati dall'art. 113 T.U.e.l. (tale art., come detto in precedenza, è stato interamente sostituito dall'art. 35 legge 448/2001), il quale dispone che i servizi
pubblici locali privi di rilevanza industriale possano essere gestiti con le seguenti modalità:
in economia da parte del Comune, quando per la modesta entità delle prestazioni e per le caratteristiche del servizio, non sia opportuno costituire un'azienda o un'istituzione;
in concessione a terzi, traslativa della sola gestione del servizio sotto il controllo e la vigilanza dell'ente concedente, restando impregiudicata la titolarità in capo all'amministrazione concedente;
a mezzo di azienda speciale (la quale, diversamente dalle vecchie aziende municipalizzate, è munita di personalità giuridica), istituzione (mera articolazione organizzativa del Comune, è chiamata a gestire servizi non imprenditoriali, ma di natura sociale; pur essendo dotata di autonomia gestionale è priva di personalità giuridica e di potere regolamentare), società per azioni, o società a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale;
a mezzo di società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria, in virtù dell'art. 116 del presente d. lgs;
a mezzo di convenzioni: l'art. 30 del d. lgs. 267/2000 le prevede come accordi organizzativi, cui accedono gli enti locali, al fine di far fronte ad esigenze di collaborazione, grazie al coordinamento gestionale nell'esercizio di funzioni, servizi ed attività, senza che sia necessario realizzare una nuova e stabile struttura organizzativa dotata di personalità giuridica. Il legislatore disciplina, oltre alle convenzioni facoltative, quelle obbligatorie: queste ultime vengono istituite quando lo Stato o la Regione, nelle materie di rispettiva competenza, individuano con legge i casi in cui
occorre procedere a tale forma organizzativa per la gestione a tempo determinato di uno specifico servizio, oltre che per la realizzazione di un'opera;
a mezzo di consorzi: l'art. 31 del d.lgs. 267/2000 li inquadra come strutture associative, dotate di personalità giuridica, costituite dagli enti locali per la gestione associata di uno o più servizi. Sul punto è interessante la pronuncia del TAR Toscana28, la quale dichiara che "il consorzio rappresenta uno dei possibili strumenti a gestione associata di uno o più servizi pubblici, indipendentemente dalla natura degli stessi, in quanto la forma consortile è la sola che consente lo svolgimento del servizio per il tramite di un soggetto giuridicamente distinto dai consorziati". Basandoci sull'art. 273, comma 4, del T.U. in analisi, possiamo affermare che quella in esame è una modalità gestionale in via di superamento in quanto il legislatore nazionale introduce l'obbligo di procedere alla revisione, o alla soppressione, dei consorzi esistenti.
A più di dieci anni dalla riforma dei servizi pubblici locali, operata dalla legge sull'Ordinamento delle autonomie locali, il legislatore è intervenuto, al fine di attribuire una configurazione originale ai servizi pubblici, con l'art. 35 della L.448/2001 (Legge finanziaria 2002). La scelta di utilizzare la legge per la formazione del bilancio annuale e pluriennale per dettare le nuove regole in materia si basa su due differenti motivazioni:
28 Cfr. TAR Toscana - sez. I - n. 105 del 03/03/1999, in Xxxxx.xx.
l'inserimento all'interno della c.d. legge finanziaria fornisce maggiori garanzie in quanto tale provvedimento legislativo, volto al perseguimento di finalità di ordine generale, viene approvato in tempi rapidi;
proprio l'inclusione dei servizi pubblici locali nella legge finanziaria sembra tradire l'intenzione del legislatore di non voler dar luogo ad una nuova riforma, ma ad un assetto provvisorio, destinato ad essere modificato entro breve tempo.
L'art. 35, riformulando l'art. 113 e introducendo l'art. 113 bis nel T.U.e.l., opera una distinzione tra servizi pubblici locali di rilevanza industriale e servizi pubblici privi di rilevanza industriale.
Sotto la vigenza della legge 142/1990 la scriminante per la scelta della forma di gestione era il carattere imprenditoriale del servizio, dunque, se il gestore svolgeva attività industriale o commerciale; ora la linea di demarcazione è tracciata dalla "rilevanza industriale" del servizio reso.
Sul punto va osservato che i servizi pubblici a rilevanza industriale devono avere, come in passato, il carattere dell'imprenditorialità, ma, secondo quanto dispone l'art. 35, non tutti i servizi a rilevanza imprenditoriale sono industriali.
La dottrina29 evidenzia che "non hanno rilevanza industriale i servizi pubblici commerciali che sicuramente hanno rilievo imprenditoriale. I servizi pubblici a rilevanza industriale, svolti in forma di impresa, dovrebbero essere circoscritti, se si utilizza la terminologia dell'art. 2195 c.c., alla sola produzione di beni e servizi".
29 AA.VV., I servizi pubblici locali, op. cit., p. 84.
Per produzione di beni s'intende la realizzazione, al fine dell'uso, di beni tramite operazioni di separazione, estrazione, trasformazione. La produzione, si noti, è nettamente differente dall'alienazione dei beni prodotti.
L'articolo che stiamo esaminando prevede che:
nel caso di servizi a rilevanza industriale la gestione del servizio sia affidata a sole società di capitale individuate attraverso apposite gare. L'erogazione del servizio, da eseguirsi in conformità alle normative di settore, si svolge in un regime concorrenziale. La gestione degli impianti e delle reti, di proprietà dell'ente locale, può essere affidata direttamente - dunque senza l'osservanza di procedure concorsuali - a società di capitali controllate dall'ente locale oppure ad imprese idonee, individuate mediante procedure ad evidenza pubblica.
nel caso di servizi privi di rilevanza industriale le forme di gestione ipotizzabili sono sostanzialmente le stesse previste nell'ormai abrogato art. 113 T.U.e.l. e, dunque: in economia, in affidamento a terzi, a mezzo di azienda speciale, a mezzo di istituzioni, a mezzo di società di capitali e tramite consorzi.
L’art.35 della L.448/2001 aveva quindi profondamente modificato le regole per l’affidamento della gestione dei servizi aventi rilevanza industriale, stabilendo il principio della selezione concorsuale del gestore e di fatto abolendo ogni ipotesi di attribuzione diretta.
Le regole sull’affidamento del servizio introdotte invece dall’art.14, D.L. 269/2003, in parte integrate dall’art.2, comma 234 della L.350/2003 (Legge finanziaria per il 2004), rappresentano una decisa inversione di tendenza e, in sostanza, un ritorno al passato.
Secondo la nuova versione del comma 5 dell’art.113, la gestione dei servizi economici può essere assegnata a:
a) società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici che la controllano.
In particolare: l’affidamento diretto a società miste e/o totalmente pubbliche
Dalle considerazioni svolte nel precedente paragrafo emerge come la gara non rappresenti dunque più l’unica regola, ma divenga soltanto una delle possibili vie per l’assegnazione. Accanto ad essa sono oggi disciplinate due forme di gestione diretta: la prima è tale soltanto in apparenza, giacchè la procedura selettiva è anticipata al momento della selezione del socio privato. Certo, affinchè la previsione possa dirsi in armonia con l’ordinamento comunitario sarà necessario che questa gara, sia per quel che attiene al meccanismo di svolgimento e alle garanzie di concorrenzialità, sia per quel che attiene agli standard, venga condotta in modo sostanzialmente analogo a quanto
previsto per le gare finalizzate all’individuazione del gestore privato. Allo stesso modo, non si può ritenere che la procedura selettiva del socio giustifichi affidamenti atemporali o di durata irragionevole30.
Con particolare riferimento alla gestione a mezzo di società miste, si può preliminarmente dire che la gestione in forma societaria dei servizi pubblici locali ha da sempre costituito un problema di non poco conto, in considerazione del fatto che il R.D. 2578/1925 non menziona in alcun modo le società. Su tale mancata previsione normativa, la dottrina dominante, per lungo tempo, ha fondato il proprio orientamento negativo circa la possibilità di costituire società di capitali a partecipazione pubblica locale. Tale orientamento ha fruito pure del sostegno giurisprudenziale, consolidatosi con il parere emesso dal Consiglio di Stato il 06/03/1956.
Tuttavia, l’orientamento negativo non ha impedito il continuo e notevole diffondersi della società a partecipazione pubblica locale ed il mutar di opinione da parte della giurisprudenza. Difatti, la giurisprudenza amministrativa più recente, anche prima della L.142/1990, che ha fornito una consacrazione formale del modulo gestionale, sosteneva l’ammissibilità, in base alla generale capacità di diritto privato dei Comuni.
In particolare, lo schema si era sviluppato in base alla constatazione che il ricorso alla struttura societaria consente alle autonomie locali di condividere il rischio d’impresa con altri soggetti, fisiologicamente più abituati alla relativa sopportazione. Nel prendere atto dell’esistenza di tale modulo gestionale, la L.142/1990 aveva originariamente coniato l’istituto della società per azioni a prevalente o totale partecipazione pubblica locale. Il vincolo della proprietà
30 Cfr. X. Xxxxxx, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giornale di diritto amministrativo 2/2004
pubblica maggioritaria era stato soppresso in seguito dalla L.498/1992, la quale, all’art.12, aveva previsto la facoltà di costituire s.p.a. miste senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria. Per questo tipo di società è stato previsto l’obbligo della procedura concorsuale dell’evidenza pubblica per la scelta dei soci privati in sede di costituzione della società.
L’art.22, comma 3, lett.e) della L.142/1990 è stato in un primo momento modificato dall’art.17, comma 58 della L.127/1997, che ha ampliato le figure di società miste, prevedendo “società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale, costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna, in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio, la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”. La norma si riferisce, quindi, non solo a società per azioni, ma anche a responsabilità limitata, e non solo a società costituite dall’ente locale per la gestione del servizio, ma anche a soggetti già esistenti a cui l’ente locale partecipa acquistando quote di capitale.
Con l’entrata in vigore del D.lgs.267/2000, la disciplina sulla gestione dei servizi pubblici locali è stata trasfusa negli artt.113 ss., che hanno recepito gli interventi normativi succedutisi negli anni precedenti31. In particolare, l’art.113 riprende l’elenco delle forme di gestione previste dall’art.22 L.142/90 e aggiunge, alla lett. f), anche le società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria (introdotte dalla L.498/1992). Questa forma di società mista è disciplinata, nel dettaglio, dall’art.116 del D.lgs.267/2000, che prevede espressamente le procedure dell’evidenza pubblica per la scelta dei soci privati.
31 Ai modelli di gestione dei servizi pubblici locali previsti dall’art.22 della L.142/1990 si aggiungono la stipulazione di convenzioni e la costituzione di consorzi tra enti locali ai sensi, rispettivamente, degli artt.30 e 31 del D.lgs.267/2000
L’art.35 della L.448/2001 ha riscritto la disciplina dei servizi pubblici locali, innovando profondamente il sistema previgente. Il legislatore ha modificato l’art.113 del D.lgs.267/00 e introdotto l’art.113 bis in precedenza commentato32.
Discussa è la natura giuridica delle società miste. Su tale punto, si è registrata una frontale contrapposizione tra quanti ritenevano trattarsi di società di natura interamente privatistica, sottoposte esclusivamente alla disciplina delle società commerciali, e quanti, sottolineandone il carattere di specialità, reputano che quello societario era solo un paravento, dietro il quale si cela organicamente collegata all’ente locale, ossia un mero organo strumentale33.
Il dibattito in questione si è poi esteso fino ad affrontare il problema se le società miste possano essere considerate come “organismi di diritto pubblico”.
Prima di rispondere al quesito in esame, occorre chiarire il concetto di “organismo di diritto pubblico”.
L’art.1 della Direttiva 93/37/CEE dispone che, per organismo di diritto pubblico, si intende qualsiasi organismo presentante i seguenti tre elementi:
deve essere istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;
deve essere dotato di personalità giuridica;
l’attività deve essere finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli Enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure deve presentare una gestione soggetta ad un controllo da parte di questi
32 Cfr. X. Xxxxx, le società miste nei servizi pubblici locali: evoluzione o involuzione di un modello?, in
Urbanistica e appalti 6/2003
33 Cfr. M Xxxxxx, I servizi pubblici locali: peso della tradizione e nuovo assetto delineato dalla finanziaria 2002, in xxx.xxxxx.xx n.2/2002
ultimi soggetti, oppure deve avere un organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza costituito da membri, dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli Enti pubblici o da altri organismi di diritto pubblico.
Affinchè si abbia un organismo di diritto pubblico, occorre la compresenza di tutti e tre i citati elementi34.
La figura dell’organismo di diritto pubblico è nata, in sede comunitaria, per l’evidente esigenza di dettare una disciplina il più possibile uniforme per realtà soggettive ed organizzative, quali quelle presenti nei singoli Stati membri, del tutto peculiari e diverse fra loro.
Gli ultimi due elementi di identificazione non sono di difficile individuazione. Il problema, invece, è capire la natura intima del primo elemento, cioè quali siano questi bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale. Su tale problema si è sviluppato un ampio dibattito, sia dottrinale che giurisprudenziale.
Taluni autori35 hanno fatto riferimento ad un criterio eminentemente formale ed hanno sostenuto che si è in presenza di tali bisogni se la figura organizzativa pubblica non ha la forma della Società per azioni, in quanto questa, a loro dire, è la forma tipica in cui si manifesta la natura industriale e commerciale di un organismo. La tesi esposta appare tuttavia insufficiente, non solo perché formale, ma anche perché non chiarisce in alcun modo la natura dei bisogni in esame.
34 Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, C-44/96 del 15/01/1998
35 Police, Gattamelata
Secondo un’altra tesi36, si è in presenza di un organismo di diritto pubblico laddove il fine unico del medesimo sia quello di sopperire a talune necessità tipiche della collettività organizzata. Anche tale tesi è apparsa insufficiente.
Invero, secondo la migliore concezione37, il carattere non industriale o commerciale va correlato ad attività non assoggettate a regole di mercato, per cui è possibile dire che l’organismo di diritto pubblico è quella figura organizzativa che, oltre a presentare gli altri due elementi visti, soddisfa specificamente bisogni di interesse generale, correlati ad attività non soggette alle regole concorrenziali.
Delineata questa definizione di organismo di diritto pubblico, vi è da dire che la netta maggioranza della dottrina afferma che le Società miste possono essere considerate a pieno titolo organismi di diritto pubblico. Anche la giurisprudenza conferma tale identificazione: la Società a totale partecipazione pubblica, costituita per la gestione di servizi pubblici, rientra nel novero degli organismi di diritto pubblico e, più in generale, delle amministrazioni aggiudicatrici38.
Occorre evidenziare che un’attenta dottrina39, pur affermando la possibilità dell’identificazione proposta, afferma che società mista ed organismo di diritto pubblico danno luogo a due realtà sostanzialmente non omogenee. La posizione contraria è sostenuta da una sentenza della Corte di Cassazione40, la quale espressamente statuisce che la S.p.a. a prevalente capitale pubblico non è un organismo di diritto pubblico, perché non difetta del fine di carattere industriale
36 Virgilio
37 Xxxxxxx, Xxxxx
38 Cfr. Consiglio di Stato, xxx.XX, 28/10/1998, n.1478
39 Cammelli, Ziroldi
40 Cass.civ., SS.UU., n.4991/1995
o commerciale e pertanto non è tenuta all’applicazione della disciplina di attuazione delle Direttive comunitarie, nel caso di affidamento a terzi di appalti di lavori, ancorchè relative ad opere strumentali al pubblico servizio.
Lo scontro tra le due correnti di pensiero ha favorito, poi, inevitabili divergenze in merito alle modalità di costituzione delle società: i sostenitori della tesi privatistica optano per la piena libertà di scelta degli azionisti privati da parte dell’ente locale; i fautori della tesi pubblicistica ritengono necessario lo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica.
In altri termini, il problema è il seguente: occorre seguire una procedura di gara, o altra tipologia di confronto concorrenziale, per la scelta dei soci privati?
In via preliminare, occorre anticipare che la schiacciante maggioranza, sia della dottrina che della giurisprudenza, sostiene la necessità della gara.
Per quanto concerne le società miste a prevalente capitale privato, l’indispensabilità della gara è espressamente consacrata nell’art.12 della L. 498/1992. In tal caso, la gara dovrà svolgersi secondo le procedure previste dal
D.P.R. 533/1996.
Il problema si pone, invero, per le società miste a prevalente capitale pubblico locale, per le quali la normativa nulla prevede.
Secondo la tesi dominante, come detto, anche nel caso delle società miste a prevalente capitale pubblico locale, occorre procedere a gara per la scelta del socio privato. Le argomentazioni che vengono avanzate a sostegno riguardano prevalentemente la necessarietà di tutelare valori costituzionali e paracostituzionali, quali la trasparenza e il buon andamento dell’azione amministrativa, oltre che il confronto concorrenziale. In una sentenza del T.A.R.
Piemonte41 si afferma esplicitamente che la mancanza di una gara creerebbe “una sorta di enclave soggetta ad un regime privatistico in un ambito da sempre di pertinenza di procedimenti amministrativi diretti a garantire il confronto concorrenziale, che solo assicura la trasparenza ed il buon andamento dell’amministrazione”. Similari considerazioni furono effettuate anche dal
T.A.R. Toscana42, laddove affermava che non sembra sussistere in alcun modo una qualche plausibile ragione “per svincolare la ricerca dei soci privati da un criterio (quello della pubblicità, trasparenza e concorrenzialità nelle offerte), tipico delle procedure pubblicistiche in quanto preordinato a rendere effettive le garanzie di imparzialità e buona amministrazione, che debbono presiedere a qualsiasi scelta compiuta dagli amministratori pubblici”.
Tale tesi è stata successivamente confermata in più occasioni43.
Accanto alla tesi dominante della gara, occorre fare cenno alla minoritaria concezione, secondo la quale non vi è obbligo di gara. Tale tesi fu espressa per la prima volta con la sentenza della Corte di Appello di Milano n.708 del 24/06/1995, nella quale si argomentava sulla base della non applicabilità dell’art.12 L.498/1992 alle Società miste maggioritarie. Tale minoritaria posizione è stata, invero, ripresa da una successiva, pur se isolata, sentenza del
T.A.R. Toscana44, nella quale si affermava che le attuali previsioni normative “autorizzano l’Ente a non ricorrere necessariamente alle procedure dell’evidenza pubblica”.
41 T.A.R. Piemonte, sez.II, sent. n.159/1996
42 T.A.R. Toscana, sez.II, sent. n.580/1997
43 Cfr. Consiglio di Stato, sez.V, n.192/1998; Consiglio di Stato, sez.V, n.435/1998; T.A.R. Lombardia, sez.III, n.3448/1999; T.A.R. Puglia-Lecce, sez.II, n.108/2000
44 T.A.R. Toscana, sez.II, n.208/1999
L'art. 35 legge 448/2001, novellando il c. 5 dell'art. 113 T.U.e.l., sancisce il principio in base al quale l'erogazione del servizio, da svolgersi in regime di concorrenza, verrà affidato a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure di evidenza pubblica. Da questa norma è possibile affermare la totale equiparazione tra imprese pubbliche e quelle private nella gestione del servizio. Quanto detto è rafforzato dal disposto dell'art. 113, c. 12, T.U.e.l., il quale disciplina la possibilità dell'ente locale di cedere la propria partecipazione nelle società miste erogatrici di servizi, senza che questo comporti alcun pregiudizio alla durata degli affidamenti.
Dopo aver scelto il socio privato e aver costituito la società sorge il seguente problema: l'affidamento del servizio si realizza automaticamente o è necessario un atto di concessione?
La normativa in vigore non chiarisce questo aspetto, ma negli ultimi anni si è consolidato l'indirizzo per cui, quantomeno alle società per azioni e a quelle a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico, non si applica il regime concessorio.
Con riferimento alle società per azioni a prevalente capitale privato contrasti sulla disciplina applicabile, in materia di affidamento, sono sorti ancor prima dell'entrata in vigore dell'art. 22 legge 142/1990, poiché si riteneva che, essendo il capitale prevalentemente privato, non fosse ammissibile un affidamento diretto, essendo tali società più vicine ad una struttura privata piuttosto che ad un ente locale.
Sul tema vi è una convergenza di orientamenti tra giudice amministrativo ed ordinario, seppure basata su argomentazioni in parte diverse.
La Cassazione45 ha affermato che l'opportunità di costituire una società di capitali mista - da parte di un ente locale, basandosi su motivazioni di natura tecnico-discrezionale, miranti all'esercizio di un servizio pubblico efficiente, efficace ed economico - esclude l'obbligatorietà del ricorso al regime concessorio, per l'attribuzione di tale servizio alla società.
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, merita particolare attenzione una decisione del Consiglio di Stato46 che, con riferimento all'affidamento diretto dei servizi di progettazione delle spese di competenza degli enti locali, all'Agenzia romana per la preparazione del Giubileo del 2000, ha escluso il ricorso alle procedure concorsuali previste dalla normativa comunitaria, poiché tale normativa trova applicazione solo se la prestazione di servizi si fondi su un contratto di appalto, mentre la pubblica amministrazione, nell'esercizio delle sue attività istituzionali ed organizzative, non incontra i limiti che derivano dalle discipline comunitarie.
Tale tesi trova conforto nelle decisioni del T.A.R. Lazio47 e del Consiglio di Stato48; quest'ultimo ha dichiarato l'illegittimità di un provvedimento di annullamento ad opera della Commissione di controllo sull'amministrazione regionale, dell'atto di affidamento diretto di un servizio informatico automatizzato ad una società mista a tale scopo costituita con capitale prevalentemente pubblico, e ciò sulla base dell'art. 6 della direttiva CEE 50/1992, che esclude la necessità di osservare le procedure dell'evidenza pubblica comunitaria se gli appalti pubblici di servizi siano "aggiudicati ad un
45 Si tratta della sentenza a SU n. 4997 del 16/05/1995, raccolta da FERRARI, La gestione delle risorse degli enti locali a mezzo di società miste, in Cons. St., 1998, parte II (2), p. 1558.
46 Cfr. Consiglio di Stato - Ad. gen. - 16/06/1996, n. 90/96, cit. in Foro it., 2000, parte I (1), p. 808 ss..
47 TAR Lazio 01/01/1995, n. 59, in Xxxxx.xx.
48 Consiglio di Stato - sez. IV - 13/02/1996, n. 147, in Xxxxx.xx.
ente, che sia esso stesso un'amministrazione ai sensi dell'art. 1 lett. b), in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari od amministrative". Le ragioni astrattamente invocabili per legittimare l'affidamento diretto del servizio si basano non solo su alcune norme comunitarie49 che escludono dall'ambito di applicazione delle disposizioni sulla libera circolazione dei servizi e sulla libertà di stabilimento le attività che "partecipino, sia pure occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri"50, ma anche sull'art. 113 bis T.U.e.l. che verrà analizzato tra poco.
Atteso che l'affidamento in via diretta del servizio costituisce una deroga alle norme in materia di concorrenza, non è escluso che la sua compatibilità con l'ordinamento comunitario debba essere indagata anche con riferimento all'art. 86, par. 2, del Trattato (ex art. 90)51 ai sensi del quale le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale "sono sottoposte alle norme del presente trattato", e "in particolare alle regole della concorrenza". Tuttavia, una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato52 sancisce che "è illegittimo l'affidamento senza gara alla Spa mista partecipata anche in misura minoritaria dall'ente locale di attività di progettazione". Secondo i giudici di palazzo Spada, l'attività deve restare appannaggio esclusivo di professionisti o società di ingegneria.
L'art. 113 bis, testé citato, prevede espressamente l'affidamento diretto per le società che gestiscono servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale. Xx
00 Xxx. MENSI, Appalti, servizi pubblici e concessioni, Milano, 1999, p. 365 ss..
50 Si tratta dell'art. 55 del trattato C.E.E.. Vista la portata di tale disposizione il Consiglio di Stato ha ritenuto che le società miste, dovendo partecipare all'esercizio dei poteri pubblici, sono conseguentemente sottratte alle regole della libera concorrenza imposte dalla normativa comunitaria. Per una recente disamina di tali problematiche si veda la sentenza della CG CE, 15/01/1998, causa C 47/96, in MENSI, Appalti, servizi pubblici e concessioni, op. cit., p. 370 ss..
51 Cfr. MENSI, Appalti, servizi pubblici e concessioni, op. cit., p. 369.
52 Si veda Consiglio di Stato - sez. IV - 23/02/2002, n. 391, in edilizi a e territorio, 7/2002.
gara è prevista dall'art. 113 per le "imprese idonee" che gestiscono le reti e gli impianti e per le società che erogano il servizio pubblico locale a rilevanza industriale.
Ribadiamo che va accolta la tesi che sancisce la legittimità dell'affidamento diretto - e non mediante apposita concessione - del servizio pubblico locale alla società mista costituita53, sia il partner privato di maggioranza o di minoranza; da ciò deriva che l'obbligo di scegliere il predetto con procedura concorsuale rappresenta lo strumento più efficace a tutelare la parità di trattamento tra tutti i soggetti pubblici e privati, potenzialmente interessati alla gestione del servizio stesso, ed a fugare eventuali dubbi di violazione della normativa comunitaria.
Ricordiamo che la concessione costituisce uno strumento alternativo di gestione dei servizi pubblici locali, per cui i comuni potranno affidare direttamente alle società miste la gestione dei servizi pubblici.
Il problema dell'affidamento del servizio è strettamente collegato alla distinzione tra società mista e concessione. Riteniamo opportuno specificare gli elementi caratterizzanti i due istituti giuridici.
La società mista, analogamente alla concessione, consente all'imprenditore privato l'accesso alla gestione del servizio pubblico, dunque, come nel modello concessorio in cui il gestore va di norma scelto attraverso le procedure dell'evidenza pubblica, si impone il ricorso alla medesima disciplina per l'individuazione del socio di minoranza.
53 In tal senso si veda XXXXXXX, La legge 127/1997: nuovi principi per la costituzione delle società di gestione di pubblici servizi, in Riv. trim. appalti, 1998, p. 484 ss..
In dottrina54 si ritiene che esistano profonde differenze tra società mista e concessione:
in riferimento al grado di partecipazione dell'ente locale nella gestione del servizio; infatti l'amministrazione gestisce in modo sostanzialmente diretto il servizio nell'ipotesi di società per azioni con capitale pubblico maggioritario, mentre pare estranea all'attività nei casi di società a partecipazione pubblica minoritaria e di concessione;
per ciò che riguarda le modalità di affidamento del servizio stesso, che è diretto nel caso di società mista ed a seguito di gara nel caso di concessione.
Anche la Suprema Corte55 contrappone nettamente concessione e società a partecipazione pubblica nel momento in cui considera le differenti modalità di affidamento del servizio:
affidamento a seguito di gara nel primo caso;
affidamento diretto nel secondo.
In materia va sottolineato che anche la società a partecipazione pubblica minoritaria realizza un'ipotesi di affidamento diretto del servizio pubblico, come espressamente riconosciuto dalla predetta pronuncia del Consiglio di Stato in sede consultiva.
A differenza della concessione, almeno in linea di principio necessariamente temporanea, l'affidamento del servizio alla società non ha un arco temporale definito56, dunque comporta un notevole irrigidimento del settore
54 FRACCHIA, La Suprema corte impone il rispetto di procedure ad evidenza pubblica nella scelta del socio privato delle società a prevalente partecipazione pubblica degli enti locali: un ulteriore allontanamento dal modello privatistico?, op. cit., p. 809 ss..
55 Cass. - SU - 754/1999, cit..
56 Si ricorda che la durata minima della società è pari a dieci anni, ex art. 2 d.P.R. 533/0000.Xx conformità all'art. 2328 c.c. la durata della società deve, comunque, essere stabilita dall'atto costitutivo .
di mercato corrispondente al servizio; si ricordi, inoltre, che la ragione pratica della scelta operata dal nostro ordinamento probabilmente è da ricercarsi nella volontà di far "decollare" il modello societario. Adottando una soluzione di segno differente, infatti, gli enti locali difficilmente promuoverebbero la costituzione di società a partecipazione pubblica minoritaria aventi come oggetto sociale lo svolgimento dei servizi57: ove la società non riuscisse ad aggiudicarsi la gara per l'affidamento del servizio, essa, sulla base dell'art.2248,
n. 2 c.c., dovrebbe sciogliersi per impossibilità di conseguire l'oggetto sociale.
5. Il concetto di “controllo analogo” sui propri servizi
Come si è detto in precedenza, la partecipazione degli enti locali al capitale, pur essendo necessaria, non sarebbe bastevole a ricondurre le società ai modelli previsti dal vigente testo dell’art.113 comma 4, lett.a) e comma 5, lett.c) D.lgs.267/2000.
Questa conclusione risulta dalla lettera delle disposizioni appena menzionate: esse pretendono, infatti, che il capitale della società sia interamente pubblico, ma richiedono altresì che gli enti titolari del capitale stesso esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ed inoltre che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano.
In particolare, la partecipazione al capitale e il controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi sono condizioni che devono sussistere entrambe se si vuole che una società rientri in uno dei modelli descritti dalle disposizioni in
57 CAMMELLI - ZIROLDI, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, op. cit., p. 229 ss..
esame. Peraltro, proprio perché l’art.113, comma 4, lett.a) e comma 5, lett.c), nonché l’art.113 bis comma 1, lett.c) D.lgs.267/2000 considerano le due condizioni separatamente, è chiaro che il legislatore ritiene la partecipazione societaria indispensabile, ma non bastevole di per sé a garantire anche un controllo analogo a quello esercitato dall’ente locale sui propri servizi.
Invero, dalla qualità di socio si può ritenere che discenda, di norma, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi unicamente in fattispecie di socio unico58. Infatti, in tal caso l’ente locale socio ha il completo controllo della società attraverso la presenza esclusiva dei propri rappresentanti o di soggetti da esso designati negli organi sociali. Dunque, l’ente locale è in grado di governare e orientare discrezionalmente la vita della società.
Invece, in tutti i casi di società pluricomunale, è indispensabile che gli enti locali, assieme alla partecipazione al capitale, apprestino ulteriori e specifiche misure di controllo, in modo che la società risulti effettivamente, a prescindere dalla quota di capitale singolarmente detenuta, lo strumento operativo di ciascun ente socio al fine dello svolgimento dei propri servizi pubblici.
Invero, circa il significato dell’espressione “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”, è utile richiamare innanzitutto le osservazioni svolte dalla Commissione CE, la quale sottolinea che, affinchè sussista tale tipo di controllo, non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario. Secondo la Commissione CE, il controllo cui si riferisce la giurisprudenza comunitaria “fa infatti riferimento ad un rapporto che determina, da parte dell’amministrazione controllante, un assoluto potere di direzione,
58 Sul punto X. Xxxxxxxx, Appalti in house: il Consiglio di Stato tenta di forzare la Corte di Giustizia, in xxx.xxxxxxxx.xx
coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo. In virtù di tale rapporto, il soggetto partecipato, non possedendo alcuna autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione, si configura come un’entità distinta solo formalmente dall’amministrazione, ma che in concreto continua a costituire parte della stessa. Solo a tali condizioni si può ritenere che fra amministrazione e aggiudicatario non sussista, agli effetti paratici, un rapporto di terzietà rilevante ai fini dell’applicazione delle regole comunitarie in materia di appalti pubblici”.
In argomento, si rammenta poi la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche Comunitarie n.12727 del 19/10/200159 ove si legge che con l’espressione “controllo analogo” “si intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica in particolare quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario”60. In detta evenienza l’affidamento in house è consentito senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie, poiché si è in presenza di un fenomeno di delegazione interorganica che esclude le ragioni a tutela della concorrenza, alla base della normativa comunitaria.
Dato che l’amministrazione aggiudicatrice gode, nei confronti dell’operatore, di un potere di controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, i compiti che può affidargli saranno trattati come se essi fossero stati semplicemente delegati al suo interno. La capacità dell’ente territoriale di
59 In G.U., Serie generale, n.264 del 13/11/2001
60 Così il x.xx 4; nello stesso senso cfr. anche la circolare del medesimo Dipartimento n.3944 dell’1/03/2002
influire sul funzionamento del prestatore e l’assenza di autonomia che ne deriva per quest’ultimo negano qualsiasi rilevanza esterna al contratto stipulato tra l’ente ed il prestatore di xxxxxxx00.
Inoltre, occorre considerare quanto affermato, circa il contenuto dell’espressione “controllo di gestione”, dalla Corte di Giustizia CE, la quale ritiene che esso consista nella verifica dei conti annuali nonché dell’amministrazione corrente sotto il profilo dell’esattezza, della regolarità e dell’economicità, della redditività e della razionalità ed ancora nella possibilità di accedere ai locali e agli impianti aziendali62.
Ai fini della corretta perimetrazione del requisito del controllo analogo, attenta dottrina ha posto l’accento sull’esigenza di distinguere fra “controllo strutturale” e “controllo sull’attività”63.
Mentre il “controllo strutturale”, in linea generale, consiste nel potere di nomina della maggioranza dei soggetti che compongono gli organi di amministrazione, direzione o vigilanza del soggetto aggiudicatario, il “controllo sull’attività” consiste, invece, nella valutazione della conformità dell’attività svolta dall’ente gestore ad un parametro legale.
Non deve escludersi la possibilità che il controllo strutturale sia eventualmente cumulato al controllo sull’attività, ma se quest’ultimo non parrebbe costituire condizione sufficiente per ravvisare un’ipotesi di in house providing, il controllo strutturale è, invece, condizione necessaria e imprescindibile. Il controllo sulla sola attività dell’in house provider, infatti, non integra gli estremi di un’ingerenza pubblica sull’organizzazione imprenditoriale
61 Cfr. le conclusioni dell’Avv. Gen. X. Xxxxx, presentate nella causa X-00/00, XXXX Xxxxxxxxxxxxxx c. Bundesministerium fur Land – und Xxxxxxxxxxxxxxx
00 X. Xxxxx. XX, xxx.X, 00 febbraio 2003 in causa C-373/00
63 Cfr. Xxxxxxxx, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003
tale da considerare l’aggiudicatario parte integrante dell’amministrazione controllante. In tal caso, insomma, il rapporto fra i due soggetti interessati non sembrerebbe potersi realmente qualificare alla stregua di un legame organizzativo meramente interno all’amministrazione stessa64.
Altra dottrina, nel ribadire che si può esulare dalla normativa comunitaria solo quando il vincolo tra l’ente che bandisce l’appalto e l’amministrazione aggiudicatrice è qualificabile in termini di delega interorganica, specifica che, per compiere la valutazione in ordine alla sussistenza del “controllo analogo”, si deve constatare la compresenza di più elementi, quali: a) la dipendenza formale;
b) la dipendenza economica; c) la dipendenza amministrativa. Solo nell’ipotesi in cui tutte queste condizioni siano soddisfatte, allora l’aggiudicatario risulterà effettivamente essere un tutt’uno con l’ente pubblico, una sorta di longa manus e, quindi, le regole stabilite dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici non troveranno applicazione65.
In definitiva, il modello dell’in house providing implica che la società di gestione sia priva di una propria autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle della pubblica amministrazione, di cui costituisce nient’altro che un plesso organizzativo. Oltre che in termini di “delegazione interorganica”, dunque, l’in house providing può essere qualificato, ancora più in radice, in termini di “autoproduzione del servizio pubblico”66 attraverso una forma organizzativa che è propria dell’amministrazione stessa.
64 Così Xxxxxxxx, op.cit.
65 Cfr. X. Xxxxxxx, Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com. 3- 4/2001
66 Così X. Xxxx, Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in xxx.xxxxxxxxx-xxxxxxxxxxxxxx.xx
Alla luce di quanto esposto in precedenza, non dovrebbero sorgere particolari problemi nel caso in cui l’amministrazione intenda stipulare un contratto di appalto a titolo oneroso con un soggetto che, a sua volta, risponda anch’esso alla nozione comunitaria di amministrazione aggiudicatrice.
Applicando i principi già enunciati, non può che concludersi nel senso dell’applicabilità della normativa europea tutte le volte in cui l’ente pubblico aggiudicatario dell’appalto sia un soggetto distinto sul piano formale dall’amministrazione aggiudicatrice ed autonomo da essa sul piano decisionale67, indipendentemente dalla sua natura pubblica o privata.
Come già detto, infatti, nel caso in cui si sia in presenza di un vincolo contrattuale a titolo oneroso, si deve sempre verificare la sussistenza o meno di un forte controllo da parte dell’amministrazione aggiudicatrice nei confronti dell’ente aggiudicatario, analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, tale da portare a considerare i due soggetti, pur organicamente distinti, come una sola persona. Solo allora si esulerebbe dal regime della direttiva: in tal caso, infatti, la volontà negoziale verrebbe vanificata dalla capacità dell’amministrazione aggiudicatrice di influire sul funzionamento del prestatore e dall’assenza di autonomia di quest’ultimo68.
Le ragioni a tutela della concorrenza, poste alla base della normativa comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, dunque, restano valide ogni qual volta il soggetto aggiudicatario dell’appalto, pur essendo esso stesso una pubblica amministrazione, sia distinto rispetto all’ente pubblico che ne bandisce la relativa gara. In tal caso, infatti, non può ravvisarsi quel nesso
67 L’Avvocato Generale X. Xxxxx, infatti, al punto 40 delle conclusioni presentate nella causa C-94/99, ARGE Gewasserschutz, cit., definisce “le prestazioni qualificate in house” come quelle “fornite ad un’autorità pubblica dai propri servizi o da servizi dipendenti, sebbene organicamente distinti”
68 Cfr. il punto 50 delle conclusioni presentate dall’Avv. Gen. X. Xxxxxx, nella causa Teckal s.r.l. C-107/98
strutturale, di controllo e di destinazione che è essenziale per la verificazione dell’in house providing: pur trattandosi di un soggetto pubblico, l’ente aggiudicatario deve comunque considerarsi terzo rispetto all’amministrazione appaltante e, pertanto, deve restare assoggettato alle medesime regole applicabili ad un qualsiasi altro operatore economico69.
La prassi amministrativa generata dalla giurisprudenza comunitaria sull’in house providing è stata nel segno della moltiplicazione degli affidamenti diretti di servizi in favore di enti di diversa natura giuridica e tipologia, con una particolare predilezione per le società a prevalente partecipazione pubblica. Iter evolutivo che, seppur a prima vista compatibile con la ratio delle direttive comunitarie sugli appalti – le quali lasciano in via di principio gli Stati membri liberi di decidere con quali forme organizzative provvedere all’acquisizione di beni e servizi, e quindi se ricorrere o meno al mercato per soddisfare le proprie esigenze, imponendo l’applicazione di principi di concorrenza solo nell’ipotesi di affidamento “a terzi” – ha finito tuttavia per trasformarsi da eccezione a regola.
Di fronte a tale evolversi della situazione, non arginata dal richiamo della Commissione Europea al rigoroso rispetto del principio dell’influenza dominante dell’ amministrazione aggiudicatrice sul destinatario dell’affidamento, non soddisfatta, nei confronti della società mista pubblica- privata, dal semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario, la decisione della Corte di Giustizia 11 gennaio 2005 in causa X-00/00, Xxxxx c.Halle ha
69 In tal senso si esprime chiaramente l’Avv. Gen. X. Xxxxx nelle conclusioni presentate nella causa C-94/99, più volte richiamate
interpretato autenticamente il concetto di “controllo analogo” elaborato nella sentenza Xxxxxx.
Premesso che l’obiettivo principale delle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici implica il dovere di qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di applicare le norme comunitarie pertinenti qualora sussistano i presupposti da queste contemplati, qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo – ha detto in tale occasione la Corte – va interpretata restrittivamente.
Muovendo da tale presupposto, e fermo restando che “un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di ogni altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi, (…) non è escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio ancorchè la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice”. Ciò in particolare si verifica (…) nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, esercita sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano. Tuttavia, mentre nel caso preso in considerazione nella sentenza Xxxxxx l’entità distinta era interamente detenuta da autorità pubbliche, "“a partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
E ciò – prosegue ancora la Corte – per la fondamentale ragione che qualsiasi investimento privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati, e persegue obiettivi che non sono di interesse pubblico, laddove il rapporto tra un’autorità pubblica e i suoi servizi sottostà esclusivamente ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.
In tal modo, secondo tale lettura, il “controllo analogo” viene a legarsi all’elemento teleologico degli obiettivi (di interesse pubblico) che devono essere perseguiti tanto dal soggetto conferente, quanto dall’affidatario, rendendo manifesta l’incompatibilità di tale concetto con qualunque forma di negoziazione sugli obiettivi strategici dell’organismo controparte, come pure sulle singole decisioni relative alla conduzione dell’impresa.
Da tali affermazioni parte della dottrina70 ha individuato due fondamentali conseguenze.
Da un lato, l’affidamento diretto “in house” potrà d’ora innanzi ritenersi compatibile con l’ordinamento comunitario solo se disposto in favore di società totalmente maggioritaria. Anche in tal caso, tuttavia, non avendo la Corte rinnegato la propria precedente giurisprudenza, occorrerà ugualmente verificare, posta la sussistenza del controllo gestionale e finanziario, insita nella proprietà pubblica dell’intero pacchetto azionario, la “misura” e l’essenza del controllo, vale a dire se esso sia stringente e assoluto. Circostanza, questa, da vagliare innanzitutto alla luce del grado di integrazione tra amministrazione conferente e società partecipata legato al fatto che quest’ultima svolga tutta, o solo una parte della propria attività, in favore della predetta amministrazione.
70 Cfr. X. Xxxxxx, L’in house providing: il concetto di controllo analogo tra disciplina comunitaria e normativa interna, in xxx.xxxxxxxxx.xx 2/2005
Ma dall’altro, se è vero che la nozione di controllo analogo a quello che una pubblica autorità esercita sui propri servizi si lega al comune, integrale perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, sembra di poter dire che il recente pronunciamento apre invece interessanti spiragli in ordine alla possibilità di affidamento diretto degli appalti di servizi agli enti non profit accreditati che operano nel settore dei servizi socio sanitari alla persona. E ciò, per l’elementare considerazione che, a differenza dei soggetti for profit, gli organismi del terzo settore sono per loro natura rivolti alla realizzazione dell’interesse generale della collettività, sicchè qualora i medesimi assumano personalità giuridica, e siano sottoposti ad uno stringente controllo finanziario, gestionale ed organizzativo pubblico, sembrano darsi per essi tutti i presupposti per l’affidamento in house richiesti dalla Corte di Giustizia71.
6. Analisi di taluni specifici settori: le scelte legislative di soluzioni transitorie in materia di servizio idrico e l’orientamento giurisprudenziale interno e comunitario
Punto di partenza per l’analisi del servizio idrico è la legge 5 gennaio 1994, n.36 (c.d. legge Xxxxx), la quale, con riferimento allo specifico settore della gestione delle risorse idriche, ha tra i suoi fini quello di contemperare una gestione del servizio improntata al rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità72 con l’esigenza di proteggere e conservare le acque pubbliche, intese come risorsa da utilizzare secondo criteri di solidarietà.
71 Cfr. X. Xxxxxx, op.cit.
72 Il contenuto di tali criteri è specificato nel d.p.c.m. 4/3/1996, Disposizioni in materia di risorse idriche, in G.U. 14/3/96 n.62
Ovviamente, tali principi si connettono inscindibilmente con le esigenze collegate al servizio in questione, prime tra tutte quella di continuità ed adeguatezza nell’erogazione del servizio oltre che di garanzia dei fabbisogni delle generazioni future.
Al fine di perseguire i suddetti obiettivi, il provvedimento normativo di cui sopra si è fatto portatore di una disciplina che consentisse il superamento della frammentarietà delle gestioni esistenti mediante la costituzione di “Ambiti Territoriali Ottimali” (ATO)73, nei quali il servizio idrico integrato (costituito “dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue”74) fosse organizzato secondo criteri imprenditoriali ed in assenza di sprechi o di usi impropri della risorsa acqua.
L’individuazione dei soggetti gestori del servizio all’interno degli Ambiti Territoriali Ottimali, tuttavia, ha visto evolversi una disciplina normativa di segno contrastante, volta, negli intenti, a promuovere l’ingresso della concorrenza nel mercato in questione ma spesso legata, nella pratica, al superamento delle procedure ad evidenza pubblica in favore degli affidamenti diretti, specialmente a beneficio delle società miste partecipate in diversa misura dalle amministrazioni aggiudicatrici.
In materia di affidamenti e di modalità di gestione, la Legge Xxxxx prevedeva che i Comuni e le Province (nella loro veste di Autorità d’Ambito) dovessero provvedere alla gestione del servizio idrico integrato “mediante le forme, anche obbligatorie, previste dalla L.142/1990, come integrata dall’art.12 della L.498/1992”. Dette forme, confluite poi nell’art.113 del D.lgs.267/2000,
73 Cfr. art.8, comma 1, L.36/1994
74 Cfr. art.4, comma 1, lett. f), L.36/1994
coincidevano con quelle della gestione in economia, a mezzo di istituzione, in concessione a terzi, mediante azienda speciale oppure mediante società mista (sia maggioritaria sia minoritaria). Forme di gestione che, tuttavia, non si adattavano in toto al servizio idrico integrato, in quanto tra le loro caratteristiche vi dovevano essere anche quelle di promozione del carattere imprenditoriale ed economico del servizio: dovevano dunque ritenersi escluse sia le gestioni in economia, che la norma di legge riservava ai servizi “di modeste dimensioni”75, sia quelle mediante istituzione, non coincidendo quello idrico con un “servizio sociale senza rilevanza imprenditoriale”. Ne consegue, dunque, che le modalità gestorie disegnate dalla legge 36/94 disegnate dalla legge 36/94 rimanevano quelle dell’azienda speciale, della concessione a terzi e della società mista, oltre alla possibilità di mantenere “le forme e le capacità gestionali degli organismi esistenti che rispondessero a criteri di efficienza, di efficacia e di economicità”76.
L’affidamento del servizio ad aziende speciali poteva avvenire, ovviamente, in modo diretto, configurandosi le stesse come enti strumentali delle amministrazioni che le avevano costituite. Quanto invece alle società miste, si doveva differenziare il momento dell’attribuzione del servizio, che generalmente poteva avvenire in modo diretto visto il carattere alternativo di questa modalità gestoria rispetto alla concessione a terzi77, dalla scelta del socio
75 Cfr. M.P. Chiti, le forme di gestione del servizio idrico integrato dopo la finanziaria 2002, in Urbanistica e appalti, 2002, 1232 ss.
76 Cfr. art.9, comma 4, L.36/94
77 Cfr. Cass.civ., SS.UU., 6 maggio 1995 n.4989, in Foro amm., 1996, 32
privato di maggioranza o di minoranza78, che doveva necessariamente avvenire mediante l’espletamento di procedure ad evidenza pubblica79.
Per quel che riguarda il modulo della concessione a terzi, invece, il legislatore della legge Xxxxx ha dettato una norma esplicita, in base alla quale “la concessione a terzi del servizio idrico (…) è soggetta alle disposizioni dell’appalto pubblico di servizi degli enti erogatori di acqua in conformità alle vigenti direttive della Comunità Europea in materia, secondo modalità definite con decreto del ministro dei lavori pubblici di concerto con il ministro dell’ambiente”80.
Il decreto ministeriale attuativo dell’art.20, comma 1, L.36/94 è arrivato a quasi otto anni di distanza dall’approvazione della legge medesima, il 22 novembre 2001. In esso si individua la gara pubblica, espletata con il sistema della procedura aperta e con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quale modalità necessaria ai fini dell’individuazione del concessionario di servizio pubblico.
Principio fondamentale apportato dal decreto in esame è quello della massima partecipazione, in adempimento del quale sono previsti requisiti sufficientemente elastici con particolare riferimento all’esperienza maturata nel settore ed al fatturato medio prodotto in precedenza. Quanto al primo aspetto, infatti, si richiede ai fini dell’ammissione che il concorrente non debba aver gestito in passato l’intero servizio idrico integrato ma solo singoli segmenti di esso (captazione, adduzione, distribuzione di acqua ad usi civici, fognatura e depurazione delle acque reflue), e che il bacino di utenza servito in tale
78 Cfr. X. Xxxx, Società per azioni a prevalente capitale pubblico locale: scelta dei soci e procedure di affidamento del servizio, in Nuova Rass., 1995
79 Cfr. TAR Piemonte, sez.II, 21 marzo 1996, n.159
80 Art.20, comma 1, L.36/94
esperienza passata possa essere anche di molto inferiore alla metà di quello per la quale si concorre.
Per quel che riguarda poi il secondo aspetto, è previsto che possono partecipare alla competizione tutti quegli enti il cui fatturato dei due anni precedenti sia ampiamente inferiore alla metà di quello previsto per il primo anno di gestione del servizio idrico integrato il cui affidamento è messo in gara.
Oltre ad indicare le cause di esclusione, il contenuto del bando di gara e la disciplina dell’offerta, poi, il decreto ministeriale indica anche cinque criteri di aggiudicazione81, dei quali il più importante appare senza dubbio quello contenuto alla lettera b) del suo art.8, comma 1, ossia i “miglioramenti del piano economico-finanziario relativo ai servizi oggetto della concessione, quale risulta dalla specificazione dei costi operativi e dei costi di investimento e delle connesse ricadute sulla tariffa reale media”; tale affermazione può essere ricavata dal secondo comma del medesimo articolo, in base al quale “il peso del criterio riportato al comma 1, lett.b) dovrà essere almeno pari a quello complessivo degli altri criteri indicati allo stesso comma”.
A corredo del decreto 22 novembre 2001, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha emanato anche due circolari interpretative, le quali esprimono una netta preferenza nei riguardi dell’individuazione del gestore concessionario attraverso lo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica.
Nella prima delle due comunicazioni82 viene fornita un’interpretazione delle disposizioni normative che regolano l’affidamento del servizio a società a
81 Art.8, comma 1, d.m. 22 novembre 2001
82 Circolare del 17 ottobre 2001 n.GAB/2001/11559/B01, Società a prevalente capitale pubblico locale per la gestione del servizio idrico integrato, in G.U. 1 dicembre 2001, n.280
prevalente capitale pubblico, indicando quale unica regola da seguire (in conformità anche ai rilievi formulati in sede comunitaria) quella dell’affidamento mediante procedura aperta, la quale non deve essere adottata solo per la scelta del socio privato, ma anche per l’individuazione del soggetto gestore. Secondo il Ministero, le condizioni per l’affidamento diretto in house ricorrono solo nel caso di costituzione di aziende speciali, visto che la giurisprudenza comunitaria, ricavabile dalla sentenza “Teckal”83, richiede ai fini dell’affidamento diretto un controllo dell’ente locale sul gestore analogo a quello che esso esercita sui propri servizi, mentre “nel caso di persone giuridiche private (…) l’eventuale controllo può avvenire solo secondo le modalità previste dal diritto societario e non certo secondo rapporti gerarchici o strumentali di carattere pubblicistico”. Pertanto, viene affermato che risulta in contrasto con la normativa comunitaria la tesi secondo cui gli enti locali hanno la facoltà di affidare senza alcuna gara la gestione dei servizi pubblici a società con prevalente capitale pubblico.
Nella seconda circolare84, poi, il Ministero evidenzia un chiaro disfavore nei riguardi della trattativa privata, sostenendo che, a motivo delle molteplici ipotesi di favoritismi che con detta procedura è più agevole assicurare, occorre invece seguire quella dell’evidenza pubblica. Infatti, nemmeno la procedura ristretta si rivela sufficiente, consentendo, secondo la forte affermazione proposta, “al soggetto aggiudicatore di ampliare o restringere la rosa degli invitati a seconda dell’umore”. Oltre a ricordare la contrarietà al diritto comunitario delle procedure diverse dall’evidenza pubblica, poi, la circolare si
83 Cfr. Corte di Giustizia CE, sez.V, sent. Teckal del 18/11/1999, causa C-107/98
84 Circolare del 22 novembre 2001, n.GAB/2001/11560/B01, Esplicazioni relative alle modalità di affidamento in concessione a terzi della gestione del servizio idrico integrato, a norma dell'’rt.20, comma 1, della legge 5 gennaiuo 1994 n.36, in G.U. 1 dicembre 2001, n.280
distingue per le conclusioni cui arriva: si sostiene, infatti, la responsabilità degli enti pubblici e dei loro amministratori che continueranno a fare ricorso agli affidamenti diretti, nonché il conseguente dovere degli stessi “di reintegrare il danno arrecato all’Italia, sia sotto il profilo dell’immagine internazionale, che dei costi necessari ad adempiere alla condanna inflitta”.
Successivamente, l’art.35 della L.448/2001 ha riscritto completamente l’art.113 del D.lgs.267/2000, inserendo, come detto in precedenza, la distinzione tra servizi di rilevanza industriale e servizi privi di tale rilevanza, separando a sua volta la prima categoria nelle tre componenti costituite dalla proprietà delle reti e degli impianti, dalla gestione delle stesse e dall’erogazione del servizio.
Ritenendo scontata l’appartenenza del servizio idrico integrato ai servizi aventi rilevanza industriale85, non si può tuttavia trascurare che l’art.113 del D.lgs.267/2000 fa espressamente salve le “disposizioni previste per i singoli settori e quelle nazionali di attuazione delle normative comunitarie”, per cui continueranno a trovare applicazione le leggi speciali regolanti il servizio idrico, in particolare la legge 36/1994 e relative leggi regionali attuative86.
Sulla base del provvedimento legislativo 36/1994 potrà trovare fondamento la disciplina dei casi in cui sarà possibile separare l'attività di gestione di reti ed impianti da quella di erogazione. Tuttavia, nel settore idrico, ex art. 12, la separazione è poco plausibile in quanto tale servizio rimane condizionato dalla sua particolare natura la quale esclude la separazione tra gestione delle reti ed erogazione.
85 Detta appartenenza non deriva solamente dal carattere “a rete” del servizio idrico integrato, ma anche dalla sua espressa inclusione nella categoria effettuata dal comma 5 dell’art.35 L.448/2001
00 Xxx. X. Xxxxxxxx, Xx conversione in legge del decreto 24 giugno 2003 n.147: l’affidamento diretto del servizio idrico integrato continua a “lusingare” il legislatore, in Servizi pubblici e appalti 4/2003
In tale settore sarà consentito, nell'ottica di una futura privatizzazione, una concorrenza non nel mercato, ma per il mercato. In sostanza, l'utente non potrà scegliere tra una pluralità di gestori, ma l'Autorità potrà reperire, in un regime di libera concorrenza, il soggetto che potrà gestire, in chiave monopolistica, il servizio sull'Ambito di Territorio Ottimale.
Nel caso del servizio idrico non può valere il principio generale di non cedibilità delle reti e degli impianti, secondo quanto dispone l'art. 113, c. 13 T.Ue.l., salva la possibilità, ex art. 113, c. 3, del presente T.U. di costituire un'apposita società di gestione delle reti la cui quota pubblica maggioritaria sarà comunque incedibile.
Tali società di diritto speciale, titolari della proprietà delle reti e degli impianti, si configurano come soggetti in grado di mettere a disposizione dell'erogatore la rete, ovvero, in caso di modelli gestionali non separabili - come nel caso del servizio idrico87 - sia la gestione del servizio, sia l'erogazione dello stesso, a fronte di un canone d'uso. Ne consegue che, nel caso del servizio idrico, esse potranno espletare le gare di cui all'art. 113, c. 5, T.U.e.l., oltre a mettere a disposizione, dietro corrispettivo, gli impianti al gestore.
Ciononostante, l’art.35 contiene una disposizione specifica per il servizio idrico integrato, dal momento che consente alle Autorità di Ambito la possibilità di procedere ad affidamenti diretti, ancorchè in via temporanea, in alternativa all’obbligo della gara per l’affidamento dell’erogazione del servizio a società di capitali (cioè a soggetti terzi) prevista dal comma 5 dell’art.113 del D.lgs.267/2000 (come sostituito dal comma 1 dell’art.35 della L.F.). L’art.35
87 Questa è la tesi sostenuta da CALVIERI, La nuova disciplina dei servizi pubblici di cui all'art. 35, legge 448/2001 e la sua compatibilità con i processi di riorganizzazione in atto, in Xxxxx.xx, il quale sostiene che non è separabile la gestione dall'erogazione.
della L.448/2001 ha, infatti, vietato dalla sua entrata in vigore l’affidamento del servizio idrico integrato ad aziende speciali e, per quanto concerne le società miste, la legge prevede un periodo di diciotto mesi entro il quale tale affidamento sarà ancora possibile (e di successivi due anni per l’espletamento delle gare per la scelta del partner privato).
Con specifico riferimento alla gestione del servizio idrico integrato tramite affidamento diretto c.d. in house a società a capitale interamente pubblico, ai sensi della lett.c) del comma 5 del novato art.113 D.lgs.267/2000, occorre segnalare la Circolare del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio del 6 dicembre 2004 (in G.U. n.291 del 13 dicembre 2004), la quale, nel fornire un’esemplificazione assolutamente innovativa degli elementi identificativi del suddetto modello gestionale, pare allinearsi all’orientamento emerso in ambito comunitario con la sentenza Stadt c.Halle in precedenza commentata.
La Circolare, infatti, sottolinea che tale modalità rappresenta un’opportunità che si aggiunge ai modelli tradizionali, ma alla quale è possibile ricorrere soltanto in casi eccezionali e residuali, in quanto “l’affidamento diretto del servizio a tale società e la contestuale esclusione dell’obbligo di gara trova la propria giustificazione nel fatto che il conferimento del servizio, a causa di una motivata e comprovata ragione di interesse pubblico che obiettivamente escluda la possibilità di ricorrere alla gara, non avviene nei confronti di un soggetto giuridico sostanzialmente autonomo, bensì nei confronti di un soggetto gerarchicamente subordinato, assoggettato obbligatoriamente ad un controllo funzionale, gestionale e finanziario stringente”. Ciò premesso, vengono individuatigli elementi nei quali il suddetto controllo si sostanzia.
In primo luogo, la società deve essere partecipata da tutti, e solo, gli enti locali facenti parte dell’ambito territoriale ottimale. Trattandosi infatti di società di scopo destinata a realizzare la parte più importante della propria attività con l’ente, o gli enti locali che la controllano, di essa devono necessariamente far parte tutti gli enti locali ricompresi nell’ambito territoriale ottimale, mentre è viceversa esclusa la partecipazione indiretta di questi ultimi per il tramite di consorzi intercomunali, aziende speciali, o anche società a partecipazione, anche totale, pubblica.
In secondo luogo, l’atto costitutivo e lo statuto devono obbligatoriamente prevedere che la società sia dotata di autonomia finanziaria e decisionale limitata e preventivamente circoscritta. A tal fine, le deliberazioni concernenti l’amministrazione straordinaria e quelle di determinante rilievo per l’attività sociale devono essere approvate dagli enti locali partecipanti alla società, ai quali spetta pure la nomina degli amministratori e del direttore della società stessa.
Infine, essendo finalizzata unicamente alla gestione del servizio idrico nell’ambito territoriale ottimale di riferimento, la società che riceve il servizio in house non può operare al di fuori del proprio ambito territoriale, e tale limite deve essere espressamente previsto dallo Statuto88.
Con specifico riferimento al tema dell’attività svolta dalle società partecipate dagli enti pubblici locali al di fuori del proprio territorio, bisogna rilevare che esso continua ad agitare la giurisprudenza. Sulla scottante questione si è innestato, come rilevato precedentemente, l’art.35 della legge finanziaria per l’anno 2002, il quale ha espressamente vietato, “a regime”, l’attività
00 Xxx. X. Xxxxxx, op.cit.
extraterritoriale alle società di capitali a partecipazione pubblica superiore al 50% se ancora affidatarie dirette del servizio sul proprio territorio.
Se, ovviamente, la giurisprudenza che si è formata prescinde da tale ius superveniens, la lettura delle pronunce rese sulla base della disciplina anteriore all’art.35 L.448/2001 può dare la sensazione di notevoli oscillamenti, tra decisioni che ammettono e decisioni che negano la legittimità di tale attività extra moenia89.
Oggi la giurisprudenza prevalente, confermata ancora di recente dal Consiglio di Stato, afferma che “non possono evidenziarsi particolari problemi per quanto attiene alla dimensione territoriale di riferimento delle società miste a maggioranza pubblica, stante la necessità che per queste, costituite appositamente per lo svolgimento di servizi pubblici, si addivenga, a differenza del modello delle aziende speciali, ad una maggiore flessibilità nel dimensionare il vincolo funzionale, nel senso di valutarne gli effetti secondo i connotati del caso concreto, ammettendo così l’impegno extraterritoriale ove questo comporti apprezzabili ritorni di utilità e soprattutto non distolga in maniera rilevante risorse e mezzi dalla collettività di riferimento”90.
89 Cfr. Consiglio di stato, sez.V, n.2297/2002; Consiglio di Stato, sez.V, n.4586/2001; TAR Xxxxxx Xxxxxxx- Parma, n.240/2002
90 Cfr. Consiglio di Stato, sez.V, 28/9/2005 n.5196; in senso conforme, vd. Consiglio di Stato, sez.V, 21/6/2005 n.3264