Dipartimento di Diritto Privato e Storia del Diritto
Dipartimento di Diritto Privato e Storia del Diritto
Corso di dottorato in Diritto comparato, privato, processuale civile e dell’impresa Curriculum di Diritto privato
XXXIII ciclo
RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO E COMPORTAMENTO CONTRADDITTORIO
Contributo al dibattito su giudizialità e stragiudizialità della risoluzione
settore scientifico disciplinare IUS/01
Xxxxxx Xxxxxx
Tutor:
Xxxxx.xx prof. Xxxxxxxxxxx Xxxxx
Coordinatore del dottorato:
Xxxxx.xx xxxx.xxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxx
A.A. 2019/2020
INDICE SOMMARIO
Introduzione IX
Capitolo I
LA RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO NEL CODICE CIVILE E NEL CONTESTO EUROPEO: IL RUOLO DEL PRINCIPIO DI NON CONTRADDI- ZIONE ESPRESSO DALL’ART. 1453, COMMA 2, COD. CIV.
Sezione I – Risoluzione giudiziale e stragiudiziale nel Codice civile e nel dirit-
to europeo: il possibile ruolo del principio di non contraddizione 1
1. L’eterogeneità del modello codicistico 1
2. Le tendenze europee, il contesto internazionale (cenni) e il dibattito tra giu- dizialità e stragiudizialità (rinvio) 7
3. Il comportamento contraddittorio quale nesso tra fatto e diritto: un’ipotesi 9
SEZIONE II – La preclusione di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. e il suo ruolo nel sistema 12
1. L’origine e la ratio storica della preclusione 12
2. Gli interessi in gioco e i problemi 16
3. L’efficacia endoprocessuale della preclusione 19
3.1. La preclusione e la sua assolutezza 19
3.2. Il possibile rilievo delle condotte e delle difese del debitore 26
3.3. Conclusioni 31
4. L’efficacia extraprocessuale e sostanziale della preclusione 32
4.1. Una prima tesi: la domanda di risoluzione estingue il diritto di chiedere l’adempimento. L’aporia dei «contratti giuridicamente morti» 32
4.2. Le tesi restrittive e la relativizzazione della preclusione 38
4.2.1. L’«interesse» del creditore nella giurisprudenza: imprecisioni di
una massima pragmatica 38
4.2.2. Le singole fattispecie: rigetto in rito della domanda di risoluzione; estinzione del primo processo per inattività delle parti; rigetto nel merito; estinzione del processo per rinuncia agli atti. L’ammissibilità della do- manda di adempimento in caso di rigetto determinato dalle difese del de-
bitore 43
4.3. Una valutazione della soluzione dal punto di vista economico, alla luce
del principio di effettività 49
4.4. Conclusioni: la natura anche sostanziale del divieto, la sua portata e la persistente lacuna dei «contratti morti» 53
5. La natura giuridica del divieto: la domanda di risoluzione come «atto re- sponsabile» 55
5.1. Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ., la rinuncia tacita e gli
atti non negoziali che comportano la perdita del diritto 55
5.2. La domanda di risoluzione come «opzione» 59
5.3. La domanda di risoluzione come atto responsabile e il disvalore della successiva domanda di adempimento: un’epifania del divieto di venire con-
tro il fatto proprio? 61
5.4. Conseguenze applicative: la flessibilità del divieto 64
6. Il ruolo della preclusione nel sistema 67
6.1. Un indice testuale: la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 1492 cod. civ. 67
6.2. Il bilanciamento degli interessi operato dal legislatore e la sua estensi- bilità 70
Capitolo II
FORME TIPICHE DI RISOLUZIONE STRAGIUDIZIALE E COMPORTAMEN- TO CONTRADDITTORIO
1. Introduzione 74
1.1. Oggetto dell’indagine 74
1.2. Le forme tipiche di risoluzione stragiudiziale: linee di fondo del siste-
ma 77
2. Diffida ad adempiere 79
2.1. Caratteri generali 79
2.2. Vicende anteriori al decorso del termine concesso al diffidato 82
2.2.1. Ritiro e revoca della diffida; proroga del termine 82
2.2.2. Domanda di adempimento e di risoluzione giudiziale 85
2.3. Vicende successive al decorso del termine .............................................
2.3.1. Diffida ad adempiere e rimedi ex art 1453 cod. civ. ........................
2.3.1.1. Risoluzione giudiziale .......................................................
2.3.1.2. Domanda di adempimento .................................................
2.3.2. Reiterazione della diffida ..................................................................
2.3.3. Accettazione dell’adempimento tardivo ...........................................
2.4. Risoluzione per diffida ad adempiere e recesso: in particolare, il reces- so ex art. 1385 cod. civ. (rinvio) ....................................................................
2.5. Considerazioni di sintesi .........................................................................
3. Clausola risolutiva espressa .............................................................................
3.1. Caratteri generali .....................................................................................
3.2. Vicende anteriori alla dichiarazione del creditore di volersi valere della clausola ..........................................................................................................
3.2.1. Condotte che precludono l’invocazione della clausola ....................
3.2.2. La tolleranza .....................................................................................
3.3. Vicende successive alla dichiarazione di volersi valere della clausola .. 3.3.1. Accettazione dell’adempimento .......................................................
3.3.2. Accordi successivi alla risoluzione ...................................................
3.4. Clausola risolutiva espressa e rimedi ex art 1453 cod. civ. ....................
3.5. Clausola risolutiva espressa e recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. (rinvio) ...........................................................................................................
3.6. Considerazioni di sintesi .........................................................................
4. Termine essenziale ...........................................................................................
4.1. Caratteri generali .....................................................................................
4.2. Vicende situate tra la scadenza del termine essenziale e il termine entro il quale il creditore può esigere la prestazione ...............................................
4.3. Vicende successive allo spatium deliberandi .........................................
4.3.1. L’invocazione della risoluzione da parte del contraente inadem- piente ..........................................................................................................
4.3.2. Xxxxxxxx, xxxxxxxxx, inerzia ...............................................................
4.3.3. Accordo delle parti ...........................................................................
4.3.4. Pretesa della prestazione ...................................................................
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4.3.5. Accettazione dell’adempimento tardivo ...........................................
4.3.6. Termine essenziale e recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. (rin- vio) ..............................................................................................................
4.4. Considerazioni di sintesi .........................................................................
5. Caparra confirmatoria e recesso .......................................................................
5.1. Premessa e caratteri generali ...................................................................
5.2. Recesso ex art. 1385 cod. civ. e rapporti con i rimedi generali contro l’inadempimento: rilevanza del tema .............................................................
5.3. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e rimedi ordinari ex art. 1453 cod. civ. ..........................................................................................................
5.3.1. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e azione di adempimento ..
5.3.1.1. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. dopo l’azione di adempimento ..................................................................................
5.3.1.2. Azione di adempimento dopo il recesso ............................
5.3.2. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e azione di risoluzione e risarcimento del danno ...............................................................................
5.3.2.1. In generale: l’incompatibilità e l’infungibilità tra le do- mande e il divieto di cumulo ..........................................................
5.3.2.2. Domande ex art. 1453 cod. civ. proposte dopo il recesso .
5.3.2.3. Domanda di accertamento del diritto di recedere ritenen- do la caparra (o con condanna alla consegna del doppio della ca- parra corrisposta) dopo l’azione ex art. 1453 cod. civ. ...................
5.3.2.4. (segue): La pronuncia delle Sezioni Unite, l’oggetto del principio di diritto e la giurisprudenza successiva ..........................
5.4. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e risoluzione per diffida ad adempiere .......................................................................................................
5.4.1. Ritenzione o restituzione del doppio della caparra in caso di riso- luzione per diffida ad adempiere ................................................................
5.4.2. Esercizio del recesso con ritenzione o restituzione del doppio della caparra dopo la risoluzione per diffida ad adempiere .................................
5.5. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e clausola risolutiva espressa ..
5.6. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e termine essenziale ................
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5.7. Considerazioni di sintesi .........................................................................
6. Conclusioni parziali .........................................................................................
6.1. L’altra faccia del comportamento contraddittorio nella risoluzione: nel- le risoluzioni stragiudiziali, la contraddizione mantiene in vita il vincolo contrattuale .....................................................................................................
6.2. Il falso problema della rinuncia agli effetti risolutori: un espediente ar- gomentativo errato per soluzioni (quasi sempre) opportune ..........................
6.3. Una questione rilevante e poco studiata: la rilevabilità d’ufficio dell’avvenuta risoluzione di diritto ................................................................
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Capitolo III
GIUDIZIALITÀ E STRAGIUDIZIALITÀ DELLA RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO: IL RUOLO DEL COMPORTAMENTO CONTRADDITTORIO
1. Introduzione 155
2. Contraddizione e conservazione del contratto .................................................
2.1. Il modello della tolleranza ......................................................................
2.2. Risoluzione parziale e «selettiva»: spazio per una nuova exceptio doli?
.......................................................................................................................
2.2.1. La risoluzione parziale: rilevanza dell’accettazione parziale e del contemperamento degli interessi delle parti ...............................................
2.2.2. Risoluzione di singoli ordini di investimento e buona fede .............
2.3. Considerazioni di sintesi su contraddizione e conservazione del vinco- lo contrattuale .................................................................................................
3. Divieto di contraddizione e atto unilaterale di risoluzione del contratto: le prime tesi favorevoli alla risoluzione stragiudiziale atipica .................................
4. L’ampliamento della risoluzione per atto stragiudiziale: una figura generale . 4.1. Le tesi ......................................................................................................
4.1.1. Dall’eccezione di risoluzione all’atto unilaterale di risoluzione ......
4.1.2. Risoluzione e necessità di ricorso al processo ..................................
4.1.3. I termini del dibattito attuale nel contesto europeo ..........................
4.2. I due modelli di riferimento: il recesso per inadempimento tedesco e la
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résolution par notification del Code civil riformato ......................................
4.2.1. Il modello tedesco e le forme speciali di recesso per inadempimen- to nell’ordinamento italiano ........................................................................
4.2.2. L’introduzione della résolution unilatérale nel Code civil: un isti- tuto molto simile alla diffida ad adempiere? ..............................................
4.2.2.1 La riforma ...........................................................................
4.2.2.2. Osservazioni critiche in relazione al diritto italiano ..........
5. Le critiche alla proposta dell’atto stragiudiziale atipico di risoluzione ...........
6. Il comportamento contraddittorio come legame tra giudizialità e stragiudi- zialità della risoluzione per inadempimento ........................................................
6.1. Certezza dei rapporti giuridici e dimensione bilaterale della risoluzione per inadempimento .........................................................................................
6.2. I due modelli, generali e alternativi, di risoluzione per inadempimento: risoluzione giudiziale e diffida ad adempiere. Il ruolo del comportamento contraddittorio ................................................................................................
6.2.1. Il comportamento contraddittorio nella risoluzione giudiziale. Il superamento dell’aporia dei «contratti morti» ............................................
6.2.2. La diffida ad adempiere come modello generale di risoluzione stragiudiziale. Rapporto con il comportamento contraddittorio .................
7. Considerazioni conclusive ...............................................................................
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Capitolo IV
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E SINTESI DEI RISULTATI
1. Introduzione 223
2. Il comportamento come categoria giuridica: alcuni spunti 224
3. La contraddizione e le regole ...........................................................................
3.1. Il divieto di venire contra factum proprium nel diritto italiano: un ar- gomento senza regole? ...................................................................................
3.2. Le regole operative individuate ..............................................................
3.3. L’«effetto opzionale» e l’«atto responsabile» tra effettività e autore- sponsabilità ....................................................................................................
4. Il comportamento contraddittorio nel sistema della risoluzione per inadem-
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pimento ................................................................................................................
4.1. Il sistema della risoluzione per inadempimento: «aporie» classiche e dibattiti attuali ................................................................................................
4.2. La prospettiva del comportamento contraddittorio come utile metodo di selezione di problemi omogenei ................................................................
4.2.1. Selezione delle fattispecie rilevanti ..................................................
4.2.2. Selezione di interessi e rimedi: sintesi delle conclusioni raggiunte .
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Bibliografia 251
INTRODUZIONE
In un editoriale pubblicato nel 2004 sui Contratti 1, Xxxxxxx Xx Xxxx pro- poneva al lettore un «gioco»: aveva consultato la banca dati del Foro Italiano, alla voce «contratto in genere», e preso nota del numero di pronunce giurisprudenziali associate a ciascun articolo del titolo sul contratto in generale del Codice civile, stilando poi la classifica dei dieci articoli con il maggior numero di risultati. Ben quattro norme tra le prime dieci riguardavano la risoluzione del contratto per ina- dempimento: gli artt. 1453, 1455, 1458 e 1460.
A sedici anni di distanza, il risultato non è cambiato. L’art. 1453 è ancora in testa alla classifica e gli artt. 1455, 1458 e 1460 sono sempre tra i primi dieci 2. Registrano un buon piazzamento, inoltre, l’art. 1385, in tema di caparra confirma- toria, e gli artt. 1454 e 1456, che disciplinano due forme di risoluzione di diritto per inadempimento.
Ora come allora il «gioco», in quanto tale, non ha valore scientifico, ma la frequenza con cui una norma appare nelle pronunce giurisprudenziali raccolte in una banca dati ci può dire almeno due cose.
La prima: le norme sulla risoluzione per inadempimento sono spesso ap- plicate nelle aule di giustizia. La constatazione potrebbe sembrare ovvia, se si pensa alla centrale importanza dell’adempimento nella disciplina dell’obbligazione e del contratto sinallagmatico. È però meno banale se si consi- dera che una maggiore applicazione giurisprudenziale di una norma non dipende solo dalla rilevanza dell’istituto, ma anche, almeno in parte, dal grado di conflit- tualità che esso genera. Certamente la conflittualità è in parte connaturata alla fat- tispecie dell’inadempimento e alle sue conseguenze, tuttavia occorre chiedersi se essa, in qualche misura, derivi da margini di incertezza lasciati aperti dalla disci- plina legale.
1 G. DE NOVA, Le top ten del titolo sui contratti in generale, in Contratti, 2004, 977 s.
2 La top ten del 2020, stilata consultando la Banca dati del Foro Italiano secondo i medesimi criteri seguiti nel contributo citato supra, alla nota 1, è la seguente: art. 1453, 1256 risultati; art. 1362, 1079 risultati; art. 1322, 808 risultati; art. 1351, 621 risultati; art. 1418, 592 risultati; art. 1341, 580 risultati; art. 1455, 474 risultati; art. 1460, 411 risultati; art. 1350, 402 risultati; art. 1458, 381 risultati.
La seconda considerazione: spesso da una copiosa giurisprudenza deriva la sedimentazione di un compatto diritto applicato, fatto di regole operative, massi- me consolidate, norme di creazione pretoria, che entrano in relazione e talvolta in conflitto con le regole codificate. Può trattarsi di regole praeter legem, che soppe- riscono pragmaticamente a mancanze delle norme scritte, oppure di principi di ca- rattere generale, all’ombra dei quali possono confondersi fattispecie tra loro diver- se.
La dottrina, che pure offre autorevoli e approfondite trattazioni della riso- luzione per inadempimento, non sempre sembra intercettare tutti i numerosi in- trecci del diritto applicato. Ciò pare dovuto al fatto che il tema è spesso studiato in opere di ampio respiro, per lo più di genere trattatistico, che, per quanto attente, rispondono necessariamente a uno schema espositivo tradizionale. D’altro canto, saggi e note a sentenza si confrontano con una casistica imponente e riescono spesso ad offrire appena un quadro di alcuni frammenti del sistema.
In questo contesto, alcune zone d’ombra sono inevitabili, perché inevitabili sono le frizioni tra il regime codificato, le regole operative utilizzate dalla giuri- sprudenza, espresse o non, e le costruzioni degli interpreti. Il presente studio nasce proprio dall’interesse — inizialmente episodico — verso tre questioni, tra loro apparentemente piuttosto distanti, da cui traspare come il sistema della risoluzione per inadempimento non sia compiutamente definito come si potrebbe pensare.
Un primo spunto viene dal classico problema dell’interpretazione del se- condo comma dell’art. 1453 cod. civ., il quale dispone che la parte che ha doman- dato la risoluzione del contratto non può più pretendere l’adempimento. Ad una prima lettura la norma pare chiara: la parte che ha disdetto il contratto non può poi pretenderne l’esecuzione, perché ciò lederebbe l’affidamento della controparte. Senonché un rapido approfondimento svela i numerosi interrogativi, ancora aperti, che la disposizione suscita: il divieto vale solo all’interno del processo o anche dopo il processo, se questo si conclude con una sentenza che non risolve il con- tratto? Se la domanda di risoluzione, come dicono alcuni, estingue il diritto all’adempimento, la risoluzione è veramente prodotta da una sentenza costitutiva o è un effetto della domanda? Se la sentenza non accoglie la domanda, cosa ne è di quel contratto non azionabile ma nemmeno risolto?
Si tratta di interrogativi di fondo su una norma che ci dice molto sul signi- ficato della risoluzione, indicando quali sono gli interessi tutelati di ciascuna delle parti — il diritto di sciogliersi dal contratto, per l’una, l’affidamento e la certezza dei rapporti, per l’altra — e come questi incidono, direttamente, sugli effetti del contratto. Né ci si può fermare, per risolvere il problema, alla massima tramandata dalla giurisprudenza, che ritiene operante il divieto «nei limiti in cui sussiste l’interesse attuale del contraente che ha chiesto la risoluzione». Come si è accen- nato, difatti, la stratificazione giurisprudenziale porta spesso alla diffusione di massime poco aderenti al caso concreto, sicché l’interprete è chiamato a un’opera di puntuale distinzione di singole fattispecie, quale unico metodo da cui possono emergere le effettive regole applicate.
Un secondo spunto proviene da una recente pronuncia 3, una delle molte che si occupano delle sovrapposizioni tra i diversi rimedi contro l’inadempimento, con cui la Corte di cassazione ha statuito che la parte di un contratto preliminare cui acceda la consegna di una caparra confirmatoria, la quale abbia prospettato al- la controparte di voler risolvere il contratto mediante una diffida ad adempiere, possa agire successivamente in giudizio chiedendo l’accertamento del proprio re- cesso ex art. 1385 cod. civ. e del diritto di ritenere la caparra. La breve sentenza pare giungere a una soluzione ragionevole, considerate le affinità tra recesso ex art. 1385 cod. civ. e risoluzione per diffida ad adempiere nonché la funzione di preventiva quantificazione del danno risarcibile svolta dalla caparra.
Eppure, nel 2009, con una nota sentenza, le Sezioni Unite — che, occorre chiarirlo, non erano state interrogate espressamente sul punto — avevano stabilito esattamente l’opposto. Comprendere le ragioni della pronuncia delle Sezioni Uni- te apre lo studio di un vasto capitolo dell’applicazione giurisprudenziale della ri- soluzione per inadempimento, giacché porta a confrontarsi con la regola, radicata nella giurisprudenza, della «rinunciabilità dell’effetto risolutivo». Sino all’intervento delle Sezioni Unite, difatti, i giudici sembravano ammettere — ma così non era, in realtà, come si vedrà — che la parte che avesse provocato la riso- luzione del contratto potesse tornare sui propri passi e ripristinare unilateralmente il vincolo. Con una costruzione ancor più artificiosa, per quanto riguarda la singo-
3 Cass., 3 novembre 2017, n. 26206, in Foro it., 2018, 214 ss., con nota di X. XXXXX – X. XXXXXXXXX,
Recesso, risoluzione e precedente tricolore, esaminata infra, al cap. II, par. 5.4.2.
la fattispecie che ci interessa, la giurisprudenza riteneva che la parte potesse «ri- nunciare» alla risoluzione per diffida ad adempiere e recedere ritenendo la capar- ra.
Ebbene, le Sezioni Unite avevano inteso mettere un punto fermo nella ma- teria e avevano escluso, in via generale, la rinunciabilità della risoluzione enun- ciando, tra i vari corollari della decisione, anche il divieto di domandare l’accertamento del recesso da un contratto già risolto.
La vicenda giurisprudenziale sollecita, ancora oggi, molti interrogativi: perché, per decenni, la giurisprudenza ha ritenuto che la parte potesse «rinuncia- re» alla risoluzione? Quali erano gli interessi che i giudici intendevano tutelare con questa regola? E inoltre, tornando alla fattispecie del recesso ex art. 1385 cod. civ. dopo la risoluzione per diffida ad adempiere, la soluzione delle Sezioni Unite può dirsi opportuna oppure è una conseguenza rigorosamente deduttiva di una re- gola — l’irrinunciabilità della risoluzione — enunciata dalla Corte pensando, principalmente, a casi differenti? Questa seconda ipotesi sarebbe confermata dal fatto che la Corte stessa, appena interrogata sul problema specifico, è tornata sui propri passi. L’impressione è ancora quella di trovarsi di fronte a due regole giuri- sprudenziali di carattere generale, la «rinunciabilità» e l’«irrinunciabilità» della ri- soluzione, nessuna delle quali sembra cogliere la molteplicità e la diversità delle fattispecie concretamente esaminate, che invece l’interprete è tenuto a ricostruire.
A ben guardare, inoltre, la questione non è molto distante dai problemi sol- levati dall’esegesi dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. La norma codificata prende in considerazione la condotta di una parte che prima manifesta disinteresse per il contratto e poi ne pretende l’esecuzione. Il contraente che «rinuncia» alla risolu- zione — e vedremo cosa ciò significhi — fa la stessa cosa. La parte che recede da un contratto già risolto pone in essere un atto che contrasta con la volontà già ma- nifestata. Sembrerebbe esservi un elemento costante: un comportamento della par- te che contraddice la condotta precedentemente tenuta ed incide sul vincolo con- trattuale, determinandone la permanente efficacia o lo scioglimento. L’interrogativo da verificare è dunque se la contraddizione, nella risoluzione per inadempimento, comporti effetti uniformi sul piano dell’efficacia o dell’inefficacia del contratto.
Per comprendere le ragioni dell’indagine occorre però riferire del terzo spunto da cui essa muove. Si è recentemente riacceso il dibattito sulla giudizialità o la stragiudizialità della risoluzione per inadempimento 4. Il dibattito è risalente, giacché si fonda sulla classica questione se la risoluzione ex art. 1453 cod. civ. consegua necessariamente a una sentenza costitutiva. La rinnovata attenzione del- la dottrina italiana al tema è sollecitata dalle due codificazioni europee di riferi- mento, il BGB e il Code civil. Entrambe, a seguito delle riforme del 2001-2002 e del 2016, prevedono oggi forme generali di risoluzione stragiudiziale per inadem- pimento, confinando apparentemente il sistema italiano in un certo isolamento. Parte della dottrina sostiene pertanto che anche nel nostro ordinamento sarebbe possibile ricondurre la risoluzione del contratto ad una manifestazione stragiudi- ziale di volontà della parte, che, di fatto, coinciderebbe con una generale figura di recesso per inadempimento.
Ma qual è il legame tra questo dibattito, dai profili sistematici, e il tema, apparentemente più esegetico-ricognitivo, della contraddizione? Il collegamento va ricercato nelle prime tesi che, nel nostro sistema, hanno connesso la risoluzione a un atto della parte anziché alla sentenza, ritenendo che la tutela dell’affidamento che ispira l’art. 1453, comma 2, cod. civ. imponesse di considerare sciolto il con- tratto per effetto della sola domanda di risoluzione o, addirittura, della sola dichia- razione della parte.
L’ipotesi che sta alla base del lavoro è, allora, che vi possa essere un filo che unisce la disciplina legislativa dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. all’imponente casistica relativa alle ipotesi in cui la parte di un contratto a presta- zioni corrispettive si avvale di una certa forma rimediale in via giudiziale o di au- totutela e poi ne invoca un’altra o si comporta come se nulla fosse stato, e che se- guendo questo filo si possa arrivare a comprendere, con maggiore chiarezza, in quali casi la risoluzione per inadempimento, nel nostro ordinamento, è necessa- riamente giudiziale — salve le forme tipiche di risoluzione di diritto — e in quali, invece, l’inefficacia del contratto non necessita di una pronuncia del giudice.
4 Ne è una dimostrazione il recente volume X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX – X. XXXXX –
X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento. Poteri del giudice e poteri delle parti, Bologna, 2018, che sarà spesso citato nel prosieguo.
Ciò premesso, si possono definire l’oggetto e la scansione dell’indagine. Lo studio, trasversale tra le varie forme di risoluzione per inadempimento, si pro- pone di esaminarle sotto uno specifico punto di vista: quello del comportamento contraddittorio nell’esercizio dei rimedi. Non si affronteranno, pertanto, se non per quanto strettamente strumentale, i presupposti della risoluzione.
Il primo capitolo, che muove dal primo dei tre spunti di riflessione, dopo una breve introduzione sullo stato dell’arte del sistema della risoluzione per ina- dempimento, è dedicato all’esegesi del secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., al duplice scopo di chiarire la portata del divieto e di comprendere come il legislato- re abbia composto gli interessi delle parti in una fattispecie tipica di contraddizio- ne.
Il secondo capitolo, che dà corpo al secondo spunto di riflessione, offrirà un’analisi casistica di fattispecie che possono ricondursi alla contraddizione nelle diverse forme di risoluzioni di diritto. Come si vedrà, si incontrerà spesso la rego- la giurisprudenziale della «rinunciabilità dell’effetto risolutivo». L’interprete, pe- rò, è tenuto ad andare oltre la massima e a verificare, caso per caso, quali siano le regole effettivamente applicate dalla giurisprudenza.
Il terzo capitolo cerca di compendiare i dati raccolti nei precedenti e di chiarire se, effettivamente, la regolamentazione legale o giurisprudenziale delle fattispecie esaminate possa interagire con il sistema della risoluzione per inadem- pimento e offrire un contributo al dibattito sulla giudizialità e la stragiudizialità della risoluzione.
Il lavoro muove da una certa precomprensione del significato dell’espressione «comportamento contraddittorio», dettata, da un lato, certamente, da una povertà di concettualizzazione, dall’altro, però, anche dall’interesse a far emergere dall’indagine se e quali fattispecie possano rientrare nella categoria. Le conclusioni, raccolte nel quarto capitolo, cercheranno di illustrare se essa si sarà rivelata di una qualche utilità e cioè se abbia permesso di selezionare fattispecie tra loro uniformi — per vicenda sostanziale e interessi coinvolti —, distinguendo- le da altre simili, e di ricondurvi conseguenze giuridiche omogenee.
L’interrogativo di fondo che si cercherà di sciogliere è se una maggiore ef- ficienza del sistema della risoluzione per inadempimento passi necessariamente
dall’accoglimento della tesi innovativa di un atto stragiudiziale atipico di risolu- zione o se le asperità della disciplina codificata possano essere smussate dal rico- noscimento di alcune regole operative concretamente applicate ed immanenti nel sistema.
Capitolo I
LA RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO NEL CODICE CIVILE E NEL CONTESTO EUROPEO: IL RUOLO DEL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE ESPRESSO DALL’ART. 1453, COMMA 2, COD. CIV.
Sezione I – Risoluzione giudiziale e stragiudiziale nel Codice civile e nel diritto europeo: il possibile ruolo del principio di non contraddizione.
SOMMARIO: 1. L’eterogeneità del modello codicistico — 2. Le tendenze europee, il contesto internazionale (cenni) e il dibattito tra giudizialità e stragiudizialità (rinvio) — 3. Il comportamento contraddittorio quale nesso tra fatto e diritto: un’ipotesi.
1. L’eterogeneità del modello codicistico.
Una delle parti di un contratto sinallagmatico non esegue, o esegue in modo inesatto, la propria prestazione, senza che ciò dipenda da impossibilità non imputabile. L’ordinamento si trova a dover prendere posizione in merito ai rimedi accordabili al contraente deluso per una patologia verificatasi nel momento dell’attuazione del rapporto contrattuale 1.
1 L’inadempimento è tradizionalmente ricondotto alle patologie del c.d. sinallagma funzionale. Tra i molti,
X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto, in Nov. Dig. it., XVI, Torino, 1969, 127. Come noto, si intende per sinallagma genetico il rapporto tra le prestazioni originariamente previsto dalle parti e considerato nella sua dimensione statica. Sono dunque patologie del sinallagma genetico le invalidità e, segnatamente, le patologie della causa. Il sinallagma funzionale è invece lo scambio nel momento della sua realizzazione, dell’esecuzione del contratto. L’inadempimento, quale patologia che si verifica in tale momento, successivo rispetto alla conclusione del contratto, dà luogo alla risolubilità, rimedio tipicamente posto a presidio della corretta esecuzione del contratto. La distinzione, classica nella civilistica italiana, è così espressa da X. XXXXXXXX, voce Contratto (dir. priv. – teoria generale), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 959 ss.: «Nel primo caso (si parla, allora di sinallagma genetico), il contratto si limita a generare e a legittimare il rapporto obbligatorio; o il rapporto di diritto reale; epperò, il fatto e il momento del suo nascere. Tale rapporto, una volta costituito, si svolge, poi, secondo i princìpi che gli sono propri; e il contratto esaurisce la propria funzione e si estingue. Nel secondo (sinallagma funzionale), il contratto permane in vigore, pur dopo la costituzione del rapporto, per disciplinarne o il nesso di corrispettività e di interdipendenza (prestazione e controprestazione), ovvero l’esecuzione continuata o periodica […]. In quanto sinallagma genetico, il contratto stabilisce l’interdipendenza fra le obbligazioni, al momento del suo perfezionamento; laddove, in quanto sinallagma funzionale, stabilisce tale interdipendenza, anche fra le prestazioni» (corsivi nel testo). V. da ultimo X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento. Premesse generali, in X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, La risoluzione, in Il contratto in generale, VIII**, in Tratt. Bessone, Torino, 2011, 3 ss. e spec. 5, il quale ribadisce l’inquadramento della risoluzione, secondo la sistematica ormai invalsa, tra i rimedi c.d. sinallagmatici. Contrario alla riconduzione della risoluzione a una patologia del sinallagma funzionale X. XXXXXX, Inattuazione e risoluzione: le fattispecie, in X. XXXXX (a cura di), Rimedi-2, in Trattato del contratto, diretto da X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000, 6 ss.
L’ordinamento deve esprimersi, in primo luogo, sulla possibilità per le parti di porre fine al contratto o meno: sull’an dello scioglimento del contratto, stabilendo in presenza di quali presupposti il contratto può essere sciolto o lasciando alle parti tale compito 2. Attraverso questa scelta l’ordinamento stabilisce a quali condizioni i contraenti possono essere liberati dai rispettivi obblighi e possono tornare sul mercato per collocare la propria prestazione e reperire la prestazione attesa dalla controparte 3. In secondo luogo, l’ordinamento dovrà chiarire in quale modo le parti — e soprattutto la parte delusa 4 — potranno porre fine al rapporto: il quomodo dello
scioglimento del contratto.
L’istituto cui por mente nel diritto italiano è la risoluzione per inadempimento. L’art. 1453 cod. civ., con regola apparentemente generale, pone in capo al contraente deluso — a meno che questi non intenda insistere per una, invero non sempre agevole, tutela in forma specifica sub specie di azione di adempimento 5 — la
facoltà di domandare in giudizio la risoluzione del contratto.
La norma sembra delineare in modo netto il modello della risoluzione per inadempimento accolto dall’ordinamento, risolvendo così i due quesiti sopra esposti:
2 Cfr. X. XXXXX, Concordanze e contraddizioni in tema di inadempimento contrattuale (una veduta d’insieme), in Europa e dir. priv., 2001, 144 ss.
3 ID., in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, II, in Tratt. Sacco, III ed., Torino, 2004, 613.
4 Ma non solo: la sorte del contratto non è, ovviamente, solo nelle mani di una delle parti, ma entrambe, concordemente, possono essere arbitri della sorte del contratto.
5 Sui presupposti e i limiti dell’azione di adempimento si veda X. XXXXX, I presupposti sostanziali della domanda di adempimento, Milano, 2008. Limite all’accoglimento della domanda è, principalmente, la possibilità della prestazione, come illustrato ivi, 119 ss. Non deve dimenticarsi, inoltre, che la tutela in forma specifica non pare sempre opportuna dal punto di vista economico: è spesso più agevole e meno costoso socialmente il rimedio del risarcimento del danno. Non sembra inopportuno, in tale contesto, il richiamo all’insegnamento della migliore dottrina gius-economica, che, nel distinguere tra forme di tutela riconducibili al modello delle property rules – regole di tutela in forma specifica – e a quello delle liability rules – regole di tutela, diremmo, obbligatoria – ha messo in luce come la prima forma di tutela possa talvolta risultare inefficiente e inopportuna dal punto di vista sociale. Così X. XXXXXXXXX – A.D. XXXXXXX, Property Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of The Cathedral, 85 Harv. L. Rev. 1089 1971-1972 e spec. 1110: «We should also recognize that efficiency is not the sole ground for employing liability rules rather than property rules. Just as the initial entitlement is often decided upon for distributional reasons, so too the choice of a liability rule is often made because it facilitates a combination of efficiency and distributive results which would be difficult to achieve under a property rule. As we shall see in the pollution context, use of a liability rule may allow us to accomplish a measure of redistribution that could only be attained at a prohibitive sacrifice of efficiency if we employed a corresponding property rule. More often, once a liability rule is decided upon, perhaps for efficiency reasons, it is then employed to favor distributive goals as well. Again accidents and eminent domain are good examples. In both of these areas the compensation given has clearly varied with society's distributive goals, and cannot be readily explained in terms of giving the victim, as nearly as possible, an objectively determined equivalent of the price at which he would have sold what was taken from him». Il celebre lavoro è oggi consultabile, nella traduzione italiana a cura di Xx. Xxxxx, in Riv. dir. civ., 2020, 497 ss.
quanto al primo, la parte può liberarsi dal vincolo contrattuale allorché ricorra un inadempimento di non scarsa importanza; quanto al secondo, il contratto può essere sciolto dal giudice, con sentenza costitutiva, su espressa domanda della parte delusa.
L’art. 1453 cod. civ. configurerebbe così la risoluzione come un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale 6, mentre i restanti modi di risoluzione del contratto, le risoluzioni di diritto, per quanto rilevanti dal punto di vista socio- economico, sembrerebbero collocati, nella sistematica del Codice, in subordine, quali forme derogatorie alla regola generale. La conclusione sembra avallata dall’insegnamento tradizionale che contrappone la «risoluzione giudiziale» alle singole ipotesi di «risoluzione di diritto».
Senonché tale apparente rapporto tra regola ed eccezione non riesce a dare conto compiutamente del modello di risoluzione per inadempimento accolto dal nostro ordinamento, né con riguardo ai presupposti richiesti ai fini dello scioglimento del contratto né con riguardo alle sue modalità.
Prima ancora di rivolgere l’attenzione alle norme dettate in tema di risoluzione del contratto, giova ricordare il ruolo essenziale che, nel campo delle conseguenze dell’inadempimento, può essere giocato dall’autonomia privata. L’accordo tra le parti, in particolare, può intervenire sia in un momento antecedente all’inadempimento, regolandone anticipatamente gli effetti, sia nel momento successivo, per gestirne le conseguenze.
Quanto a questo secondo caso, ad esempio, le parti possono liberamente disporre della sorte del contratto mediante il mutuo dissenso, il quale costituisce una modalità tipica di scioglimento del contratto 7, che può ovviamente trovare applicazione anche a seguito di un inadempimento. Quanto alla possibilità per le parti di prevedere e regolare ex ante gli effetti dell’inattuazione del contratto, stabilendo tanto i presupposti quanto le modalità del suo scioglimento, è ancora ad istituti tipizzati
6 L’interpretazione tradizionale riterrebbe quello previsto dall’art. 1453 cod. civ. un «diritto potestativo ad esercizio giudiziale che dà luogo necessariamente a una pronuncia costitutiva»: così I. XXXXX, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, 311. L’Autrice nega la correttezza di questa ricostruzione, come avremo modo di illustrare nel prosieguo dell’indagine.
7 Espressamente prevista dall’art. 1372 cod. civ. Il mutuo dissenso è «esso stesso un contratto: il contratto con cui le parti sciolgono un precedente contratto fra loro, liberandosi dal relativo vincolo» (X. XXXXX, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, 508, corsivi nel testo). Sul tema cfr., oltre alla classica monografia di X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, X. XXXXXXXX, Risoluzione, mutuo dissenso e tutela dei terzi, in Riv. dir. civ., 2009, spec. 208 ss.
dal legislatore, quali la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale, che si può guardare 8. Per non parlare degli strumenti atipici con cui le parti possono regolare le conseguenze dell’inadempimento in deroga al modello legale 9.
In secondo luogo, il rimedio della risoluzione per inadempimento non può certo dirsi riassunto nella regola della risoluzione giudiziale ex art. 1453 e nella formalistica riconduzione delle c.d. risoluzioni di diritto a mera deroga rispetto alla regola generale. È indubbio che il legislatore del 1942, in linea di continuità con le scelte Codice previgente, abbia inteso confermare, quanto meno programmaticamente, l’adesione allo storico modello francese. La versione originaria dell’art. 1184 del Code Napoléon, in vigore dal 1804 al 2016, disponeva difatti, con eloquenza, che, nel caso di un inadempimento tale da giustificare la risoluzione, «le contrat n’est point résolu de plein droit». Una singolare disciplina in negativo, «il contratto non si risolve automaticamente», la quale preludeva al riconoscimento del diritto della parte delusa
di domandare la risoluzione (solamente) in giudizio.
D’altro canto, il legislatore italiano aveva ben presente anche il modello tedesco, in cui lo scioglimento del contratto segue — già da prima della riforma del 2001-2002, che ha riordinato la materia — una dichiarazione unilaterale (Rücktritt) e non una sentenza costitutiva 10.
8 X. XXXXX, in X. XXXXX – X. XX XXXX, Il contratto, cit., 624, parla, a proposito di clausola risolutiva espressa e di termine essenziale, di «risoluzioni automatiche», secondo le previsioni della legge contrattuale. Tali modalità di risoluzione si contrapporrebbero a quelle di cui agli artt. 1453 e 1454, definite
«risoluzioni volontarie», dipendenti dalla volontà, appunto, della parte insoddisfatta. La distinzione sarebbe, secondo l’Autore, più feconda di quella istituzionale tra risoluzione giudiziale e risoluzioni di diritto, che non rende la diversità degli interessi sottesi.
9 Come noto, la dottrina tendenzialmente ammette la derogabilità della disciplina codicistica della risoluzione del contratto per inadempimento sia con riguardo ai presupposti della risoluzione sia con riguardo ai suoi effetti. Cfr. sul punto X. XXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1309 ss. e X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 588 s. Quanto al primo aspetto — derogabilità dei presupposti della risoluzione —, correttamente si ricorda che lo stesso Xxxxxx prevede un istituto, la clausola risolutiva espressa, che pacificamente consente alle parti di prevedere fattispecie di inadempimento che legittimano la risoluzione anche in assenza della gravità richiesta dall’art. 1455 cod. civ. Maggiori dubbi vi sono, invece, con riguardo ai patti di irresolubilità. La soluzione maggioritaria sembra orientata ad ammetterli nei limiti dell’art. 1229 cod. civ. Sul punto, v. per tutti F. XXXXXXX, I patti sulla risoluzione per inadempimento, Milano, 1998. Lo stesso limite varrebbe per i patti in deroga agli effetti della risoluzione: in particolare alla sua retroattività inter partes. Così X. XXXXXXXX, voce Risoluzione, cit., 1311.
10 Per un primo inquadramento dei differenti modelli di risoluzione per inadempimento si xxxxxx X. XXXXXXXXX, La risoluzione del contratto nella prospettiva storico-dogmatica: dalla nullità ex tunc al rapporto di liquidazione contrattuale, in Europa e dir. priv., 2001, 825 ss.; A. DI MAJO, Recesso e risoluzione del contratto nella riforma dello Schuldrecht: al di là dell’inadempimento colpevole, in Europa e dir. priv., 2004, 13 ss.; X. XXXXXXXXX, Il giudice e la risoluzione del contratto nell’esperienza italiana e nella prospettiva europea, in Studium iuris, 2006, 537 ss. Al tema sarà dedicato il par. 4.2 del cap. III.
Tali influenze hanno concorso alla realizzazione di un sistema composito sin dalla sua parte generale 11, in cui alla previsione di una risoluzione di regola giudiziale si contrappone, nella norma subito successiva, un rimedio stragiudiziale di portata tendenzialmente generale 12 quale la diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 cod. civ. Non solo. La disciplina della risoluzione per inadempimento non può dirsi confinata ai — pur eterogenei — strumenti di parte generale 13. Le regole sui singoli contratti prevedono modalità di scioglimento differenti, alternative o esclusive rispetto a quelle generali: basti pensare alla revoca del mandato o al recesso come strumento
d’impugnativa contrattuale 14.
La diversità di soluzioni rinvenibili nel Codice è giustificata dal ruolo svolto dalla risoluzione per inadempimento nell’economia dei rimedi contrattuali: essa mira primariamente a una sicura e definitiva liberazione da un contratto non più proseguibile 15.
È quindi comprensibile un sistema che, per meglio realizzare la finalità descritta, tenga conto delle differenti variabili in gioco, individuabili, in via di prima approssimazione:
11 Cfr. da ultimo X. XXXX, Di alcune aporie nel sistema codicistico della risoluzione, in Riv. dir. civ., 2018, spec. 1157.
12 Diciamo tendenzialmente per questa ragione: la diffida ad adempiere è rimedio che sembra ben adattarsi alle fattispecie dell’adempimento inesatto o del ritardo, non, invece, all’inadempimento definitivo. Lo nota, recentemente, X. XXXX, Di alcune aporie, cit., 1155: il termine, di regola non inferiore a quindici giorni, che dev’essere concesso al debitore inadempiente, mal si concilia con l’ipotesi in cui l’adempimento sia divenuto impossibile o in cui l’inadempimento debba considerarsi definitivo per la perdita di interesse alla prestazione da parte del creditore. Cenni al problema infra, al cap. II, par. 2.1 e amplius al cap. III, par. 6.2. 13 Del resto, come insegna G. DE NOVA, Recesso e risoluzione nei contratti. Appunti da una ricerca, in ID. (a cura di), Recesso e risoluzione nei contratti, Milano, 1994, 1: «la disciplina della risoluzione è quella, all’interno della disciplina del contratto in genere, che trova più spesso deroghe e specificazioni nella disciplina dei singoli contratti».
14 Quella impugnativa è una delle funzioni tradizionalmente riconosciute al recesso. Cfr. sul punto X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, voce Recesso (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, spec. 32 ss. Allo stesso modo G. DE NOVA, Recesso e risoluzione, cit., 9. In questa prospettiva il recesso svolgerebbe la funzione di rimedio contro patologie negoziali originarie o sopravvenute, in parallelo, rispettivamente, all’annullamento o alla risoluzione del contratto. Con particolare riguardo a quest’ultimo aspetto, giova infine ricordare che la parte generale del diritto dei contratti prevede una forma di recesso pacificamente ritenuta un rimedio contro l’inadempimento omogeneo alla risoluzione: il recesso dal contratto in presenza di una caparra confirmatoria, ex art. 1385 cod. civ. Sul tema, da ultimo, X. XXXXXX, Il concorso tra il potere di recesso riconosciuto dall’art. 1385, comma 2, c.c. e l’azione costitutiva di risoluzione del contratto per inadempimento, in X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX – X. XXXXX – X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento. Poteri del giudice e poteri delle parti, Bologna, 2018, 271 ss. Cfr. amplius infra, cap. III.
15 Questo l’insegnamento di X. XXXXX, in X. XXXXX – X. XX XXXX, Il contratto, cit., 641: «La risoluzione non è l’omaggio offerto ad una vittima per premiare la sua propria santità giuridica, ma è la liberazione offerta ad una vittima perché la controparte ha ritenuto di non adempiere. Il giudizio di risoluzione non mira ad accertare chi è più inadempiente; mira ad accertare che la parte è inadempiente» (corsivi nel testo).
(i) nella tipologia negoziale prescelta: è razionale che la disciplina della risoluzione si adegui al singolo regolamento contrattuale 16;
(ii) nell’intensità delle relazioni inter partes: vi sono contratti caratterizzati da un intenso intuitus personae o inseriti in una più ampia relazione 17, in cui il venir meno del vincolo contrattuale può avere gravi ripercussioni sugli investimenti specifici sostenuti, sicché i migliori arbitri della sorte del contratto saranno le parti stesse piuttosto che il giudice; mentre vi sono contratti in cui gli interessi delle parti si presentano più standardizzati e possono dar luogo a pronunce giudiziali prevedibili e controllabili;
(iii) nella natura della prestazione dedotta in contratto: vi sono prestazioni degne di particolare interesse, sulla cui ripetizione o attribuzione è ragionevole attendersi una controversia che merita una decisione giudiziale; mentre vi sono contratti con prestazioni scarsamente significative, facilmente reperibili sul mercato, rispetto ai quali rileverà una pronta e certa risoluzione che consenta alle parti di procurarsi il bene della vita atteso sul mercato nel più breve tempo possibile 18;
(iv) nelle pretese collaterali rispetto alla risoluzione del rapporto: vi sono casi in cui la risoluzione si accompagna a pretese risarcitorie o restitutorie; altri casi in cui l’interesse delle parti è esclusivamente incentrato sulla cessazione degli effetti del contratto 19.
Non si devono perdere di vista, inoltre, alcuni valori fondanti del diritto contrattuale, quali l’affidamento, la forza di legge del contratto, la certezza del diritto, che indicano interessi di portata generale che l’interprete è sempre tenuto a compendiare attentamente.
16 G. DE NOVA, Recesso e risoluzione, cit., 3.
17 La dottrina statunitense ha coniato, in proposito, la categoria dei relational contracts, la cui teorizzazione si deve a Xxx Xxxxxxx. Cfr. I. XXXXXXX, The Many Futures of Contract, 47 S. Cal. L. Rev. 691 (1974). Nella dottrina italiana la categoria è stata studiata, da ultimo, da X. XXXXXXXXXXX, Contratti relazionali e tutela del rapporto di durata, Milano, 2018.
18 Sul tema sono particolarmente interessanti le osservazioni di X. XXXXX, Giudizialità e stragiudizialità della risoluzione per inadempimento: la forza del fatto, in X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX – X. XXXXX – X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento, cit., 13 ss., su cui avremo modo di tornare infra, sezione II, par. 4.3.
19 Cfr. X. XXXXXXXXX, L’ambiente della risoluzione per inadempimento, ivi, 174.
2. Le tendenze europee, il contesto internazionale (cenni) e il dibattito tra giudizialità e stragiudizialità (rinvio).
Dal quadro appena tratteggiato emergono scelte di fondo non univoche da parte del legislatore italiano, specialmente quanto all’alternativa tra giudizialità e stragiudizialità della risoluzione, mentre la linea di tendenza riscontrabile a livello internazionale sembra progressivamente allontanarsi con decisione dalla forma giudiziale.
Negli ultimi anni, il modello della risoluzione giudiziale di stampo francese è parso difatti recessivo rispetto al modello negoziale tedesco. Le ragioni, in via di prima approssimazione, sembrano rintracciabili nella maggior snellezza generalmente ricondotta alla risoluzione stragiudiziale, che eviterebbe alle parti le lungaggini e l’alea del processo. Si avrà modo di tornare successivamente sul tema 20, ma sin d’ora si può osservare la distanza tra i modelli. Tanto era perentorio il Code civil, nella sua formulazione originaria, nel precludere la possibilità di una risoluzione stragiudiziale, quanto perentorio è il § 349 BGB, immodificato rispetto al testo del 1900, secondo cui
«Der Rücktritt erfolgt durch Erklärung gegenüber dem anderen Teil»: è la dichiarazione della parte a sciogliere il contratto.
La consacrazione di questo secondo modello è stata sancita dalla riforma apportata nel 2016 proprio al Code civil, che ha fatto della risoluzione stragiudiziale la regola proprio là dove la giudizialità era enfaticamente proclamata sin dall’inizio del XIX secolo. La riforma, attuata con l’Ordonnance 2016-131, non è evidentemente il frutto dell’arbitrio del legislatore, ma è — come si dirà 21 — il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale che aveva progressivamente eroso la regola della necessaria giudizialità della risoluzione per inadempimento 22.
Oggi, con una formulazione certamente prudente ma di evidente novità, l’art. 1226 del Code civil prevede che il contraente deluso possa, a suo rischio e pericolo, risolvere il contratto mediante notification, mettendo preventivamente in mora, salvo
20 Per cenni ai modelli tedesco e francese v. infra, cap. III, par. 4.2; per una critica alla tesi secondo cui la risoluzione stragiudiziale sarebbe fonte di minore incertezza v. ivi, par. 6.1.
21 Infra, cap. III, par. 4.2.2.1.
22 Sulla riforma del Code civil in tema di risoluzione per inadempimento possono richiamarsi sin d’ora X. XXXXXXXXX, La nuova résolution du contrat pour inexécution, ovvero come aggiornare la tradizione, in Riv. dir. civ., 2017, 1539 ss.; ID., L’ambiente della risoluzione per inadempimento, cit.
urgenza, il debitore, e assegnandogli un termine ragionevole per adempiere. Solo se allo scadere del termine l’inadempimento persiste il contratto può essere sciolto.
Il controllo giudiziale è meramente eventuale e può essere sollecitato dalla parte asseritamente inadempiente che contesti la sussistenza dei presupposti della risoluzione.
La riforma del codice francese è però il culmine di una più ampia corrente internazionale che ha progressivamente condiviso il modello stragiudiziale.
Così, le codificazioni di diritto contrattuale uniforme, quali i Principles of European Contract Law (PECL) 23 e i Principles redatti da Unidroit, condividono la regola della risoluzione stragiudiziale. In entrambi i testi si prevede che la parte delusa possa sciogliere il contratto tramite una notice of termination 24, la quale, come disposto anche dal nuovo art. 1226 del Code civil, deve essere preceduta dall’intimazione ad adempiere entro un reasonable time, pena l’inefficacia dell’atto risolutivo.
Simile soluzione è stata adottata anche dal Draft Common Frame of Reference
(DCFR) 25.
La regola della stragiudizialità aveva già, però, autorevoli antecedenti di diritto positivo. È il caso della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose
23 Sui quali v., recentemente, P. SIRENA, La scelta dei Principles of European Contract Law (PECL) come legge applicabile al contratto, in Riv. dir. civ., 2019, 609 ss.
24 Quanto ai PECL, l’art. 9:303, rubricato Notice of termination, dispone che «(1) A party's right to terminate the contract is to be exercised by notice to the other party. (2) The aggrieved party loses its right to terminate the contract unless it gives notice within a reasonable time after it has or ought to have become aware of the non-performance. (3) (a) When performance has not been tendered by the time it was due, the aggrieved party need not give notice of termination before a tender has been made. If a tender is later made it loses its right to terminate if it does not give such notice within a reasonable time after it has or ought to have become aware of the tender. (b) If, however, the aggrieved party knows or has reason to know that the other party still intends to tender within a reasonable time, and the aggrieved party unreasonably fails to notify the other party that it will not accept performance, it loses its right to terminate if the other party in fact tenders within a reasonable time. (4) If a party is excused under Article 8:108 through an impediment which is total and permanent, the contract is terminated automatically and without notice at the time the impediment arises». Per quanto riguarda i Principles Unidroit, nella più recente versione del 2016, l’art. 7.3.2, anch’esso rubricato Notice of termination, prevede che «(1) The right of a party to terminate the contract is exercised by notice to the other party. (2) If performance has been offered late or otherwise does not conform to the contract the aggrieved party will lose its right to terminate the contract unless it gives notice to the other party within a reasonable time after it has or ought to have become aware of the offer or of the nonconforming performance».
25 In caso di «non-performance», ai sensi del par. 3:507 «(1) A right to terminate under this Section is exercised by notice to the debtor. (2) Where a notice under III. – 3:503 (Termination after notice fixing additional time for performance) provides for automatic termination if the debtor does not perform within the period fixed by the notice, termination takes effect after that period or a reasonable length of time from the giving of notice (whichever is longer) without further notice».
mobili del 1980, la quale, all’art. 49, consente al compratore di dichiarare risolto il contratto in caso di inadempimento di un’obbligazione essenziale da parte del venditore o in alcuni casi di ritardo nella consegna, anche qui previa concessione di un termine ragionevole, e, all’art. 64, prevede un analogo rimedio in favore del venditore.
La tendenza qui solo accennata permette di affrontare con maggior consapevolezza l’indagine sul sistema italiano, almeno in due direzioni.
Sotto un primo aspetto, l’evoluzione cui si è fatto cenno ha avuto un’eco significativa nella dottrina italiana, la quale, rispolverando spunti più risalenti 26, ha dato luogo a un vivace e moderno dibattito sull’alternativa tra giudizialità e stragiudizialità della risoluzione per inadempimento, su cui si tornerà più avanti 27. Quel che ora preme osservare, su un secondo e più generale piano, è che il dibattito su giudizialità e stragiudizialità della risoluzione, così come il progressivo allineamento di codificazioni uniformi e diritti nazionali verso un modello anziché verso l’altro, portano al centro del dibattito sulla dinamica della risoluzione per inadempimento gli interessi sostanziali delle parti e tendono a svalutare ogni formalismo, in ossequio a una maggior funzionalizzazione, o effettività 28, del rimedio. Se si vuole studiare la risoluzione per inadempimento al giorno d’oggi, quindi, non si può prescindere dall’indagare il rapporto tra le soluzioni giuridiche e i loro effetti sulla realtà socio- economica.
3. Il comportamento contraddittorio quale nesso tra fatto e diritto: un’ipotesi.
In una riflessione de iure condito non indifferente agli ultimi sviluppi cui si è fatto cenno, sorge l’esigenza di leggere il complesso modello della risoluzione per inadempimento del Codice civile rifuggendo, al tempo stesso, da un eccessivo formalismo, da un lato, e, dall’altro, dalla sovrapposizione di categorie, quali la giudizialità e la stragiudizialità, agli istituti di diritto positivo e alle regole operative effettivamente applicate.
26 Provenienti da quegli Autori che, nell’esegesi delle norme sulla risoluzione per inadempimento, hanno dato particolare rilievo alla manifestazione di volontà di risolvere il contratto e ai suoi effetti, contestando, in modo più o meno radicale, la necessità del giudizio di risoluzione e la costitutività della sentenza. È il caso, tra gli altri, di X. XXXXX, in X. XXXXX – X. XX XXXX, Il contratto, cit., 646 ss.; X. XXXXXXXX DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento e potestà del giudice, in Riv. dir. civ., 1964, 28 ss.; I. XXXXX, Le azioni di impugnativa negoziale, cit., 348 ss.
27 Infra, cap. III, parr. 4 ss.
28 X. XXXXXXX, voce Effettività delle tutele (diritto civile), in Enc. dir., Annali, X, Milano, 2017, 381 ss.
Occorre allora partire dal dato che le attuali tendenze normative e il dibattito dottrinale portano a valorizzare: il «fatto», la realtà degli interessi e della condotta delle parti quale criterio di selezione di un sistema o di un altro.
I contratti — lo si è già osservato — sono diversissimi di fronte alla risoluzione per inadempimento. Vi sono rapporti contrattuali che, una volta che si è giunti allo scontro, sono irrimediabilmente compromessi. Ciò può accadere perché la prosecuzione del rapporto richiede una particolare relazione fiduciaria tra le parti ed è dunque incompatibile con la lite oppure, tutto all’inverso, perché oggetto del contratto sono prestazioni perfettamente fungibili, facilmente rinvenibili altrove appena sciolto il contratto. Vi sono, viceversa, contratti da cui non è facile uscire, perché i legami tra le parti sono particolarmente intensi.
Ciò ha indubbie influenze sulla dinamica della risoluzione da inadempimento, che in alcuni casi potrebbe condurre agevolmente allo scioglimento consensuale o unilaterale del contratto, mentre altre volte può richiedere valutazioni delicate, da delegare necessariamente al giudice.
Su questo sfondo si inserisce la presente indagine, che ha ad oggetto uno specifico fatto: il comportamento 29 contraddittorio tenuto da una parte nella dinamica conflittuale della risoluzione per inadempimento, consistente, ad esempio, nella domanda di risoluzione del contratto seguita da una domanda di adempimento, nella revoca della diffida ad adempiere, nella reiterazione della diffida stessa una volta già scaduto il termine per l’adempimento, nel recesso dal contratto con ritenuta della caparra confirmatoria dopo l’esercizio giudiziale della domanda di risoluzione ordinaria, e così via.
La parte manifesta l’interesse allo scioglimento del contratto, ma poi si comporta come se questo fosse ancora vincolante; la parte invia una diffida ad adempiere entro quindici giorni, trascorsi i quali il contratto si intenderà risolto, ma poi, scaduto il termine, invia un’altra diffida, concedendo un ulteriore termine e
29 Secondo l’accezione accolta dal linguaggio giuridico, specialmente alla luce dell’insegnamento di X. XXXXXX, voce Comportamento, in ID., Voci di teoria generale del diritto, III ed., Milano, 1985, 709 ss. L’Autore definisce il comportamento come «ogni atteggiamento fisico del soggetto, in quanto non è fisicamente necessitato dalla realtà esterna ed eventualmente in quanto ha il potere di necessitare la realtà esterna» (ivi, 773). La categoria è ricompresa in quella del fatto umano, ma si presta a ricomprendere altro che non sia un atto giuridico (rientrante tra i comportamenti c.d. «manifestativi»). Sul punto v. amplius infra, cap. IV, par. 2.
dimostrando, così, di nutrire ancora interesse all’adempimento da parte del debitore; la parte tollera i ritardi della controparte, finché, un giorno, decide che il minimo ritardo dovrebbe giustificare la risoluzione. I casi sono molteplici, tutti accomunati dall’utilizzo di istituti tipici in un contesto atipico.
Il comportamento contraddittorio e la sua eventuale rilevanza dovrebbero appunto condurre l’interprete a misurarsi con il fatto, contestualizzando il comportamento all’interno del singolo contratto, della singola relazione economica, degli interessi concreti delle parti, senza però dimenticare il contesto normativo, fatto di esigenze di certezza e di interessi protetti. Ciò in un’ottica trasversale, che non guardi al singolo istituto, ma cerchi soluzioni univoche per le diverse modalità di risoluzione per inadempimento, secondo il monito di autorevole dottrina 30.
Si cercherà perciò, in primo luogo, di comprendere in quale modo i comportamenti contraddittori sono valutati nel sistema positivo della risoluzione per inadempimento e se dalle singole fattispecie individuate possa trarsi una regola comune; in secondo luogo, di verificare se e come l’eventuale rilevanza del comportamento contraddittorio incida sulla costruzione teorica della risoluzione per inadempimento e sulla distinzione tra giudizialità e stragiudizialità; infine, di evidenziare, su un piano più generale, quali interessi appaiano tutelati nel nostro ordinamento e di comprendere se essi possano portare a una lettura unitaria del sistema della risoluzione per inadempimento che prescinda dalle dicotomie teoriche.
Punto di partenza è una norma di controversa interpretazione che sembra espressamente considerare il comportamento contraddittorio nell’ambito della risoluzione per inadempimento: l’art. 1453, comma 2, cod. civ., che preclude al contraente che abbia domandato la risoluzione del contratto di chiederne successivamente l’adempimento. Occorre dunque chiarire il significato della norma e il suo campo di applicazione, individuando il bilanciamento di interessi operato dal legislatore per saggiarne la riproducibilità nei casi non regolati 31.
30 X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, in Contratto e impr., 1991, 67 s.
31 Sembra cogliere nel segno l’osservazione di chi sottolinea l’importante valore sistematico della norma. Così X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982, 305: «La rigorosa disciplina dello jus variandi, disposta dal II co. dell’art. 1453 del codice vigente non è un momento isolato; al contrario è espressione della armonica evoluzione storica dell’istituto della risoluzione, tendente da una parte alla erosione dell’area giudiziale con l’ampliamento delle ipotesi di scioglimento del rapporto sulla base della
Sezione II – La preclusione di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. e il suo ruolo nel sistema.
SOMMARIO: 1. L’origine e la ratio storica della preclusione. — 2. Gli interessi in gioco e i problemi. — 3. L’efficacia endoprocessuale della preclusione. — 3.1. La preclusione e la sua assolutezza — 3.2. Il possibile rilievo delle condotte e delle difese del debitore. — 3.3. Conclusioni. — 4. L’efficacia extraprocessuale e sostanziale della preclusione. — 4.1. Una prima tesi: la domanda di risoluzione estingue il diritto di chiedere l’adempimento. L’aporia dei
«contratti giuridicamente morti». — 4.2. Le tesi restrittive e la relativizzazione della preclusione.
— 4.2.1. L’«interesse» del creditore nella giurisprudenza: imprecisioni di una massima pragmatica. — 4.2.2. Le singole fattispecie: rigetto in rito della domanda di risoluzione; estinzione del primo processo per inattività delle parti; rigetto nel merito; estinzione del processo per rinuncia agli atti. L’ammissibilità della domanda di adempimento in caso di rigetto determinato dalle difese del debitore. — 4.3. Una valutazione della soluzione dal punto di vista economico, alla luce del principio di effettività. — 4.4. Conclusioni: la natura anche sostanziale del divieto, la sua portata e la persistente lacuna dei «contratti morti». — 5. La natura giuridica del divieto: la domanda di risoluzione come «atto responsabile». — 5.1. Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ., la rinuncia tacita e gli atti non negoziali che comportano la perdita del diritto. — 5.2. La domanda di risoluzione come «opzione». — 5.3. La domanda di risoluzione come atto responsabile e il disvalore della successiva domanda di adempimento: un’epifania del divieto di venire contro il fatto proprio? — 5.4. Conseguenze applicative: la flessibilità del divieto. — 6. Il ruolo della preclusione nel sistema. — 6.1. Un indice testuale: la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 1492 cod. civ. — 6.2. Il bilanciamento degli interessi operato dal legislatore e la sua estensibilità.
1. L’origine e la ratio storica della preclusione.
In caso di inadempimento di un contratto sinallagmatico, l’ordinamento italiano consente alla parte non inadempiente di provocarne la risoluzione o di insistere per l’adempimento. Qual è il rapporto tra i due rimedi? Ha una qualche rilevanza per il diritto la scelta compiuta dal contraente deluso? Può questi tornare sui suoi passi e
semplice iniziativa della parte interessata; dall’altra, nella risoluzione giudiziale, a dare il massimo risalto al momento della domanda, e cioè all’atto di esercizio del diritto».
domandare, in un momento successivo, una tutela diversa da quella richiesta originariamente: in una parola, contraddirsi?
L’art. 1165 del Codice civile del 1865 disponeva, al secondo comma, che «[l]a parte, verso cui non fu eseguita l’obbligazione, ha la scelta o di costringere l’altra all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi». La norma poneva su un piano di perfetta alternatività i due rimedi.
Nel silenzio della legge, il problema della possibilità del mutamento della domanda da parte del contraente non inadempiente era ben conosciuto dalla dottrina ed era risolto, quasi unanimemente, nel senso della piena intercambiabilità delle domande: la parte delusa poteva sempre domandare la risoluzione anche se aveva precedentemente chiesto l’adempimento e poteva pretendere l’adempimento anche una volta domandata la risoluzione 32.
Xxxxxx, pur nell’identità delle soluzioni, la questione era affrontata scindendo il problema in due interrogativi. Il primo, circa la possibilità di chiedere la risoluzione dopo la domanda di adempimento, non dava adito ad alcun dubbio 33.
Diverso il discorso per il secondo interrogativo: quello circa la possibilità di chiedere l’adempimento dopo la domanda di risoluzione. La soluzione positiva anche a questo quesito rispondeva alla concezione della risoluzione per inadempimento come rimedio posto essenzialmente nell’interesse del creditore della prestazione inadempiuta, che sarebbe stato frustrato se, venuti meno i presupposti per l’accoglimento di una delle due pretese — indipendentemente da quale essa fosse —, l’altra via gli fosse stata preclusa 34.
32 Sul punto sembra sufficiente il richiamo alla ricostruzione di G.G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 459 ss., il quale riferisce del sostanziale accordo della dottrina, fatta eccezione per l’autorevole opinione di Xxxx. Cfr., più di recente, X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, I, Milano, 1995, 437 ss.
33 Difatti G.G. XXXXXXX, La risoluzione, cit., 459 afferma che «La soluzione è intuitiva per quanto si riferisce al passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione».
34 ID., La risoluzione, cit., 462 s.: «se la domanda di risoluzione precludesse la domanda di esecuzione specifica o del risarcimento del danno, si toglierebbe al creditore la possibilità di servirsi del mezzo, che in un determinato momento meglio soddisfa il suo interesse (si pensi all’ipotesi, in cui, durante le more del giudizio di risoluzione sia diventata possibile, diversamente che dall’inizio, l’esecuzione specifica), frustrando così lo stesso scopo per cui è stata introdotta la risoluzione, quello della massima possibile coincidenza tra l’interesse riconosciuto legislativamente e l’interesse tutelato giudiziariamente». Nel pensiero dell’Autore la soluzione, pur condivisa dalla maggioranza della dottrina del tempo, si inscrive
Non mancavano tuttavia, già sotto il vigore del Codice del 1865, voci dissenzienti, ancorché minoritarie, in merito alla facoltà accordata al creditore di chiedere l’adempimento una volta domandata la risoluzione. Xxxxxx Xxxxxxx, in particolare, scriveva che «la parte adempiente che ha chiesto giudizialmente la risoluzione, non può sostituirvi la domanda di esecuzione» 35 e giustificava così la soluzione: «[e]sercitato il diritto di scelta nella forma concreta e specifica di una domanda giudiziale, scartato il diritto principale all’esecuzione, essa ha assolto il debitore inadempiente dall’obbligo della prestazione contrattuale. Qui il cambiamento è incompatibile colla via già scelta. Il debitore che appunto per ciò ha disposto della cosa apprestata per la consegna e rifiutata dal creditore; che avrà lasciato trascorrere la buona occasione per procurarsela, non può più essere richiesto dell’esecuzione che lo metterebbe in una posizione difficile pel cambiamento della domanda». È netta la diversità di prospettiva, decisamente attenta anche agli interessi del debitore e orientata alle pragmatiche esigenze della produzione e del commercio anziché alla pretesa sanzionatoria nei confronti della parte inadempiente.
La tesi ha trovato pieno accoglimento nel Codice vigente, il quale — si accennava — al secondo comma dell’art. 1453, dopo aver ribadito che al contraente deluso spettano, in via alternativa, il rimedio della risoluzione del contratto e l’azione per l’esecuzione in forma specifica, dispone che «[l]a risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione» e, specularmente, al terzo comma preclude alla parte inadempiente di eseguire la propria prestazione dalla data della domanda di risoluzione 36.
nella peculiare concezione della risoluzione per inadempimento come sanzione della condotta dell’inadempiente.
35 C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, IV, Milano, 1935, rist. anastatica a cura di X. Xxxx-X. Xxxxxxxx-F. d’Xxxxxxxxxx, 114, n. 1626.
36 La letteratura sul tema consiste in alcuni contributi specificamente dedicati all’esegesi della norma e nei passaggi ad essa riservati nelle opere sulla risoluzione per inadempimento o sul contratto in generale. Tra i primi: X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit.; X. XXXXXXXXXX, Divieto di proporre domanda di adempimento una volta chiesta la risoluzione: la Cassazione opera il regolamento di confini, nota a Cass., 27 dicembre 2010, n. 26152, in Corr. giur., 2011, 1598 ss.; X. XXXXXXXXX, Domanda di adempimento dopo quella di risoluzione: divieto assoluto o relativo?, nota a Cass., 11 maggio 1996, n. 4444, in Corr. giur., 1996, 898 ss.; G.V. FACCIOLI, Risoluzione per inadempimento ex art. 1453, commi 1 e 2, c.c. ed arbitrato: una stupefacente ma coerente decisione della Suprema Corte, nota a Cass., 26 marzo 2003, n. 4463, in Corr. giur., 2005, 58 ss.; X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, in Contratto e impr., 1991, 61 ss.; X. XXXXXXXX DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento e potestà del giudice, in Riv. dir. civ., 1964, 28 ss.; X. XXXXXXXXXXX, Sul mutamento della domanda giudiziale ex art.
La norma rappresenta tanto una radicale evoluzione rispetto al Codice italiano previgente quanto una soluzione originale nel panorama europeo 37. La Relazione del Guardasigilli al Re giustifica la scelta normativa, secondo l’insegnamento di Xxxxxxx, concentrando l’attenzione sugli interessi del debitore inadempiente 38, ma prendendo anche una chiara posizione sul significato giuridico della domanda di risoluzione. Si legge così al n. 661: «scegliendo la risoluzione, il contraente implicitamente dichiara di non avere più interesse al contratto, e il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l’esecuzione della prestazione».
La disposizione, anzitutto, considera un comportamento non coerente da parte del contraente deluso, il quale prima mostra disinteresse per la prosecuzione dell’affare e poi invece ne esige l’attuazione. Essa mostra, più in generale, l’attenzione, da parte del legislatore, agli interessi delle parti sottesi alla dinamica della risoluzione del
1453, 2° comma c.c., nota a Cass., 11 maggio 1996, n. 4444, in Giur. it., 1996, 1149 ss.; X. XXXXXX, In tema di rapporti tra domanda di risoluzione e domanda di adempimento, nota a Xxxx., 9 giugno 1992, n. 7085, in Giust. civ., 1993, 1264 ss.; X. XXXXXXX, nota a Cass., 11 maggio 1996, n. 4444, in Contratti, 1997, 123 ss. Tra i secondi: X. XXXXXXXX, voce Risoluzione per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1335 s.; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, Padova, 2004, 238 ss.; C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, La responsabilità, II ed., Milano, 2012, 310 ss.; X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, in X. XXXXXXXX –
X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento, I, 1, in Comm. Scialoja-Branca- Xxxxxxx, Bologna-Roma, 1990, 80 ss.; ID., La risoluzione per inadempimento. Premesse generali, in X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, La risoluzione, in Il contratto in generale, VIII**, in Tratt. Bessone, Torino, 2011, 39 ss.; X. XXXXXX, sub art. 1453, in X. XXXXXXXXXX – X. XXXXXXXX (a cura di), Dei contratti in generale, in Comm. Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 2011, 400 ss.; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto, in Nov. Dig. it., XVI, Torino, 1969, 139 ss.; X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, in X. XXXXX (a cura di), Rimedi-2, in Trattato del contratto, diretto da
X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000, 225; X. XXXXX, Trattato del contratto, III, Assago, 2010, 2099 ss.; X. XXXXX, Ritardo nell’adempimento e risoluzione del contratto, Milano, 2012, 94 ss.; X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, Torino, 1958, 480 ss.; X. XXXXXXXXXXX, La risoluzione dei contratti di durata, Milano, 2006, 107 ss.; I. XXXXX, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, 350 ss.; X. XXXXX, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, 909; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, Milano, 2012, 658 ss.; X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, II, in Tratt. Xxxxx, XXX ed., Torino, 2004, 646 ss.; X. XXXXXXXXXXXX, Contratti in generale, in Tratt. Grosso- Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Milano, 1961, 265 ss.; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453- 1459, in Comm. Xxxxxxxxxxx-Xxxxxxxx, Milano, 2007, sub art. 1453, 260 ss.; X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982, 296 ss.; X. XXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in
X. XXXXXXXXX (a cura di), I contratti in generale, II, in Tratt. dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, II ed., Assago, 2006, 1739 ss.; X. XXXXXXXXX, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 63 ss.
37 Sulla novità della norma e sul dibattito che ha condotto alla sua introduzione cfr. X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione, cit., 296 s.; X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione, cit., 68. Sull’originalità della norma nel panorama europeo, anche in un contesto — quello in cui la norma è stata introdotta — ancora massicciamente ancorato alla giudizialità della risoluzione per inadempimento, cfr. X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 428, sub nota 1. Da ultimo, cfr. X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 261.
38 Da ultimo, X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 225, secondo cui nel testo del Codice vigente «le istanze di autonomia e affidamento — prima sacrificate all’esigenza di favorire l’adempimento nel corso del giudizio di risoluzione — vengono ora adeguatamente valorizzate».
contratto, che però non possono dirsi compiutamente riassunti nelle poche righe della Relazione.
2. Gli interessi in gioco e i problemi.
La Relazione evidenzia due ragioni complementari che sorreggono la preclusione: da un lato il significato, lato sensu abdicativo, attribuibile alla proposizione della domanda di risoluzione da parte del creditore e, dall’altro, l’interesse del debitore a poter confidare nella perdita d’interesse nell’esecuzione della prestazione contrattuale da parte del creditore.
In una dinamica, come quella della risoluzione per inadempimento, che vede come dominus — almeno quanto alla scelta di dar vita al procedimento e agli strumenti con cui farlo — il contraente deluso 39, la preclusione di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. è perciò norma, anzitutto, che tutela gli interessi del debitore, proteggendone l’affidamento 40.
La dottrina illustra che se la parte inadempiente, una volta che la controparte ha domandato la risoluzione, non è esposta al rischio che quest’ultima possa domandare l’adempimento in un momento successivo, potrà riorganizzare la sua attività disponendo della prestazione dovuta o reimpiegandola. Se così non fosse, il contraente inadempiente dovrebbe mantenersi pronto all’adempimento sine die, esposto, durante il giudizio di risoluzione, alla possibilità di un mutamento della domanda e, nell’eventualità in cui il giudizio si concludesse con il rigetto della domanda di risoluzione, a un successivo processo per la condanna all’adempimento 41.
39 Osserva X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione, cit., 64; «Certamente il sistema disegnato negli artt. 1453 e ss. indica che giustamente il legislatore privilegia la posizione della parte adempiente». Come vedremo, l’osservazione dell’illustre Autore prelude all’interpretazione della norma di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. come norma a favore del debitore inadempiente, che dunque bilancia gli interessi in gioco. Di qui la conclusione che gli interventi correttivi della portata del divieto, operati da giurisprudenza e dottrina, tendono a ripristinare il tendenziale favor creditoris che permea la disciplina della risoluzione per inadempimento.
40 Ancora sul punto, ex multis, X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. XXXXX, Inattuazione e risoluzione, cit., 225: «Precludendo il mutamento dell’azione di risoluzione in quella di adempimento, il codificatore del 1942 tutela l’affidamento del debitore, che in seguito alla notificazione della prima domanda agisce confidando nel disinteresse del creditore per l’esecuzione del contratto; qualora l’attore, mutando opinione, potesse chiedere l’adempimento, il convenuto sarebbe esposto alla condanna e alla successiva esecuzione forzata dopo aver operato nella ragionevole prospettiva dello scioglimento del contratto»; in tal senso anche
X. XXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 1748.
41 Tra le voci più autorevoli, cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione, cit., 140; X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63; X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81; ID., La risoluzione giudiziale, in X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, La risoluzione, cit., 75; X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit.,
Ciò è ritenuto iniquo 42, perché ingiustificatamente gravoso nei confronti del debitore, e, da un punto di vista generale, inefficiente 43, perché, di fronte a un rapporto difficilmente recuperabile 44, è generalmente preferibile che il debitore possa prontamente ricollocare la propria prestazione e che il contraente deluso sia libero di ricercare la prestazione attesa aliunde.
Si aggiunge, inoltre, che sarebbe indesiderabile che il contraente deluso potesse speculare sui mutamenti di valore della prestazione attesa, domandando opportunisticamente l’adempimento dopo avervi dimostrato disinteresse 45.
Questa la tradizionale ricostruzione della ratio della preclusione del secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., su cui vi è sostanziale concordia tra gli interpreti e continuità con gli obiettivi del legislatore del 1942.
I problemi interpretativi emergono nell’applicazione della preclusione.
Non è pienamente chiaro, anzitutto, fino a quale momento abbia effetto la preclusione: fino a quando — e, ovviamente, a quali condizioni —, cioè, possa dirsi che al contraente che ha domandato la risoluzione sia impedito di pretendere l’adempimento del contratto.
Già nel corso dello stesso processo, difatti, le difese del debitore convenuto potrebbero far sorgere un nuovo interesse alla pretesa di adempimento, in particolare qualora la parte convenuta non contestasse il rapporto contrattuale, opponendosi semplicemente alla risoluzione. È opportuno tener fede alla lettera della legge e precludere in ogni caso il mutamento della domanda? Occorre un’attenta analisi delle conseguenze, perché se si preclude il mutamento della domanda bisogna poi rispondere a un ulteriore interrogativo: se la domanda di risoluzione viene rigettata, è ammissibile la domanda di adempimento in un successivo giudizio?
650, che eloquentemente scrive: «Che si vuole, dal debitore convenuto? Che tenga pronta la prestazione promessa e, nello stesso tempo, la prestazione ricevuta e soggetta a restituzione per effetto della risoluzione? Ma ciò equivale a dire che il debitore soggiace non già ad una scelta, ma ad un cumulo di obblighi incompatibili».
42 X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81.
43 X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63.
44 X. XXXXX, Il contratto, cit. 910, osserva realisticamente che, a fronte della crisi della collaborazione prodotta dall’inadempimento, nonché della duplice preclusione di cui al comma 2 e al comma 3 dell’art. 1453 cod. civ., «un contratto che non ha più nessuna ragionevole prospettiva di essere adempiuto, sembra un contratto destinato inevitabilmente a sciogliersi», corsivo nel testo.
45 X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81; X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione, cit., 296.
Il problema dell’ammissibilità della domanda di adempimento in un separato e successivo giudizio, dopo che nel primo sia stata chiesta e non accolta la risoluzione, non riguarda, peraltro, la sola ipotesi in cui la domanda di risoluzione sia stata rigettata nel merito. Analogo interrogativo si pone nel caso in cui il primo processo si sia chiuso in rito o sia stato dichiarato estinto. Può dunque il contraente deluso, il quale, per diverse ragioni, non si è visto accogliere la domanda di risoluzione, chiedere l’adempimento in un successivo e separato processo?
Occorre sin d’ora segnalare che l’interpretazione più rigorosa, secondo cui la domanda di adempimento sarebbe preclusa tanto nel medesimo processo quanto in un processo separato, si trova a dover ammettere un’aporia del sistema: nel caso in cui la sentenza non accogliesse la domanda di risoluzione, il contratto non sarebbe risolto, ma al tempo stesso non se ne potrebbe domandare l’adempimento. Un contratto morto 46, insomma, anche se non formalmente privato dei suoi effetti.
Da tali interrogativi operativi sorge poi un quesito teorico: che natura ha, dunque, la domanda di risoluzione? Ad essa si collega una mera preclusione processuale o produce effetti sul terreno sostanziale? Occorre cioè spiegare se la domanda di risoluzione costituisce anche una rinuncia alla pretesa di adempimento o se, viceversa, è sulla domanda di adempimento che si concentra l’ordinamento, paralizzandola a certe condizioni, qualora si riveli sintomo di un’intollerabile contraddizione.
Il valore assegnato alla domanda di risoluzione conduce infine, conseguentemente, a interrogarsi sulla natura della sentenza di risoluzione. A seconda della natura giuridica della domanda — rinuncia, atto unilaterale risolutivo, semplice domanda cui l’ordinamento riconduce uno speciale effetto preclusivo — muta il ruolo della sentenza di risoluzione, con la quale il giudice si limita, secondo alcuni, ad accertare una risoluzione già avvenuta sul piano sostanziale oppure, secondo
46 Ci serviamo dell’efficace espressione utilizzata da un illustre Autore in un contesto parzialmente diverso, per identificare contratti in cui la collaborazione inter partes è irrimedabilmente compromessa e il giudizio di risoluzione diviene, a certe condizioni, superfluo (X. XXXXX, Giudizialità e stragiudizialità, cit., 23). Sul tema specifico sollevato dall’Autore si avrà modo di tornare infra, par. 4.3. L’espressione pare utile anche in questa sede, perché designa un contratto efficace, ma non azionabile, o almeno non azionabile dalla parte non inadempiente. L’aporia che sorge dall’ammettere la portata assoluta del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ. è ben nota agli interpreti. Cfr., ex multis, X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 443, secondo cui, nell’intendere la portata del divieto come assoluta «non si è poi, almeno in dottrina, stati altrettanto precisi nel descrivere costruttivamente la sorte cui soggiace il rapporto contrattuale, che appare allora sine die né risolto giudizialmente né eseguibile od azionabile in giudizio».
l’insegnamento tradizionale, con cui il giudice risolve, con effetto costitutivo, il contratto.
La risposta a tali quesiti non può essere trovata in via generale per deduzione, ma deve essere relativizzata, per essere di qualche utilità, ad alcune variabili, che tengano opportunamente conto degli interessi delle parti e delle differenti situazioni di fatto.
Un primo fattore rilevante — già vi si faceva cenno — è senza dubbio il momento in cui viene proposta la successiva domanda di adempimento. L’effettiva portata della preclusione andrà verificata prima con riguardo al suo aspetto endoprocessuale e poi rispetto alla proposizione della domanda di adempimento in un separato giudizio: i valori e gli interessi in gioco non sono necessariamente uniformi e potrebbero giustificare soluzioni anche parzialmente dissimili.
Un secondo fattore può essere rappresentato dalle condotte del debitore. Ha sempre senso precludere la domanda di adempimento, anche qualora l’inadempiente abbia manifestato interesse per il contratto o disponibilità all’esecuzione della prestazione? Anche questa variabile dovrà essere relativizzata a seconda del momento in cui potrebbe assumere rilevanza: nello stesso processo o invece in un separato processo.
Un terzo fattore è la tipologia negoziale: la stessa soluzione può dirsi utilmente applicabile a tutti i contratti?
3. L’efficacia endoprocessuale della preclusione.
3.1. La preclusione e la sua assolutezza.
Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. ha, anzitutto, una indiscussa portata processuale 47.
La parte che ha agito domandando la risoluzione del contratto non può — secondo l’esegesi maggioritaria — chiederne l’adempimento nel xxxxx xxx xxxxxxxx 00, xxxxx eccezioni.
47 Testualmente, X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63.
48 Oltre all’Autore citato alla nota precedente, cfr. anche, ex multis, X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione, cit., 140; X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81; C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, cit., 330; X. XXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 1744; X. XXXXXX, sub art. 1453, cit., 401; X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 224 ss.
Nel descrivere l’effetto ostativo alla successiva domanda di adempimento si utilizza sovente il termine «preclusione» 49. Per quanto generalmente compreso, non è ben chiaro se il termine richiami un vero e proprio istituto o abbia, invece, una portata puramente descrittiva. Non è poi chiaro se, nel caso in cui si riconosca natura di istituto alle preclusioni, il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, sia ad esso riconducibile.
Con riguardo alla configurabilità della preclusione come istituto vi è, tra la quantitativamente modesta ma autorevole dottrina che ha affrontato il tema, scarsa concordia 50.
La dottrina propensa ad ammettere la configurabilità dell’istituto limita il concetto di preclusione alla c.d. preclusione per incompatibilità, ovvero la «perdita di un potere per comportamento incompatibile del suo titolare» 51, distinguendola dalla perdita del potere per mancato esercizio entro un termine perentorio, ricondotta all’istituto della decadenza 52. Secondo la citata dottrina, l’istituto della preclusione risponderebbe ad esigenze di certezza del processo 53, cristallizzando il thema
49 A titolo esemplificativo, si veda X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 226.
50 Tra la letteratura più autorevole che ha affrontato il tema, senza pretesa di completezza, si veda, come voce favorevole alla configurazione delle preclusioni come istituto di diritto processuale X. XXXXXX, Compensazione e processo, I, Milano, 1991, 274 ss. Contrario alla configurazione di un principio di preclusione è X. XXXXXXX, voce Preclusione (principio di), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 893 ss. L’Autore si esprime in questi termini: «se l’esigenza di un ordinato svolgimento del processo è connaturata alla stessa funzione processuale, non vi [è] ragione valida per costruire — ad esprimere quell’esigenza — addirittura un principio accanto a quelli che possono caratterizzare nei vari aspetti un processo […]». A. PROTO PISANI – X. XXXXXXX XXXXXXXX, voce Preclusioni (I – Diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 2009, danno il concetto per presupposto. Questi ultimi Autori, d’altro canto, si riferiscono a quelle preclusioni che, come si vedrà a breve nel testo, sono classificate dalla dottrina come preclusioni per mancato esercizio di un potere processuale entro un certo termine perentorio.
51 X. XXXXXX, Compensazione, cit., 282.
52 Un interessante ponte tra diritto processuale e diritto sostanziale è offerto dalle preziose osservazioni di
X. XXXXXXXXX, voce Autoresponsabilità, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 463. Nel paragrafo dedicato a quelle che definisce «preclusioni processuali», l’illustre civilista riconduce la preclusione processuale — intesa esplicitamente come decadenza e anzi affiancata a livello descrittivo a tale istituto di carattere sostanziale
— al concetto di autoresponsabilità. L’Autore, in proposito, afferma che «il principio di autoresponsabilità domina la legge processuale». Come vedremo (infra, par. 5) quello di autoresponsabilità è un concetto particolarmente utile per spiegare il significato dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. e per illustrarne la portata tanto processuale quanto sostanziale.
53 X. XXXXXX, Compensazione, cit., 294. L’Autrice osserva: «è proprio nella dinamica delle relazioni processuali, infatti, che il valore della «certezza», che quest’ultima [la preclusione, n.d.r.], può, in ultima analisi, considerarsi rivolta — diversamente dalla rinuncia tacita — a tutelare, viene ad assumere un ruolo preminente». X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63 spiega la portata processuale del divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. facendo espresso riferimento al valore della certezza del rapporto processuale. Tuttavia l’Autore soggiunge che questa non è l’unica spiegazione del divieto e che — come vedremo — esso non può dirsi limitato alla vicenda processuale, ma deve avere anche una portata sostanziale.
decidendum in presenza di condotte processuali della medesima parte incompatibili tra loro 54.
Non è questa la sede per prendere posizione sulla configurabilità della preclusione come istituto. Certo è che il divieto di cui parliamo presenta notevoli affinità con i contorni del concetto così tratteggiati, che possono dunque risultare utili nella descrizione della regola in esame. Altrettanto certo è, del resto, il carattere tipico del divieto in parola, specificamente previsto dal legislatore, sicché sfuma, sul piano pratico, l’esigenza della riconduzione di tale previsione testuale a una più ampia categoria.
Sotto il profilo pratico, oltre che teorico, è invece di primaria importanza il coordinamento tra la norma in esame e le norme processuali in tema di mutamento delle domande. Ci si riferisce, in particolare, alle previsioni relative al processo ordinario di cognizione di primo grado contenute nell’art. 183, comma 5 e 6, cod. proc. civ. 55.
Come noto, nel corso della prima udienza di trattazione l’attore può, in primo luogo, proporre «le domande […] che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto». Le parti possono poi chiedere — ed è qui, in particolare, che ci si deve soffermare — di essere autorizzate dal giudice, entro il termine perentorio di trenta giorni, al deposito di una memoria per le «sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte» (art. 183, comma 6, n. 1, cod. proc. civ.).
A proposito di quest’ultima disposizione, l’insegnamento tradizionale — e consolidato, almeno formalmente, fino al notevole revirement delle Sezioni Unite del 2015 di cui si dirà a breve — è quello secondo cui dovrebbe nettamente distinguersi tra la semplice emendatio libelli, testualmente ammessa, la quale integrerebbe appunto la modifica o la precisazione delle domande già proposte, senza incidere né sul petitum
54 Interessante l’utilizzo del termine «comportamento» da parte di X. XXXXXX, Compensazione, cit., 282. Come si avrà modo di osservare, ci si servirà anche in questa sede del termine, il quale ha il pregio di abbracciare veri e propri atti giuridici — quali sono sovente quelli processuali —, ma anche meri atti materiali. Sul concetto giuridico di «comportamento» giova richiamare X. XXXXXX, voce Comportamento, in ID., Voci di teoria generale del diritto, III ed., Milano, 1985, 709 ss.
55 L’esigenza è avvertita, tra gli altri, da X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 266; X. XXXXX, Ritardo nell’adempimento, cit., 107 s.; X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 227; oltre che ovviamente da
X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., passim e spec. 456 ss.
né sulla causa petendi, e la mutatio xxxxxxx, ravvisabile qualora sia modificato uno di questi due elementi, così da configurare una nuova e inammissibile domanda 56.
Con il mutamento della domanda di risoluzione in domanda di adempimento, seguendo questa linea interpretativa, è evidente che si avrebbe una modificazione del petitum e dunque una domanda nuova, inammissibile ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. 57, sicché la domanda di adempimento sarebbe preclusa allo stesso modo tanto dalla norma generale di cui all’art. 183 cod. proc. civ. quanto, nello specifico, dall’art. 1453, comma 2, cod. civ. 58.
Senonché, alla luce della recente pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite cui si faceva cenno 59, l’esegesi dell’art. 183, comma 6, cod. proc. civ. non può arrestarsi a questo punto.
La Corte, rifiutando l’astratta contrapposizione tra mutatio libelli, sempre vietata, ed emendatio libelli, ammessa nei termini di cui all’art. 183 cod. proc. civ., ha riletto il concetto di «modificazioni delle domande» di cui all’art. 183, comma 6, n. 1, cod. proc. civ. nel senso che «[l]a vera differenza tra le domande «nuove» implicitamente vietate […] e le domande «modificate» espressamente ammesse non
56 Così, tra le molte, Xxxx., 28 gennaio 2015, n. 1585, in De Jure; Cass., 20 luglio 2012, n. 12621, ivi, secondo la quale «Si ha "mutatio libelli" quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un "petitum" diverso e più ampio oppure una "causa petendi" fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla "causa petendi", in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul "petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere».
57 Un argomento a favore della configurazione come mutatio libelli della proposizione della domanda di adempimento dopo quella di risoluzione si può trarre, a contrario, dal pacifico insegnamento giurisprudenziale secondo cui il procedimento inverso, ossia la proposizione della domanda di risoluzione successivamente a quella di adempimento, sia una mutatio libelli eccezionalmente ammessa ai sensi dell’art. 1453, comma 2, seconda parte, cod. civ. in deroga agli ordinari limiti. Così, tra le molte, Cass., 14 marzo 2013, n. 6545, in De Jure, secondo cui «Il comma 2 dell'art. 1453 c.c. deroga alle norme processuali che vietano la "mutatio libelli" nel corso del processo, nel senso di consentire la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, non già anche con quella di risarcimento del danno (fatto "salvo in ogni caso" dal comma 1). Questa ultima integra un'azione del tutto diversa per "petitum" dalle altre due, con la conseguenza che urta contro tale divieto, e quindi è inammissibile, la domanda risarcìtoria introdotta in corso di causa, in luogo di quella (iniziale) di adempimento». Conformi Cass. 23 gennaio 2012, n. 870, ivi; Cass., 27 maggio 2010, n. 13003, ivi.
58 Così X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81 e X. XXXXX, Ritardo nell’adempimento, cit., 107 s. 59 Si tratta di Xxxx., S.U., 15 giugno 2015, n. 12310, ex plurimis in Riv. dir. proc., 2016, 807 ss., con nota di X. XXXXXX, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado e in Corr. giur., 2015, 961 ss., con nota di X. XXXXXXX, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno.
sta […] nel fatto che in queste ultime le «modifiche» non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate «nuove» nel senso di «ulteriori» o «aggiuntive», trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate — eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali — o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in rapporto di alternatività».
La pronuncia, che poggia sulla preminenza dei princìpi di economia processuale ed effettività sul rigore dell’interpretazione più formalista 60, riconosce dunque apertamente che vi sono ipotesi di mutatio libelli ammessa e ipotesi di mutatio libelli vietata 61. Per essere ammissibile, la nuova domanda (o domanda modificata, ma nei suoi elementi identificativi), deve essere «alternativa» o, secondo la terminologia coniata dalla dottrina, «complanare» 62 alla domanda originaria.
La dottrina spiega il rapporto di alternatività tra le domande affermando che la domanda siccome modificata «viaggia complanarmente verso una meta sostanzialmente unitaria, seppur — come oggetto del giudicato — tutt’altro che identica, e che condivide quindi con la prima l’identità dell’episodio socio-economico di fondo […] e che assai spesso origina da concorsi di pretese ad unico petitum o […] da diversi petita conseguenti a diverse qualificazioni della causa petendi» 63.
Ora, in questo scenario più complesso, la continuità tra il divieto di cui all’art. 1453, comma 2 cod. civ. e quelli di cui all’art. 183 cod. proc. civ. deve, quanto meno, essere studiata con maggior attenzione.
Tra le due norme, come interpretate tradizionalmente, non vi è difatti discordanza e non si pongono problemi all’interprete, che potrà al più ricondurre la disposizione speciale in tema di risoluzione per inadempimento alla regola generale del Codice di procedura civile; se invece tra le due norme si ravvisassero discordanze, perché, in ipotesi, si ritenesse che, ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., come reinterpretato dalle Sezioni Unite, la domanda di adempimento proposta successivamente alla domanda di risoluzione fosse una mutatio libelli lecita, allora
60 X. XXXXXX, Ammissibilità della mutatio libelli, cit., 820.
61 X. XXXXXXX, Le S.U. aprono alle domande “complanari”, cit., 969.
62 Ibidem.
63 ID., Le S.U. aprono alle domande “complanari”, cit., 969 s. Corsivi nel testo.
l’interprete si troverebbe di fronte a un contrasto tra norme, che meriterebbe espressa soluzione. Occorre dunque capire se, nel nuovo assetto offerto dalle Sezioni Unite, la modifica dell’originaria domanda di risoluzione in domanda di adempimento costituirebbe una mutatio ammessa o vietata.
Preliminarmente — anticipando quanto si dirà a breve — si può osservare che la soluzione del problema, che pure in questa sede non potrà che essere dubitativa, è irrilevante ai fini pratici se si ritiene in ogni caso — qualunque sia il significato da attribuire all’art. 183 cod. proc. civ. — che la sola norma applicabile in caso di modifica della domanda di risoluzione in domanda di adempimento sia, in forza del principio di specialità, quella di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. Rileva invece ai fini teorici, perché la sua soluzione potrebbe corroborare — qualora si ritenesse la modifica una mutatio vietata — l’argomento secondo il quale l’art. 1453, comma 2, cod. civ. ha un significato processuale analogo a quello dell’art. 183 cod. proc. civ. e così coerente con le regole processuali generali 64 oppure privarlo di pregio.
La soluzione non pare facile. Certo, la domanda di risoluzione e quella di adempimento si pongono in rapporto di alternatività già ai sensi dell’art. 1453, comma 1, cod. civ.; inoltre poggiano sicuramente su uno stesso rapporto non solo socio- economico ma anche giuridico e pongono rimedio alla stessa fattispecie: l’inadempimento del contratto. Non può dimenticarsi, infine, che il divieto di domandare l’adempimento nello stesso processo potrebbe alimentare il contenzioso qualora, invece, si ammettesse, in alcuni casi, che la domanda sia proponibile in un successivo giudizio, dopo l’eventuale rigetto della domanda di risoluzione, giacché il contraente deluso sarebbe onerato di introdurre non uno, ma due processi. Tuttavia, vi è un elemento di discontinuità tra il caso in esame e la fattispecie decisa dalla Corte che ha dato luogo al principio di diritto. In quel caso la mutatio ritenuta ammissibile consisteva nella modifica dell’originaria domanda di tutela costitutiva ex art. 2932 cod. civ. in domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà: non vi era solo identità di rapporto sottostante, ma anche di interesse pratico tutelato. Ed è proprio sugli interessi della parte che le stesse Sezioni Unite fanno leva più volte.
Ora, la domanda di adempimento e la domanda di risoluzione chiedono tutela per la medesima situazione sostanziale, ma non mirano a realizzare lo stesso interesse.
64 X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81.
Quando la parte chiede l’adempimento, il suo interesse è quello di ricevere la prestazione, rimanendo, d’altro canto, vincolata alla controprestazione; nel secondo caso, invece, l’interesse primario dell’attore è l’uscita dal contratto, per liberarsi dal proprio obbligo e poter tornare sul mercato. Per queste ragioni può almeno dubitarsi che la modifica della domanda di risoluzione in domanda di adempimento rientri nel perimetro della mutatio ammissibile secondo i criteri enunciati dalle Sezioni Unite e, specularmente, vi sono ragioni per ritenere la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ. coerente con le regole processuali generali di cui all’art. 183 cod. proc. civ. anche come reinterpretate.
Peraltro — già vi si faceva cenno — la specialità della norma di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. e il suo tenore letterale 65, pur nella loro semplicità, paiono argomenti decisivi per affermare la tendenziale assolutezza del divieto di cambiamento della domanda nel corso del processo.
Gli argomenti di carattere sostanziale a sostegno di questa conclusione sono molteplici.
In primo luogo, ritorna, ovviamente, la ratio della norma: la tutela dell’affidamento dell’inadempiente 66.
Si aggiunge inoltre che, poiché è pacifico che il contraente deluso possa proporre, con l’atto introduttivo, la domanda di adempimento in via subordinata per il caso di rigetto della domanda di risoluzione 67, non merita tutela colui il quale, pur potendo sin da subito proporre entrambe le domande, l’una subordinata all’altra, non l’abbia fatto 68.
In sintesi, il mutamento sarebbe vietato in forza, da un lato, nel principio di affidamento, che impone di tutelare la ragionevole aspettativa del debitore, e, dall’altro, del principio di autoresponsabilità processuale, secondo il quale l’omissione colpevole del creditore deluso non deve ricadere sulla controparte.
65 X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 266; X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81.
66 V. nuovamente per tutti X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81; X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 229.
67 In dottrina, tra gli altri, X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 92; X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 64. Xx xxxxxxxx, Xxxx., 00 xxxxxxxxx 0000, x. 00000, xx Xx Xxxx; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1077, ivi.
68 X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 268.
L’esegesi, per quanto puntuale, può esporsi a un rilievo. La preclusione processuale si giustifica perché protegge interessi o valori generali, non l’interesse della singola parte. Una simile giustificazione del divieto, invece, non legittima la permanenza del divieto qualora, nel caso concreto, gli interessi particolari protetti difettino, come quando il contraente inadempiente tenga una condotta processuale dalla quale non possa desumersi il suo affidamento nello scioglimento del contratto e nella sua liberazione. Se così fosse e se la tutela dell’affidamento dell’inadempiente fosse l’unica giustificazione del divieto, esso potrebbe non trovare applicazione in tali ipotesi.
3.2. Il possibile rilievo delle condotte e delle difese del debitore.
Nel giudizio di risoluzione, il debitore convenuto può assumere diverse posizioni. La domanda di adempimento proposta dall’attore in un momento successivo rispetto alla domanda di risoluzione potrebbe essere una reazione alle difese del convenuto.
Questi può, in primo luogo, restare contumace. In tal caso, la modifica dell’originaria domanda di risoluzione in domanda di adempimento da parte del creditore della prestazione inadempiuta potrebbe essere solo l’effetto di un suo pentimento 69.
In secondo luogo, il convenuto può proporre eccezioni di rito, le quali non sembrano idonee a ingenerare un interesse dell’attore al mutamento della domanda.
Veniamo alle diverse posizioni che il convenuto può assumere sul merito.
Anzitutto il convenuto potrebbe contestare il titolo sulla cui base agisce controparte, ma qui si uscirebbe dal nostro campo d’indagine.
Incontestato il rapporto, invece, il convenuto potrebbe proporre una domanda riconvenzionale di risoluzione, in tal modo manifestando a sua volta l’intenzione di sciogliere il contratto 70.
69 Così X. XXXXXXXX, voce Risoluzione per inadempimento, cit., 1336.
70 Ciò non significa, tuttavia, che l’oggetto del processo muti da giudizio di risoluzione a giudizio di accertamento di uno scioglimento già verificatosi per mutuo dissenso. È quanto ritiene anche la giurisprudenza che pure riconduce specifici effetti caducatori alle domande di risoluzione c.d. reciproche. Così Xxxx., 19 marzo 2018, n. 6675, in De Jure: «In presenza di reciproche domande di risoluzione contrattuale fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell'altra, il giudice che accerti l'inesistenza di singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell'impossibilità dell'esecuzione del contratto per effetto della scelta di entrambi i contraenti ex art. 1453,
Il convenuto potrebbe poi difendersi contestando i presupposti della sola domanda di risarcimento del danno, qualora proposta dall’attore in cumulo con la domanda di risoluzione: ad esempio, opponendosi alla quantificazione del danno ex adverso proposta. Potrebbe, più in generale, non opporsi alla risoluzione del contratto, manifestando anche in questo caso implicita adesione alla volontà della controparte di sciogliere il contratto.
Xxxxx spesso, il debitore convenuto contesta il proprio inadempimento e chiede il rigetto tanto della domanda di risoluzione quanto di quella di adempimento. Talvolta, peraltro, essa può riguardare il solo presupposto specifico e ulteriore della domanda di risoluzione: la gravità dell’inadempimento ex art. 1455 cod. civ.
È su quest’ultima serie di fattispecie — quelle della contestazione, da parte del debitore convenuto, dei presupposti della risoluzione per inadempimento, sia che essi siano comuni alla domanda di risarcimento del danno sia che essi siano esclusivi della domanda di risoluzione — che autorevole dottrina ha concentrato la sua attenzione 71. Le posizioni espresse, in particolare, da Xxxxxxx Xxxxxxxxxx e, successivamente, da Xxxxxxx Xxxxxxx, riprese poi anche da altri autori 72, possono essere così sintetizzate: se la preclusione di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. tutela l’affidamento riposto dal convenuto nel disinteresse della controparte nei confronti del contratto, tale
comma 2, c.c. , e pronunciare comunque la risoluzione del contratto, con gli effetti di cui all' art. 1458 c.c., essendo le due contrapposte manifestazioni di volontà dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale» (conf. Cass., 3 luglio 2013, n. 16637, ivi). L’orientamento tradizionale è invece espresso dalla seguente massima, che non contiene aperture alla possibilità di una pronuncia di risoluzione ultra petita: «Il giudice, adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l’una e rigettare l’altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti» (Cass., 17 luglio 2017, n. 17665, in Corr. giur., 2018, 1378 ss., con nota di X. XXXXX, Reciproche domande di risoluzione per inadempimento e mutuo dissenso: electa una via non datur recursus ad alteram e ivi per riferimenti anche ai precedenti difformi). Sono consolidate le seguenti massime: «In tema di risoluzione del contratto, qualora siano dedotte reciproche inadempienze, la valutazione comparativa del giudice intesa ad accertare la violazione più grave, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, deve tenere conto non solo dell'elemento cronologico ma anche degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione del contratto, sicché, ove manchi la prova sulla causa effettiva e determinante della risoluzione, entrambe le domande vanno rigettate per insussistenza dei fatti costitutivi delle pretese azionate» (Cass., 18 settembre 2015, n. 18320, ivi), nonché: «in caso di contrapposte domande di risoluzione del medesimo contratto, il giudice può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare la intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti» (Cass., 25 febbraio 2014, n. 4493, in De Jure).
71 X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione, cit.; X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 456 ss.
72 X. XXXXXXXXXXX, La risoluzione, cit., 112.
affidamento non può esservi, e non merita dunque tutela, allorché, contestando i presupposti della risoluzione del contratto, il convenuto abbia chiesto il rigetto della domanda di risoluzione, non potendo così confidare nel suo scioglimento.
Le due autorevoli posizioni si mostrano, peraltro, diverse tra loro.
Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, partendo dal riconoscimento dell’assenza di un affidamento protetto in capo al convenuto qualora questi si opponga alla risoluzione, si pone, con originalità, nella prospettiva del convenuto, dalla condotta processuale del quale dipenderebbe la sopravvivenza del vincolo contrattuale. Secondo l’illustre Autore, difatti, il convenuto che si opponga alla risoluzione è tenuto a offrire l’adempimento e a provare di poter adempiere. In tal caso, il giudice deve attribuire la prestazione all’attore. Se invece non lo fa, il giudice deve pronunciare la risoluzione, anche se i presupposti per l’accoglimento della domanda difettavano nel momento dell’azione. Al centro della teoria di Xxxxxxxxxx vi è dunque, esplicitamente, un onere di coerenza in capo al debitore inadempiente che contesti la risoluzione 73: se questi lo fa potendo adempiere, allora adempia; se invece lo fa senza avere la possibilità di eseguire la sua prestazione, il contratto sarà risolto.
Xxxxxxx Xxxxxxx ha preso le mosse dalla teoria di Xxxxxxxxxx, criticandone, però, tanto la severità nei confronti del debitore, quanto la legittimità sotto il profilo processuale 74. L’illustre processualista ha tuttavia valorizzato gli spunti emersi, concludendo che, sulla base delle difese del convenuto, e segnatamente nei casi «in cui il convenuto per la risoluzione o sostenga di aver già adempiuto o sostenga di dovere e di essere in grado ancora tempestivamente di adempiere», «[l]a regola del 2° comma dell’art. 1453 deve […] cedere il passo e lasciare campo aperto alle norme processuali ordinarie sui tempi e limiti di ammissibile modificazione della domanda»
75.
La tesi, certamente suggestiva, postula, anzitutto, la disapplicazione del secondo comma dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. ogniqualvolta venga meno
73 X. XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione, cit., 70: «Tuttavia egli dovrà agire di conseguenza, non limitandosi ad opporre le suddette eccezioni di fronte alla pretesa del creditore».
74 X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 475 ss. In particolare, sotto il profilo processuale, l’Autore ricorda come l’ammissibilità dell’offerta della prestazione — di cui, secondo la ricostruzione di Xxxxxxxxxx, il convenuto è onerato — potrebbe trovare legittimità solo se proposta nelle forme di apposita domanda giudiziale.
75 Le citazioni sono di X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 458.
l’esigenza di tutela dell’affidamento del convenuto in merito alla risoluzione del contratto. In secondo luogo, essa si fonda su una lettura quanto meno liberale del sistema delle preclusioni uscito dalla modifica dell’art. 183 cod. proc. civ. ad opera della l. 26 novembre 1990, n. 353 76. L’Autore, evidentemente, era già propenso a ritenere la modifica dell’originaria domanda di risoluzione in domanda di adempimento una mutatio ammissibile. Si è già avuto modo di osservare come, anche nel sistema disegnato dalle Sezioni Unite nel 2015, la soluzione non possa dirsi certa
77.
Non mancano rilievi alle tesi esposte.
Una prima critica si fonda sul tenore dell’art. 183 cod. proc. civ. a seguito della riforma ad opera del D.L. 21 giugno 1995, n. 238, critica che resta valida anche alla luce del testo vigente, frutto della riforma del 2005. Si osserva che, anche a voler disapplicare in certe circostanze l’art. 1453, comma 2, cod. civ., persisterebbe la preclusione generale di ogni mutatio libelli 78. L’argomentazione, anteriore al revirement delle Sezioni Unite, dovrebbe essere riconsiderata alla luce della pronuncia richiamata.
Si sostiene inoltre che se la giustificazione della possibilità per l’attore di mutare la domanda giace squisitamente sul piano degli interessi sostanziali delle parti e, segnatamente, sull’interesse dell’adempiente a chiedere la prestazione qualora la controparte non si sia mostrata disinteressata al contratto, sarebbe improprio limitare poi tale potere, di carattere sostanziale, attraverso norme processuali. In altre parole, una volta scardinata la preclusione sul piano sostanziale, sarebbe contraddittorio ripristinarla sotto il profilo processuale, ritenendo applicabile l’art. 183 cod. proc. civ., pur letto in modo liberale 79. La critica non pare però decisiva, giacché, come abbiamo detto, la preclusione processuale risponde a esigenze generali di certezza, che ben potrebbero giustificare una cristallizzazione dell’oggetto del giudizio prescindendo da pur legittimi interessi sostanziali.
Un terzo rilievo mosso alle tesi esaminate poggia sul principio di parità delle armi. Come al contraente adempiente è consentito insindacabilmente di mutare la
76 Anche il testo allora vigente, difatti, prevedeva, entro la prima memoria autorizzata, il solo potere in capo alle parti di precisazione o modifica delle domande già proposte.
77 Supra, par. 3.1.
78 X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81.
79 X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 266.
domanda di adempimento in domanda di risoluzione, così dev’essere insindacabile la decisione dell’inadempiente di opporsi alla mutatio avversaria, eccependone l’illegittimità, senza che abbia rilievo la sua condotta processuale antecedente, sostanziatasi nella contestazione della domanda di risoluzione, dalla quale non può desumersi univocamente la volontà di far valere il contratto 80.
Occorre ricordare, in proposito, che il mancato rispetto del divieto di mutamento della domanda di risoluzione in domanda di adempimento dev’essere eccepito dalla controparte e non è rilevabile d’ufficio 81. Ammettere la mutatio a seguito delle difese del convenuto significa, conseguentemente, precludere a quest’ultimo di eccepire l’illegittimità della mutatio qualora con le sue difese abbia contestato i presupposti della risoluzione.
Nello stesso senso pare l’osservazione di chi ritiene non immeritevole l’interesse del convenuto che in ogni caso si opponga alla risoluzione, perché ciò integrerebbe l’esercizio di un legittimo potere processuale che può recare notevoli vantaggi empirici, come ad esempio la difesa contro la domanda di risoluzione in attesa della prescrizione del diritto all’adempimento 82.
Un ultimo ordine di considerazioni porta l’attenzione sul fatto che l’affidamento del convenuto, che pure abbia negato i presupposti per la risoluzione, sarebbe ugualmente pregiudicato ingiustificatamente da una modifica della domanda. Ciò perché — come detto — la contestazione dei presupposti della risoluzione — e, in particolare, dell’inadempimento stesso — è normalmente funzionale, al tempo stesso, al rigetto sia della domanda di risoluzione sia, soprattutto, di quella di risarcimento del danno. Il convenuto potrebbe contestare l’inadempimento allo scopo primario di ottenere il rigetto di quest’ultima domanda, pur confidando nel disinteresse dell’attore alla prestazione 83.
Sembra insomma che le argomentazioni da ultimo riportate valorizzino, sotto due diversi aspetti, la libertà del convenuto di esercitare a pieno il suo diritto di difesa nel processo, che non dovrebbe pregiudicare il suo affidamento nella volontà della controparte di risolvere il contratto.
80 X. XXXXXXXXX, La risoluzione giudiziale, cit., 81.
81 X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 64; Cass., 14 marzo 2006, n. 5460, in De Jure; Cass., 25 marzo 2004, n.
5964, in Mass. Gius. civ., 2004.
82 X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 267.
83 X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 229.
Gli argomenti, per quanto apprezzabili, scontano lo stesso limite che abbiamo rilevato quanto all’identificazione della ratio della preclusione processuale: assestandosi, come del resto gli argomenti a favore dell’ammissione della mutatio, sul solo piano degli interessi sostanziali, sembrano svalutare la speciale dinamica del processo, che richiede maggior rigore applicativo.
3.3. Conclusioni.
Nel cercare di chiarire la portata processuale del divieto di chiedere l’adempimento una volta domandata la risoluzione si è dato conto degli argomenti sia a favore dell’assolutezza della preclusione sia favorevoli a una sua relativizzazione in base alle difese svolte dal convenuto.
Non è sicuro, si è detto, se esista l’istituto processualistico delle preclusioni. È però sicura l’esigenza di certezza del rapporto processuale, che si traduce, tra l’altro, in un obbligo di coerenza in capo alle parti. Tale esigenza si riflette in una maggior celerità e in una più sicura parità delle armi e realizza dunque i princìpi costituzionali del giusto processo ex art. 111 Cost.
La spiegazione del funzionamento processuale del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. dovrebbe perciò partire da qui, servendosi degli interessi cui il concetto di preclusione rimanda — e non, necessariamente, dell’istituto in sé — 84.
Si deve dunque osservare che il legislatore ha posto una norma speciale per precludere il mutamento della domanda di risoluzione in domanda di adempimento. Tale divieto è in sostanziale continuità con le preclusioni processuali di cui all’art. 183 cod. proc. civ. e affonda su solide considerazioni di carattere sostanziale: in primis sull’esigenza di tutela dell’affidamento del convenuto inadempiente.
La lettera della norma, che non ammette eccezioni, e la sua rispondenza alle esigenze sovraindividuali di certezza del rapporto processuale inducono a svalutare — sul piano endoprocessuale — il ruolo delle difese del convenuto e i suoi effetti sull’eventuale interesse dell’attore a modificare la domanda.
Il contraente deluso, nel momento in cui agisce per la risoluzione, inquadra l’oggetto di quel processo dandogli un preciso indirizzo. È suo onere tenersi aperta la
84 Cfr. X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63.
strada della pretesa dell’adempimento, proponendo la corrispondente domanda in via subordinata. Se non lo fa, il problema si può porre, questa volta sul terreno sostanziale, nel caso di rigetto della domanda di risoluzione o di rigetto in rito o di estinzione del giudizio: rimane preclusa ulteriormente la domanda di adempimento o meno?
Sul terreno del singolo processo, però, sembra doversi dare prevalenza allo stretto dato letterale della disposizione e dunque precludere in ogni caso la modifica della domanda 85. L’accoglimento di questa interpretazione, che sembra aderente alla ratio della norma, non è privo, tuttavia, di costi per il sistema: qualora fosse ammessa, in alcuni casi, la proponibilità di un secondo processo sulla domanda di adempimento, a seguito del rigetto della domanda di risoluzione, il risultato sarebbe che la parte delusa, la quale non potrebbe mutare la domanda nel singolo processo, potrebbe invece introdurne uno nuovo, ciò che comporta un’indesiderabile moltiplicazione dei giudizi. È anche per tale ragione che — come stiamo per vedere — occorre limitare con accortezza questa facoltà della parte delusa.
4. L’efficacia extraprocessuale e sostanziale della preclusione.
4.1. Una prima tesi: la domanda di risoluzione estingue il diritto di chiedere l’adempimento. L’aporia dei «contratti giuridicamente morti».
Concluso il processo, si torna al piano sostanziale.
Se il giudice ha accolto la domanda di risoluzione, non si pongono problemi: il contratto è sciolto. Se il processo ha avuto un esito diverso occorre prestare maggiore attenzione.
Nelle more del giudizio — durante il quale, abbiamo concluso, il contraente che aveva domandato la risoluzione nel proprio atto di citazione non ha più potuto legittimamente chiedere l’adempimento — il mondo è andato avanti. La domanda di risoluzione e i suoi effetti preclusivi, tanto della successiva domanda di adempimento, ai sensi del secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., quanto della possibilità di adempiere per il convenuto, ai sensi del terzo comma, hanno paralizzato il contratto
85 Alla stessa soluzione giunge, tra gli altri sopra citati, X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 226 ss. L’argomento di maggior peso, ad avviso dell’Autore, è la tutela dell’affidamento del debitore. Si è già detto nel testo come, ad avviso di chi scrive, la giustificazione di una così ampia portata del divieto sotto il suo profilo processuale debba trovare ragione in un più generale interesse, quale quello della certezza dei rapporti processuali.
86. Difficile credere, se si guarda con realismo alla dinamica della risoluzione per inadempimento, che entrambi i contraenti abbiano mantenuto a disposizione le rispettive prestazioni e, al tempo stesso, non abbiano ricercato la prestazione attesa sul mercato 87.
Chiusa, dunque, la fase processuale, con le sue specifiche esigenze di celerità e certezza, il mancato accoglimento della domanda di risoluzione pone nuovamente le parti di fronte a un contratto in cattiva salute, ma non sciolto giudizialmente. In giurisprudenza e in dottrina si dibatte, da decenni, sulla seguente questione: se il divieto di chiedere l’adempimento una volta domandata la risoluzione valga anche una volta chiuso il processo e se quindi tale divieto abbia una portata — oltre che pacificamente processuale — anche sostanziale 88.
Un orientamento — che sul punto rivela forse eccessivo formalismo — si concentra sulla natura della sentenza di risoluzione, cui l’azione esercitata dal contraente deluso mirava. Essa è, secondo opinione pressoché unanime 89, una sentenza costitutiva. Senza una sentenza che pronunci la risoluzione il contratto è dunque efficace e il vincolo contrattuale rimane in vita 90.
86 Tale situazione economico-giuridica è ben evidenziata in X. XXXXX, Il contratto, cit., 910. L’Autore così commenta l’effetto del combinato disposto delle preclusioni di cui al secondo e al terzo comma dell’art. 1453 cod. civ.: «A questo punto l’adempimento, non potendo più essere né preteso né eseguito, ragionevolmente non avverrà più. Ma un contratto che non ha più nessuna ragionevole prospettiva di essere adempiuto, sembra un contratto destinato inevitabilmente a sciogliersi [corsivo nel testo]».
87 Tanto più se si considera che il reimpiego della prestazione destinata alla controparte inadempiente può essere ritenuta un onere della parte delusa, la quale non potrebbe ottenere, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, cod. civ., il risarcimento del danno che avrebbe potuto evitare ricollocando tempestivamente la propria prestazione sul mercato. La dottrina ritiene che la regola, di cui vi sono epifanie giurisprudenziali specialmente nel campo del reimpiego della prestazione del lavoratore subordinato, sia generalizzabile, poiché «risponde ad evidenti esigenze di efficienza che le risorse in origine destinate ad un affare non andato a buon fine vengano celermente reinserite nel circuito economico, evitando che il titolare si disinteressi alla loro sorte e speculi unicamente sulla prospettiva di ottenere un risarcimento»: così G. VILLA, Danno e risarcimento contrattuale, in X. XXXXX (a cura di), I rimedi-2, in Trattato del contratto, a cura di X. Xxxxx, X, 0, Xxxxxx, 0000, 925.
88 L’interrogativo è così posto da X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63: «Questa disposizione [l’art. 1453, comma 0, xxx. xxx., x.x.x.] xx, xx primo luogo, una portata processuale. Ci si può chiedere se abbia anche una portata di diritto sostanziale; cioè, se domandare in giudizio la risoluzione estingua il diritto all’adempimento, con la conseguenza che la relativa pretesa non possa essere fatta valere neppure in un successivo giudizio, dopo che la domanda di risoluzione sia respinta o dopo che il processo si sia estinto». 89 V. per tutti, tra le opere più recenti, X. XXXXX, Il contratto, cit., 910. La soluzione non è però pacifica. Secondo le note opinioni di X. XXXXXXXX DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento, cit., 33 e passim e di X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 646 ss., è la stessa domanda di risoluzione del contratto a provocare l’effetto risolutivo. Tali opinioni hanno aperto la strada del dibattito, oggi più che mai vivace, tra giudizialità e stragiudizialità della risoluzione per inadempimento cui già abbiamo fatto cenno e che sarà oggetto di più approfondita analisi infra, cap. III, par. 3.
90 C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, cit., 330; X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 481.
Non può negarsi però che la ratio della norma, come sopra individuata, abbia una forte connotazione sostanziale: il divieto tutela, in primo luogo, l’affidamento del convenuto.
È così diffuso l’orientamento secondo cui l’art. 1453, comma 2, cod. civ. operi anche al di fuori del singolo processo e abbia dunque una valenza sostanziale 91. Ma, se così stanno le cose — e se quindi permane, in una qualche misura, il divieto di domandare l’adempimento in capo a chi abbia chiesto la risoluzione — ci si chiede se, chiuso il giudizio senza l’accoglimento della domanda di risoluzione, il contraente deluso potrà comunque, a certe condizioni, pretendere l’adempimento del contratto o se questa strada gli è in ogni caso preclusa.
Una prima opinione, oggi minoritaria, ritiene che il divieto abbia una portata assoluta: una volta domandata la risoluzione, la pretesa dell’adempimento è definitivamente preclusa 92 in ogni caso e dunque a prescindere dall’esito del giudizio di risoluzione. Questa tesi trova la sua sintesi più espressiva nelle parole di chi scrive che «proposta la domanda di risoluzione, il debitore acquista il diritto di non adempiere» 93, offrendo una tutela particolarmente intensa del suo affidamento 94.
Parte della giurisprudenza ha condiviso tale soluzione.
Una nota e risalente sentenza della Corte di Cassazione 95 ha testualmente accolto la tesi secondo cui, proposta la domanda di risoluzione, la controparte acquisterebbe il «diritto di non adempiere», argomentando che la condotta contraddittoria dell’attore che muta l’originaria domanda di risoluzione in domanda di adempimento deve ritenersi vietata alla luce del principio di buona fede oggettiva, in quanto lesiva del legittimo affidamento del convenuto nella manifestazione di disinteresse nel contratto da parte dell’attore. Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2,
91 Ex plurimis, esplicitamente, X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63.
92 ID., Il contratto, cit., 63. Xxxxx, come si vedrà a breve, per l’Autore, l’eccezione rappresentata dal caso in cui il convenuto costituito abbia contestato l’avversaria domanda di risoluzione senza proporne una in via riconvenzionale. La medesima soluzione è raggiunta, pur con toni dubitativi («Al consenso del debitore si può forse equiparare la resistenza in giudizio del debitore convenuto in risoluzione»), da X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 650. Posizioni nette sono quelle di X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 92; X. XXXXXXXX DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento, cit.; X. XXXXXX, In tema di rapporti, cit., 1265.
93 . XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 650.
94 V. per tutti X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81.
95 Cass., 23 novembre 1979, n. 6134, in Giur. it., 1980, 559 ss.
cod. civ., posto a tutela dell’interesse del convenuto inadempiente, comporterebbe dunque l’estinzione dell’obbligazione in capo a quest’ultimo.
La tesi ha trovato adesione anche in parte della giurisprudenza più recente, tanto di legittimità 96 quanto di merito 97.
Le pronunce presentano peraltro sfumature differenti. Alcune, nel motivare la soluzione, fanno riferimento al disvalore del comportamento contraddittorio di chi prima manifesta disinteresse verso il contratto e poi chieda l’esecuzione proprio di quel contratto 98. Altre si concentrano sulla natura della domanda di risoluzione, ritenuta una rinuncia alla pretesa di adempimento 99.
Si avrà modo di tornare a breve sulla natura giuridica del divieto 100. Occorre qui osservare che, seguendo questo indirizzo, non vi sarebbe, ad ogni modo, soluzione di continuità fra la pendenza del processo e il momento successivo alla chiusura del giudizio: come la domanda di adempimento è preclusa in corso di causa, così non può essere proposta in un successivo giudizio dopo il rigetto della domanda di risoluzione. Ciò ha portato parte della dottrina a concludere che non sarebbe tanto la sentenza a produrre l’effetto risolutorio, quanto piuttosto la stessa domanda di risoluzione del contratto: chi esercita l’azione di risoluzione manifesta la volontà di sciogliersi dal vincolo come nelle fattispecie di risoluzione di diritto 101. In tal modo la preminenza degli interessi sostanziali protetti dall’art. 1453, comma 2, cod. civ. condurrebbe a un superamento della tradizionale concezione della sentenza di
risoluzione come sentenza costitutiva 102.
96 Cass., 9 giugno 1992, n. 7085, in Giust. civ., 1993, 1263 ss. con nota di X. XXXXXX, In tema di rapporti, cit.; Cass., 11 febbraio 1993, n. 1698, in De Jure. Nel contesto di una controversia più complessa, tale sembra anche l’orientamento di Cass., 14 agosto 1986, n. 5050, in Foro it., 1987, 94 ss.
97 Trib. Roma, 19 agosto 2009, in De Jure; Trib. Ascoli Xxxxxx, 17 febbraio 2007, in Rep. Foro it., 2007, voce Contratto in genere, 573. Quasi a vent’anni dalla sua pubblicazione, commentando la successiva Cass. 4444/1996, un Autore concludeva che «non sussist[o]no validi motivi per discostarsi da quanto affermato da Xxxx. 23 novembre 1979, n. 6134». Così X. XXXXXXXXX, Domanda di adempimento, cit., 900.
98 È il caso della già citata Cass. 6134/1979, cit. e di Cass., 7085/1992, cit.
99 Così Cass. 1698/1993, cit.
100 Infra, par. 5.
000 X. XXXXXXXX XX XX XXXXXX, Risoluzione per inadempimento, cit., 33 e passim e di X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 648. Sul tema si rinvia nuovamente infra, cap. III.
102 Il tema è stato da ultimo nuovamente approfondito da X. XXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento anche stragiudiziale, senza processo, purché (fuori dagli artt. 1453 e 1456)… per contratto anche tacito (o discordia concors per acquiescenza), in X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX – X. XXXXX – X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento. Poteri del giudice e poteri delle parti, Bologna, 2018, 33 ss.
Più moderata, ma sempre incline a riconoscere la definitività, anche sul piano sostanziale, dell’opzione esercitata dal contraente deluso con la proposizione della domanda di adempimento, è la posizione di chi, pur tenendo ferma la costitutività della sentenza di risoluzione, afferma che la domanda di risoluzione estingue, sul piano sostanziale, il diritto a domandare l’adempimento 103.
È appena il caso di notare che le due impostazioni appena riportate non presentano solo una differenza teorica di fondo — la prima dando un particolare peso alla manifestazione della volontà risolutiva in sé, la seconda riconducendo alla domanda giudiziale effetti sostanziali nel particolare contesto degli interessi coinvolti, differenza su cui si avrà modo di tornare 104 —, ma sembrano portare a conseguenze pratiche differenti. Se la risoluzione consegue alla domanda giudiziale 105, la parte delusa che abbia eseguito la prestazione — come anche la parte inadempiente che abbia eseguito la propria in modo parziale o inesatto — può chiedere la restituzione di quanto prestato, indipendentemente dall’esito del giudizio. Viceversa, se si ritiene che la risoluzione consegua alla sola sentenza di risoluzione, pur con l’effetto retroattivo inter partes di cui all’art. 1458 cod. civ., il contratto rimane vivo sino ad essa e l’eventuale restituzione di quanto prestato è subordinata all’accertamento giudiziale dell’esistenza dei presupposti della risoluzione e alla sua pronuncia. Qualora poi questa non fosse pronunciata, il contratto entrerebbe in una fase di quiescenza: esso sarebbe ancora efficace, ma, non accolta la domanda di risoluzione ed estinto il diritto all’adempimento, esso non potrebbe essere attuato: l’unica soluzione sarebbe un altro giudizio di risoluzione sulla base di fatti sopravvenuti 106.
103 X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 63; X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 81 e passim; di tale avviso sembra anche X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione, cit., 141.
104 Infra, cap. III.
105 Occorre precisare sin d’ora che la dottrina propensa a ricondurre l’effetto risolutorio alla domanda di risoluzione non lo ritiene, d’altro canto, un effetto immediato, ma configura la domanda giudiziale alla stregua di una diffida ad adempiere, che produce l’effetto risolutorio trascorso un congruo termine. Ciò allo scopo di non sacrificare l’interesse del debitore, che sarebbe altrimenti colto di sorpresa da una dichiarazione idonea essa stessa a risolvere il contratto. X. XXXXX, op. loc. ult. cit. Il contenzioso che potrebbe aprirsi sarebbe perciò analogo a quello che può sorgere sulla risoluzione di diritto per diffida ad adempiere: un giudizio di mero accertamento verterebbe così sul fatto che la risoluzione si sia o non si sia verificata.
106 A tale inconveniente la già richiamata Cass. 6134/1979, cit., nella sua complessa motivazione, prova a porre soluzione ritenendo applicabile analogicamente l’art. 1463 cod. civ. in tema di impossibilità sopravvenuta: la manifestazione di disinteresse del contraente che ha chiesto la risoluzione precludendo l’azione di adempimento estingue l’obbligazione. Estinta l’obbligazione del contraente inadempiente, si estinguerebbe, parimenti, automaticamente, l’obbligazione del contraente fedele, con conseguente diritto alla restituzione di quanto prestato. A tale ricostruzione è possibile opporre che difettano i presupposti
Ed è proprio quest’ultimo problema il più spinoso: se si ritiene che la domanda di risoluzione produca effetti anche sul piano sostanziale, ma non un immediato effetto risolutorio, e che la preclusione che ne deriva abbia portata assoluta, ci si trova inevitabilmente di fronte a un’aporia del sistema: vi sarebbero contratti efficaci ma giuridicamente «morti», di cui non può essere chiesto l’adempimento ma che — salvo l’aggravamento dell’inadempimento, da provarsi in un successivo processo — non possono essere risolti 107. La fattispecie non sarebbe dissimile da quella delle obbligazioni naturali: il debitore sarebbe ancora obbligato, ma il creditore non potrebbe pretendere l’adempimento. Non solo: anche la controparte si troverebbe legata a un contratto quiescente e non sarebbe ben chiaro di quali rimedi disponga, ad esempio per l’eventuale ripetizione della prestazione eseguita in modo inesatto.
È soprattutto per far fronte a questa aporia, non certo di poco conto anche a livello pratico, che sia la dottrina sia, soprattutto, la giurisprudenza hanno proposto un’interpretazione restrittiva del divieto per il caso in cui la domanda di risoluzione non fosse accolta, relativizzandone la portata.
dell’applicazione analogica. Se anche si ritenesse esistente una lacuna involontaria dell’ordinamento, difatti, mancherebbe una eadem ratio tra la norma in tema di impossibilità sopravvenuta e l’ipotetica norma richiesta nel caso in esame. Nel primo caso la norma pone rimedio a una patologia involontaria del contratto, mentre nel nostro caso le condotte rilevanti sono entrambe imputabili a qualcuno: l’inesecuzione della prestazione costituisce un inadempimento, mentre la proposizione della domanda di risoluzione tout court è frutto di un’autonoma scelta dell’attore, i cui effetti l’ordinamento vuole evitare che siano riversati sulla controparte. Si preoccupa di tale argomentazione X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 89 s. Sebbene contestualizzata nel più ampio dibattito dell’ammissibilità di una risoluzione stragiudiziale per inadempimento, la critica alla tesi sostenuta nella sentenza — pur, già si è osservato, condivisa nelle sue conclusioni dall’Autore — è chiara: «Tale soluzione non può essere condivisa. Il fondamento normativo di essa non può essere visto che nell’art. 1174, laddove la norma dispone che la prestazione «deve corrispondere ad un interesse… del creditore». Ma è assai ardito attribuire alla norma suddetta, e al requisito dell’interesse ivi menzionato, la rilevanza affermata dalla Corte. Inoltre il meccanismo di estinzione del contratto innescato dall’argomentazione della sentenza finisce in sostanza per far capo ad una forma di risoluzione atipica, più vicina a quella per impossibilità sopravvenuta che a quella per inadempimento: con la conseguenza che diventa problematico trovare la base per la condanna al risarcimento del danno».
107 Tra i molti che sollevano il problema, lo esprime in modo particolarmente eloquente X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 443: «non si è poi, almeno in dottrina, stati […] precisi nel descrivere costruttivamente la sorte cui soggiace il rapporto contrattuale, che appare allora sine die né risolto giudizialmente né eseguibile o azionabile in giudizio».
4.2. Le tesi restrittive e la relativizzazione della preclusione.
4.2.1. L’«interesse» del creditore nella giurisprudenza: imprecisioni di una massima pragmatica.
Nel caso in cui la domanda di risoluzione non sia stata accolta, la giurisprudenza maggioritaria tramanda la seguente massima: «il divieto posto dall’art. 1453 comma 2, c.c., di chiedere l’adempimento una volta domandata la risoluzione del contratto non può essere inteso in senso assoluto, ma è operante solo nei limiti in cui sussiste l’interesse attuale del contraente che ha chiesto la risoluzione. Quando viene meno tale interesse, cessa la ragione del detto divieto, di modo che la domanda di adempimento diviene proponibile dopo il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di quella di risoluzione o l’estinzione del giudizio relativo» 108. Sono numerose le pronunce conformi: alcune fanno riferimento, complessivamente, a tutte le ipotesi di mancato accoglimento della domanda (rigetto nel merito, rigetto in rito, estinzione)
109; altre prendono in esame una singola fattispecie 110.
Con questa massima la giurisprudenza prende di petto il problema: la domanda di risoluzione preclude la pretesa dell’adempimento, ma quando la domanda non è accolta l’interesse a chiedere l’adempimento risorge, altrimenti vi sarebbe un contratto efficace ma non azionabile e del quale nessuna delle parti può liberarsi. Il concetto giuridico di cui si serve la giurisprudenza è l’«interesse attuale» del contraente deluso. Prima di commentare la massima, come sempre in questi casi, nei quali una massima risalente — peraltro non espressione dell’orientamento maggioritario nel momento in cui ha fatto la sua comparsa — 111 è reimpiegata quasi alla lettera nella giurisprudenza successiva, occorre osservare da vicino la motivazione delle sentenze
pubblicate per esteso che ne fanno uso.
Una prima pronuncia del 1988 112 richiama alcuni precedenti, di cui è disponibile solo la massima 113, nel contesto di una più ampia ricognizione della
108 Citiamo la massima di Cass., 24 maggio 1976, n. 1874, in Mass. Giust. civ., 1976.
109 È il caso della già citata Xxxx., 4444/1996.
110 Così, ad esempio, Cass, 29 agosto 1990, n. 8955, in Nuova giur. civ. comm., 1991, 188 ss. riguarda l’ipotesi di rigetto nel merito della domanda di risoluzione, così come Cass., 27 dicembre 2010, n. 26152, in Corr. giur., 2011, 1597 ss.
111 La massima si tramanda da decenni, come si evince chiaramente consultando il Massimario di Giustizia Civile del 1976, che pone in relazione la massima di Xxxx., 1874/1976, cit., con precedenti più datati.
112 Cass., 9 dicembre 1988, n. 6672, in De Jure.
113 Si tratta, oltre alla già citata Cass., 1874/1976, di Cass., 18 luglio 1977, n. 3214, in Giur. it., 1979, 903; Cass., 10 gennaio 1980, n. 220, in Mass. Gius. civ., 1980; Cass., 22 settembre 1981, n. 5172, in Mass. Gius.
portata del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ. Tuttavia l’esegesi della norma costituisce un mero obiter dictum, poiché la controversia verte sulla rilevanza, ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento ex art. 1455 cod. civ., dell’alienazione a un terzo da parte del convenuto per la risoluzione del contratto del bene che avrebbe dovuto essere consegnato all’attore.
Non si tratta propriamente di un obiter dictum, ma sicuramente di un argomento non decisivo ed espresso solo ad abundantiam, l’argomento riproposto in una successiva pronuncia avente ad oggetto la proposizione della domanda di garanzia dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ. in sede di precisazione delle conclusioni, sulla scorta di fatti emersi in sede di consulenza tecnica d’ufficio, in un giudizio in cui, con l’atto introduttivo, era stata chiesta la risoluzione del contratto 114. Qui l’argomento decisivo, secondo la Corte, sarebbe la natura extracontrattuale della responsabilità invocata, rispetto alla quale non troverebbe applicazione la preclusione limitata dall’art. 1453 cod. civ. alla sola domanda di esecuzione in forma specifica. La soluzione adottata dalla Corte consiste quindi nel non applicare la norma in questione, non nel relativizzarne la portata.
Cass., 11 maggio 1996, n. 4444 115, sentenza tra quelle che hanno avuto maggiore eco, risponde al seguente quesito: se il convenuto nel processo di risoluzione di un contratto preliminare, il quale — peraltro solo in primo grado, avendo nei successivi gradi del primo processo «implicitamente rinunciato» alla domanda — abbia proposto domanda riconvenzionale di risoluzione, possa in un successivo processo, dopo il rigetto definitivo della domanda avversaria di risoluzione, chiedere l’adempimento del contratto, sub specie di sentenza costitutiva ex art. 2932 cod. civ.
Il richiamo da parte della Corte alla citata massima porta all’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica. Il precedente, però, non sembra evocato a proposito. La massima, difatti, si riferisce alle ipotesi di rigetto o di inammissibilità della domanda di risoluzione, mentre, nel caso di specie, la domanda di risoluzione
civ., 1981. Occorre precisare che queste ultime due massime fanno riferimento al terzo comma dell’art. 1453 cod. civ. e riguardano dunque l’interesse del debitore inadempiente ad eseguire la propria prestazione una volta rigettata l’avversaria domanda di risoluzione del contratto.
114 Cass., 9 febbraio 1995, n. 1457, in Giur. it., 1996, con nota di X. XXXXXXXXXXX, Sul mutamento della domanda giudiziale ex art. 1453 2° comma c.c.
115 In Corr. giur., 1996, 898 s. con nota di X. XXXXXXXXX, Domanda di adempimento, cit.; in Xxxxxxxxx, 1997, 121 ss., con nota di X. Xxxxxxx; in Nuova giur. civ. comm., 1997, 742 ss., con nota di M.G. CUBEDDU, Divieto di domanda di adempimento e interesse del creditore.
sulla quale si erano espressi i giudici del primo processo era quella dell’attore, giudicata dapprima fondata e poi infondata. L’«interesse» della convenuta a chiedere, in un successivo processo, l’adempimento, non nascerebbe dunque dalla sorte della sua domanda riconvenzionale, quanto piuttosto dalle vicende della domanda avversaria. È allora chiaro che, piuttosto che alla massima richiamata, occorrerebbe fare riferimento, nel decidere il caso, alla ratio dell’art. 1453 cod. civ.: le norma tutela l’affidamento del convenuto contro la possibilità che verso di lui sia domandato a sorpresa l’adempimento dopo che è stata chiesta la risoluzione. Non tutela chi ha chiesto la risoluzione, una volta rigettata la domanda, contro la domanda di adempimento della controparte.
Una più recente sentenza 116 affronta un altro caso di domanda di adempimento proposta successivamente a un giudizio in cui erano state rigettate tanto la principale quanto la riconvenzionale di risoluzione. Qui il richiamo della massima sembra superfluo: a mettere fuori gioco il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. è una diffida ad adempiere inoltrata dai convenuti in risoluzione nel secondo giudizio dopo la formazione del giudicato sulla prima sentenza. Quest’atto è dalla Corte interpretato come indice univoco del fatto che i diffidanti considerassero ancora efficace il contratto, sicché non vi sarebbe alcun affidamento da tutelare circa la cessazione degli effetti dello stesso.
Una fattispecie particolare è quella affrontata da Xxxx., 19 gennaio 2005, n. 1077 117: in tal caso la domanda di risoluzione, di cui non era stata chiarita dall’attore la causa petendi, è stata qualificata dai giudici come domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, sicché potrebbe almeno dubitarsi che trovi applicazione l’art. 1453 cod. civ. Inoltre, nonostante la Corte richiami la massima consolidata in commento, qui non si verte nell’ipotesi di due diversi giudizi, il secondo conseguente al mancato accoglimento della domanda di risoluzione avanzata nel primo. Viceversa, siamo ancora nello stesso processo e il richiamo alla massima appare quindi poco appropriato. Peraltro, il vero dato decisivo ai fini dell’ammissibilità della domanda di adempimento risiede nella proposizione, sin dall’atto introduttivo,
116 Cass., 27 dicembre 2010, n. 26152, in Corr. giur., 2011, 1597 ss., con nota di X. XXXXXXXXXX, Divieto di proporre domanda di adempimento una volta chiesta la risoluzione: la Cassazione opera il regolamento di confini.
117 In De Jure.
della domanda di esecuzione in forma specifica in via subordinata rispetto a quella di risoluzione. Ciò è pacificamente ritenuto lecito 118, così come pacificamente si ritiene che la proposizione in via subordinata della domanda di adempimento non possa ingenerare nella controparte quell’affidamento che sta alla base dell’operatività dell’art. 1453, comma 2, cod. civ.
Occorre poi sgomberare il campo da quelle pronunce — pure richiamate da alcune delle sopra menzionate sentenze a sostegno della soluzione adottata 119 — che non hanno ad oggetto il divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., ma quello del terzo comma della norma: il divieto per l’inadempiente di liberarsi eseguendo la sua prestazione una volta che la controparte abbia chiesto la risoluzione
120. Anche in questi casi la giurisprudenza fa uso del concetto di «interesse», il quale rinascerebbe per effetto del rigetto della domanda avversaria di risoluzione. Qui però gli interessi in gioco sono decisamente differenti: non può equipararsi la posizione di chi ha ingenerato nella controparte l’affidamento nel proprio disinteresse nei confronti del contratto rispetto a quella di chi ha subito tale determinazione avversaria. Sembra quindi accettabile che il debitore contro cui è stata chiesta infondatamente la risoluzione possa adempiere senza che controparte possa giustificatamente opporgli di avergli precluso l’adempimento mediante la sua domanda (infondata). Diversa l’eccezione di chi abbia confidato nella volontà risolutoria di controparte e subisca poi l’azione di condanna all’adempimento: la sua eccezione pare, verosimilmente, da considerare con maggior attenzione 121.
La disamina svolta mostra come la massima tramandata sia spesso utilizzata dalla giurisprudenza per risolvere casi nei quali non è direttamente in gioco la stretta applicabilità del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453.
118 Cfr., ex multis, X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 64.
119 È il caso ad esempio di Xxxx. 4444/1996, cit., che in motivazione richiama, tra le altre, Cass. 5172/1981, su cui cfr. la nota seguente.
120 Riguardano il divieto di adempimento di cui al terzo comma dell’art. 1453 cod. civ. le massime di Cass., 10 gennaio 2980, n. 220, in Mass. Giust. civ., 1980; Cass., 22 settembre 1981, n. 5172, in Mass. Giust. civ., 1981; nonché di Cass., 29 agosto 1990, n. 8955, in Nuova giur. civ. comm., con nota di X. X’XXXXXXXXXX, Rilevanza del comportamento del debitore successivo alla domanda di risoluzione del contratto.
121 Si avrà modo di tornare a breve su questa prospettiva suggerita da X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 482. L’Autore descrive la dinamica dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. non guardando alla domanda di adempimento, ma all’eccezione della controparte: l’art. 1453, comma 2, cod. civ. concede a colui che subisce il mutamento di domanda di eccepirne l’inammissibilità. Il giudizio si concentra allora sulla meritevolezza dell’eccezione.
Tra le sentenze consultabili per esteso, una, per il vero, fa uso della massima in un caso in cui è proprio la portata del divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. a venire in rilievo 122. Il caso di specie è il seguente: è stata chiesta la risoluzione nel precedente processo; la domanda è stata rigettata e, nel successivo processo, il contraente deluso chiede l’adempimento. Come si vedrà a breve, il caso può essere risolto senza far ricorso a una massima generica e spesso travisata come quella in commento 123.
Occorre, nell’analisi di questo orientamento giurisprudenziale, svolgere ancora un’osservazione. La massima, come detto, pone rimedio a un problema pratico: la non azionabilità di un contratto ancora efficace. Essa però, oltre ad essere menzionata non sempre a proposito, fa uso di un concetto non facilmente governabile dal punto di vista dogmatico: «l’interesse» della parte delusa.
Anzitutto, non vi è univocità, tra le diverse pronunce, in merito a quale sarebbe l’oggetto di questo interesse. Alcune parlano di «interesse attuale del contraente […] alla cessazione del rapporto» 124, il quale verrebbe meno per effetto del mancato accoglimento della domanda di risoluzione; altre, al contrario, fanno riferimento all’«interesse alla esecuzione della prestazione» 125, che riemergerebbe dopo il primo processo.
Nel primo caso, dunque, l’interesse menzionato sarebbe assimilabile all’interesse ad invocare il rimedio. Esso, tuttavia, non potrebbe essere inteso né come un interesse qualificato a domandare la risoluzione, il quale non è presupposto del rimedio, né in senso processuale, giacché il giudicato di rigetto non incide direttamente sull’interesse ad agire, il quale ben potrebbe sussistere in una successiva azione di risoluzione fondata su fatti nuovi e quindi non coperta dal giudicato 126.
122 Si tratta di Cass., 29 novembre 2001, n. 15171, in De Jure.
123 Infra, par. 4.2.2.
124 Ad esempio Xxxx., 4444/1996, cit.
125 È il caso, ad esempio, di Cass. 26152/2010, cit.
126 Ancora la giurisprudenza più recente tramanda l’insegnamento secondo cui «l’interesse ad agire richiede […] che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice» (ex multis, Xxxx., 24 gennaio 2019, n. 2057, in Mass. Gius. civ., 2019). Tale condizione dell’azione, secondo l’insegnamento della dottrina, «serve ad evitare che si scenda all’esame del merito, quando la domanda o la difesa possono anche essere fondate, ma — anche se lo sono — il loro accoglimento non produce alcun effetto utile nella sfera giuridica di chi le ha proposte» (F.P. XXXXX, Diritto processuale civile, I, IX ed., Milano, 2017, 224). È evidente, dunque, che il rigetto della domanda di risoluzione non incida, tout court, su questa condizione dell’azione: superato il limite del giudicato, in un successivo processo la risoluzione può essere rimedio giuridicamente utile.
Nel secondo caso, l’interesse avrebbe ad oggetto la prestazione. Senonché l’interesse alla prestazione, ai sensi dell’art. 1174 cod. civ., è elemento strutturale del rapporto obbligatorio, dunque sussistente sin dall’inizio e fin quando il rapporto non sia estinto. Invero, sembra difficile assimilare l’interesse di cui parla la giurisprudenza ai concetti giuridici che il legislatore civile esprime con il termine «interesse» in ambito contrattuale 127. Molto più semplicemente esso sembra rinviare a un interesse di carattere empirico-economico, certamente apprezzabile e di cui l’ordinamento deve farsi carico, ma che deve essere motore della regola giuridica, non suo elemento costitutivo, sicché non giova ad esprimere una regola generale, ma semmai a spiegare la ratio di scelte interpretative.
4.2.2. Le singole fattispecie: rigetto in rito della domanda di risoluzione; estinzione del primo processo per inattività delle parti; rigetto nel merito; estinzione del processo per rinuncia agli atti. L’ammissibilità della domanda di adempimento in caso di rigetto determinato dalle difese del debitore.
Opportunamente la dottrina, pur dando conto dell’orientamento giurisprudenziale anzidetto, non si mostra propensa a servirsi dello stesso argomento. D’altra parte, la dottrina maggioritaria, esattamente come la giurisprudenza,
tende a circoscrivere la portata del divieto di domandare l’adempimento in un successivo giudizio 128.
127 Tale interesse non può essere certamente l’«interesse meritevole di tutela» di cui parla l’art. 1322 cod. civ.: quello è l’interesse che sorregge ab origine il contratto e dunque la sua causa ed è l’interesse comune alle parti che stipulano quel contratto. Non è nemmeno l’interesse a invocare il rimedio, come quello di chi voglia far valere la nullità del contratto ex art. 1420 cod. civ. o come quello della parte legittimata ex lege a proporre l’azione di annullamento a mente dell’art. 1441 cod. civ. Non sembra assimilabile nemmeno all’«interesse» il cui difetto legittima il creditore della prestazione contrattuale divenuta parzialmente impossibile a recedere dal contratto a norma dell’art. 1464 cod. civ. In tale ipotesi, come in quella in esame, l’«interesse» riguarda l’esecuzione della prestazione: siamo, correttamente, nell’ambito dell’esecuzione del contratto. Tuttavia, nel caso che stiamo esaminando, la domanda di adempimento ha ad oggetto la prestazione originariamente dovuta, mentre l’art. 1464 cod. civ. prende in considerazione l’interesse ad ottenere una prestazione diversa — e segnatamente quantitativamente inferiore — rispetto a quella promessa.
128 Le formule usate in dottrina sono eterogenee, ma i risultati simili. Tra i molti, C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, cit., 311 scrive che «[l]’effetto preclusivo della domanda di risoluzione è subordinato alla fondatezza della stessa». Sulla stessa scia X. XXXXXX, sub art. 1453, cit., 401 s.; X. XXXXXXX, La risoluzione per inaempimento, cit., 1748 s. X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 481 conclude che «il pronunciato e formatosi giudicato di rigetto nel merito [corsivo nel testo] dell’azione di risoluzione, avendo negato l’inadempimento con riguardo al momento della precisazione delle conclusioni […] non preclude […] una azione di esecuzione del contratto lasciato dal giudice non risolto. Ad essa non potrebbe qui opporsi il 2° comma dell’art. 1453, poiché la difesa a suo tempo addotta dal convenuto, e trovata fondata dal giudice, pone fuori campo la regola».
Una prima spiegazione, fornita da alcuni Autori, è quella secondo cui la preclusione del secondo comma dell’art. 1453 è ancillare all’accoglimento della domanda di risoluzione: essa ha senso perché paralizza gli effetti del contratto fino alla sentenza costitutiva, la quale sola risolve il contratto. Qualora questa non sia pronunciata, per qualsiasi ragione, il contratto risulta ancora efficace e ne può senz’altro essere domandato l’adempimento 129.
Non tutti, però, prospettano una soluzione unitaria per ciascuna ipotesi di mancato accoglimento della domanda di risoluzione.
È condivisibile, in proposito, il rilievo di chi sostiene che «le ipotesi di esito del giudizio diverso dall’accoglimento della domanda non si possono collocare tutte sullo stesso piano, ma vi è una profonda differenza, ove il processo non si concluda col giudicato costitutivo, tra la situazione che si crea con l’estinzione del processo o col rigetto in rito e il caso in cui si abbia infondatezza della domanda» 130.
Si distingueranno dunque, di seguito, le seguenti ipotesi: rigetto in rito della domanda; estinzione del processo per inattività delle parti; rigetto nel merito della domanda; estinzione del processo per rinuncia agli atti.
a) Xxxxxxx in rito della domanda.
Cominciamo con le ipotesi di rigetto in rito della domanda: il giudice non entra nel merito della vicenda per carenza di una condizione dell’azione o di un presupposto processuale.
Se la ratio del divieto di domandare l’adempimento a seguito della domanda di risoluzione è, in sintesi, la tutela dell’affidamento del debitore convenuto, sembra che il rigetto in rito della domanda nulla aggiunga, sul piano sostanziale, agli effetti che già la domanda può produrre. L’attore ha chiesto la risoluzione. Era sua legittima facoltà quella di proporre in via subordinata la domanda di adempimento, con la quale, pacificamente, si sarebbe potuto tenere aperta la porta dell’esecuzione del contratto.
129 X. XXXXXX, sub art. 1453, cit., 401; X. XXXXXXXXXXXX, Xxxxxxxxx in generale, cit., 266; C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, 331; X. XXXXX, Xxxxxxx nell’adempimento, cit., 110 ss., il quale pone come limite alla pretesa del creditore la possibilità della prestazione, limite che, però, è già esplicito nel sistema (artt. 1256 e 1463 cod. civ.).
130 I. XXXXX, Le azioni di impugnativa negoziale, cit., 352 s. Si tenga presente che l’opinione dell’Autrice è espressa in un contesto in cui la domanda di risoluzione è vista come esercizio di un diritto potestativo che produce ex se l’effetto risolutivo, che la sentenza si limiterebbe ad accertare. La diversità di fattispecie viene quindi affermata nonostante nell’economia dell’opera la maggiore attenzione cade sull’atto di manifestazione della volontà risolutiva.
Egli, sin dalla proposizione della domanda di risoluzione, ha così ingenerato nel convenuto l’affidamento nella sua volontà di sciogliere il contratto.
Inoltre, se la domanda non può essere decisa nel merito, ciò dipende da un vizio della domanda stessa: è dunque opportuno che sia l’attore a farsi carico delle conseguenze del rigetto in rito, secondo il principio di autoresponsabilità 131.
Se così non fosse e fosse ammissibile la domanda di adempimento in un successivo giudizio, il convenuto subirebbe la più grave conseguenza di dover tenere la propria prestazione a disposizione del capriccio dell’attore 132.
b) Estinzione del processo per inattività delle parti.
Alla medesima conclusione occorre giungere per il caso di estinzione del processo per inattività 133: in tal caso tutte le parti, compreso l’attore, hanno manifestato disinteresse — o hanno colpevolmente omesso di manifestare interesse — alla prosecuzione del processo. Sembra dunque corretto che l’attore subisca la conseguenza dell’affidamento che ha ingenerato in controparte, tanto più che, diversamente dall’ipotesi di rigetto in rito, qui non vi è un provvedimento del giudice frutto di una più o meno ampia valutazione discrezionale, e dunque un’attività processuale ulteriore e diversa rispetto a quella delle parti, ma un effetto automatico dell’inattività della parte.
Non è pienamente condivisibile la tesi di chi, anche nelle ipotesi di estinzione del processo per inattività o di rigetto in rito della domanda, dà rilievo alle difese svolte dal convenuto in tale processo, affermando che la sussistenza del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 va apprezzata a seconda che il convenuto si sia opposto alla domanda di risoluzione o meno. Nel primo caso, si afferma, il convenuto non avrebbe dimostrato il proprio affidamento nella cessazione degli effetti del contratto.
131 Sul rapporto tra onere e autoresponsabilità cfr. X. XXXXXXXXX, voce Autoresponsabilità, cit., 145:
«L'autoresponsabilità, come è stata caratterizzata, si circoscrive nella sfera degli interessi del soggetto agente. Così che appare più proprio il richiamo al concetto di onere, che non implica l'idea di un vinculum iuris verso altri, ma, se mai, quella di una valutazione in lato senso economica della opportunità di tenere un determinato comportamento per il conseguimento di un dato risultato», corsivi nel testo).
132 Condividono tale soluzione X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 238; X. XXXXXXXXX, La risoluzione, cit., 286. Più prudente X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 482 s., secondo cui la soluzione, in tal caso, «dipende […] dal contenuto e finalità delle difese in quella sede adottate dal convenuto e dalla loro idoneità a liberare l’attore dalla preclusione sostanziale di cui al 2° comma».
133 X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 239.
Non sembra corretto, difatti, far discendere dalle difese semplicemente avanzate dal debitore — e non esaminate dal giudice —la successiva proponibilità della domanda di adempimento. Come già rilevato, le difese sono espressione di un diritto costituzionalmente garantito e possono avere come obiettivo quello, solitamente principale, di evitare la condanna al risarcimento del danno 134 o, in ogni caso, mirare a scopi, per quanto egoistici, meritevoli di tutela se rientranti nella fisiologica dinamica processuale. Esse non manifestano univocamente interesse alla prosecuzione nel contratto e, in ogni caso, non sembrano esse stesse sufficienti a spostare sul convenuto l’onere di tenere a disposizione la propria prestazione mentre, correlativamente, si priva il creditore di un banale onere di attenzione nel formulare le conclusioni in giudizio.
c) Rigetto nel merito della domanda di risoluzione.
Diverso il caso in cui le difese nel merito del convenuto siano esaminate e colgano nel segno, determinando il rigetto delle domande ex adverso proposte.
Perché sia rigettata la domanda di risoluzione per inadempimento occorre che il giudice non ritenga sussistente: (i) l’inadempimento tout court, il che impone il rigetto non solo della domanda di risoluzione, ma anche, all’opposto, di quella di adempimento e in ogni caso di quella di risarcimento del danno; (ii) i presupposti specifici della domanda di risoluzione, e segnatamente la gravità dell’inadempimento ex art. 1455 cod. civ.
In entrambi i casi il debitore si è difeso contestando i presupposti della risoluzione e chiedendone il rigetto. Non sembra esserci, in questo caso, quell’esigenza di tutela del suo affidamento che giustificherebbe il divieto per la controparte di domandare, successivamente, l’adempimento.
Occorre però guardare più da vicino alle ragioni di tale soluzione.
Non sembra condivisibile l’opinione secondo cui difetterebbe, in tal caso, l’esigenza di protezione dell’affidamento del debitore convenuto nel primo giudizio perché egli, con le proprie difese, non aderendo alla domanda di risoluzione dell’attore, avrebbe manifestato interesse nel contratto 135. Affermando ciò si attribuisce arbitrariamente alle difese del debitore un significato ulteriore al loro ruolo
134 X. XXXXXXXXX, La risoluzione, cit., 267.
135 X. XXXXXXX, Il processo nella risoluzione, cit., 451.
processuale: tali difese, difatti, sono finalizzate al rigetto delle domande avversarie, spesso non limitate alla sola risoluzione ma anche al risarcimento del danno, e possono essere ispirate dalle più diverse e meritevoli esigenze, quali la volontà di non tenere una condotta difensiva interpretabile come confessoria dell’inadempimento o di evitare di dover restituire — almeno nell’immediato — quanto ricevuto e così via 136. Nemmeno può condividersi la giustificazione fornita da chi afferma che
«l’esito del giudizio [ossia il rigetto della domanda di risoluzione, n.d.r.] presuppone […] che il debitore abbia conservato la possibilità di eseguire la prestazione, sicché l’azione di adempimento successivamente proposta dal creditore non pregiudica un suo legittimo affidamento» 137. Il rigetto della domanda di risoluzione presuppone che, al momento della precisazione delle conclusioni, il debitore abbia adempiuto o abbia posto in essere un inadempimento di scarsa importanza o giustificato. Ciò però non significa, automaticamente, che al debitore — a quel debitore — sia soggettivamente ancora possibile adempiere terminato il giudizio. Egli potrebbe, dopo la precisazione delle conclusioni, aver alienato il bene oggetto della prestazione o essersi obbligato verso terzi. Ciò potrebbe senz’altro costituire un inadempimento che potrebbe dare luogo a una successiva domanda di risoluzione. Non può però darsi per scontato che il debitore che ha ottenuto il rigetto della domanda di risoluzione sia ancora disponibile (o disposto) ad adempiere.
Più realisticamente, occorre riconoscere che la soluzione deve necessariamente fondarsi su un bilanciamento degli interessi sicuramente non predeterminato dalla legge 138, che tenga conto dei costi e dei rischi del contenzioso.
È dunque da condividere, perché più corretta e pragmatica, l’interpretazione di xxx, solo per l’ipotesi in cui le difese del debitore abbiano portato al giudicato di rigetto
136 Su questa linea, si è già detto, X. XXXXXXXXX, La risoluzione, cit., 267.
137 X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 237.
138 Xxxxxx prezioso richiamare l’insegnamento di autorevole dottrina nel contesto di un ragionamento di più ampio respiro sul tema. Così X. XXXXX, Il contratto, cit., 912: «La verità è che — aperto un giudizio sulla risoluzione del contratto — quell’incertezza e quel rischio [quelli della lite e dunque della pronuncia giudiziale circa la permanenza o la cessazione degli effetti del contratto, n.d.r.] sembrano ineliminabili, e ciascuna parte dovrà gestirli secondo la consapevolezza della propria ragione o del proprio torto, ragionevolmente apprezzati» (corsivo nel testo). Ciò non toglie che la ricostruzione del sistema possa tendere a minimizzare le incertezze.
della domanda di risoluzione, non ritiene operante il divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ. 139.
A maggior ragione la medesima conclusione si impone — come pressoché pacifico — nel caso in cui il debitore non si sia solamente opposto alla risoluzione, ma abbia offerto di adempiere nel corso del primo processo, manifestando esplicitamente il proprio interesse all’esecuzione della prestazione e alla prosecuzione dell’affare 140. Non sembra invece sufficiente a ripristinare il diritto del creditore di pretendere l’adempimento il rigetto della domanda pur in assenza di difese del convenuto,
costituito o contumace.
d) Xxxxxxxxxx del processo per rinuncia agli atti.
Per concludere, occorre dar conto di una fattispecie — invero marginale — cui alcuni Autori riconducono, quale effetto, la possibilità, per l’attore che abbia domandato la risoluzione per inadempimento in un primo processo, di chiedere l’adempimento in un processo successivo: l’estinzione del processo per rinuncia agli atti.
Poiché la rinuncia agli atti del giudizio richiede l’accettazione di tutte le parti costituite, e dunque anche del convenuto in risoluzione, non troverebbe luogo, in tal caso, l’esigenza di tutela dell’affidamento di quest’ultimo nell’avvenuto scioglimento del contratto 141.
A questa ricostruzione si può opporre che, con la rinuncia agli atti, l’attore, con il consenso del convenuto, dispone del solo rapporto processuale 142. Sul piano sostanziale nulla muta. Non si vede perché, dunque, dovrebbe essere accolta una soluzione diversa rispetto al caso dell’estinzione del processo per inattività delle parti,
139 X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione, cit., 236. Così anche X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 64; in senso dubitativo X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 650.
140 Per tutti, X. XXXXXXXXXXX, La risoluzione, cit., 111 s.
141 Così X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 650; C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, cit., 312.
142 X. XXXXXXXXXX, voce Rinuncia agli atti del giudizio, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 961 s.: «il collegamento della rinuncia agli atti con l’estinzione […] fa sì che la rinuncia sia un mero atto processuale, del tutto ‘astratto’ rispetto alle ragioni che consigliano la parte a porlo in essere e del tutto insensibile ai fini che la parte, ponendolo in essere, si propone: un atto, pertanto, che produce sempre e soltanto l’effetto tipico previsto dalla legge, di determinare l’estinzione della fase processuale nel corso della quale è intervenuto […]. Rinunciando agli atti le parti rinunciano esclusivamente al loro potere di provocare una pronuncia di merito in quel procedimento, e l’effetto della rinuncia è soltanto quello di privare il giudice del potere-dovere di emanare una (valida) pronuncia di merito». Cfr. anche X. XXXXXXX – X. XXXXXXXX, voce Estinzione del processo (dir. proc. civ.), in Diritto online Treccani, 2015.
tanto più che, anche in questo caso, ai sensi del primo comma dell’art. 310 cod. proc. civ., la rinuncia, di regola, non estingue l’azione.
La questione si complica se si tiene presente che alla base di una rinuncia agli atti sta di solito un accordo transattivo, il quale potrebbe essere impugnato con conseguenze anche sul piano degli effetti del rapporto sottostante. Il tema meriterebbe però un’indagine a parte.
4.3. Una valutazione della soluzione dal punto di vista economico, alla luce del principio di effettività.
Concordemente con parte della dottrina, ma in parziale disaccordo con la giurisprudenza maggioritaria, si è giunti alla seguente conclusione: il divieto di domandare l’adempimento una volta chiesta la risoluzione, ai sensi del secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., non trova applicazione solamente all’interno dello stesso processo, ma ha una portata più ampia, giustificata dalla sua natura extraprocessuale e dunque sostanziale. Così dovrà ritenersi inammissibile la domanda di adempimento proposta in un successivo giudizio da colui che abbia proposto la domanda di risoluzione in un precedente processo concluso con sentenza di rigetto in rito o estinto.
L’unico caso in cui è ammissibile la proposizione della domanda di adempimento una volta chiesta la risoluzione è il rigetto, con efficacia di giudicato, della domanda di risoluzione determinato dalle difese del debitore convenuto.
La regola, dunque, è il divieto di chiedere l’adempimento. L’eccezione è la possibilità di domandarlo, in un unico caso, pur certamente rilevante.
Può essere utile domandarsi se la soluzione sia opportuna non solo sul piano degli interessi giuridici coinvolti — sinora gli argomenti utilizzati sono stati quelli della tutela dell’affidamento, della coerenza, della certezza e così via — ma anche sotto il profilo dell’efficienza economica.
Due premesse si rendono necessarie. In primo luogo, si osserva che la soluzione raggiunta esprime un certo favor per lo scioglimento del contratto — o meglio per la sua non azionabilità da parte del contraente che abbia domandato la risoluzione —. Tale inclinazione può apparire in contrasto con la sensibilità emersa negli ultimi decenni tra i giuristi italiani con riguardo alle peculiari esigenze di
continuità di alcune tipologie contrattuali, e segnatamente di alcuni contratti di durata
143. Sulla scorta della dottrina americana dei relational contracts, anche i giuristi italiani hanno riconosciuto che alcuni contratti, caratterizzati da una relazione particolarmente stretta tra i contraenti, manifestata da investimenti specificamente finalizzati a quell’affare e non recuperabili aliunde 144, sono insofferenti ai c.d. rimedi demolitori in caso di sopravvenienze. Gli interpreti hanno così messo in dubbio l’efficienza del rimedio della risoluzione — nello specifico per eccessiva onerosità sopravvenuta — qualora questa si riveli distruttiva di ricchezza, e hanno invece proposto rimedi che favoriscano la continuità dell’affare 145.
Lo spirito che anima queste riflessioni, tuttavia, non sembra trovare spazio nella dinamica della risoluzione per inadempimento. Proponendo la domanda di risoluzione per inadempimento, difatti, la parte dà atto che la collaborazione si è rotta e che ritiene il rapporto irrecuperabile. L’ordinamento non deve allora premurarsi di mantenere in vita il contratto per quanto possibile ma, preso atto della crisi del rapporto, deve consentire alle parti la via di uscita migliore e più equilibrata.
In secondo luogo, parte della dottrina avverte che i rimedi contro l’inadempimento hanno un diverso impatto a seconda della tipologia negoziale. In alcuni contratti, in caso di inadempimento, non è centrale la questione della sopravvivenza del vincolo: per tali contratti il giudizio di risoluzione è sostanzialmente pleonastico 146 e, specularmente, le parti non avranno quasi mai interesse alla domanda di esecuzione in forma specifica 147 . Si tratta dei contratti aventi ad oggetto beni fungibili e dei contratti di collaborazione. Nei primi, in caso di inadempimento, la priorità delle parti è sovente la possibilità di un pronto ritorno sul mercato, per ricollocare o reperire il bene: non serve il giudizio di risoluzione — e anzi esigenze di
143 Opera di riferimento sul tema, cui ha fatto seguito copiosa letteratura, è X. XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996.
144 V. per tutti O.E XXXXXXXXXX., L’organizzazione economica. Imprese, mercati e controllo politico, Bologna, 1991 (trad. it. di X. Xxxxxxxxxx. Titolo originale: Economic Organization. Firms, Markets and Policy Control, Brighton, 1986), 144 ss.
145 È il caso del c.d. obbligo di rinegoziazione, che troverebbe fondamento nel generale principio di buona fede. La proposta è di X. XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione, cit. Per un aggiornamento e i riferimenti si veda anche ID., voce Revisione e rinegoziazione del contratto, in Enc. dir., Annali, II, 2, Milano, 2008, 1026 ss.
146 X. XXXXX, Giudizialità e stragiudizialità della risoluzione per inadempimento: la forza del fatto, in X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX – X. XXXXX – X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento, cit., 22 ss.
147 X. XXXXXX – X. XXXXXX – P.G. MONATERI – X. XXXXXXXXX – X. XXXX, Il mercato dele regole. Analisi economica del diritto civile, II, II ed., Bologna, 2006, 148.
certezza indurrebbero a farne a meno 148 —, perché non ha particolare rilievo una situazione di appartenenza. Per la medesima ragione, anche l’esecuzione in forma specifica non gioca un ruolo centrale. Nei secondi, invece, il giudizio di risoluzione nulla aggiunge alla realtà di fatto: se una delle parti si è convinta ad adire il giudice, la collaborazione è, di fatto, già cessata 149. Né avrà senso la domanda di adempimento, specialmente se ha ad oggetto una prestazione di fare. In entrambe le fattispecie il rimedio che interessa alle parti è il risarcimento del danno.
Queste osservazioni assecondano l’interpretazione offerta dell’art. 1453, comma 2, cod. civ., tendente a cristallizzare le posizioni delle parti, precludendo la pretesa di adempimento dopo la domanda di risoluzione.
Vi sono però contratti — si osserva — per i quali tanto il giudizio di risoluzione quanto quello di adempimento possono essere significativi: si tratta dei contratti aventi ad oggetto beni infungibili, in cui dunque rilevano situazioni di appartenenza 150. Ci si può chiedere dunque se generalizzare una soluzione tendente alla cristallizzazione delle posizioni delle parti sia opportuno anche in questo caso.
Anche qui la risposta passa dalla valutazione del contegno del contraente deluso. Questi, chiedendo la risoluzione, ha inequivocabilmente manifestato una presa di posizione rispetto alla situazione di appartenenza del bene, scegliendo di non pagarlo, se acquirente, lasciandolo alla controparte, oppure optando per la restituzione, se l’ha alienato. Proprio perché la situazione sostanziale oggetto del rapporto è particolarmente rilevante, sembra allora opportuno tutelare l’affidamento della controparte nella scelta dell’attore e precludergli successivamente la strada dell’adempimento. Altro discorso, che occorrerà affrontare, è se non sia auspicabile una regola che offra certezza su una più rapida liberazione delle parti, anziché lasciare il contratto in uno stato di quiescenza 151.
Manifestato il disinteresse per l’adempimento, anche in questo caso — oltre alle eventuali restituzioni — il rimedio cui potrà puntare il contraente deluso è il risarcimento del danno. Non sembrano quindi esservi particolari esigenze per tutelare la pretesa del contraente deluso all’esecuzione in forma specifica.
148 X. XXXXX, Giudizialità e stragiudizialità, cit., 26 ss. Sul punto cfr. infra, cap III.
149 ID., Giudizialità e stragiudizialità, cit., 22 ss., parla, in proposito, di «forza del fatto».
150 ID., Giudizialità e stragiudizialità, cit., 18 ss.; X. XXXXXX – X. XXXXXX – P.G. MONATERI – X. XXXXXXXXX
– X. XXXX, Il mercato delle regole, cit., 148.
151 Infra, cap. III, par. 6.2.1.
Ciò premesso, è quindi possibile guardare agli interessi economici ingenerati dalla domanda di risoluzione.
In una situazione fisiologica, la domanda di risoluzione manifesta l’intenzione del contraente deluso di sciogliersi dal contratto: c’è dunque da attendersi che egli intenda reimpiegare la propria prestazione il prima possibile e con minori costi possibile e reperire al più presto una prestazione succedanea a quella di controparte.
In una situazione patologica, cui mira a rimediare il secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., l’interesse del contraente che domanda la risoluzione non è così univoco. È però univoco, in entrambi i casi, l’interesse della parte contro cui è domandata la risoluzione: anch’egli, a fronte dell’intenzione manifestata dalla controparte di sciogliere il contratto, vorrà collocare aliunde la propria prestazione e reperire una prestazione succedanea nel minor tempo e al minor costo possibile.
In questa situazione, la pendenza del giudizio di risoluzione determina, di per sé, un’incertezza poco apprezzabile 152: se, come si insegna tradizionalmente, il contratto non è sciolto sino alla sentenza, per anni le parti possono non essere sicure della sorte del contratto. Rispetto a tale incertezza, però, le parti possono fare i loro calcoli: possono cioè valutare il rischio dell’esito della lite e determinare il proprio comportamento di conseguenza 153.
Se a tale incertezza — fisiologica in un modello di risoluzione giudiziale — si aggiunge un’ulteriore causa di insicurezza, quale la possibilità incontrollata che il contraente deluso che ha domandato la risoluzione possa chiedere l’adempimento — nello stesso giudizio come in giudizi diversi, a prescindere dall’esito del giudizio precedente — la situazione si complica notevolmente, perché moltiplica le variabili e i rischi che controparte deve fronteggiare per calcolare razionalmente cosa le convenga fare.
Una soluzione tendenzialmente severa nei confronti del contraente che ha domandato la risoluzione si presta così ad assicurare certezza relativamente alla situazione determinata per effetto della domanda. Tale certezza è essenziale nella
152 Motivo per cui è da molti messa in dubbio l’opportunità della regola della risoluzione giudiziale, che con i suoi tempi mantiene a lungo tale situazione di incertezza. Cfr. infra, cap. III.
153 X. XXXXX, Il contratto, cit., 911 s.
dinamica della risoluzione 154, perché permette alle parti di comportarsi in modo più razionale e prevedibile, nonché di allocare le risorse nel modo migliore.
Al tempo stesso, il contraente deluso non resta sfornito di tutela, ma dispone, ove ne ricorrano i presupposti, del risarcimento del danno. Come illustrato, quest’ultimo rimedio è in molti casi il solo a interessare alla parte non inadempiente ed è in ogni caso coerente con il manifestato interesse allo scioglimento del contratto
155.
Xxx s’intende, dunque, che la preclusione non operi quando il debitore abbia contestato vittoriosamente la domanda di risoluzione avversaria: in tal caso egli si è mostrato pronto ad adempiere e dunque la successiva condanna all’adempimento non lede il suo affidamento.
Anche sotto il profilo dell’effettività, quale principio volto ad assicurare un rimedio adeguato al soddisfacimento degli specifici interessi in gioco 156, il risarcimento del danno pare il rimedio generale meno invasivo e al tempo stesso il più delle volte sufficiente a soddisfare l’interesse del creditore. Il disincentivo verso la pretesa di adempimento in ogni tempo e a qualunque costo sembra, sotto questo aspetto, particolarmente rispettosa degli interessi economici delle parti e dunque, nel suo realismo, maggiormente rispettosa del citato principio di effettività.
4.4. Conclusioni: la natura anche sostanziale del divieto, la sua portata e la persistente lacuna dei «contratti morti».
Si è giunti alla seguente conclusione: alla parte che abbia domandato la risoluzione del contratto è preclusa la domanda di adempimento nello stesso processo e in successivi processi se il primo giudizio ha avuto un esito diverso dal rigetto nel merito dovuto alle difese del convenuto.
La norma, così interpretata, sanziona la parte adempiente tutte le volte in cui questa non si sia stata sufficientemente accorta da proporre — in via subordinata
154 Eloquente il titolo di un paragrafo del recente lavoro di X. XXXXX, Giudizialità e stragiudizialità, cit., 27; X. XXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento anche stragiudiziale, senza processo, purché (fuori dagli artt. 1453 e 1456)… per contratto anche tacito (o discordia concors per acquiescenza), ivi, 41 ss.
155 Il risarcimento del danno è, inoltre, il rimedio meno invasivo e meno lesivo delle posizioni di terzi. È quanto illustrano X. XXXXXXXXX – A.D. XXXXXXX, Property Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of The Cathedral, 85 Harv. L. Rev. 1089 1971-1972.
156 Da ultimo, per tutti, x. X. XXXXXXX, voce Effettività delle tutele (diritto civile), in Enc. dir., Xxxxxx, X, Milano, 2017, 381 ss.
rispetto all’infondata domanda di risoluzione — anche la domanda di adempimento, ad esclusione del caso in cui non vi sia un affidamento di controparte da tutelare.
La regola, fedele alla sua ratio storica ma al tempo stesso non ingessata, sembra opportuna anche nell’ottica di salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici e di incentivare il reimpiego delle prestazioni contrattuali una volta innescata da una delle parti la dinamica della risoluzione per inadempimento, trasferendo principalmente sul risarcimento del danno le aspettative di tutela della parte delusa.
Occorre sottolineare da ultimo che, così interpretata la norma, permane l’aporia dei «contratti giuridicamente morti»: ogni volta in cui il giudizio di risoluzione ha un esito diverso dall’accoglimento della domanda o dal rigetto nel merito, dipendente dalle difese del debitore convenuto, il contraente deluso si trova in mano un contratto che non ha potuto risolvere, ma del quale non può chiedere l’adempimento.
La conclusione non sorprende: al centro della vicenda, a ben guardare, vi è un onere di autoresponsabilità. Così come il convenuto, qualora si difenda vittoriosamente nel merito contro la domanda di risoluzione, dev’essere pronto ad affrontare un successivo giudizio di adempimento, anche l’attore che propone la domanda di risoluzione deve valutare accuratamente la propria strategia, senza che la sua mancata accortezza debba andare a detrimento degli interessi della controparte e generali. La mancanza di azionabilità di alcuni contratti, allora, trova spiegazione non tanto nella dicotomia «efficacia-inefficacia» del contratto, quanto in una perdita di un potere, in capo all’attore, dovuta alla sua precedente condotta e agli affidamenti da questa ingenerati.
Nondimeno, l’ammissione di contratti «morti» è imbarazzante per il sistema, anche perché ad essere legata al contratto non è soltanto la parte creditrice della prestazione non adempiuta, ma anche la controparte. Si rende pertanto desiderabile un’interpretazione delle regole tale da superare questa aporia 157.
157 Infra, cap. III, par. 6.2.1.
5. La natura giuridica del divieto: la domanda di risoluzione come «atto responsabile».
5.1. Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ., la rinuncia tacita e gli atti non negoziali che comportano la perdita del diritto.
Se il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. ha una portata sostanziale, uno sforzo ricostruttivo ulteriore può essere svolto per comprendere di fronte a quale tipo di dinamica sostanziale ci troviamo: se, cioè, la domanda di risoluzione sia un atto di disposizione del diritto all’adempimento o se invece la preclusione ricada sulla successiva domanda di adempimento come una sanzione.
Si trova affermato — per vero sporadicamente — che la proposizione senza riserve della domanda di risoluzione varrebbe come rinuncia tacita alla pretesa di adempimento 158. La stessa relazione del Guardasigilli, nell’illustrare la preclusione, può prestare il fianco a tale ricostruzione, utilizzando un linguaggio di stampo volontaristico: «scegliendo la risoluzione, il contraente implicitamente dichiara di non avere più interesse al contratto».
Per valutare la compatibilità tra il sistema delineato dall’art. 1453, comma 2, cod. civ. e il modello negoziale della rinuncia tacita occorre brevemente ricordarne i tratti essenziali individuati dalla dottrina.
La rinuncia 159 è un atto unilaterale non recettizio 160 a forma libera, salvi i casi espressamente previsti dalla legge 161. La rinuncia produce un effetto dismissivo, attraverso il quale il soggetto del rapporto giuridico fa uscire dal suo patrimonio il rapporto oggetto di rinuncia 162. Abdicando alla situazione giuridica di cui è titolare il
158 Con riguardo al sistema del codice previgente, utilizza il termine «rinuncia» all’interno della sua analisi
G.G. AULETTA, La risoluzione, cit., 460 ss. X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione, cit., 302 menziona l’istituto per escludere che la norma considerata preveda una fattispecie di rinuncia. Parla di rinuncia, commentando la norma di cui all’art. 1492, comma 2, cod. civ. in parallelo con l’art. 1453 cod. civ., C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, II, in Tratt. Vassalli, Torino, 1993, 957.
159 A. BOZZI, voce Rinunzia (diritto pubblico e privato), in Nov. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1140 ss.; X. XXXXXXX, voce Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 923 ss.; L.V. MOSCARINI, voce Rinunzia I – diritto civile, in Enc. giur. Xxxxxxxx, XXXX, Xxxx, 0000; X. XXXXXXXXXXX, Remissione del debito e rinunzia al credito, Napoli, 1968; X. XXXXXXX, Rinuncia tacita e Verwirkung, Padova, 1971; X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, in Tratt. Xxxxx, Assago, 2005, passim e spec. 418 ss.; X. XXXXX, La rinuncia tacita ad impugnare la deliberazione assembleare annullabile e la regola «protestatio contra factum non valet», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 671 ss.; X. XXXXXXXXX, voce Rinuncia, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg. IX, Assago, 2014, 604 ss.; X. XXXXXXXX, L’acquiescenza del creditore alla prestazione inesatta, in Studi giuridici in memoria di X. Xxxxxxxx, II, Torino, 1960, 1579 ss.
160 Si veda ad esempio L.V. MOSCARINI, voce Rinunzia, cit., 6.
161 Ha forma scritta la rinucia ai diritti reali su beni immobili e mobili registrati, ai sensi dell’art. 1350, comma 1, n. 5, cod. civ.
162 X. XXXXXXXXXXX, Remissione, cit., 76.
rinunciante modifica così, quanto meno sotto il profilo soggettivo, il rapporto giuridico
163. Effetti ulteriori, come l’estinzione del diritto, sono meramente accidentali 164.
La rinuncia è ritenuta dalla dottrina un atto negoziale 165: ciò significa che la volontà del rinunciante deve coinvolgere tanto l’atto quanto l’effetto tipico 166.
Come conseguenza del principio di libertà della forma della rinuncia, è pacificamente ammessa la rinuncia tacita. In tal caso, la giurisprudenza ripete costantemente che la rinuncia deve consistere in un comportamento del titolare del diritto assolutamente incompatibile con la volontà di esercitarlo e dal quale sia invece desumibile univocamente la volontà di dismetterlo. Tale volontà non può essere presunta 167. Non costituiscono perciò rinuncia tacita né il mero silenzio né il mancato esercizio del diritto per un periodo di tempo anche inusualmente lungo 168.
La rinuncia tacita è stata accuratamente studiata da una tradizione comparatistica e civilistica che contrappone due modelli di atto dismissivo del diritto: il modello negoziale di stampo romanistico e il modello non negoziale di stampo germanico 169. In entrambi i casi l’effetto è il medesimo: la perdita del diritto da parte
163 X. XXXXXXX, voce Rinuncia, cit., 926.
164 X. XXXXXXXXXXX, Remissione, cit., 76: «L’effetto essenziale e costante che caratterizza la rinunzia è la perdita del diritto da parte del soggetto rinunziante, mentre l’estinzione dello stesso è effetto secondario, riflesso, eventuale». A conferma dell’enunciato l’Autore ricorda, ad esempio, il caso della rinuncia del comunista, il cui diritto si accresce agli altri (su cui, ex multis, Cass., 9 novembre 2009, n. 23691, in De Jure).
165 Da ultimo, in una recente ricognizione, X. XXXXX, I contratti. Le promesse unilaterali. L’apparenza, Torino, 2017, 625.
166 Come noto, citando la più autorevole dottrina, nel negozio giuridico «[n]on solo l’azione è voluta come negli atti giuridici in senso stretto, ma l’azione è espressione di una volontà diretta a uno scopo e come tale è giuridicamente rilevante. Il negozio giuridico consta, pertanto, di questi due elementi: l’uno esterno, che è l’atto, e l’altro interno, che è la volontà». Cosi X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., rist. 2012, 125 s.
167 Così, da ultimo, Xxxx., 3 ottobre 2018, n. 24139, in De Jure: «La rinuncia ad un diritto oltre che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l'onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l'inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni».
168 Come si vedrà a breve nel testo, il sistema italiano, conformandosi a quello francese, è rimasto fedele alla necessità di un atto di volontà, quale la rinuncia, affinché si produca l’effetto estintivo del diritto. Diversamente, il sistema tedesco conosce da tempo l’istituto giurisprudenziale della Verwirkung, il quale
«comporta la perdita del diritto soggettivo in seguito alla inattività del titolare, durata per un periodo di tempo non determinato a priori, ed alla concorrenza di circostanze idonee a determinare una affidamento meritevole di tutela in base al principio di buona fede» (X. XXXXX, voce Verwirkung, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, 722). È sufficiente osservare dunque, per il momento, che in entrambi i sistemi la mera inerzia, a meno che non conduca al decorso del termine di prescrizione, non comporta di per sé l’estinzione del diritto.
169 Nella dottrina italiana l’analisi in parallelo dei due modelli, quello della rinuncia tacita e quello della
Verwirkung, è stata condotta, in particolare, da X. XXXXXXX, Rinuncia tacita e Verwirkung, cit. L’Autore
del titolare. Nel modello romanistico, però, la perdita è sovente spiegata ricorrendo al concetto di rinuncia tacita: il titolare non può più esercitare il diritto perché vi ha rinunciato con comportamenti concludenti 170. Nel diritto germanico, invece, la perdita del diritto non viene fatta risalire a un atto negoziale, ma a una preclusione al successivo esercizio del diritto da parte di colui il quale abbia ingenerato in altri l’affidamento circa la dismissione del diritto stesso: si tratta di un’applicazione del divieto di venire contra factum proprium, il cui esempio più noto e tipizzato a livello giurisprudenziale è la Verwirkung, ossia la perdita del diritto per il suo mancato esercizio per un lungo lasso temporale da parte del titolare, in concorso con circostanze idonee a determinare un affidamento meritevole di tutela in altri soggetti 171.
Da tempo, tuttavia, tale contrapposizione è messa in dubbio sotto un duplice profilo. Da un lato si è rilevato come nel diritto applicato sia gli ordinamenti romanistici sia quelli germanici raggiungano gli stessi risultati pur ricorrendo, sul piano formale, ad argomentazioni diverse: i giuristi neo-latini parlano di rinuncia tacita laddove i tedeschi parlano di Verwirkung 172. Dall’altro lato, anche nel nostro ordinamento sono conosciuti e studiati fatti e comportamenti che importano la perdita di un diritto pur non inserendosi nel modello della rinuncia tacita.
In tal senso si distingue la rinuncia tacita da altre fattispecie in cui possono crearsi affidamenti anche particolarmente qualificati, ma nelle quali è assente un atto o un comportamento concludente direttamente finalizzato alla dismissione del diritto da parte del suo titolare. È il caso del silenzio o dell’inattività, i quali, in alcuni casi, possono produrre effetti, tra cui la perdita del diritto 173. È anche il caso della tolleranza
giunge alla conclusione che, nonostante le differenze argomentative — la fedeltà dei giudici francesi e italiani al modello negoziale e quella dei giudici tedeschi all’istituto della Verwirkung —, le due soluzioni muovano da esigenze sostanzialmente uniformi e conducano a risultati assimilabili. Sul tema cfr. inoltre X. XXXXX, voce Verwirkung, cit.
170 X. XXXXXXX, Rinuncia tacita e Verwirkung, cit., 65 ss.
171 ID., Rinuncia tacita e Verwirkung, cit., 14 ss.; X. XXXXX, voce Verwirkung, cit. Da ultimo, X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 234 individua nella Vervirkung un «tronco» nato dalla radice del divieto di contraddizione, divenuto istituto autonomo tipizzato da dottrina e giurisprudenza.
172 X. XXXXXXX, Rinuncia tacita e Verwirkung, cit., 120 ss.
173 Si pensi a istituti come la prescrizione e l’acquiescenza. Xxxx’acquiescenza sostanziale, la sua negozialità e le differenze tra il modello continentale negoziale e il modello germanico del venire contra factum proprium cfr. X. XXXXXXXX, L’acquiescenza del creditore, cit., spec. 1586 ss. In una nota sentenza, la Corte di cassazione ha espressamente escluso che nell’ordinamento italiano sia riscontrabile un istituto analogo a quello della Verwirkung, concludendo che il semplice ritardo del titolare nell’esercitare il diritto non costituisce ex se condotta contraria a buona fede. Così Xxxx., 15 marzo 2004, n. 5240, in Riv. dir. civ., 2005, con nota di X. XXXXXX, Ritardo nell’esercizio del credito, Verwirkung e buona fede,
di fronte all’inadempimento altrui o alla violazione del diritto da parte di altri soggetti
174, su cui avremo modo di tornare in seguito 175.
Sul punto, per tenere distinte queste fattispecie dalla rinuncia, è prezioso l’insegnamento di chi, a proposito della differenza tra rinuncia tacita e tolleranza (la quale, a certe condizioni, preclude l’esercizio del diritto), servendosi dell’istituto giuridico della Verwirkung, scrive: «Nel caso della Verwirkung il comportamento rileva […] come elemento che determina il sorgere di un affidamento. Si prescinde dalla ricerca dell’intento del titolare del diritto e si valuta unicamente l’incidenza che la sua tolleranza ha avuto nei confronti della controparte. Dalla valutazione del comportamento possono derivare effetti sfavorevoli al titolare del diritto e certamente da lui non voluti. In definitiva, l’accertamento dell’esistenza di una rinunzia tacita, anche se determina la perdita del diritto, comporta un risultato che non contrasta con la volontà del titolare perché costituisce la realizzazione di un suo atto di disposizione del diritto. A seguito della tolleranza, invece, data l’esigenza di tutelare l’affidamento che il comportamento ha determinato, viene imposto al titolare del diritto un sacrificio che non trova fondamento nella sua volontà ma nella limitazione che la legge impone a tutti i diritti privati tramite la norma di buona fede» 176.
Il passo citato esprime la differenza decisiva tra la rinuncia tacita e quegli atti o comportamenti, particolarmente rilevanti nel diritto tedesco ma conosciuti anche dal nostro ordinamento, in cui la perdita del diritto non è l’effetto di un negozio giuridico ad essa finalizzato: nel caso della rinuncia, la dismissione del diritto è coerente con la volontà del titolare del diritto; nell’altro caso, la perdita del diritto si verifica a prescindere dalla volontà del titolare o in contrasto con essa.
Sulla base di queste considerazioni è possibile tornare all’interrogativo da cui siamo partiti: se l’estinzione del diritto all’adempimento prevista dall’art. 1453, comma 2, cod. civ. sia l’effetto di una rinuncia tacita, manifestata dalla proposizione della domanda di risoluzione.
Xxxxxxxxx, pur brevemente, le due categorie di atti e comportamenti dismissivi, ossia quella negoziale della rinuncia tacita e quella non negoziale, sembra di poter
174 Sul punto cfr. X. XXXXX, Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978; ID., voce Tolleranza (atti di), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992,701 ss.
175 Infra, cap. III, par. 2.1.
176 X. XXXXX, Profili della tolleranza, cit., 56.
affermare che chi domanda la risoluzione non esprime, con ciò stesso, la volontà di dismettere il rapporto contrattuale: invoca un rimedio, ma non possiamo dire che dismetta volontariamente la propria posizione contrattuale. La perdita della pretesa all’adempimento non è, perciò, necessariamente conforme alla volontà del contraente deluso che ha chiesto la risoluzione e non è certamente l’unico effetto cui mira l’atto
177.
Chi domanda la risoluzione, però, può ingenerare nella controparte l’affidamento nel suo disinteresse verso la prestazione oggetto del contratto. La perdita della pretesa all’adempimento non è allora l’effetto di una rinuncia, ma assomiglia maggiormente all’altra categoria: quella della perdita del diritto contro la (o a prescindere dalla) volontà del titolare.
5.2. La domanda di risoluzione come «opzione».
Si è detto che il divieto di domandare l’adempimento è un effetto prodotto praeter o contra la volontà del contraente che ha domandato la risoluzione ed è come tale assimilabile a quelle fattispecie in cui il titolare perde il diritto come effetto dell’affidamento da lui ingenerato verso terzi specificamente individuati o verso la collettività nel suo insieme.
Tuttavia, rispetto alle fattispecie cui si è fatto rapido riferimento appena sopra (silenzio, inerzia, tolleranza), vi è, nel caso che ci occupa, una palese differenza: nel nostro caso il contraente deluso esercita una scelta e compie un atto, peraltro formalizzato in una domanda giudiziale. Sebbene non concreti una rinuncia alla posizione contrattuale, la domanda di risoluzione è, senz’altro, un atto giuridico.
A livello descrittivo, per meglio inquadrare la fattispecie, può allora essere utile recepire l’insegnamento di autorevole dottrina che riconduce la dinamica della risoluzione per inadempimento alla famiglia di quelle che denomina «fattispecie ad effetto opzionale» 178. Si tratta di quelle fattispecie in cui la produzione di un certo effetto giuridico dipende da una manifestazione di volontà di un soggetto. L’ampia categoria si presta così a ricomprendere i diritti potestativi (si pensi al recesso), le
177 Con la domanda di risoluzione il contraente deluso, normalmente, fa anche valere la propria pretesa al risarcimento del danno, con ciò intendendo soddisfare un duplice interesse: quello a ottenere il profitto atteso dall’esecuzione del contratto e, contemporaneamente, quello a liberarsi dalla propria obbligazione. 178 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 46 ss. e spec. 52.
eccezioni con cui la parte processuale dispone del diritto (su tutte la prescrizione), i rimedi contrattuali (annullamento e risoluzione su tutti).
Questa categoria trasversale ha il pregio di porre in luce l’aspetto dinamico degli istituti interessati: viene difatti messa al centro della ricostruzione la scelta del titolare del diritto, cui l’ordinamento concede la possibilità di attivare o meno una certa dinamica.
La scelta, per quanto libera, comporta conseguenze, perché modifica direttamente la realtà sostanziale o attiva meccanismi previsti dall’ordinamento e volti al raggiungimento del fine perseguito dal titolare del diritto 179.
Alcuni degli effetti della scelta del titolare del diritto incidono sulla posizione sostanziale degli altri soggetti del rapporto: una su tutte la creazione di affidamenti.
È tra queste conseguenze che sembra inserirsi il divieto di domandare l’adempimento per chi abbia chiesto la risoluzione del contratto: la manifestazione dell’intento di risolvere il contratto ha effetti diretti nella sfera giuridica della controparte, che l’ordinamento si preoccupa di tutelare.
Perché, allora, vietare la domanda di adempimento? La ragione sembra essere che tale domanda è connotata da un disvalore che ne impedisce l’accoglimento. Tale disvalore è dovuto al fatto che il contraente deluso ha ritrattato la propria scelta: ha cioè tenuto un comportamento che, contraddicendo la condotta precedente, ha interferito con le aspettative e gli affidamenti da questa generati.
È allora il caso di chiedersi se il divieto espresso dal legislatore italiano nell’art. 1453, comma 2, cod. civ. possa essere una manifestazione di un più ampio principio di non contraddizione: se, cioè, sia vero, come insegna la dottrina citata, che «il sistema dell’opzionalità opera assistito dalla ratio etica. Il soggetto del potere di scelta non può optare e poi cambiare idea, non può creare affidamenti e disillusioni» 180 .
179 È bene precisare che, attraverso la scelta, il titolare del diritto o dell’azione non modifica necessariamente la realtà sostanziale: ciò accade sicuramente nel caso dell’esercizio dei diritti potestativi; non invece nel caso dell’invocazione dei rimedi contrattuali a necessario esercizio giudiziale — quale la risoluzione ex art. 1453, comma 1, cod. civ., appunto (salvo quanto si avrà modo di dire a proposito dell’opinione di chi, tra cui lo stesso Xxxxx, riconduce alla proposizione della domanda di risoluzione l’effetto risolutivo: cfr. infra, cap. III, par. 3).
180 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 49.
5.3. La domanda di risoluzione come atto responsabile e il disvalore della successiva domanda di adempimento: un’epifania del divieto di venire contro il fatto proprio?
Prima di procedere oltre occorre soffermarsi sul significato dell’indagine che stiamo svolgendo. Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. è un divieto espressamente previsto dal legislatore e l’applicazione giurisprudenziale e l’interpretazione dottrinale ne permettono una spiegazione autonoma e in larga parte soddisfacente. Perché, dunque, insistere nel cercare la riconducibilità di questa norma a una categoria o una ratio decidendi di più ampia portata?
L’indagine merita di essere condotta per due ragioni: da un lato per meglio spiegare il funzionamento della norma, perché ricondurre il divieto a una categoria più ampia può permettere di confermare con maggior consapevolezza o rivedere le conclusioni cui si è giunti sulla sua natura e la sua portata. Dall’altro, un inquadramento sistematico di più ampio respiro può essere funzionale al prosieguo dell’indagine, per aiutare a capire come i conflitti che possono sorgere nella dinamica della risoluzione da inadempimento sono risolti nel nostro ordinamento.
Fatta questa premessa, torniamo alla scelta operata dal contraente deluso e agli affidamenti che essa genera.
Indagini comparatistiche dimostrano come tutti gli ordinamenti giuridici conoscono, come istituti di creazione giurisprudenziale o rationes decidendi occulte, fattispecie in cui a una determinata condotta del titolare del diritto consegue la preclusione all’esercizio del diritto stesso in un momento successivo. Istituti di questo tipo sono, ad esempio, la Verwirkung tedesca e l’exceptio doli del diritto romano, l’estoppel di common law, l’abuso del diritto. Un argomento, più o meno esplicito, che giustifica l’applicazione di istituti di tal genere è sovente il divieto di contraddizione, espresso anche dalla formula nemo contra factum proprium venire potest. Segno comune di tutti questi istituti e argomenti, pur nella loro diversità, sarebbe il fatto che dà luogo alla vicenda giuridica, definito «atto responsabile» 181: un atto, ma anche una condotta, che crea un’apparenza e ingenera negli altri l’affidamento sulla situazione apparente. Chi ha dato luogo all’apparenza e al relativo affidamento non può, successivamente, ritrattare ed esercitare, pur in modo formalmente lecito, un potere in contrasto con l’affidamento creato.
181 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 227 ss.
Nell’ordinamento italiano il ruolo di precludere l’esercizio di diritti in contrasto con le aspettative altrui è svolto, su un piano più generale, dal divieto di abuso del diritto — istituto di particolare ampiezza che esula dall’oggetto della presente trattazione — e, più nel particolare, dall’exceptio doli generalis.
Quest’ultima 182, risalente al diritto romano, è un rimedio volto a precludere l’esercizio di un diritto che, pur strettamente conforme all’ordinamento, lede gli affidamenti sorti tra le parti 183. Oggi l’istituto, a lungo sopravvissuto come ratio decidendi occulta nel nostro ordinamento 184, è sovente applicato dalla giurisprudenza e studiato dalla dottrina 185, nonché riconosciuto come specificazione del principio di buona fede, per quanto, da parte di autorevoli Autori, ne vengano criticati il fondamento e il rigore applicativo 186.
182 In generale sul tema, nella dottrina italiana, cfr. A.A. DOLMETTA, Exceptio doli generalis, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, 147 ss.; X. XXXXXXXX (a cura di), L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, Padova, 2006; X. XXXXXXX, L’Exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Xxxxxx, 0000; ID., Il fondamento sistematico dell’exceptio doli e gli obiter dicta della Cassazione, in Contratto e impr., 2007, 1369 ss.; X. XXXXXXX, voce Eccezione di dolo generale, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1991, 311 ss.; X. XXXXX, Exceptio doli generalis ed exceptio doli specialis, nota a Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Contratti, 2007, 980 ss.; X. XXXXXXXX, voce Eccezione di dolo, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 218 ss.
183 V. per tutti X. XXXXXXX, voce Eccezione di dolo generale, cit., 312.
184 Ibidem.
185 L’exceptio doli trova frequente applicazione nel diritto vivente. Tra le fattispecie più note, l’istituto è applicato: nel caso di escussione di una fideiussione a prima richiesta — o contratto autonomo di garanzia
— quando il debito garantito sia già estinto o comunque non esigibile, ad esempio, per nullità del titolo (Così, nella giurisprudenza più recente, Cass., 11 dicembre 2018, n. 31956, in De Jure; Cass., 31 luglio 2015, n. 16213, ivi); di frazionamento del credito (cfr., anche se la Corte non menziona espressamente l’exceptio, Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726, in De Jure e, da ultimo, Cass., 19 gennaio 2018, n. 1356, in Corr. giur., 2018, 759 ss., con nota critica di X. Xxxxx). Sul tema sono tornate recentemente le Sezioni Unite, la cui motivazione tiene conto dei principi elaborati all’interno della categoria, confinante con quella dell’exceptio, dell’abuso del processo (Cass., S.U., 16 febbraio 2017, n. 4090, in Riv. dir. proc., 2017, 1302 ss., con nota di M.F. GHIRGA, Frazionamento dei crediti, rapporti di durata e interesse ad agire). Da ultimo, è stata sottoposta alle Sezioni Unite una fattispecie in cui avrebbe potuto trovare applicazione, secondo parte della giurisprudenza, l’exceptio, quale espressione del generale principio di buona fede e di divieto di abuso dello strumento processuale: l’impugnazione, da parte dell’investitore, delle sole singole operazioni d’investimento a lui sfavorevoli svolte in esecuzione di un contratto quadro viziato, la c.d. «nullità selettiva» (l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite è Cass., 2 ottobre 2018, n. 23927, tra gli altri in Corr. giur., 2019, 172 ss., con nota di X. XXXXXXX, Nullità selettive: la “particolare importanza” di selezionare calcolando i probabili vantaggi e il processo civile come contesa tra opportunisti). La decisione delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 4 novembre 2019, n. 28314, citata infra, al cap. III, par. 2.2.2) non ha fatto espresso uso dell’exceptio doli nell’enunciazione del principio di diritto, ma ad un’eccezione «di buona fede» opponibile dall’intermediario convenuto nei limiti del petitum azionato dall’investitore.
186 X. XXXXXXXX, Buona fede e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 638, parla di «concetto a sua volta sostanzialmente ambiguo, data la varietà di applicazioni che ne sono state proposte, e per conseguenza discutibile anche sul piano sistematico, a causa della diversità dei fenomeni che potenzialmente esso potrebbe designare».
Si avrà modo di tornare sull’exceptio doli quando si affronteranno fattispecie non regolate espressamente da una norma, nonché quando si cercheranno di tracciare le linee complessive del sistema 187.
In questa sede, invece, il richiamo all’exceptio doli, per quanto utile a fini descrittivi, è senz’altro improprio: l’exceptio preclude l’esercizio di un diritto formalmente azionabile quando tale esercizio si rivela difforme a giustizia. Essa dunque opera, per definizione, come rimedio non scritto. Nel nostro caso, invece, l’oggetto dell’indagine è un divieto espresso: non vi è bisogno di un rimedio atipico per precludere la domanda di adempimento successiva a quella di risoluzione.
È però interessante, ai nostri fini, una delle rationes normalmente sottese all’exceptio doli: il divieto di venire contra factum proprium 188. Quest’ultimo, più che un istituto, è un argomento 189 particolarmente valorizzato dalla dottrina tedesca dell’inizio del XX secolo come espressione del generale principio di buona fede e utilizzato nell’ordinamento tedesco, da un lato, a sostegno della preclusione dell’esercizio arbitrario dei diritti e, dall’altro, come abbiamo già visto, quale giustificazione dell’istituto della Verwirkung 190.
Nonostante la giurisprudenza italiana non ne facesse sovente un utilizzo espresso 191, la recente dottrina ha studiato con attenzione questo argomento, cercando di comprendere se trova posto, nel diritto italiano, un generale divieto di contraddizione 192. Una conclusione in linea con la ricostruzione sin qui proposta è quella secondo cui l’ordinamento italiano non vieta la contraddizione in sé, ma la contraddizione che lede un legittimo affidamento 193, intervenendo e ponendo un limite all’esercizio del diritto.
Gli studi specificamente dedicati al brocardo non menzionano la norma di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. tra le regole del Codice civile italiano ritenute
187 Infra, cap. III.
188 Il tema del divieto di contraddizione ha ricevuto particolare attenzione da parte della dottrina italiana nel corso della prima decade del secolo. Si vedano, sul punto, X. XXXXXX, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006; X. XXXXX, Il divieto di “venire contro il fatto proprio”, Milano, 2007; X. XXXXXXX, Forma ad substantiam, gestione di affari e divieto di venire conto il fatto proprio, nota a Trib. Roma, 13 luglio 2004, in Giust. civ., 2005, 1938 ss.; A.P. XXXXXX, Venire contra factum proprium e responsabilità, in Resp. civ. prev., 2009, 513 ss. e ancora X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 231 ss.
189 Di «criterio pratico» parla X. XXXXXXXX, Buona fede e abuso del diritto, cit., 639.
190 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 231 ss.
191 Di «applicazione occulta» parla X. XXXXXXX, Forma ad substantiam, cit., 1939. 192 Cfr., in particolare, l’indagine di X. XXXXXX, Venire contra factum proprium, cit. 193 ID., Venire contra factum proprium, cit., 237.
espressione del generale divieto di contraddizione 194. Viceversa, taluni studiosi della risoluzione del contratto spiegano il divieto di cui alla norma in commento ricorrendo esattamente al divieto di contraddizione. Leggiamo così, in uno dei primi studi specificamente dedicati al problema del divieto di domandare l’adempimento una volta chiesta la risoluzione, che «quand’anche non vi fosse il secondo comma dell’art. 1453, chi agisce in risoluzione potrebbe chiedere l’adempimento solo in via subordinata o in successivo processo, non potendosi volere nello stesso tempo la risoluzione e la conservazione del contratto, per la contraddizione che nol consente»
195.
Il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. sembra effettivamente ispirato a sanzionare la contraddizione di chi prima ingeneri l’affidamento nella controparte circa il proprio disinteresse verso la prestazione e poi ne chieda l’esecuzione. Il divieto, difatti, sanziona esattamente la condotta di chi, manifestata una certa intenzione, tiene successivamente un comportamento antitetico.
In tal senso, la domanda di risoluzione ricalcherebbe il modello dell’«atto responsabile» cui si è poc’anzi fatto cenno: dopo averla proposta l’attore non può più agire arbitrariamente, ma è vincolato alla situazione di apparenza e affidamento creata e deve rispettare l’affidamento della controparte.
Con ciò non s’intende prendere posizione sull’esistenza di un principio di non contraddizione immanente nell’ordinamento italiano. L’indagine sin qui svolta offre tuttavia molteplici elementi per ritenere il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. fondato su un’esigenza di tutela dell’affidamento contro comportamenti arbitrari sicuramente coerente con il canone di non contraddizione.
5.4. Conseguenze applicative: la flessibilità del divieto.
Il modello del divieto di contraddizione si presta a chiarire il funzionamento della norma di cui al secondo comma dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. in coerenza con le soluzioni che si sono raggiunte.
194 Compiono una dettagliata analisi di singole norme ritenute indici dell’immanenza del principio nel nostro ordinamento X. XXXXXX, Venire contra factum proprium, cit., 177 ss. e X. XXXXXXX, voce Eccezione di dolo generale, cit., 322 s. Cfr. anche X. XXXXX, I contratti, cit., 612 ss.
195 A. KLITSCHE DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento, cit., 33. Pur dissentendo dall’interpretazione offerta del divieto, X. XXXXX, Trattato, cit., 2101 ritiene la norma espressione del divieto di venire contro il fatto proprio.
Quando una norma è ispirata al divieto di contraddizione o una sentenza ne fa uso, esplicitamente o meno, il comportamento è precluso in quanto considerato con disvalore dall’ordinamento. Esso è considerato con disvalore in quanto contrastante con un precedente atto generatore di affidamento. L’attenzione, dal punto di vista sostanziale, ricade dunque sul secondo atto, su quello che contraddice il primo, creatore della situazione di apparenza e dell’affidamento.
Ciò vale a distinguere nettamente la fattispecie in esame dalla rinuncia tacita: nella dinamica della rinuncia tacita, l’attenzione è tutta focalizzata sul «primo» atto, quello dismissivo. Il «secondo» atto, quello di disposizione del diritto cui si è già rinunciato, è un atto privo di oggetto, un atto insensato.
Ciò significa che, se la domanda di risoluzione fosse considerata una rinuncia tacita, il diritto di chiedere l’adempimento sarebbe perso in ogni caso: ogni volta che il contraente deluso proponesse senza riserve la domanda di risoluzione perderebbe senz’altro il diritto a domandare l’adempimento. Tale conclusione — pur autorevolmente sostenuta, anche senza bisogno di ricorrere all’istituto della rinuncia tacita 196 — sarebbe in contrasto con quella sopra raggiunta, che ritiene che il divieto in esame abbia una portata relativa.
Viceversa, una spiegazione della preclusione secondo i termini del divieto di contraddizione offre maggior flessibilità applicativa.
Se, difatti, l’attenzione ricade sul «secondo» atto, ossia sulla pretesa di adempimento, occorrerà, caso per caso, valutare se essa sia meritevole di tutela o, viceversa, meriti disvalore da parte dell’ordinamento. Coerentemente con le conclusioni raggiunte, perciò, il diritto di chiedere l’adempimento dovrà ritenersi estinto — e quindi non azionabile in un successivo processo — tutte le volte in cui la controparte ha potuto fare legittimo affidamento sulla volontà del contraente deluso di sciogliere il contratto. Al contrario, quando l’affidamento non c’è, perché il debitore ha contrastato vittoriosamente la domanda di risoluzione, non potrà essere valutata negativamente, da parte dell’ordinamento, la domanda di adempimento successiva da parte del contraente deluso.
Come si può agevolmente osservare, parliamo di pretesa meritevole o immeritevole: affiora qui forse quella «ratio etica» di cui parla la citata dottrina a
196 È, come illustrato, tra le altre, l’opinione di X. XXXXXXXXX, sub art. 1453, cit., 92
proposito della responsabilità generata dall’opzione nelle fattispecie ad effetto opzionale 197.
Da ultimo, osserviamo che questa spiegazione, anziché proteggere unilateralmente gli interessi dell’una o dell’altra parte, consente un contemperamento dei rispettivi interessi secondo il canone di autoresponsabilità.
È difatti possibile guardare al contenzioso sulla risoluzione da inadempimento, secondo un brillante insegnamento 198, da entrambe le prospettive: quella, tradizionale, del contraente deluso, sui cui atti ci si è sinora concentrati, e quella, meno studiata, del debitore.
Ora, poiché, secondo un diffuso insegnamento 199, il mancato rispetto del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ. non sarebbe rilevabile d’ufficio, esso dovrebbe essere necessariamente eccepito dal convenuto inadempiente. Se si guarda alla condotta processuale di quest’ultimo sotto l’angolo visuale del divieto di contraddizione, si può osservare come egli possa legittimamente opporsi alla domanda di adempimento solo qualora non abbia precedentemente tenuto una condotta ostativa alla domanda di risoluzione. Tanto il contraente deluso quanto il debitore sono tenuti a una condotta coerente. Se il primo agisce chiedendo l’adempimento in contrasto con la precedente condotta o il secondo resiste alla domanda di adempimento dopo essersi opposto vittoriosamente alla risoluzione, l’azione del primo o l’eccezione del secondo sono colpiti, simmetricamente, dallo stesso disvalore.
La spiegazione della portata del divieto data sulla base della ratio di tutela dell’affidamento del contraente inadempiente sembra così confermata anche da una lettura alla luce del principio di non contraddizione, cui si può dire che la norma in commento si ispiri. Altro discorso, che si affronterà solo dopo una disamina delle fattispecie non codificate, è quello della riconoscibilità, nel principio di non contraddizione, di una delle linee di fondo del sistema della risoluzione per inadempimento 200.
197 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 49.
198 X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 482.
199 Ex plurimis, Cass., 14 marzo 2006, n. 5460, in De Jure.
200 Infra, cap. IV, par. 3.
6. Il ruolo della preclusione nel sistema.
6.1. Un indice testuale: la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 1492 cod. civ.
Nell’illustrare la portata e il significato del divieto di cui al secondo comma dell’art. 1453 cod. civ., si sono invocati principi generali quali la tutela dell’affidamento, l’autoresponsabilità, la certezza, il divieto di contraddizione.
Il divieto in parola non è dunque frutto di una norma isolata nel diritto dei contratti, ma risponde a esigenze generali profondamente avvertite dal legislatore. Di ciò si può trovare conferma nel dettato del secondo comma dell’art. 1492 cod. civ., che riguarda il rapporto tra le azioni edilizie in caso di vendita di un bene affetto da vizi.
L’art. 1492 cod. civ., al secondo comma, prevede che, nel caso in cui il compratore agisca facendo valere la garanzia per vizi della cosa venduta, la scelta tra la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo «è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale» 201.
Anzitutto, alcune osservazioni preliminari sulla norma. La lettera della disposizione parla di «scelta»: il lessico del legislatore sembra dunque coerente con la prospettazione sopra ricordata che configura l’esercizio di un rimedio posto in alternativa a un altro come un’«opzione» 202.
La norma poi precisa che la scelta diviene irrevocabile quando fatta con domanda giudiziale: il legislatore è qui esplicito nel richiedere una particolare forma della manifestazione di volontà, che le imprime solennità e definitività. L’art. 1453, comma 2, cod. civ. riguarda anch’esso, sicuramente, la domanda giudiziale di risoluzione. D’altro canto, si è già accennato che è dibattuto se la diffida stragiudiziale possa produrre un effetto preclusivo analogo 203.
201 Sul punto, C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, cit., 955 ss.; X. XXXXX – X. XXXXXXX, Della vendita, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1492-1494, Bologna-Roma, 1981, 267 ss.; X. XXXXXXXX, La compravendita, VIII ed., Torino, 2015,322; ID., La vendita, in Tratt. Cicu-Messineo-Xxxxxxx-Xxxxxxxxxxx, Milano, 2014, 489 s.; X. XXXXXXX, Il concorso di azioni nella patologia della vendita, in Riv. dir. civ., 1989, 765 ss.; X. XXXXXXXXX, La garanzia per i vizi della cosa venduta. Le obbligazioni del compratore, in Comm. Xxxxxxxxxxx, sub art. 1492, Milano, 2012, spec. 82 ss.; X. XXXXX, L’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale dell’art. 1492 c.c., in Giust. civ., 1988, II, 91 ss.
202 X. XXXXX, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 46 ss. e supra, par. 5.2.
203 È, come noto, la tesi espressa da X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 646. Si tornerà sul punto parlando di giudizialità e stragiudizialità delle forme di risoluzione per inadempimento (infra, cap. III).
Venendo all’interpretazione della norma, deve essere senz’altro rilevata una differenza sostanziale tra l’ipotesi regolata dall’art. 1492 cod. civ. e quella di cui all’art. 1453 cod. civ.: la prima norma riguarda due rimedi — le azioni edilizie — perfettamente alternativi tra loro, i cui presupposti di accoglibilità sono identici 204. L’art. 1453 cod. civ. riguarda due domande — quella di adempimento e quella di risoluzione — dai presupposti almeno parzialmente non coincidenti 205.
Una seconda differenza rilevante tra le due ipotesi è poi la seguente: nei rimedi generali contro l’inadempimento, l’azione di adempimento consiste nella richiesta al giudice di costringere la controparte a svolgere ciò che già è obbligata a fare, senza quindi una modifica della situazione sostanziale, mentre la risoluzione è volta a ottenere un nuovo e diverso stato delle cose; tra le azioni edilizie, invece, nessuna delle due mira a far ottenere al compratore esattamente la prestazione dovuta: entrambe incidono sul vincolo contrattuale, alterando le prestazioni (actio quanti minoris) o sciogliendo il contratto (actio redhibitoria).
Tra i rimedi generali, solo l’azione di risoluzione è volta a determinare un nuovo stato delle cose ed è dunque la sola in grado di ingenerare in controparte un affidamento meritevole di tutela in una nuova situazione. Per quanto riguarda le azioni edilizie, l’esercizio di ciascuna delle due è idoneo a ingenerare l’affidamento del venditore in un nuovo assetto di interessi: nel caso di esercizio dell’actio quanti minoris il venditore potrà confidare nell’accettazione della prestazione, nonostante i vizi, da parte del compratore; nel caso della domanda di risoluzione — come nel regime generale — il venditore confiderà nel disinteresse nella cosa venduta 206.
Da quanto detto, emerge che la preclusione ha una duplice giustificazione.
Da un lato, essa tutela l’affidamento del venditore nell’accettazione o nel rifiuto da parte del compratore del bene viziato.
204 Ciò è stato chiarito già da Cass., S.U., 25 marzo 1988, n. 2565, in De Jure, che, tra i tanti, ha raccolto l’assenso, sul punto, di X. XXXXXXX, Il concorso di azioni, cit., 771. Conseguenza pratica di non poco rilievo è quella per cui, ai fini della risoluzione, sono sufficienti i presupposti di cui agli artt. 1490 ss. cod. civ. e non quelli di cui all’art. 1455 cod. civ. L’insegnamento delle Sezioni Unite trova costante conferma. Tra le più recenti cfr. Cass., 27 gennaio 2004, n. 1434, in De Jure.
205 La giurisprudenza riconosce opportunamente la differenza e ritiene perciò inapplicabile la norma speciale in tema di vendita al contratto di appalto, cui è invece applicabile la regola generale. Così, tra le più recenti, Cass., 24 gennaio 2019, n. 2037, in De Jure; Cass., 29 novembre 2007, n. 24948, ivi.
206 C.M. BIANCA, La vendita, cit., 957.
Dall’altro, secondo la spiegazione comunemente utilizzata in giurisprudenza, essendo identici i presupposti di accoglibilità di entrambe le azioni, l’inesistenza dei presupposti di una preclude l’esercizio dell’altra.
Le differenze di fondo illustrate si riflettono sull’operatività della preclusione, comportando due differenze applicative rispetto al regime di cui all’art. 1453 cod. civ. La prima: la preclusione, come abbiamo accennato, opera in entrambe le direzioni. Non solo l’actio quanti minoris è preclusa dalla precedente domanda di risoluzione, ma anche la risoluzione è preclusa dalla precedente domanda di riduzione
del prezzo.
La seconda: la preclusione è destinata a operare senza limiti di tempo e indipendentemente dall’esito del giudizio 207: essendo i due rimedi su un piano di perfetta alternatività, non vi è spazio per la proposizione in un successivo giudizio della diversa domanda, nemmeno in caso di rigetto nel merito — caso in cui abbiamo concluso che l’azione di adempimento ex art. 1453, comma 2, cod. civ. sarebbe proponibile dopo il rigetto della domanda di risoluzione —, perché anch’essa sarebbe destinata alla medesima sorte 208.
Detto delle vistose differenze tra le due norme, vi è però da sottolineare un elemento comune agli artt. 1453, comma 2, e 1492, comma 2, cod. civ.: entrambe le norme hanno lo scopo, pacificamente riconosciuto, di tutelare l’affidamento del convenuto nella decisione assunta dall’attore. Nel caso della norma in tema di vendita, tale affidamento merita di essere valorizzato in entrambe le direzioni: se il compratore chiede la riduzione del prezzo, il venditore deve poter legittimamente contare sulla definitiva accettazione della prestazione 209; se egli domanda la risoluzione, come nel regime generale, il venditore dovrà poter contare nel definitivo disinteresse nei confronti della prestazione.
207 Così X. XXXXX – X. XXXXXXX, Xxxxx vendita, cit., 267 s.; C.M. BIANCA, La vendita, cit., 956. Osserviamo che quest’ultimo Autore, in altra sede, sostiene che la preclusione di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ. riguardi la sola domanda di risoluzione fondata, sicché la facoltà di domandare l’adempimento sarebbe esercitabile dal contraente che non si sia visto accogliere la domanda di risoluzione (cfr. C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, cit., 311). La differenza di opzioni interpretative si spiega con le rilevanti diversità tra le norme brevemente illustrate nel testo.
208 Per la stessa ragione è generalmente ritenuta inammissibile la proposizione in via subordinata della domanda di riduzione del prezzo rispetto a quella di risoluzione. Così, ex multis, Cass., S.U., 2565/1988, cit.; Cass., 1434/2004, cit. Contra, Cass., 7 luglio 2000, n. 9098, in De Jure; X. XXXXXXX, Il concorso di azioni, cit., 778.
209 C.M. BIANCA, La vendita, cit., 957.
Quest’ultima soluzione, consistente nel precludere in ogni caso la successiva diversa domanda, pacifica in dottrina, non sembra giustificabile solo facendo ricorso all’identità dei presupposti di accoglibilità di entrambe le domande: se così fosse, non si vede perché dovrebbe essere preclusa la diversa domanda nel caso in cui la prima fosse rigettata senza la formazione di un giudicato sull’inesistenza dei suoi presupposti, come nel caso di rigetto in rito o di estinzione del processo. Il divieto espresso dall’art. 1492, comma 2, cod. civ. ha invece una sicura portata sostanziale, analoga a quella dell’art. 1453, comma 2, cod. civ. (ma biunivoca tra le due azioni edilizie).
Nonostante le indubbie differenze, dunque, il legislatore sembra aver replicato anche nello specifico campo della vendita lo stesso bilanciamento di interessi già operato in sede di parte generale: anche qui oggetto della tutela è l’affidamento del venditore convenuto e, con lui, la stabilità e la certezza del rapporto, attraverso una limitazione dell’arbitrio del compratore. Sembra dunque da condividere l’idea di chi vede in questa norma una proiezione della medesima ratio che ispira l’art. 1453, comma 2, cod. civ. 210, con la conseguente conferma che quest’ultima norma non è frutto di un’occasionale scelta del legislatore, ma espressione di una più ampia ratio di tutela.
6.2. Il bilanciamento degli interessi operato dal legislatore e la sua estensibilità.
È possibile, alla fine di questa prima parte di indagine, trarre alcune considerazioni.
Nella sua dimensione processuale, il divieto di domandare l’adempimento per il contraente che abbia chiesto la risoluzione integra una preclusione per incompatibilità: una sanzione in capo alla parte che tenga un comportamento contraddittorio a tutela della certezza dell’oggetto del processo e della celerità di quest’ultimo.
Nella sua dimensione sostanziale, la domanda di adempimento risulta vietata a colui che abbia chiesto, in un precedente processo, la risoluzione, ancorché la domanda sia stata rigettata, perché l’ordinamento fa prevalere l’esigenza di tutela
210 X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 64.
dell’affidamento della controparte e della circolazione dei beni sulla tutela in forma specifica del singolo contraente che abbia tenuto una condotta contraddittoria.
Quella che sul piano «micro», della singola lite, è una sanzione del comportamento contraddittorio tenuto da una parte, cui è preclusa la soddisfazione in forma specifica, diviene, dal punto di vista generale, un incentivo alla circolazione e ai traffici commerciali, che non trovano ostacolo nel capriccio di una parte poco accorta. D’altro canto, quest’ultima non sarà priva di tutela, ma, qualora ne ricorrano i presupposti, avrà pur sempre a disposizione il risarcimento del danno.
Nell’interpretazione fornita, la regola opera un realistico bilanciamento di interessi e dà atto del fatto che la conservazione del contratto non sia un valore da perseguire ad ogni costo: se la collaborazione entra in crisi, se vengono attivati meccanismi rimediali, la soluzione socialmente meno costosa può essere lo scioglimento del contratto o, meglio, la perdita di forme di tutela particolarmente invasive per una delle parti di quel contratto.
Vista dal punto di vista generale, questa epifania del divieto di contraddizione perde la connotazione etica e diviene regola operativa del mercato.
Non mancano tuttavia zone d’ombra, considerata la persistente aporia dei c.d.
«contratti morti», cui dovrà essere cercata una soluzione.
Così inquadrata questa regola esplicita, però, si è solo all’inizio dell’indagine. Come detto, l’ordinamento dà spazio a regole accostabili al divieto di contraddizione all’interno della dinamica della risoluzione per inadempimento. Xxxxxxx ora chiedersi se anche al di fuori di questo caso tipico vi siano altre fattispecie in cui dottrina e giurisprudenza applicano — anche occultamente — un criterio di giudizio analogo.
Capitolo II
FORME TIPICHE DI RISOLUZIONE STRAGIUDIZIALE E COMPORTAMENTO CONTRADDITTORIO
SOMMARIO: 1. Introduzione. — 1.1. Oggetto dell’indagine. — 1.2. Le forme tipiche di risoluzione stragiudiziale: linee di fondo del sistema. — 2. Diffida ad adempiere. — 2.1. Caratteri generali — 2.2. Vicende anteriori al decorso del termine concesso al diffidato. — 2.2.1. Ritiro e revoca della diffida; proroga del termine. — 2.2.2. Domanda di adempimento e di risoluzione giudiziale. — 2.3. Vicende successive al decorso del termine — 2.3.1. Diffida ad adempiere e rimedi ex art 1453 cod. civ. — 2.3.1.1. Risoluzione giudiziale — 2.3.1.2. Domanda di adempimento — 2.3.2. Reiterazione della diffida. — 2.3.3. Accettazione dell’adempimento tardivo. — 2.4. Risoluzione per diffida ad adempiere e recesso: in particolare, il recesso ex art. 1385 cod. civ. (rinvio). — 2.5. Considerazioni di sintesi. — 3. Clausola risolutiva espressa — 3.1. Caratteri generali. — 3.2. Vicende anteriori alla dichiarazione del creditore di volersi valere della clausola. — 3.2.1. Condotte che precludono l’invocazione della clausola. — 3.2.2. La tolleranza.
— 3.3. Vicende successive alla dichiarazione di volersi valere della clausola. — 3.3.1. Accettazione dell’adempimento — 3.3.2. Accordi successivi alla risoluzione. — 3.4. Clausola risolutiva espressa e rimedi ex art 1453 cod. civ. — 3.5. Clausola risolutiva espressa e recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. (rinvio). — 3.6. Considerazioni di sintesi. — 4. Termine essenziale.
— 4.1. Caratteri generali. — 4.2. Vicende situate tra la scadenza del termine essenziale e il termine entro il quale il creditore può esigere la prestazione. — 4.3. Vicende successive allo spatium deliberandi. — 4.3.1. L’invocazione della risoluzione da parte del contraente inadempiente. — 4.3.2. Proroghe, dilazioni, inerzia. — 4.3.3. Accordo delle parti. — 4.3.4. Pretesa della prestazione. — 4.3.5. Accettazione dell’adempimento tardivo. — 4.3.6. Termine essenziale e recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. (rinvio). — 4.4. Considerazioni di sintesi. —
5. Caparra confirmatoria e recesso. — 5.1. Premessa e caratteri generali. — 5.2. Recesso ex art. 1385 cod. civ. e rapporti con i rimedi generali contro l’inadempimento: rilevanza del tema. —
5.3. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e rimedi ordinari ex art. 1453 cod. civ. — 5.3.1. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e azione di adempimento. — 5.3.1.1. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. dopo l’azione di adempimento. — 5.3.1.2. Azione di adempimento dopo il recesso. — 5.3.2. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e azione di risoluzione e risarcimento del danno. — 5.3.2.1. In generale: l’incompatibilità e l’infungibilità tra le domande e il divieto di cumulo. — 5.3.2.2. Domande ex art. 1453 cod. civ. proposte dopo il recesso. — 5.3.2.3. Domanda di accertamento del diritto di recedere ritenendo la caparra (o con condanna alla consegna del
doppio della caparra corrisposta) dopo l’azione ex art. 1453 cod. civ. — 5.3.2.4. (segue): La pronuncia delle Sezioni Unite, l’oggetto del principio di diritto e la giurisprudenza successiva. —
5.4. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e risoluzione per diffida ad adempiere. — 5.4.1. Ritenzione o restituzione del doppio della caparra in caso di risoluzione per diffida ad adempiere.
— 5.4.2. Esercizio del recesso con ritenzione o restituzione del doppio della caparra dopo la risoluzione per diffida ad adempiere. — 5.5. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e clausola risolutiva espressa. — 5.6. Recesso ai sensi dell’art. 1385 cod. civ. e termine essenziale. — 5.7. Considerazioni di sintesi. — 6. Conclusioni parziali. — 6.1. L’altra faccia del comportamento contraddittorio nella risoluzione: nelle risoluzioni stragiudiziali, la contraddizione mantiene in vita il vincolo contrattuale. — 6.2. Il falso problema della rinuncia agli effetti risolutori: un espediente argomentativo errato per soluzioni (quasi sempre) opportune. — 6.3. Una questione rilevante e poco studiata: la rilevabilità d’ufficio dell’avvenuta risoluzione di diritto.
1. Introduzione.
1.1. Oggetto dell’indagine.
Nel precedente capitolo si è acquisita una prima consapevolezza: il divieto di contraddizione entra, quale ratio dell’art. 1453, comma 2, cod. civ., nella dinamica della risoluzione giudiziale per inadempimento e incide sugli effetti del contratto, precludendo, in presenza dei presupposti individuati, la pretesa dell’adempimento. In questo senso l’ordinamento — nei suoi diversi formanti: a partire dal legislatore e passando per l’interpretazione di dottrina e giurisprudenza 1 — ha preso espressamente posizione sull’inazionabilità del contratto in presenza di un comportamento contraddittorio, effetto che non richiede la pronuncia di una sentenza costitutiva di risoluzione. Qui — si può dire, anticipando alcune riflessioni che saranno svolte più avanti 2 — risoluzione giudiziale e stragiudiziale sembrano confondersi, perché, pur nel contesto della risoluzione giudiziale, l’effetto descritto è prodotto senza bisogno di una sentenza.
L’ordinamento conosce, sin dalle norme codicistiche sul contratto in generale, accanto alla risoluzione giudiziale, forme tipiche di risoluzione stragiudiziale: diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa e termine essenziale, nonché il recesso accordato in capo alla parte non inadempiente in caso di inadempimento di un contratto
1 X. XXXXX, voce Formanti, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1992, 438 ss.
2 Infra, cap. III.
cui acceda la consegna di una caparra confirmatoria ex art. 1385 cod. civ. Si tratta di istituti particolarmente rilevanti in un’indagine che si pone, come scopo ultimo, di comprendere l’effettivo rapporto, apparentemente di regola ed eccezione, tra risoluzione giudiziale e stragiudiziale.
Oggetto del presente capitolo sarà pertanto una ricognizione delle diverse specie di comportamento contraddittorio nelle risoluzioni di diritto. L’obiettivo è chiarire quale assetto di interessi prevalga, nei singoli casi, al fine di definire un quadro completo delle opzioni del sistema nelle diverse fattispecie risolutorie.
Da questo obiettivo discendono alcune scelte metodologiche.
Non si andrà alla ricerca delle sole fattispecie nelle quali gli interessi confliggenti delle parti siano composti secondo il criterio di cui all’art. 1453, comma 2, cod. civ., ossia facendo prevalere l’affidamento riposto dalla parte inadempiente nello scioglimento del contratto. L’approccio sarà esattamente l’opposto: da una ricognizione di casi concreti, ordinati in base alla diversa fattispecie, in cui sembra essere stato portato all’attenzione dei giudici un comportamento contraddittorio di una delle parti che si sia avvalsa di — o abbia subito una — forma di risoluzione di diritto, si proverà a individuare, caso per caso, quale assetto di interessi viene preferito dall’ordinamento. La ricerca è pertanto aperta a risultati tra loro discordanti: in alcuni casi potrebbe risultare prevalente l’interesse di colui che si è contraddetto, in altri l’affidamento di chi ha subito il comportamento altrui.
Ne consegue che l’oggetto dell’analisi non sarà, direttamente, la c.d. «rinuncia agli effetti risolutori», espressione con la quale la giurisprudenza, tramandando massime risalenti, sembrerebbe aver affermato negli anni, con riguardo a tutte le forme di risoluzione di diritto, che la parte che abbia ottenuto la risoluzione del contratto possa, in diversi modi, rinunciare all’effetto risolutivo già prodottosi 3. Il dictum ha
3 La giurisprudenza ha affermato, per lungo tempo, la rinunciabilità agli effetti della risoluzione nelle tre forme di risoluzione di diritto. Il dictum ha destato la comprensibile preoccupazione della dottrina, che temeva che ne potesse derivare un’esposizione del contraente inadempiente, anche dopo la risoluzione, all’arbitrio del creditore. Così non è stato perché, come vedremo, quasi mai la rinunciabilità dell’effetto risolutorio è stata invocata dalla giurisprudenza contro l’interesse del debitore inadempiente. Proprio il carattere fuorviante della massima suggerisce di non prendere le mosse da una sua analisi, quanto piuttosto dai casi affrontati dalla giurisprudenza e dalle reali rationes decidendi. Per ora, sulla nota questione della rinuncia agli effetti risolutivi, si vedano: X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità degli effetti della diffida ad adempiere da parte dell’intimante, nota a Cass., 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it., 1988, 447 ss.; X. XXXXXX, Xxxxxxxx risolutiva espressa e rinuncia all’effetto risolutivo, nota a Cass., 16 febbraio 1988, n. 1661, in Giur. it., 1989, 141 ss.; X. XXXXXXXXX, Risoluzione del contratto per inadempimento e rinuncia agli effetti risolutori, in Contratti, 2012, 1044 ss.; X. XXXXXXXXX, Il creditore può rinunciare alla
dato luogo a un vivace dibattito, che ha visto la dottrina compatta nel negare la legittimità dell’orientamento giurisprudenziale. Ciò nonostante, persino l’intervento delle Sezioni Unite, che, nel 2009, con una pronuncia che si avrà modo di menzionare spesso 4, hanno espressamente preso posizione sul punto, negando la disponibilità unilaterale dell’effetto risolutorio, non ha arrestato l’utilizzo, nelle motivazioni delle sentenze, di questo apparente istituto.
Un’analisi della dottrina che si è confrontata sul tema conduce alle seguenti riflessioni: (i) la critica dottrinale della massima si è, quasi generalmente, arrestata al rilevo — corretto, ma poco fecondo — della contrarietà dell’orientamento giurisprudenziale al principio di tutela dell’affidamento espresso dall’art. 1453, comma 2, cod. civ., sicché la riproposizione di una critica della massima non aggiungerebbe alcun utile risultato alla presente indagine; (ii) la dottrina più attenta ha invece ammonito circa la necessità di leggere le sentenze per esteso, poiché la
«rinunciabilità agli effetti risolutori» è stata spesso utilizzata in contesti in cui non si è affatto affermato il diritto della parte che abbia ottenuto la risoluzione di pretendere l’adempimento del contratto: ne discenderebbe l’assenza del preteso contrasto tra gli effettivi decisa e il principio cui la dottrina si richiama; (iii) partire dalla massima giurisprudenziale, pur leggendo le motivazioni delle sentenze in cui è utilizzata 5, offrirebbe uno sguardo parziale del rapporto tra contraddizione e risoluzione di diritto, che non è invece limitato alla c.d. «rinuncia agli effetti risolutori».
risoluzione «di diritto»? Luci ed ombre di una regola giurisprudenziale, in Riv. dir. civ., 2012, 21 ss.; X. XXXXXXXX, Ritrattazione della volontà risolutoria e reviviscenza del contratto, Torino, 2013; R.S. BONINI,
«Rinunciabilità dell’effetto risolutivo». Un principio da ridimensionare, Pisa, 2017; X. XXXXXXX,
Risoluzione del contratto, poteri del creditore, poteri del giudice, in Contratto e impr., 2018, 766 ss.
4 Cfr. infra, par. 5.3.2.3. Il riferimento è a Cass., S.U., 14 gennaio 2009, n. 553, in Riv. dir. civ., 2009, II, 327 ss., con nota di X. XXXXXXXX GUASTALLA, Caparra confirmatoria, recesso e risoluzione del contratto; in Giur. it., 2009, 1114 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, Indisponibilità dell’effetto risolutivo stragiudiziale del contratto (artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.); in Contratti, 2009, 779 ss., con nota di X. XXXXXXX, Caparra confirmatoria e rimedi per la parte non inadempiente; in Giust. civ., 2009, 1309 ss., con nota di D. X’XXXXXXXX; in Xxxxx e resp., 2009, 625 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, Caparra confirmatoria e disponibilità dell’effetto risolutorio; in Nuova giur. civ. comm., 2009, 680 ss., con nota di X. XXXXXXXX, Caparra confirmatoria ed inadempimento: inammissibilità del recesso nel caso di preventiva domanda di risoluzione e risarcimento del danno; in Corr. giur., 2009, 333 ss., con nota di X. XXXXX, La (in)compatibilità della domanda giudiziale di ritenzione della caparra (o di richiesta del suo doppio) con i vari modi di risoluzione del contratto diversi dal recesso ex art. 1385, comma 2, c.c.; in Riv. dir. proc., 2010, 1189 ss., con nota di X. X’XXXXXXX, Sulla novità della domanda nei rapporti tra le azioni di recesso e risoluzione del contratto previste dall’art. 1385 c.c.; in Obbl. e contratti, 2010, 107 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, La caparra confirmatoria e la «rinuncia» all’effetto risolutorio secondo le Sezioni Unite.
5 Metodo seguito da R.S. XXXXXX, «Rinunciabilità dell’effetto risolutivo», cit.
Occorre pertanto affrontare l’analisi con la consapevolezza del rilevante dibattito su questo istituto e della diffusione della massima, che si avrà spesso occasione di incontrare e sulla quale si tornerà al termine dell’indagine, la quale sarà però condotta senza il condizionamento di un dictum ambiguo e potenzialmente fuorviante.
1.2. Le forme tipiche di risoluzione stragiudiziale: linee di fondo del sistema.
Punto di partenza dell’indagine sono le funzioni delle diverse forme di risoluzione di diritto, le quali impattano, in modo differente, sugli interessi dei contraenti.
Le risoluzioni di diritto sono strumenti che consentono all’autonomia privata di gestire più agilmente le conseguenze dell’inadempimento di un contratto sinallagmatico. Sono accomunate, in tal senso, dalla funzione deflattiva del contenzioso, in casi in cui l’accertamento giudiziale sarebbe superfluo e inutilmente gravoso 6, nonché da un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici 7. È ormai radicata, però, la consapevolezza che le forme di risoluzione di diritto rispondono a interessi ben diversi tra loro e si prestano a trovare applicazione in fattispecie concrete tra loro difformi.
Occorre pertanto muovere da un dato acquisito: diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa e termine essenziale non possono essere letti come una categoria unitaria.
Clausola risolutiva espressa e termine essenziale possono essere considerati congiuntamente, con le dovute accortezze. In entrambi i casi è previsto dalle parti o, con riguardo al termine essenziale, anche ex lege, in relazione al contenuto del contratto, che un certo inadempimento — nel caso di termine essenziale, il ritardo senz’altro — legittimi una parte a sciogliere il contratto, con l’esclusione di un accertamento giudiziale della gravità dell’inadempimento quale requisito della risoluzione. In entrambi i casi, ancora, la risoluzione è subordinata alla decisione del contraente non inadempiente 8, che, in presenza di una clausola risolutiva espressa,
6 X. XXXXXXXX, sub art. 1454, in X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento, I, 1, in Comm. Scialoja-Branca-Xxxxxxx, Bologna-Roma, 1990, 433.
7 X. XXXXX, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, 903.
8 Sottolinea la potestatività della risoluzione X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982, 228 ss.
deve dichiarare di volersene avvalere e, in caso di violazione di un termine essenziale, non deve esigere la prestazione nei successivi tre giorni 9; il presupposto che dà luogo alla risolubilità del contratto è però, sempre, predeterminato.
La diffida ad adempiere, invece, pone rimedio a quello stesso inadempimento che può dare luogo alla risoluzione giudiziale 10 e si presta ad essere letta in relazione a quest’ultima, poiché entrambe consistono in manifestazioni di volontà di sciogliere il contratto in presenza di un grave inadempimento.
Un’ultima forma di risoluzione stragiudiziale di carattere tendenzialmente generale è il recesso con ritenzione o restituzione del doppio della caparra confirmatoria. In questo caso, l’interesse della parte non inadempiente è godere di un agile strumento di scioglimento del contratto disponendo, al tempo stesso, di una quantificazione predeterminata del danno. La pattuizione di una caparra si presta specialmente alla contrattazione preliminare 11, perché la parte — solitamente il promittente venditore — ha a disposizione un efficace strumento di pressione verso il promissario acquirente per la conclusione del definitivo.
Il recesso con ritenzione o restituzione del doppio della caparra si intreccia con i rimedi risolutori ordinari, dando luogo a un’ampia e intricata casistica.
Di seguito, premessi alcuni cenni sugli aspetti rilevanti delle singole forme di risoluzione di diritto, si cercheranno di illustrare, raggruppandole per fattispecie uniformi, i casi in cui sembrerebbe venire in rilievo un comportamento contraddittorio delle parti.
9 L’accostamento tra i due istituti, in epoca di poco successiva all’emanazione del Codice, si rinviene in X. XXXXXX, Il termine essenziale, in Riv. dir. comm., 1947, spec. 228 ss.
10 E difatti la dottrina ne riconosce la portata di rimedio generale. V. A. SMIROLDO, Profili della risoluzione, cit., 101 s.: «essa comporta, così, un’eccezione di notevole portata, al sistema della risoluzione giudiziale, forse ben più importante delle stesse fattispecie di risoluzione di diritto previste dagli artt. 1456 e 1457 […]. Il sistema della risoluzione per diffida è invero applicabile a tutti i contratti a prestazioni corrispettive».
11 Lo osserva X. XX XXXX, voce Caparra, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1998, 240, sub nota 11, lo conferma la casistica che sarà esaminata infra, ai parr. 5.3 ss.
2. Diffida ad adempiere.
2.1. Caratteri generali.
La diffida ad adempiere 12 è comunemente definita come un atto negoziale unilaterale, recettizio e formale 13, che consiste nell’intimazione scritta con la quale la parte non inadempiente intima al contraente infedele di adempiere entro un congruo termine, decorso il quale il contratto s’intenderà risolto.
Sono molteplici le funzioni ricollegate all’istituto, come plurali si mostreranno gli interessi delle parti di volta in volta sottesi alle decisioni delle singole fattispecie. La Relazione al Re, al paragrafo 661, vede nella diffida ad adempiere un celere strumento in mano al creditore 14, mettendo in risalto lo spostamento dell’onere dell’azione giudiziaria in capo al debitore inadempiente e la rapidità con la quale può essere conseguita la risoluzione.
La dottrina, nell’individuare la funzione della diffida, ne coglie l’elemento differenziale dalla domanda di risoluzione giudiziale: quest’ultima, come visto,
12 La bibliografia è ampia, perché abbraccia, oltre agli scritti specificamente dedicati alla diffida ad adempiere, anche le opere sul contratto in generale e sulla risoluzione per inadempimento. V. in particolare:
X. XXXXXXX, voce Diffida ad adempiere, in Enc. giur. Xxxxxxxx, X, Xxxx, 0000; C.M. XXXXXX, Diritto civile, V, La responsabilità, II ed., Milano, 2012, 331 ss.; X. XXXXXX, sub art. 1454, in X. XXXXXXXXXX –
X. XXXXXXXX (a cura di), Dei contratti in generale, I, in Comm. Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 2011, 418 ss.; X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 431 ss.; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto, in Nov. Dig. it., XVI, Torino, 1957, 141 ss.; X. XXXXXXXXX, in X. XXXXXXXXX – F. ADDIS, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, in X. XXXXX (a cura di), Rimedi-2, in Trattato del contratto, diretto da X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000, 269 ss.; X. XXXXX, Trattato del contratto, III, Assago, 2010, 2154 ss.; X. XXXXXXXX, Uno strumento (di dubbia efficacia) di risoluzione stragiudiziale: la diffida ad adempiere, in X. XXXXXXX – I. XXXXX – X. XXXXXXXXXXX
– X. XXXXX – X. XXXXXXX (a cura di), La risoluzione per inadempimento. Poteri del giudice e poteri delle parti, Bologna, 2018, 195 ss.; X. XXXXXXXX, La diffida ad adempiere, Milano, 2007; X. XXXXXX, voce Diffida ad adempiere, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 508 ss.; X. XXXXX, Il contratto, cit., 902 ss.; X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, II, in Tratt. Sacco, III ed., Torino, 2004, 654 ss.; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453-1459, in Comm. Xxxxxxxxxxx-Xxxxxxxx, Milano, 2007, sub art. 1454, 496 ss.; X. XXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in X. XXXXXXXXX (a cura di), I contratti in generale, in Tratt. Xxxxxxxx-Xxxxxxxxx, II, II ed., Assago, 2006, 1750 ss; ID., La risoluzione stragiudiziale, in X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, La risoluzione, in Il contratto in generale, VIII**, in Tratt. Bessone, Torino, 2011, 125 ss.; X. XXXXXXXXX, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 71 s.
13 V. per tutti X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto, cit., 141. In giurisprudenza, sulla ricettizietà della diffida, cfr., ex multis, Cass., 23 maggio 2017, n. 12930, in De Jure. La negozialità dell’atto è collegata alla necessità che il diffidante manifesti espressamente la volontà di sciogliere il contratto qualora l’inadempimento si protragga oltre il termine concesso e dunque voglia non solo porre in essere la diffida, ma anche l’effetto risolutorio ad essa ricondotto. Contra X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 444, secondo cui la diffida sarebbe un atto giuridico in senso stretto, in particolare perché l’effetto risolutivo non conseguirebbe solo alla manifestazione di volontà del diffidante ma anche a presupposti di carattere oggettivo. Posizione più cauta, tra gli altri, in X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 655 che parla di «atto».
14 Non mancano considerazioni di questo segno anche in dottrina. X. XXXXXX, voce Diffida ad adempiere, cit., 509, parla di «singolare efficienza» della diffida ad adempiere.
preclude immediatamente l’adempimento ex art. 1453, comma 3, cod. civ.; la diffida, invece, apre una finestra temporale nella quale l’adempimento è ancora possibile, ciò che presuppone un permanente interesse del diffidante alla prestazione 15. Essa però, al tempo stesso, nel fissare il termine entro il quale la prestazione può ancora essere adempiuta, preclude l’adempimento tardivo 16, consentendo ad entrambe le parti — non solo al diffidante, ma anche al diffidato, che potrebbe scegliere di far decorrere inutilmente il termine — di riporre affidamento nello scioglimento del contratto 17. Ne risultano tutelati anche gli interessi dell’inadempiente, che è avvertito dell’intenzione della controparte e al tempo stesso gode di un termine di grazia entro il quale poter ancora adempiere 18.
L’effetto risolutivo è subordinato ai medesimi requisiti richiesti per la risoluzione giudiziale, oltre che alla sussistenza degli elementi essenziali della diffida ad adempiere 19.
Sotto il profilo sistematico, è discusso in dottrina se il rimedio, apparentemente a carattere generale come la risoluzione ex art. 1453 cod. civ., si presti a essere
15 Ex multis, X. XXXXX, Il contratto, cit., 903; X. XXXXX, in X. XXXXX – G. DE NOVA, Il contratto, cit., 654;
X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 435.
16 X. XXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, cit., 1781. Con la precisazione che l’assegnazione del termine non sana l’inadempimento già verificatosi, che potrà dar luogo, anche in caso di successivo adempimento, al risarcimento del danno. Chiaramente ID., La risoluzione per inadempimento, cit., 1753, secondo cui il nuovo termine assegnato «non costituisce una proroga di quello contrattuale originario, bensì la concessione di un termine di tolleranza che non vale a rimuovere la mora cui già il contraente inadempiente ha dato vita. Di qui il corollario che l’adempimento entro il termine intimato non preclude all’intimante di esigere il risarcimento subito per il ritardo nel conseguimento della prestazione».
17 X. XXXXXXXXX, Il contratto, cit., 71 s.
18 X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 434.
19 Quanto ai primi, l’inadempimento, pertanto, deve essere imputabile e di non scarsa importanza ex art. 1455 cod. civ. e deve essersi già verificato al momento dell’intimazione (X. XXXXXXXX, Uno strumento (di dubbia efficacia), cit., 205) la prestazione deve essere esigibile, il diffidato non deve poter eccepire l’inadempimento del diffidante. Quanto ai secondi, come detto, la diffida deve avere forma scritta. Deve inoltre contenere l’assegnazione al debitore di un congruo termine entro cui adempiere. Il requisito è duplice: da un lato, la diffida deve indicare espressamente il termine (v. per tutti G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, cit., 523 ed ivi per riferimenti); dall’altro il termine deve essere congruo. La congruità del termine — di regola, ai sensi del secondo comma dell’art. 1454, non inferiore a quindici giorni, ma da relativizzare alla prestazione inadempiuta (ID., La risoluzione per inadempimento, cit., 534) e alle condizioni delle parti (X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 445) — può essere, ovviamente, oggetto di scrutinio del giudice. L’intimazione ad adempiere in un termine non congruo è ritenuta inefficace (v. per tutti, tra le opere più recenti, X. XXXXX, Il contratto, cit., 903. Xxx. Xxxx., 00 xxxxxx 0000, x. 0000, xx Xx Xxxx). La diffida deve contenere, altresì, la dichiarazione che, decorso il termine, il contratto s’intenderà risolto. La dichiarazione, pacificamente, non richiede formule sacramentali (X. XXXXXX, voce Diffida ad adempiere, cit., 510), ma deve essere tale da rendere edotta la controparte della rimessione in termini e degli effetti che deriveranno dall’inadempimento oltre il termine assegnato. Sul punto, ancora X. XXXXX, Il contratto, cit., 903: «il destinatario della diffida deve sapere che non ha ricevuto una generica sollecitazione, ma un atto capace di provocare — se egli persisterà nell’inadempimento — la distruzione del contratto».
utilizzato in tutti i casi di inadempimento e, segnatamente, se sia rimedio adeguato in caso di inadempimento definitivo 20, rispetto al quale l’assegnazione di un nuovo termine non porta giovamento, nonché in caso di inadempimento di obbligazioni di non fare 21. Probabilmente occorre distinguere il piano dell’opportunità dell’utilizzo del rimedio, sicuramente poco adatto a tali fattispecie, e quello della legittimità del ricorso al rimedio, contro il quale non vi sono indici normativi espliciti 22.
Nel contesto della presente indagine assume particolare rilievo la dimensione contenziosa.
Si è detto che, nelle intenzioni del legislatore, la diffida ad adempiere costituirebbe una fase monitoria, che sposterebbe sul diffidato l’onere di agire in giudizio per un’azione di accertamento dell’illegittimità della diffida e della persistente efficacia del contratto. Ciò è sicuramente vero e dimostrato dal fatto che spessissimo, nella casistica giurisprudenziale, la risoluzione di diritto per diffida ad adempiere è oggetto di eccezione da parte del convenuto.
L’intimazione della diffida ad adempiere, tuttavia, non priva il diffidante dell’interesse ad avanzare pretese in sede giudiziale. Il diffidante potrebbe azionare rimedi che necessitano della pronuncia di un giudice: le restituzioni, il risarcimento del danno; oppure potrebbe agire per trascrivere la domanda giudiziale di risoluzione
23. Il diffidante potrebbe però anche chiedere — se del caso, cumulando la domanda con quella restitutoria e/o risarcitoria — l’accertamento della risoluzione di diritto, per porre fine a una situazione di incertezza.
In proposito, occorre rilevare come anche la più recente dottrina abbia denunciato l’inefficienza della diffida ad adempiere rispetto all’obiettivo di certezza perseguito dal legislatore 24. Il sindacato giurisdizionale può estendersi, infatti, a numerosi presupposti 25, provocando incertezza sull’avvenuta risoluzione.
20 X. XXXXXX, sub art. 1454, cit., 423 e già X. XXXXXXXX, Profili della risoluzione, cit., 104 ss.
21 X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 439 s.
22 La questione è di seria rilevanza sistematica: ricondurre alla diffida il medesimo ambito di applicazione della risoluzione giudiziale significa riconoscerne la portata del tutto generale ed alternativa; viceversa, essa rimarrebbe un rimedio di carattere speciale. Una posizione sul tema sarà presa all’esito dell’indagine condotta nel prossimo capitolo, infra, cap. III, par. 6.2.
23 X. XXXXX, Il contratto, cit., 903; X. XXXXXXXX, sub art. 1454, cit., 431.
24 In particolare, X. XXXXXXXX, Uno strumento (di dubbia efficacia), cit., 203 e passim.
25 La gravità, l’imputabilità e la sussistenza al momento della diffida dell’inadempimento, l’assenza di un’eccezione di inadempimento in capo alla controparte, l’esigibilità della prestazione, la congruità del termine assegnato, la forma della diffida, la chiarezza dell’intimazione, il decorso del termine.