UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI “MARCO FANNO”
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, GIURIDICHE E STUDI INTERNAZIONALI
CORSO DI LAUREA IN
ECONOMIA E MANAGEMENT PROVA FINALE
“I CONTRATTI AGRARI”
“L’AFFITTO DI FONDO RUSTICO, LA SOCCIDA E I CONTRATTI DI CESSIONE DEI PRODOTTI AGRICOLI”
RELATORE: XXXX. XXXXXXX XXXXXX
LAUREANDA: XXXX XXXXXXX XXXXXXXXX: 1043473
ANNO ACCADEMICO 2014 - 2015
Indice
Introduzione 2
Capitolo primo: La disciplina e la sua evoluzione 3
Alcune considerazioni sulla disciplina dell’agricoltura in generale 3
La disciplina dei contratti agrari 3
Capitolo secondo: I contratti di affitto di fondi rustici 7
Le due tipologie di contratto 7
Le caratteristiche generali del contratto: causa e oggetto 8
Le obbligazioni del contratto: il canone e i miglioramenti 8
La durata dei contratti 10
La costituzione del rapporto 11
La conclusione del rapporto: la disdetta e la risoluzione 11
La successione mortis causa 13
Capitolo terzo: La soccida 14
Le caratteristiche del contratto 15
Il concetto di accrescimento 16
Le tre tipologie di soccida: aspetti comuni 17
La soccida semplice 17
La soccida parziaria 18
La soccida con conferimento di pascolo e il rapporto con gli altri contratti associativi 19
Le soccide “industriali” 20
Capitolo quarto: I contratti di cessione dei prodotti agricoli 21
L’oggetto della disciplina 21
I problemi d’interpretazione e coordinamento con le altre norme 23
La vicenda legata al Decreto legislativo 192/2012 25
Bibliografia 27
Introduzione
Il termine contratti agrari veniva utilizzato nel codice civile del 1865 per identificare tutti i contratti che avevano come oggetto il godimento e lo sfruttamento del fondo rustico. L’attività agraria era interamente ricondotta a tal fattispecie coerentemente con l’importanza data al diritto di proprietà (Galloni 2009).
In seguito, nel codice del 1942 la prospettiva cambia. Viene fornita la nozione di imprenditore agricolo (art. 2082 e art. 2135) e si determina la spaccatura nella disciplina tra tipi di contratto, quelli riferiti all’affitto che vengono descritti nel libro IV delle obbligazioni e quelli di mezzadria, soccida e colonia parziaria nel libro V del lavoro.
Da allora la definizione indica una più ampia categoria di contratti, così detti “per l’impresa agricola”, comprendendo non solo quelli di locazione di fondi rustici, ma anche quelli di scambio e associativi riferiti alle attività di impresa descritte nell’art. 2135 del c.c..
Oggi, l’evoluzione delle legislazioni, soprattutto quelle speciali susseguitesi negli anni, ha portato tale disciplina su un indirizzo diverso da quello impostato nel codice civile, che fa maggiormente seguito ai principi costituzionali e a quelli comunitari (Germanò 1993).
Si è inoltre verificata negli anni una progressiva tipizzazione dei contratti e un forte ridimensionamento dell’autonomia contrattuale.
Tale categoria di contratti si può dividere in contratti costitutivi dell’impresa (o contratti di organizzazione) e contratti di esercizio ed esplicazione dell’azienda agricola (Galloni 2009). I primi sono i contratti di affitto di fondi rustici e affitto di azienda agricola, i contratti di soccida, mezzadria, colonia e i contratti costitutivi di impresa individuale, associata o societaria, ossia contratti riguardanti l’organizzazione dell’attività. I secondi sono, invece, i contratti di cessione dei prodotti agricoli, del lavoro agricolo e di compartecipazione, i contratti agro-industriali e agro-ambientali, i contratti di cessione delle quote di produzione, dei diritti di reimpianto e del premio unico e i patti di famiglia.
Oltre a queste due tipologie vi sono altri sei tipi di contratti agrari che non rientrano per le loro caratteristiche particolari nelle precedenti tipologie ma sono comunque riferiti all’impresa agricola (Germanò 2015). Essi sono i contratti di società di servizi, i contratti di consorzio, la concessione di utenza irrigua, i contratti di assicurazione, di mutuo e di leasing. Di seguito verranno approfonditi i contratti di affitto di fondi rustici, la soccida (costitutivi dell’impresa) e i contratti di cessione dei prodotti agricoli (per esercizio dell’impresa). La scelta nei primi due casi è dovuta all’importanza che rivestono nel mondo agricolo di oggi, mentre nel terzo in quanto è stato oggetto di una recente riforma normativa che ha fatto molto discutere sia prima della sua approvazione sia successivamente.
Capitolo primo: La disciplina e la sua evoluzione
Alcune considerazioni sulla disciplina dell’agricoltura in generale
La finalità della produzione agricola è nutrire le persone, e vista l’importanza di questo il legislatore ha ritenuto opportuno dare alcuni privilegi e vantaggi per poterlo fare ed incentivare a farlo. Infatti, la disciplina dei contratti agrari e in generale dell’agricoltura è ben diversa rispetto alle altre attività economiche. La differenza è dovuta alle caratteristiche intrinseche di questo mestiere. Innanzitutto, la produzione agricola è diversa dal commercio perché, mentre il commerciante rivende qualcosa di già prodotto e similmente l’industriale vende ciò che aveva trasformato prima, l’agricoltore vende quello che produce partendo sostanzialmente da zero ad ogni fine ciclo. In seconda istanza, il prodotto agricolo è esposto a molti rischi, quali quelli ambientali, biologici e atmosferici. Tali tipi di eventi non si possono prevedere e i danni che provocano sono difficilmente limitabili. Inoltre, generalmente il ciclo di produzione in agricoltura prevede una durata abbastanza lunga (alcuni mesi o addirittura anni), ed il gioco domanda e offerta diventa difficile poiché concentrato in brevi momenti. Infine, il legislatore del 1942 riteneva che in questo settore non vi fossero particolari esigenze di investimenti in fattori produttivi, in quanto l’unico elemento importante era il diritto di godimento o di proprietà del fondo (Cetra 2013). Le necessità finanziarie erano minime e qualora si faceva ricorso al credito venivano imposte specifiche forme di tutela per il creditore, quali garanzie di ipoteche sul fondo o privilegi sul bestiame e sui prodotti.
Tuttavia l’attività agricola, dopo l’ampliamento delle fattispecie ricomprese dall’art. 2135 attraverso il D.lgs. n.228 del 2001 è profondamente cambiata. Infatti, oggi fare agricoltura richiede forti investimenti e non vi è più solo il fondo quale fattore produttivo. La tendenza normativa attuale è volta a diminuire la distanza presente tra la disciplina in tal materia e le altre (vedi l’iscrizione obbligatoria al registro delle imprese con efficacia dichiarativa). Ma alle reali modificazioni del settore non è corrisposto un adeguato cambiamento normativo (Cetra 2013).
La disciplina dei contratti agrari
La disciplina dei contratti agrari ha subito una notevole trasformazione a partire dal secondo dopoguerra. In questo periodo si manifestarono proteste e rivendicazioni riguardo alla stabilità del lavoro agricolo e dell’equità dei canoni per lo svolgimento delle attività d’impresa. Per gli anni che vanno dal 1942, anno di emanazione del nuovo codice civile, al 1961, si susseguirono una serie di leggi annuali e provvisorie atte a prorogare le scadenze dei contratti agrari previste dalla legge. Dopo solo due anni dall’entrata in vigore del codice, l’architettura
predisposta sui contratti agrari si incrina e dieci anni dopo (1952) è lo stesso legislatore a promettere una riforma (Zimatore 1993). A partire dal 1962 ci furono delle emanazioni speciali volte a modificare la normativa in vista di un più ampio e deciso intervento successivo determinatosi poi con la legge n. 203 del 1982.
La prima legge speciale introdotta fu quella del 12 giugno del 1962 n. 567, la quale rendeva definitivo l’istituto dell’equo canone, ossia prevedeva che i canoni di affitto dei fondi rustici fossero calcolati in base a delle tabelle specifiche. Tale emanazione e le tabelle dei canoni, che toccavano importanti interessi della proprietà terriera, furono sottoposte più volte all’attenzione della Corte Costituzionale per illegittimità, ma questa dichiarò sempre infondate tali accuse. Un secondo intervento normativo si ebbe due anni dopo, con la legge del 15 settembre del 1964 n.756, la quale introduceva il divieto di stipulare nuovi contratti di mezzadria e di contratti atipici rispetto a quelli previsti dalla legge, definiva i termini di scadenza di quelli in essere e la suddivisione delle spese e degli utili per i contratti di mezzadria e di colonia parziaria. Nel 1966, con la legge n. 910 del 27 ottobre, venne emanato un programma quinquennale straordinario volto ad aumentare l’efficienza e la competitività del settore agricolo e ad adeguare le norme agli indirizzi comunitari. Furono introdotte norme per stabilizzare i prezzi e i mercati, per adeguare le strutture, sviluppare la zootecnia e l’ortofrutta e per completare le opere pubbliche di bonifica dei terreni.
Una nuova legge venne emanata 11 febbraio del 1971 n. 11, la quale introduceva dei coefficienti di moltiplicazione dei redditi domenicali nell’intento di aggiornare in favore dei proprietari i canoni di affitto dei terreni che per la medesima legge dovevano obbligatoriamente pagarsi in denaro. Questa emanazione prevedeva, inoltre, altre norme riferite ai poteri dell’imprenditore agricolo e ai miglioramenti fondiari. Anche in questo caso, però, si determinarono accuse di incostituzionalità, e per ovviare ad esse ci furono una serie di modifiche nel 1973. Nel 1977 la Corte si pronunciò su entrambe le leggi (legge n.11 del 1971 e le modifiche del 1973) dichiarando illegittimi alcuni criteri di calcolo del canone e alcuni punti sui poteri dell’affittuario nell’effettuare miglioramenti. Nel periodo successivo ci furono forti tensioni e un’elevata conflittualità per le continue modifiche e per la loro inadeguatezza sia per i proprietari dei terreni sia per i coltivatori dei fondi. Altri interventi si ebbero nel 1978, legge n. 176 del 10 dicembre, e nel 1979, legge n. 595 del 23 novembre, le quali furono norme di proroga e provvisorie (Scaglia 2009).
L’annunciata ampia riforma si ebbe il 3 maggio del 1982 con la legge n. 203 la quale rappresentò una ridefinizione organica di tutta la legislazione sui contratti agrari che riprendeva e precisava le varie norme introdotte nei quarant’anni precedenti. La normativa è divisa in tre titoli, i contratti d’affitto (I), la conversione in affitto dei contratti di mezzadria,
colonia parziaria, compartecipazione e soccida (II) ed infine norme generali e finali (III). Questa è la legge di riferimento ancor oggi e per questo motivo il suo contenuto verrà descritto nei capitoli successivi in riferimento agli argomenti ed agli elementi trattati.
Nonostante il legislatore consideri la disciplina ormai regolata definitivamente, visto anche la previsione di consolidamento attraverso un testo unico all’art. 60 (verrà ripreso e approfondito più avanti), non si può pensare alla legge 203 come un punto di arrivo chiaro e concreto visto che solo due anni dopo, nel 1984, la Corte costituzionale interviene dichiarando illegittimi alcuni articoli riferiti alla conversione dei contratti associativi in contratti d’affitto (Zimatore 1993). Ed è proprio su quest’ultimo frangente che si operarono alcune modifiche ed integrazioni attraverso la legge n. 29 del 14 febbraio del 1990.
Negli anni successivi non si riscontravano legislazioni importanti in materia, ma solo alcuni articoli atti a piccole modifiche e precisazioni o di abrogazione di articoli ormai obsoleti, ad esempio, art. 15 della legge del 15 dicembre 1998 n. 441 il quale, nel promuovere l’imprenditoria giovanile in agricoltura, consentiva la registrazione dei contratti solo in caso d’uso per i soggetti aventi meno di quarant’anni con un’imposta di registro fissa.
Oggi, l’epicentro legislativo non è più lo Stato, in quanto è l’Unione Europea che ha la competenza esclusiva in materia. Inoltre, dall’art.117 della Costituzione emerge il ruolo delle Regioni, le quali hanno una competenza concorrente con lo Stato, salvo specifici punti della materia.
Una nuova riforma in materia di contratti per la cessione dei prodotti agricoli è stata emanata nel 2012 (art.62 del D.l. 1/2012) ma è stata oggetto di particolari vicende che saranno approfondite in seguito.
Un ultimo punto da sottolineare è la questione del Codice agricolo. Come sopra accennato, già nella legge n. 203 del 1982 all’art. 60 si prevedeva una delega al governo ad emanare entro due anni un testo unico che raccogliesse tutte le disposizioni normative in materia di contratti agrari, che non ebbe però seguito. Nel 2003, vi fu una nuova delega con la legge del 7 marzo n. 38 per la realizzazione di un codice agricolo per riprendere e riordinare tutte le legislazioni, non solo dei contratti ma in modo più ampio per l’agricoltura, la pesca, l’acquacoltura e le foreste. Il compito venne eseguito grazie a settanta docenti e cultori di diritto e venne curato dall’IDAIC ( Istituto di Diritto Agrario Internazionale e Comparato), ma non venne poi approvato dal consiglio dei ministri. Nel 2009 la delega si replicò, vi fu un nuovo studio e un nuovo testo completato alla fine dello stesso anno intitolato “Un’altra ipotesi di semplificazione normativa. Proposta di un codice agricolo”, volto a riprendere e riordinare le leggi in materia d’agricoltura, stavolta restringendo la materia agli aspetti più importanti. Anche in quest’ultimo caso la cosa non andò a buon fine nonostante le
osservazioni e i pareri favorevoli dei diversi organi adibiti, a causa del susseguirsi di diversi ministri dell’agricoltura, dell’avversità dei sindacati e della scadenza della delega (2011).
In quest’ultimo testo redatto ma non approvato, l’autore X. Xxxxxxx (2011) in una nota, sottolinea l’importanza che ha un quadro di leggi chiaro e preciso per lo sviluppo e la competitività. Attraverso un breve esempio descrive come nel Code Rural francese, le direttive comunitarie in materia di agroenergie siano state recepite inserendo tre semplici frasi nel codice, mentre nel caso italiano per poter avere simili informazioni bisogna andare a visionare, collegare e capire i xxxxx tra ben cinque diversi articoli in altrettante diverse leggi susseguitesi negli anni, lavoro alquanto arduo e complesso.
Capitolo secondo: I contratti di affitto di fondi rustici
Il contratto di affitto di fondi rustici rappresenta nella legislazione vigente il punto di riferimento in materia di contratti agrari per l’esercizio dell’attività agricola. Le normative a riguardo sono uscite quasi totalmente dal codice civile e sono contenute nella legislazione speciale ed in particolare nella legge del 3 maggio del 1982 n. 203. Gli articoli contenuti nel codice civile in parte sono stati abrogati e in parte sono vigenti ma limitati e di poca rilevanza. Le fondamenta dell’intera disciplina sono i principi costitutivi degli articoli 41 e 44, rispettivamente riferiti alla libera iniziativa economica e alla proprietà terriera.
Si può osservare un processo evolutivo tramite il quale l’epicentro di tale tipologia contrattuale si è spostata dal fondo all’azienda, e in seconda istanza da quest’ultima all’impresa (Germanò 2015). Oggi, infatti, l’attenzione è posta nell’utilizzo del bene produttivo ‘terreno’ da parte di un soggetto organizzato in forma d’impresa e su tal fattispecie l’ordinamento giuridico ripone interessi collettivi per la produzione agricola, la conservazione e la cura del terreno. Su quest’ultimo punto, vi è stata una forte influenza comunitaria la quale sostiene come l’esercizio di attività sul fondo debba essere condotta con attenzione alla sostenibilità e alle pratiche agronomiche corrette.
Le due tipologie di contratto
I contratti di affitto di fondi rustici vengono classificati in due tipologie dalla l. n.203 del 1982: quelli stipulati con coltivatori diretti del fondo e quelli con soggetti non coltivatori diretti, ossia conduttori. I coltivatori diretti sono definiti agli art. 6 e 7 come “coloro che coltivano il fondo con il proprio lavoro e della propria famiglia, sempreché tale forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo”. All’art. 6 viene precisato che il lavoro della donna è equivalente a quello dell’uomo. Il successivo articolo assimila a coltivatori diretti coloro che laureati o diplomati nel settore agricolo, forestale e veterinario, con un’età inferiore ai cinquanta anni, si impegnano a coltivare il fondo per almeno nove anni e le cooperative, costituite da lavoratori che possiedono la medesima qualifica.
Il coltivatore diretto può utilizzare dipendenti, ma deve anche svolgere personalmente il lavoro operativo nei campi oltre che dirigere ed organizzare l’attività (Germanò 1993).
Il conduttore è invece, un soggetto che stipula un contratto di affitto ma non si occupa personalmente del lavoro per la coltivazione del terreno. Gli articoli che riguardano tale figura sono al capo IV della legge 203 (art. 22, 23 e 24), nei quali in parte si prescrivono specifiche disposizioni e in parte richiamano gli articoli che essendo ai capi precedenti I, II e III fanno
riferimento alle norme degli accordi conclusi con coltivatori diretti del fondo, e gli articoli del titolo III sulle “Norme generali e finali”.
Le due tipologie seguono le medesime norme quanto a durata, recesso e risoluzione, miglioramenti, divieti di subaffitto e subconcessione, indennizzi particolari e deroghe agli accordi. Mentre le differenze sono in favore del coltivatore diretto e attengono alla costituzione del rapporto, ai piccoli miglioramenti e al diritto di prelazione e verranno precisate in seguito.
Le caratteristiche generali del contratto: causa e oggetto
Il contratto di affitto di fondi rustici rappresenta attualmente l’unica forma contrattuale avente ad oggetto la concessione di fondi ammessa dall’ordinamento. Con la legge del 1982, ci fu un ridimensionamento delle tipologie contrattuali agrarie. All’art. 45, infatti, si trova il divieto di stipulare contratti di mezzadria, di colonia parziaria e di compartecipazione agraria (esclusi stagionali) e al titolo II la conversione dei diversi contratti in affitto. L’intento del legislatore era quello di standardizzare i numerosi profili salvaguardando la parte debole, l’affittuario, per permettergli di gestire il fondo in un’ottica di maggior efficienza produttiva. L’autonomia privata, fortemente limitata nella tipologia, viene garantita grazie alla possibilità descritta nell’articolo citato, di poter stipulare contratti in deroga alle disposizioni legali ma con l’assistenza da entrambi le parti delle organizzazioni professionali, a pena di nullità.
La causa del contratto è l’esercizio della gestione produttiva agricola, ossia attribuire ad un soggetto non proprietario il potere di esercitare l’attività agricola su un bene produttivo altrui. L’oggetto è il fondo, da definirsi come la superficie di terreno comprensiva dello spazio sottostante e sovrastante (art. 19 della legge del 1971 n.11 esprime il divieto di apporre clausole contrattuali che prevedano una concessione separata del suolo da quelle del sovra suolo e simili condizioni).
Le obbligazioni del contratto: il canone e i miglioramenti
Le obbligazioni generiche di questa tipologia contrattuale sono in parte contenute nelle leggi speciali e in parte fanno riferimento alla sezione generale contenuta nel codice civile agli art. 1615 e seguenti.
Il proprietario ha l’obbligo di consegnare il bene fornito degli accessori e delle pertinenze che servono per la produzione a cui il bene è destinato (art. 1617).
Da sottolineare è la differenza tra fondo, dotato di attrezzature, e azienda. Mentre il primo è un insieme di beni ed oggetti, la seconda non è una semplice somma di cose, ma è
comprensiva di beni materiali e immateriali che vengono organizzati dall’imprenditore per svolgere l’attività.
Gli obblighi dell’affittuario sono il rispetto dei programmi di sviluppo del territorio, la non modificabilità della destinazione economica del bene e il pagamento del canone.
Il canone è la controprestazione che l’affittuario deve corrispondere al proprietario del bene. In passato questo veniva determinato in modo autoritario secondo la produttività del terreno in base ai redditi catastali del 1939, i quali venivano moltiplicati per dei coefficienti introdotti e modificati numerose volte nel corso degli anni. Questo sistema, che era stato definito transitorio nell’attesa della revisione degli estimi catastali, rimase in funzione per molti anni, ed anche nella legge del 1982 vi è il capo II intitolato “modifiche sulla disciplina di determinazione dell’equo canone”. Oggi, non vi è alcuna definizione dell’entità e della forma del canone, il quale viene lasciato libero agli accordi tra le parti, visto che la Corte Costituzionale con pronuncia n.318 del 5 luglio 2002 ha dichiarato l’illegittimità di questo genere di disposizioni. Il canone può corrispondersi quindi in danaro o in altra utilità.
L’affittuario ha, inoltre, ampi poteri gestori sul bene e sono nulle le clausole che limitano tale diritto, come riporta l’art.10 della legge n. 11 del 1971 (tranne la clausola che prescriva il rispetto di impianti fruttiferi specializzati). Particolare attenzione è poi posta sui miglioramenti, che vengono descritti e regolamentati all’art. 16 e 17 della legge 203 del 1982 e alle piccole migliorie regolate, invece, all’art. 19. Le prime norme prevedono che entrambe le parti possono apportare miglioramenti, ma è fondamentale la comunicazione all’altra parte e l’accordo da raggiungere in presenza dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura1, il quale agisce da arbitro in caso di disaccordo. Nel caso in cui sia il proprietario ad eseguire le opere, egli potrà chiedere l’aumento del canone all’affittuario corrispondente alla nuova classificazione del fondo, mentre se è l’affittuario ad operare il miglioramento, egli avrà diritto ad un’indennità corrispondente all’aumento di valore di mercato del fondo al momento della cessazione del contratto e a ritenere il fondo finché non gli verrà pagato quanto dovuto. All’art. 19 si determina, in deroga alla procedura richiamata, la possibilità per l’affittuario di apportare piccole migliorie, ossia quelle realizzabili con il proprio lavoro (famiglia compresa), salvo comunicazione al proprietario venti giorni prima l’inizio dei lavori. Le piccole migliorie non sono, invece, concesse al conduttore.
1 Una precisazione va fatta sugli Ispettorati provinciali dell’agricoltura, in quanto questi, su direttiva nazionale, sono stati soppressi e oggi le loro funzioni sono svolte dagli organi regionali di competenza attraverso gli Sportelli unici agricoli (SUA).
Ci sono poi, attività che attualmente rientrano nell’art. 2135 del c.c. (così dette per connessione) e che si possono considerare come miglioramenti del fondo quali l’agriturismo, la produzione e cessione di energia pulita. Vi è però un distinguo da fare tra le modifiche che “trasformano i frutti della terra o i residui di allevamento di animali in energia” e quelle che producono energia con impianti situati sul terreno (Germanò 2015). In quest’ultimo caso, infatti, non può considerarsi una miglioria un impianto di pannelli fotovoltaici posti sopra il terreno che impedisce la stessa coltivazione del fondo. Sono considerate migliorie, le modifiche agli edifici del fondo che portino energia elettrica, maggior igiene e sanità e miglior abitabilità.
Le riparazioni straordinarie a norma dell’art. 1621 devono essere effettuate dal locatore.
La durata dei contratti
Un aspetto fondamentale è la durata dei contratti d’affitto. Il legislatore vuole, infatti, garantire all’affittuario il diritto ad utilizzare il bene per un periodo sufficientemente lungo tale che sia di suo interesse gestire in modo efficiente ed adeguato il fondo anche con investimenti in miglioramenti di cui ne possa beneficiare lui stesso. La durata del contratto funge da assicurazione per l’autonomia di gestione.
L’annata agraria inizia l’11 novembre (art. 39) e si conclude il 10 novembre dell’anno successivo.
L’art. 1 della legge 203 prescrive la durata minima dei contratti in quindici anni, salvo diversa previsione e in sei anni per quelli che hanno ad oggetto terreni dichiarati montani (art. 3). Nell’articolo seguente (art. 2) il legislatore definisce anche il periodo di validità degli accordi in corso al momento dell’entrata in vigore della legge dell’82 da un minimo di dieci a un massimo di quindici a seconda dell’annata agraria in cui hanno avuto inizio.
Le disposizioni all’art. 1 nella realtà odierna vengono difficilmente seguite, perché considerate fortemente limitative. Infatti, la maggior parte dei contratti d’affitto vengono stipulati sulla base dell’art. 45 della legge 203 del 1982, il quale permette le deroghe alle norme vigenti comprese quelle di durata (Scaglia 2009). Sempre a garanzia della stabilità del contratto, l’art. 4 prevede il rinnovo tacito del contratto in caso di mancata disdetta almeno un anno prima della scadenza e col decreto legge n.228 del 2001 è stato introdotto l’art. 4 bis alla legge 203, con il quale si istituisce un diritto di prelazione dell’affittuario in caso di nuovo affitto. Quest’ultimo articolo è riferito solo agli affittuari coltivatori diretti, non ai conduttori. Inoltre era previsto agli art. 46 e 47 abrogati nel 2011 (D.lg. 1 settembre 2011 n.150) un
preciso procedimento di pronuncia giudiziaria e la prorogatio in caso di sfratto fino alla fine dell’annata agraria in corso.
La costituzione del rapporto
La costituzione del rapporto è prevista in forma scritta e necessita di trascrizione solo per i contratti ultranovennali secondo l’art. 2643. Quest’ultimo è in parte contraddetto dall’art. 41 della legge 203 che recita “i contratti ultranovennali… anche se verbali e non trascritti, sono validi e hanno effetto anche riguardo ai terzi”. Inoltre, vi è un ulteriore bisticcio normativo tra l’art. 3 della legge n. 606/1966, la l. n. 11 del 1971 e la l. n.203 del 1982: la prima fissa in sei anni la durata minima dei contratti di affitto a conduttore, richiedendo la forma scritta solo ad probationem, la seconda prescrive la durata minima in quindici anni per i conduttori richiamando la precedente norma e infine la terza determina la medesima durata per entrambi i tipi di coltivatori (inserendo art. 41 sopra citato). I dubbi sono stati risolti dalla Suprema Corte (pronunce n.11689/1992 e n.8373/2002), la quale, sottolineando come l’art. 41 non sia ripreso nell’art. 23 ( dove vengono elencati gli articoli che si riferiscono anche all’affittuario non coltivatore diretto), ha sancito che l’affitto a coltivatore diretto non richiede forma scritta per essere valido e nemmeno la trascrizione per essere opponibile ai terzi, mentre l’affitto a conduttore necessita ad probationem della forma scritta e della trascrizione per essere opponibile.
Tuttavia, i contratti che sono stipulati in deroga (in base all’art. 45) necessitano della forma scritta per essere validi, con firma delle rappresentanze sindacali che hanno assistito le parti. Quest’ultime possono derogare alle norme di legge in riferimento alla durata, al canone, al termine di disdetta e al potere di miglioramenti.
L’interpretazione dei contratti seguono le norme del codice civile agli articoli 1362-1371, quali tra le altre, quelle relative a buona fede e intenzione delle parti.
Si ritiene, inoltre, che l’assistenza delle organizzazioni professionali debba consistere in un’attività di consulenza e di indirizzo non in una mera visione dell’atto, e che la mancanza di questa porti alla nullità delle clausole in deroga del contratto.
La conclusione del rapporto: la disdetta e la risoluzione
La cessazione del contratto è regolata all’art. 5 della l. n. 203 del 1982. L’affittuario può recedere con un preavviso da comunicare tramite lettera raccomandata con avviso di ricevimento almeno un anno prima della scadenza dell’annata agraria.
La risoluzione del contratto, diversamente da quanto prescrive il codice civile, può essere pronunciata solo in caso di grave inadempimento del coltivatore (diretto o conduttore che sia).
Nell’articolo, inoltre, si descrive quali possono essere considerate pesanti mancanze alle obbligazioni: “obblighi inerenti al pagamento del canone, alla normale e razionale coltivazione del fondo, alla conservazione e manutenzione del fondo medesimo e delle attrezzature relative, all’instaurazione di rapporti di subaffitto o di subconcessione”. Il legislatore, oltre a prevedere queste ipotesi specifiche di gravi inadempimenti, sempre nell’intento di preservare il rapporto, determina l’obbligo per il locatore di darne prima comunicazione all’affittuario spiegando le proprie ragioni e solo dopo che questo non vi provvede entro tre mesi procedere con la risoluzione del rapporto. All’ultimo comma dell’articolo si precisa che il mancato pagamento del canone deve essere di almeno un’annualità.
Una particolare causa di risoluzione incolpevole del contratto è data dalla concessione edilizia che il locatore può ottenere e che gli permette di edificare sul terreno impedendo la continuazione del rapporto. In questo caso, previsto dall’art. 50, il proprietario deve dare comunicazione all’affittuario, il quale, con assistenza dell’Ispettorato provinciale, ha diritto ad un equo indennizzo per il valore delle colture presenti nel fondo e per la disintegrazione dell’attività. Egli, ricevuto quanto accordatogli, deve lasciare il fondo entro trenta giorni. Qualora alla concessione non facciano seguito le opere previste, si ripristina il rapporto esistente con la successiva trattenuta delle somme costituenti l’indennizzo.
Similmente, in base all’art.1638 del c.c., in caso di espropriazione di pubblico interesse o in caso di occupazione temporanea, l’affittuario ha diritto a ricevere un’indennità corrispondente al valore del raccolto.
Uno dei citati gravi inadempimenti di risoluzione del contratto riguarda il subaffitto e la sub concessione. Questi insieme alla sublocazione sono espressamente vietati dall’art. 21 della l.
n. 203 del 1982. In tali situazioni il locatore può esercitare due tipi di azioni distinte ed autonome tra loro: una volta a dichiarare nullo il contratto di subaffitto e l’altra diretta alla risoluzione del contratto (originario) per grave inadempimento dell’affittuario. Qualora il locatore non fa valere il divieto espresso dall’art. 21 o non lo fa nel termine previsto, il subaffittuario subentra nella posizione dell’affittuario ope legis, automaticamente. Nei casi in cui il diritto venga fatto valere tempestivamente, il subaffittuario (o sub concessionario) “ha facoltà di subentrare nella posizione giuridica dell’affittuario (o del concessionario)” per tre annate agrarie a partire dalla fine di quella in corso. Inoltre, la Corte di Cassazione (pronuncia
n. 11218/1997) ha precisato che, ai fini della risoluzione del contratto, prevale la disposizione speciale dell’art. 21 su quella generale dell’art. 5 (della stessa legge 203/1982) per cui non è richiesta la preventiva contestazione vista l’impossibilità di poter sanare l’inadempimento. Entrambe le azioni devono essere effettuate entro il termine di quattro mesi da quanto il
locatore ne è venuto a conoscenza. Tuttavia, la Suprema Corte ha ribadito come in questi casi debba essere comunque seguito l’art. 46 che prescrive il tentativo di conciliazione davanti all’Ispettorato agrario competente (pronuncia n. 21018/2010).
Diversa questione è il caso della cessione del contratto, il quale non è espressamente vietato dalla legge vigente, nonostante nelle legislazioni precedenti lo fosse (1971 n.11). La ragione di questo sta nel fatto che nella cessione, diversamente dal subaffitto, non cambia la causa del contratto, ma solo l’elemento soggettivo, e poiché l’affitto del terreno non ha la qualifica di intuitu personae non si presenta motivo per vietare la fattispecie. Ulteriore conferma è data da una serie di norme che presuppongono la cessione senza nemmeno il consenso del locatore (ad esempio l’art. 48 che prevede la possibilità di cessione senza consenso del proprietario ad un familiare del concessionario purché svolga l’attività agricola da almeno tre anni).
La successione mortis causa
Un’altra specificità dei contratti di affitto è legata alla successione mortis causa, regolata all’art. 49. La morte dell’affittuario non determina la fine del contratto. Tale ipotesi può avvenire solo nel caso in cui alla fine dell’annata agraria in corso non vi sia nessuno tra gli eredi che “abbia esercitato o continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale”. In questa circostanza tornano a valere i principi di uguaglianza tra eredi. Nel caso contrario gli eredi idonei hanno diritto a continuare l’attività anche per le quote appartenenti ad altri eredi, diventando affittuari e operando una cessione del rapporto. In questa situazione, di affitto così detto “forzoso” all’erede idoneo, la legge del 31 gennaio del 1994 n. 97 agli articoli 4 e 5 (per le zone montane) e tramite la successiva estensione a tutti i casi prevista dall’art. 8 del D.lg. del 18 maggio 2001 n. 228, attribuisce agli eredi non idonei il diritto di acquisire le quote di proprietà dei coeredi al prezzo del valore agricolo medio del terreno con anche le pertinenze, le scorte e i rustici annessi.
Queste disposizioni devono, però, distinguersi nel caso di impresa familiare, descritta all’art.
48. Infatti, mentre l’ipotesi precedente rappresenta un subentro, questa descrive una continuazione, la quale è possibile ogni qualvolta un familiare, appartenente all’impresa, dimostra di avere almeno un terzo della forza lavorativa occorrente per la coltivazione del fondo. I due articoli quindi, non agiscono in modo concorrente ma intervengono a seconda dei casi o l’uno o l’altro.
Capitolo terzo: La soccida
La soccida è una tipologia contrattuale nata ancor prima dell’anno Mille dalla necessità dei proprietari di bestiame di provvedere a questo ma non in prima persona vista la posizione sociale che occupavano (Xxxxxxxxx 1990).
Questo tipo di accordo è un contratto di allevamento ed è l’unico che è stato tipizzato dal legislatore in tre forme: soccida semplice, soccida parziaria e soccida con conferimento di pascolo. Nel corso delle diverse legislazioni speciali sopra descritte, la soccida non è stata oggetto di particolare attenzione con la sola eccezione dell’ultima delle tre tipologie, ossia quella con conferimento di pascolo, la quale diversamente dalle altre si configura come un rapporto di scambio (in dettaglio in seguito).
I contratti di allevamento sono molto importanti per le attività medesime, poiché regolano l’acquisizione dei fattori produttivi e lo svolgimento di azioni dirette all’ottenimento “di prodotti indispensabili al soddisfacimento di bisogni essenziali dell’essere umano” (Germanò 2015). In generale questa tipologia contrattuale si può ben inserire all’interno dei contratti agrari essendo una delle attività descritte nell'art. 2135 del c.c. come principali.
Le norme che regolano la soccida, visto anche quanto detto in precedenza, sono per la maggior parte ancora contenute nel codice civile, in particolare alla sezione IV del libro V del lavoro. All’art. 2170 troviamo la definizione di soccida, in cui “il soccidante e il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano”.
Dalla definizione emerge chiaramente il carattere associativo del contratto e in seconda istanza la struttura parziaria, tale per cui le parti hanno come obiettivo la divisione “dell’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili”. Ciò nonostante, delineare la natura giuridica della soccida si è rivelato particolarmente complesso per la dottrina (Xxxxxxxxx 1990). Nel codice del 1865 le difficoltà erano dovute ad una pluralità di figure contrattuali e a diversi comportamenti delle parti (vi erano oltre alla soccida semplice, la soccida a metà, la soccida con affittuario o con il mezzaiuolo e quella impropria). Per cercare di chiarire la situazione in vista del nuovo codice (1942) si seguì la traccia definita dal progetto redatto dalla confederazione fascista degli agricoltori che definiva i seguenti punti: attribuire una struttura associativa, eliminare le vecchie figure della soccida con l’affittuario, di quella con il mezzaiuolo e della soccida impropria, nel mantenere la soccida semplice e parziaria e nel definire la disciplina in punti essenziali e per il resto rimandare agli usi e alle consuetudini. Nel fare ciò i tre tipi di soccida si riconducevano a tre schemi diversi (soccida semplice all’associazione in partecipazione, soccida parziaria a società e soccida con
conferimento di pascolo a società a base reale). Invece, l’intenzione dell’orientamento era di ricondurre a natura unitaria i diversi tipi di contratto, non considerando, però, che in realtà non vi si potevano riconoscere centri d’imputazione tipici delle società e nemmeno le caratteristiche dell’associazione in partecipazione. L’errore che emerse era la mancanza della definizione di accrescimento (alla luce della differenza con la crescita naturale) e dello sforzo di inquadrare le fattispecie in termini di comproprietà.
Tuttavia, la natura giuridica del contratto di soccida si chiarì cambiando configurazione giuridica con il nuovo codice sia per la sistemazione sia per l’ordinamento strutturale e sostanziale e giungendo alle caratteristiche descritte in precedenza di un contratto associativo con struttura parziaria.
Le caratteristiche del contratto
L’oggetto del contratto è “una certa quantità di bestiame”. Questa definizione ha dato origine a numerose querelles dottrinali in ordine ai caratteri quantitativi e qualitativi (Xxxxxxxxx 1990). Il dibattito nasceva dall’utilizzo della parola “bestiame” nella precedente nozione dell’art. 2135, a cui molti davano un’interpretazione limitata agli animali da carne, da latte, da lana e da lavoro e diversa da quella più ampia data all’art. 2170, intendendo qualunque specie animale suscettibile di accrescimento e sfruttamento. Tali considerazioni non si possono ritenere valide, giacché si darebbe un significato diverso alla stessa parola all’interno del codice civile. Allo stesso modo, però, visti i cambiamenti della tecnologia negli anni, l’interpretazione inizialmente data all’art. 2135 era molto limitativa. Tuttavia, la definizione di bestiame non poteva nemmeno riferirsi a fattispecie troppo ampie altrimenti, faceva rientrare nella definizione di impresa agricola casi non ad essa riconducibili. Inoltre, alcuni sostenevano che bastasse anche un solo animale per poter avere un oggetto di soccida, mentre altri che fosse necessaria una certa quantità per determinare un’universalità.
La questione è stata in parte risolta con la modifica dell’art. 2135 nel 2001 (art.1 del D.lg. 18 maggio 2001), in cui la parola bestiame è stata sostituita da animali. L’oggetto del contratto di soccida è considerato, dalla giurisprudenza (pronunce n.1571/1985 e n.3152/1971) e da una buona parte della dottrina, riferibile a quelle specie animali che si allevano e che tradizionalmente sono collegate al fondo rustico alla luce del progresso tecnico e tecnologico. Inoltre, in quanto al numero di capi, è preferibile la tesi per cui sono necessari più di un animale per configurare un allevamento, la quale risponde meglio alla ratio della norma (Germanò 2015).
Un’altra caratteristica del contratto di soccida che emerge dalla definizione è l’attività di allevamento e sfruttamento del bestiame, la quale è descritta al secondo comma dell’art. 2135,
come attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase dello stesso. Sulla base di questo collegamento si può descrivere l’oggetto della soccida quale tutte le specie animali il cui allevamento esercitato ai sensi degli articoli 2082 e 2135 del c.c. vale a qualificare l’impresa agricola. L’eccezione è data dalla soccida con conferimento di pascolo, la quale non consente l’utilizzo di una simile definizione dell’oggetto che viene ricondotto alla tradizionale nozione di bestiame utilizzatore del pascolo, essendo possibile solo con la stipulazione in deroga tramite l’art.45 (legge 203 del 1982) per le motivazioni sopra spiegate.
Il concetto di accrescimento
Il concetto di accrescimento è descritto nel secondo comma dell’art. 2170, come “consistente tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco” del bestiame al termine del contratto. Esso corrisponde in sostanza al plusvalore prodotto tra l’inizio e la fine del ciclo, sia qualitativamente sia quantitativamente. Infatti, i parti non sono considerati frutti, e vengono perciò sottratti alla disciplina di tale categoria di beni. I parti non sono soggetti alla comproprietà tra soccidante e soccidario perché la loro rilevanza si determina alla fine del rapporto (Xxxxxxxxx 1990). Per gli altri frutti invece si segue la regola della separazione dalla cosa madre (secondo comma art. 820 del c.c.).
Tra gli altri prodotti concernenti l’accrescimento, si trovavano anche le quote latte. Queste ultime consistevano in beni immateriali che assegnavano una certa produzione di latte a ciascun produttore ed erano state introdotte dall’Unione Europea in via transitoria per circa trent’anni per controllare l’eccedenza di produzione del settore lattiero-caseario. Dopo numerose proroghe, il regime delle quote istituito nel 1984, si ritiene concluso al 31 marzo 2015. Si riteneva che, essendo il rapporto di soccida di natura associativa a struttura parziaria, la titolarità delle quote spettasse ad entrambi nelle forme della soccida semplice e parziaria, mentre al soccidario nell’ultimo tipo (soccida con conferimento di pascolo) e che alla scadenza dell’accordo competesse ad entrambi la disponibilità (Germanò 2015).
Tuttavia la posizione delle parti sull’accrescimento è complessa. Infatti, si sono escluse le ipotesi in cui il soccidante e il soccidario avevano una situazione giuridica diversa, avvalorando invece la tesi secondo cui le parti hanno una posizione giuridica di aspettativa avente ad oggetto il valore economico dell’accrescimento stesso. Solo alla fine del rapporto, dopo aver effettuato una stima del plusvalore del bestiame, si instaura una comunione relativa all’oggetto e si attualizza un diritto di credito a seguito del prelievo di quanto conferito inizialmente da parte del soccidante.
Le tre tipologie di soccida: aspetti comuni
I tre tipi di soccida hanno in comune diversi aspetti, oltre a quelli fin qui descritti.
La durata del rapporto, se non prevista, è definita dall’art. 2172 del c.c. in tre anni e al termine di questi, se non viene data disdetta almeno sei mesi prima, il contratto si rinnova automaticamente di anno in anno.
Inoltre, lo scioglimento del contratto mortis causa di una delle parti era regolato in precedenza dall’art. 2179 del c.c. richiamando l’art. 2158 riferito alla mezzadria. Ora questi riferimenti non sono più validi, perché la legge del 1982 ha abrogato l’art. 2158, e riconduce tale caso di fine del rapporto agli art. 48 e 49 della legge 203 (del 1982) rispettivamente nei casi di impresa familiare e non, come spiegato in precedenza per i contratti di affitto di fondi rustici (Xxxxxxxxx 1990).
Un'altra causa di scioglimento del contratto è il verificarsi di fatti tali da impedire la prosecuzione del rapporto come riporta l’art. 2180, fatte salve le norme generali di risoluzione per inadempimento.
Tuttavia, il contratto non si scioglie quando avviene il trasferimento del bestiame in proprietà o in godimento (art.2177). In tal caso i crediti e i debiti del soccidante, relativi al contratto di soccida, passano al terzo in proporzione alla quota di bestiame trasferita, salva la responsabilità sussidiaria del soccidante per i debiti. Inoltre, se il trasferimento riguarda la maggior parte del bestiame, è data la possibilità al soccidario di recedere dal contratto entro un mese da quando ne è venuto a conoscenza, con effetto al termine dell’anno in corso.
Ultimo aspetto comune alle tre forme di soccida è il diritto di prelazione attribuito tanto al soccidario quando al soccidante in caso di vendita, anche parziaria, di unità di animali, da esercitarsi entro quindici giorni tramite raccomandata con avviso di ricevimento (art. 35 della legge 203 del 1982).
La soccida semplice
Le differenze dei tre tipi contrattuali riguardano i conferimenti e le reintegrazioni.
Nella soccida semplice il bestiame viene conferito dal soccidante. Fondamentale è la stima, la quale deve indicare “il numero, la razza, la qualità, il sesso, il peso e l’età…e il relativo prezzo di mercato” (art. 2171 del c.c.). Tale stima non trasferisce la proprietà al soccidario, ma deve essere utilizzata a confronto con quella effettuata alla fine del contratto al momento del prelevamento per determinare l’accrescimento (Xxxxxxxxx 1990). All’art. 2181, infatti, si prescrive come il soccidante prelevi, in accordo con il soccidario, il bestiame che per le caratteristiche sia corrispondente alla consistenza della stima iniziale e il valore aggiunto viene ripartito. Al termine del contratto, infatti, le parti si dividono gli accrescimenti, i
prodotti, gli utili e le spese stabilite dagli usi e dalle convenzioni. Al secondo comma dell’art. 2178 il legislatore precisa che è nullo il patto per il quale il soccidario si trovi nella situazione di “sopportare nella perdita una parte maggiore di quella spettantegli nel guadagno”. In sostanza, le proporzioni di divisione devono essere le stesse tanto per le spese e tanto per i guadagni. Qualora il prelevamento non sia stato di uguale consistenza alla stima iniziale, il soccidante può prelevare quelli che residuano e nel caso in cui non sia sufficiente, il soccidario ha l’obbligo di corrispondergli una somma per la perdita subita.
Il potere direttivo dell’impresa spetta al soccidante, il quale deve esercitarlo secondo le regole di buona tecnica dell’allevamento (art. 2173). Particolare norma è quella che prescrive al soccidario di scegliere i suoi collaboratori (non familiari) previo il consenso del soccidante, anche quando la spesa è a carico del primo soggetto. Xxxxx, invece, un divieto che nel codice del 1865 era disposto all’art. 1678, ossia quello di alienare il bestiame senza il consenso del soccidario. Questo divieto, anche se non espresso, è però considerato come vigente per interpretazione, visto l’obbligo del soccidante espresso all’art. 2173 e dovendo seguire gli interessi comuni delle parti (Xxxxxxxxx 1990).
Gli obblighi del soccidario consistono nel seguire le direttive del soccidante, e di prestare il lavoro necessario per la custodia e l’allevamento del bestiame, comprendendo anche la lavorazione dei prodotti ed il trasporto. Inoltre, egli non risponde del perimento del bestiame se prova che la causa non è a lui imputabile e deve rendere conto delle parti recuperabili a norma dell’art. 2175.
Nei casi in cui il perimento coinvolga la maggior parte del bestiame ed avvenga, nei contratti con durata non inferiore ai tre anni, nella prima metà del periodo, il soccidario che non è colpevole di questo, può chiedere il reintegro degli animali. Se il soccidante non vi provvede, può eseguire il recesso dalla soccida. Questa possibilità serve a tutelare il soccidario. Infatti, il perimento di un importante numero di unità potrebbe danneggiarlo e far venire meno la funzione stessa del contratto giacché il prelievo deve avvenire sulla base della stima iniziale (Notari 2004).
La soccida parziaria
La soccida parziaria è molto simile a quella semplice e si distingue per il conferimento di bestiame effettuato da entrambe le parti in proporzioni convenute come viene descritto nell’art. 2182. In conseguenza a tale definizione cambia anche la regola di reintegrazione, secondo cui a parità di condizioni dell’art. 2176 (contratto di durata non inferiore ai tre anni, quando nella prima metà del periodo perisce la maggior parte del bestiame per cause non imputabili al soccidario), nel caso in cui le parti non raggiungono un accordo per la
reintegrazione, si attribuisce loro la facoltà di recedere con effetto al termine dell’anno in corso (art.2183). L’elemento lavoro è sempre apportato dal soccidario e la divisione del bestiame è uguale a quella descritta per la soccida semplice.
La soccida con conferimento di pascolo e il rapporto con gli altri contratti associativi
La soccida con conferimento di pascolo, definita all’art. 2186, si ha quando il bestiame viene conferito dal soccidario insieme al lavoro per la cura e l’allevamento, mentre il soccidante conferisce il terreno per il pascolo. Mentre nelle altre tipologie contrattuali il terreno era un elemento accessorio, in questa è essenziale. Per queste caratteristiche il potere d’impresa è affidato al soccidario ed è riconosciuto al soccidante un potere di controllo. Inoltre, si devono osservare le stesse regole della soccida semplice per quanto compatibili.
Tuttavia, come sopra accennato, quest’ultimo tipo di soccida è stato oggetto di attenzione del legislatore, essendo configurata come un rapporto di scambio e rientrando quindi, nella categoria dei contratti di cui si prescriveva la conversione in contratti d’affitto all’interno della progressiva tipizzazione dei contratti.
Dapprima con la legge n. 11 del 1971 veniva data la possibilità al coltivatore di richiedere la trasformazione della soccida in affitto; poi con l’emanazione del 1982 n. 203 la possibilità venne estesa anche alle soccide parziarie quando vi sia un conferimento di pascolo e l’apporto del bestiame del soccidante sia inferiore al venti per cento del valore dell’intero conferimento effettuato dalle parti (soccida parziaria con conferimento di pascolo). Infine nella legge n. 29 del 1990 si precisano le condizioni. L’iniziativa di richiedere la conversione è attribuita anche al soccidante. Inoltre, all’art. 29 della legge 203 si descrivono i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti.
Per i contratti non convertiti per volontà o carenza di requisiti si modificava ex lege la durata in sei o dieci anni e le modalità di divisione dei prodotti e utili.
Nonostante la soccida parziaria con conferimento di pascolo e quella con conferimento di pascolo abbiano seguito le stesse norme degli altri contratti associativi riguardo alla conversione, non si può dire altrettanto per i divieti di stipulazione. Infatti, già dal 1971 non era più possibile costituire dei contratti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione non stagionali. Mentre un simile divieto non è mai stato espresso per questi tipi di soccida ed oggi si possono stipulare sfuggendo alla riconduzione all’affitto in deroga tramite l’art. 45.
Le soccide “industriali”
Oggi i contratti di soccida sono i più diffusi nel settore zootecnico, ma sono diversi rispetto alla forma tradizionale, sia per il profilo oggettivo che quello soggettivo (Germanò 2015).
Le parti coinvolte sono, infatti, gli imprenditori agricoli e gli imprenditori industriali o commerciali e l’oggetto del contratto non consiste solo in “una certa quantità di bestiame” ma comprende anche mangimi, servizi ed assistenza tecnica e veterinaria. Inoltre, il soccidario deve allevare e custodire gli animali in strutture proprie secondo le direttive del soccidante per ottenere poi un compenso a fine ciclo basato sul peso, detratti i mangimi consumati secondo specifiche tabelle di conversione.
Questa forma permette di avere una certa sicurezza, tanto per gli allevatori nel vendere gli animali qualitativamente sani e perciò sicuri, quanto per i commercianti per poter allocare il mangime e gli stessi prodotti derivati d’allevamento nel mercato, essendo certi della provenienza e della qualità che possiedono.
Viste le differenze con la soccida tradizionale, la dottrina si è interrogata nuovamente sulla natura giuridica di tale contratto, riconducendolo ai contratti di integrazione verticale, poiché coordinano attività in settori diversi. In particolare, in questi contratti la dottrina riconosce le caratteristiche delle associazioni in partecipazione (art. 2549 del c.c.) nel profilo di tipico ed esclusivo accordo per la zootecnia. Invece, la Corte di Cassazioni con le pronunce 1540/1982 e 6555/1986, lo definiva come contratto di scambio e precisamente d’appalto. Oggi, queste soccide così dette “industriali” si riconducono alla categoria dei contratti di coltivazione, allevamento e fornitura di filiera ed ai contratti quadro definiti dal diritto europeo con l’art. 9 del D.lg. n. 102 del 27 maggio 2005. Queste tipologie sono soggette ad una disciplina ad hoc quanto a obblighi delle parti e scioglimento del rapporto volti a favorirne la stabilità e con una maggior favor verso gli imprenditori agricoli (Germanò 2015).
Capitolo quarto: I contratti di cessione dei prodotti agricoli
Gli agricoltori si occupano di coltivare e realizzare dalla terra una serie di prodotti, i quali diversamente da altri vengono prodotti “da zero” e soffrono della loro deperibilità. Il legislatore ha, fin dal 1959 e per tutte le successive leggi, confermato la diversità tra l’imprenditore agricolo e quello commerciale anche nel momento in cui il primo compie, di fatto, l’attività del secondo, ossia nella cessione dei prodotti agricoli. Infatti, il legislatore sottrae l’agricoltore che vende i propri prodotti alla disciplina in materia di commercio. Inoltre, vige un principio di libertà delle forme per quanto riguarda la vendita al dettaglio (ossia non all’ingrosso e direttamente al consumatore finale), tale per cui l’agricoltore non è soggetto a particolari iter burocratici o autorizzazioni.
Tuttavia, i contratti di cessione dei prodotti agricoli, i quali fanno riferimento agli accordi con cui l’imprenditore agricolo cede sul mercato i suoi prodotti, sono stati recentemente oggetto di una travagliata riforma ma ancor più travagliate sono state le vicende che vi hanno fatto seguito.
Nel decreto n. 1 del 2012, che conteneva delle disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, vi è l’art. 62 intitolato “Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”. Il decreto è stato poi convertito in legge con modifiche dalla l. del 24 marzo 2012 n. 27 e l’art. 62. in particolare è stato in seguito modificato dall’art. 36 bis del d.l. del 18 ottobre 2012 n. 179, poi convertito con la l. del 17 dicembre 2012 n. 221.
L’intento del legislatore era di bilanciare lo squilibrio dei poteri contrattuali tra gli imprenditori agricoli che soffrono della deperibilità dei loro prodotti, e gli imprenditori commerciali e industriali, facenti parte della grande distribuzione che approfittano di questo e la maggior parte delle volte non rispettano i tempi di pagamento concordati portandoli anche ai sei mesi (Xxxxxx 30 nov. - 6 dic. 2012). Con tale norma si cerca di anticipare il periodo di stipulazione degli accordi rispetto al momento in cui i prodotti agricoli sono pronti e possono essere ceduti nel mercato.
L’oggetto della disciplina
Al primo comma dell’art. 62, è definito l’oggetto della norma quale i contratti di “cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale”. L’esclusione delle compravendite con i consumatori finali (soggetti che utilizzano il prodotto come loro cibo), permette di non rallentare e appesantire inutilmente l’atto di acquisto al mercato o nei negozi. Inoltre in esso vi è una contestualità tra la consegna e il pagamento. Si
può affermare per maggior chiarezza che gli accordi soggetti alla disciplina sono quelli in cui il prodotto non è stato ancora realizzato o è in itinere.
Per tali contratti si prescrive l’obbligo della forma scritta e si specifica quali elementi essenziali devono essere riportati: la durata, la quantità, le caratteristiche del prodotto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. Nella versione originale, poi modificata dall’art. 36 bis, era prevista la pena di nullità qualora il contratto non riportasse tutti questi dettagli, mentre oggi può essere fatta valere solo da chi è legittimato, ossia il contraente protetto.
Insieme a questa modifica, si eliminò anche l’ultimo periodo del primo comma, in cui si prescriveva di seguire i principi di trasparenza, correttezza proporzionalità e reciproca corrispettività. Queste linee guida avevano l’obiettivo di impedire condotte sleali delle parti.
Condotte sleali che vengono fortemente vietate al secondo comma con l’esplicitazione di una serie di divieti quali porre condizioni oggettivamente diverse a prestazioni equivalenti o condizioni ingiustificatamente gravose o escludere l’applicazione degli interessi di mora.
Si permette, inoltre, che la forma scritta sia rappresentata come proposta da ordini e comunicazioni precedenti e come accettazione da documenti di trasporto e fatture recanti la dicitura “assolve gli obblighi dei cui all’art. 62, comma 1, d.l. del 24 gennaio 2012 convertito, con modificazioni, della legge 24 marzo 2012, n. 27”. Vi è anche la possibilità di utilizzare i contratti quadro (Xxxxxxxxxx 12-18 ottobre 2012).
Sono inoltre previste sanzioni molto pesanti per la mancanza della forma scritta che vanno dai 516,00 ai 20.000,00 euro ed anche per pratiche sleali dai 516,00 ai 30.000,00 euro.
Il punto fondamentale della nuova disciplina è il termine per il pagamento, previsto in trenta giorni per le merci deteriorabili ed in sessanta per il resto delle merci, decorsi dall’ultimo giorno del mese in cui si riceva la fattura. Le prime sono elencate in categorie al co. 4 quali prodotti agricoli, ittici e alimentari che riportano una data di scadenza non superiore ai sessanta giorni, quelli sfusi non sottoposti a trattamenti conservanti, prodotti a base di carni e tutti i tipi di latte.
Tuttavia la novità sta nelle pesanti sanzioni previste in caso di ritardo del pagamento, ossia a partire dal giorno successivo alla scadenza, le somme dovute vengono maggiorate da un saggio di interessi calcolato in base a quello della Bce maggiorato di sette punti percentuali, più ulteriori due punti percentuali ai sensi del co. 3 dell’art. 62 (ad esempio, per il secondo semestre del 2012 l’interesse applicato è del 10% ossia 1% tasso della Bce maggiorato dei nove punti percentuali). Inoltre, alla scadenza dei termini di pagamento, il creditore deve iscrivere a bilancio gli interessi di mora come proventi finanziari al presumibile valore di realizzo. Nei casi di incasso dubbio poi, se si segue l’Oic n. 15, il valore va sospeso e quelli
precedenti vanno rivalutati al presumibile valore di realizzo, mentre se non lo si segue e si continuano a riconoscere i crediti, si deve effettuare uno stanziamento al fondo svalutazione crediti. Per quanto riguarda la parte fiscale, invece, gli interessi sono computati nel conto economico da subito, ma verranno tassati solo al momento dell’effettivo incasso (Xxxxxxxxxx 25 ottobre 2012).
In questa direzione le fatture devono avere una data certa di ricevuta, si devono utilizzare quindi raccomandate, fax, pec o consegne a mano con sottoscrizione di ricevuta. Per avere una maggior certezza delle scadenze, l’art. 5 del d.m. 19 ottobre 2012 n. 199 precisa che la fattura dei prodotti deteriorabili deve essere immediata. In ogni caso, salvo prova contraria, si stabilisce come data di consegna la data della fattura e si considera pratica sleale costringere il venditore ad emettere fattura solo dopo un certo tempo.
Ma ciò che più valorizza tali condizioni è inderogabilità delle scadenze, ossia le parti non possono accordarsi su termini diversi e ancor più le sanzioni a riguardo possono andare dai 500,00 ai 500.000,00 euro.
Tuttavia, la normativa non si applica alle cessioni di detti prodotti tra imprenditori agricoli. Non si applicano nemmeno tra quest’ultimi, che siano soci o meno, e le cooperative agricole e viceversa, quando cioè sono le cooperative a cedere i beni poiché si considerano come agricoltori. Sono escluse dalla normativa anche le vendite con consegna fuori dal territorio della Repubblica Italiana (Tosoni 8 gennaio 2013).
Il controllo e il potere sanzionatorio è affidato, nel co. 8, all’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato (Agcm) con il supporto della Guardia di finanza. L’Agcm può agire anche d’ufficio, salvo i casi in giudizio. Inoltre, gli introiti derivanti dalle sanzioni saranno utilizzati per iniziative in materia agroalimentare gestite dal Ministero delle politiche agricole, ambientali e forestali (Mipaaf) e progetti di informazione in materia alimentare a vantaggio del consumatore finale.
L’entrata in vigore della legge è stata al 24 ottobre 2012, con un periodo di tempo per adeguare i contratti in essere in quella data, fino al 31 dicembre 2012.
I problemi d’interpretazione e coordinamento con le altre norme
È utile rilevare che sono sorti diversi problemi riguardo all’interpretazione e applicazione della norma.
Il primo dubbio sorge dalla differenza tra il titolo della rubrica “Relazioni commerciali in materia di cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari” e quanto scritto al secondo comma dell’articolo in riferimento alle “relazioni commerciali tra operatori economici ivi compresi” i contratti che hanno ad oggetto prodotti agricoli e alimentari. Non è chiaro, quindi, se la norma
sia volta a regolare in forma ristretta solo i contratti di cessione per prodotti agricoli e alimentari o in forma più ampia sia predisposta ad integrare e/o modificare le norme del commercio in generale2.
Un secondo problema di interpretazione nasce da quanto riportato nel titolo, “prodotti agricoli e agroalimentari” e ciò che viene, invece, definito nel primo comma “prodotti agricoli e alimentari”. La disuguaglianza può derivare sia da una disattenzione, sia dall’intenzione di tracciare un più ampio ambito di applicazione (i prodotti agroalimentari sono realizzati e trasformati dagli agricoltori, mentre gli alimentari sono trasformati dagli industriali). Con quest’ultima ipotesi, infatti, sarebbero compresi non solo i contratti in cui almeno una parte sia imprenditore agricolo, ma anche quelli in cui l’agricoltore non c’è, ossia tra commercianti e industriali.
Un aspetto importante ma non chiaro riguarda i prodotti ceduti in questi contratti. Nel decreto attuativo n.199 del 19 ottobre 2012 all’art. 2 vengono date le definizioni dei prodotti agricoli e dei prodotti alimentari richiamando rispettivamente l’allegato I dell’art. 38 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) e l’art. 2 del regolamento (CE) n.178 del 28 gennaio 2002. Attraverso tali riferimenti vengono comprese anche le sementi, le quali non sono ad uso alimentare umano e sono vendute solitamente da commercianti o industriali agli agricoltori. In tal modo si può osservare come i protagonisti delle cessioni dei prodotti agricoli possono essere diversi da quelli delle cessioni dei prodotti alimentari.
Inoltre, vi sono casi in cui la legge non si presenta coordinata con le forme contrattuali esistenti, quale ad esempio il contratto di somministrazione (Tosoni 30 nov. – 6 dic. 2012). Tale accordo prevede, ai sensi dell’art. 1559 del c.c., che una parte si obbliga verso un corrispettivo di prezzo, a fornire una serie di prestazioni periodiche e continuative a favore dell’altra. È il caso del fruttivendolo o del panettiere che periodicamente riforniscono un ristorante. La normativa fiscale (art. 6, co. 2, lettera a del Dpr 633/1972) prevede che la fattura venga emessa al pagamento, e il decreto attuativo dell’art. 62 all’art. 5 fa rimando a questa stessa emanazione. Ma la cosa diventa complessa, infatti, a norma dell’art. 62 deve essere stipulato un contratto in forma scritta, ma per il pagamento il cliente può aspettare la fattura la quale può essere emessa come termine ultimo al momento del pagamento stesso. Si può prevedere in tal situazione un’applicazione solo in parte dell’art. 62, salvo non sia emessa una fattura anticipata (Tosoni 8 gennaio 2013).
2 Lo stesso Germanò (2015) solleva il problema e considera preferibile la seconda ipotesi descritta.
La vicenda legata al Decreto legislativo 192/2012
Ai problemi descritti, se n’è aggiunto un altro, dato dal Dlgs n. 192 del 2012 che dispone l’ambito di applicazione a tutte le transazioni commerciali concluse a decorrere dall’1 gennaio 2013 e modifica la disciplina contenuta nel Dlgs n. 231 del 2002 che recepiva la Direttiva europea 2000/35/CE.
Il decreto 192/2012 si applica “ad ogni pagamento effettuato a titolo corrispettivo in un transazione commerciale”. Per quest’ultime s’intendono i contratti stipulati tra imprese, tra imprese e Pubblica amministrazione, che comportano una consegna di merci o prestazione di servizi ed il relativo pagamento. Come spiega l’informativa fiscale a cura del Seac n. 274 (19 novembre 2012) tale decreto impone anche dei termini di pagamenti, ossia trenta giorni, salvo patto contrario delle parti che possono portarlo a sessanta con pattuizione in forma scritta e purché non sia gravemente iniquo. Inoltre, si prevedono gli interessi di mora legali o quelli stabiliti nel contratto e concordati dalle parti e l’annullamento delle clausole inique.
Da quanto descritto è evidente che tale decreto si occupa pressoché delle stesse materie dell’art. 62 ed è proprio qui che nasce il problema. A seguito di un quesito posto da Confindustria con una lettera del 26 febbraio 2013, il Ministero dello sviluppo economico (Mise) ha affermato che l’art. 62 sarebbe stato tacitamente abrogato dal decreto 192/2012. In particolare, risulterebbero non più in vigore i commi 3, 7, 8, e 9 dell’articolo, quelli riferiti ai termini di pagamento, alla sanzione e al controllo dell’AGCM (Costa 29 marzo 2013).
La motivazione di questo è data dalla superiorità della legge di derivazione europea su quella nazionale, per la mancanza di discrezionalità o margine di applicazione data agli stati nazionali e per il criterio di successione delle leggi nel tempo.
Ciò nonostante il parere del Mise espresso nella nota n. 5401, ha valore semplicemente interpretativo poiché spetta solo al legislatore definire il rapporto o l’abrogazione delle leggi. Di diverso parere è ,invece, il Mipaaf, il quale in una nota del 2 aprile 2013 n. 3470 ha ribadito la piena vigenza delle norme definite nell’art. 62 sostenendo che una legge di carattere speciale non può essere abrogata da una a carattere generale com’è il decreto 192/2012. Inoltre, si sottolinea come le norme non siano in contrasto e che la direttiva 2001/7/UE ha espressamente previsto un possibile intervento degli Stati membri ad adottare disposizioni più favorevoli al creditore (Xxxxxxxx 3 aprile 2013).
La situazione, quindi, non è chiara, anche perché non vi è stato nessun intervento da parte del legislatore nel fare chiarezza sulle posizioni da adottare e su quali norme seguire. Di fatto l’art. 62 e successive modifiche non sono seguite dagli operatori che dovrebbero essere coinvolti dalle disposizioni. Certo è che in molti dubitano dell’affettiva efficacia di questa norma in un momento di crisi. I più ritengono, infatti, che la grande distribuzione e industria
riesca comunque a far valer il suo potere contrattuale, chiedendo sconti in nome del pagamento anticipato e annullando, di fatto, il favor legislativo creato, e costringendo gli agricoltori a preferire la non applicazione (Tosoni 8 gennaio 2013).
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