SECONDO CONGRESSO NAZIONALE
SECONDO CONGRESSO NAZIONALE
MEDICO CURA TE STESSO:
LIMITI, RISORSE, NUOVE OPPORTUNITA’
NELLE PROFESSIONI SANITARIE
12-14 GIUGNO 2003 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO
ABSTRACTS
IMPIEGO O PROFESSIONE: QUALE CONTRATTO?
Rif: L. Abbati e-mail: ritaaic@tiscali.it
Sessione: IMPIEGO O PROFESSIONE: QUALE CONTRATTO?
DIECI ANNI DI ACCOGLIENZA NELLA CASA DI AMMALATI DI AIDS
L. Abbati, E. Centra, V. Fornaci, R. Piemonte Fondazione Maddalena Grassi
Introduzione
La Casa di Accoglienza per malati di AIDS è nata per garantire un’adeguata assistenza socio- sanitaria, una casa, una compagnia umana, un sostegno alle famiglie (spesso assenti) a persone con AIDS in fase avanzata o terminale. Un luogo dove fosse possibile affermare un’esperienza di speranza e di vita anche per persone in condizioni di salute spesso drammatiche.
Nel 1993 questo desiderio si è potuto realizzare grazie ad una famiglia che ha donato la casa dove in precedenza accoglieva minori in difficoltà.
Materiali e metodi
La Casa si trova a Seveso-Baruccana, è costituita da una villetta a due piani, con giardino e magazzino/laboratorio esterno.
Nel 1993 sono iniziati i lavori di ristrutturazione e l’11 febbraio 1994 è stato inserito il primo ospite. La Casa, che può accogliere fino a 11 ospiti, è composta da:
Piano terra: 2 camere doppie, 1 camera singola, 2 bagni assistiti, cucina, soggiorno/sala da pranzo, locale farmacia, ufficio, bagno per operatori
1° piano: 3 camere doppie, 2 bagni per ospiti, soggiorno, spogliatoio per operatori.
Le figure professionali che operano all'interno della Casa sono le seguenti:
- 1 direttrice
- 1 economa/amministrativa
- 1 assistente sociale
- 3 educatori
- 4 infermieri professionali
- 3 ausiliarie socio-assistenziali
- 1 medico infettivologo
- 1 fisioterapista
- Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione & Medico Competente
- 1-3 obiettori di coscienza
- 6-8 volontari.
Gli ospiti vengono accolti su loro espressa domanda, tramite i servizi territoriali competenti: La loro permanenza è per un periodo indeterminato e completamente gratuita perché il servizio è convenzionato con la ASL Provincia di Milano 3.
Il lavoro in equipe è per noi il metodo indispensabile per affrontare ogni situazione della persona accolta in modo globale.
Si tengono incontri d’equipe quindicinali ai quali partecipano tutti gli operatori.
Obiettivi
• accoglienza totale della persona in tutta la sua umanità e per il suo destino
• cura della persona in tutti i suoi bisogni: sanitari, educativi, sociali
• sostegno alla famiglia dell’ospite e recupero dei rapporti, spesso deteriorati
• collaborazione con le strutture esterne di riferimento: sanitarie, sociali e territoriali
• coinvolgimento del territorio attraverso la partecipazione a incontri, feste e giornale locali
• sostegno spirituale attraverso la presenza della realtà ecclesiale: grazie alla disponibilità di una decina di sacerdoti che si alternano viene celebrata settimanalmente la S.Messa.
• soddisfazione del personale di assistenza
• bilancio economico in pareggio (gestione oculata dei costi).
Risultati
Dall’ 11/02/1994 AL 31/12/2002 :
• giornate di presenza: 31.364
• totale degli ospiti inseriti: 139
di cui 96 deceduti
33 dimessi
10 attualmente presenti nella Casa
• Modalità di contagio per gruppi di rischio:
n. 89 ospiti tossicodipendenza
n. 29 | “ | rapporti eterosessuali |
n. 1 | “ | omosessualità e tossicodipendenza |
n. 13 | “ | omosessualità |
n. 6 | “ | rischio non noto |
n.1 | “ | trasfusione |
• Età media degli ospiti al momento dell’inserimento: sotto i 30 anni 14
31/40 anni 90
41/50 anni 15
51/60 anni 12
oltre i 60 anni 8
Il numero di ore complessive di assistenza erogate nel 2002 è stato di 19.264, con un minutaggio di assistenza per ogni ospite di 307,98 /giorno.
Conclusione
Nel corso di questi primi dieci anni di vita della Casa abbiamo sperimentato come l’unità e l’amicizia tra gli operatori, all’interno delle quali si gioca tutta la loro esperienza umana e professionale, trasformano questo luogo di malattia in un ambiente di cura che abbraccia e condivide ogni aspetto dell’umano, in tutti i suoi bisogni, offrendo risposte adeguate e personali per ogni singolo ospite.
Bibliografia
Delibera Regione Lombardia N° 18044 del 13/9/96 Progetto Obiettivo AIDS
DINAMICA DELLE PRESENZE :
DESCRIZIONE | 1994 | 1995 | 1996 | 1997 | 1998 | 1999 | 2000 | 2001 | 2002 | Totale |
Totale presenze | 2.480 | 3.330 | 3.256 | 3.586 | 3.800 | 3.737 | 3.750 | 3672 | 3.753 | 31.364 |
% occupazione | 76,3 1 | 91,23 | 88,96 | 98,25 | 94,64 | 93,07 | 93,14 | 91.14 | 93.47 | |
Numero dei nuovi inseriti Reinserim. dopo ricov. in H.a cavallo dell’anno | 43 | 22 | 21 | 15 | 3 | 9 | 8 1 | 7 | 11 | 139 |
Decessi | 32 | 20 | 17 | 8 | 2 | 4 | 2 | 5 | 6 | 96 |
Dimissioni | 1 | 2 | 7 | 3 | 2 | 6 + 1 ric h | 4 | 3 | 5 | 33 |
ETA’ MEDIA DEGLI OSPITI AL MOMENTO DELL’INSERIMENTO NELLA CASA
ANNO | E T A’ O S P I T I | TOTALE | ||||
> 30 anni | 31/40 anni | 41/50 anni | 51/60 anni | < 60 anni | ||
1994 | 9 | 28 | 3 | 2 | 1 | 43 |
1995 | 3 | 14 | 1 | 4 | 22 | |
1996 | 1 | 17 | 3 | 21 | ||
1997 | 10 | 2 | 1 | 2 | 15 | |
1998 | 2 | 1 | 3 | |||
1998 | 8 | 1 | 9 | |||
1999 | 4 | 2 | 2 | 8 | ||
2001 | 1 | 4 | 2 | 7 | ||
2002 | 3 | 6 | 2 | 11 |
NUMERO ORE COMPLESSIVE EROGATE NEL 2000 DAGLI OPERATORI DELLA CASA, RAPPORTATE ANCHE ALLE PRESENZE DEGLI OSPITI :
OPERATORI | NUMERO ORE COMPLESSIVE EROGATE (n° ore) | MEDIA N° DI MINUTI AL GIORNO x OGNI OSPITE (N° minuti) | MEDIA N° DI ORE ANNUALI PER OGNI OSPITE |
Personale socio sanitario | 15.224 | 243,39 | 1.480,63 |
Personale amministrativo e vario | 1.368 | 21,87 | 133,04 |
Obiettori e tirocinanti | 2.022 | 32,33 | 196,67 |
Volontari | 650 | 10,39 | 63,20 |
T O T A L E | 19.264 | 307,98 | 1.873,54 |
Rif: De Socio e-mail: gvldesocio@libero.it
Sessione: IMPIEGO O PROFESSIONE: QUALE CONTRATTO?
UN LIMITE CHE PUÒ ESSERE AFFRONTATO: LA TERAPIA ANTIRETROVIRALE IN PAZIENTI HIV CON DISTURBI PSICHIATRICI.
G.V.L. De Socio1, A. Longo2, L. Fanelli2, M. Bertoli,2G. Stagni1. 1Clinica delle Malattie Infettive, Università degli Studi di Perugia 2ICOS, Casa D. Dante Savini di Perugia
Introduzione
L’utilizzo delle terapie antiretrovirali (TARV) hanno radicalmente cambiato la storia naturale dell’infezione da HIV e condotto a una netta riduzione della morbosità e mortalità per AIDS. Punto cardine per un risultato ottimale è rappresentato dalla corretta e scrupolosa assunzione dei regimi prescritti. La patologia psichiatrica aumenta il rischio di acquisire l’infezione da HIV e, per una maggiore difficoltà nell’aderenza ai trattamenti, ne incrementa la morbosità. La Casa D. Dante Savini di Perugia, operante dal 1996 accoglie pazienti HIV+ con problemi psichiatrici, la cui gestione è notevolmente complessa e richiede l’intervento integrato di varie figure professionali. Una struttura “protetta”, adeguatamente predisposta rende possibile una TARV direttamente osservata (DOT) a chi senza il supporto di personale dedicato (uno psichiatra e vari operatori), non potrebbe giovarsene adeguatamente.
Materiali e metodi
Dal 1996 a dicembre 2002 sono stati presi in carico dalla “D. Dante Savini” 60 pazienti: 43M, 17F, età media 38 anni, Linfociti CD4+ all’ingresso =160/mmc, AIDS 77%.
L’inserimento degli ospiti è stato richiesto dalle ASL di residenza, in rapporto ad una diagnosi di infezione da HIV e ad una impossibilità delle famiglie e/o delle strutture preposte a gestire le complesse problematiche di tali pazienti (diagnosi contestuale di patologie psichiatriche o patologie comportamentali gravi, per esempio in rapporto ad encefalopatia da HIV).
La casa è organizzata in modo da offrire un ambiente familiare non ospedaliero, ma che contestualmente, affronta le necessità sanitarie e riduce al minimo gli accessi presso le strutture di ricovero: i prelievi, le visite specialistiche da parte di un infettivologo e di uno psichiatra, le terapie endovenose in continuità di cura, e le emotrasfusioni sono fatte all’interno della casa. Per
gli accertamenti strumentali e le altre necessità sanitarie si fa riferimento alle strutture del territorio.
Per ciascun ospite, al fine di affrontare al meglio i problemi di salute, viene compilata una cartella clinica informatizzata condivisa con l’istituto di Malattie Infettive del Policlinico di Perugia.
Risultati
Anno | Pazienti seguiti | Sesso= M | Età media | Diagnosi Psichiatrica % | AIDS % | Terapia per HIV % | Viremia non rilevabile % |
1996 | 8 | 6 | 38 | 25 | 100 | 12 | 12 |
1997 | 17 | 10 | 32 | 35 | 69 | 88 | 41 |
1998 | 22 | 16 | 36 | 68 | 73 | 41 | 36 |
1999 | 19 | 14 | 40 | 79 | 79 | 100 | 58 |
2000 | 15 | 11 | 38 | 87 | 80 | 93 | 67 |
2001 | 20 | 14 | 39 | 90 | 60 | 90 | 70 |
2002 | 16 | 13 | 42 | 87 | 87 | 94 | 87 |
La quota di pazienti con problemi psichiatrici è aumentata dal 25% nel ‘96, all’87% nel 2002. Prima dell’ingresso presso la casa D.Dante Savini meno del 30 % dei pazienti accolti praticava TARV. Dopo l’inserimento, quasi la totalità riesce ad assumere regolarmente la terapia. Dal 1999 in poi oltre il 60 % dei pazienti presenta HIV-RNA non rilevabile (principale obiettivo di laboratorio da ottenere per giudicare efficace un trattamento). L’incremento dei linfociti CD4+ (rispetto ai valori d’ingresso) relativo ai pazienti presenti al 31/12/2002, è in media di +92 CD4/mmc. La degenza tende ad essere più lunga che in passato (permanenza media attuale = 826 giorni). Nei pazienti seguiti nel 2002 sono presenti anche patologie di tipo cronico degenerativo: ipertensione arteriosa 3/16, Diabete mellito 1/16, Insufficienza renale cronica 3/16 (di cui 1 in emodialisi), BPCO 3/16, Obesità maggiore o uguale al grado 2° 4/16. Tra tutti i pazienti seguiti 13 sono deceduti. Prima del 1998 tutti i decessi osservati sono stati per cause legate all’AIDS, dopo il 1998 nessun decesso si è verificato per cause legate all’AIDS (cause di decesso: cirrosi, malattie cardio-respiratorie).
Discussione e conclusioni
L’esperienza della casa D.Dante Savini mostra che la terapia antiretrovirale, in pazienti con problemi psichiatrici e infezione da HIV, può essere praticata con buoni risultati in una struttura dedicata, affrontando in modo integrato le problematiche degli ospiti, con il supporto di specifiche professionalità. Problemi non trascurabili emersi sono: l’obesità (media BMI=25) per la difficoltà di praticare regimi dietetici, le epatopatie avanzate, la presenza di patologie croniche proprie di un’età maggiore rispetto a quella reale dei pazienti seguiti, la complessità delle interazioni farmacologiche che hanno richiesto un’ attenta collaborazione tra gli specialisti coinvolti.
Rif: R. La Tocca e-mail: raffaele.la tocca@tin.it
Sessione:IMPIEGO O PROFESSIONE: QUALE CONTRATTO?
SISTEMI SANITARI, PROFESSIONI E CONTRATTI IN EUROPA
R. Latocca *, I. Spagnoli °
* Dirigente Medico del Lavoro - A.O. S. Gerardo di Monza
° Dirigente Medico Radiologo - Istituto dei Tumori di Milano
Introduzione
Il presente lavoro vuole evidenziare attraverso il confronto in Europa degli indicatori base di sistema (socioeconomici e di salute), di risorse professionali e di sistema premiante gli aspetti critici e le possibilità di cambiamento, in una logica che coniughi la qualità delle cure con un adeguato riconoscimento professionale.
Materiali e Metodi
In questo lavoro sono stati presi in considerazione dati statistici provenienti dai report annuali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), del Ministero della Salute Italiano (Ufficio Statistica) e da altre fonti professionali europee (AEMH, UEMS).
I dati statistici sono differenziabili in tre gruppi di indicatori distinti:
▪ Indicatori di sistema socioeconomici (spesa sanitaria % PIL, spesa sanitaria pro capite, ecc.), di salute (aspettativa di vita, mortalità perinatale,ecc.) e di performance (livello di salute, complessiva);
▪ Indici di risorse professionali (medici, infermieri, dentisti, farmacisti x 1000 abitanti) e di risorse tecnico-materiali (letti ospedalieri x 1000 abitanti, attrezzature mediche ad alta tecnologia, ecc.)
▪ Indicatori di riconoscimento professionale (stipendio medio/medico ospedaliero, tipologia educazione continua in medicina, ecc.).
Risultati
Considerando gli indicatori di sistema socioeconomici si evidenzia come la spesa sanitaria dell’Italia in % sul PIL (7,9) è nella media europea, pur situandosi al di sotto della quota investita dalla Germania (10,3) e Francia (9,3); in Italia la quota maggiore della spesa privata (27,7%) è rappresentata dalle spese vive (out of pocket 24,1%) al contrario di altre nazioni dove le assicurazioni sulla salute rappresentano una quota consistente della spesa privata (Olanda 17,5%, Francia 12,6%, Germania 7,1%).
Gli indicatori di salute in Italia si situano su valori ottimali, con una aspettativa di vita di 79,1 anni (M 75,8 - F 82,2), con una mortalità perinatale (6,44 x 10-3) e con una mortalità evitabile per tubercolosi/diabete/appendicite (0,70/18,85/0,09x10-5) su valori minimali.
Gli indicatori di performance dei sistemi sanitari sia per quanto riguarda il livello di salute (DALE) che per quanto riguarda la overall performance ci pongono in una posizione di eccellenza rispettivamente al 3° ed al 2° posto nel rank internazionale.
Gli indicatori di risorse professionali evidenziano la ben nota pletora medica (5,67 x 10-3), mentre altre professioni risultano essere meno rappresentate rispetto alla media europea (infermieri, ostetrici, dentisti).
In Italia la disponibilità di attrezzature mediche ad alta tecnologia risulta essere un indicatore di alta qualità, pur evidenziando un rischio di spreco (es. 4,6 litotritori x 10-6 abitanti).
Per quanto riguarda gli indicatori di riconoscimento professionale, nel 1996 si evidenzia in Italia uno stipendio medio per i medici ospedalieri (72,5 milioni di £) significativamente più basso rispetto ad altri Paesi (Germania 245,6, Olanda 151,5, Francia 97,10 milioni di £). Ulteriori aspetti della tipologia di contratto applicata ai medici ospedalieri del SSN italiano (contratto unico come pubblico dipendente, assunzione per concorso, esclusività di rapporto, ecc.) rendono il contratto più simile a quello di un “impiegato ben pagato” che a quello di un “professionista”.
Anche la modalità di attivazione in Italia dell’ECM per la categoria medica risulta essere stata penalizzante rispetto ad altri paesi europei in quanto introdotta come obbligatoria, gestita direttamente dallo Stato, con totale autofinanziamento da parte dei professionisti e non legata a meccanismi incentivanti.
Conclusioni
Dai dati esaminati emergono alcune considerazioni finali sul sistema sanitario e professionale esistente in Italia :
▪ Pur risultando lo Stato in Italia “l’assicuratore sociale unico” gestore, pagatore ed erogatore del sistema salute, la quota di spesa sanitaria privata a carico diretto del cittadino (out of pocket) identifica una criticità in termini di garanzia del sistema;
▪ La performance del sistema sanitario italiano è probabilmente dovuta solo in parte all’efficienza del SSN ed alla qualità delle cure, molto di più ad altri fattori collegati alla qualità di vita (sviluppo sociale, condizioni ambientali, abitudini alimentari, ecc.);
▪ La pletora medica esistente nel nostro paese, pagata a caro prezzo con il blocco del turn-over ed il progressivo invecchiamento della categoria, o trova risposta in interventi strutturali a breve termine o rischia di risolversi non prima di 10-15 anni a patto che il sistema
pensionistico della categoria regga;
▪ E’ importante superare schemi contrattuali basati esclusivamente sulla garanzia e non sul merito, finalizzati a logiche formali e non alla qualità del lavoro (outcomes professionali). In questo senso è auspicabile una maggior flessibilità delle forme contrattuali, potenziando la
contrattazione periferica e lasciando al livello nazionale esclusivamente una funzione regolatoria e di garanzia
Rif.: M. Smidili e-mail: ritaaic@tiscali.it
Sessione: IMPIEGO O PROFESSIONE: QUALE CONTRATTO?
LA QUESTIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO IN SANITA’
M. Smidili, A. Mainini, L. Riboldi, M.Marzegalli, A Pirola, M. Botturi Fondazione Maddalena Grassi
Premessa
Il sistema moderno del Welfare State in sanità si è retto su una serie ragguardevole di istituti di eccellenza che hanno assicurato sensibili vantaggi sociali di stabilità di impiego del personale e miglioramento di numerosi indici della vita delle persone.
Ma si sono profilati anche problemi che si sono fatti presto acuti e non facilmente risolvibili..
Una delle questioni critiche è rappresentata dal modo del rapporto di lavoro che oggi è costituito in grande prevalenza da una relazione subordinata rispetto alle istituzioni.
Questione centrale
Questa modalità è la forma più limitata del rapporto lavorativo e quella meno consona per valorizzare la prestazione di opera e di ingegno tesa al progresso della convivenza umana. Il lavoro costituisce infatti l’espressione essenziale della libertà, porta il carattere particolare dell’uomo, del soggetto che agisce in una comunità di persone. Questa espressione primaria, così segnata del valore e della singolarità dell’umano, eccede la disponibilità della amministrazione di beni e non corrisponde ad un rapporto di subordinazione.
Lo Stato ha dovuto adottare un artificio per subordinare i soggetti del lavoro alle proprie istituzioni. Si è dovuto dar vita ad un contratto per cui solo l’atto tecnico, neutrale, fosse riconosciuto lavoro. Il resto dell’umano, il temperamento e l’affettività, motivo, senso e forma di quell’ atto, gli elementi che lo trasformano in professione, sono stati catalogati nel privato trascurabile.
In questo modo il lavoro sanitario, dove lo stato rimane fonte esclusiva di diritto e di valore, è presentato come il modo per cui all’individuo è permesso di assistere i malati, alla persona è
concesso un impiego come elemento integralmente subordinato alla istituzione. La naturale conseguenza di tale costume è stato il progressivo venir meno dei vincoli e della presenza delle associazioni di mestiere.
Per questo la struttura del lavoro in sanità resta oggi per definizione circoscritta allo spazio pubblico, che è quello in cui si presuppone che la persona non partecipi nella sua qualità di persona, appunto, ma solo con un ruolo parziale e preciso: come paziente, come consumatore, come amministratore, come addetto.
Subordinazione del lavoro agli indirizzi della azienda sanitaria statale ed evanescenza delle comunità in cui si matura l’esercizio professionale: queste le polarità rilevanti del pubblico impiego in sanità.
Conseguenze necessarie
Da qui il grande disagio, la spaccatura dolorosa tra la sua funzione e la sua professione, tra il suo ruolo pubblico riconosciuto ed il suo valore totale cui è soggetto ogni operatore.
Questa spaccatura è una impotenza che genera subordinazione insofferente ai sistemi di processo, una incapacità rispetto all’uso appropriato della tecnologia ed un costo economico esorbitante e crescente.
Prospettive di percorso positivo
La ricomposizione della persona si muove nella direzione opposta, verso la partecipazione come superamento della dipendenza.
La via per riavvicinare i labbri della spaccatura è una stima ed un giudizio di valore non tanto del livello di mansione ma della vicenda umana di chi lavora in sanità..
La stima rispetto un percorso umano non ricerca in modo strumentale una prestazione tecnica al minor costo, una prestazione che possa essere venduta con un utile, ma costringe al rischio di affidare responsabilità e condividere compiti.
Il giudicare valore implica una provocazione alla libertà ed un mettere alla prova.
Si comprende così che la libertà e la responsabilità degli operatori non siano beni disponibili per le prerogative dell’amministrazione, al contrario di quanto si è voluto far credere riducendo il lavoro professionale in atto tecnico.
La custodia della nativa dignità della professione avviene nelle comunità di lavoro, quelle associazioni di mestiere nelle quali il singolo matura la propria capacità di responsabilità e intervento.
Questa ricomposizione della persona, dentro il proprio lavoro non tecnico ma professionale, maturato nelle comunità in cui si è formato, è alla base del desiderio di chi lavora oggi. anche se sfiduciato o inespresso
Eventi
La sanità è ricca di eventi pienamente professionali che si sono sviluppati entro e a lato della mansione assegnata; eventi soddisfacenti non previsti nello schema organizzativo, ma reali. Ciò suggerisce un recupero del professionista dalla condizione attuale di dipendente, verso un’altra direzione. Si profila la possibilità di un accordo per affidare una vicenda, un percorso e mettere alla prova la capacità di esprimere tutte le risorse. Si intravede così la prospettiva di una assunzione di responsabilità sull’ appropriatezza degli interventi e sull’ economia della intera struttura.
Risulta un passo determinante la ricostruzione delle associazioni di mestiere in maniera che ogni operatore possa essere invogliato, chiamato a esprimere non solo la propria abilità ma ben più profondamente la propria identità e la propria maturità
DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
Rif: M. Bertoli e-mail:sroncali@libero.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
VALUTAZIONE D’IMPATTO DEL PROGRESSIVO SVILUPPO DI FORME GESTIONALI MISTE PUBBLICO/PRIVATO SULL’ADATTAMENTO COMUNITARIO DI UN CAMPIONE DI UTENTI DEI SERVIZI DI SALUTE MENTALE INSERITI IN PROGETTI RIABILITATIVI PERSONALIZZATI.
Marco Bertoli, Meri Marin, Stefano Roncali
ASS n°5 “Bassa Friulana” – Dipartimento di Salute Mentale
Introduzione
Questo lavoro si fonda su una sperimentazione per la gestione in mix (pubblico/privato) di progetti riabilitativi personalizzati che tende ad affrontare il problema dei bassi livelli di “adattamento comunitario” dei pazienti “cronici” in carico presso i servizi di salute mentale. Le risposte tradizionali infatti (strutture protette, ambulatori, reparti ospedalieri ecc.) faticano ad “sganciare” dai circuiti assistenziali le persone con disabilità psichica, anzi, spesso ne favoriscono “l’intrappolamento” e la cronificazione, moltiplicando di conseguenza i costi dell’assistenza, peggiorando la disabilità sociale.
In particolare in queste sperimentazioni si assume l’ipotesi che i fattori causali del problema siano le scarse opportunità sociali per l’integrazione lavorativa, abitativa e sociale che offrono i territori di riferimento.
I soggetti della rete hanno per questo immaginato un progetto di cambiamento che prevede la costruzione progressiva di un mix gestionale (pubblico/privato) per le attività riabilitative nella Salute Mentale. In particolare si sono selezionati, o si stanno selezionando partners privati a cui non è chiesto di “gestire strutture” più o meno protette, spesso riproduttrici di cronicità e di istituzionalizzazione, ma di “fornire occasioni di casa, lavoro e socialità” per la co-gestione di Progetti Riabilitativi Personalizzati, ricollocando al centro del sistema la persona, portatrice di un valore anche economico, e non una struttura o un’organizzazione.
In questo programma la fase di implementazione e sviluppo della sperimentazione gestionale di un mix pubblico/privato per la realizzazione di progetti riabilitativi personalizzati (fase di azione) deve essere costantemente accompagnata dalla valutazione dell’impatto che l’azione ha nei confronti della qualità dell’intervento riabilitativo – adattamento comunitario. La fase di valutazione viene realizzata attraverso una fase di ricerca epidemiologica.
Metodi
Nello specifico della fase di ricerca epidemiologica, è stato realizzato uno studio quasi- sperimentale a serie temporali interrotte. Nelle aree oggetto della sperimentazione, sono state inserite in progetto riabilitativo personalizzato circa 100 persone. A queste persone è stato applicato un set di strumenti per la rilevazione del grado di “adattamento comunitario”- indicatori di esito - riguardanti le aree nelle quali ci si aspetta una variazione grazie alla fase di azione: la situazione clinica, i ricoveri in ospedale, l’adattamento sociale, il lavoro ed i guadagni, il carico familiare, la soddisfazione dei familiari e degli utenti.
Le rilevazioni sono state svolte prima dell’avvio dei progetti riabilitativi personalizzati (T0), dopo 18 mesi (T1) e dopo 27 mesi dall’avvio (T2).
Gli strumenti utilizzati sono stati: SBS – Social Behaviour Scale, SAFE – Social Adaptive Fuctions Scale, BPRS – Brief Psychiatric Rating Scale, MMSE – Mini Mental State Evaluation, QLS100 – Quality of Life Inventory, Scala dell’Autostima di Rosenberg, Scheda di osservazione delle abilità lavorative, QPF – Questionario dei Problemi Familiari, CAN – Camberwell Assessment of Need, Questionario sulla soddisfazione degli utenti.
Risultati
La sintomatologia psichiatrica mostra nel tempo un decremento rilevante sul piano clinico e statisticamente significativo (BPRS) e il funzionamento cognitivo, risultato gravemente deficitario al T0, mostra un chiaro miglioramento. Il miglioramento del livello di abilità è evidenziato dallo strumento che misura le “funzioni sociali adattive” (SAFE), da quello che indaga specificamente le abilità lavorative, ma non da quello che valuta le “long-term disabilities” (SBS).
I risultati della CANC consentono di precisare i bisogni individuali per il cui soddisfacimento è necessario un rilevante supporto socio-sanitario e di individuare tipologie di utenti diverse quanto ad “intensità” riabilitativa ed assistenziale richiesta.
La valutazione soggettiva della qualità di vita non mostra cambiamenti, anche per il numero anormalmente basso di aree insoddisfacenti riferito nei 3 tempi dai soggetti con lunga istituzionalizzazione psichiatrica.
Conclusioni
I risultati della ricerca epidemiologica portano prove a sostegno dell’efficacia dei progetti riabilitativi personalizzati nel migliorare le diverse componenti del costrutto di “adattamento sociale” e, soprattutto consentono di capire “cosa succede” durante il loro svolgimento.
I diversi indicatori, e in particolare i bisogni che richiedono un rilevante supporto socio-sanitario, consentono di stimare l’intensità richiesta dai, e dunque anche il costo dei, diversi progetti riabilitativi personalizzati.
Rif: P.Campisi e-mail: campisi.dsm@libero.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
È BENE CHE TU CI SIA:L’ACCOGLIENZA FAMILIARE IN PSICHIATRIA COME RIORGANIZZATORE DELLE RELAZIONI DI ATTACCAMENTO
P. Campisi, R. Ferrua
Dipartimento di Salute Mentale ASL 8 – Chieri (TO)
Introduzione
Il presente lavoro si propone con un pre-titolo o prologo e con un titolo (con i dati e le considerazioni critiche relative all’esperienza presentata). È l’esposizione di ormai 8 anni di
esperienza nel campo dell’accoglienza familiare in Psichiatria, prima in ambiti informali ed esperienziali; solo negli ultimi 4 come progetto di completamento di quel percorso già da tempo avviato: quello di restituire al soggetto sofferente una dignità ed una identità spendibile socialmente, utilizzando le risorse della comunità sociale e lavorando per superare lo stigma e l’istituzionalizzazione.
Tutto ciò grazie ad un gruppo di lavoro del DSM dell’ASL 8 di Chieri, con cui, pur nella differenza delle impostazioni, si sono fin da subito condivisi alcuni presupposti progettuali e ideali. A questo proposito è necessaria una premessa di modello. Infatti, “È bene che tu ci sia” (Styczen) è una esclamazione che già in sé è ambiguamente provocatoria. Tadeuz Styczen, filosofo polacco fenomenologo, volendo descrivere la dinamica dell’incontro, quello tra persone, lo descrive come intrinsecamente caratterizzato dalla categoria dell’accoglienza e del riconoscimento dell’unicità dell’Altro. Il paradigma che utilizza è quello dell’amante verso la persona amata. Genera stupore per la diversità, ma anche una deregolazione rispetto alle proprie certezze. L’Altro che incontro è totalmente diverso da me, mi è estraneo: solo l’accoglienza del suo essere diverso me lo rende incontrabile, in quanto permette il riconoscimento della mia stessa diversità. È la ripresa del concetto di Volto di E. Levinas, ma anche di un altro filosofo polacco J. Tischner: l’Altro è lo straniero che viene a turbare la mia casa, ma in quanto Straniero è in sé libero. Infatti su di lui so di non potere. Il Volto che è l’Altro, con la sua stessa presenza, ti tira fuori dal nascondiglio “pretendendo qualcosa”. Questo qualcosa è ciò che provoca il mio turbamento:
“Ciò che si desidera è inafferrabile, è assolutamente l’altro da te. Nella Bibbia, Abramo alla vista dell’Altro, dello Straniero si anima, lo accoglie (Genesi, 18, 1-8). Gli Altri da me non sono sul mio stesso piano. La collettività nella quale dico “tu” o “noi” non è un plurale di “io”. Non c’è possesso”, è possibile solo accogliere, perché l’altro è lo Straniero, colui che “viene a turbare la mia casa, che è libero, perché su di lui non posso potere”. Posso solo accogliere la sua diversità (J. Tischner,1975).
J. Bowlby descrive analogamente la relazione primaria e le successive relazioni di attaccamento adulto definendole persino come schemi comportamentale innati da cui si formerà l’identità del Sé. L’accoglienza e la condivisione si pongono dunque come una dimensione propriamente umana, anzi, l’unica ed essenziale dimensione, ontogenetica e filogenetica, del rapporto umano sin dalla nascita, di un rapporto integratore del Sé, perché in esse persona è esattamente per- sona, vale a dire luogo relazionale di formulazione del senso, costruito attraverso il rapporto rassicurante con l’altro significativo.
“Tutti noi, dalla nascita alla morte, siamo al massimo della felicità quando la nostra vita può organizzarsi a partire dalla base sicura delle nostre figure di attaccamento adulte” (J. Bowlby, 1988)
O, detto con le parole di Carotenuto (1991): “…abitualmente la dipendenza viene considerata tout court patologica in un adulto, contrapponendola all’indipendenza, considerata l’atteggiamento normale”. In realtà, prosegue Siani (1992) nella sua esposizione del pensiero kohutiano, “secondo la psicologia del Sé è sbagliato definire il processo evolutivo individuale come un passaggio dalla dipendenza all’indipendenza: queste supposte mete della normalità non risultano suffragate dai dati forniti dal metodo osservativo, bensì dettate da giudizi di valore ideologici, dall’etica e dallo spirito dei tempi: il mito dell’autonomia”, così ben rappresentato, ad esempio, in molti spots pubblicitari.
“Anche la persona adulta più normale ha un duplice modo di sperimentare l’altro, il “Tu”: il «Tu» come oggetto pulsionale, oggetto di competizione, desiderio o rabbia e amore; il «Tu» come “oggetto-Sé”, come sostegno
per l’esperienza di coesione del proprio Sé, «l’altro» da cui si dipende. In tal senso la dipendenza da altri significativi per la vita emotiva e l’autostima, è normale e fisiologica. L’esempio cui ci si può riferire è l’esperienza infantile dell’essere riconosciuti e rispecchiati” (nel bambino, come nell’adulto). “Il rispecchiamento e la conferma del Sé sono il fondamento dell’identità” (H. Kohut, 1971, 1984).
Peraltro, anche le più recenti acquisizioni dell’etologia (a partire da Lorentz, 1973), per esempio, ci rendono edotti del fatto che l’uomo, come gli altri primati, ha una vita di relazione fondata su alcune comuni forme basilari, a cui è predisposto in modo innato. Queste relazioni si manifestano come comportamenti la cui forma ha un valore evoluzionistico di sopravvivenza valido per tutti i contraenti della relazione. Si tratta, infatti, di “sistemi comportamentali o motivazionali” che determinano a loro volta un sistema di regole sociali. Tra i vari sistemi motivazionali, interessano la presente riflessione quelli che Bowlby descrive come sistemi dell’attaccamento e dell’accudimento.
Secondo Bowlby il bisogno fondamentale, comune al mondo infantile e adulto, è il legame di attaccamento. L’essere umano pensa e organizza il proprio mondo e le proprie relazioni a partire da come ha pensato e catalogato le relazioni primarie. Il legame di attaccamento, pertanto, è un complesso sistema comportamentale e relazionale che, in caso di pericolo si attiva verso una figura significativa (Harlow, 1961).
Presupposti
La riforma psichiatrica poneva tra i suoi scopi quello di evitare i ricoveri, fornire alternative residenziali, agire terapeuticamente in contesti vicini all’ambiente di provenienza dei pazienti e, contestualmente, cambiare l’immagine sociale della malattia mentale, ponendo fine alla categoria dell’esclusione e dello stigma. Obiettivi raggiungibili solo tramite una integrazione delle forze sociali e degli operatori della Salute Mentale.
Tra le alternative a una residenzialità strettamente sanitaria è da collocarsi l’accoglimento da parte di famiglie disponibili ad offrire ai pazienti tutte le valenze affettive e relazionali rappresentate da una casa e dai suoi legami. Ambiente che viene a perdere quegli inevitabili aspetti sanitari connotanti le residenze psichiatriche.
Accogliere soggetti con disturbi psichici in famiglia può sembrare un assurdo, perché si ritiene che questi abbiano soprattutto bisogno di cure mediche, di farmaci, di psichiatri. Dimenticando che sono persone con gli stessi bisogni di affetto, di normalità e di senso di tutti gli uomini. La gestione della salute mentale è infatti cosa troppo seria per delegarla ai soli psichiatri. Serve il contributo di tutte le risorse sociali, famiglie comprese.
Alle famiglie d'accoglienza non si richiedono particolari competenze professionali. In Francia, dove gli inserimenti nelle familles d'accueil hanno come destinatari anche gli anziani soli o i tossicodipendenti che hanno concluso il percorso terapeutico, l'invito rivolto alle famiglie è: "restate voi stesse". Importante è assicurare una presenza in casa, anche se nel rispetto di una distanza. Le famiglie devono solo soddisfare alcuni requisiti sul piano logistico (“una stanza tutta per l'ospite") e affettivo (“stabilità emotiva”).
Ciò non costituisce una novità nella storia della psichiatria. É celebre il caso della cittadina belga di Geel, già a partire dal XIII secolo e relativa alla leggenda di Santa Dymphna, figlia di un principe pagano e incestuoso. Davanti alla sua tomba, fino ad epoche recenti, erano frequenti i pellegrinaggi di "alienati" provenienti da tutta Europa. Molti di questi venivano alloggiati presso le famiglie del luogo, una tradizione che continua ancor oggi.
Materiali e metodi
Il Dipartimento di Salute Mentale dell’A.S.L. 8 di Chieri si adopera da tempo per una maggiore integrazione tra l’ambito istituzionale e la rete sociale, percorrendo modalità di intervento volte al reinserimento di soggetti per cui la semplice risposta degenziale rappresenta un momento deresponsabilizzante.
Il programma di Accoglienza Familiare del DSM di Chieri nasce già dal 1994 dalla collaborazione con famiglie disponibili ad accogliere adulti in difficoltà. Dal 1998, in particolare, utilizzando le risorse del sociale, si è avviato un progetto di Accoglienza Familiare Supportata per soggetti Adulti sofferenti psichici. L'esperimento iniziato dal DSM della ASL 8 coinvolge nuclei che vivono nella zona compresa tra Chieri e Asti e consiste in una modalità abitativa che integra una persona in difficoltà presso una famiglia terza, la quale, previa stipula di un preciso contratto, riceve un sussidio economico (che garantisce altresì un risparmio di spesa rispetto alla redidenzialità comunitaria) e viene regolarmente e professionalmente assistita dagli operatori di una équipe preposta.
Strumento legislativo del progetto della ASL 8 è la D.C.R. del Piemonte n. 357-1370 del 28/01/1997 la quale, tra gli interventi alternativi al ricovero, prevede all’allegato C che il DSM possa procedere ad affidare pazienti psichiatrici, provvedendo ad un parallelo sostegno economico alla famiglia che accoglie. Riprendendo, peraltro, un vecchio dispositivo giuridico già contemplato nella Legge psichiatrica del 1904.
Il DSM dell’ASL 8 ha a sua volta predisposto, nel dicembre 1999, una Determinazione quadro del Direttore Generale (“Avvio programma sperimentale di affidi familiari di pazienti psichiatrici”) che esplicita le linee guida dell’accoglienza familiare. Si è voluto dare flessibilità allo strumento, individuando tre diverse tipologie di Accoglienza in base alla periodizzazione degli inserimenti.
Utilizzando tre diversi tipi di contratto si è cioè regolamentato l’inserimento per periodi full-time (continuativi, sulle 24 ore), per periodi part-time, brevi o giornalieri, o per periodi short-time, diurni (alcuni momenti “critici” della giornata); viene così superato quell’allontanamento sociale che spesso accompagna l’inserimento in strutture protette.
Per la valutazione della compatibilità degli abbinamenti e delle capacità di interrelazione tra la famiglia ed il soggetto viene utilizzata la Pinacoteca Associativa del Test di Rorschach, somministrata sia singolarmente che in gruppo.
In tre casi si è utilizzata la Adult Attachment Interview (AAI, Main e Goldwin, 1984), un’intervista strutturata per l’analisi della rappresentazione dei legami infantili e attuali, volta a valutare i patterns relazionali con le figure significative ed elaborata a partire dagli studi di J. Bowlby. È stata somministrata sia agli ospitanti che agli ospitati un mese dopo l’ingresso in famiglia. Dopo 6 mesi si è invece utilizzato lo strumento (analogo alla AAI, ma basato sulla somministrazione di scene che l’intervistato deve descrivere) della Separation Anxiety Test (SAT, J. Bowlby, 1983; G. Attili, 2001, nella versione italiana) e relativo a situazioni di ansia di separazione, finalizzata (sempre in accordo alla Teoria dell’Attaccamento) ancora a valutare i modelli operativi interni e la qualità delle relazioni intime. Si è così potuto valutare i cambiamenti operati dall’esperienza dell’accoglienza (seppure in un numero limitato di casi) sulle relazioni di attaccamento e sugli stili relazionali, sia sui pazienti ospitati, sia sulle famiglie di accoglienza. I due strumenti utilizzati elicitano, infatti, risposte relative alle esperienze di attaccamento avute in particolare nei primi anni di vita, ma anche successivamente, indagando sui ricordi relativi a: la qualità della relazione con ciascun genitore, la sensazione di essere stato rifiutato, le reazioni ed i comportamenti messi in atto quando si stava male fisicamente o emotivamente, i ricordi di separazione ed i lutti. Viene anche chiesto di spiegare i motivi del comportamento dei genitori e la loro relazione attuale con essi. Le interviste, di durata media di 45 minuti, sono state audioregistrate, trascritte e codificate. Lo scoring prevedeva punteggi da 1 a 9 per 5 scale relative ad esperienze di Affetto (A), Rifiuto (Ri), Coinvolgimento e parentificazione (Ci), Pressione verso il successo (Su), Trascuratezze (T). Analogo punteggio fu attribuito allo state of mind relativo alla Mancanza di memoria (M), Coerenza del racconto e del pensiero (Ce), Idealizzazione (Id) dei genitori, Rabbia (Ra) verso i
genitori, Svalutazione dei legami di attaccamento (Sv), Irrisoluzione (Ir) di lutti o traumi, Processi Metacognitivi (PM). Alle esperienze negative ed ai racconti confusi ed incongrui venne dato un punteggio basso; viceversa per le esperienze positive ed i racconti chiari ed appropriati. Venne inoltre indagata la presenza di lutti, maltrattamenti o separazioni infantili (L) e ricercata la presenza di fenomeni di depersonalizzazione e/o derealizzazione (d), specialmente nei pazienti psicotici (66%).
Pazienti
Ad oggi sono stati avviati 10 progetti di Accoglienza Familiare (AF):
4 continuativi, di cui 3 soggetti di sesso femminile, rispettivamente di 42, 25 e 21 anni, con le seguenti rispettive diagnosi e scolarità: Disturbo Borderline di Personalità e scolarità media inferiore, Disturbo Istrionico di Personalità e scolarità media superiore, esiti di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo tipo Asperger e scolarità professionale) in AF sequenzialmente da
22 mesi, 5 e 3 anni; 1 soggetto di sesso maschile di 36 anni, con diagnosi di Disturbo Schizoaffettivo e scolarità media superiore. Quest’ultimo è esitato in una espulsione dalla famiglia di accoglienza a causa dei comportamenti disturbanti ed in un ritorno in Gruppo Appartamento e quindi non più inserito nel programma di AF;
2 giornalieri, di cui: un soggetto di sesso femminile di 26 anni, con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità e scolarità media inferiore, in AF durante i giorni feriali della settimana; un soggetto di sesso femminile di 37 anni, con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità e scolarità media superiore, in AF bisettimanale;
1 congiunta: soggetto di sesso maschile di 52 anni, con diagnosi di Disturbo Schizofrenico e scolarità media inferiore, in AF durante tutti i giorni della settimana, per alcune ore della giornata Questi, pur continuando ad avere come riferimento la propria abitazione, viene attualmente supportato da alcune famiglie di volontari che provvedono a talune necessità del soggetto (pasti, lavanderia, gite etc.). In particolare, in 2 di tali casi l’AF ha permesso una mediazione o una ricostruzione di legami con familiari con cui intercorrono rapporti affettivi significativi; in un caso si tratta di soggetto tuttora inserito presso una Comunità Protetta e l’AF si pone come strumento di graduale reinserimento presso la propria comunità sociale.
In altri 3 casi, anch’essi non più inseriti nel programma di AF, per 2 soggetti si è verificata una risoluzione delle problematiche con conseguente autonomizzazione; l’ultimo caso è anch’esso esitato in una fuga dalla famiglia di accoglienza, con interruzione del percorso di AF.
Risultati
Il 90% dei soggetti ha presentato un significativo miglioramento clinico e cognitivo, oltre ad una notevole riorganizzazione dei propri stili di attaccamento.
Età | Sesso | Diagnosi | Scolarità | Durata AF | Tipo | Esito | |
1 | 45 | F | D. Borderline | m. inf. | 22 mesi | Full-time | In corso |
2 | 25 | F | D. Istrionico | m. sup. | 5 anni | Full-time | In corso |
3 | 21 | F | D. di Asperger | sc. prof. | 3 anni | Full-time | In corso |
4 | 26 | F | D. Borderline | m. inf. | 10 mesi | diurno | In corso |
5 | 37 | F | D. Borderline | m. sup. | 7 mesi | diurno | In corso |
6 | 36 | M | D. Schizoaffet. | m. sup. | 7 mesi | Full time | insuccesso? |
7 | 52 | M | Schizofrenia | m. inf. | 16 mesi | congiunto | In corso |
8 | 22 | F | Schizofrenia | m. sup. | 11 mesi | Full-time | risoluzione |
9 | 20 | M | D. Ident. Sess. | m. sup. | 20 mesi | Full-time | insuccesso? |
10 | 23 | F | D. Borderline | m. sup. | 3 mesi | Full-time | risoluzione |
Ci si è interrogati sui casi definiti quale “insuccesso” ed esitati nell’abbandono del programma di accoglienza. Riteniamo peraltro che l’Accoglienza Familiare non possa mai veramente
considerarsi un fallimento, trattandosi sempre di un’esperienza personale originale, che induce in ogni caso un imprinting duraturo che alimenta il confronto con nuove ipotesi di cambiamento relazionale ed una ridefinizione dei modelli operativi interni.
Ciò che fa veramente danno al soggetto portatore di una sofferenza mentale è l'isolamento al quale spesso viene costretto. Per questo una famiglia può essere terapeutica. Immerso in relazioni che concorrono a rinforzare l’autostima, il Sé si consolida ed il paziente riacquisisce le capacità affettive ed intellettive che un’istituzione spesso sopisce.
Peraltro, utilizzando sperimentalmente in tre casi gli strumenti della AAI e della SAT, si è potuto notare un cambiamento dei patterns relazionali sia nei pazienti che nei membri delle famiglie di accoglienza. Si è potuto notare un miglioramento della qualità delle relazioni e della percezione del Sé. In particolare, in due famigliari di accoglienza, si è assistito ad una transizione verso modelli sicuri di legame e di relazione, rispetto a modelli operativi interni improntati all’insicurezza. Per i tre pazienti considerati si è invece assistito ad un cambiamento verso la sicurezza del legame, nelle Scale dell’Affetto, del Rifiuto (Ri) e del Coinvolgimento e parentificazione (Ci).
Analogamente lo state of mind dimostrò, sempre nei tre pazienti esaminati, maggiore Coerenza del racconto e del pensiero (Ce), una riduzione della Rabbia (Ra) ed un più adeguato accesso ai Processi Metacognitivi (PM). Anche i fenomeni di depersonalizzazione e/o derealizzazione (d) subirono un netto calo.
In futuro ci si propone di utilizzare analoghi strumenti anche relativamente agli operatori coinvolti in progetti di AF. Infatti, riteniamo che l’operare sull’accoglienza induca riattivazioni di proprie storie personali e quindi cambiamenti negli stili di attaccamento adulto.
Conclusioni
Lo strumento dell’AF è integrativo del più globale progetto riabilitativo, rappresentando un momento di transizione verso situazioni di maggiore sicurezza. D’altronde, il fatto che sia previsto un contratto che prevede specifici impegni sia della famiglia che accoglie sia dell’ospite, promuove in quest’ultimo un’assunzione di responsabilità, che lo porta da oggetto passivo a soggetto attivo della propria cura.
Inoltre, la diffusione dell’esperienza di AF è sicuramente da considerarsi un mezzo di educazione sanitaria e di sensibilizzazione culturale alle problematiche del disagio psichico e quindi di superamento di residue barriere “mentali” nei confronti di tale esperienza umana.
Occorre, tuttavia, procedere ad una smitizzazione. Nessuno dei nostri pazienti sceglierebbe mai in prima istanza l’allontanamento dalla famiglia, certo non per una comunità, ma spesso neppure per inserirsi in un’altra famiglia. Presi nei loro conflitti irrisolti con un passato doloroso, rivendicano caparbiamente dalla loro famiglia le risposte ai loro bisogni inascoltati, sperimentando la conseguente rabbia e delusione, perché spesso ne colgono il pericolo. Raramente uno psicotico adulto si offre come un soggetto pronto ad aspettare la salvezza che solo noi possiamo dargli, perfino se questo aiuto prende i connotati di una famiglia migliore della sua, che ipoteticamente, se non illusoriamente, potrebbe dargli tutto ciò che non gli è stato reso accessibile in passato. Troppo poco l’operatore non considera che il paziente in accoglienza (soprattutto se non proviene da situazioni di lunga istituzionalizzazione, ma, come sempre più spesso accade, dal territorio) vive in una situazione molto complessa, perché ha un legame (sebbene disorganizzato o ambivalente) con sua la famiglia naturale e gli viene chiesto per il suo bene di svilupparne un altro sicuro con persone nuove, che sicuramente se ne vogliono prendere cura. Ma questo secondo legame lo pone in una situazione di “conflitto di lealtà” o di perpetua irrisoluzione con la famiglia naturale. Questi individui presentano spesso oscillazioni sintomatiche e comportamentali perché stanno cercando di riorganizzare i legami tra una famiglia e l’altra.
Il problema principale è, prescindendo dall’illusorio ruolo salvifico che inconsapevolmente noi operatori ci assumiamo, come gestire il conflitto di lealtà tra due (o tre?, stante quella dell’operatore) storie. Se il paziente percepisce chiaramente che l'accoglienza offertagli non mette in pericolo il proprio legame con la sua storia, allora riesce a costruire un legame anche nella
situazione nuova: sono i casi in cui assistiamo ad un riattivarsi del sistema dell’attaccamento e ad un positivo ridefinirsi dei sistemi motivazionali. Se, invece, percepisce l’inserimento eterofamiliare come una minaccia al mantenimento della propria storia (e della propria possibilità di accedere ad una rabbia rivendicatoria non ancora risolta solo grazie all’offerta di un surrogato di famiglia), il paziente si ritira: a volte restando ancorato alla propria sintomatologia, a volte esibendo una netta opposizione.
Certo, l’accoglienza familiare è sempre un potente attivatore di personali storie spesso ancora sospese nel passato.
Sicuramente lo è per famiglia del paziente che, quasi sempre, proviene da personali storie di sofferenza e non sempre riconducibili allo stigma psichiatrico. Per questi familiari l’inserimento del congiunto in altra famiglia può indurre una percezione di fallimento che può attivare movimenti inadeguati, se non ostili, perché non si sentono compresi nei loro sforzi.
La famiglia di accoglienza, a sua volta, ha i propri riferimenti affettivi e le proprie lealtà che gli derivano dalle reciproche storie di legami primari. Spesso è una famiglia impegnata, coinvolta con il sociale (riteniamo che l’aspetto economico sia una declinazione secondaria). La famiglia che ospita ha peraltro grandi aspettative di cambiamento dell’altro, conseguentemente al proprio impegno. Essa è un ambivalente per definizione, in senso bowlbyano: ambito di riparazione e sanificazione, talora identificato istituzionalmente; a volte dona a chi non chiede, altre volte si ritira. Non sono rari i casi in cui il legame tra la famiglia ed il paziente è fin da subito danneggiato, proprio perché, sia la famiglia che gli operatori non colgono la reciprocità dello scambio. Famiglia di accoglienza e operatori si percepiscono come coloro che hanno “salvato” il paziente da una sorte avversa e quest’ultimo rimane imprigionato nel ruolo di debitore.
Gli operatori, infine, non sono esenti da proprie aspettative personali. Tant’è vero che, alcuni, si mostrano più propensi a progettare inserimenti familiari, rispetto ad altri colleghi che preferiscono percorrere sentieri più battuti. Si mostrano più coraggiosi e creativi ma, in una sorta di impeto riparatorio, vorrebbero offrire qualcosa di meglio a quei pazienti da cui intuiscono una mancanza precedente. A volte la delusione accompagna e segue un tale progetto sul paziente, perché questo non corrisponde alle aspettative. E dunque l’ospite si trasforma in un “diverso”, un “estraneo”, un non assimilabile al risultato atteso.
Indubbiamente l’accoglienza familiare si pone come situazione eversiva. Eversiva rispetto ai sistemi motivazionali che ciascun attore della vicenda porta nel crogiolo relazionale che si è andato creando, visto che la calibrazione delle reciproche storie personali, sorta di frammenti da comporre insieme (e da ricomporre personalmente, allorquando l’accoglienza smuove e riattiva esperienze passate, a volte dimenticate, talora irrisolte) è un lavoro di potente riassestamento personale, del paziente, delle famiglie, degli operatori. È plausibile ipotizzare che l’assunzione di certi modelli di attaccamento del paziente con i diversi membri della famiglia di accoglienza possano avere effetti di ricaduta su quello con la famiglia d’origine. La nuova relazione viene, anzi, talora ad assumere caratteri di reciprocità. Tuttavia, l’opportunità per il paziente di sperimentare nuovi legami, con le implicazioni che essi comportano, dipende dalla possibilità di prendere le distanze dalla propria storia, senza che le antiche e sedimentate esperienze affettive alimentino eccessivi sensi di colpa (McGoldrick, Carter, 1982). Spesso si parte per realizzare una grande idea; in ultimo ci si ritrova a fare i conti con la gestione dei personali cambiamenti, tanto affascinanti, quanto dolorosi.
Ma eversiva anche dal punto di vista istituzionale. Per chi è esperto di analisi istituzionale occorre valutare la differenza tra l’istituito e l’istituente. Ciò che è istituito tende a svalutare o penalizzare la novità costituita dall’istituente. L’accoglienza familiare è un servizio da istituire, in quanto tale generatore di preoccupazioni riorganizzative, anche interne, e di ansie per un cambiamento rispetto a modelli e percorsi già istituiti e quindi più sicuri. Specialmente se, come nel caso dell’accoglienza familiare, l’istituente investe anche aree a rischio istituzionale, come quella delle relazioni intime e quella delle scelte di politica sanitaria ed economica.
Occorre, infine, non negare che proprio a tale proposito la nostra esperienza in ASL 8 in merito all’AF ha ultimamente trovato difficoltà interne ed esterne. La riduzione o non assegnazione di
risorse, la perplessità espressa da istituzioni e colleghi, ma anche da Associazioni del Volontariato il cui scopo sociale è appunto l’accoglienza, ha fatto sì che il progetto subisse, nell’ultimo anno una decisa contrazione. Ciò è riconducibile non solo alla contingenza economica sanitaria, ma si ritiene collegata al timore di eccessiva eversione riconducibile a modelli nuovi di affronto del disagio psichico.
In tal senso, prossima tappa del percorso sarà l’attivazione di un corso di sensibilizzazione e di preparazione all’accoglienza, ancora utilizzando le risorse del privato sociale.
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Rif: P. Campisi e-mail: campisi.dsm@libero.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
IL LAVORO NEL PERCORSO DI RIABILITAZIONE PSICHIATRICA: TRA MITI E ASPETTATIVE
P. Campisi, P. Favaro, R. Ferrua, C. Tamagnone
Il progetto nasce dall'esigenza di prevedere percorsi socio-riabilitativi individualizzati per favorire il miglioramento delle possibilità di relazione degli utenti afferenti a un Dipartimento di Salute Mentale piemontese nel loro contesto familiare e sociale. Contemporaneamente si intende stimolare la crescita di una cultura aperta alle problematiche del disagio psichico basato sui valori della solidarietà sociale e del superamento dello stigma. Spesso, infatti, ci si confronta con un pregiudizio dettato dalla mancanza d’informazione e conoscenza della sofferenza psichica.
Scopo dello studio è analizzare dalla sua nascita (determinazione n°403 del 6/6/97 dell’ASL 8 - Chieri) i tirocini lavorativi e gli inserimenti lavorativi di persone in cura presso il D.S.M. dell’ A.S.L. 8 di Chieri (TO).
Si intende valutare l'incidenza dell'avvio dei tirocini lavorativi e degli inserimenti lavorativi degli utenti. Verrà presentato il materiale per tale valutazione: protocollo d'intesa tra le parti, resoconti mensili, incontri di verifica con i referenti delle risorse lavorative, incontri con Enti Pubblici e privati per la ricerca di spazi disponibili ad offrire spazi lavorativi, colloqui di sostegno sia individuale che familiare, gruppo di mutuo-aiuto dei soggetti inseriti nel mondo lavorativo. I dati verranno suddivisi in base al sesso, durata del tirocinio, giornate lavorative, avvio al lavoro, formazione propedeutica al lavoro, età media, scolarità e diagnosi.
Dall' esperienza maturata in questi anni si è osservato che l'attività riabilitativa del tirocinio lavorativo nei soggetti con patologia psichiatrica, ha un'alta valenza di cambiamento relazionale e sociale del soggetto. Permette di sperimentare relazioni e ricevere sostegno, acquisire abilità e competenze, status e identità sociale, occupare e strutturare il tempo e ottenere una indipendenza economica.
Note critiche del progetto sono rappresentate dal mito psichiatrico dell’equazione “più lavoro – meno psicopatologia”. Ciò si scontra con le aspettative reali delle persone coinvolte (pazienti, imprenditori, operatori stessi).
Rif: M.T. Ferla e-mail:viaserra@tiscali.it
Sessione:DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
I presupposti per la Qualità in Psichiatria: Esemplificazione del trattamento ospedaliero per acuti
Maria Teresa Ferla
Direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria di Garbagnate M.se
Introduzione
Alla base dell’applicazione dei criteri di qualità in un Reparto psichiatrico per acuti (Spdc) stanno sicuramente dei fondamenti teorici – culturali rigorosi che pur avendo segnato le pagine migliori della storia della psichiatria e della psicopatologia, sono al giorno d’oggi, troppo spesso ignorati determinando un pragmatismo e un’operatività che molto lasciano a desiderare.
La situazione dei reparti ospedalieri per acuti in Italia infatti è alquanto critica proprio per la mancanza di realizzazione di quegli elementi di qualità, di accoglienza e cura che dovrebbero in questo campo ancor più che in altri, essere coltivati e custoditi.
D’altra parte non si può pensare che bastino protocolli o procedure a garantire la gestione del paziente acuto in psichiatria come sembra invece essere l’orientamento dominante.
Metodo
Solo nell’accettazione e nella condivisione di fondamenti teorici ,culturali e clinici che pongono la persona e il suo soffrire e la sua esperienza psicopatologica al centro del nostro agire è possibile realizzare ad esempio:
- una prassi aperta e non violenta in un clima di reparto segnato dall’ascolto e dall’empatia;
- un’accoglienza e un accompagnamento al ricovero soprattutto quando si tratti di primi ricoveri in pazienti giovani o giovanissimi come lo sono spesso i nostri pazienti;
- un’attenzione alla famiglia che deve essere adeguatamente informata e coinvolta anche in prospettiva di quella alleanza senza della quale molti dei progetti che costruiamo sulle persone malate rischiano di non realizzarsi;
- un’attenzione diagnostica consapevole degli effetti a cascata che una diagnosi scorretta può determinare sia nell’appropriatezza delle cure ricevute sia nell’esistenza della persona che può rimanerne sconvolta,
- un raccordo immediato con il territorio e il medico di fiducia,
- una dimissione accurata che non significhi abbandono o reinvio inappropriato.
Tutto questo può essere realizzato solo se l’equipe lavora insieme ad un progetto unitario e omogeneo nella consapevolezza degli orizzonti di senso comuni e in una comunione di intenti e di ideali che, soli, consentono di riscattare,e di rifunzionalizzare ogni pratica clinica in qualcosa di molto più importante che ha il valore di una testimonianza non solo tecnica.
Risultati
1° Presupposto teorico:Psichiatria da scienza della natura a scienza umana.
Con Jasper si apre questa traettoria, passando dal paradigma dello “spiegare” (Erklaren) a quello del “comprendere” (Verstehen); la persona (nel senso di Mounier, Guardini) con la sua esistenza e la sua storia diventa il centro di ogni intervento.
1a realizzazione pratica: umanizzazione dei luoghi di cura.
I luoghi di cura divengono così reparti di dimensioni ridotte tali da consentire rapporti umani inseriti nel contesto “vivo” dell’Ospedale Generale in condizioni strutturali architettoniche realistiche e adeguate al contrario delle realtà manicomiali che erano situazioni omologanti e deificanti
2° Presupposto teorico: Dal Sintomo al segno.
Con il contributo di Minkowski, Binswanger, Borgna si passa dalla concezione della malattia psichica secondo il modello naturale di malattia (Graesinger, Kraepelin) in cui i sintomi psicopatologici (delirio,allucinazioni, tristezza, autismo) sono epifenomeni di danno /lesione cerebrale (organico /metabolico) a quella in cui invece sono considerati come espressione di comunicazione “distorta, altra” ma carica di significato e senso nel contesto della storia e dell’esistenza della persona.
2a realizzazione pratica:Dalla custodia alla cura
I vissuti (Erlebnisse) dei pazienti devono quindi essere ascoltati,interpretati ricompresi in un clima
,in un’atmosfera di Reparto improntata all’empatia (nel senso di Scheler), alla ricerca di una relazione e di una comunicazione. E’ questo atteggiamento che permette di superare il problema del consenso alla cura così spesso mistificato e utilizzato dalla psichiatria (ma non solo da essa) come arma di potere e di violenza.
3° Presupposto teorico :La psicosi come mistero antropologico
E’ di Kurt Schneider questa definizione che apre alla ricerca e al riconoscimento delle realtà più profonde e personali della vita affettiva, ideale,conoscitiva della persona che possono spiegare l’apparente assurdità delle modalità espressive-sintomatiche utilizzate dal paziente.
3a Realizzazione pratica: Integrazione assoluta tra gli operatori
L’intervento psichiatrico non deve essere quindi semplificante o riduzionista ma nel rispetto delle diverse competenze e mansioni è possibile realizzare tra l’èquipe medica e paramedica un’integrazione tesa a sorpassare I limiti psicopatologici presentati dal paziente,valorizzando le parti sane extrapsicotiche per giungere ad una progettazione terapeutica che va dalla farmacoterapia (veicolata sempre nel contesto di una relazione di fiducia) alla psicoterapia individuale o alla riabilitazione psicosociale.
L’assistenza medica e infermieristica deve essere garantita su alti livelli numerici per non ridursi ad essere custodialististica e contenitiva.
L’atteggiamento da assumere da parte dell’intera èquipe è dettato dai criteri di adattabilità e di elasticità in base alle diverse caratteristiche personologiche del paziente , ai rischi principali che egli corre, e alle esigenze specifiche che richiede.
Discussione: Un’articolazione aperta della psichiatria è possibile solo se l’èquipe terapeutica, medica e infermieristica,lavora insieme ad un progetto unitario e omogeneo nella consapevolezza degli orizzonti di senso comuni e in una comunione di intenti e di ideali che, soli, consentono di riscattare, e di rifunzionalizzare ogni pratica clinica in qualcosa di molto più importante che ha il valore di una testimonianza non solo tecnica.
Bibliografia
Binswanger L.,Per un’antropologia fenomenologia.Feltrinelli,Milano,1970. Borgna E.,Noi siamo un colloquio.Feltrinelli,Milano,1999.
Guardini R.,Welt und Person,Werkbund-Verlag,Wurzburg,1939. Jaspers K.,Psicopatologia generale. Il pensiero scientifico,Roma ,1992.
Minkowski E.,Traitè de Psychopathologie,Presses Universitaires de France,Paris,1966.
Rif: M.T.Ferla e-mail:viaserra@fiscali.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
LA SUSSIDIARIETÀ COME RISORSA PER I SERVIZI PSICHIATRICI
Maria Teresa Ferla*, Giorgio Cerati**
*Direttore U.O. di Psichiatria Ospedale di Garbagnate (MI)
**Direttore U.O. di Psichiatria Ospedale di Magenta (MI)
Sussidiarietà: argomento scontato? Non sembrerebbe, se è vero che ancora resistono in campo psichiatrico segni di una aprioristica contrarietà nei confronti delle iniziative che provengono dalla società e dai privati, con conseguente scarsa disponibilità alla collaborazione con il privato sociale: all’origine di tale posizione ostile vi sono ragioni sia di tipo ideologico/culturale sia legate al clima demotivante e deresponsabilizzante nel quale lavora una parte non trascurabile degli operatori dei servizi.
Riguardo alla prima questione, si registra un’imperante logica statalista, per cui tocca alla psichiatria pubblica occuparsi di tutti gi ambiti della cura, anche di quelli che sanitari e clinici proprio non sono. Ad esempio, molti aspetti di rilevanza sociale forse verrebbero meglio trattati da realtà cooperativistiche o da associazioni del volontariato. Questo vale in special modo per gli inserimenti lavorativi o per quei problemi inerenti la casa, il luogo dove vivere, che comportano un
progetto di residenzialità, come una delle esigenze tipiche nel trattamento dei pazienti psicotici gravi.
D’altronde tale atteggiamento “statalista”, se può anche essere interpretato come una coda, più o meno consapevole, della mentalità istituzionale e omologante con cui si pensava alla malattia mentale (identica in tutti e da trattare allo stesso modo), trova un ulteriore e rinnovato radicamento nelle concezioni riduzionistiche della malattia mentale stessa che si situano ai poli estremi del biologismo e del sociologismo.
Infatti, assolutizzando l’origine della malattia in questi due paradigmi, si escludono le differenze, si sopprime la psicopatologia differenziata, viene abolita la clinica che personalizza la diagnosi e non la omologa e quindi è attenta alla differenziazione e alla modulazione. Inoltre così si riduce l’importanza degli aspetti antropologici e relazionali, puntando solo su farmaci e terapie biologiche, oppure focalizzando tutto sugli aspetti del contesto inteso come generatore tout-court di devianza e di patologia.
Un’altra carenza che balza agli occhi è l’insufficiente spessore di tanta psichiatria proprio a livello culturale e clinico in senso pieno: diagnosi omologanti e superficialmente cangianti di volta in volta, senza che ad esse corrisponda un percorso di cura personale (riabilitativo o meno) né un’organica e continuativa gestione del caso (case-management), almeno quando il burocratismo dei servizi sostituisce la funzione di un operatore che si impegna responsabilmente nella relazione con la persona. Perciò un aspetto da evidenziare è la distinzione dei diversi percorsi di cura e degli specifici luoghi di cura: al momento della diagnosi (prima visita su invio del medico di famiglia, primo ricovero) dovrebbe corrispondere un’attenzione particolare per valutare bisogni e risorse esistenti o richieste.
A volte per le forme più complesse e compromettenti la qualità di vita (psicosi schizofreniche, gravi disturbi di personalità) l’équipe curante può da subito optare per l’utilizzo di programmi riabilitativi. E’ a questo livello che deve scattare la collaborazione con il tessuto sociale del territorio, e quindi con le forze del terzo settore, che possono fornire risorse utilissime di cui il servizio pubblico di fatto non dispone, in quanto rappresentano modalità per mantenere il legame del paziente con il mondo vitale, con la sua “rete” di intermediari o aiutanti naturali . Per il vero, oggi vi é ancora molta enfasi sulla riabilitazione, anche se ciò talvolta nasconde carenze di socializzazione, vuoti di tecniche, fallimenti di esiti e, cosa di non secondaria importanza, conservazione di rendite di posizione (anche in ambito pubblico).
Un ulteriore aspetto sul quale si innesta la collaborazione con il terzo settore è quello della continuità nel prendersi cura del paziente con disturbi gravi e persistenti. In tal modo si riconoscerebbe che spesso la prima cura di cui la persona ha bisogno è l’assistenza, togliendola dal ruolo ancillare e secondario a cui viene relegata dall’intervento sanitario.
A questo livello dell’integrazione tra riabilitazione e assistenza, o del prendersi cura che arriva fino all’assistenza, si stanno verificando le principali forme di impegno con il terzo settore, dimostrando che la formula è interessante e innovativa contro la cronicizzazione.
L’assistenza integrata erogata ad es. in alcune opere è capace di raggiungere obiettivi di miglioramento nella qualità di vita e nel benessere per persone che, da anni in strutture sanitarie psichiatriche, andavano verso un ulteriore deterioramento istituzionale. Qui certo discernere la tipologia diagnostica ha molta importanza, ma a volte si tratta di saper valorizzare anche il ruolo dei fattori extraclinici, come la capacità di accoglienza di una comunità e la sua apertura, ove la capacità di tollerare la bizzarria o la stranezza comportamentale crea il “clima terapeutico” che si respira in una struttura.
Alcuni pazienti, che sono rimasti per 30 - 40 anni in ospedale psichiatrico, dimessi e inseriti in RSA, grazie all’accoglienza ricevuta hanno potuto integrarsi con gli altri anziani e ottenere un netto miglioramento della sintomatologia residuale rimasta.
Altre opere, che in varie regioni lavorano specificamente in campo psichiatrico, realizzano esperienze di comunità di diversa tipologia, tutte con le loro originali caratteristiche, anche con pazienti in cui più nessuno sperava e verso i quali le famiglie di origine esprimevano ambivalenza e rifiuto, o che per anni facevano la “porta girevole” nel reparto per acuti: nell’ambiente comunitario vivono ora un’esperienza riabilitante di casa e famiglia, senza però essere emarginati dal mondo, quasi respirando un’accoglienza che al contempo si fa apertura ad un cambiamento difficile ma non impossibile.
Esiste inoltre il grande problema dell’inserimento lavorativo, tante volte bloccato nei meccanismi della burocrazia degli inserimenti obbligatori: occorre inserire le cooperative di solidarietà sociale a pieno titolo nel percorso formativo e occupazionale rivedendo le attuali forme di remunerazione economica delle prestazioni offerte (che attualmente non prevedono l’attribuzione diretta del pagamento a chi eroga questo tipo di offerta).
I servizi pubblici si gioverebbero molto di questi percorsi di inserimento lavorativo, con i quali possono confrontare le prassi e collaborare su progetti per i pazienti.
Favorire la conoscenza di esperienze vive come queste, sorte dalla società civile, non può che essere fonte di arricchimento per tutti e rappresentare un contributo importante al lavoro per la salute mentale, a partire dalla sfida innovativa che viene dal basso: ecco una consapevolezza nuova, la sussidiarietà come risorsa, fattore dinamico di salute mentale.
Rif: C.Maffini e-mail:c.maffini@tiscalinet.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
ALCUNE RIFLESSIONI SUL LAVORO PER LA SALUTE MENTALE E LA PRESA IN CARICO
Claudio Maffini
Vent’anni e più di lavoro al Centro Psico Sociale. Di solito attacco “dando i numeri” e recito che ha un’ utenza di 1700 persone all’anno, di cui quasi 450 prime visite. Operatori pochi per i miei gusti... Ma oggi vorrei puntare l’attenzione solo su alcuni spunti critici.
Attorno a due parole importanti: tempo e professione.
Avanza, discutibilmente, una visione “aziendale”. Richiama alla realtà di risorse limitate ma rischia il delirio economicistico e di fare smarrire lo scopo per cui si opera. Un frutto perverso di questa “vision” sta nella tentazione di considerare il tempo come potenzialmente “comprimibile”
all’infinito, che si può sempre sottrarre, e ciò non vale, sia chiaro, solo per lo psichiatra, ma anche per il medico di Pronto Soccorso, come per il medico di medicina generale.
Si finisce così con l’istituzionalizzare la discesa al di sotto della soglia critica che determina la validità, l’efficacia dell’investimento.
Non operiamo con delle macchine e su delle macchine: non concedere tempo alle persone, nel rispetto della loro natura, equivale a dissipare risorse e, spesso, porta a far danno (iatrogeno). Occorre essere generosi con il tempo perché questo serva.
L’uso invalso di remunerarci a prestazione equivale ad una continua “istigazione a delinquere”. Né siamo i soli, o quelli che stanno peggio (pensate ad una RSA…). Il tempo costa e, per costare meno, si deve ridurre il numero delle persone che lavorano. Ma sono misure che contraddicono la prima necessità fondamentale: incontrare la persona, prenderla sul serio, darle il giusto spazio.
E’ altrettanto raro che ci si concepisca come consulenti del paziente: sentirsi consulenti significa assumersi una responsabilità con loro. Di norma allora, evitando di assumersi responsabilità “coinvolgenti”, vengono trasmesse al paziente cose assolutamente “misteriose”, cercando di dirle “senza perdere tempo”. Si attua e si difende la responsabilità di prescrivere, confidando che siano l’oggetto prescritto (il farmaco, la prestazione) e l’autorità dell’atto di prescriverlo a produrre l’esito desiderato (o preteso?). Il soggetto, meglio, i soggetti non vengono considerati. Loro, gli umani, hanno bisogno di tempo… avrebbe un costo eccessivo.
Senza rispetto del tempo e disponibilità a “perderlo-cioè-impegnarlo-bene”, non c’è professione, al massimo c’è produzione e rincorsa al profitto di cose vane. Già di suo e molto spesso, il medico fatica a concepirsi come chi è tenuto a professare il riconoscimento di quanto l’altro, il paziente, c’entri con sé. Spesso agisce come chi deve liquidare una pratica. Se ora aggiungiamo l’effetto del clima prevalente di questi tempi…
Spesso si insinua un pensiero perverso secondo cui ciò che fa passare i concetti, che cambia il paziente è una presunta competenza, intesa come un marchingegno asettico. Non è vero: che cambia è il mettersi in gioco. Con un occhio all’etimologia è competenza come stare insieme nel chiedere.
Ed è proprio questo mettersi in gioco che anima la “presa in carico”.
Anche quando ci cimentiamo nella costruzione di opere rischiamo di scadere, accettando di venir meno nel tener conto di tutti i fattori. Ci accontentiamo di occuparci di un pezzetto soltanto della vita del soggetto. Ciò accade ad esempio quando ci accontentiamo di ottenere “in appalto” un pezzetto della “presa in carico”, ovviamente quello decentemente remunerato e non a caso non sono tutti adeguatamente remunerati, tanto da potersi sostenere economicamente.
Occorrerebbe osare idee che “sfondino” dal punto di vista culturale e che corrispondano al desiderio di accoglienza della persona, di risposta globale al bisogno, senza rinunciare a progetti capaci di articolare un percorso complessivo di presa in carico.
Ma come si fa a mettersi in gioco quando le circostanze premono perché tu agisca in altro modo? Quando ti si vuol far lavorare dentro una visione ridotta e riduttiva?
Si può cambiare qualcosa nel modo di lavorare di un Servizio lasciando che si veda come tu ci prendi gusto nel lavorare, mostrando come interessa a te (ovviamente non fare finta non vale). Ti accorgi presto che se parti col proposito di essere tu a poter cambiare, a tua discrezione, il modo di lavorare di qualche collega ti è impossibile. E’ però altrettanto vero che nessuno può decidere di far lavorare male te e riuscirvi. Nonostante l’elevato carico di lavoro, nonostante i pazienti siano tantissimi, almeno con alcuni è impossibile non cercare di fare il meglio, si scopre che è possibile e si viene ripagati oltre misura, Qualcuno diceva “il centuplo”… e si scopre poi che il meglio è sempre questione di atteggiamento, non di volume, ed è dunque sempre possibile.
Al quinto anno di Medicina durante il corso di Psichiatria il Professore parlava di distanza ed ha fatto l’esempio del chirurgo, che proprio per poter operare deve mantenere un distacco, vedere una pancia da tagliare ma non una persona che soffre.
Quindi meglio tenere a distanza quelli che curi e tenerli ben distinti da quelli che ami. E’ da allora che mi ribello a questa semplificazione. Infatti l’educazione che ho ricevuto mi avvisa sì che devo avere distacco, ma anche da mia moglie e dai miei figli, affinché non siano una terra d’invasione.
Questo distacco è per abbracciare veramente l’altro. L’altro non è ciò che ti invade (dipendenza) o ciò che tu invadi (la palestra del tuo narcisismo).
Il tempo non è solo cronologico, il tempo crea una storia, è il tempo del soggetto, non della prestazione, il tempo della relazione, non dell’operazione. Crea un legame che, per mantenersi liberi, va pienamente e cordialmente accolto. Accolto come mezzo, nella logica dell’incarnazione. Se uno non è legato alla presenza dell’altro ed alla Presenza che sta nell’altro diventa ideologico. Ed altrettanto se il legame è solo la condizione, l’accorgimento per esercitare il proprio presunto potere e non il riconoscimento d’una presenza che si fa compagnia e si fa cammino, storia. Me la sono presa colla buonanima del mio professore, ma non è davvero meglio perdere la cognizione dell’altro. Non c’è dubbio che Madre Teresa s’è messa in gioco fino in fondo. Ma per mettersi in gioco così, con tale e tanta libertà, bisogna che ci sia il riconoscimento d’un Altro.
L’educazione che viviamo mi suggerisce che si finisce per divinizzare il legame, con-fondendosi o adorandolo da lontano, ammucchiandosi o riducendosi al freddo distacco, quando non si riconosce più il divino che c’è nell’altro.
Rif: M.T Maiocchi e-mail: maidal@tin.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
CLINICA COME PRENDERSI CURA
PER UNA CULTURA DELLA CLINICA RADICATA NELL’ESPERIENZA
M.T. Maiocchi
La clinica: restitutio ad integrum o prendersi cura dei legami
Il soggetto umano è fatto di legami : questa consistenza relazionale della psiche viene affermata dalle cliniche novecentesche della malattia mentale, specialmente di matrice psicoanalitica e fenomenologica. La malattia psichica viene così ripensata in termini non organicisti -cioè non individualistici- della cura, e non si pone più in analogia diretta alla cura medica del corpo, come organo che la cura restituirebbe alla sua primitiva integrità ideale : da un lato viene affermata la priorità della relazione sulla individualità (secondo una compiuta idea di persona) che rettifica la natura stessa del “mentale”, dall’altro il non- ideale, l’im-perfetto, il fallimentare1, viene in luce come non inessenziale, anzi strutturale nella “salute”, e il sintomo -luogo del malessere- si rivela anche via di guarigione.
La salute detta ‘mentale’ si rivela così non riducibile al recinto irreale di un benessere ‘autistico’, fuori legame, ma dipende dalla imprevedibilità sempre drammatica dell’incontro2, del legame, che rimette ogni volta in gioco –attraverso l’altro e la sua sorpresa- l’essere, e dunque tantopiù il ben- o mal-essere. Che il mal-essere sia da cogliere nella relazione, nei legami e nella loro complessità e ambiguità, significa anche che la guarigione non si può pensare come fenomeno isolabile dal contesto, concluso in sé. Tener conto –nella cura- dell’altro, della relazione, significa tener conto di un elemento realmente dinamico, e che proprio per questo perturba ogni schema conoscitivo-affettivo. Significa tener conto della singolarità della persona in quanto dipede dal reticolo complesso e stratificato dei suoi legami.
La forza pratica di queste ‘scienze della relazione’ novecentesche, fin da subito ha incontrato una strana resistenza, coglibile nel moltiplicarsi eclettico di idee e ideologie intorno alla cura. Resistenza che lavora come? sfumando e mescolando i concetti, rendendoli in sostanza poco pensabili, all’apparenza ovvii : guarire significa togliere ciò che fa soffrire, duque il sintomo, inteso come negativa fonte della sofferenza è da eliminare. In realtà questo preteso negativo inerisce alla condizione umana e guarire significa poterlo assumere e non espellere rovesciandolo nella sua positività, cioè per quel che ha da affermare, benchè dolorosamente. Ecco che allora è interessante interrogare le cure. Clinica, terapia, trattamento, cura, riabilitazione: sono pratiche tra loro sovrapposte? L’uomo della strada si perde nei loro distinguo e ne teme la manipolazione. Occorre mettere alla prova le loro definizioni; che mettono in gioco ciò a cui risponde l’etica dell’intervento, l’etica dell’operatore. Chi cura, come cura, cosa cura.
Kline, stare al letto del sofferente, secondo l’antica radice di clinica, indica che la sofferenza (il letto) è coglibile solo attraverso l’apertura di un legame, un chinarsi verso che si fa incontro a un attendere da : implica per chi opera un farsi incontrare da una domanda, che resta sospeso per entrambi a quel che potrà accaderne. Terapia, come psico-terapia, implica una (impossibile) riparazione, sutura... Trattamento dice invece la trasformazione –il passare da uno stato ad un altro- come possibile, almeno all’orizzonte, mutazione prevedibile e circoscritta ...
E la cura? Avere cura, prendersi cura : sublime ambiguità : un avere che è un dare... Etimo incerto di un termine di antichissima radice (KwEI, indeuropea), che implica essere inquietati (dall’altro), e dunque implica presenza dell’altro, presenza che inquieta, che si fa sentire, che provoca, e dunque originariamente legame, proprio perché non è pacifico. Da qui viene anche curiosus : il curioso si prende cura di qualcosa che (non...) lo riguarderebbe, eppure... Cura dice -dunque- anche ricerca, invenzione, orientamento inatteso, sporgersi imprevisto sull’altro, perfino un poco impicciarsi mosso da un desiderio... La curiosità infatti implica un sapere che colpisce, trovato, inaspettato, atteggiamento morale più che azione mirata, apertura verso un nuovo non avvertito come minaccioso. D’altra parte - come ‘curarsi di’- cura è mantello che copre, cibo che riscalda, accudimento di qualcuno che dipende da un altro cui provvisoriamente si affida. La cura in effetti avviene secondo un certo tempo. Il suo effetto - un certo cambiamento- ne è un esito, atteso forse, che non è puramente incluso nelle sue premesse: la cura ospita un grano di inaspettato, qualcosa di gratuito, non prevedibile, non deducibile dalle premesse della sua stessa azione.
1 Sull’uomo affermato come “valore assoluto, al di là di ogni sua riuscita”, cfr L. Giussani, Giornata dei movimenti, 30 /5/’98
2 Secondo “l’antropologia drammatica” che specifica il discorso giussaniano, cfr. H.U.Von Balthasar e A.Scola
Prendersi cura, prendere in cura, dice d’altra parte qualcosa in più della responsabilità un po’ burocratizzata del prendere in carico : l’altro non è un peso (morto), da caricare e scaricare, ma è qualcuno che -nel dipendere- comunque esercita qualche grado di libertà, perché è chiamato in causa personalmente : chi si fa curare si trova a dire di sì, ma perché può pure dire di no. Dipende dall’altro, non perché manca, ma perché affida la sua mancanza.
Cura non è nemmeno riabilitazione, nel senso di ridare abilità a un homo che sarebbe in-habilis. C’è uomo davvero inabile? Se c’è insufficienza della funzione, non c’è invece mai insufficienza del soggetto, il quale in fondo si trova sempre alla sua “buona ora”, al suo posto3... è quel che è. Ed è esattamente il soggetto (come libertà e come destino) che abilita, e ri-abilita, la funzione, poiché l’abilità passa comunque solo da una assunzione personale di causa, di senso, di desiderio, dunque anche nel ‘deficit’ è sempre in gioco un livello pieno della soggettività, come inalienabile singolarità della persona.
Destino del soggetto, etica dell’operatore
Come emerge nelle due tradizioni di lavoro e di ricerca citate all’inizio, la cura come cura del legame4 mira a riconnettere il soggetto alla verità della sua storia. Nella relazione abbiamo a che fare con un ‘soggetto con storia’, che non si presta quindi alla disincarnazione in una figura ideale, da raggiungere o da ri-creare, da restituire a un benessere senza fratture, rughe, pieghe.
Di questo soggetto con storia non c’è ‘soluzione ideale’. Se mai ‘risoluzione’, nel senso di poter ‘risolversi a’, prender posizione per, per il legame piuttostoche per una chiusura individualistica, antilegame. La malattia, la cosiddetta ‘malattia mentale’, nevrotica o psicotica, implica, o meglio è già un prender posizione, nel senso di prender in conto, assumersi la propria reale posizione nei legami costitutivi, è far cessare un sostegno collusivo, pagandone il prezzo, anche molto alto. La crisi è –in questo senso- una forma di rettifica della collusione patologica, della politica del lasciare le cose come stanno, politica della non-scelta. La scelta (con i suoi paradossi) si trova come inclusa, incapsulata nella stagnazione che la malattia costituisce: perché la soggettività umana è impregnata a ogni livello dalla questione della sua libertà. L’ammalarsi ne è una sorta di drammatica dimostrazione. Ecco perché la cura non può che aver a che fare con questa stessa stoffa dell’esperienza. Ecco perché il sintomo assume un valore inestimabile : perché dice l’estensione reale, anche inconscia, di questa scelta del soggetto,il fin dove si spinge la questione della sua libertà, da dove e fin dove la domanda porta il soggetto ...
D’altra parte la scelta nella patologia nel coro delle scienze non-relazionali fa questione. Forse perché la libertà di cui è fatta non è né refutabile né affermabile a buon mercato. (A buon mercato non refutabile, secondo i determinismi scientisti, behavioristi, cognitivisti, postfreudiani. Ma nemmeno è affermabile a buon mercato: idealismo delle filosofie e delle pedagogie, che lasciano inascoltato “il grido”5. Il grido dell’umano6 è prendere atto e agire sul fatto che siamo “figli del nostro tempo”7. E la dimensione clinica non può che reperirsi nello star dentro questa esperienza moderna, e non può che prodursi in un’etica della presenza e del gesto, cioè dell’ascolto. Al contrario, le mistificazioni deterministiche negano la risorsa dell’umano. Come -d’altra parte- gli idealismi delle filosofie e delle pedagogie presuppongono ciò che è invece a prezzo di una conquista al limite, che rende effettivamente umana l’esperienza, conquista di libertà che è de-cisione, cesura, non esercizio della ‘volontà’, ma effetto di un taglio doloroso, di una separazione che va controcorrente rispetto alla deriva ripetitoria del facile colludere con il tran tran della ‘normalità’.
3 Riferimento al termine francese ‘bonheur’, felicità. Cfr. J.Lacan, 1975
4 Cfr. gli apporti dell’orientamento smbolico-relazionale di Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli, tra cui ad es. Il famigliare, Relazioni, simboli e transizioni, R. Cortina, MI 2002.
5 Emblematicamente riassunto nel capolavoro di Munch, citato a questo esatto proposito da G. Vittadini in un incontro del 3/3/2003
6 Cf. ancora Luigi Giussani, ...
7 Ibid : "Presenza vuol dire qualcosa che investe il significato del gesto che compio, delle forme che mi riempiono gli occhi. La Sua presenza è la cosa più buona, più bella e più dolce della nostra vita. Non ho vergogna a dire questo davanti a tutti voi che siete figli del vostro tempo a noi che siamo figli del nostro tempo".
Quis ... ?
Chi cura, chi ‘clinica’ allora... chi è? Come può operare in questa complessa direzione della scelta? Come un sapiente? uno che ne sa della realtà, quella del corpo come quella dell’anima (appunto la psyché)? O come un illuminato pedagogo, capace di condurre per le strade impervie della vita un soggetto un poco minus? O un tecnico che in-forma l’altro (formazione è termine molto à la page...), potendo restare ignaro del qualcosa di ignoto, detto inconscio, che il mentale lo de-forma, o tras-forma all’origine? L’operazione messa in atto dal clinico -che pure si serve di tecniche- implica un al di là (o al di qua) delle tecniche, proprio perché ... è lui stesso: in quanto cioè deve pescare in un ambito dell’esperienza che non è definibile dal puro esercizio di un ap-prendere, si situa al livello della sua esperienza di soggetto, al livello di ciò che ha di più personale e operativo, il desiderio8 intrecciato com’è per lui come per tutti al ‘patologico’, cioè alla sofferenza della sua personale storia. Ed è proprio con questo mal-essere che ‘il tecnico’ ha dovuto fare lui stesso i conti, per poter scegliere il suo strano mestiere : non si cura perché si sta bene, si cura perché ci si è curati, che vuol dire ‘essersi fatti curare’. Si cura solo avendo sperimentato la sovversione possibile della propria ‘malattia mortale’ in dipendenza vitale, cioè legame, e assumendosene i tratti singolari, personali.
E’ in questa dimensione fondamentale dell’esistenza che si reperisce dunque il motore della cura. Per essere linimento, sollievo, rilancio nel disagio nelle relazioni fondamentali, ascolto che pacifica o interpretazione che crea senso nel non-sense della malattia, la cura deve assumersi fino in fondo il proprio dell’umano, poter cogliere -e rilanciare- la questione del posto della persona nei suoi legami decisivi. Nella malattia si mostra con forza, con evidenza, ciò con cui fa i conti ogni soggetto, e non solo quello ‘malato’, quella crepa strutturale che è al livello del ‘grido’: è che da lì si mette in moto anche una chance autentica, nella forma di un interrogativo che cerca finalmente risposta, nella forma dell’opera (anche quella detta ‘d’arte’) : è da questa verità umile, bassa, che vengono le forme più alte dell’espressione umana9. Si trovano lì i quadri di Van Gogh come certe invenzioni della filosofia, o scoperte cruciali della fisica e della matematica ...
D’altra parte, se la persona ammalata chiede -magari a gran voce- la guarigione come un ‘tornare come prima’, sappiamo come operatori che non è nei termini di un finto benessere che la cura cura. Il mito nefasto di un soggetto felix, tutto fecondo, pieno, contrasta con il ‘realismo’ dell’esperienza dell’uomo che solo nel poter gurdare e assumere -e non da solo- la verità del suo strutturale malessere trova pace, e vera creatività10. La cura mira al ristabilimento di alcune energie restate incluse, bloccate, sequestrate da eventi psichici che sfuggono alla com-prensione del malato. Ma anche -a ben vedere- del ‘terapeuta’, che non ne sa di più : da dove dunque sono tratte le ragioni dell’operare? L’operatore è allora prima di tutto qualcuno che si prende il rischio, si assume il paradosso di fidare/affidarsi di nuovo, ancora,11 alla struttura della relazione, permettendo che se ne ripercorrano modi e momenti, proprio quelli che a suo tempo non hanno funzionato, facendosi partner nel rinnovare questo cammino, facendosi lui stesso strumento per mettere in gioco il valore della crisi e del disagio in quanto esperienza di verità, perché si stabilisca una nuova e più vivibile pattuizione tra l’io e il ‘sociale’ dei legami che lo circondano, tra l’io e i partners fondamentali della sua storia personale, altro che -nel limite- dell’io ha comunque tessuto la stoffa, buchi, sfilacciature, deformità comprese... le quali –nella cura-- possono forse essere bene-dette.
8 Il tema di questa sproporzione percorre con regolarità l’intero corpus freudiano, specialmente per quanto riguarda la tecnica : in questo senso “Governare, educare, psicoanalizzare sono professioni impossibili ...” in quanto riguardano il cambiamento a livello della relazione e della sua struttura (S. Freud, 1937).
9 Per reperirsi in questa posizione la psicoanalisi non è –né può essere- una Welthanschauung, una “visione del mondo”. Cfr S.Freud,
Introduzione alla psicanalisi, 32 lez.,1933.
10 Film come Stanno tutti bene (M.Mastroianni) ... o Qualcosa è cambiato (con J.Nicholson) dicono co grande ironia ...
11 Cf come i suffissi Wieder- e Nach- appaiano sintomaticamente in Freud, a segnalare questo après coup, secondo tempo in cui si costituisce il ‘vero’ soggetto. E –in modo in parte analogo in parte innovativo- il termine ‘ancora’ in J.Lacan. Cf anche la terribilmente abusta nelle ‘psicologie’ e resa ambigua nozione di ‘trauma’..
E dunque (e tantopiù) chi potrà mai farsi termine di questa operazione? osare assumersene la sproporzione? A che cosa si fa appello nella formazione clinica? C’è qualcosa in questo lavoro che non fa appello a una predisposizione della natura... anche solo per il fatto che è interessate per alcuni e non per tutti, se ne autorizzano alcuni e non tutti : si tratta di giocare una ‘sim-patia’, anche curiosità, per l’umano non disponibile, al naturale, per la realtà del cuore umano (‘di pietra’... dice la metafora biblica).
Eppur si cura ... Per la via imprevedibile del desiderio, c’è chi si presta a farsi termine di questa nuova
-e strana- dimensione, che tenta di stabilire tra io e altro l’impossibile del nuovo, l’impossibile assenso all’altro, cioè alla differenza : in nome di che? Desiderio di curare? Furor lo hanno giustamente chiamato gli antichi, indicandone la pericolosa follia... E dunque? Chi cura? Provocatorio ma giusto interrogativo, che occorre saper porre: porsi e porre la questione se basta la (falsa) promessa dell’apprendere l’esercizio di una tecnica (e non suoni a disprezzo della tecnica, anzi), chiedendosi che cosa la definisce come tecnica. Chiedersi in che modo si produce un saperci fare adeguato alla singolarità complessa della soggettività umana.
Chi, e come, e perché potrà ‘ascoltare il grido’ dell’uomo fino a intervenire sui suoi ormeggi simbolici, e darne nuova forma? Quis custodiet custodes? Quale formazione sarà mai adeguata alla complessità della persona, adeguata a toccare la forma stessa della relazione, che non è un ideale, ma si trova realizzata nella concreta e anche oscura messa in gioco del desiderio ? Dare a queste domande forma non retorica è un lavoro iniziato prima di tutto tra chi questo paradosso lo sta vivendo, e tenta di articolarlo in quanto esperienza attuabile di/in un legame.
Rif: M.T. Maiocchi e-mail:maidal@tin.it
Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
SUL DESIDERIO DELL’OPERATORE
M. T. Maiocchi
La domanda “che cosa fa un operatore?” rapidamente si trasforma in “che cosa sa?” Una pratica mette sempre in gioco la non semplice relazione tra fare e saper fare, e questa strana e improbabile coincidenza tra sapere e fare in un “saper fare” non lo lascia l’operatore fuori dall’interrogativo medesimo, perché il saper fare, il saperci fare mette sul tappeto proprio l’incolmabile sproporzione tra cure e cambiamento.
C’ è un livello della questione che è sul “come si fa” e un altro livello –più interessante- che è centrato sul “chi fa”. E’ il chi che c’entra con il sapere. E per questo ci interessa. (D’altra parte, ci sono tecniche che, a torto, non mettono così a fuoco chi opera. Altre –come la psicoanalisi- che ne fanno un punto di leva.)
Il chi, l’operatore come soggetto è -nel lavoro di ascolto- inevitabilmente da assumere come elemento di base, punto di partenza : accoglie una domanda poiché in realtà produce un’offerta, sa produrre un’offerta adeguata, ed é questa offerta che crea, che ricrea, la domanda che può restare in giacenza, senza ascolto.
Il problema della formazione riguarda allora chi offre ascolto, il che vuol dire anche il come lo offre, il tempo in cui fa questa offerta, il luogo in cui la pone : è quel che va sotto il nome di setting, che giustamente fa differenza rispetto alla chiacchiera amicale.
Aggiungerei che la cura, la sua offerta, non prescinde dall’essere tutti quanti –gli umani- coinvolti nella dimensione di un prendersi cura che è in realtà un prendersi cura dei legami. E’ una dimensione che coincide con la natura umana. Ci si cura gli uni gli altri, si ha cura gli uni degli altri, anche cattiva cura, incuria, e specialmente tra operatori delle cure l’esplicitarsi di questa dimensione darebbe un miglior regime al lavoro di équipe troppo spesso ridotto a comunicazioni pseudotecniche, sempre meno -per esempio- al lavoro sui casi.
Le circostanze in cui come operatori lavoriamo sono da addebitarsi certamente anche alla pressione ortissima del malessere che oggi circola. Questo è un tempo in cui la gente sta male. Freud l’ha chiamato a suo tempo ‘disagio della civiltà’ indicando con chiarezza che non poteva che essere crescente. (Basti pensare all’improprio crescere –anche nel parlare comune- della parola depressione o la definizione -spesso a buon mercato- di quelle che si chiamano dipendenze.) E d’altra parte, è anche a causa di questa pressione che c’è stato il bisogno di riprendere il rapporto tra di noi, come lavoro di un gruppo di operatori, che dura da un certo tempo, per interrogarci di nuovo insieme sul dove ne siamo nella nostra vicenda professionale, e dunque sul chi siamo - appunto- come soggetti presi in un certo legame e nella sua storia.
Abbiamo dunque provato -in primo questo tentativo di lavoro- a mettere a fuoco proprio qualcosa del chi fa, dato che ciascuno ha già dovuto scegliere il come fare (a quale modello riferirsi, con chi e dove lavorare, che maestri scegliersi, con che criterio sceglierli…). Questo interrogativo si trova inevitabilmente in relazione a una posizione personale, a un giudizio particolare, a una propria inflessione dell’incontro fatto, oserei dire al gusto. (Anche il sapere del resto è nell’ordine del gusto. E nella formazione è in gioco del sapere, l’acquisizione di un sapere particolare, di una tecnica che non prescinde dal soggetto che la applica ...)
Quale punto ci ha mosso e attratto a fare questo lavoro insieme, tra persone che non hanno una omogeneità di formazione e di strumenti? L’adesione iniziale –specialmente da parte di chi ha una provenienza di formazione psicologica- è stata abbastanza entusiastica, pur con vicende alterne : ci è interessato interrogare, dopo vent’anni di esperienza nel nostro campo, proprio quali scelte abbiamo fatto, come si sono modificate nel tempo, quali giudizi hanno fatto emergere, quali incidenze hanno prodotto, e come queste scelte c’entrano con una cultura della cura radicata nell’esperienza che condividiamo. All’inizio non lo sapevamo ora però possiamo e dobbiamo chiedercelo.
Come si definisce il chi cura? E d’altra parte, Medico cura te stesso, ma come è possibile? Fin nella tradizione più antica delle cure viene subito messo in evidenza il paradosso dell’operatore, cioè l’impossibilitò di un’operare con l’altro verso un cambiamento in assenza di un fenomeno di ritorno essenziale sull’operazione stessa, anzi sull’operatore stesso.
Tutto nella cura, in ogni tipo di cura, dipende da come si intende il destino verso cui l’uomo procede, in cui è inscritto, o meglio il destino dei e nei suoi legami fondamentali, nella trama di relazioni che lo costituisce : per questo Freud lo può articolare e trasmettere attraverso un mito tragico, quello di Edipo, perché il mito tragico era costruito per creare legame e rinnovare il senso dell’appartenervi : funzione etica della tragedia, con effetto detto ‘catarsi’.
In questo senso la risposta alla domanda sulla formazione dell’operatore, sulla cultura della/e cure, corre parallela a quella sulla complessità in cui si pensa il destino del soggetto, poiché ogni intervento reale, realmente incidente, partecipa, si pone al livello di questa complessità, che lega l’uomo al suo destino e lo muove a chiedere aiuto, a domandare. E per affrontare questo interrogativo ha bisogno di un partner di questa domanda, qualcuno che certo non ha una risposta, ma può farsi responsabile di questa domanda, condurla a buon fine, renderla feconda.
Oggi soffriamo di una mancanza di riflessione su questo punto, determinata anche dall’eclettismo ateoretico che nella società attuale maschera la difficoltà a prender posizione sul proprio desiderio. Ecco perché parliamo di una cultura della cura che ci si addica. Cos’è cultura della cura?
Nelle cure spesso sperimentiamo che c’è una divaricazione tra il tipo di offerta che facciamo come operatori, e la domanda sul destino e sul senso : nel nostro lavoro c’è sempre un interrogativo profondo sul che ci faccio io qui? E pertinentemente, poiché la questione che il paziente pone è a sua volta a questo livello.
Può essere un buon esempio di questo livello delle questioni la scelta dei tempi nel setting. Quello che mettiamo a disposizione per l’ascolto di un disagio può essere un tempo ben definito dall’orologio, scegliendo per un modo della relazione regolato attraverso un certo contenitore.
Oppure possiamo sceglier di mirare più direttamente al desiderio di chi ci è venuto a consultare, e trovare modi per puntare più direttamente alla domanda effettiva. Scelte. Strategie. Come orientarsi? Infatti in questo elemento tecnico del tempo subito vediamo travasarsi -praticamente- il motivo anche personale, l’accento soggettivo, lo stile della nostra scelta teorico-tecnica.
La formazione, in altri termini, implica sempre scelte, minute, quotidiane, pratiche. E come orientarsi nello scegliere? : posso dire come è per me. Qual è il fattore decisivo della cura? E’ il legame. Non la persona, o le belle idee educative, o un sapere pratico-pratico, far così e così ... Ci deve comunque essere un punto dell’esperienza che attrae, quel che si dice un maestro, che si impone in termini ‘scientifici’, il che significa che fa legame con il nostro desiderio, e per questo diventa teoria- di-riferimento, e se è posta così, è ben definita e crea confronto, apre ad altri legami, con altri che operano.12
Ancora una volta, è il legame che cura, anche quello tra operatori. E’ in questo modo che possiamo uscire dalle infatuazioni personalistiche e contro-razionali (così facili nel nostro campo) per mettere più a fuoco che cosa anima il fatto che ci siamo lasciati chiamare, chiamare in causa, da questo strano lavoro ...
12 Nella mia recente esperienza a mettere in piedi –con Mario Binasco- una scuola di psicoterapia legalmente riconosciuta ci siamo presi la responsabilità di entrare in questo campo minato dove le scelte si rivelano spesso assai sintomatiche.
Domande : La relazione d’aiuto, tra educazione, neutralità, distacco, separazione ...Il problema della scelta tecnica come ‘monocultura’, come totalizzante. La psicoanalisi, proposta tecnica forte, richiede questa totalizzazione?.
Cosa promuove questa messa in gioco che altri a volte avvertono come pericolosa? Prendersi cura non è un lavoro come tutti gli altri.
A ben vedere a far cura è proprio un elemento gratuito, inaspettato. E se c’è in atto questo, che è strettamente legato all’offerta di legame che fa l’operatore, in un certo senso non ci può essere neutralità. La neutralità –termine prelevato dal lessico della psicoanalisi e diventato assai di comodo- viene usata come alibi per evitare all’operatore di assumersi la sua responsabilità : la parola non ancora detta è infatti ‘responsabilità’. Il paradosso è che per il fatto di offrire cura rispondo non al ma del malessere dell’altro. Questo è un paradosso ma è anche una possibilità diversa, nuova.
In questo senso la psicoanalisi, che è una proposta forte, può essere di aiuto per la vocazione di qualcuno, particolarmete per poter individuare i punti di cui abbiamo parlato prima : la tradizione psicoanalitica si espone, si impegna a quel qualcosa che manca sempre di più in questa società, un maestro. Ma la psicoanalisi è un discorso affidabile per mettere in gioco queste problematiche per un particolare che è decisivo : non totalizza il campo delle risposte, anzi piuttosto s-totalizza, particolarizza, de-unifica ... Aiuta a porre correttamente certe questioni proprio perché introduce la dimensione essenziale del non tutto, non uno soltanto, da solo. Ancora il legame dunque : attraverso il riferimento al discorso psicoanalitico, nessuna teoria-tecnica potrà ergersi a totalizzare il campo dei discorsi ... tantomeno la psicoanalisi stessa : questi interrogativi si può arrivare a porseli magari provocati dalla psicoanalisi, magari da altro. Uni cuique suum.
Rif: Simonetta Martini email: simonettamartini@virgilio.it Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
SPUNTI DI RIFLESSIONE NELL’APPLICAZIONE DEL MODELLO INTEGRATO DEL PROF. ZAPPAROLI PRESSO UNA STRUTTURA RESIDENZIALE PER PAZIENTI PSICOTICI: DALL’APPARENTE INCOMPRENSIBILITÀ ALLA COMPRENSIONE E ALL’ACCOGLIENZA DELLA PERSONA .
Simonetta Martini
Medico Psichiatra CRT Cernusco Lombardone UOP Merate–AZ Osp. Lecco
Introduzione: La formazione effettuata col Prof. Zapparoli mi ha insegnato a pormi di fronte al pz. senza preconcetti, in un ‘ottica di empatico ascolto e di curioso interesse nei confronti di ogni sua comunicazione, a partire da quelle attinenti all’area delirante, intese come espressione del suo mondo interno e fonte di preziosissime informazioni per conoscere il suo modo di vivere e di adattarsi alla propria realtà esistenziale. Ciò ha permesso di allontanarmi dalla mentalità prettamente medica-organicistica che induce a guardare il pz. non come un soggetto vivo e pensante, ma come un’entità nosografica, un sovrapporsi di sintomi da eliminare. Le comunicazioni verbali e i comportamenti apparentemente incomprensibili hanno cominciato a divenire traducibili, trovando una loro chiave di lettura nel riconoscimento di una funzione difensiva specifica per il pz.. Dietro le bizzarrie e le stranezze è stato possibile incontrare la persona portatrice di bisogni e di richieste, che condivide con l’operatore, persona con una propria dimensione esistenziale di domanda ed esperienza di limite e di bisogno , un incontro umano .
La possibilità di capire e riconoscere le necessità più vere del pz. celate dietro un linguaggio “bizzarro” permette di renderle evidenti anche ai familiari o a chi vive in contatto con lui .
L’adeguata formazione del personale, ha permesso di creare un ambiente capace di accogliere il pz. attraverso un atteggiamento di attesa, non impositivo di soluzioni che non rispondono ai suoi
bisogni (Zapparoli), di ascolto per ogni comunicazione del pz., che ci parla attraverso le sue fantasie e i suoi deliri del proprio mondo interno e ci dà informazioni utili per veicolargli il giusto aiuto in modo assolutamente personalizzato.
Metodi: Riflessioni su due casi clinici di un uomo e una donna tratteggiati sotto il profilo di una diagnosi di psicosi in cui si mettono in evidenza evoluzioni per certi versi inaspettate e sorprendenti , pur nella costanza e nella persistenza di un disturbo grave .
Risultati: Nel primo caso l’accettazione totale del pz. nella sua condizione di persona, che aveva ormai consolidato un suo stile di vita su cui vi erano ben poche velleità terapeutiche tendenti ad emanciparlo o a indurre un cambiamento sostanziale della posizione onnipotente e persecutoria, ha prodotto in realtà nel tempo evoluzioni della situazione. A partire dall’accoglienza di bisogni specifici quali: Il bisogno di dover negare, attraverso l’atteggiamento polemico e arrogante la necessità di dipendenza dal servizio , cioè da una base sicura con operatori che si occupassero degli aspetti più primitivi come la semplice cura del sé (alimentazione, ecc.), Il bisogno di essere accolto come pz.” unico e speciale”, è stato possibile per il pz accettare l’evidenza di avere la necessità di un supporto ed è ora attuabile con lui un contatto collaborativo.
Nel secondo caso si mette in luce come una posizione di attesa e accettazione delle “ridefinizioni” che il pz. fa dell’operatore che assume una posizione “inanimata“, può essere utile per raccogliere informazioni significative sul mondo interno del pz. e permette di trovare soluzioni personalizzate anche attraverso una posizione soggettiva dell’operatore più elastica .
Discussione: Nel primo caso descritto, l’accettare la persona col suo bisogno di unicità, dando spazio alle sue difese deliranti, è stato possibile porre le basi per un rapporto di fiducia. Ciò ha permesso di effettuare un lavoro di spostamento delle difese meno funzionali, ed è stato possibile veicolare al pz. l’accudimento adeguato. Ora il pz. accetta il supporto e lo ricerca attivamente ed è perciò passato da una posizione di onnipotente negazione di qualsiasi bisogno, che sfociava in un’arrogante pretesa, a una situazione di maggior accettazione dell’aiuto fornito dagli operatori, sia in termini di vicinanza emotiva, sia di sostegno nelle aree più francamente deficitarie.
Nel secondo caso il riconoscimento del bisogno specifico della pz., di simbiosi ambivalente con la madre, e le conseguenti scelte per la modalità di accoglienza della pz. nella struttura hanno dato alla pz. una dimensione di maggior stabilità interna.
Rif:Psiche Lombardia e-mail:psichelombardia@interfree.it Sessione: DALLA PSICHIATRIA ALLA SALUTE MENTALE
Dr. Rossella Impellizzeri - Psichiatra
Dr. Silvana Mazzoleni Psicologa Dr. Eugenio Riva Sociologo
Introduzione
L’associazione Psiche Lombardia, sezione di Vimercate e Trezzo sull’Adda, costituita da volontari e familiari di persone portatrici di disagio psichico e patologie psichiatriche, sarebbe lieta di poter presentare al Congresso il Progetto “Oltre l’isolamento” nato e attuato con il contributo e la collaborazione di familiari, volontari, alcuni psichiatri, psicologi e operatori dei servizi psichiatrici del territorio.
Metodo
L’associazione lavora abitualmente per progetti. “Oltre l’isolamento” è il progetto attualmente in corso grazie al sostegno della fondazione Monza e Brianza (Carialo) e dei 29 Comuni del Vimercatese e Trezzese.
Il progetto è articolato in diverse iniziative e attività finalizzate a favorire la socializzazione delle persone con patologia psichiatrica anche grave.
All’interno di tale progetto opera la Filarmonica Clown: laboratorio di comico – terapia condotto da Piero Lenardon e Carlo Rossi (Carlo: Empirio nella trasmissione televisiva L’Albero azzurro).
L’attività è aperta a tutte le persone interessate ad effettuare un’esperienza nell’ambito della comunicazione teatrale, ma ha come obiettivo primario quello di dare opportunità di integrazione sociale, di relazione e di positiva gestione del tempo libero, nonché di recupero del benessere psicofisico e della salute mentale a quelle persone che hanno vissuto o stanno vivendo momenti di disagio psichico caratterizzato da ansia, depressione, angoscia e molto spesso di solitudine.
I due Professionisti, a cui è affidata la conduzione del laboratorio, sotto la responsabilità della Psichiatra Dott.ssa Rossella Impellizzeri e con la collaborazione della psicologa Dott.ssa Silvana Mazzoleni, stanno formando un gruppo di “comici clown” composto da persone con patologia psichiatrica, autismo, Operatori dei servizi psichiatrici, volontari dell’Associazione Psiche Lombardia e giovani del territorio.
Scopo principale del laboratorio è quello di guidare i partecipanti alla scoperta e alla presa di coscienza delle potenzialità comunicative ed espressive del corpo, del linguaggio non verbale, delle relazioni con lo spazio e con gli Altri. Le tecniche d’improvvisazione corporea attraverso il mimo e la clounwria offrono al paziente psichiatrico e autistico situazioni comunicative che gli permettono di sperimentarsi e mettersi in gioco su potenzialità scarsamente esplorate nella quotidianità.
Il laboratorio si tiene tutti i sabati pomeriggio dalle ore 15 alle ore 17 presso la palestra del centro sportivo comunale, in via Piave n°6, gestito dalla Cooperativa sociale “Insonne” O.n.l.u.s. di Trezzo sull’Adda nata per favorire l’inserimento lavorativo di pazienti psichiatrici. Presso il centro l’Associazione sta realizzando anche altre attività (laboratorio di attività espressive, iniziative sportive, specifiche attività in occasione di particolari ricorrenze).
Risultati
Il primo obiettivo conseguito è che persone, chiuse nel loro mondo autistico, sono ora capaci di sorridere e “far ridere”. Questo è avvenuto anche grazie al contributo di una Psichiatra e di una Psicologa, le quali hanno intuito che un buon servizio di salute mentale non può offrire solo farmaci, solo residenzialità protetta, ma deve articolarsi in una serie di servizi e opportunità di vita sociale che possano assumere le caratteristiche dell’accoglienza ovvero: cura basata sull’ascolto, servizi di riabilitazione, inserimento sociale e lavorativo, azione a favore e sostegno dei familiari, effettiva “presa in carico” della persona con patologia psichiatrica anche del Sociale.
Il progetto “Oltre l’isolamento” offre agli Psichiatri e agli Operatori dei servizi opportunità di mettersi in gioco a lato dei familiari dei loro pazienti per renderli soggetti partecipi del processo di riabilitazione del proprio congiunto.
Discussione
Il Dott. Eugenio Riva invita la sessione del Congresso a discutere l’esperienza in atto nel progetto “Oltre l’isolamento” realizzata anche con la collaborazione dell’Assessorato ai Servizio Sociali del Comune di Busnago ed invita ad assistere al saggio finale della Filarmonica Clown sabato 28 giugno alle ore 17 presso il centro sportivo comunale di via Piave 6 a Busnago, nell’ambito della Festa della Solidarietà delle Associazioni di volontariato.
LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE:
UN PROBLEMA DI REGOLE?
Rif: M. Negri e-mail:MarinaNegri@infinito.it
Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
ESPERIENZE IN ST. KIZITO CLINIC A LAGOS – NIGERIA
Louisa Adegun, Chiara Mezzalira
St. Kizito Clinic e’ un centro di cure primarie alla periferia della metropoli di Lagos (circa 12 milioni di abitanti), costruito da AVSI 15 anni fa, dove vengono assistiti ambulatoriamente circa 150 - 200 pazienti al giorno. Sono per lo piu neonati, o bambini sotto i 5 anni, donne in gravidanza, alcuni anziani. Annesso alla clinica c’e anche un centro nutrizionale in particolare per bambini malnutriti, per malati di AIDS, sia bambini che giovani adulti, che seguiamo anche a domicilio.
Tutto il lavoro (visite, prescrizioni, terapie, educazione sanitaria, vaccinazioni etc.) viene svolto da infermiere professionali, ostetriche e infermiere di comunità, insieme al personale ausiliario preparato in loco. L’unico medico e’ Chiara che svolge un lavoro di supervisione nella clinica e segue i corsi di formazione per personale in servizio, sia del centro che di altri centri privati, legati alla diocesi o governativi.
Louisa Adegun, una giovane infermiera di Lagos, lavora con noi ormai da alcuni anni.
Ci ha raccontato quello che le e successo durante la scuola di ostetricia, che ha fatto all’università di Ibadan, dopo aver fatto la scuola per infermiere professionale ed aver lavorato in St. Kizito Clinic per un anno.
Quando hanno fatto il corso di Family Planning, durante il tirocinio pratico alle studenti e’ richiesto di inserire la spirale in almeno 20 donne. Confrontando questa richiesta della scuola con il lavoro di giudizio che aveva imparato in questi anni lei ha obiettato che non lo riteneva giusto in quanto la spirale provoca aborto e lei era contraria. Ha chiesto anche alle colleghe studenti cattoliche cosa pensavano, ma nessuna si era mai posta il problema.
I docenti hanno detto che faceva parte del tirocinio, che altrimenti non avrebbe ottenuto il diploma. Louisa ha sostenuto che, essendo la pratica non su manichini, ma su persone reali, non le sembrava professionalmente corretto. Louisa ha rischiato di non essere ammessa all’esame. Per essere sicura della sua posizione, ha ceRcato il cappellano dell’università, che per la prima volta si sentiva porre questo problema, ed anche lui riteneva che essendo parte del tirocinio, lo doveva fare, solo dopo avrebbe dovuto non applicarlo piu’, comunque avrebbe chiesto il parere della conferenza episcopale.
Luoisa non convinta si e ricordata che uno dei docenti che aveva fatto delle lezioni di psicologia e sulla salute riproduttiva aveva detto delle cose interessante, che corrispondevano a come aveva imparato a giudicare la vita, cosi e andata a cercare il Prof. Asuzu. Il professore e’ rimasto molto colpito del coraggio di questa giovane infermiera, ha riguardato il curriculum, questa parte del tirociNIo non e’ obbligatorio, ma quasi tutte le scuole la rendono tale. Ha sostenuta la posizione di Louisa ed ha fatto con lei la battaglia nella scuola, ottenendo per lei l’esonero e la possibilità di fare gli esami e diplomarsi.
Abbiamo invitato il Prof. Asuzu, per un corso di formazione sulla salute riproduttiva e sui metodi naturali e la prima cosa che ha detto a Dr. Chiara, vedendo Louisa e’ stata: “ Dottoressa, quella sua infermiera (Luoisa e molto piccola!) e’ un gigante!”
Riprendendo il lavoro in clinica questo e’ quello che lei stEssa ha scritto sulla sua espErienza di lavoro:
Sono una infermiera ostetrica. Ho seguito la scuola infermieri professionale nel Lagos State, quella di ostetrica all’Università di Ibadan, in Nigeria. Lavoro con AVSI in St. Kizito Clinic nei sobborghi di Lagos)
Ho incontrato il movimento quando ero nella scuola infermieri professionali. Benché provenissi da una famiglia cattolica ed avessi imparato le pratiche cattoliche dall’infanzia, quando ho incontrato il movimento ho imparato a ricercare, a paragonare le cose con la mia esperienza elementare, a giudicare, a criticare le proposte fatte ed ho iniziato a vedere la verità della mia fede. Quando ho iniziato a seguire il movimento ho iniziato a capire cosa sia la fede, chi sia realmente Cristo (Dio che si e’ fatto uomo) un avvenimento dentro la storia. Allora ho iniziato a seguire veramente il cristianesimo non per paura di qualcosa che mi sarebbe potuto succedere, ma perché ho cominciato a capire un po’ alla volta che questa strada e’ ragionevole e corrisponde al mio cuore, perchè il cammino del Signore e’ semplice come quello di Giovanni ed Andrea che hanno inIziato a seguirlo per curiosità e desiderio.
Quello che il movimento ci propone e’ una ricerca di cio in cui la vita consiste, di chi io sia realmente, una ricerca che ha come punto di paragone Cristo, che e’ presente oggi nella Chiesa. Ho iniziato cosi a pormi delle domande, come: cosa centra Cristo con la mia vita? Cosa centra la mia fede con la vita di tutti i giorni?
All’inizio dell’anno, nella clinica dove lavoro, abbiamo fatto un workshop per tutto lo staff ed ho proposto come metodo di lavoro quello che avevo imparato nel movimento.
In occasione della venuta del Papa in Nigeria per la beatificazione di Padre Tanzi, alcuni di noi erano andati a visitare i luoghi della vita del beato per avere dei fatti sulla sua vita ed abbiamo iniziato a lavorare su questi. Uno dei racconti diceva che Padre Tanzi svolgeva molti lavori manuali, aiutava a costruire scuole, latrine per i bambini. Gli anziani del villaggio andarono da lui a dirgli che un prete doveva essere trattato come un capo villaggio e non doveva perciò coinvolgersi in questo tipo di lavori. Padre Tanzi rispose che “Il lavoro, ogni tipo di lavoro e’come la costruzione della cattedrale di Dio sulla terra, ed ogni mattone e’ importante”, che la dignità del lavoro non consiste in chi fa il lavoro o in quale sia il lavoro, ma nella coscienza con cui il lavoro e’ fatto. Ho paragonato questo con la mia esperienza, ho visto che corrispondeva di più alla coscienza del lavoro, ho deciso percio’ di proporre questo ai miei colleghi ed il nostro slogan dell’anno e diventato “costruire la cattedrale”.
Quando abbiamo fatto le vacanze del movimento io sono andata il giorno prima con altri a preparare il posto. La sera mentre facevamo il resoconto di come avevamo distribuito le camere, 3 persone in questa stanza, 4 nell’altra etc., la responsabile delle vacanze ha detto: “No! Chi sono le persone in questa stanza? sono contente di essere insieme?” Allora abbiamo ricominciato di nuovo, mettendo i nomi delle persone nelle varie stanze. Mi accorsi che in questo modo era molto piu ragionevole, altrimenti tutto e’ astratto, il valore della persona era tenuto molto piu’ presente. Dopo le vacanze, questo e’ rimasto nella mia memoria. In clinica di solito abbiamo una folla di persone e siamo preoccupate di cercare di visitare tutti il piu veloce possibile ed a volte non guardiamo alla persona. Dall’esperienza delle vacanze e’ nato il desiderio di guardare a ciascuna persona, fermarmi a guardarle uno ad uno e mi accorgo che questo corrisponde di piu al mio cuore.
Felix era un ragazzino di 8 anni, malato di AIDS, che veniva in clinica spesso. Sono diventata sua amica. Quando si e’ aggravato e non riusciva piu a venire in clinica, con altre infermiere andavamo a visitarlo a casa. Durante la scuola professionale ci avevano insegnato ad empatizzare con il paziente, ma a non coinvolgerci troppo affettivamente con la situazione del malato. Ma paragonando questo con il mio cuore e la mia esperienza di lavoro, quello che mi
avevano insegnato non mi sembrava un modo vero di lavorare, perciò mi sono sempre rapportata con i pazienti il più possibile come con amici. Con Felix ad un certo punto mi sono ritrovata ad recriminare, non potevo sopportare la situazione percheé non riuscivo a capire come mai un bambino dovesse soffrire cosi’. Ho incominciato a chiedermi: Perché la sofferenza? Perchè la morte?. Con l’aiuto di alcuni amici del movimento ho capito il valore della sofferenza, da una frase letta all’inizio della Via Crucis che avevamo fatto la settimana Santa: “Il dolore e la sofferenza hanno iniziato ad avere un valore quando Cristo e’ morto in croce”. Anche la sofferenza di Felix ha un valore se questa sofferenza e’ offerta a Dio, cosi quando andavo a trovare Felix offrivo la sua sofferenza a Dio riconoscendone un valore che e’ un mistero
Lagos – Nigeria Maggio 2003
Rif: P. Bellavite e-mail:paolo.bellavite@univr.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
I LIMITI DELLA MEDICINA ED IL CONTRIBUTO DELLA MEDICINA INTEGRATA
P. Bellavite, R.Ortolani, A. Vella, E.Vedovi, A. Conforti
Dipartimenti di Scienze Morfologico-Biomediche e Medicina e Sanità pubblica, Università di Verona, Associazione Giovanni Scolaro per la Medicina Integrata
Riassunto. I limiti della medicina sono essenzialmente di tre tipi: uno riguarda le risorse, che sono sempre inferiori ai fabbisogni di salute della popolazione, anche per il crescente costo delle diagnosi, delle cure farmacologiche e di altri interventi. Un secondo limite riguarda le conoscenze precise sulle cause delle malattie e quindi sui relativi mezzi diagnostici e terapeutici. Un terzo limite è quello legato al fatto che, nonostante l’enorme aumento delle conoscenze tecnico-scientifiche (v. ad esempio il progetto “genoma”), la medicina spesso non riesce ad affrontare la malattia come esperienza della persona nella sua complessità e nella sua individualità. Quest’ultimo problema è dovuto al fatto che le malattie moderne sono processi multifattoriali, dinamici e aperti, solo raramente riconducibili ad un singolo difetto rimediabile. Sono quindi necessari una concezione di salute e malattia, un metodo clinico e probabilmente anche un’organizzazione sanitaria che utilizzino sì gli strumenti tecnico-scientifici, ma nell’ambito di una visione antropologica più ampia di quella fornita dal paradigma meccanicistico ed ipertecnologico, oggi prevalente. Molti oggi suggeriscono che un possibile contributo per un miglioramento delle cure primarie, sia sul piano umanistico sia su quello del rapporto benefici/costi, possa venire anche dalle medicine cosiddette complementari, se viste come “integrazione” e non come “alternativa” alla medicina scientifica. L'omeopatia in occidente e le medicine orientali sono nate e si sono sviluppate con peculiari teorie fisiopatologiche, metodi anamnestico-semeiotici e farmacopee, che oggi possono essere rivalutati, particolarmente per la capacità di dare impulso al rapporto medico-paziente ed alla responsabilizzazione nella cura. Contrariamente a quanto comunemente si ritenga, buona parte dei tradizionali concetti proposti dall'omeopatia (principio di “similitudine”, sperimentazione sull'uomo sano, personalizzazione della cura, uso di dosi minime o addirittura di alte diluizioni/dinamizzazioni dei medicinali) non sono in contrasto con criteri di scientificità, anche se molti aspetti fisico-chimici e farmacologici restano ancora da chiarire. Solo la ricerca, clinico-epidemiologica e sperimentale, potrà far avanzare la medicina in questo difficile settore. Anche la didattica ed il riconoscimento delle qualifiche professionali nelle medicine complementari sono temi delicati e di attualità, su cui stanno lavorando varie commissioni in sede legislativa ed ordinistica. In Verona si è sviluppato un gruppo di lavoro che adotta un approccio razionale e documentato, al fine di valorizzare - o dove è il caso di criticare - i concetti tradizionali ed il patrimonio esperienziale delle medicine di altre tradizioni storico-geografiche ed in particolare dell’omeopatia. Tale gruppo è formato sia da universitari sia da ospedalieri e collabora con medici che lavorano nel territorio. Oltre ad un’attività di studio e ricerca che ha già prodotto significativi risultati e pubblicazioni, si sono attivati corsi elettivi nella facoltà di medicina e corsi di aggiornamento accreditati ECM per tutte le professioni sanitarie, che hanno visto una larga partecipazione.
Rif: O. Bertetto e-mail: obertetto@molinette.piemonte.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
LA RESPONSABILITÀ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
Oscar Bertetto S.C. Oncologia Medica – C.O.E.S. – Molinette Torino
Vi è un momento, nella storia clinica del paziente oncologico, in cui il medico è posto di fronte alla responsabilità professionale di una scelta che difficilmente può rispondere a regole deontologiche o giuridiche: è quello del passaggio dalle cure specifiche, in grado ancora di intervenire con l’evoluzione della neoplasia, alle cure palliative.
La cultura medica ha nei confronti del malato non più guaribile un atteggiamento schizofrenico: da un lato vede la cronicità come una successione di episodi acuti, ciascuno illusoriamente superabile nelle sue singolarità, senza prendere atto dell’irreversibile procedere della malattia (accanimento terapeutico), dall’altro considera il malato di tumore come un “quasi morto”, senza il diritto di vivere l’ultima parte dell’esistenza, non importa quanto lunga possa essere, nel modo migliore e più significativo possibile (abbandono terapeutico).
Il cancro continua ad essere vissuto nel nostro immaginario collettivo come una malattia che è metafora di dolore, decadimento fisico, corrosione causata da un nemico interno, morte. Anche il medico risente della cattiva coscienza della medicina contemporanea che non sa, di fronte al trionfalismo dei suoi successi, confrontarsi con la precarietà della vita umana. La decisione del passaggio dalle terapie causali a quelle sintomatiche è una prova severa, a cui concorrono preparazione scientifica, esperienza clinica ed etica professionale. Si passa dall’oggettività della cura volta a guarire che misura la sua efficacia su dati obiettivi alla soggettività delle cure palliative che hanno nella valutazione del paziente il loro unico riferimento di adeguatezza. Si tratta di offrire momenti assistenziali adeguati e tecnicamente corretti, ma anche aiutare il paziente a capire quali sono le sue potenzialità residue valorizzare le scelte che rispondono alle sue necessità ed aspirazioni. Occorre supportare la disperazione altrui senza contribuire con la propria, sostenere la parte sana, sia somatica che psichica, del paziente e non piangere insieme con lui sulle parti deteriorate e distrutte.
Quello che i malati ci chiedono è meno complicato o impossibile di quanto pensiamo; non chiedono l’assoluta verità o il dominio sulla vita e sulla morte, ma semplicemente di essere aiutati a mantenere la fiducia contro la disperazione, il senso di abbandono, di rabbiosa impotenza o di angosciosa esposizione inerme ad un male che sovrasta.
In questi casi dunque raramente ci possono guidare i livelli di evidenza derivati da studi clinici controllati; le decisioni sono connesse a fattori incerti; precedenti situazioni simili ci possono aiutare ma le aspettative, le speranze, le paure, i pregiudizi del malato e le influenze, le preoccupazioni, i falsi convincimenti o le velleità dei familiari pesantemente interferiscono sulle nostre scelte, non solo in modo cognitivo e razionale ma anche emotivo e inconscio.
Da questo amalgama decidiamo cosa fare, qualche volta velocemente, qualche volta con esitazione, talvolta con sensazione di fiducia di ottenere un risultato soddisfacente, talvolta con la pessimistica sensazione di una bassa probabilità di riuscita. Per questo dobbiamo ancorare le nostre scelte ai principi dell’etica medica: rispetto dell’autonomia decisionale del paziente, non maleficienza, beneficenza, equo utilizzo delle risorse dovrebbero essere i nostri punti di riferimento. Perché il paziente possa decidere la nostra informazione non può essere solo una trasmissione di dati e di statistiche, ci si deve accertare di come l’informazione sia stata recepita ed elaborata; occorre instaurare una alleanza terapeutica, in cui parlino anche le ragioni del cuore. La risposta in questi momenti non può essere dunque il rifugiarsi nell’asettico tecnicismo professionale né nell’esasperato attivismo. Il malato ci chiede di essere ascoltato, aiutato, accompagnato, ricordato.
Ci sono regole per questo?
Rif: M. Bregni e-mail: marco.bregni@hsr.it
Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
LA CULTURA MEDICA NASCE DA UNA ESPERIENZA
M. Bregni, E. Setola, F. Pagliai, A. Assanelli, G. Grillo, C. Bianchi
Introduzione:
Da ormai 4 anni si è costituita ed opera la Scuola di Ematologia ed Oncologia S. Callisto, che rappresenta un punto di riferimento per studenti, specializzandi e specialisti in ematologia ed oncologia, impegnati su vari fronti, dall’apprendimento, alla formazione, all’attività clinica e di ricerca in laboratorio. La Scuola opera con metodo universitario, organizzando incontri mensili tra i partecipanti, durante i quali vengono preparati ed esposti determinati argomenti, che sono poi oggetto di discussione e confronto. Ne fanno parte persone per lo più di Milano, ma ci sono alcuni che anche da Firenze e Bologna affrontano Km di strada per confrontarsi con questo metodo educativo affascinante e coinvolgente.
Il lavoro della Scuola è nato dalla stima reciproca tra alcuni professionisti che hanno risposto alla provocatoria domanda di apprendimento posta dai giovani che si affacciavano alla professione, desiderosi di incontrare e confrontarsi con veri “maestri”.
Materiali e metodi:
Il lavoro affronta temi di interesse onco-ematologico (linfomi, sindromi mielodisplastiche, terapia ad alte dosi nel tumore della mammella, protocolli di trapianto di midollo osseo, nuovi farmaci in oncologia, questi ad esempio i temi sinora discussi), nonché testi inerenti alla professione medica soprattutto nei suoi aspetti motivazionali.
Gli argomenti vengono affrontati sistematicamente seguendo alcuni passaggi metodologici:
-revisione della letteratura e stato dell'arte sull’argomento
-analisi dei protocolli in corso e dell'approccio terapeutico in uso nei diversi istituti di provenienza (Milano, Firenze, Bologna)
-intervento degli esperti in materia
Uno degli aspetti a nostro avviso più interessanti della discussione è l’affronto non asettico e formale ma profondamente realistico ed umano di ogni problema, tanto che il punto di vista del dialogo comune è sempre la cruciale domanda che ogni giorno gli operatori sanitari si sentono porre dal malato: "Dottore, ma qual è la migliore cura, oggi, per me che soffro di questa patologia?", che viene immediatamente tradotta nella domanda decisiva: "Ma io, ma tu, tenendo conto di quello che abbiamo detto oggi, come vorresti essere curato se soffrissi di questa malattia?". Questo punto di vista che potremmo definire “di immedesimazione” ci pone nella condizione più concreta e positiva per affrontare decisioni terapeutiche spesso di difficile soluzione, e ci offre una scala di valori che pone la persona malata con le proprie esigenze al centro di ogni interesse.
La sintesi finale tenta di racchiudere tutte le considerazioni scientifiche ed umane emerse nella discussione, ed il principio critico nel giudizio resta sempre il medesimo, ossia la considerazione della persona nella totalità dei suoi fattori costitutivi.
Risultati:
Il primo risultato dell'insegnamento ricevuto nella Scuola è un’educazione continua all’affronto della professione medica; essa offre infatti una modalità di approccio al lavoro, allo studio, al dialogo con il paziente come alla revisione della letteratura scientifica di sperimentabile convenienza, come dimostra la fedeltà agli incontri dei partecipanti, anche dei più lontani. Se dovessimo dire qual è il vantaggio di una simile Scuola rispetto alle possibilità educative che ciascuno riceve quotidianamente nella propria realtà, potremmo affermare innanzitutto che si
tratta della possibilità di condividere un’esperienza. Questo permette di formulare un giudizio clinico e scientifico che nasce da una posizione umana integrale. Allenarci a questo giudizio diviene una forma di educazione. Conseguenza di questo atteggiamento è l’estremo valore del contributo di ognuno. Corollario è infine la conquista di uno sguardo di positiva valorizzazione della realtà, da cui ci si attende un positivo per sé, in quanto si avverte come possibile nel proprio ambiente un simile metodo di lavoro, che non è infatti determinato dalle circostanze ambientali (risorse, ruolo, etc), ma solo dalla personale posizione di chi opera.
Rif: D. A. Coviello e-mail: coviello@unige.it
SESSIONE: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
TEST GENETICI E DIAGNOSI PRENATALE: IL FALSO MITO DEL BAMBINO PERFETTO.
D A. Coviello
Laboratorio di Genetica Medica, Istituti Clinici di Perfezionamento, Milano
Dall’inizio del progetto genoma umano nel 1991 ad oggi, i progressi della ricerca nel settore dei test genetici hanno seguito un incremento esponenziale aprendo nuove prospettive diagnostiche e terapeutiche, ma sollevando di pari passo nuove problematiche di tipo morale ed etico. In modo particolare, da quando nell’estate del 2000 il Dott. Craig Venter (Celera- Maryland-USA) ha annunciato il completamento del sequenziamento del genoma umano, i mass media ci hanno bombardato di notizie sulle fantastiche possibilità dignostiche derivanti da questo storico risultato e si è creata una aspettativa nel pubblico non corrispondente alle reali possibilità della scienza attuale. La mancanza di un crescita parallela del dibattito sui valori dell’uomo e su cosa contribuisca veramente alla felicità dell’individuo ha contribuito a creare falsi ideali e, non ponendo distinzioni fondamentali tra oggetti ed individui, si è generalizzata l’idea che i test genetici diano la libertà di scelta alla coppia, come per la scelta di un’auto, di programmare un figlio senza imperfezioni che corrisponda all’ideale dei loro sogni, il bambino perfetto.
La società consumistica ed i messaggi pubblicitari tendono infatti ad appiattire tutto in funzione delle cose materiali, l’individuo è felice se ha gli oggetti che gli rendono una vita confortevole ed in questo modo non si accettano più condizioni di disagio o di difficoltà e l’individuo può andare facilmente in crisi se il suo essere o il suo apparire non corrisponde agli standards proposti continuamente dai mass media.
Come genetista sento il dovere di chiarire i limiti diagnostici dei test genetici e come uomo sento il dovere di riaffermare il valore della persona umana quale individuo unico per la sua componente biologica e spirituale. Il DNA dell’individuo, derivante dall’unione del genoma di altri due individui unici, che sono i genitori, è in continua evoluzione e non sarà mai perfetto, tutti siamo portatori sani di almeno 6-8 malattie genetiche recessive e nuove mutazioni si possono creare in qualsiasi generazione in uno dei 30.000 geni che caratterizzano il nostro essere fisico. Io penso che i progressi della genetica possano aiutare molto chi soffre per condizioni geneticamente determinate, ma ritengo che il progresso scientifico non sia la soluzione completa del problema. Penso che la felicità dell’individuo possa essere raggiunta solo nell’accettazione della diversità umana e nell’amore che dobbiamo avere l’uno verso l’altro per quello che siamo come esseri unici non solo dal punto di vista biologico ma anche intellettuale e spirituale. E’ un forte senso di amore e solidarietà che dà la forza di superare le difficoltà della vita, di qualsiasi natura esse siano, e non il falso mito della perfezione fisica raggiunta tramite una ipotetica selezione genetica.
Rif: A. Del Puente e-mail: delpuent@unina.it
Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
ATTIVITÀ DIDATTICA ELETTIVA (ADE). UNA NUOVA OPPORTUNITÀ EDUCATIVA NELLA FACOLTÀ DI MEDICINA.
A. Del Puente, A. Esposito *, V. Lombardi °, G. Angelone *, A.Bova#.
Università “Federico II” Napoli; *Ospedale “S. Maria della Pietà”, Casoria; °ASL.NA5; #Ospedale “S.Gennaro”, Napoli.
Introduzione.
Il nuovo ordinamento didattico della Facoltà di Medicina e Chirurgia ha istituito da alcuni anni le Attività didattiche “opzionali” da un anno a questa parte definite “elettive” (ADE). Si tratta di veri e propri corsi che possono essere costituiti da lezioni, seminari, attività pratiche. Nascono dalla collaborazione di un gruppo di docenti, provenienti in genere da insegnamenti differenti, uno dei quali assume il compito di proponente e coordinatore. Il contenuto del corso non deve essere in sovrapposizione con gli argomenti del “core curriculum” e può essere distribuito su un numero estremamente variabile di ore. La proposta del corso viene formalizzata compilando appositi modelli predisposti dal Consiglio di Corso di Laurea e comprende l’elenco dei docenti, lo scopo del corso, la descrizione degli argomenti e le modalità didattiche. La proposta viene vagliata da una apposita Commissione che può decidere di convocare il proponente per discutere i contenuti della, proposta, proporre accorpamenti con iniziative didattiche simili, suggerire modifiche e alla fine accettare o rifiutare la proposta.
Metodi.
A partire dall’Anno Accademico 1999-2000 è stato attivato presso la Facoltà di Medicina dell’Università “Federico II” di Napoli un corso dal titolo “Il contributo della esperienza cristiana alla professionalità medica”. L’idea nasce da una considerazione: nella Facoltà di Medicina gli studenti attraversano un intero corso di studi senza mai essere esposti in maniera esplicita, dal punto di vista didattico, al contatto con l’esperienza cristiana che tanto ruolo ha, particolarmente in un ambito come quello dell’assistenza all’uomo che soffre.
Risultati.
In questi primi quattro anni hanno frequentato il corso più di centotrenta studenti che preparano un elaborato finale ed acquisiscono i relativi crediti formativi. I testi delle lezioni sono stati raccolti ed alcuni di essi costituiscono ora un volume di atti che viene usato come supporto didattico (Edizioni di Pagina, e-mail: paginasrl@tiscali.it). Fanno parte dell’attività didattica anche seminari con esperti esterni all’Università, convocati per discutere di volta in volta temi diversi. Alcuni dei temi trattati da esperti “non medici” sono stati il sistema qualità in medicina, il lavoro nella visione ed esperienza cristiana. Le lezioni sono state condotte in maniera da rappresentare sempre un’occasione di incontro. In tabella verrà esposto il programma delle lezioni tenutesi nel corrente Anno Accademico.
Discussione.
Dinanzi alle difficoltà del settore, al disastro di una sanità piena di strumenti, ma sempre meno capace di rispondere ai bisogni, di fronte agli scandali piccoli e grandi, tutti parlano, tutti indicano come soluzione la necessità di guardare l’altro, il paziente, lo studente, il collega, come “persona”. Ma nessuno sa dire perché si dovrebbe guardare all’altro come persona. La risposta non è un discorso, ma l’incontro con una presenza che fa balzare agli occhi con evidenza il perché, che dà ragionevolezza e permanenza ad un atteggiamento umano, ad uno sguardo fraterno verso l’altro come da tutti in fondo auspicato.
Il tentativo che stiamo vivendo, inoltre, ci sta facendo scoprire che tutto ciò ha un rilievo evidente e documentabile anche dal punto di vista dell’efficacia e dell’efficienza dell’intervento medico anche dal punto di vista puramente “tecnico”. Non si tratta, cioè, di una posizione che determina solo la “simpatia” o la “generosità” del rapporto, ma influisce in maniera documentabile sui suoi aspetti tecnici. Il gesto medico contiene “in nuce” per sua stessa natura, la necessità di un atteggiamento fraterno verso l’altro, necessità anche tecnica, perché è evidente che non si tratta solo di “riparare una macchina guasta”. L’incontro con l’uomo cristiano compie il gesto medico nella sua interezza, compie questa “attesa” che è implicita nel gesto medico. Non per niente l’ospedale nasce con la prima maturità dell’esperienza cristiana.
Questa iniziativa, sotto forma di un corso per la formazione permanente, è stata ora estesa anche ai medici, nella convinzione che la formazione è il fattore critico rispetto al quale dobbiamo confrontarci.
Rif: N. Fabris e-mail: nicola.fabris@girm.net
Sessione : LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE : UN PROBLEMA DI REGOLE ?
IL PASSAGGIO DALLA SOCIETÀ DELL’INFORMAZIONE ALLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA NEL SETTORE MEDICO. UNA NUOVA METODOLOGIA PER LA FORMAZIONE.
N. Fabris - Direttore Generale CIRM, Milano
D. Colacicco – Commissione Aggiornamento Ordine dei Medici, Milano
Introduzione
L’Educazione Continua in Medicina costituisce una leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale degli operatori, ma richiede da una parte la definizione degli obiettivi programmati, dall’altra, dato l’elevato numero di medici - circa 330.000 – suggerisce l’utilizzo della formazione a distanza (FAD).
Gli obbiettivi principali sono:
- una classe di professionisti preparata e aggiornata, attraverso il trasferimento continuo delle conoscenze dai centri di eccellenza a tutte le altre strutture ospedaliere e di territorio;
- l’appropriatezza nell’utilizzo delle risorse, data la limitatezza delle risorse nel sistema sanitario;
- l’indispensabile continuità delle cure, che le nuove tecnologie tendono sempre più a rendere complementari tra le attività degli operatori sanitari ospedalieri e di territorio.
Metodi
Il modello di formazione che si propone utilizza in modo integrato sistemi e metodologie tradizionali e i new media (CD, DVD, INTERNET, e-LEARNING) e si inserisce in una rete
telematica integrata tra Ospedale e Operatori di territorio.
Il modello di base consiste nella costruzione di un per-corso formativo che comporti l’attività sinergica di strutture differenti che - ognuna per la propria sfera di competenza - favoriscano la continuità delle cure.
Ciò richiede da una parte il trasferimento della conoscenza dai Centri di Eccellenza alla struttura periferica dall’altra una conoscenza reciproca fra operatore ospedaliero e operatore di territorio.
Al fine di raggiungere questo risultato, il per-corso formativo si articola in:
- una quota (max 80%) del corso formativo attraverso formazione a distanza fornisca le innovazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative elaborate dai Centri di Eccellenza;
- una quota (max 10%) del corso formativo attraverso uno “stage clinico” presso l’AO di riferimento, al fine di favorire la conoscenza tra operatore ospedaliero ed operatore di territorio;
- una quota (max 10%) del corso formativo attraverso un lavoro di gruppo in aula effettuato presso la medesima AO per favorire il contatto fra il medico ospedaliero e quello di territorio.
Il momento formativo a distanza viene completato da corner integrativi, o archivi: ogni «corner» ha una duplice funzione di fornire ampliamenti e/o approfondimenti del corso e opportunità di consultazione anche in modo separato.
Risultati e considerazioni
Sulla base del modello si è creata una struttura di base con una rete costituita da:
- Un’aula informatica centrale per la elaborazione del corso e delle necessarie videoconferenze e
- Un’aula didattica presente in ciascun ospedale della rete, necessaria per costituire la sede di raccordo fra la quota di formazione a distanza e quella tradizionale;
- è in corso l’allacciamento internet degli ambulatori e poliambulatori dei MMG.
La validazione del modello avverrà attraverso una serie di video conferenze su argomenti di interesse trasversale (infezioni emergenti, bioterrorismo, responsabilità e rischi, farmacovigilanza, ECM, etc).
Mentre sul piano tecnologico il modello trova delle strutture adeguate, è ancora necessario definire l’opportunità di inserimento, ai fini di un risultato ottimale, di:
- una struttura di validazione scientifico-clinica dei percorsi formativi e degli archivi elaborati con funzione sia di controllare la correttezza dei testi e la loro congruità rispetto allo scopo formativo del progetto, sia di raccordo con il settore accademico;
- un Consensus Committee, composto dai medici dell’Ospedale e del Territorio, che valuti, in accordo alla struttura di validazione tecnico-scientifica, l’adeguatezza del corso e degli archivi per le effettive necessità dell’end-user sanitario, destinatario del corso formativo stesso.
Rif: A. Garaventa e-mail: albertogaraventa@ospedale-gaslini.ge.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
RILEVAZIONE DELLA QUALITA’ DI VITA E QUALITA’ DELL’ASSISTENZA IN ASSISTENZA DOMICILIARE AL BAMBINO CON PATOLOGIA EMATO-ONCOLOGICA. RISULTATI PRELIMINARI.
S. Fieramosca°, A. Garaventa*, L. Manfredini*, M. Miano*, P. Levrero°, R. Tanasini^
°psicologa, *pediatra; ^vigilatrice d’infanzia
Dipartimento di Ematologia ed Oncologia Pediatrica, Istituto G. Gaslini – Genova
Introduzione
Il concetto di Qualità, così complesso e difficile da misurare, è un aspetto rilevante nella valutazione dell’efficacia di un servizio e di una professionalità ed è sempre più attuale ed importante in campo sanitario. Nell’ambito di un progetto quale il Modulo di Assistenza Domiciliare si è sentita urgente la necessità di una valutazione il più possibile obiettiva del nostro operato, attraverso il livello di soddisfazione dell’utente, in relazione all’impatto sulla Qualità di Vita dei nostri giovani pazienti e delle loro famiglie.
Metodi
È stato strutturato un questionario in tre versioni: una rivolta ai genitori, una ai bambini dai 7 ai 12 anni, una ad adolescenti e giovani adulti; i questionari prevedono domande a scelta multipla e domande aperte. Si indagano direttamente i concetti di Qualità di Vita e Qualità dell’Assistenza, sia in senso generale sia riferiti in modo specifico alla situazione concreta di malattia del bambino. È stata dedicata molta attenzione al funzionamento della comunicazione tra operatori, paziente e famiglia e all’accoglienza dei bisogni del nucleo familiare da parte dell’équipe di assistenza, tenendo distinta la percezione della figura del medico da quella del personale infermieristico; alcune domande sono relative alla minore o maggiore difficoltà della gestione a domicilio di terapie e apparecchiature biomedicali. Si è valutata anche la soddisfazione rispetto alla frequenza e durata delle visite sia mediche sia infermieristiche e alla tempestività degli interventi.
Risultati
Sono stati consegnati in totale n.47 questionari, in forma anonima; al momento ne sono ritornati
n.28 ed i dati si riferiscono a questi ultimi. Rispetto al concetto di Qualità di Vita il 40% fa riferimento a ciò che permette di condurre una vita il più possibile normale e al recupero delle attività quotidiane, con particolare riferimento alla libertà da obblighi ed orari imposti e distonici rispetto ai ritmi del bambino e alle abitudini familiari. Implicito a tale concetto è anche il vivere più serenamente, inteso come riduzione dello stress e dell’ansia, e viene evidenziata l’importanza del recupero del calore e delle relazioni affettive intrafamiliari. Su un continuum di definizioni si passa dall’essenziale “sopravvivere alla malattia” all’opposto, cioè la negazione della malattia nei periodi di dimissione dall’ospedale. Il 60% degli intervistati indica, quali principali indicatori della Qualità dell’Assistenza, professionalità e competenza, accompagnate
dalla disponibilità (25%), sensibilità e gentilezza (25%), continuità (15%), attenzione (10%), buona informazione ottenuta attraverso il dialogo con il medico (10%), buon funzionamento del servizio e dei mezzi a disposizione (10%). Nel 95% dei casi viene riconosciuta una correlazione tra Qualità dell’Assistenza e Qualità di Vita: per il 25% si traduce in un aumento della serenità e del senso di protezione; per il 15% in un miglioramento dell’umore, soprattutto legato alla possibilità di stare a casa godendo di maggiore libertà (15%). Secondo il 95% dei genitori ci sono motivi di soddisfazione legati all’Assistenza Domiciliare in relazione alla ridotta ospedalizzazione (45%), alla professionalità degli operatori (30%), alla possibilità di una vita familiare ma “protetta” (20%), alla disponibilità degli operatori nei rapporti interpersonali (20%). Fra i pochi motivi di insoddisfazione segnalati, emerge quello relativo alla non copertura nei fine settimana.
Discussione
L’Assistenza Domiciliare sembra giocare un ruolo anche nel migliorare il comportamento e l’atteggiamento dei bambini durante i ricoveri: se il piccolo paziente è più sereno con gli operatori sanitari può tollerare meglio la lontananza dal suo ambiente. Va sottolineato, inoltre, come molti dei suddetti aspetti si intersechino e sovrappongano tra loro, emergendo sotto diverse voci. Esiste congruenza tra quanto espresso dai genitori e quanto risulta dalle risposte di bambini e adolescenti: maggiore libertà e tranquillità e ridotto senso di isolamento, legato alla possibilità di andare più raramente e rimanere meno tempo in ospedale sono gli aspetti indicati come più rilevanti.
Rif: A. Garaventa e-mail:albertogaraventa@ospedale-gaslini.ge.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
ASSISTENZA DOMICILIARE AL BAMBINO AFFETTO DA PATOLOGIA EMATO-ONCOLOGICA IN FASE TERMINALE: 3 ANNI DI ESPERIENZA DELL’ISTITUTO GASLINI DI GENOVA
L. Manfredini, M. Miano, A. Garaventa, R. Tanasini, S. Fieramosca, E. Cervetto, F. Virga, G. Fabbri, G. Dini
Modulo Funzionale di Assistenza e Terapia Domiciliare Dipartimento di Ematologia ed Oncologia Pediatrica, Istituto G. Gaslini – Genova;
Introduzione
Non esistono in letteratura dati relativi alla qualità delle cure domiciliari e di vita residua dei bambini oncologici in fase terminale assistiti in Italia. Dall’ inizio del 2000 tra i servizi assistenziali del Dipartimento di Emato-Oncologia dell’Istituto Gaslini è stato attivato il Modulo di Assistenza Domiciliare (AD). Promovendo la cultura dell’assistenza domiciliare ci si è prefissi di ottenere un miglioramento della qualità di vita dei bambini terminali affetti da malattie emato- oncologiche.
Metodi
Nel periodo 15.4.2000 - 28.02.2003 (728 giornate lavorative totali in un periodo di 1054 giorni) sono stati seguiti a domicilio 142 bambini affetti da malattie emato-oncologiche tra cui 12 pazienti (età mediana 7anni 10 mesi, range 12 mesi-20 anni 11 mesi) in progressione di malattia. Il servizio, che nel 2° anno è stato garantito da 3 medici, 3 infermiere, una psicologa ed un maestro elementare, si è svolto dalle ore 8.00 alle 16.00, dal lunedì al venerdì; l’intervento medico-infermieristico si è esteso nel week-end come reperibilità volontaria 24 ore su 24.
Risultati
Il periodo di assistenza è variato da 10 a 138 giorni consecutivi (mediana 60 gg) con una mediana di 43 accessi per paziente. Sono stati eseguiti: 220 prelievi ematici; 123 trasfusioni di emocomponenti; 171 terapie endovenose; per 279 giorni è stata eseguita terapia antalgica con oppioidi. Sono stati “evitati” 397 giornate di ricovero ordinario e 258 accessi presso il day- hospital. Il luogo dell’exitus è stato il domicilio per 11/12 bambini e il reparto ospedaliero per il bambino di età minore.
Discussione
L'attività svolta in questo periodo ha suscitato sia negli operatori sia negli "utenti" coinvolti pareri favorevoli. Tra questi ricordiamo: l'importanza per il gruppo familiare di poter stare a “casa” e non dover subire continui e/o lunghi ricoveri (con alterazioni dei rapporti affettivo-relazionali) mantenendo l'unità del nucleo familiare; il ripristino delle abitudini quotidiane della vita familiare; la vicinanza di parenti ed amici (valido aiuto e sostegno psico-affettivo); il mantenimento del lavoro di almeno uno dei genitori; l'abolizione del disagio dovuto allo spostamento del paziente in ospedale. Grazie all’AD i genitori possono vivere la separazione dal figlio nel loro ambiente, più liberi di manifestare i propri sentimenti e le capacità di far fronte agli eventi, nel rispetto delle loro private necessità.
Rif: S. Montalti e-mail: smontalti@ausl-cesena.emr.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
LA CENTRALITA’ DELLO STUDENTE E LA RESPONSABILITA’ EDUCATIVA NEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO CLINICO
Salvador Agosta**, Lorena Baravelli*, Sonia Braglia**, M.Rosa Evangelisti**, Erica Grisanti*, Lorena Quaranta** Sandra Montalti*** (smontalti@ausl-cesena.emr.it)
* tutor; ** tutor e docente a contratto di infermieristica
*** coordinatore tecnico-pratico e docente a contratto di infermieristica
CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
Introduzione:
Nella formazione infermieristica il tirocinio ha sempre rappresentato l’elemento di congiunzione tra il sapere speculativo ed il sapere pratico.
Durante questa esperienza, infatti, lo studente:
⇨ verifica dal punto di vista applicativo le conoscenze acquisite,
⇨ integra la conoscenza teorica-pratica, anticipando ambiti che approfondirà successivamente,
⇨ sviluppa capacità decisionali,
⇨ acquisisce competenze operative e capacità relazionali,
⇨ verifica aspetti alla luce dell’evidenza scientifica e della ricerca,
⇨ accresce la capacità al lavoro d’équipe.
L’integrazione tra obiettivi teorici ed obiettivi di tirocinio offre la possibilità di comprendere la logica del percorso formativo e di cogliere, costantemente, la continuità fra i contenuti del tirocinio ed i quadri teorici di riferimento.
Tuttavia, uno dei problemi più spesso riscontrati nella formazione infermieristica è, da sempre, la distanza esistente proprio fra l’approfondimento teorico e la realtà assistenziale.
Al fine di arrivare ad una maggior unitarietà fra questi due mondi, garantendo un unico processo formativo e ponendo lo studente al centro del sistema formativo, si è avviato un processo di rivisitazione del modello tutoriale, fondato sulla responsabilità educativa giocata dalle diverse figure
(docenti, coordinatori, tutor d’area, tutor clinici) che concorrono alla formazione dello studente nel corso di laurea in infermieristica.
In particolare, tale unitarietà si realizza soprattutto attraverso l’impegno delle guide di tirocinio che, affiancando lo studente e condividendo il progetto pedagogico, lo accompagnano nel raggiungimento degli obiettivi di tirocinio e nell’esperienza d’incontro con la realtà.
Metodi:
Il processo di rivisitazione del modello tutoriale, iniziato nell’autunno del 2002, ha comportato l’attivazione di un corso di aggiornamento di trenta ore per “Guide di tirocinio o tutor clinici” nella misura di trenta partecipanti, appartenenti alle UU.OO. sedi di tirocinio per il primo anno di corso, centrato sulla responsabilità educativa propria della guida di tirocinio.
Contestualmente, si sono organizzati incontri (fino al primo trimestre 2003), per guide già formate e coordinatori infermieristici di reparto, al fine di ricercare ed elaborare strumenti per la facilitazione, la realizzazione e la valutazione dell’apprendimento clinico dello studente.
Risultati:
I lavori di ricerca, di confronto e di studio hanno permesso la costruzione di strumenti quali:
⇨ “Il libretto delle abilità tecniche”
⇨ la definizione di obiettivi specifici di apprendimento per sedi di tirocinio,
⇨ la scheda di valutazione intermedia e finale
⇨ la condivisione di un documento presentato alla Direzione Infermieristica, contenente alcune indicazioni/soluzioni necessarie per superare la precarietà tipica dell’organizzazione, che attualmente compromette la funzione tutoriale.
Discussione:
Oltre alla stesura dei documenti prodotti, i risultati significativi di questo processo sono principalmente rappresentati da:
• costituzione di una rete di rapporti fra infermieri nei diversi contesti (sede formativa ed unità operative)
• miglioramento del livello di conoscenza in ambito formativo
• acquisizione di un metodo di analisi dei processi e coinvolgimento personale nei diversi momenti di tirocinio
• partecipazione dei tutor ad alcuni momenti di simulazione (esercitazioni),
• accoglienza/inserimento, guida alla realtà, rielaborazione e valutazione dell’apprendimento dello studente.
Rif: R. Pugliese e-mail: chirurgiaurgenza@ospedaleniguarda.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
FORMAZIONE E APPRENDIMENTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN CHIRURGIA AL SERVIZIO DELL’ALLEANZA TRA MEDICO E PAZIENTE.
R. Pugliese, I. Scandroglio, D. Maggioni, G. Ambrogi, C. Ferrari, S. Di Lernia, F. Colombo,
F. Sansonna, A. Costanzi.
U.O. Chirurgia Generale e d’Urgenza – Ospedale Niguarda Cà Granda – Milano
Introduzione
Da sempre nell’uomo l’avvenimento della malattia fa nascere una domanda. Alcuni uomini hanno tentato una risposta: ha così preso avvio l’arte medica, che si è continuamente arricchita con un’osservazione continua, e che è stata trasmessa da maestro a discepolo.
Nel tempo il progressivo sviluppo e l’approfondimento delle conoscenze ha portato a delle conquiste, che possono essere considerate dei passaggi epocali per lo sviluppo di quella che sarà la chirurgia. La chirurgia ha tratto vantaggio dall’introduzione della metodologia scientifica e dello sviluppo tecnologico, con le conseguenti applicazioni, che in modo inesorabile e progressivo hanno portato a sempre nuove possibilità, fino alle più recenti applicazioni (chirurgia mini-invasiva, robotica, telechirurgia).
L’applicazione del metodo scientifico ha inevitabilmente generato la specializzazione che comporta il rischio di un approccio totalmente concentrato sulla malattia o addirittura sull’organo ammalato piuttosto che sull’interezza della persona.
Alexis Carrel nel 1935 osservava che di fronte al paziente occorre un clinico che si faccia carico della sintesi per evitare che la specializzazione delle conoscenze divenga separazione.
Ma solo uno sguardo responsabile sul paziente, che nasce da una coscienza del valore assoluto di ogni uomo, permette di realizzare la sintesi.
Il metodo: una alleanza tra medico e paziente
La conseguenza di questo sguardo sull’uomo è che l’espressione della competenza rivolta alla cura della persona prende la forma di una alleanza consapevole tra medico e paziente.
In questi anni il nostro centro ha eseguito numerosi interventi chirurgici complessi in ambito oncologico e reinterventi ad alto rischio. I risultati ottenuti raramente sono radicali, talora, associati a terapie adiuvanti possono consentire la guarigione del paziente, più spesso offrono solo una adeguata palliazione. L’alleanza medico-paziente si attua tra soggetti liberi che apportano la propria competenza e la pongono di fronte all’altro perché venga accolta, nella consapevolezza che ciò che accade nella malattia richiama ad un significato che va oltre la corporeità.
Si tratta di uno sguardo che non si mantiene in modo automatico, ma va sostenuto ed educato. Poiché l’alleanza tra medico e paziente suppone competenza, una formazione specifica e continua diventa un fattore inderogabile, frutto stesso della responsabilità che tale alleanza richiede. L’esperienza suggerisce che bisogna seguire un maestro e una scuola, che guidino nella complessità del contenuto della formazione.
Il primo contenuto è educare l’autocoscienza alla consapevolezza del valore dei soggetti coinvolti nell’alleanza, il secondo è quello di raggiungere un serio sapere scientifico, in un paragone che tenga conto delle evidenze possibili: molta osservazione, controllo dei risultati, confronto delle esperienze sono i capisaldi di un serio apprendimento.
È indispensabile instaurare una alleanza solidale tra professionisti sia come associazione di competenze che come condivisione di responsabilità.
Nello sviluppo della medicina i pionieri hanno da sempre un ruolo fondamentale, consentendo una accelerazione dello sviluppo scientifico. È segno di maturità avere uno sguardo aperto e sereno verso i loro tentativi. La storia ci insegna che ciò che è stato veramente utile nel tempo si è sempre affermato e a questo scopo hanno contribuito coloro che con apertura hanno verificato la riproducibilità dei loro sforzi.
Conclusioni
Qualsiasi traguardo medico non è comunque strutturalmente in grado di eliminare definitivamente il male dalla vita dell’uomo. Vi sono altre dimensioni in gioco: il limite indica una soglia oltre la quale la realtà viene chiamata in altro modo.
Sia al medico che al paziente deve essere chiaro che nella loro alleanza non tutto è perfetto, che ogni rapporto contiene il pregio e il limite, ogni azione porta con sé la possibilità dell’errore e contiene degli elementi di imponderabilità: emerge la coscienza che un Mistero più grande abbraccia entrambi.
Rif: M. Trizzino e-mail: marcello.trizzino@inwind.it Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
ASSISTENZA DOMICILIARE EMATOLOGICA: UNA RISPOSTA INNOVATIVA ALLE ESIGENZE DI CURA DEL PAZIENTE EMOPATICO
S Ribera, AM Nosari, L Barbarano, M Torretta, C Iazzetta, E Morra
Struttura Complessa (S.C.) di Ematologia, Azienda Ospedaliera Niguarda Cà Granda, Milano, Italia
Introduzione: Presso la S. C. Ematologia dell’A.O. Niguarda vengono ogni anno vengono presi in carico circa 800 nuovi pazienti (pz) affetti da patologie a carattere onco-ematologico. Nuove strategie terapeutiche e più efficaci terapie di supporto hanno modificato la storia naturale delle emopatie maligne: graduale cronicizzazione delle forme ad andamento acuto e complessivo aumento della sopravvivenza dei pz con emopatie sia acute che croniche.Per assicurare un approccio globale ai pz e valorizzare la personalizzazione e la diversificazione del processo di cura, i medici e gli infermieri della Divisione di Ematologia hanno avvertito l’esigenza di offrire alcuni trattamenti anche in regime domiciliare. Nel 2001 è stato elaborato, con il supporto dell’Associazione Malattie del Sangue (AMS) e della Fondazione Cariplo, un progetto di Assistenza Domiciliare Dedicata altamente specialistica, integrata con l’intervento pubblico. Il progetto, dopo una fase pilota durata circa un anno, è diventato pienamente operativo dal 2002.
Metodi: sono stati considerati idonei a tale tipo di assistenza due categorie di pz:
a) con malattia in fase cronica o stadio avanzato che normalmente vengono gestiti dalla degenza ordinaria dal Day Hospital; b) in fase acuta che possono giovarsi di dimissioni protette tra un trattamento intensivo ed il successivo. Le prestazioni garantite sono state: prelievi di campioni biologici, somministrazione di farmaci o di terapie di supporto parenterali, regolazione delle pompe d’infusione per terapie in continuo, nutrizione parenterale, gestione dei cateteri, medicazione di ferite e di decubiti, visite infermieristiche e specialistiche ematologiche. Il servizio è assicurato da uno staff composto da: un medico responsabile del progetto, due infermieri e due medici specialisti che escono sul territorio, una caposala che organizza il piano di lavoro settimanale, una caposala che si
occupa della formazione/aggiornamento del personale infermieristico. Lo staff si riunisce mensilmente per discutere problemi a carattere organizzativo, aggiornare la lista dei pz assistiti e formulare proposte per migliorare il servizio.
Risultati: in 16 mesi (1/1/02 – 30/4/03) sono stati seguiti 41 pz, età compresa tra 21 e 90 anni (media 68), 22 F e 19 M, affetti da: anemia emolitica (2), leucemia acuta (3), leucemia linfatica cronica (1), linfoma non Hodgkin (8), mieloma multiplo (15), S. mielodisplastica/mieloproliferativa (12). La durata media dell’assistenza domiciliare per ciascun paziente è stata di 46 giorni (range 1- 245) per un totale di 1901 giorni. Sono stati effettuati 281 accessi al domicilio (107 nel 2002 e 173 nel I° quadrimestre 2003) per le seguenti prestazioni: 102 prelievi di sangue, 10 prelievi di altri campioni biologici, 75 infusioni per antibioticoterapia o zolendronato o altre terapie di supporto, 34 medicazioni, 16 visite infermieristiche, 58 visite mediche, 22 altro, 4 trasfusioni. L’incremento progressivo degli accessi è stato in parte determinato dalla risoluzione di alcuni ostacoli organizzativi ma anche dal gradimento che l’iniziativa ha raccolto fra i pz. La maggior adesione al progetto e i pareri favorevoli dell’utenza sono stati di incoraggiamento per gli operatori nel proseguire la difficile opera di realizzare ex novo una modalitá di assistenza domiciliare a pz cosí complessi.
Discussione:
La peculiaritá del pz con emopatie maligne e la mancanza di esperienze consolidate nell’ambito dell’assistenza domiciliare ematologica hanno comportato notevoli difficoltà nella fase iniziale di realizzazione del progetto che è diventata pienamente operativa solo dal gennaio 2003. L’intero 2002 è stato finalizzato a reperire, selezionare e formare il personale medico ed infermieristico deputato all’assistenza territoriale. Inoltre sono state affrontate e risolte problematiche procedurali, sono stati impostati protocolli operativi e modulistica necessaria alla razionalizzazione del servizio, è stato formulato un nuovo modello di cartella clinica in corso di informatizzazione. L’assistenza domiciliare ematologica è risultata una modalitá di cura fattibile e meglio rispondente alle esigenze dei pz emopatici che nelle fasi più difficili della propria malattia possono vivere nella continuità degli affetti familiari senza rinunciare ad un’adeguata assistenza medica ed infermieristica.
Rif: F.Toffoletto e-mail: franco.toffoletto@aovimercate.org Sessione: LA RESPONSABILITA’ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
LAVORARE FA MALE ALLA SALUTE ? CONSIDERAZIONI
(e provocazioni) IN MERITO ALL’IDONEITA’ LAVORATIVA
F. Toffoletto, P. Mascagni, C. Carenzi
U.O. di Medicina del Lavoro – Ospedale di Desio (Milano)
Introduzione
La difficoltà a salvaguardare contemporaneamente il bene della salute (il cosiddetto diritto alla salute) e il bene del lavoro (il cosiddetto diritto al lavoro) è comune esperienza, non solo del Medico del Lavoro (per la formulazione del giudizio di idoneità specifica), ma anche del Medico di Medicina Generale (ad es. per la riammissione al lavoro) e di molti specialisti (ad es. per le cautele da proporre per le attività faticose).
Normalmente (salvo che in occasione della visita di assunzione) il “bene salute” prevale nettamente sul “bene lavoro” e ciò per varie ragioni sicuramente giuste, ma anche perché, a mio
giudizio, nell’impostazione culturale di molti medici (in particolare medici del lavoro)
predomina un pregiudizio negativo sul lavoro:
♦ il lavoro viene visto come attività usurante, come inevitabile causa di logoramento psicofisico, di malessere;
♦ la fatica del lavoro viene equiparata ad una situazione patologica;
♦ tale malessere e patologia si ritiene debbano essere “curati” riducendo o eliminando il lavoro.
Discussione
Mi sembra interessante rovesciare l’affronto della problematica dell’idoneità psicofisica al lavoro a partire dalla positività del lavoro, inteso come realtà intrinsecamente utile per il benessere complessivo dell’uomo, non solo dal punto di vista economico-sociale, ma anche, in molti casi, specificatamente dal punto di vista della salute psicofisica.
Il concetto epidemiologico di healthy worker effect (effetto lavoratore sano) mette in luce come nelle popolazioni lavorative, oltre al meccanismo di espulsione dei soggetti portatori di patologie, esistano anche effetti specificamente positivi sulla salute prodotti dal fatto di lavorare:
- maggiori risorse economiche;
- incentivazioni ad una crescita sociale e culturale;
- relazioni interpersonalI che inducono ad un dialogo e ad un confronto,
- finalizzazione del tempo e delle energie;
- inserimento in programmi e sistemi di controllo e promozione della salute;
- partecipazione a momenti di educazione e di informazione igienico-sanitaria;
L’obiettivo primario del medico (ed in particolare del medico del lavoro) dovrebbe essere il mantenimento o il recupero della piena espressione delle potenzialità, anche professionali, del paziente, non la loro riduzione. Anche quando l’intervento del Medico del Lavoro comporta un cambiamento dell’organizzazione del lavoro, una modificazione del contesto lavorativo, lo scopo principale è quello di consentire il recupero più ampio possibile della capacità lavorativa (realizzando così un vero diritto al lavoro).
Non si intende con ciò ribaltare lo slogan (un pò sessantottino e superficialmente distruttivo) che
…lavorare fa male alla salute…, nell’affermazione opposta (altrettanto superficiale), quanto riconoscere una radicale positività dell’operare, del poter fare, anche quando ciò avviene in situazioni personali di difficoltà (per problemi di salute, di affaticamento, di motivazione o altro). Del resto questo atteggiamento è quello che di solito predomina in occasione delle visite di assunzione, quando ogni medico percepisce con maggior evidenza l’importanza che il soggetto possa lavorare e l’esigenza di ridurre all’essenziale le eventuali limitazioni necessarie per proteggere la salute. Da un altro punto di vista basta pensare alla percezione di privazione di un bene che comunemente si verifica quando si perde il lavoro.
Conclusioni
Propongo agli interessati di dar vita ad occasioni di confronto per formulare un percorso di approfondimento sia di fisiologia e medicina del lavoro, che di tipo antropologico (sul valore umano del lavoro) e psicologico (per gli aspetti di tensione alla soddisfazione personale, alla realizzazione di sé), per arrivare a conseguenze operative concrete, non solo nelle attività sanitarie, ma anche nelle politiche delle Risorse Umane, nelle relazioni aziendali, nelle azioni sindacali.
Rif: M. Vanoli e-mail:massimo.vanoli@policlinico.mi.it Sessione: LA RESPONSABILITÀ NELLA PROFESSIONE: UN PROBLEMA DI REGOLE?
VISITE AMBULATORIALI “URGENTI MA DIFFERIBILI”: USO O ABUSO?
M. Vanoli
IRCCS Ospedale Maggiore di Milano
Introduzione
Dal gennaio 1999 è applicata in Regione Lombardia una via preferenziale per le prestazioni ambulatoriali urgenti ma differibili (i cosiddetti “bollini verdi”, dalle caratteristiche dell’etichetta applicata sulle ricette), da erogarsi entro 72 ore dalla presentazione della richiesta. Con tale strumento si è voluta fornire al paziente una modalità d’accesso atta a superare il limite dei tempi d’attesa ordinari, e capace di garantire un utilizzo più appropriato delle strutture
ospedaliere per l’urgenza-emergenza. Nel presente studio si è valutata l’appropriatezza d’uso dei “bollini verdi”, presso un ambulatorio specialistico ospedaliero di branca internistica.
Metodi
Si sono valutate retrospettivamente le prime visite effettuate nel periodo 1.1.2001 - 30.4.2003 presso l’Ambulatorio di Immunologia clinica dell’IRCCS Ospedale Maggiore di Milano, e si sono considerati i “bollini verdi” rilevati nello stesso periodo. Dalle fotocopie delle richieste e dalle schede ambulatoriali compilate all’atto della visita, si sono valutate la correttezza formale e l’appropriatezza sostanziale di ciascuna singola richiesta di visita urgente ma differibile.
Risultati
Su 6135 visite ambulatoriali erogate, 1130 sono state prime visite, di cui 16 (1,4%) richieste dal medico di medicina generale con “bollino verde”. Di queste, solo 9 riportavano un quesito diagnostico riferito a situazione potenzialmente urgente ma differibile; peraltro, anche in 4 di questi 9 casi la visita non aveva poi confermato elementi d’urgenza. Le rimanenti 7 richieste erano prive di quesito o con quesito incongruo. In questi casi impropri, dal colloquio con il paziente era emerso che l’applicazione del “bollino verde” era legata ad una sua esplicita richiesta motivata dallo stato d’ansia, dalla riferita lunghezza della lista d’attesa e/o da esigenze personali.
Discussione
Nella nostra esperienza, le richieste di visita con “bollino verde” rappresentano una evenienza rara: ciò è verosimilmente legato al fatto che nelle poco frequenti e poco conosciute malattie di pertinenza dell’immunologo clinico (connettiviti sistemiche, vasculiti e immunodeficienze primitive), il medico di medicina generale preferisca avviare il paziente con problemi urgenti direttamente al pronto soccorso o comunque, in situazione d’urgenza differibile, allo specialista d’organo competente (dermatologo, cardiologo, nefrologo, ecc.).
Nei casi da noi osservati in un periodo di oltre 2 anni, la visita specialistica ambulatoriale urgente ma differibile si è confermata effettivamente tale solo in un terzo circa dei pazienti. L’appropriatezza clinica di questa procedura mancava infatti già “a priori” in oltre il 40% dei casi (forme croniche, assenza d’urgenza, altra competenza specialistica) e tale frequenza aumentava sino al 69% nella valutazione “a posteriori”, comprendendo le richieste rivelatesi poi ingiustificate, sebbene formalmente corrette.
L’uso improprio del “bollino verde” aveva varie motivazioni. In nessun caso di trattava di vero errore diagnostico del medico prescrittore e solo sporadici erano i casi di eccessiva accondiscendenza a esigenze puramente organizzative del paziente. Le motivazioni addotte con maggior frequenza erano invece legate ai tempi delle liste d’attesa (che erano invece nei limiti fissati dalla regione) e allo stato d’ansia del malato, al disagio che ne era derivato al medico, ed anche alla preoccupazione di quest’ultimo di tutelarsi.
La scarsa numerosità del campione descritto non consente di generalizzare quanto osservato. Ma se questi risultati saranno confermati su casistiche più ampie e per competenze diverse, sarà utile recuperare anche in questo ambito un più adeguato rapporto tra il medico ed il paziente, così che la professionalità del primo possa pienamente incontrare la fiducia del secondo; ne trarrà vantaggio anche l’interazione tra medico di medicina generale e medico specialista ospedaliero.
LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
Rif: D. Domini e-mail: d.domini@libero.it
Sessione:LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
I METODI NATURALI PER LA REGOLAZIONE DELLA FERTILITA’
P.Bordin, M.Barbato, M.Boerci, G. Bozzo, L.Carli, D. Domini, E. Grimaudo, E.Zampieri Associazione “La Bottega dell’Orefice” , Centro Ambrosiano metodi Naturali
Introduzione
I Metodi Naturali per la regolazione della fertilità (MN):
- aiutano la donna a conoscere il proprio corpo tramite l’osservazione dei segni e sintomi della fase fertile del ciclo mestruale,
- aiutano la coppia a capire i propri tempi di fertilità e sterilità
- educano ad una crescita globale della coppia e della persona
Metodi
Il concetto di fertilità o sterilità non è un termine assoluto riferito ad un solo soggetto, ma rimanda alla relazione con un’altra persona (fertilità di coppia).
Gli ormoni sessuali femminili prodotti dalle ovaie ad ogni ciclo mestruale, provocano specifici cambiamenti nella struttura e funzione degli organi genitali, che possono essere percepiti dalla donna in maniera facile ed affidabile.
I principali sono:
a) muco cervicale: prodotto nel collo dell’utero, nella fase estrogenica o preovulatoria da opaco diventa trasparente e da appiccicoso diventa filante. Queste caratteristiche del muco
consentono il passaggio degli spermatozoi e vengono perse con l’inizio della fase postovulatoria.
b) collo dell’utero: nella fase estrogenica diventa morbido al tatto, si apre nel suo orifizio esterno e si sposta verso l’alto della vagina
c) temperatura basale: nella fase preovulatoria si mantiene su valori bassi; durante la fase postovulatoria si innalza stabilmente di alcuni decimi di grado.
I MN più usati sono:
Billings o Metodo dell’Ovulazione: si basa esclusivamente sulla rilevazione del muco cervicale. Sintotermico: utilizza diversi segni di fertilità, facendo particolare attenzione al muco cervicale ed alla temperatura basale.
Risultati
I MN si imparano rivolgendosi ad un insegnante qualificato presso i centri di consulenza diffusi a livello nazionale. L’insegnante è un esperto nella conoscenza della fertilità, segue una formazione permanente, è un educatore che costituisce una proposta vivente offerta alla libertà dell’utente. L’insegnamento dei MN presuppone un rapporto di fiducia tra insegnante e utente, un percorso metodologico e dei tempi di apprendimento precisi (solitamente 4 - 6 mesi.
Efficacia dei Metodi Naturali
Dipende dal metodo, dall’insegnamento e dal corretto uso. Si distingue un’efficacia teorica, calcolata in condizioni ideali, ed un’efficacia pratica misurata nella realtà.
I principali metodi di valutazione dell’efficacia sono l’indice di Pearl (rapporto percentuale tra gravidanze non programmate e mesi d’uso del metodo) e attualmente le Life Tables (% di donne che hanno avuto una gravidanza nel periodo di un anno). Il secondo metodo è più complesso ma più preciso perché tiene conto di molte variabili (età, numero di coppie studiate e loro caratteristiche, durata d’uso del MN).
Gli insegnanti de “La Bottega dell’Orefice” hanno seguito in questi anni migliaia di coppie, di cui un’altissima percentuale sta ancora utilizzando il MN. Il tasso di abbandono è normalmente del 6,3%
L’efficacia di uso misurata con l’indice di Pearl è 0,44 – 3,68 (quello della pillola è 0,03 – 2,5) Si stanno sperimentando nuove tecnologie (stick urinari per gli ormoni sessuali, termometri elettronici, test enzimatici sul muco cervicale o saliva) che con l’analisi computerizzata dei dati consentono l’autodiagnosi della fertilità. Queste metodiche attualmente non danno una maggiore affidabilità rispetto ai MN tradizionali.
Conclusioni
I MN più moderni (Sintotermico e Billings) hanno solide basi scientifiche che ne consentono un’efficacia simile ai contraccettivi, ma si distinguono da questi per l’attenzione a tutti gli aspetti della persona e della coppia, l’assenza di controindicazioni, l’economicità.
Fondamentali per l’efficacia d’uso sono le motivazioni per cui la coppia li sceglie.
Rif: G. Caocci e-mail: caocci@inwind.it
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
LIMITI E PROSPETTIVE DEL TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO NON CORRELATO IN PAZIENTI AFFETTI DA BETA TALASSEMIA OMOZIGOTE: UN PROBLEMA ETICO ED ECONOMICO
Caocci G, Pisu S,* La Nasa G
Centro Trapianti Midollo Osseo, Ospedale “R. Binaghi” ASL 8 Cagliari
*Bioeticista ASL 3 Nuoro
Introduzione. Il trapianto di midollo osseo (TMO) allogenico da donatore familiare ha radicalmente cambiato la prognosi dei malati di beta talassemia omozigote, conseguendo nei pazienti più giovani percentuali di sopravvivenza libera da malattia del 91%. Sfortunatamente, la probabilità di reperire un donatore familiare geneticamente compatibile è solo del 30%, mentre il restante 70% dei pazienti non ha altre opzioni se non quella di rivolgersi ai registri nazionali ed internazionali di donatori di midollo osseo volontari. Il TMO da donatore non familiare ha conseguito nell’ultimo decennio un notevole incremento grazie al progressivo miglioramento delle applicazioni della biologia molecolare nello studio della compatibilità HLA e al numero crescente di donatori. Sono state così raggiunte percentuali di guarigione sempre più prossime a quelle ottenute con il TMO da donatore familiare. Tuttavia sono ancora molteplici le problematiche etiche ed economiche legate a tale procedura. Nei pazienti talassemici adulti,
specialmente in coloro che sono stati sottoposti ad un regime trasfusionale e di ferrochelazione non ottimale, la percentuale di mortalità trapianto correlata (TRM) raggiunge valori del 30%. Tale percentuale impone delle riflessioni sul piano etico, considerando che, senza trapianto, la vita media di questi pazienti può raggiungere 33-34 anni. Tali procedure, inoltre, hanno costi assai elevati, non sempre riconosciuti dagli attuali DRG. La Regione Sardegna corrisponde al riguardo un rimborso di circa 25.000 euro a fronte di un costo economico medio stimato in circa
100.000 euro.
Metodi. Sono stati arruolati negli ultimi 10 anni 32 pazienti con beta talassemia omozigote (11 F, 21 M, età media 14 anni, range 2-28). I pazienti sono stati suddivisi in 3 classi di rischio in accordo con la classificazione di Lucarelli che esamina i seguenti fattori: epatomegalia, fibrosi epatica, qualità della ferro-chelazione. Quattro pazienti sono stati assegnati alla classe I (rischio minore), 11 alla classe II e 17 alla classe III (rischio maggiore). Tutti i pazienti sono stati avviati a TMO da donatore volontario.
Risultati. Complessivamente 22 pazienti (69%) sono vivi e indipendenti dalle trasfusioni dopo un follow-up mediano di 30 mesi. Sei pazienti (19%) sono deceduti per TRM. In 4 casi (12.5%) si è verificato il rigetto del nuovo midollo con ricostituzione della situazione precedente. Cinque dei 6 pazienti deceduti appartenevano alla classe di rischio III e solo 1 alla classe di rischio II. All’interno della classe III la percentuale TRM sale al 39%, contro il 20% della classe II e lo 0% della classe I.
Discussione. I pazienti con beta talassemia omozigote hanno come unica prospettiva di guarigione il TMO. Risultando spesso indisponibile un donatore familiare, frequentemente è necessario ricorrere ai donatori volontari dei registri. La procedura del TMO allogenico non correlato è gravata nei pazienti ad alto rischio da una percentuale di mortalità del 39%. Può essere considerato etico proporre ad un paziente, con una prospettiva quod vitam relativamente lunga, tale terapia? Che rilevanza ha il fatto che il TMO rimane l’unica procedura in grado di garantire la guarigione definitiva in una persona che comunque, inevitabilmente, andrà incontro ad exitus per le complicanze legate alla sua malattia di base? Quale comprensione ha il paziente di tale rischio, anche se durante il colloquio pre-trapianto si cerca di comunicare il più possibile? La procedura del TMO può essere ritenuta etica per una patologia in cui per la sua prevenzione è largamente praticato l’aborto terapeutico? Considerando un costo medio del TMO pari a circa 100.000 euro con un rimborso DRG pari a 25.000 euro, è lecito eseguire delle procedure così onerose per i conti della sanità inserite nei vari contesti regionali, considerando che spesso mancano le risorse per gestire persino l’ordinario?
Noi riteniamo proponibile il TMO non correlato in pazienti beta talassemici in classe di rischio I e II, riservando la procedura in classe III solo per pazienti particolarmente motivati e ben consapevoli del rischio di mortalità. In questo caso è decisivo il rapporto medico-paziente in tutta la sua globalità per riscontrare delle motivazioni adeguate e non solamente una scelta disperata. Per quanto riguarda le risorse economiche siamo convinti che la salute abbia un costo, ma non abbia prezzo.
Rif: ASS. ONLUS CASE PER L’ACCOGLIENZA “DOMUS DEI” www.domusdeionlus.it Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
STORIA
Nel 1992 l’esperienza di bisogno vissuta da una famiglia nell’assistenza ad un proprio congiunto malato e lontano da casa, apre alla disponibilità ad accogliere, in un appartamento di Milano, i familiari di una persona malata provenienti da un’altra città.
Nel 1993 dieci amici costituiscono l’Associazione Case per l’Accoglienza “Domus Dei” con lo scopo di accogliere i malati e i loro familiari costretti, dalla necessità di assistenza e cura, ad allontanarsi dalla propria casa, con l’iniziale disponibilità di tre appartamenti.
Nel 1997 l’Associazione è stata riconosciuta nell’albo del volontariato della Regione Lombardia; vi fanno parte oltre 200 soci ed accoglie, nei nove appartamenti disponibili in Milano e nei due siti del suo hinterland, circa 623 persone per un totale di 227.395 giornate di presenze annue.
ESPERIENZA
Questi anni di accoglienza e di amicizia ci mostrano continuamente l’inizio di un popolo nuovo: persone diverse per storia, condizioni sociali, temperamenti, che si accolgono e si rispettano per
quello che sono, condividono un pezzo della loro strada, si sostengono nei piccoli e grandi bisogni quotidiani e nelle domande fondamentali della vita.
Il coinvolgimento con gli Ospiti delle nostre case ha condotto molti a ritornare presso chi era stato
loro vicino nel momento della fatica e del dolore e a inviare, nello stesso luogo, amici e conoscenti in difficoltà.
PROBLEMI
1. L’esperienza di questi anni di lavoro, ha evidenziato la realtà del pendolarismo sanitario centro-meridionale, verso le strutture sanitarie specializzate in alcuni settori (cura dei tumori, trapianti d’organo etc.). Vedi la allegata tabella.
2. Nei pressi dei vari ospedali, mancano strutture alberghiere per lunghe permanenze a prezzi accessibili e capaci di accogliere per lunghe permanenze a prezzi accessibili e capaci di accogliere malati che necessitano di particolari condizioni di protezione igienica. Gli ospedali con cui siamo venuti in contatto, perlopiù ignorano tale realtà e si accontentano di chiedere all’ammalato e ai loro parenti di cercarsi un alloggio che li possa ospitare. Ad esempio, i trapiantati di midollo osseo, necessitano dopo le dimissioni di permanere nei pressi dell’ospedale a lungo tempo e richiedono condizioni abitative di isolamento rispetto ad altre persone e di norme di protezioni igienico sanitarie che non sono reperibili negli alloggi in affitto.
3. Ci chiediamo se l’ospedale possa accontentarsi di affrontare la patologia dal punto di vista clinico, oppure se debba affrontare la globalità della persona e le problematiche connesse con le patologie in pazienti fuori sede. Cercando tutti i coordinamenti possibili con le opere che si rivolgono all’accoglienza.
PROPOSTE
• Coordinamento fra Direzione Sanitaria degli ospedali e opere di accoglienza.
• Reperimento locali e/o reparti da destinare all’accoglienza.
• Convenzioni tra gli ospedali e le vicine strutture alberghiere.
Rif: S. De Angelis e-mail: sdean@libero.it
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
LASCIARSI PROVOCARE DA UN PROBLEMA:
LA CECITA’ IN INDIA
I. Figini*, S. de Angelis**, A. Resta*, G. Mancarella*, G. Gambaro*, R. Rocchitelli*, L. Gagliardi
• * Divisione di Oculistica Ospedale “Valduce” di Como
• **Clinica Oculistica Ospedale “Sacco” di Milano
Introduzione: un dato di fatto
Un’indagine trasversale eseguita negli anni ’70 dall’Indian Council for Medical Research ha stabilito che in India vi sono circa 9 milioni di persone cieche; il 55% di questi, circa 5 milioni,
sarebbero cieche a causa della cataratta. (Rajendra T. Vyas: “Catract blindness in India and the People’s Republic of China”. A.P. Journal of Ophthalmol. Vol. 2 N.1 April 1990.)
Uno studio longitudinale pubblicato nel 1990 fornisce dati sull’incidenza della cecità per cataratta, ovvero sul numero di nuovi casi di cecità per cataratta per ogni anno. Lo studio condotto nell’India centrale (Arans Block of Raipur District) su 1735 persone di età superiore a trenta anni, selezionate in maniera randomizzata da una popolazione di 100.000 persone, ha evidenziato che il numero stimato di nuovi casi di cecità per cataratta è di 470 per anno per 100 mila persone a rischio; pertanto il numero di nuovi casi per anno esteso all’intera regione sarebbe di 3.811.185. (D.C. Minassian, V. Mehra: “3.8 million blinded by cataract each year: projections from the first epidemiological study of incidence of cataract blindness in India”. BrJOphthalmol. 1990, 74: 341-343)
I dati più recenti indicano in 82 milioni le persone con problemi oculari, il 39,9% delle quali è affetto da cataratta. Si stima che il numero debba salire a 139 milioni nel 2020. (Dandona R, Dandona L, Srinivas M, Giridhar P, Prasad MN, Vilas K, McCarty CA, Rao GN. Moderate visual impairment in India: the Andhra Pradesh Eye Disease Study. BrJOphthalmol 2002 Apr; 86(4): 373-7)
Secondo altri autori, il numero di persone cieche per cataratta sarebbe pari a 9.5 milioni. (Dandona L, Dandona R, John RK. Estimation of blindness in India from 2000 through 2020: implication for the blindness control policy. NatlMedJIndia 2001 Nov-Dec; 14(6): 327-34.)
Inoltre vari studi enfatizzano l’elevata incidenza di cataratta nei bambini e nelle donne in età fertile con più di tre gravidanze. Il 15% dei casi di cataratta non traumatica dei bambini è dovuto a sindrome congenita da infezione da Rubeovirus, il 25% a fattori ereditari e il 51% a cause indeterminate. (Eckstein M, Vijayalakshmi P, Killedar M, Gilbert C, Foster A. Aetiology of childhood cataract in south India. BrJOphthalmol 1996 Jul; 80: 628-32) (D.C. Minassian, V. Mehra and A Reidy. Childbearing and risk of cataract in young women: an epidemiological study in central India. BrJOphthalmol 2002; 86: 548-550)
Su un campione di 5268 persone delle zone rurali dello stato dell’ Andra Pradesh, sono stati estrapolati dati sul decorso post-operatorio di 129 occhi di 106 persone precedentemente operate: il 39.5% era ceca dopo l’intervento. Attualmente in India si eseguono 3.5 milioni di interventi all’anno con una percentuale di successo pari a circa il 60%. Per eliminare la cecità da cataratta in India, sarebbero necessari ogni anno 9 milioni di interventi di buona qualità nel periodo fra il 2001 e il 2005, che salirà a 14 milioni all’anno fra il 2016 e il 2020. (Dandona L, Dandona R, Anand R, Srinivas M, Rajashekar V. Outcome and number of cataract surgeries in India: policy issues for blindness control. Clin Experiment Ophthalmol 2003 Feb; 31: 23-31)
Metodi: un incontro
Nel 1986 abbiamo incontrato un amico missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, Padre Augusto Colombo, che vive in India da 50 anni e da 30 svolge la sua opera a Warangal, centro di circa 200.000 abitanti nello stato dell’Andra Pradesh. Padre Colombo, essendo a conoscenza delle dimensioni del problema della cataratta ci chiese se fossimo disponibili per operare la cataratta in eye camps, il cui allestimento nelle zone rurali veniva promosso dal Governo.(Reddy Siva P. Cataracteye camps in India. Past, present and future. Atti del XXVI ICO Singapore 1990)
Risultati e discussione: una proposta di adesione
Abbiamo detto di si.
Il pionierismo iniziale si è trasformato nel tempo, sotto i nostri occhi, in un’ Organizzazione, l’Associazione Amici di Padre Colombo, che ha consentito la crescita della missione e il continuo reperimento di fondi.
Acquistati in Italia un microscopio operatorio, i ferri chirurgici e le lenti intraoculari (IOL), abbiamo iniziato ad operare per periodi di 15 giorni due volte all’anno, appoggiandoci ad un
ospedale della missione di “Fatimanagar”, con tecnica di estrazione extracapsulare con impianto di IOL. All’inizio era una rivoluzione perché in India si eseguivano solo estrazioni intra- capsulari. Il numero di interventi giornalieri ha subito un progressivo incremento, tanto da indurci, a metà degli anni ’90, a garantire una continuità a questa opera mediante la preparazione di due oculisti e l’ammodernamento delle apparecchiature.
Infine, nel 2000, è stato aperto il Nava Drushty Eye Center (Tab. 1), un Ospedale Oftalmico dove si eseguono più di mille interventi all’anno secondo quanto riportato in tabella 2, in buona parte con tecnica di facoemulsificazione, che rappresenta la tecnica di prima scelta nei Paesi industrializzati
“NAVA DRUSHTI EYE CENTER”: PERSONALE ED APPARECCHIATURE 1 resposabile (religiosa dell’Ordine della Presentazione) 2 medici oculisti indiani 2 infermiere ferriste (religiose dell’Ordine della Presentazione) 6 infermiere per la preparazione e l’assistenza ai malati 2 ambulatori per visite 2 microscopi operatori 1 yag-laser 1 facoemulsificatore Tab. 1 |
“NAVA DRUSHTI EYE CENTER”: NUMERO E TIPO DI INTERVENTI/ANNO - numero totale per anno: 1200 - interventi eseguiti durante l’ “eye camp” (1 settimana): 300 - estrazioni extracapsulari: 500 - facoemulsificazioni: 700 |
Rif: P. Del Poggio e-mail: pdpoggio@ospedale.treviglio.bg.it Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
PROGETTO DI ASSISTENZA PRIMARIA NELLA CAMPAGNA DI MANABI’(ECUADOR): COLLABORAZIONE TRA UN OSPEDALE ITALIANO ED UNA FONDAZIONE SANITARIA ECUADOREGNA.
H.A. Alava Diaz, J.I. Haro Alvarado, W. Petrò^, L.Re^, P.Del Poggio^, G. Zavaglio* Fundacion Segnor de La Buena Esperanza (Portoviejo, Ecuador).
^ Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Treviglio (Bg) * ARPA (Milano)
Premessa:: la campagna della provincia di Manabì (Ecuador) non è adeguatamente assistita dal punto di vista sanitario a causa della dispersione della popolazione e dell’assenza di centri
di salute attrezzati. Nell’ambito della popolazione rurale il settore materno infantile soffre di maggiore morbilità e mortalità per l’estrema povertà delle famiglie, la malnutrizione cronica, le infezioni intestinali e la malaria. Una Fondazione Sanitaria privata, emanazione di una parrocchia di Portoviejo ove operano due missionari italiani, è attiva da 10 anni in questo settore attraverso convenzioni stipulate con le Autorità Sanitarie locali ed interventi autogestiti (apertura di una farmacia, programma di desparassitazione in un sobborgo della città). La Fondazione sta anche lavorando per aprire una piccola unità di patologia Neonatale diretta dai neonatologi dell’ospedale cittadino, in collaborazione con neonatologi italiani dell’Ospedale di Treviglio.
Progetto: La Fondazione ha elaborato un progetto di assistenza materno infantile in due distretti della campagna di Manabì (21.000 abitanti dei quali 4200 sotto i 6 anni, 85% in stato di povertà estrema). Il progetto si inserisce in un programma di educazione pre-scolare sostenuto dall’AVSI e gestito dall’Arcidiocesi di Portoviejo con educatori itineranti. L’obiettivo generale è il miglioramento dello stato di salute nella popolazione con particolare riguardo all’area materno infantile. Gli obiettivi specifici sono a) il controllo delle parassitosi intestinali per mezzo della somministrazione periodica di antielmintici nelle scuole (secondo le linee guida dell’OMS) b) un progetto di medicina comunitaria attraverso la formazione di agenti di salute e la creazione di una piccola farmacia di villaggio, dotata dei farmaci essenziali c) la collaborazione con i medici del sistema sanitario nazionale (Subcentros de Salud) per attivare un aggiornamento periodico secondo le direttive dell’OMS (Asistencia Integrada a Las Enfermedades Prevalentes de la Infancia).
I controlli dei bambini (curva di crescita, vaccinazioni, esami, controllo odontoiatrico) sono garantiti dall’autorità pubblica attraverso uscite trimestrali di equipes plurispecialistiche.
Tappe del progetto: La Fondazione si avvale della collaborazione di operatori sanitari ecuadoregni volontari, di due medici che effettuano il tirocinio obbligatorio post laurea e di un’organizzazione di volontariato italiana 1) nella prima fase è iniziato un intervento di controllo dei parassiti nelle aree maggiormente colpite (la diffusione dei parassiti è stata precedentemente determinata con esami fecali nelle scuole elementari). 2) nella seconda fase due medici ecuadoregni hanno effettuato un corso di Medicina Tropicale in Italia, presso gli Spedali Civili di Brescia, ed hanno elaborato il sottoprogetto di medicina comunitaria 3) nella terza fase (Ottobre 2003) inizierà questo sottoprogetto con la formazione degli agenti di salute. Indicatori: Sono stati individuati indicatori di processo per monitorare l’intera fase di attuazione. Sono stati anche definiti gli indicatori di risultato del sottoprogetto sul controllo parassiti e sulla copertura vaccinale mentre vi sono difficoltà nel reperire dati attendibili sulle altre patologie (diarree infettive, malaria).
Conclusioni: la capacità della Fondazione di coordinare il suo intervento con le autorità pubbliche ecuadoregne, con i volontari locali e con l’organizzazione di volontariato italiana spiega il successo sinora registrato nelle fasi di svolgimento di questo progetto.
Rif: D. Domini e-mail: d.domini@libero.it
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
LA BOTTEGA DELL’OREFICE
Proposta per la diffusione della regolazione naturale della fertilità
D. Domini, M. Barbato, M.BoercI, P. Bordin, G.Bozzo, L.Carli, E.Grimaudo, E. Zampieri
Introduzione:
La “Bottega dell’Orefice” è un’associazione di volontariato tra operatori della regolazione naturale della fertilità per la promozione della vita coniugale e l’educazione alla sessualità.
Fondata nel 1990 dall’èquipe degli operatori del Centro Ambrosiano Metodi Naturali (C.A.Me.N) e da loro amici, è sorta con l’intento di costituire un luogo di lavoro e confronto tra persone appassionate al bene della famiglia.
Il nome prende origine dall’omonimo titolo di un’opera letteraria di Karol Woityla.
La sede nazionale è a Milano in via S. Antonio 5, e negli ultimi anni sono sorte delle sedi regionali in Puglia-Basilicata (sede Appulo-Lucana), in Sicilia e in Friuli Venezia Giulia.
Attività dell’ associazione:
- Formazione degli insegnanti della regolazione naturale della fertilità.
Dalla fondazione ad oggi sono stati organizzati 17 corsi nazionali, sia nella sede principale che nelle sedi regionali.
Si sono diplomati 127 insegnanti.
Il corso è costituito dalla parte teorica di 96 ore, dal tirocinio pratico con 40 consulenze e dall’esame finale.
L’aggiornamento a cui tutti gli insegnanti sono tenuti è annuale.
- Consulenza a singoli e coppie sui Metodi Naturali
Il periodo di formazione per rendere autonoma la coppia nell’utilizzo dei Metodi Naturali dura almeno sei cicli , con consulenze personalizzate.
E’ prevista la compilazione mensile di una scheda per la registrazione dei sintomi della fertilità (temperatura basale e muco cervicale).
- Ricerca scientifica in collaborazione con associazioni culturali e Università
- “Ricerca multicentrica internazionale sull’invecchiamento dei gameti: risultati di gravidanze di utenti della regolazione naturale della fertilità” in collaborazione con l’Università di Tennesse, la Johns Hopkins University, la Georgetown University, La Pontificia Università Cattolica del Cile.
- Ricerca epidemiologica del prof. Bernardo Colombo (Università di Padova) sulla diffusione della regolazione naturale della fertilità in Italia (Atti del Convegno: “La regolazione Naturale della Fertilità: Scienza, Cultura, Esperienza verso il 2000”)
- Sperimentazione di nuove tecnologia per l’individuazione del periodo fertile
- Organizzazione e partecipazione a seminari e congressi internazionali sui Metodi Naturali
- La regolazione Naturale della Fertilità: Scienza, Cultura, Esperienza verso il 2000 (Milano, 9- 12 dicembre 1993) congresso internazionale.
- La regolazione Naturale della Fertilità: ruolo futuro e sviluppi (Milano 28 giugno-2 luglio 2000) congresso internazionale.
- Corsi di educazione all’affettività e alla sessualità per alunni, insegnanti e genitori
- Diversi corsi di educazione all’affettività sono stati realizzati dagli associati nelle varie sedi.
- Attualmente è in svolgimento un corso nazionale sull’affettività e la sessualità per educatori organizzato della sede Appulo-Lucana in collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia, dal titolo“PER EDUCARE IL CUORE DELL’UOMO” (marzo-dicembre 2003)
- Promozione della cultura del rispetto della persona, della vita umana dal concepimento e
valorizzazione della famiglia
- Molti operatori nelle varie sedi collaborano centri culturali e con le istituzioni pastorali locali per i corsi di preparazione al matrimonio, per incontri con gruppi di famiglie, giovani coppie ed adolescenti.
- Gestione di un sito web con informazioni sui metodi naturali di regolazione della fertilità, aggiornamenti sulle ultime scoperte scientifiche, informazioni e promozione degli incontri che vengono tenuti dall’Associazione nelle varie sedi, mail-list per gli insegnanti dei M. N.
- www.metodinaturali.it - una media di 200 visite alla settimana.
Rif: S. Falcinelli e-mail: stefalci@tin.it
Sessione : I LIMITI E LE PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
IL RUOLO DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE
Stefano Falcinelli, Presidente OMCeO Ravenna
Introduzione
Il MMG è la figura centrale del sistema sanitario per la sua diffusione capillare, l’approccio olistico e il rapporto amichevole e confidenziale che instaura con i propri pazienti; è un medico essenzialmente clinico dotato di un sopporto tecnologico di base.
Per migliorare la qualità della propria attività è necessario che vengano ridotte le incombenze burocratiche, che venga sviluppata l’apertura degli studi su appuntamento e incrementata l’attività in forma associata.
I compiti
I compiti del MMG si possono ricondurre a tre fondamentali
1. prevenzione primaria : educazione a corretti stili di vita, la medicina d’iniziativa, l’epidemiologia su territorio
2. prevenzione secondaria : l’organizzazione di ambulatori per patologia e la promozione degli studi di esito sul territorio (presenterò alcuni dati del progetto PANDORA sulla prevenzione del rischio cardiovascolare)
3. gestione della cronicità : perfezionare l’assistenza domiciliare, aumentare le dimissioni protette, sperimentare sempre di più forme di ospedale di comunità, aumentare gli accessi del MMG ai luoghi di ricovero.
Le criticità
La difficile situazione del nostro sistema sanitario è data prima di tutto dal crescente divario tra la domanda di salute da parte dei cittadini in continua espansione e le risorse economiche che non possono far fronte a questa richiesta (rapporto tra l’efficacia produttiva e quella distributiva).
In questo contesto il MMG, di fatto regolatore dell’intero sistema, rischia concretamente di non poter far fronte all’espansione delle richieste con gli strumenti attuali, fra crescenti vincoli di spesa e normative preoccupanti e dannose per la tutela di un corretto rapporto medico paziente; è soggetto a un concreto e quotidiano rischio di burn-out, si dibatte tra una medicina del sintomo e una medicina della persona, tra le evidenze della medicina e il costante richiamo alla propria arte, filtrando le certezze scientifiche alla luce della propria esperienza e rendendole efficaci con la sollecitudine nei confronti della persona malata che gli sta di fronte.
Conclusioni
In questo contesto potrebbe essere utile introdurre nuovi istituti nell’ambito della Convenzione per la medicina generale o almeno nelle trattative regionali e locali: da forme di pagamento a prestazione (concreto incentivo a specializzarsi) a tentativi di sperimentazione di budget parziale gestito direttamente dal MMG fino a trovare modalità di finanziamento per chi vuole svolgere un ruolo di tipo imprenditoriale.
NOTA : la comunicazione è supportata da una presentazione in formato PowerPoint contenente 32 diapositive con una durata prevista di 10 – 15 minuti.
Rif: F. Franchi e-mail: fabiafranchi@infinito.it
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
L’INFERMIERE NELLA RETE DEI SERVIZI PER UN APPROCCIO GLOBALE NELL’ASSISTENZA ALL’ANZIANO: UN’ESPERIENZA
F. Franchi, Infermiere Dirigente, Responsabile del Servizio Infermieristico e Tecnico del Dipartimento Cure Primarie- Azienda USL Città di Bologna.
Introduzione
E’ noto come la popolazione invecchia in modo progressivo a fronte di una diminuita natalità e di una progressiva crescita dell’aspettativa media di vita. La relazione tra morbilità, mortalità e disabilità ha importante influenza sulla qualità e tipologia di interventi da garantire ed organizzare. I bisogni espressi saranno sempre più legati a cure con diversificate caratteristiche ed intensità assistenziali.E’ infatti opportuno chiedersi su quali fronti orientare i prossimi investimenti, in quanto l’aumento di anziani non autosufficienti imporrà scelte economiche sociali ed etiche forti. Il Piano Sanitario Nazionale scandisce il futuro da questo punto di vista e dà le linee alle Regioni per lo sviluppo locale delle iniziative. L’Emilia Romagna in particolare con la L.5/94, la DGR 124/99 e la recentissima L.32/2003 sancisce e definisce gli interventi integrati a tutela della popolazione anziana.
Metodi
Sarà necessario, in alcuni casi, ricorrere a strutture protette erogatrici di diversi livelli di intensità assistenziale, in altri sarà possibile e necessario mantenere l’anziano all’esterno di una struttura di ricovero . Sono sempre maggiori le situazioni che ricercano risposta attraverso soluzioni a domicilio. Certamente anche queste soluzioni, per quanto preferibili, non sono prive di luci ed ombre. Per la famiglia significa stravolgere equilibri ed abitudini personali e collettivi, significa scandire il tempo con “ritmi assistenziali “ molto impegnativi che incidono sulla vita di relazione personale e professionale. La risposta ad un tale scenario non può che essere una risposta di sistema . Una risposta articolata, per permettere la risoluzione di problematiche diverse, per tipologia e quantità.. La componente sociale e quella sanitaria sono talmente imbricate tra loro che, il più delle volte, è difficile distinguerle. Per quanto detto finora paiono fondamentali e imprescindibili gli elementi concettuali della Valutazione Multidimensionale, della Continuità Assistenziale e del Coordinamento ed Integrazione degli interventi per “unire le forze e non sovrapporre”, per dare risposte efficaci e complete. Elementi in cui la professione infermieristica si riconosce ed assume un ruolo attivo attraverso l’applicazione di modelli organizzativi e lo sviluppo del pensiero infermieristico basato sulla presa in carico.
Risultati
L’infermiere con la peculiarità delle sue competenze valutative ed educative, oltre che tecniche, ha modo di esprimere una professionalità che, in quest’area, ha trovato buone condizioni per farsi breccia. Non era così scontato nemmeno da parte infermieristica che si potessero sviluppare aspetti della professione di così ampio respiro, sempre auspicati, ma difficilmente applicati fino ad oggi nella realtà italiana. L’Unità di Valutazione Geriatria, ad esempio, vede l’infermiere come uno dei tre professionisti componenti, che devono approcciarsi in modo globale alle esigenze dell’anziano. Nell’ambito dell’assistenza domiciliare altresì, è stato possibile sperimentare il Case management infermieristico attraverso la figura del Responsabile del caso, come colui che partecipa alla valutazione del bisogno e alla pianificazione degli interventi. Ma soprattutto come colui che deve garantire il coordinamento e l’integrazione tra gli operatori e i servizi della Rete Assistenziale. La relazione affronta inoltre il concetto delle cure primarie e del loro sviluppo attraverso la costituzione dei Nuclei di Cure Primarie come moduli organizzativi di ridotte dimensioni, come team multi- professionali, presenti nel territorio e deputati a garantire l’assistenza di base e la continuità assistenziale per la popolazione tutta, in particolare, per quella affetta da malattie croniche ed anziana.
Discussione
Quali prospettive allora per la professione infermieristica e quali altre risposte alla domanda assistenziale? L’attivazione di ambulatori infermieristici dove sia possibile rispondere ad esigenze di assistenza primaria, prendere in carico pazienti target sulla base di precisi Profili
Clinico-assistenziali e, per ora futuribile, la presenza dell’Infermiere di famiglia, come colui che l’OMS definisce la via d’ingresso verso l’assistenza primaria, come colui che sa integrare la lettura e il funzionamento di due sistemi: il mondo vitale del paziente e il mondo sanitario.
Parole chiave: Rete dei Servizi, approccio globale, presa in carico, continuità assistenziale ambulatoriale e domiciliare.
Rif: G. Gasparrini e-mail: <ggasparrini@virgilio.it> Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
Giampiero Gasparrini, Medico di Medicina Generale
Introduzione
Intendiamo per cure primarie la medicina generale sul territorio,le terapie,la riabilitazione e la diagnostica di primo livello.
I limiti e le prospettive sono determinati da:
a) Quello che la popolazione afferente allo studio si aspetta dal medico e dal suo team
b) I tetti di spesa che il medico deve rispettare
c) Quante energie e risorse fisiche,psichiche ,affettive,economiche il medico e’ disposto a investire nel suo lavoro,paragonandole al ritorno economico e di immagine e di gratificazione personale che si aspetta
d) L’ampiezza e la profondita’ delle competenze del medico (quello che conosce e sa fare)
e) Quello che dal medico si aspettano gli amministratori delle AUSL
f) Quanto gli amministratori delle AUSL credono nelle potenzialita’ della medicina generale
Metodi
Osservazioni tratte dall’esperienza quotidiana
Risultati
a) Il pagamento a quota capitaria spinge il MMG a contattare molti pazienti per un tempo breve,rimandando gli approfondimenti,anche semplici,sia basati sulla tradizionale semeiotica,sia sulla diagnostica strumentale di primo livello,ad altre figure professionali
b) Essenziali sono i collaboratori di studio x filtrare l’accesso degli assistiti,essenziale è che i locali dove si lavora siano ampi e numerosi
c)Essenziale e’ il tempo dedicato al paziente:una prestazione ottima,ma frettolosa viene interpretata dalla maggioranza degli assistiti come una cattiva prestazione
d) Quanto più aumenta il livello socioeconomico e l’informazione degli assistiti,tanto meno essi ricorrono alla MG,ma più alla medicina specialistica e a pagamento,che dedica molto più tempo e mezzi al bisogno della persona
e) Il MMG e’ una presenza costante e gradita alla popolazione,che lo consulta frequentemente
f) E’ capace,quando necessario, di smussare le rigidita’ e di appianare le incongruenze del sistema sanitario.
Discussione
Le prospettive per il MMG italiano non sono buone ,perchè
a)i soldi che gli amministratori vogliono dedicare alla MG sono pochi e in futuro saranno ancora meno
b)la centralita’ del MMG,continuamente affermata,è una centralita’ soltanto burocratica e di controllo della spesa e altri settori della medicina continuamente ci erodono porzioni di spazio professionale(vedi: centro antidiabetico,assistenza domiciliare ai malati oncologici…e altro). c)la difesa della categoria MMG andrebbe fatta sulle competenze e sui contenuti professionali e sui bisogni degli assistiti che riusciamo a soddisfare .
d)potrebbe essere utile un mansionario della MG in cui includere la cardiologia di base (ecg),l’ecografia internistica e ortopedica e il laboratorio,che da tempo appartengono alla medicina generale di altri paesi.
e) ciò richiede un forte cambiamento di mentalita’ da parte dei MMG,grandi investimenti,sostenuti in parte dalla libera professione con gli assititi che gia’ adesso pagano ecg,laboratorio,ecografie e in parte dall’esercizio della professione in gruppo.
Purtroppo e’ una strada tutta in salita e non e’ detto che sia vincente.
L’ecm,pur con tutti i limiti che ha,può essere un’occasione per incrementare le competenze in aree che attualmente ci sfuggono,ma che sono fondamentali:non possiamo essere concorrenziali con altre figure mediche,che sfoggiano tecnologia a torto e a ragione,mentre noi stiamo nel nostro studiolo con la penna e il fonendoscopio.
E’ ovvio che la migliore diagnosi si fa con la testa e addirittura l’anamnesi e l’esperienza possono essere sufficienti a diagnosticare e curare,ma questo la gente non lo sa e pertanto il confronto ci vede perdenti.
Rif: M.R.A. Gatto e-mail: gatto@alma.unibo.it Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
L’INDAGINE ODONTO-EPIDEMIOLOGICA NELLA POPOLAZIONE ANZIANA: QUANDO E COME USARLA.
Gatto M.R.A., Daprile G., Felice P., Pelliccioni G.A., Checchi L.
Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche. Università degli Studi di Bologna. “Alma Mater Studiorum”
Introduzione
L’elevata prevalenza di condizioni croniche nell’anziano, insieme al cambiamento della struttura per età della popolazione italiana, spiega l’aumentato interesse degli operatori di politica sanitaria per lo stato di salute dell’anziano come un problema di sanità pubblica e politica sociale.
In questo quadro socio-sanitario si inserisce l’accresciuta attenzione per la salute orale di questa fascia di popolazione, sempre più “esigente” in termini di funzionalità e comfort, e sempre più conscia dell’importanza di un apparato masticatorio efficiente per l’equilibrio della salute generale. L’evoluzione di conoscenza e tecnologie ha, del resto, negli ultimi decenni, reso questo obiettivo meno difficile da perseguire. La salute dell’apparato stomatognatico nell’anziano si rivela, dunque, sempre più un traguardo raggiungibile, piuttosto che un risultato casuale e legato alle caratteristiche individuali del singolo soggetto.
Nell’ambito del progetto “Aging odontoiatrico: come invecchiare al meglio” promosso dal Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche dell’Università di Bologna – Alma Mater Studiorum, l’indagine epidemiologica si colloca come uno strumento chiave per investigare i vari aspetti dell’invecchiamento dell’apparato stomatognatico e le sue concause.
Metodi
Il problema trattato nella presente relazione è rappresentato da un’analisi costo/efficacia dell’indagine epidemiologica come strumento di conoscenza dello stato di salute orale dell’anziano nelle sue possibili interconnessioni con fattori predisponenti (caratteristiche demografiche, occupazionali e stile di vita).
La salute generale ed orale nell’anziano viene analizzata attraverso le seguenti fasi:
1) Concettualizzazione della salute nell’anziano
2) Identificazione degli input sanitari collegati a questa immagine di salute, con particolare riguardo verso gli indicatori di funzionalità masticatoria e nutrizione
3) Identificazione degli strumenti metodologici che consentono di individuare gli input sanitari
4) Utilizzo degli input sanitari per la diagnosi e la pianificazione.
Risultati e Discussione
Il controllo di qualità di ciascuna di queste fasi, inteso come l’insieme di tutte le procedure che consentono di garantire la qualità del prodotto “salute orale dell’anziano”, si compone di due fasi fondamentali: l’individuazione e la quantificazione dei rischi (fattori ambientali e/o sociali) e l’identificazione di quei punti critici di controllo del processo conoscitivo che permettono di verificare se lo stesso sia sotto controllo dal punto di vista dei rischi prima individuati. Tali punti critici di controllo possono essere collocati a livello della qualità delle diagnosi e delle terapie, delle procedure atte a ridurre la variabilità naturale della qualità delle prestazioni, delle strategie di controllo della frequenza delle patologie, della valutazione degli operatori sanitari.
Rif: A. Mainini e-mail:
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
GRUPPI DI CURE PRIMARIE:
POSSIBILE EVOLUZIONE DELLA MEDICINA GENERALE?
A. Mainini*, R. Nardi**
* Fondazione Maddalena Grassi ** MMG
Introduzione
Nel panorama italiano della Sanità sono da sottolineare alcune tendenze che, a nostro parere, caratterizzeranno nei prossimi anni l’evoluzione del sistema nel suo complesso:
• Focalizzazione degli Ospedali sulla patologia acuta.
• Aumento di prevalenza delle patologie croniche a livello territoriale con conseguente cambiamento di esigenze dei processi di assistenza e di cura.
• Risorse economiche definite.
• Necessità di dimostrare l’appropriatezza dell’operato dei professionisti.
• Evoluzione tecnologica con possibilità di curare a domicilio patologie che prima comportavano obbligatoriamente il ricovero.
Da queste premesse discende l’arretratezza del paradigma operativo della Medicina Generale in quanto basato sull’apporto di un singolo professionista, poco orientato alle evidenze e sempre meno nelle condizioni di fornire assistenza con quelle caratteristiche di globalità, continuità ed integrazione che sono peculiari delle Cure Primarie.
Per uscire da questa situazione di stallo, la soluzione adottata nei paesi Europei con sistemi sanitari comparabili a quello italiano è di solito quella di favorire l’associazionismo tra diversi professionisti, come possibilità di transizione verso un più efficace intervento del livello delle Cure Primarie a favore dei singoli cittadini e delle comunità locali. In Italia, invece, l’attività integrata tra MMG non supera il 10%.
In tale contesto è utile osservare che:
- Ragionare e lavorare per processi fa diminuire l’improvvisazione, il disordine, lo spreco e permette di massimizzare l’efficacia e la razionalità degli interventi
- Non è possibile applicare modelli di gestione avanzati delle Cure Primarie in uno scenario di attività frammentato e incoerente, in cui singoli operatori continuano a muoversi in modo indipendente e scoordinato.
- La valutazione economica deve avere il fine esclusivo di massimizzare il beneficio in termini di salute.
Materiali e Metodi
Tenendo presente che tutto deve cominciare e finire in un processo clinico integrato ed efficace, occorre allora rimodulare gli interventi dei principali attori delle Cure Primarie, a partire dai Medici di Medicina Generale, che di queste ultime costituiscono il perno naturale.
Questo è l’obiettivo che la Fondazione Maddalena Grassi - operante da anni nell’ambito della Assistenza Domiciliare Integrata e dotata quindi di una vasta esperienza nell’approccio quotidiano alla gestione di pazienti multiproblematici con patologia cronica – si è posta circa un anno fa, iniziando un lavoro di confronto con alcuni MMG dell’area milanese, al fine di analizzare i problemi concreti che questi Professionisti si trovano ad affrontare all’interno della loro pratica di tutti i giorni.
Nel quadro di una analisi dei punti di debolezza e di forza del sistema delle Cure Primarie sono innanzitutto state individuate le opportunità, quali ad es.:
⚫ la disponibilità di Piani Sanitari Regionali innovativi,
⚫ le possibilità comprese nelle attuali cornici legislative e contrattuali che regolano l’esercizio della Medicina Generale in Italia
⚫ i risultati di numerose sperimentazioni riorganizzative delle Cure Primarie condotte, spesso su base del tutto volontaria, in numerosi siti del nostro Paese.
Sono poi state identificate le criticità che si oppongono al cambiamento organizzativo e che possono essere così riassunte:
⚫ Complessità degli adempimenti
⚫ Disabitudine del MMG al teamworking
⚫ Genericità degli strumenti convenzionali
⚫ Mancanza di chiaro modello culturale delle cure primarie
⚫ Rischio di scarsa incidenza effettiva dei cambiamenti in atto sui paradigmi di servizio
⚫ Scarso coordinamento con l’Ospedale
⚫ Ridotta capacità di management del cambiamento sia interno che esterno alla professione da parte del Medico di Medicina Generale.
Risultati
Sulla base delle normative vigenti e degli indirizzi espressi sia a livello nazionale che a livello regionale, sono stati quindi predisposti alcuni strumenti di supporto operativo e concreto a chi intende realizzare modalità di collaborazione tra MMG e dei MMG con altre figure professionali
- ad es.: Infermiere Professionale e Terapista della riabilitazione - o con medici specialisti, per avviare un processo di integrazione e cambiamento orientato per processi di cura, in ambito di Cure Primarie.
Tali strumenti consentono di operare attraverso percorsi clinici nei quali il bisogno del paziente viene affrontato con modalità multidisciplinare, grazie all’apporto delle figure professionali di volta in volta più adeguate.
In questo modo è possibile definire, per ogni problema clinico, un modello ottimale di assistenza in cui siano esplicitate e quantificate:
• Funzioni del MMG
• Interventi di altre figure professionali (IP, KT…)
• Necessità Integrazione con specialisti ospedalieri.
Questa valutazione, combinata alla piena utilizzazione delle possibilità già ora presenti nel quadro dell’Accordo Convenzionale Nazionale per la Medicina Generale, ha infine consentito di definire una serie di “pacchetti operativi” per fornire ai Medici di Medicina Generale che ne facessero richiesta, la possibilità di ottenere un supporto di altre figure professionali, quali ad es.: l’infermiere professionale o il collaboratore di studio, secondo modalità prestabilite ed economicamente accessibili.
Conclusioni
In questo primo anno di attività mirata nel settore delle Cure Primarie, la Fondazione Maddalena Grassi, in collaborazione con un gruppo di Medici di Medicina Generale aderenti a Medicina & Persona, ha iniziato a costruire una serie di strumenti operativi in grado di dare concretezza al lavoro e alla presenza di diverse figure professionali nello studio del Medico di Medicina Generale.
Tali strumenti sono stati pensati come catalizzatori di un efficace processo di revisione organizzativa delle Cure Primarie in una ottica “bottom up”, favorendo e valorizzando al massimo le spinte innovative provenienti dal basso. Gli strumenti individuati sono in grado di supportare indifferentemente la gestione di un ambulatorio individuale piuttosto che la creazione di una Medicina in Associazione o in Gruppo, secondo quanto previsto dall’A.C.N. in vigore.
Attualmente gli strumenti operativi sono in corso di applicazione in due realtà, in Regione Lombardia, dove verosimilmente potranno costituire l’elemento catalizzatore per la costituzione di ulteriori aggregazioni tra Medici di Medicina Generale.
È convinzione degli Autori che un simile processo di aggregazione potrà costituire nel futuro un valido supporto alla realizzazione di Gruppi di Cure Primarie, secondo quanto previsto anche nel Piano Sanitario 2002 – 2004 della Regione Lombardia.
Rif: M. Malagoli e-mail: m.malagoli@ausl.mo.it Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
MDF, UNA COOPERATIVA TRA MEDICI DI FAMIGLIA PER FARE MEGLIO IL LORO LAVORO E CON MENO FATICA
Ferrari G., Solmi S., Malagoli M.
La storia.
Nel dicembre 1998 è stata costituita MDF, una società cooperativa a r. l. che associa 43 medici di famiglia operanti a Modena.
La spinta ad associarsi è scaturita dalla presa di coscienza di alcune problematiche professionali che alcuni di noi non potevano più ignorare:
• l’isolamento culturale e operativo del medico di famiglia,
• l’incapacità di fornire come singolo prestazioni che richiedono una organizzazione complessa,
• la difficoltà come categoria di essere interlocutore omogeneo ed economicamente responsabile,
• la verosimile inadeguatezza a competere in un sistema sanitario sempre meno pubblico e sempre più privato.
Intorno a noi esistevano i modelli della medicina di gruppo e quello delle cooperative. Il primo nella realtà di Modena città si era dimostrato praticamente inapplicabile, il secondo in qualche modo ci spaventava per la sua apparente complessità e per il timore di derive dirigistiche. Nacque così la formula dei gruppi minimi in rete che associano in termini relativamente informali sei/sette medici con forti elementi di coesione al loro interno (stile di lavoro, ambito territoriale, consuetudini, rapporti personali...). In questo contesto, poi normato dall’accordo con l’AUSL, e quindi dalla convenzione, è possibile stimolare la partecipazione, il confronto e la collaborazione.
Ci si rese conto subito , però, che il GMR ha due forti limiti:
• non ha personalità giuridica quindi di fatto agisce a fatica in ambito economico
• non ha sufficiente massa critica, non può cioè sostenere progetti o reggere contesti nei quali è essenziale un grande numero di associati e quindi di cittadini assistiti.
Di qui la scelta di fondare una cooperativa che associasse i medici membri dei GMR. Il modello da noi pensato mira a coniugare l’agilità e la coesione dei GMR con la forza operativa e contrattuale di una realtà più grande, la cooperativa. Il consiglio di amministrazione, organo decisionale della cooperativa, riflette in pieno questa impostazione: oltre al presidente e al vicepresidente con funzioni operative, è infatti costituito dai referenti nominati dai singoli GMR. Questo consente un buon flusso di informazioni dall’alto al basso e viceversa e una soddisfacente gestione del consenso.
Metodi
La cooperativa.
Perché la cooperativa e non un altro tipo di società? Nell’attuale quadro legislativo italiano la cooperativa è l’unico soggetto con personalità giuridica e quindi economica che si adatti ai bisogni di un grande numero di medici che si vuole associare su base paritetica, mantenendo agilità nel processo di entrata ed uscita dal medesimo; richiede un piccolo impegno di capitale ed è molto tutelata. Ha inoltre una dinamica di bilancio molto adatta a creare ricchezza e quindi capacità di azione per il gruppo (oggi un po’ meno di prima ). Ha natura non speculativa e pertanto è in sintonia con la valenza sociale della nostra professione.
Obiettivi
L’obiettivo di fondo di MDF è la ottimizzazione della assistenza nell’ambito delle cure primarie. MDF per statuto può favorire la promozione culturale e tecnica del medico di famiglia, favorire la ricerca in medicina generale; costruire percorsi di cura integrati, dare vita a iniziative di educazione sanitaria, prevenzione primaria e secondaria; gestire servizi tecnici, infermieristici ed amministrativi, fornire strumenti, tecnologie e metodologie ai soci e a terzi e forse altro ancora.
Risultati
CONTINUITA' ASSISTENZIALE INTEGRATA
Il progetto nasce dalle evidenti carenze mostrate dal modello attuale di CA, in particolare, dalla mancata risposta ad urgenze ambulatoriali di tipo sanitario o medico legale e dai lunghi tempi di attesa per le prestazioni, dovute all'alto rapporto medico/pazienti utilizzato nel servizio, con conseguente ricorso improprio ai PS da parte dei cittadini.
Gli obiettivi del progetto sono stati:
-L'integrazione operativa e la corresponsabilizzazione, tra MMG e MCA con la condivisione della Cartella Clinica Informatizzata dei pazienti, previo loro consenso.
-La fornitura di un efficiente servizio di assistenza domiciliare ed ambulatoriale di primo livello che limiti l'intasamento dei PS.
Il servizio si articola in un gruppo di MCA (4+1, con opportuno raddoppio nei momenti di maggiore morbilità) che garantisce le urgenze domiciliari notturne e festive/prefestive diurne cui è affiancato, in stretto collegamento funzionale, un MMG (un socio di MDF a rotazione ) che presta attività ambulatoriale nello studio di MDF, per tre ore il pomeriggio del sabato , la domenica mattina e la domenica pomeriggio.
L'accesso telefonico al servizio è regolato dal triage del 118 che devia l'urgenza sul MCA. L'accesso allo studio di MDF è libero, gratuito e adeguatamente pubblicizzato.
MDF fornisce la sede operativa , la gestione organizzativa ed amministrativa del servizio con personale segretariale proprio.
DIABETE
L'accordo aziendale sull'associazionismo prevede obbligatoriamente la presa in carico di un certo numero di pazienti diabetici di tipo 2 ed il rispetto di un protocollo clinico di minima
,comprendente controlli della glicemia a digiuno a scadenze quadrimestrali , controllo del peso , della pressione arteriosa, prevenzione delle complicanze neurologiche (s. disautonomica) e microvascolari (piede diabetico) nello studio del MMG, associati ad accertamenti più complessi (FOO , ECG , Emoglobina Glicata) presso le strutture del SSN.
MDF organizza e fornisce ai propri soci un servizio infermieristico che organizza gli appuntamenti con i pazienti a scadenze prestabilite ed effettua, direttamente nello studio del MMG, i controlli previsti dal protocollo d'intesa ( stick glicemico ed urine, misurazione del peso e della TA), organizza direttamente i controlli specialistici più complessi lasciando al MMG i compiti che gli sono proprii, quali il reclutamento dei pazienti, il controllo degli esiti , la decisione terapeutica,il counseling e l'esame obiettivo del paziente .
PIRAMIDE INFORMATICA
I 43 MMG di MDF hanno addottato una cartella clinica informatizzata comune, per permettere una reale messa in rete delle informazioni sanitarie dei pazienti che hanno dato il proprio consenso, all'interno del progetto di Continuità Assistenziale, e per scopi di ricerca.
Per consentire ai soci di più recente informatizzazione il raggiungimento di uno standard qualitativo soddisfacente, MDF ha predisposto un programma di tutoring gratuito.
Otto soci si sono assunti il compito di fungere da referenti per i colleghi, per aiutarli e seguirli nel raggiungimento dell'obiettivo strategico di omogeneizzare l'archiviazione dei dati sanitari nella cartella clinica informatizzata.
Questo progetto prevede diverse e graduali fasi di attuazione, a partire dal raggiungimento, entro aprile 2003, dello standard minimo, consistente nella archiviazione dei dati necessari ai MCA per aver un quadro sintetico ma sufficiente della situazione clinica del paziente quali anagrafica completa, lista dei problemi cronici ed acuti rilevanti, terapia continuativa con posologia, intolleranze.
Commento
Il sistema sanitario nelle sue diverse componenti è un sistema sempre perfezionabile e sempre modificabile. Due sono le spinte che promuovono questa continua evoluzione. Una è fornita dal centro del sistema (direzioni amministrative e sanitarie con la collaborazione più o meno dichiarata dei sindacati medici o delle associazioni mediche), l'altra viene dalla libera iniziativa dei pazienti, delle loro associazioni, dei professionisti e delle loro associazioni.
Si tratta di spinte che si confrontano, e che spesso si integrano in una dinamica costruttiva e positiva per tutti.
MDF, in un contesto politico culturale in cui tende a prevalere l'impostazione "centralistica" è indubbiamente un segno di vivacità, di responsabilità e di creatività di medici che rischiano il loro tempo e la loro prefessionalità per un bene loro e di tutti.
Va sottolineata la grande attenzione e la totale valorizzazione della iniziativa da parte delle autorità sanitarie e civili che si sono compiaciute di poter elencare tra le risposte date al bisogni dei "cittadini" anche quelle fornite da MDF (assumendosi onori ed oneri).
Rif A. Missiroli e-mail: amissiroli@micronet.it
Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
LA PROFESSIONALITÀ DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE: PRIMA E VERA RISORSA PER LE CURE PRIMARIE
Andrea Missiroli, medico di famiglia, Milano
«La vita è breve, l’arte lunga, il momento opportuno fuggevole, la pratica incerta, il giudizio difficile. Bisogna pensare non solo alle cose da fare, ma anche al malato e a chi assiste e ai fattori esterni»13
Il medico di famiglia nel lavoro desidera un rapporto col paziente non pesante ma libero, un prendersi cura non parziale ma rispondente al bisogno della persona: ha insomma come orizzonte un desiderio di conoscenza e di comprensione armonica non tanto della malattia quanto del paziente come persona.
Il disagio maggiore del medico oggi è la scontentezza nel lavoro, facendo i conti tutti i giorni con l’evidente limite proprio a fronte di quell’inconoscibile, imprevedibile, inafferrabile che è l’altra persona, il mistero dell’altro.
La domanda della persona che si rivolge al medico e l’evidente riconosciuto limite della risposta sono l’occasione, lo spunto per prendersi cura di se e del paziente in un cammino drammatico, comune, condiviso, per cercare di rispondere alla domanda: cosa sta avvenendo? Un brano di Stanislaw Grygiel14 di commento alla parabola del buon samaritano può aiutarci ad individuare il compito del medico.
In un contesto in cui ormai gli ospedali sono a disposizione solo per i malati acuti oppure sono superspecializzati, urge che il medico di famiglia recuperi la fiducia del cittadino. Il medico di famiglia ha di suo specifico di essere il medico più vicino ai bisogni, alle condizioni di vita delle persone: quasi sempre della persona e della sua famiglia conosce la storia, le difficoltà, i problemi, le speranze. Per il medico di famiglia, nel tempo, in un ambito definito, in una frequentazione e convivenza con i suoi assistiti, è più possibile tenere presente tutti i fattori in gioco, e questo lo aiuta a prendere decisioni diagnostiche e terapeutiche adeguate ed efficaci, a portare ai colleghi specialisti suggerimenti più rispondenti ai bisogni della persona.
Non solo per l’enorme sviluppo della medicina in tutte le sue specialità e l’incremento esponenziale delle conoscenze scientifiche sia in campo diagnostico che terapeutico, oggi è evidente che non esiste medico che possa rispondere da solo con sistematicità e organicità al bisogno della persona.
Per la nostra esperienza, per recuperare la fiducia del cittadino è importante garantire un accesso facile e una organizzazione il più possibile funzionale e affidabile. L’amicizia con alcuni
13 IPPOCRATE, Aforismi, I sezione, 1.
14 STANISLAW GRYGIEL, La salvezza e la salute, in Salute e salvezza. Prospettive interdisciplinari, Di Giovanni editore, 1994, pp. 31 ss.
medici specialisti, l’incontro avuto in occasione del ricovero di nostri assistiti in ospedale, il coinvolgimento degli specialisti delle più varie discipline, in alcuni dei nostri ambulatori e nel lavoro di formazione permanente, hanno permesso negli anni il consolidarsi di rapporti e il manifestarsi di un metodo di lavoro nell’affronto dei bisogni dei nostri pazienti accolti nel contesto umano, storico, sociale in cui emergono.
Molti medici di famiglia di Milano e dintorni, sia che lavorino in ambulatorio da soli, in medicina di gruppo o in poliambulatori, propongono con libertà agli assistiti il riferimento a specialisti di fiducia, presso i nostri poliambulatori, presso la Fondazione San Giuseppe Moscati, presso altre strutture accreditate.
La prima grande evidenza è che molti nostri assistiti incontrano innanzitutto un luogo di rapporti e non solo una struttura o dei servizi
Il modo di lavorare sopra descritto è ancora più significativo soprattutto oggi, in un contesto istituzionale che sta ridefinendo l’ambito dell’assistenza sanitaria. Per esempio, la Regione Lombardia, con il recente piano sanitario 2002-2004, ha ridefinito ruoli e funzioni a livello delle cure primarie, armonizzandoli con il processo di aziendalizzazione e la riorganizzazione del sistema sanitario in ordine a capillarità, accessibilità, continuità dei servizi. Particolare attenzione è posta ad aumentare la disponibilità di prestazioni efficaci e risolutive a livello delle cure primarie, puntando ad una migliore integrazione dell’attività dei medici di famiglia, dei medici specialisti, degli infermieri professionali, dei fisiocinesiterapisti (voucher sociosanitario).
Queste nuove forme integrate di assistenza sono la strada innovativa per le persone nel bisogno e le loro famiglie, come alternativa al ricorso a strutture più complesse, permettendo anche un minor dispendio di energie umane e risorse economiche:
E’ stata nostra costante preoccupazione negli anni l’educazione permanente del medico non solo in senso tecnico-scientifico ma anche riguardo alle ragioni del curare.
Desideriamo farci aiutare e correggere da maestri da noi incontrati e riconosciuti tali.
A Milano e dintorni è esperienza consolidata per molti di noi accogliere giovani medici nei nostri ambulatori, offrire possibilità di sostituzione, affiancarli per l’attività di ricerca.
Rif: P. Schianchi Felino e-mail: schianchi.paolo@simg.it Sessione: LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE
LIMITI E PROSPETTIVE NELLE CURE PRIMARIE: L’OCCASIONE DELLA MEDICINA GENERALE
Paolo Schianchi Felino (Pr) SIMG-Parma
Introduzione
Il progressivo declino della Medicina Generale (MG) italiana è iniziato negli anni 70, successivamente alla riforma sanitaria, fin quasi a fine secolo. La figura del Medico di Medicina Generale (MMG) è stata sminuita nella convinzione di poterne fare a meno. In quegli anni è nata la definizione di medico di base, intendendo con questo inquadrarlo essenzialmente in compiti impiegatizi. Contemporaneamente si è sviluppata una concezione della sanità che definirei “ospedalocentrica” che tanti danni ha fatto e fa tuttora . Questo progetto vedeva nell’ospedale il fulcro di tutte le prestazioni sanitarie compresa la MG. Con la nascita dei vari centri: diabetico, ipertensione, geriatrico, menopausa, emostasi… altro non si voleva che replicare in ospedale i compiti della MG, scorporandoli nelle varie branche, come se i vari problemi fossero risolvibili nell’ottica della mera patologia d’organo.
Per altro questa visione parcellare del paziente è quella sulla quale ci siamo formati tutti noi, usciti dall’Università di Medicina in quegli anni. Salvo accorgerci poi che, proprio sul territorio, questo approccio è totalmente inadeguata avendo a che fare con la persona nella sua interezza .
A questo punto il MMG era relegato a semplice smistatore di patologie verso i centri ospedalieri di pertinenza. Per altro questa progressiva svalutazione della figura del MMG veniva fortemente incentivata economicamente, i colleghi infatti oltre che lavorare meno, conoscevano remunerazioni mai più ripetute.
Scrive Fabrizio Valcanover nel bel libro “La Medicina generale” UTET Ed. a cura di M. Tombesi e V. Caimi con alcuni capitoli scritti dai colleghi di Parma Angelo Recusani, Beppe Montagna, Daniela Randi: “Certo è che questa figura (il medico di base o della mutua) resiste per decenni, immune a cambiamenti, riforme e anche alla forte satira sociale. Probabilmente la gratuità, la generosa dispensa di farmaci e di moderne prestazioni diagnostiche, la presenza costante al lavoro (anche per rischio di perdere mutuati) ne hanno affinato le abilità di marketing e la capacità di rispondere alle richieste della popolazione italiana. Così si allarga lo iato tra la medicina colta e scientifica e quella mutualistica, sempre più ritenuta ignorante e orientata al guadagno”…
Quando negli anni 90 il sistema così concepito arriva prossimo al collasso si tenta il recupero della MG, ma ci si accorge, con disappunto, che il progetto inverso è estremamente difficile. Negli anni, gli stipendi dei MMG sono stati pesantemente intaccati dall’inflazione, senza possibilità di adeguamenti.
Contemporaneamente la Medicina è evoluta come mai era successo in tutta la storia dell’umanità. Si pensi solo che negli anni 70 un infartuato, anche giovane, veniva all’incirca curato nello stesso modo a domicilio come a casa. Senza contare l’evoluzione di mentalità del cittadino, ora cliente esigente, con il progressivo ricorso a strumenti di rivalsa anche legali.
Negli anni , accanto a questa scelta politica, è cresciuta però una nuova generazione di MMG che, credo, sia riuscita a mandare in pensione il “medico della mutua” . E’ migliorata la qualificazione professionale e si è riusciti a gestire il passaggio con una penosa esiguità di mezzi: tuttora la professione viene svolta, forse ultimi in Europa, senza supporto infermieristico e segretariale.
Per altro il tutto è avvenuto gestendo una complessità di compiti burocratici il cui culmine è stato, forse, la doppia firma sulle note Cuf.
Tutto questo è avvenuto riuscendo a mantenere il gradimento degli assistiti, almeno a quanto riportano i principali sondaggi di opinione sull’argomento.
Anche se ultima in Europa, la MG italiana può valorizzare una forte tradizione culturale di radicamento nel territorio e una particolare sensibilità a un approccio complessivo che va forse oltre il paradigma biopsicosociale della cultura anglosassone. In questo sforzo di sviluppare un approccio autonomo nel campo della ricerca clinica (e per tenere a bada il trend economicista, che vede il ruolo del MMG quasi esclusivamente in termini di controllo della spesa), la nostra MG può attingere alla ricca tradizione antropologica dei suoi professionisti che affonda le sue radici ai primi dell’Ottocento (Valcanover)
Il parere dei medici : dalla mailing list Koinè.
Conclusione.
La MG costituisce "ponte tra le scienze della natura e le scienze umane" (E. Parma 1998) con un nucleo di competenze specifiche proprie.
Ritengo il periodo attuale un’occasione storica per il MMG, quella di “riappropriarsi del territorio”: grazie allo sviluppo delle tecnologia informatica, sono sempre maggiori le esperienze di gestione di quelle patologie che abbiamo demandato ai centri. Non è tanto una competizione con lo specialista, la cui consulenza rimane indiscussa, quanto la possibilità di scambiare e acquisire conoscenze, esami, lettere di dimissione.
Serve la consapevolezza dei MMG delle proprie potenzialità e il conseguente supporto politico. Il tutto in maniera integrata paziente- MMG,- specialisti- Aziende Sanitarie al fine di potenziare un SSN nel quale crediamo.
OSPEDALI:
SOLO AZIENDE O ANCHE OPERE?
Rif: G. B. Guizzetti e-mail: gbguizzetti@tiscalinet.it Sessione: OSPEDALI: SOLO AZIENDE O ANCHE OPERE?
PRENDERSI CURA DEL MALATO AFFETTO DA GRAVE ENCEFALOPATIA: TRA LIMITE E POSSBILITÀ
Dr. G.Battista Guizzetti, IP Elena Viviani, IP Petra Niessen, TdR Maria Verta
ABSTRACT
L’esperienza vissuta in cinque anni di assistenza malati con gravi esiti di patologie neurologiche (SV e stato di minima responsività), ci ha mostrato che non si può escludere la possibilità di un recupero dello stato di coscienza e di una conseguente capacità di relazione ambientale. Questi risultati sono stati possibili in quanto i malati ricoverati presso il nostro reparto, pur provenendo in tali casi da centri di riabilitazione intensiva, sono stati oggetto di cura, di attenzioni e di tentativi riabilitativi continui.
I dati della letteratura secondo i quali i recuperi dei pazienti in stato vegetativo dopo 12 mesi dall’evento sono “estremamente rari” provengono da “casistiche globali non particolarmente ampie, fondate su studi di valore limitato (esame retrospettivo di studi non controllati) e prive di un serio follow up” (G.L. Gigli, Medicina e Morale 2002/2).
La cura di questi malati mirata alla prevenzione delle complicanze legate all’immobilizzazione (decubiti, retrazioni mucolo-tendinee, rigidità articolari, infezioni polmonari, ecc.), alla valorizzazione di ogni recupero funzionale (deglutizione, rimozione delle trache-canule, logopedia)e al sostegno del nucleo familiare non richiede particolari supporti tecnologici, ma solo personale addestrato e ben motivato.
La limitatezza delle risorse economiche non può, a nostro avviso, costituire una valida motivazione per non prendersi cura di questi pazienti sia per l’esiguità del loro numero, ma anche e soprattutto perché “le cose di cui necessitano per sopravvivere sono le stesse di cui necessita ognuno di noi: acqua, cibo, riscaldamento, pulizia e movimento. Tutte queste cose, considerato lo standard minimo di una cura rispettosa dell’uomo, dovrebbero essere fornite loro senza esitazioni, dalla compassione dei loro simili” (G.L. Gigli Medicina e Morale 2002/2).
Per valutare sino in fondo le possibilità di recupero dei pazienti affetti da grave encefalopatia si dovrebbe garantire loro un trattamento riabilitativo di almeno 12 mesi nei casi di trauma cranico e di 3 negli altri (anossie, ischemie, emorragie). Oltre questo periodo, se il trattamento non ha dato l’esito sperato, la complessità e la gravità dei deficit richiedono un impegno assistenziale assai gravoso che solo in rari casi può essere erogato a domicilio.
La prognosi funzionale di questi malati è severa, tanto più se la condizione è causata da un evento anossico e quanto maggiori sono l’età e il tempo trascorso. Si deve perciò programmare per loro un percorso assistenziale che, nel caso non si ottenga la guarigione, sappia successivamente prendersi cura del grave bisogno di cui sono portatori. In taluni casi, qualora venga mantenuta un’intensività di cura, è comunque possibile assistere, anche quando fossero superati i limiti di tempo sopraddetti, ad un miglioramento della qualità di vita: recupero di relazione ambientale con riconoscimento dei propri cari e comprensione degli stimoli, rimozione della tracheocannula, ripresa totale o parziale dell’alimentazione per via orale e dell’eloquio, guarigione dei decubiti.
Presso il Centro don Orione di Bergamo dal 96 è attivo un reparto che accoglie malati affetti da gravi esiti di patologie neurologiche (Stato vegetativo, stato di minima responsività, locked in syndrome). Il reparto ha sino ad oggi ospitato 69 pazienti (34 F, 35 M), con età media di 62 anni (min 28, max 90).
Le patologie che hanno determinato il ricovero sono:
- Vascolare: emorragica 19 pz, età media 65 (min 43 max 90) ischemica 21 pz, età media 73 (min 52 max 84)
- Anossica: 19 pz, età media 40 (min 28 max 84)
- Traumatica: 9 pz, età media 40 (min 35 max 84)
- Infettiva: 1 pz, età 48 anni
Tra i pazienti ricoverati 29 sono deceduti, 16 sono stati trasferiti (3 a domicilio, 6 in centri di riabilitazione, 7 in RSA), 24 sono a tutt’oggi nel nostro Centro (7 in RSA, 17 nel reparto comi)
Nel presente lavoro esponiamo i risultati conseguiti in 12 pazienti ricoverati nel nostro reparto. I miglioramenti ottenuti, tra tutti citiamo la ripresa delle relazioni ambientali, che possono apparire scarsamente significativi, sono in realtà molto importanti perché oggettivamente
attenuano una condizione di sofferenza e dipendenza potendo addirittura consentire il rientro in ambiente domestico. Al conseguimento di questi risultati, assolutamente inattesi e sorprendenti, è stato possibile giungere grazie ad un trattamento riabilitativo e una nursering attenti e prolungati nel tempo che solo un gruppo addestrato, motivato e affiatato può erogare.
Gli alti costi di gestione di un reparto come il nostro - in cui operano 17 IP, 13 ASA, 2 TdR, una caposala e un medico - sono legati al personale addetto. La scarsità di risorse economiche è oggi fattore critico nella pianificazione sanitaria, tuttavia non può diventare l’unico criterio per la programmazione: a questi malati va offerta una possibilità assistenziale adeguata al loro bisogno.
Secondo la nostra esperienza il loro ricovero non dovrebbe avvenire in reparti dove questi trattamenti non possono essere assicurati, giustificando tale decisione con motivi esclusivamente economici, tanto più se consideriamo che, data l’esiguità numerica di questi pazienti (lo SV ha una prevalenza di 2-3.5/100.000 abitanti), il loro costo incide in minima parte nel bilancio della spesa sanitaria.