LE SOPRAVVENIENZE NEL CONTRATTO DI LOCAZIONE DI IMMOBILI ADIBITI AD USO NON ABITATIVO
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Cattedra di Diritto Privato II
LE SOPRAVVENIENZE NEL CONTRATTO DI LOCAZIONE DI IMMOBILI ADIBITI AD USO NON ABITATIVO
RELATORE CORRELATORE
Xxxxx.xx Prof. Xxxxx.xx Xxxx.
Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx
CANDIDATO
Xxxxxx Xxxxxxxx Matr. 155973
ANNO ACCADEMICO 2022/2023
INDICE
Premesse 7
CAPITOLO I… 9
IL CONTRATTO DI LOCAZIONE 9
1. Nozioni generali ed inquadramento dogmatico… 9
1.1 Gli obblighi del locatore 11
1.2 Gli obblighi del conduttore 17
1.3 La durata del contratto… 22
2. Il contratto di locazione di immobili ad uso abitativo 24
2.1 La disciplina codicistica 27
2.2 La disciplina contenuta nelle leggi speciali 30
3. Il contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo… 37
3.1 Nozioni generali tra Codice civile e leggi speciali 40
3.2 Il canone di locazione 45
3.3 Requisiti formali e obbligo di registrazione 50
CAPITOLO II… 53
LE SOPRAVVENIENZE CONTRATTUALI… 53
1. Nozioni generali 53
1.1 La clausola «rebus sic stantibus»… 56
2. I rimedi caducatori 60
2.1 La risoluzione per impossibilità sopravvenuta 63
2.2 La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta 68
2.3 La clausola di irresolubilità 75
3. I rimedi conservativi 76
3.1 Le clausole di adeguamento automatico… 78
3.2 Le clausole di rinegoziazione 81
4. Le sopravvenienze atipiche 85
4.1 La presupposizione 87
4.2 La buona fede e l’obbligo di rinegoziazione del contratto… 91
4.3 L’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, quali tutele? 96
5. L’esistenza di un generalizzato favor per la conservazione del contratto…100 CAPITOLO III… 109
LE SOPRAVVENIENZE NEL CONTRATTO DI LOCAZIONE DI IMMOBILI AD
USO NON ABITATIVO 109
1. Nozioni generali ed inquadramento della disciplina delle sopravvenienze nel contratto di locazione non abitativa 109
2. I rimedi demolitori e la loro scarsa utilità. La risoluzione del contratto di locazione per impossibilità sopravvenuta 111
2.1 La risoluzione del contratto di locazione per eccessiva onerosità 117
3. Cenni sulle questioni sorte a causa della pandemia da Covid-19 120
4. I rimedi conservativi prospettabili per i contratti di locazione non abitativa e la loro adeguatezza: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziazione…129
5. Il rapporto tra nuove tecnologie e sopravvenienze nel contratto di locazione non abitativa 136
Conclusioni 139
BIBLIOGRAFIA 142
Premesse
La tesi si propone di indagare il ruolo e la portata delle sopravvenienze che impediscono la corretta esecuzione dei contratti di locazione non abitativa e i rimedi idonei a garantire un’adeguata tutela degli interessi del locatore e del conduttore. Infatti, relativamente all’assetto di interessi sotteso alla stipula di tale contratto, le recenti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali hanno messo in luce la sostanziale inadeguatezza dei rimedi demolitori previsti dal legislatore per le sopravvenienze nei contratti di locazione non abitativa. Proprio questo induce ad una riflessione sull’opportunità di ricorrere a rimedi conservativi, come l’obbligo di rinegoziazione.
Dunque, la tesi muove dall’esame delle peculiarità dei contratti di locazione commerciale, muovendo dall’analisi della disciplina normativa dell’istituto, contenuta non solo nel Codice civile, ma anche nella legge 27 luglio 1978, n. 392. In particolare, il contratto di locazione di beni immobili destinati all’esercizio di attività commerciali, professionali, industriali, o alberghiere, altrimenti noto come contratto di locazione non abitativa, tende a realizzare l’interesse delle parti coinvolte, locatore e conduttore, rispettivamente alla percezione del canone di locazione e del godimento dell’immobile adibito all’esercizio di una determinata attività economica.
Tuttavia, gli interessi dei contraenti, la cui soddisfazione è garantita dalla corretta esecuzione del contratto, possono talvolta non avere piena soddisfazione, a causa del verificarsi di eventi imprevedibili e straordinari, estranei alla volontà delle parti, noti come «sopravvenienze». Le sopravvenienze contrattuali, infatti, impediscono che il contratto si realizzi nei termini concordati dalle parti al momento della stipulazione.
Di conseguenza, è necessario rinvenire quali siano i rimedi esperibili dalle parti per tutelarsi dalle conseguenze negative causate dalle sopravvenienze sul sinallagma contrattuale.
Pertanto, l’indagine si estende alla tematica delle sopravvenienze contrattuali e ai rimedi ad esse correlati. Questi ultimi possono suddividersi in due tipologie: rimedi demolitori, che comportano lo scioglimento del rapporto contrattuale alterato dalla sopravvenienza, e rimedi manutentivi, i quali, invece, ne consentono la conservazione. In particolare, l’indagine verte sui rimedi predisposti dal Codice civile, dunque, la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 e ss.) e per eccessiva onerosità sopravvenuta (art.
1467 c.c.), sui rimedi proposti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come la presupposizione e l’obbligo di rinegoziazione, nonché sui rimedi convenzionali elaborati dall’autonomia privata, tra i quali si collocano le clausole di rinegoziazione e di adeguamento automatico.
CAPITOLO I
IL CONTRATTO DI LOCAZIONE
SOMMARIO: 1. Nozioni generali ed inquadramento dogmatico. – 1.1 Gli obblighi del locatore. – 1.2 Gli obblighi del conduttore. – 1.3 La durata del contratto. – 2. Il contratto di locazione di immobili ad uso abitativo. – 2.1 La disciplina codicistica della locazione abitativa. – 2.2 La disciplina contenuta nelle leggi speciali. – 3. Il contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo. – 3.1 Nozioni generali tra Codice civile e leggi speciali.
– 3.2 Il canone di locazione. – 3.3 Requisiti formali ed obbligo di registrazione.
1. Nozioni generali ed inquadramento dogmatico
La locazione è una figura contrattuale che gode di notevole rilevanza economica, oltre che giuridica ed è ampiamente disciplinata nel nostro ordinamento, sia dal Codice civile del 1942 che da numerose leggi speciali succedutesi a partire dal 1978.
La disciplina della locazione è contenuta nel Capo IV, Titolo III, Libro I del Codice civile e costituisce il risultato di un’evoluzione storico/legislativa secolare che risulta avere le sue radici nel diritto romano1.
In particolare, il Codice dedica alla locazione gli artt. 1571 e ss. c.c., i quali sono suddivisi in tre diverse sezioni, che si distinguono in “Disposizioni generali”, applicabili ad ogni fattispecie locatizia, e norme speciali, la cui applicazione è riservata alle ipotesi di locazione di immobili urbani e di affitto2.
In particolare, la nozione fornita dal Codice civile è contenuta nell’art.1571 c.c., secondo il quale «la locazione è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo».
Da tale definizione si evince che la locazione è un contratto a prestazioni corrispettive3, che si sostanziano nella concessione in godimento di un bene ad una parte (locatario o conduttore) a fronte di un corrispettivo a favore dell’altra parte (locatore o concedente)4.
1 REZZONICO, REZZONICO, Manuale delle locazioni abitative e a uso diverso, Milano, 2007, p. 5.
2 MIRABELLI, La locazione, in Trattato di diritto civile italiano, VII, 4, 7, diretto da Xxxxxxxx, Torino, 1972,
p. 3.
3 MIRABELLI op. cit., p. 4.
4 MIRABELLI op. cit., p. 4.
Tuttavia, le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, possono discostarsi dal modello codicistico, adattandolo alle proprie esigenze negoziali, inserendo note di atipicità (si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui venga concessa al conduttore la facoltà di costruire su un’area locata)5.
La definizione menzionata consente di individuare gli elementi che caratterizzano il contratto di locazione. Infatti, dalla stessa emerge che la locazione è un contratto consensuale, ad effetti obbligatori, oneroso, commutativo e di durata6.
Anzitutto, è un contratto consensuale in quanto si perfeziona con il semplice accordo delle parti, legittimamente manifestato ex art. 1376 x.x. Xxxxxx, ritenere il consenso un elemento necessario e sufficiente ai fini del perfezionamento del contratto di locazione significa inequivocabilmente escludere che esso possa essere inquadrato dogmaticamente nel novero dei contratti reali in cui re perficitur obligatio7. Infatti, la consegna della cosa mobile o immobile non è un elemento costitutivo dello schema contrattuale, ma un’obbligazione del locatore, necessaria per la costituzione, a favore del conduttore, di un diritto personale di godimento8.
Per quanto concerne l’onerosità e la corrispettività9 della locazione, queste caratteristiche lo differenziano da negozi che hanno una funzione simile, come il comodato10.
Nel rispetto del modello delineato dagli artt. 1571 ss. del Codice, le parti, nello stipulare un contratto di locazione dovrebbero prevedere una prestazione ed una controprestazione tali da rendere il rapporto contrattuale oneroso e corrispettivo. La determinazione aprioristica delle prestazioni che il conduttore ed il locatore dovranno eseguire per tutta la durata del rapporto rende la locazione un contratto non aleatorio11.
5 Cass. civ., sez. III, 24 settembre 1981, n. 5177, in Giust. civ. Mass., 9, 1981.
6 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione, 1, in Sistemi Giuridici, diretto da Cendon, Torino, 2010, p. 36.
7 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p.37.
8 Cass., sez. III, 21 marzo 1970, n. 766, in xxxxxx.xx.
9 L’onerosità e la corrispettività del contratto non implicano, però, che le prestazioni reciproche delle parti coinvolte debbano essere perfettamente equilibrate, ma che debba essere presente, quale controprestazione, un’utilità economica di qualunque tipo e/o forma. Difatti, qualora un’utilità economica fosse del tutto assente o tale da essere considerata inesistente, si ravviserebbe nel contratto l’elemento della gratuità, che impedirebbe di poterlo classificare come locazione in senso proprio, così come intesa dal Xxxxxx. In questo senso, si è espressa la Cass., Sez.III, 27 marzo 1962, n. 627. in Il foro italiano, vol. 90, n.6, pp.1227-1228. 10 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p. 39.
11 Infatti, entrambe le parti, in base ad una previa determinazione o possibile determinabilità delle reciproche prestazioni, potrà conoscere anticipatamente quali vantaggi ed eventuali oneri possano derivare dal contratto. Si vedano, in tal senso, DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p. 39.
Antecedentemente all’introduzione degli indici Istat era stata teorizzata, in dottrina, l’esistenza di un contratto di locazione aleatorio, a causa delle svalutazioni monetarie. Xxxxxx propone ancora oggi proposte simili teorie, che risultano, però prive di riconoscimento positivo12.
Infine, un completo inquadramento normativo e dogmatico del contratto di locazione richiede di considerare, quali ulteriori elementi qualificatori dello stesso, la sua natura di contratto di scambio e di durata.
La locazione, quale contratto di scambio, tende a favorire la circolazione della ricchezza, realizzando, in questo modo, la sua funzione economica13. Inoltre, essa viene inquadrata all’interno della categoria dei contratti ad esecuzione continuata, e, pertanto, l’elemento del tempo e, quindi, della durata hanno una rilevanza fondamentale nello svolgimento e nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali.
L’art. 1571 c.c. configura una fattispecie unitaria del contratto di locazione, rendendo possibile di ricondurre allo stesso nucleo ipotesi eterogenee; la dottrina, invece, propone alcune differenziazioni in base ai tratti peculiari che contraddistinguono ciascuna ipotesi. Infatti, dall’articolo in esame non sembrerebbe potersi evincere la diversità esistente tra la locazione mobiliare ed immobiliare, che si rinviene non solo, in modo lapalissiano, nell’eterogenea natura dei beni oggetto del contratto, ma anche nella differente importanza economica e sociale delle due tipologie di locazione.
La locazione immobiliare, in particolare, si è sempre distinta per una maggiore rilevanza sociale, tale da richiedere numerosi interventi legislativi, tra i quali rientrano la legge 27 luglio 1978, n. 392 c.d. Xxxxx sull’equo canone, relativa alle locazioni immobiliari abitative, e la legge 9 dicembre 1998, n. 431 sulle locazioni immobiliari non abitative.
Tuttavia, la disciplina dettata dagli artt. 1571 ss. contiene le regole di generale applicazione, laddove non diversamente disposto dalle leggi speciali. Pertanto, appare opportuno soffermarsi, di seguito, sulle norme del Codice civile.
1.1 Gli obblighi del locatore
L’art. 1575 c.c. contiene una disciplina dettagliata che concerne le obbligazioni principali del locatore, tra le quali si rinviene l’obbligo di consegnare la cosa in buono stato di
12 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p. 39.
13 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit. p. 40.
manutenzione, di mantenere la cosa stessa in modo da servire all’uso convenuto e, infine, di garantire il pacifico godimento dell’immobile.
In prima istanza, parimenti a quanto si verifica nel contratto di compravendita, la consegna del bene mobile o immobile locato non viene considerata elemento costitutivo della fattispecie contrattuale, ma si configura come una delle principali obbligazioni gravanti sul locatore, il cui adempimento è essenziale per garantire l’esercizio del diritto di godimento da parte del locatore14.
La consegna si considera realizzata nel momento in cui il locatore permette al conduttore di godere della disponibilità materiale del bene locato15. La consegna non si sostanzia, dunque, per il locatore, in una semplice attività di dare, ma nell’assicurarsi che il conduttore possa godere del bene locato e di conseguenza possa acquistare la qualità di detentore qualificato. Il godimento della cosa locata, difatti, una volta garantito dal locatore mediante la consegna, consente la costituzione di una posizione di detenzione qualificata in capo al conduttore, il quale detiene l’immobile al fine di soddisfare un proprio interesse.
Tuttavia, la norma in esame non prevede precise modalità di realizzazione dell’obbligo di consegna da parte del locatore, rendendo così necessario un rinvio alla disciplina predisposta dall’art.1182 c.c. Questa disposizione, con riferimento all’obbligo di consegnare una cosa certa, statuisce che esso debba essere adempiuto nel luogo dove la cosa si trova, a meno che un criterio diverso sia indicato nel contratto o determinato in base agli usi16.
L’obbligazione di consegna risulta esattamente adempiuta dal locatore, alla luce della formulazione dell’art. 1575, comma 1, n. 1) c.c., quando la cosa sia consegnata al conduttore in buono stato di manutenzione.
La locuzione «buono stato di manutenzione» utilizzata dal legislatore ha, invero, destato problematiche interpretative rilevanti, che hanno riguardato, da un lato, la necessità di coordinare detta previsione con il n. 2) del medesimo articolo, che fa riferimento all’obbligo del locatore di mantenere la cosa in stato da servire all’uso convenuto, e dall’altro, all’eventuale tolleranza del conduttore di un immobile consegnato in uno stato di manutenzione non buono.
14 GRASSELLI, La locazione di immobili nel Codice civile e nelle leggi speciali, Bologna, 2005, pp. 291 ss.
15 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
16 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
Le menzionate questioni interpretative sono state definitivamente risolte appurando il carattere oggettivo e relativo dell’obbligazione di consegna di cui al comma 1 dell’art. 1575. L’obbligazione di consegnare la cosa in «buono stato di manutenzione» è ritenuta, invero, oggettiva poiché essa prescinde dalla concreta utilizzazione del bene concessa al conduttore. Infatti, l’immobile oggetto del contratto potrebbe essere consegnato in buono stato di manutenzione, così da rispettare l’obbligazione in esame, ma nel contempo non essere idoneo all’utilizzo che intende farne il conduttore17. Essa ha, inoltre, carattere relativo, considerata la possibilità per le parti di derogare alla previsione non cogente in questione, potendo esse stabilire nel contratto che l’immobile venga consegnato anche nelle condizioni in cui si trova, laddove il conduttore possa comunque trarne un’utilità18. Anche allorquando sia stato pattuito che la cosa venga consegnata in buono stato, come previsto dalla legge, ciò non implica che la stessa debba essere interamente idonea all’uso al quale il conduttore indenta destinarla, a meno che non sia stato espressamente convenuto dalle parti19. Si esclude, dunque, che il «buono stato di manutenzione» sia un concetto assoggettato a modificazioni in relazione alle esigenze del conduttore, il quale in mancanza di un’espressa previsione contrattuale, non può ottenere che il locatore apporti alla cosa locata migliorie o aggiustamenti che possano rendere il bene idoneo al soddisfacimento del suo interesse concreto20.
Inoltre, non sussiste la responsabilità del locatore per il mancato adempimento dell’obbligazione di consegna della cosa in buono stato di manutenzione, in caso di inidoneità del bene ad ovviare alle esigenze concrete del conduttore, nel momento in cui lo stesso sia già a conoscenza di tale inadeguatezza del bene al momento del perfezionamento del contratto21.
Infine, nel caso di mancata realizzazione della prestazione di consegna gravante sul locatore, sono previsti due differenti rimedi esperibili dal conduttore, uno di carattere demolitorio e uno di carattere conservativo. Il primo si sostanzia nell’esercizio dell’azione di risoluzione del contratto, dopo aver provveduto ad intimare per iscritto l’adempimento; il secondo consiste in un’azione di adempimento finalizzata ad ottenere la consegna
17 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
18 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
19 CARRATO, SCARPA, Le locazioni nella pratica del contratto e del processo, Milano, 2001, p. 39.
20 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
21 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
dell’immobile, secondo quando ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1453 e 2930 c.c.22.
Un’ulteriore obbligazione del locatore emerge dalla disciplina dettata dal comma 2 dell’art.1575 c.c., meglio specificata nelle due disposizioni seguenti di cui agli artt.1576 e 1577 c.c. Essa è l’obbligazione di manutenzione che, grazie all’esegesi giurisprudenziale del dato normativo, consiste nel realizzare tutte le riparazioni e gli aggiustamenti necessari affinché la cosa locata possa servire all’uso pattuito dalle parti23. L’art.1576 c.c. specifica quali obbligazioni di fare in tal senso gravino esattamente sul locatore, con alcune differenze a seconda della natura mobile o immobile del bene oggetto del contratto. Infatti, mentre per i beni immobili il locatore è obbligato ad eseguire tutte le riparazioni necessarie, ma non quelle di piccola manutenzione24, per i beni mobili, è il conduttore a dover sostenere le spese relative sia alle riparazioni che alla piccola manutenzione, salvo che le parti non abbiano concordato differentemente.
A tal proposito, occorre soffermarsi sul discrimine intercorrente tra riparazione e manutenzione, che risulta essenziale per comprendere come le spese debbano essere effettivamente ripartite tra conduttore e locatore.
I due termini «riparazione» e «manutenzione» pur sembrando molto simili nell’utilizzo colloquiale e quotidiano, hanno un significato molto diverso dal punto di vista tecnico. Infatti, la manutenzione potrebbe assumere anche una connotazione preventiva, configurandosi come attività volta a garantire la conservazione del bene e ad evitare il verificarsi di potenziali danni; la riparazione sarebbe connotata da un carattere successivo, vista la sua necessaria correlazione con un danno alla cosa già verificatosi25.
Dal punto di vista normativo e, in particolare, dalla lettura degli artt. 1575 e 1576 c.c. sembrerebbe che il legislatore non abbia voluto far propria detta distinzione terminologica sussistente tra la «manutenzione» e la «riparazione», statuendo che gravino sul locatore indifferentemente riparazioni e manutenzioni dipendenti anche da danni già cagionati alla cosa locata26.
22 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
23 Cass. Sez II, 28 novembre 1998, n. 12085 in Mass. Xxxx.xx, 1998, Arch. Locazioni, 2003.
24 Secondo quanto previsto dall’art. 1609 c.c. «le riparazioni di piccola manutenzione che devono essere eseguite dall’inquilino sono quelle dipendenti da deterioramenti prodotti dall’uso, e non quelle dipendenti da vetustà o caso fortuito».
25 GABRIELLI, PADOVINI, La locazione di immobili urbani, Padova, 2005, pp. 260 ss.
26 GRASSELLI, op. cit., pp. 291 ss.
Il locatore, nell’adempiere alla propria obbligazione di manutenzione, dovrebbe dunque provvedere a realizzare «le riparazioni necessarie» al bene locato.
Per riparazioni «necessarie» si intendono tutti gli aggiustamenti senza i quali il godimento del bene, che dovrebbe essere garantito al conduttore quale suo diritto indissolubile, subirebbe una deminutio. Non è, invece, inclusa qualsivoglia attività finalizzata alla ricostruzione totale della cosa locata che, comportando la creazione di un bene assolutamente nuovo, risulterebbe fuoriuscire dal concetto stesso di manutenzione, anche largamente inteso27.
Il legislatore ha previsto, con riguardo all’obbligo di manutenzione, parimenti a quanto previsto per l’obbligo di consegna, degli specifici rimedi esperibili dal conduttore in caso di mancato adempimento dello stesso. In particolare, sono prospettati alternativamente la risoluzione del contratto o l’azione di adempimento insieme all’eventuale risarcimento del danno28.
In ultima analisi, il locatore è tenuto a garantire al conduttore il pacifico godimento dell’immobile durante la locazione, come stabilito dall’art. 1575 c.c. comma 3.
La locuzione «durante la locazione», alla quale il legislatore ha fatto ricorso per qualificare maggiormente i caratteri dell’obbligazione, indica che, nel caso di scadenza del contratto, l’obbligo del locatore di garantire la realizzazione del diritto personale di godimento del conduttore verrebbe automaticamente meno.
L’obbligazione in discorso trova un’ulteriore specificazione nella formulazione dell’art. 1585 c.c., secondo il quale «il locatore è tenuto a garantire il conduttore dalle molestie, che diminuiscono l’uso o il godimento della cosa, arrecate da terzi che pretendono di avere diritti sulla cosa medesima».
La ratio legis della menzionata disposizione consiste nel far si che l’obbligazione di tutela del conduttore da possibili ed eventuali molestie arrecate da terzi gravi sul locatore, considerato il diritto dello stesso di esperire l’azione di manutenzione ex art.1170 x.x., xx xxxxx, xxxxx xx xxxxxxx xxx xxxxxxxxxx di detentore qualificato ma non di possessore, non potrebbe essere esperita da quest’ultimo. Il conduttore, infatti, dinanzi all’espletamento di potenziali molestie, potrebbe avvalersi unicamente dell’azione di reintegrazione ex
27 GABRIELLI, PADOVINI, op. cit., pp. 260 ss.
28 GRASSELLI, op. cit., pp. 313 xx.
xxx.0000 x.x., xxxxxxxx anche ai detentori qualificati, esercitandola entro un anno dal momento della realizzazione della condotta di spoglio violento e occulto.
Dottrina e giurisprudenza hanno delineato una bipartizione esistente tra due tipologie di molestie: di fatto e di diritto29. Il locatore, secondo quanto stabilito sulla base della menzionata bipartizione, sarebbe tenuto a garantire il conduttore unicamente per le molestie di diritto, ossia le pretese provenienti da terzi di esercitare diritti reali e/o personali sul bene locato che pregiudicano il conduttore nel suo diritto di godere della cosa30. Nell’ipotesi di molestie di fatto, le quali si verificano mediante il materiale impossessamento del bene locato, che automaticamente comporta la perdita o la menomazione del godimento dello stesso, la tutela del diritto di godimento spetta al conduttore o locatario, in qualità di titolare di una legittimazione autonoma in tal senso31. Anche la Suprema Corte ha avallato l’orientamento in esame, affermando la titolarità, in capo al conduttore, di un’azione indipendente, qualora voglia tutelarsi dinanzi al verificarsi di molestie di fatto. Infatti, al conduttore è stato riconosciuto il diritto di esperire l’azione volta a far valere la responsabilità extracontrattuale di coloro che abbiano realizzato la condotta del materiale impossessamento del bene locato. Le molestie di fatto, invero, sono condotte illecite rientranti nell’ambito applicativo dell’art. 2043 c.c., configurandosi esse come fatti che cagionano al conduttore un danno ingiusto, impedendogli di godere della cosa locata.
Invece, nel caso di molestie di diritto, l’esatto adempimento dell’obbligazione impone al locatore di garantire al conduttore il godimento della cosa oggetto del contratto. Le modalità attraverso cui il locatore tutela il conduttore dalle molestie di diritto sono molteplici e possono consistere sia nell’agire in giudizio contro il terzo autore della turbativa sia in un risarcimento dei danni a favore del locatario32.
Il locatore, oltre a tutelare il conduttore da eventuali molestie di diritto che possano turbare il godimento della cosa, deve assicurarsi che la cosa locata sia esente da vizi33. La norma concernente i vizi del bene oggetto del contratto di locazione è l’art. 1578 x.x., xx
00 XXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXX, XXXXXXXX, Commentario Sistematico delle locazioni e del condominio, Piacenza, 2009, pp. 170 ss.
30 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, SINISI, TRONCONE, op. cit., p. 170 ss.
31 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXX, XXXXXXXX, op. cit., p. 170 ss.
32 GRASSELLI, op. cit., pp. 345 ss.
33 I vizi della cosa locata sono difetti, anche riparabili, intrinseci alla struttura della cosa stessa, preesistenti alla conclusione del contratto o anche sopravvenuti.
quale prevede la responsabilità del locatore per tutti i danni e pregiudizi che siano derivati al conduttore dai difetti della medesima, fatte salve le ipotesi di ignoranza incolpevole al momento dell’avvenuta consegna della cosa34.
Il conduttore, nell’ipotesi di vizi del bene, può domandare la risoluzione del contratto, la riduzione del canone e, se sussistono i presupposti, il risarcimento del danno. Peraltro, il conduttore non può esperire l’azione di esatto adempimento, considerato che la presenza di difetti della cosa non integra l’inadempimento di un’obbligazione del locatore, ma incide sulla corrispettività propria dello schema contrattuale locatizio35.
1.2 Gli obblighi del conduttore
Poiché la locazione è un contratto a prestazioni corrispettive, fa sorgere obbligazioni anche in capo al conduttore, previste all’art. 1587 c.c.
La disposizione citata, infatti, definisce le tre principali obbligazioni del conduttore che consistono nel prendere in consegna il bene locato, nel servirsene per l’uso pattuito o desumibile dalle circostanze, adoperando la diligenza del buon padre di famiglia, e nel versare il corrispettivo rispettando i termini stabiliti contrattualmente36.
Occorre, dunque, analizzare singolarmente tali obbligazioni.
L’obbligazione del conduttore di ricevere in consegna la cosa locata, oltre ad apparire connessa alla contrapposta obbligazione del locatore di consegnare il bene locato, ha un significato proprio e indipendente, caratterizzato da numerose implicazioni pratiche. Difatti, nel caso di mancato ricevimento del bene da parte del conduttore, che configura un’obbligazione strumentale alla realizzazione dell’interesse delle parti, la dottrina ha ritenuto esperibile la risoluzione per inadempimento del conduttore, con eventuale risarcimento dei danni a vantaggio del locatore37.
La risoluzione per inadempimento nel caso in cui il conduttore impedisca la consegna, non è esclusa dalla circostanza che quest’ultimo abbia corrisposto il canone al locatore, in quanto il locatore potrebbe avere interesse non solo al versamento del corrispettivo, ma anche alla concreta custodia della cosa locata da parte del locatario38.
34 XXXXXXXXXX, op. cit., pp. 41 ss. 35 XXXXXXXXXX, op. cit., pp. 41 ss. 36 GRASSELLI, op. cit., pp. 360 ss.
37 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, SINISI, XXXXXXXX, op. cit., pp. 291 ss.
38 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, SINISI, TRONCONE, op. cit., pp. 291 ss.
Difatti, pur non essendo menzionato esplicitamente nel dato normativo di riferimento, sussiste, a carico del conduttore, un dovere di custodia della cosa locata per tutta la durata del contratto di locazione. Questo si evince da una lettura sistematica del Codice, ed in particolar modo, dall’art. 1177 c.c., nel quale si prevede che «l’obbligazione di consegnare una cosa determinata [come quella oggetto del contratto di locazione] include quella di custodirla fino alla consegna»39.
A tal proposito, dottrina e parte della giurisprudenza sono giunte ad affermare la sussistenza, in capo al conduttore, di un ulteriore obbligazione scaturente dal contratto di locazione e avente ad oggetto l’uso dell’immobile. Pertanto, il mancato ricevimento e il conseguente non uso della cosa locata, oltre a violare il dovere di custodia, comporterebbe anche una modifica della destinazione contrattuale40. Tuttavia, qualcuno ha osservato in senso critico che l’omesso uso del bene locato non possa fondare l’azione di risoluzione per inadempimento del conduttore, parimenti a quanto esposto in riferimento al dovere di custodia, a meno che l’uso sia coessenziale alla conservazione della cosa ovvero sia stato oggetto di pattuizione espressa41.
La seconda obbligazione del conduttore prevista dal testo normativo in esame si ravvisa nella diligenza richiesta allo stesso nell’utilizzo del bene oggetto del contratto. Il criterio di diligenza del buon padre di famiglia presente nell’art.1587 c.c. rende necessario un richiamo all’art.1176 c.c. Questa disposizione disciplina la misura di diligenza richiesta nell’adempimento, dovendosi avere riguardo anche alla natura dell’attività esercitata42. La diligenza del buon padre di famiglia deve essere osservata dal locatario nel servirsi del bene per l’uso che sia stato previamente determinato nel contratto o che possa desumersi dalle circostanze. Le eventuali violazioni di tale obbligo di correttezza possono concretizzarsi in comportamenti commissivi e/o omissivi, come il danneggiamento del bene locato o la mancanza di manutenzione del bene tale da causarne il deterioramento43. Inoltre, dalla disciplina contenuta nel comma 1 dell’art.1587 c.c. si evince l’obbligo del
39 GRASSELLI, op. cit., pp. 360 ss.
40 GRASSELLI, op. cit., pp. 360 ss.
41 XXXXX, la locazione-conduzione, in Trattato di diritto civile e commerciale, XXV, diretto da Xxxx e Messineo, Milano, 1972, pp. 258 ss.
42 XXXXX. op. cit., pp. 258 ss.
43 GRASSELLI, op. cit., p. 372.
conduttore di rispettare l’uso del bene pattiziamente determinato e, quindi, di non alterare la natura del bene o la sua destinazione economica44.
Invece, allorquando l’uso non sia stato espressamente concordato dalle parti, esso potrebbe agevolmente essere desunto dall’esegesi dell’accordo contrattuale, mediante l’ausilio dei noti criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.
Il conduttore, dunque, nell’adempiere alla propria obbligazione ex art. 1587, comma 2
c.c. può apportare innovazioni al bene locato per meglio adattarlo alle sue esigenze, nei limiti in cui queste non siano tali da alterarne la natura o mutarne la destinazione.
Il locatario che effettua modifiche o innovazioni in violazione del suddetto divieto, ledendo il diritto del locatore a conservare la res locata senza mutamenti della sua conformazione originaria o destinazione, incorre in un inadempimento contrattuale. L’ordinamento giuridico prevede, con riguardo a siffatto particolare inadempimento, il rimedio della risoluzione, il cui accoglimento necessita, tuttavia, di un’indagine relativa alla gravità della condotta del locatario e all’incidenza delle modificazioni apportate al bene locato sulla sua natura o destinazione economica45.
La terza obbligazione del conduttore, menzionata nell’art. 1587 c.c. è quella del pagamento, al locatore, del corrispettivo per il godimento del bene.
In particolare, nella formulazione dell’art. 1587 n. 2) c.c., il legislatore fa ricorso all’espressione «nei termini convenuti» per disciplinare le modalità e le tempistiche che devono essere osservate nell’adempimento all’obbligazione in esame.
Il versamento del canone è l’obbligazione principale del conduttore, poiché realizza l’interesse primario del locatore.
L’oggetto della prestazione del conduttore di versare il corrispettivo, di regola, consiste in una somma di denaro. Tuttavia, il corrispettivo in denaro potrebbe anche essere accompagnato da una prestazione in natura46.
Diversamente, secondo la giurisprudenza, qualora il corrispettivo della concessione in godimento di un bene sia una prestazione lavorativa è esclusa la possibilità di qualificare un siffatto contratto come locazione47.
44 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, SINISI, TRONCONE, op. cit., pp. 291 ss.
45 CHIESI, XXXXXXXX, XXXXXXXX, SINISI, TRONCONE, op. cit., pp. 291 ss.
46 Cass., sez. III, 26 febbraio 1992, n. 2368, in Il Xxxx Xxxxxxxx, 000, 0000.
47 C. cost., 17 dicembre 1975, n. 238, in xxxxxx.xx.
A prescindere dalla sua natura, il corrispettivo deve presentare particolari caratteristiche, tra le quali rientrano l’obbligatorietà, la proporzionalità e l’unitarietà, nonché determinatezza o determinabilità48.
Nonostante l’art. 1571 c.c. impieghi il termine «determinato», quale attributo del corrispettivo, esso verrebbe considerato ugualmente esistente come elemento contrattuale, qualora fosse semplicemente determinabile. Il canone dovrebbe, dunque, potersi determinare sulla base di criteri ed elementi predefiniti e concordati dalle parti, considerando che, in assenza di questi ultimi, il giudice non può sostituirsi alle stesse nella manifestazione della loro volontà negoziale49.
La mancanza del requisito della determinatezza o determinabilità del canone comporta la nullità del contratto di locazione.
Quanto appena esposto vale anche per le locazioni abitative a canone concertato, oggetto di speciale disciplina. Infatti, è stato disposto negativamente al quesito relativo all’applicazione dell’art. 1339 c.c., determinando il corrispettivo in base ai parametri della concertazione, qualora il canone non fosse contrattualmente fissato dalle parti50.
Dunque, una volta determinato pattiziamente il canone da corrispondere, il conduttore è obbligato a versarlo, non potendo né omettere tale adempimento, né determinare unilateralmente il corrispettivo, anche qualora vi fosse una deminutio nel godimento del bene imputabile al locatore. Con riferimento alle condizioni che legittimano il conduttore a sospendere, in tutto o in parte, il pagamento del canone, si rileva che recente giurisprudenza di legittimità si è discostata dall’orientamento più rigoroso che, con riferimento al rapporto locativo, avallava la legittimità della sospensione, anche parziale, della prestazione gravante sul conduttore solamente quando venisse «completamente a mancare la prestazione della controparte»51.
Si è ritenuto, infatti, che il conduttore possa sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art.1460 c.c., non solo quando venga meno la prestazione del locatore ma anche nell’ipotesi di suo inesatto adempimento, tale da non escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile. La sospensione del pagamento del canone è, difatti,
48 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 2, in Sistemi Giuridici, diretto da Cendon, Torino, 2010, pp. 1135 ss.
49 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 2, op. cit., pp. 1135 ss.
50 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 2, op. cit., pp. 1135 ss.
51 Cass., sez. III, 26 luglio 2019, n. 20322, in Il Foro italiano, 2020.
giustificata, nell’ipotesi in cui, nel rispetto del principio di correttezza e buona fede imposta alle parti, si concretizzi un’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione all’intero equilibrio del contratto52.
Invero, secondo quanto statuito da tale orientamento, «i criteri di buona fede e proporzionalità sinallagmatica, che concretano il funzionamento dell’istituto, verrebbero traditi ove, pur in presenza di accertati inadempimenti del locatore, ancorché non tali da escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile, non si ammettesse una proporzionale sospensione della prestazione di controparte, ma se ne richiedesse al contrario l’integrale adempimento».
Ebbene, la centralità dell’obbligazione di pagamento ha reso necessari plurimi interventi legislativi, che si sono succeduti nel tempo con la finalità di definire non solo l’ammontare complessivo del canone da corrispondere, ma anche le conseguenze derivanti dal mancato adempimento spontaneo del conduttore.
Un esempio è rappresentato dall’art. 5 della legge 392/1978, il quale dispone un termine di decadenza di venti giorni, decorsi i quali, qualora sia rimasta inalterata la situazione di omesso pagamento della somma dovuta da parte del conduttore, il locatore avrà il diritto di richiedere ed eventualmente ottenere la risoluzione del contratto, con conseguente restituzione del bene e pagamento dei canoni residui.
Oltre all’obbligazione di pagamento del canone, che costituisce quella principale del conduttore, sulla stessa grava anche l’obbligazione di farsi carico delle opere di piccola manutenzione, come agevolmente si ricava dall’art. 1576 c.c. Come meglio specificato dall’art. 1609 c.c., si tratta degli interventi necessari per far fronte ai deterioramenti prodotti dall’uso della cosa locata, non da vetustà o caso fortuito. Tuttavia, se le opere di manutenzione necessarie non sono qualificabili come piccole riparazioni, l’inquilino è tenuto ad avvisare il locatore, affinché quest’ultimo, in un’ottica di conservazione del bene locato e di garanzia del godimento del bene al conduttore (art. 1575 n. 3) c.c.), adotti gli aggiustamenti necessari.
Infine, il locatario è obbligato a restituire la cosa nello stato in cui l’ha ricevuta al termine della durata del contratto (art. 1590 c.c.). Si tratta di un’obbligazione non autonoma, ma derivante dagli altri obblighi previsti dall’art. 1587 c.c. Infatti, una corrente dottrinale ha
52 Cass., sez. III, 29 gennaio 2021, n. 2154, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2021.
ritenuto, in passato, che tale obbligo di restituzione avesse la propria fonte non nel vincolo contrattuale in quanto tale, bensì nella scadenza del termine, tanto da classificare lo stesso come obbligazione di natura extracontrattuale53.
Questa teoria, nonostante non meriti di essere condivisa, viste le problematiche applicative e d’inquadramento del rapporto di locazione che essa ha provocato54, lascia emergere la rilevanza che, nel contratto di locazione, assume il tempo. Infatti, la durata del contratto di locazione ha un rilievo determinante per la sua corretta esecuzione e per una comprensione piena e completa della sua disciplina.
1.3 La durata del contratto
Il contratto di locazione, come già si è avuto modo di accennare, rientra nel novero dei contratti di durata ad esecuzione continuata.
L’elemento della durata è fisionomico nel contratto di locazione, poiché gli interessi delle parti ad esso sottesi si realizzano unicamente quando le prestazioni del locatore e del conduttore si protraggono nel tempo55.
Il legislatore, nel definire la locazione all’art. 1571 c.c., utilizza l’espressione «per un dato tempo», in riferimento all’esecuzione delle prestazioni contrattuali.
Pertanto, risulta necessaria un’analisi riguardante il termine finale del contratto di locazione, in particolare, occorre soffermarsi su tre profili: la sua lunghezza minima e quella massima e le conseguenze della sua mancata determinazione56.
Il Codice civile non detta una disciplina sulla durata minima del contratto di locazione, diversamente da quanto si verifica per gli immobili urbani ad uso abitativo. Infatti, la legge sull’equo canone, all’art. 1, prevede che la durata della locazione non possa essere inferiore ad un ammontare complessivo di quattro anni. L’art. 27 della stessa legge, fissa, altresì, la durata minima delle locazioni di immobili ad uso diverso da quello abitativo: sei anni per gli immobili adibiti ad uso commerciale, industriale, turistico, artigianale e professionale e nove anni per le locazioni alberghiere.
53 MIRABELLI, La locazione, in Trattato di diritto civile italiano, VII, 4, diretto da Xxxxxxxx, Torino, 1972, pp. 479 ss.
54 La qualificazione dell’obbligazione di restituzione come obbligazione extracontrattuale avrebbe comportato l’impossibilità di inquadrare la posizione del conduttore nel novero dei rapporti obbligatori.
55 XXXXX, op. cit., pp. 258ss.
56 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione, 3, in Sistemi Giuridici, diretto da Cendon, Torino, 2010, pp. 1893 ss.
Per quanto concerne, invece, la durata massima del contratto di locazione, l’art. 1573 c.c. dispone che la locazione non possa essere stipulata per un tempo che ecceda i trenta anni. Questa norma è imperativa. Pertanto, non è derogabile e la sua violazione è sanzionata dal legislatore: se le parti prevedono un termine più lungo o una locazione perpetua il termine è ridotto di diritto a trenta anni.
Tuttavia, la possibilità di una locazione ultratrentennale è presente, per la locazione di fondi urbani, all’interno del Codice stesso. Infatti, l’art. 1607 c.c. prevede che «la locazione di una casa per abitazione può essere convenuta per tutta la durata della vita dell’inquilino e per due anni successivi alla sua morte»57, la quale si configura come eccezione rispetto alla regola generale concernente la durata limitata del contratto di locazione (art. 1573 c.c.).
La norma che la massima durata per il contratto di locazione, tende ad evitare una locazione perpetua che, in quanto fortemente limitativa del diritto di proprietà, violi surrettiziamente il principio del numerus clausus dei diritti reali58. Perciò la sua violazione comporta la sostituzione ex lege di eventuali clausole difformi (1339 c.c.), Nel rispetto dei limiti minimi e massimi stabiliti dalle norme del Codice e delle leggi speciali, le parti sono libere di determinare la durata della locazione. Nel caso in cui il locatore ed il conduttore non prevedano espressamente la durata del rapporto, la medesima potrebbe comunque essere desunta dal contratto, attraverso l’attività di interpretazione della volonta delle parti oggettivata nel negozio.
Laddove, invece, non vi fosse nel contratto alcun riferimento alla durata e non potesse essere desunto dal testo e contesto del contratto, troverebbe applicazione la disciplina dettata dall’art. 1574 c.c., che fissa un termine legale di durata, applicabile solo ai contratti di locazione di beni mobili e ad ulteriori tipologie contrattuali che non risultano assoggettate alle discipline speciali introdotte dalle leggi 392/1978 e 431/199859.
La legge 431/1998, infatti, con riferimento alla locazione di immobili ad uso abitativo, prevede una durata di tre anni con possibilità di rinnovo per ulteriori due anni, in caso di
57 L’ipotesi di locazione ultratrentennale concernente i fondi urbani, di cui all’art. 1607 c.c. è stata pensata dal legislatore per consentire che il diritto alla continuità nel diritto all’abitazione dei consociati venisse tutelato.
58 XXXXXXXX, Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, XII, 4, diretto da Xxxxxxxx, Milano, 2007, pp. 35 ss.
59 XXXXXXXX, op. cit., pp. 35 ss.
canone concordato, ed una durata di quattro anni rinnovabile per altri quattro, nel caso in cui vi fosse un canone libero.
Il canone concordato è previsto e disposto dal legislatore sulla base delle esigenze di mercato e di carattere economico che interessano un determinato Comune. Se il locatore ed il conduttore stipulano un contratto di locazione di immobili ad uso abitativo a canone concordato, pur potendo liberamente pattuire il contenuto contrattuale, non possono derogare alle disposizioni concernenti la durata dello stesso e l’ammontare complessivo del canone60.
Il canone libero, invece, è determinato dalle parti, le quali, sono comunque tenute ad osservare la durata minima di quattro anni, statuita dal legislatore. Il contratto di locazione a canone libero, inoltre, è assoggettato al rinnovo automatico per ulteriori quattro anni, a meno che il conduttore non comunichi al locatore, per iscritto e sei mesi prima della scadenza, la sua volontà di non rinnovare il contratto o eserciti il suo diritto di recesso qualora ricorrano gravi motivi.
La legge 431/1998 stabilisce, inoltre, la durata dei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso industriale, artigianale e professionale e delle locazioni alberghiere, fissandola rispettivamente in sei e nove anni, considerata la peculiare destinazione del bene concesso in godimento.
2. Il contratto di locazione di immobili ad uso abitativo
Nell’ambito dello schema della locazione possono distinguersi, con considerevoli differenze:
a) la locazione di beni mobili (veicoli, attrezzi, macchinari, ecc);
b) la locazione di immobili urbani, figura di basilare rilevanza economica e sociale;
c) la locazione di immobili non urbani.
Dalla locazione in senso stretto va tenuto separato l’affitto, il quale ha per oggetto unicamente beni produttivi e nel quale il godimento della cosa esige l’esercizio di un’attività da parte del soggetto che ne riceve l’uso.
La materia delle locazioni, dunque, non si presenta sotto un profilo unitario e ciò in ragione del peculiare significato sociale rivestito da tale figura.
60 XXXXXXXX, op. cit., pp. 35 ss.
La necessità di tutela del contraente più debole, ovvero il conduttore, ha determinato il sorgere di una normativa speciale, che si è spesso affiancata e sovrapposta a quella del codice, derogando alla libertà che connota l’autonomia negoziale.
In generale, può osservarsi che il contratto di locazione previsto e regolato dal codice è suscettibile di adeguarsi alla logica sottesa agli interessi differenti corrispondenti al tipo di rapporto instaurato tra le parti e, in particolare, alla destinazione del bene locato61.
Ebbene, il contratto di locazione, secondo quando statuito dall’art. 1571 c.c. può avere, potenzialmente, ad oggetto beni mobili e immobili.
Nello specifico, i molteplici beni immobili, in relazione ai quali le parti potrebbero perfezionare un contratto di locazione, sono contraddistinti da una eterogenea natura e destinazione. Perciò, la particolare destinazione del bene immobile oggetto del contratto ricondurrebbe all’individuazione di differenti tipologie locatizie, ognuna delle quali assoggettata ad una propria tipica disciplina.
La prima tipologia concerne i contratti di locazione di immobili destinati al soddisfacimento di un bisogno essenziale dell’individuo: il bisogno d’abitazione. Il diritto all’abitazione, collocato dalla Corte costituzionale nel novero dei diritti sociali inviolabili del singolo, viene attuato concretamente dagli individui mediante la stipulazione di contratti di compravendita ovvero di locazione.
Difatti, il perfezionamento dei suddetti contratti consente il soddisfacimento del bisogno di abitazione dei consociati, i quali, nel caso in cui i beni abbiano elevato valore economico, prediligono la stipulazione del contratto di locazione, anziché di compravendita62.
Nell’insieme dei contratti di locazione destinati ad uso abitativo si può operare un’ulteriore distinzione tra contratti di locazione di immobili urbani e di immobili non urbani, che si basa sulla tipologia di immobile oggetto del contratto, invece che sulla destinazione.
La locuzione «immobili urbani» può essere diversamente intesa, a seconda che si dia maggior valore all’ubicazione dell’immobile o all’utilizzo che venga fatto dello stesso. Infatti, si può parimenti classificare un immobile urbano come un bene che sia collocato
61 TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2015, p. 962.
62 GABRIELLI, PADOVINI, op. cit., pp. 3 ss.
in una superficie urbana ovvero come edificio non rustico, conferendo rilievo all’uso di quest’ultimo63.
Il Codice civile, negli articoli riguardanti la locazione di immobili urbani, con particolare riferimento agli artt. 1607 ss., sembra avere optato per identificare gli immobili urbani con quelli situati in un’area urbana, adoperando quale criterio di identificazione la collocazione.
Le leggi speciali, invece, qualificano urbani gli immobili che non sano rustici e, dunque, si differenziano dagli altri, non per la propria ubicazione, bensì per la destinazione che gli viene impressa64.
Laddove il criterio adottato per conferire un significato all’espressione «immobili urbani» sia quello della destinazione del bene locato, possono sorgere dubbi applicativi allorquando l’uso dell’immobile sia promiscuo, poiché non destinato unicamente a soddisfare l’esigenza abitativa del locatario. Infatti, anche la giurisprudenza di legittimità ritiene che sia consentito alle parti, nello stipulare un contratto di locazione, concordare la destinazione a molteplici usi dell’immobile locato, data la totale autonomia nella determinazione dei medesimi65.
Pertanto, in siffatte ipotesi, per risolvere la problematica relativa alla disciplina applicabile, il legislatore ha introdotto il criterio della prevalenza negoziale, che consiste nella determinazione dell’uso prevalente, con conseguente applicazione della normativa corrispondente alla tipologia contrattuale individuata66.
Nell’ambito delle locazioni immobiliari si suole, poi, distinguere, in locazioni abitative primarie e locazioni abitative escluse, a seconda che il bisogno di abitazione del conduttore sia primario ed essenziale ovvero secondario. I contratti rientranti nell’insieme delle locazioni abitative primarie sono stati assoggettati ad una dettagliata normativa, che ha avuto particolare riguardo all’individuazione di regole concernenti il canone e la durata della locazione stessa. Infatti, la ratio delle leggi aventi ad oggetto il canone e la durata di tali locazioni è di tutelare il diritto all’abitazione degli individui e dei propri nuclei familiari e di evitare che questo diritto possa subire un pregiudizio, dovuto ad una durata
63 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p. 319.
64 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., pp. 320 ss.
65 Cass., Sez. III, 3 giugno 1993, n. 6223, in Arch. Locazioni, 1993.
66 DI MARZIO, FALABELLA, op. cit., p. 316.
del rapporto contrattuale eccessivamente breve o alla previsione di un canone notevolmente alto67.
La regolamentazione dettata dal legislatore per le locazioni abitative primarie, non è, però, applicabile a locazioni nelle quali la necessità di soddisfare un bisogno d’abitazione non sia prioritario.
Per tale motivo, è stata elaborata un’apposita e peculiare disciplina, con riferimento alle locazioni abitative escluse, tra le quali sono ricompresi i contratti di locazione aventi ad oggetto immobili di prestigio, immobili di edilizia residenziale pubblica ed immobili utilizzati per esigenze abitative non prevalenti68.
2.1 La disciplina codicistica
Quando non derogate da norme speciali, sono applicate le disposizioni del Codice civile (artt. 1571-1614 c.c.).
La sezione I del Capo VI del Titolo III del Libro IV, rubricata “Disposizioni generali” (artt. 1571-1606 c.c.), disciplina sia la locazione di cose mobili che di beni immobili; la sezione II (artt. 1607-1614 c.c.) afferisce, invece, alla “Locazione di fondi urbani”.
Le obbligazioni principali del locatore sono, come si è già avuto modi di accennare:
a) consegnare la cosa in buono stato, senza vizi e idonea all’uso convenuto, senza che terzi possano vantare diritti su di essa che ne impediscano l’uso;
b) mantenere la cosa in buono stato locativo, provvedendo a far eseguire tutte le riparazioni necessarie, escluse quelle di piccola manutenzione, che sono a carico del conduttore;
c) assicurare il pacifico godimento della cosa durante la locazione. Il locatore deve tutelare il conduttore dalle pretese o molestie di terzi che vantino diritti sulla cosa locata. In caso di vizi che siano di ostacolo al godimento della cosa, anche se sopravvenuti (art. 1581 c.c.), il conduttore ha diritto di invocare la risoluzione del contratto o di chiedere una riduzione del corrispettivo (art. 1578 c.c.).
67 DI XXXXXX, FALABELLA, La locazione 1, op. cit., p. 413.
68 Le suddette tipologie di immobili sono escluse dall’ambito applicativo della disciplina relativa alle locazioni abitative primarie in considerazione della finalità della loro edificazione ovvero della natura degli stessi beni immobili, che li rendono non assoggettabili ad una normativa maggiormente rigorosa e «di protezione», come nel caso in cui l’esigenza di abitazione sia primaria. DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 1, op. cit., p. 539.
Il conduttore, invece, è tenuto a:
a) corrispondere il canone secondo le modalità convenute;
b) prendere la cosa in consegna ed osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso stabilito in contratto o per l’uso che altrimenti può presumersi secondo le circostanze. Il conduttore risponde della perdita o del deterioramento della cosa avvenuti nel corso della locazione, anche se derivanti da incendio, a meno che non provi che la perdita o il deterioramento siano accaduti per causa a lui non imputabile (art. 1588 c.c.);
c) restituire la cosa nello stato in cui l’ha ricevuta.
Il conduttore non risponde del perimento o del deterioramento del bene derivati da vetustà (art. 1590, co. 3).
Inoltre, il conduttore non ha diritto a indennità per i miglioramenti eventualmente apportati alla cosa locata (art. 1592 c.c.). Tuttavia, se il locatore ha dato il proprio consenso all’espletamento di opere di miglioramento, questi è tenuto a pagare un’indennità corrispondente alla minor somma tra l’importo speso e il valore della cosa locata al momento della consegna.
Per quanto concerne le addizioni (art. 1593 c.c.), il conduttore ha diritto di rimuoverle alla fine del rapporto, salvo che il locatore non eserciti il suo ius retinendi. In questo caso, il locatore deve corrispondere al conduttore un’indennità commisurata alla minor somma tra l’importo della spesa e il valore attuale delle addizioni. Se le addizioni non possono essere rimosse senza arrecare nocumento al bene e costituiscono un miglioramento, si osservano le regole suddette relative ai miglioramenti.
Quando la durata del contratto è stabilita dalle parti, il rapporto di locazione cessa alla scadenza, senza che sia necessaria disdetta, che è necessaria, invece, laddove le parti non abbiano determinato la durata della locazione (art. 1596 c.c.). La locazione si intende tacitamente rinnovata se, dopo lo spirare del termine finale, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione del bene (art. 1597 c.c.).
La locazione non può stipularsi per un tempo superiore a trenta anni (art. 1573 c.c.) e, se la durata è stabilita per un periodo più lungo, viene ridotta al suddetto termine.
Il contratto di locazione superiore ai nove anni integra un atto eccedente l’ordinaria amministrazione (art. 1572 c.c.) e, se ha ad oggetto beni immobili, deve essere redatto per iscritto ad substantiam (art. 1350, n. 8, c.c.) e trascritto (art. 2643, n. 8, c.c.).
L’alienazione del bene locato non determina lo scioglimento del contratto, secondo l’antico brocardo «emptio non tollit locatum». Il contratto di locazione, tuttavia, è opponibile al terzo acquirente soltanto se ha data certa, anteriore all’alienazione (art. 1599 c.c.).
L’acquirente del bene locato subentra in tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto di locazione (art. 1602 c.c.), determinandosi pertanto una successione ex lege nel contratto.
Salvo patto contrario, il conduttore ha la facoltà di sublocare il bene, in tutto o in parte, ma non può cedere il contratto senza il consenso del locatore (art. 1594, comma 1, c.c.). Con la sublocazione, il conduttore diventa a sua volta locatore nei confronti di un altro locatario, con un rapporto autonomo rispetto a quello intercorrente tra lo stesso e il primo locatore. Tuttavia, l’art. 1595 c.c. statuisce che il locatore ha azione diretta contro il subconduttore per soddisfare il suo credito sul prezzo della sublocazione non ancora versato al primo conduttore inadempiente69.
Il contratto di locazione è un rapporto di carattere personale che lega il proprietario (locatore) a chi gode del bene (conduttore). Tuttavia, la natura del diritto di godimento, di cui la locazione è fonte, presenta alcune peculiarità che hanno indotto parte della dottrina a considerarlo come un rapporto a metà strada tra i rapporti obbligatori e quelli reali70.
In primo luogo, il rapporto non ha effetto solo tra le parti, ma è opponibile ai terzi acquirenti. Si pensi, infatti, alla richiamata regola emptio non tollit locatum, all’obbligo di trascrizione, al limite di durata di trenta anni e alla facoltà di sublocazione. Questi costituiscono indici sintomatici di una deviazione da un rapporto di puro ordine personale71.
Proprio perché il contratto di locazione dà vita, a favore del conduttore, ad un diritto personale di godimento, ulteriori disposizioni che si considerano applicabili alla fattispecie contrattuale in esame sono quelle dedicate ai diritti personali di godimento. Un esempio è rappresentato dall’art. 1380 c.c., il quale detta la disciplina per risolvere il conflitto tra più diritti personali di godimento72.
69 ALPA, Manuale di diritto privato, Padova, 2011, p. 695.
70 GIORGIANNI, Diritti reali, Torino, 1960, pp. 748 ss.
71 TRABUCCHI, op. cit., p. 963.
72 TRABUCCHI, op. cit., pp. 7 ss.
2.2 La disciplina contenuta nelle leggi speciali
La normativa riguardante i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione è stata emanata per fronteggiare e dirimere numerose problematiche di carattere sociale, tra cui rientrano quelle concernenti la necessità di garantire alle fasce sociali più deboli la tutela del diritto di abitazione, quelle relative alla gestione del mercato immobiliare e locatizio e al corretto funzionamento del sistema fiscale nel settore73.
Infatti, la locazione di immobili ad uso abitativo è stata contraddistinta da una notevole importanza economica e sociale, che ha reso necessari plurimi interventi legislativi, successivi all’emanazione del Codice civile del 1942, e prevalentemente animati dalla preoccupazione di evitare che la parte contrattuale più forte, ossia il proprietario/locatore, abusasse del suo potere arrecando, di conseguenza, un pregiudizio al conduttore, considerato parte contrattuale debole.
Il locatore e il conduttore sono qualificati rispettivamente come parte contrattuale forte e debole, poiché essi tendono a soddisfare esigenze eterogenee e di diverso rilievo, mediante la stipulazione del contratto di locazione. Infatti, il bisogno del locatore viene soddisfatto da un bene fungibile per definizione, ossia il corrispettivo, diversamente da quanto si verifica con riguardo al bisogno di avere un’abitazione del conduttore, che è soddisfatto unicamente dalla concessione allo stesso del godimento di una cosa determinata74.
Per garantire una maggiore tutela al conduttore, si sono infatti susseguite, a partire dal d.lgs. 12 ottobre 1945, n. 669, numerose leggi, storicamente collocabili nella legislazione vincolistica, seguite dalla legislazione degli anni ‘70 e dall’ultima disciplina del 199875. Questi interventi normativi hanno perseguito, fin dall’inizio, prevalentemente la finalità di completare talune previsioni del Codice, considerate non esaustive, soprattutto con riferimento ad alcuni profili essenziali del contratto di locazione, come la durata e il corrispettivo76.
In particolare, la legislazione vincolistica ambiva a colmare l’assenza, nel Codice civile, di norme imperative concernenti il corrispettivo e le modalità della sua determinazione.
73 XXXXXXX, DI MARZIO, Le locazioni per uso abitativo, Milano, 2007, pp. 5 ss.
74 XXXXX, op. cit., p. 44.
75 XXXXX, op. cit., pp. 9 ss.
76 BESSONE, Istituzioni di diritto privato, Torino, 2015, p. 792.
Infatti, fu introdotto il divieto per il locatore ed il conduttore di aumentare il corrispettivo rispetto alla misura precedentemente pattuita o comunque rispetto ad un’altra predeterminata soglia77.
Inoltre, il regime vincolistico ha inciso anche sulla durata del contratto di locazione, contemplando ipotesi di proroga imperativa della durata contrattuale. Difatti, venne attribuito al conduttore il diritto di godere dell’immobile oggetto del contratto, anche successivamente rispetto alla scadenza del termine pattiziamente stabilito78.
Tuttavia, tali interventi della legislazione vincolistica non sono stati accolti favorevolmente dal mercato immobiliare, in quanto complicavano il quadro normativo del contratto di locazione, le cui questioni applicative continuavano ad essere prive di concreta soluzione.
Per tale ragione, si rese necessario, un ulteriore intervento del legislatore che, animato dai medesimi obiettivi che erano stati alla base del regime vincolistico, si sostanziò nella L. 27 luglio 1978, n. 392.
Questa legge ha conferito unità ed organicità alla disciplina della locazione immobiliare, individuando due tipi del medesimo rapporto contrattuale: locazione di immobili ad uso abitativo (artt. 1-26) e locazione di immobili ad uso diverso da quello abitativo (27 al 57). Più nel dettaglio, la legge in esame ha dettato, con riferimento ad entrambe le tipologie di locazione, una normativa concernente la durata minima delle stesse, che non era disciplinata dal Codice. Inoltre, unicamente per la locazione di immobili ad uso abitativo, ha previsto una regolamentazione concernente i criteri e le modalità di determinazione della misura del corrispettivo.
La legge del 1978 sancisce il carattere cogente delle sue previsioni sulla durata e determinazione del canone, sanzionando con la nullità le pattuizioni contrarie e derogatorie in tal senso (art. 79).
Pertanto, alle parti non è concesso prevedere ipotesi locatizie che si discostino, nella quantificazione del corrispettivo o nella determinazione della durata, dal modello legislativo e pregiudizievoli per il conduttore, quale parte contrattualmente svantaggiata e, di conseguenza, maggiormente meritevole di tutela79.
77 L. 23 Maggio 1950, n. 253, artt. 12 ss.
78 L. 23 Maggio 1950, n. 253, artt. 1 ss.
79 ALPA, op. cit., p. 700.
Per quanto concerne la determinazione del canone nei contratti di locazione di immobili finalizzati a soddisfare l’esigenza abitativa dei consociati, la legge 392/1978 ha introdotto il principio del canone «equo». Nello specifico, per gli immobili adibiti ad uso abitativo si statuisce che l’equo canone non debba superare il 3,85% del valore locativo dell’immobile, che viene a sua volta valutato in base ai parametri dettati dalla stessa legge80.
La ratio dell’introduzione dell’«equo canone» nelle locazioni abitative consisteva nel tentativo di bilanciare le due contrapposte esigenze del conduttore e del locatore, di ottenere la concessione in godimento del bene ad un canone ragionevole e di realizzare una rendita appropriata idonea a non frustrare il diritto di proprietà81.
Oltre ad incidere sulle modalità di determinazione del canone, la L. 392/1978 ha introdotto una regolamentazione specifica riguardante la durata minima del contratto di locazione ad uso abitativo, fissandola in quattro anni (art. 1)82.
La ratio della regolamentazione concernente la durata minima contrattuale consisteva, invece, nel contemperare l’esigenza di continuità nell’esercizio del diritto di abitazione, facente capo al conduttore, con l’esigenza del locatore, di poter disporre liberamente del proprio immobile, una volta decorso il termine legislativamente stabilito.
Parimenti a quanto avvenuto con la legislazione vincolistica precedentemente emanata, anche la legge del 1978 non venne accolta con favore dal mercato immobiliare. Infatti, specialmente la normativa cogente relativa al corrispettivo aveva comportato una preferenza verso la stipulazione di contratti di locazione di immobili non abitativi.
Inoltre, anche il tentativo della stessa legge di tutelare il conduttore si rivelò infruttuoso, considerata la continua violazione e/o elusione delle norme aventi ad oggetto l’equo canone.
La soluzione del legislatore a tali problematiche venne fornita con l’emanazione del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, poi convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, c.d. Xxxxx dei «patti
80 I parametri individuati per la determinazione del valore locativo sono le dimensioni dell’immobile, il suo costo base, la tipologia dell’immobile (signorile, civile, economico, popolare), la classe demografica del comune, l’ubicazione dell’immobile nell’area comunale, il livello di piano, vetustà e stato di conservazione e manutenzione. Si veda DI MARZIO, Il canone di locazione nel Codice civile e nelle leggi speciali, Rimini, 2007, p. 113.
81 DI MARZIO, Il canone di locazione nel Codice civile e nelle leggi speciali, op. cit., p. 114.
82 JANNARELLI, Durata della locazione, in Equo Canone, Disciplina delle locazioni di immobili urbani, a cura di Xxxxxx, Irti, Lipari, Proto Pisani, Xxxxxx, Padova, 1980, pp. 231ss.
in deroga», che, per gli immobili di nuova costruzione, abrogava le norme imperative sui criteri di quantificazione del canone83.
Per gli immobili precedentemente edificati, venne introdotto dalla L. 1992, n. 359 un regime innovativo, ai sensi del quale era concessa, alle parti, la facoltà di derogare alla normativa cogente in tema di durata e determinazione del canone, a condizione che le stesse venissero assistite nella stipulazione dalle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative sul territorio nazionale84.
Tale previsione è stata, tuttavia, oggetto di una pronuncia di incostituzionalità, nella quale si è ravvisato che il locatore ed il conduttore non potessero essere obbligati a richiedere l’assistenza delle relative associazioni per poter stabilire liberamente ed autonomamente il contenuto contrattuale.
Le innovazioni apportate alla disciplina della locazione con l’intervento legislativo del 1992, furono poi ulteriormente assoggettate a modificazioni con la legge 9 dicembre 1998, n. 431.
Anche la legge 431/1998 si prefissò l’obiettivo di disciplinare gli aspetti maggiormente problematici dello schema contrattuale locatizio: la durata e il canone. Il legislatore, nello specifico, individua nella suddetta legge, due tipologie di locazioni abitative, che si differenziano per le modalità di determinazione del corrispettivo e per la durata contrattuale.
La prima tipologia di locazione abitativa si contraddistingue per una regolamentazione imperativa concernente la durata e per una maggiore autonomia contrattuale delle parti nella pattuizione del canone.
In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 3 della legge 431/1998, il conduttore ed il locatore, nel concludere un contratto di locazione di immobili ad uso abitativo, devono stabilire una durata non inferiore a quattro anni, con primo rinnovo automatico alla scadenza di ulteriori quattro anni, a meno che non si verifichi una delle ipotesi tassativamente previste dalla legge stessa che escludono tale rinnovo85.
83 BESSONE, op. cit., pp. 790 ss.
84 DI MARZIO, Il canone di locazione nel Codice civile e nelle leggi speciali, op. cit., pp. 112 ss.
85 I casi tassativi, nei quali si può impedire il verificarsi del primo rinnovo, comprendono l’ipotesi nella quale il locatore voglia destinare l’immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale, proprio o dei congiunti, ovvero, quella nella quale sorga la necessità di eseguire lavori indispensabili o il conduttore non occupi continuativamente l’immobile senza giustificato motivo. Si veda, al riguardo, XXXXXXXXXX, op. cit., pp. 231 ss.
Diversamente da quanto disposto per il primo rinnovo, il legislatore prevede che il conduttore e il locatore possano evitare il verificarsi di un secondo rinnovo, anche al di fuori di ipotesi legislativamente predeterminate, di cui all’art. 3 della legge 431/1998, semplicemente manifestando la propria volontà in tal senso, almeno sei mesi prima rispetto alla scadenza del termine finale contrattualmente concordato.
Il carattere cogente delle norme sulla durata contrattuale persegue come obiettivo quello di garantire la piena tutela del diritto di abitazione del conduttore.
La legge 431/1998, sancisce organicamente la disciplina della locazione, prevedendo due modelli contrattuali con differenziazioni in tema di durata e canone.
In particolare, con riguardo alla prima tipologia contrattuale locatizia, la legge 431/1998 prevede delle norme imperative sulla durata del contratto, ma non dispone alcunché relativamente al canone e alle modalità della sua determinazione.
Per tale ragione, il primo modello di locazione viene definito anche come «contratto libero»86. Le parti, infatti, sono libere di stabilire la misura del canone da corrispondere, così come gli eventuali aumenti dello stesso, diversamente da quanto antecedentemente disposto dalla Legge sull’equo canone (392/1978), nella quale vigeva la regola, diametralmente opposta, della determinazione normativa del canone87.
La seconda tipologia di locazione abitativa, individuata dalla legge 431/1998 e nota anche come locazione a canone concertato, è invece contraddistinta da più ampie limitazioni dell’autonomia negoziale delle parti, le quali, nello stipulare un contratto di locazione rientrante in detta categoria, non sono libere di determinarne la durata così come la misura del canone.
Per quanto concerne la durata dei contratti di locazione a canone concertato, infatti, il legislatore fissa la durata minima contrattuale in tre anni, predisponendo, nel caso in cui il locatore e il conduttore non si siano accordati sul rinnovo del contratto, la proroga di diritto per due anni88.
Invece, per quanto riguarda il canone, l’art. 2 sancisce che il medesimo debba essere definito dalle parti «sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative, che provvedono alla definizione di contratti-tipo».
86 DI MARZIO, Il canone di locazione nel Codice civile e nelle leggi speciali, cit., pp. 112 ss. 87 DI MARZIO, Il canone di locazione nel Codice civile e nelle leggi speciali, cit., pp. 112 ss. 88 Art. 2, comma 5 della legge 431/1998.
Dunque, il locatore ed il conduttore, nel perfezionare un contratto di locazione a canone concertato, non possono prevedere, in conseguenza della limitazione alla loro autonomia privata nella individuazione del canone da corrispondere, un canone di misura superiore a quello «massimo, risultante dagli accordi conclusi in sede locale, per immobili aventi le medesime caratteristiche ed appartenenti alle medesime tipologie»89, pena la nullità dell’accordo.
Nonostante i menzionati vincoli nella libera ed autonoma determinazione del canone, i contratti di locazione a canone concertato sono solitamente preferiti dai locatori rispetto ai contratti di locazione a canone libero. Questo è dovuto all’incentivo per la stipulazione di tale tipologia contrattuale costituito dalle agevolazioni fiscali a favore del locatore.
Inoltre, la legge 431/1998, oltre a disciplinare organicamente la disciplina della locazione, contiene anche regole concernenti requisiti formali che devono essere rispettati per la valida stipulazione dei contratti di locazione di immobili ad uso abitativo90.
In particolare, ai sensi dell’art. 1, comma 4 è richiesto il rispetto del requisito della forma scritta91 e la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che, in mancanza di tale forma, il contratto sia affetto da nullità assoluta ed insanabile.
Tale requisito formale ha, inoltre, una notevole rilevanza pratica, considerata la previsione dell’art. 13, nella quale si commina la nullità di ogni pattuizione da cui risulti un canone diverso da quello risultante dal contratto scritto perfezionatosi tra le parti. Invero, l’art. 13, comma 1, dispone la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello che risulta dal contratto «scritto e registrato» e di ogni pattuizione volta a derogare ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla legge. In tal caso, il conduttore ha diritto, con azione esperibile fino a sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato dopo la cessazione del rapporto locativo, alla restituzione delle somme indebitamente versate ed alla riconduzione della locazione alle condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 o 3 dell’art. 2.
Inoltre, per i contratti a canone concordato dalle associazioni di categoria (art. 2, comma 3), è nulla ogni pattuizione diretta ad attribuire al locatore un canone superiore a quello massimo previsto dagli accordi locali; mentre, per i contratti a canone libero (art. 2,
89 Art. 13 della legge 431/1998.
90 ALPA, op. cit., pp. 700 ss.
91 La previsione del requisito della forma scritta, per i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, persegue la finalità di ostacolare l’evasione fiscale.
comma1) è prevista la nullità di qualsiasi obbligazione del conduttore e di qualsiasi clausola diretti a concedere al locatore un canone superiore a quello contrattualmente pattuito, se in contrasto con le disposizioni della legge.
Il contratto di locazione abitativa, oltre a dover essere stipulato in forma scritta, deve essere assoggettato a registrazione, con relativo onere a carico del locatore, il quale deve provvedervi entro un termine di carattere perentorio pari a trenta giorni.
Inoltre, i contratti di locazione sono sottoposti all’obbligo di registrazione a fini fiscali, ossia affinché le parti non si sottraggano al pagamento dell’imposta di registro (d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) e, in particolare, con l’art. 3 che prevede la registrazione dei contratti di locazione o di affitto di beni immobili e relative cessioni, le loro risoluzioni e proroghe anche tacite entro trenta giorni. La registrazione può effettuarsi con riferimento al corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto oppure, annualmente, dando conto dell’ammontare del canone relativo a ciascun anno (art. 17). Inoltre, all’art. 38, la legge stabilisce che «la nullità o l’annullabilità dell’atto non dispensa dall’obbligo di chiedere la registrazione e di pagare la relativa imposta», salvo il diritto al rimborso per la parte eccedente la misura fissa, «quando l’atto sia dichiarato nullo o annullato, per causa non imputabile alle parti, con sentenza passata in giudicato e non sia suscettibile di ratifica, convalida o conferma».
Questa normativa si deve coordinare con la previsione di cui all’art. 1, comma 346 della legge finanziaria per il 2005 (legge 30 dicembre 2004, n. 311), che sanziona con la nullità la mancata registrazione dei contratti di locazione di immobili, quale che ne sia l’uso, o dei contratti che comunque costituiscono diritti personali di godimento di unità immobiliari, quando vi sia tale obbligo e, conseguentemente, sorge l’obbligo di rilascio dell’immobile a carico dell’occupante senza titolo e alla restituzione di tutti i canoni ricevuti. Inoltre, la nullità si estende ad ogni pattuizione successiva alla stipulazione del contratto.
Per quanto concerne, invece, la decorrenza degli effetti della registrazione tardiva e, quindi, della conseguente sanatoria, ossia dalla stipula del contratto o dalla data dell’adempimento tributario. La registrazione tardiva, sanzionata dalla disciplina sull’imposta di registro (art. 69 d.P.R. 131/1986), ha l’effetto di regolarizzare il contratto ex tunc, tant’è che l’art. 18 del d.P.R. non differenzia gli effetti della registrazione, in relazione al momento in cui viene se tardiva o tempestiva.
Infatti, una volta conseguita la finalità di evitare l’elusione delle norme tributarie, non vi è alcun motivo di mantenere una sanzione grave, come la nullità, del contratto per il periodo precedente la registrazione. Pertanto, secondo l’opinione che sembra ormai prevalere, la sanatoria ha effetto ex tunc, in coerenza con la sanatoria tributaria anche essa ab initio92.
Infine, la legge 431/1998 ha mantenuto specifiche innovazioni, già introdotte dalla legge 359/1992 riguardanti le locazioni abitative. Tra esse si possono annoverare il diritto del locatario di recedere dal contratto allorquando ricorrano gravi motivi con obbligo di preavviso di sei mesi ed il divieto per il conduttore di cedere il contratto. Parimenti, è stato ribadito il divieto per il conduttore di sublocare totalmente l’immobile oggetto del contratto, mentre è stata ammessa la sublocazione parziale, purché ne venga data comunicazione al locatore, nelle modalità prescritte dall’art. 2 legge 359/1992.
3. Il contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo
Il legislatore, come si è avuto modo di accennare, oltre a predisporre una normativa applicabile alle locazioni di immobili ad uso abitativo, ha provveduto a disciplinare separatamente i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo.
Con la formula «immobili ad uso non abitativo», il legislatore intende comprendere nell’ambito applicativo della normativa dettata al riguardo, eterogenee tipologie di immobili adibiti allo svolgimento di attività di diversa natura.
Difatti, rientrano nel novero delle locazioni di immobili ad uso non abitativo, tutti i contratti di locazione che abbiano ad oggetto immobili destinati all’esercizio di attività industriali, artigianali, commerciali, di lavoro autonomo, di interesse turistico, teatrali, ricreative, assistenziali, culturali, scolastiche e alberghiere, nonché le attività relative a partiti politici e sindacati ovvero relative ad immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi e villaggi turistici93.
In particolare, le locazioni di immobili adibiti all’esercizio di un’attività commerciale sono state oggetto di plurime questioni interpretative. La locuzione «attività
92 Trib. Modena, sez. II, 12 giugno 2006, in Xxxx.xx.
93 Artt. 27, 35, 42 della legge 392/1978.
commerciale», utilizzata dal legislatore, ha fatto si che la dottrina e la giurisprudenza si interrogassero sulla possibilità di ricondurre alla fattispecie delle locazioni non abitative, anche quelle che avessero ad oggetto immobili adibiti all’esercizio delle altre attività menzionate dall’art. 2195 c.c.94.
Il problema si poneva in modo specifico per le attività di trasporto, per quelle bancarie ed assicurative, nonché per le attività ausiliarie a queste ultime, che non erano espressamente menzionate nella legge sull’equo canone (art. 27 della legge 392/1978), nel novero delle attività riconducibili alle locazioni non abitative95.
Dottrina e giurisprudenza sono, infine, pervenute alla conclusione di poter ricondurre alla fattispecie della locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo anche i contratti di locazione aventi ad oggetto immobili destinati all’esercizio delle attività menzionate dall’art. 2195 c.c., che fa riferimento all’imprenditore commerciale.
Sono, difatti, ritenute attività commerciali, ai fini dell’applicazione della normativa sulla locazione, l’attività svolta dall’istituto per le vendite giudiziarie, l’attività scolastica esercitata a scopo lucrativo e con una struttura professionale, l’attività delle imprese assicuratrici e l’attività del mediatore, considerata come attività ausiliaria ex art. 2195, comma 1, n. 5) c.c.96.
Gli immobili, oggetto del contratto di locazione non abitativa possono essere adibiti, oltre che all’esercizio delle attività commerciali, così come definite dall’art. 2195 c.c., anche all’esercizio di attività artigianali. Per definire con precisione il significato della locuzione
«attività artigianali», al fine di delimitare l’ambito di applicazione della disciplina delle locazioni non abitative, occorre far riferimento alla definizione elaborata dalla legge 8 agosto 1985, n. 443, secondo la quale «è imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo»97.
94 Tra le attività enumerate dall’art. 2195 c.c. si riscontrano l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi, l’attività intermediaria nella circolazione dei beni, l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria, l’attività bancaria o assicurativa e le altre attività ausiliarie delle precedenti.
95 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 1, op. cit., p. 643.
96 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 1, op. cit., p. 644.
97 XXXXXXX, PREDEN, Le locazioni per uso non abitativo, Milano, 2007, pp. 19 ss.
Dunque, gli immobili adibiti all’espletamento delle attività artigianali sono, secondo quanto previsto dagli artt. 27 ss. della legge 392/1978, assoggettati espressamente alla regolamentazione locatizia, diversamente da quanto si verifica in relazione alle attività agricole, non esplicitamente menzionate dal legislatore.
Questa differenziazione è stata oggetto di una questione di legittimità costituzionale concernente il menzionato art. 27, per violazione dell’art. 3 Cost. che sancisce il principio di uguaglianza. Pertanto, si è reso necessario chiarire che tutte le attività agricole, così come indicate dall’art. 2135c.c.98, siano equiparate a quelle espressamente menzionate nell’art. 27, per quel che concerne la tutela apprestata loro in tema di locazione di immobili99.
Nelle attività rilevanti per la normativa sulla locazione rientrano anche quelle assistenziali, ricreative, culturali e scolastiche, unicamente quando sono effettivamente esercitate all’interno dell’immobile oggetto del rapporto contrattuale locatizio100. A tal proposito, si è ritenuto che gli immobili locati da un ente previdenziale o di assistenza, nei quali non sia svolta concretamente nessuna attività di carattere assistenziale, non rientrano campo di applicazione della disciplina dettata per le locazioni non abitative101. Inoltre, con riguardo alle attività sanitarie, è possibile che si configuri un contratto di locazione non abitativo, allorquando il gestore di una casa di cura decida di locare, a fronte di un corrispettivo, taluni beni immobili da destinare all’espletamento di esami clinici102.
La normativa applicabile ai contratti di locazione di immobili ad uso non abitativo, presenta elementi peculiari che dipendono dalla diversa natura delle attività svolte, dalla collocazione topografica degli immobili e, da ultimo, dalla natura del conduttore, quale parte meritevole di particolare tutela103. Tale disciplina, inoltre, si differenzia, sotto diversi aspetti, da quella prevista in tema di locazioni ad uso abitativo, date le eterogenee
98 Secondo l’art. 2135 c.c. «è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse».
99 DI MARZIO, FALABELLA, La locazione 1, cit., p. 659.
100 DE TILLA, GIOVE, Le locazioni abitative e non abitative, in Trattato teorico-pratico di diritto privato,
diretto da Xxxx e Patti, Padova, 2009, pp. 138 ss.
101 Cass., sez. III, 5 dicembre 1985, n. 6101, in Giustizia civile, 1986.
102 Cass., sez. III, 10 ottobre 1992, n. 11093, in Xxxx.xx, 2467, 1993.
000 XX XXXXX, XXXXX, op. cit., pp. 18 ss.
necessità di tutela, e la sua imperatività la rende inderogabile, se non a favore del locatario104.
I contratti di locazione di immobili ad uso non abitativo sono hanno una notevole rilevanza, considerata l’influenza degli stessi sul funzionamento complessivo dell’economia nazionale. Per questo, il legislatore ha provveduto, nel corso del tempo, ad integrare, mediante l’emanazione di leggi speciali, la disciplina codicistica concernente le locazioni ad uso non abitativo, ritenuta incompleta e non interamente idonea a regolare la totalità degli interessi coinvolti.
3.1 Nozioni generali tra Codice civile e leggi speciali
Le locazioni non abitative, come quelle abitative, sono assoggettate alle disposizioni del Codice civile (artt. 1571-1614 c.c.), quando non derogate da norme speciali.
Dalle norme del Codice, si ricavano, quindi, gli obblighi del locatore e del conduttore (artt. 1575-1587 c.c.), la disciplina in tema di durata del contratto (artt. 1596-1597 c.c.) e la normativa applicabile per i miglioramenti (art. 1592 c.c.) e le addizioni (art. 1593 c.c.) della cosa locata.
Tuttavia, le peculiari caratteristiche della locazione non abitative hanno reso necessario l’intervento del legislatore, volto a completare le previsioni codicistiche e a renderle maggiormente rispondenti alle esigenze economiche e sociali, tipiche del medesimo rapporto contrattuale.
In particolare, la legge 392/1978 ha messo in luce la sussistenza di plurime tipologie locatizie non abitative, che si differenziano in quanto a disciplina, in base all’attività esercitata nell’immobile oggetto del contratto. Tra esse, il legislatore ha distinto le attività a tutela piena, le attività a tutela attenuata, le attività a tutela limitata, e, da ultimo, le locazioni stagionali105.
Le attività a tutela piena sono, nello specifico, le attività commerciali, industriali, artigianali, alberghiere106, ed infine, le attività di interesse turistico107.
000 XX XXXXX, XXXXX, op. cit., pp. 19 ss.
105 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
106 L’art. 52 del Codice del Turismo (D.lgs. 23 maggio 2011, n. 79) disciplina «le locazioni di interesse turistico ed alberghiere», quali contratti che abbiano ad oggetto il godimento di beni immobili da adibire all’esercizio di attività di albergo ovvero attività di carattere turistico-ricettivo.
107 Tra gli immobili adibiti all’esercizio di attività di interesse turistico sono ricompresi/e, gli impianti sportivi e ricreativi, le agenzie di viaggio e turismo, le aziende di soggiorno ed altri organismi di produzione turistica e simili (art. 27 L. 392/1978).
Per i contratti di locazione di immobili adibiti all’esercizio di attività a tutela piena, la legge 392/1978 prevede una durata minima contrattuale di sei anni, per le attività commerciali, industriali e artigianali, e di nove anni, per quelle alberghiere e assimilate. Le parti non possono, conseguentemente, pattuire una durata diversa da quella legislativamente prevista, che si sostituisce di diritto ad ogni previsione alla stessa contraria (art. 27).
Oltre a stabilire una durata legale per le locazioni di immobili destinati all’esercizio di attività a tutela piena, il legislatore sancisce anche che le stesse si rinnovino automaticamente e tacitamente alla prima scadenza, per ulteriori sei o nove anni, a seconda della natura dell’attività esercitata108.
La rinnovazione del contratto si verifica solo se non sia sopraggiunta la disdetta, nella forma della lettera raccomandata, la quale deve pervenire a conoscenza della controparte contrattuale almeno dodici o diciotto (per le attività alberghiere) mesi prima, della scadenza (art. 28). Il locatore, inoltre, non può impedire che il contratto di locazione si rinnovi alla prima scadenza, a meno che non sussista una delle ipotesi, tassativamente previste, in cui è considerato legittimo il suo diniego (art. 29)109.
La ratio legis della durata legale per i contratti aventi ad oggetto immobili adibiti all’esercizio delle attività commerciali, industriali, artigianali, alberghiere e di interesse turistico, consiste nel garantire al conduttore di poter godere con continuità dell’immobile. Il legislatore, difatti, ha inteso, mediante tale previsione, tutelare ed incentivare l’iniziativa economica ed imprenditoriale del conduttore, prevedendo una durata minima addirittura maggiore rispetto a quella prevista per le locazioni abitative. La regolamentazione concernente la durata minima del contratto non è l’unica finalizzata alla tutela dell’iniziativa economica del conduttore, se si considera anche la disposizione relativa alla perdita di avviamento. Invero, nel momento della cessazione del rapporto contrattuale locatizio a tutela piena, che non sia causata da risoluzione per inadempimento, disdetta o recesso del locatario, il conduttore ha diritto a ricevere un’indennità equiparata a diciotto mensilità dell’ultimo canone corrisposto, per le attività
108 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
109 Il legittimo diniego del locatore è previsto nel caso in cui lo stesso «intenda adibire l’immobile adibire l’immobile ad abitazione propria o del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta» o nell’ipotesi in cui voglia «adibire l’immobile all’esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta, di una delle attività indicate dall’art. 27» (art. 29).
commerciali, industriali ed artigianali, ovvero a ventuno mensilità per le attività alberghiere (art. 34).
La ragione per la quale il legislatore ha previsto la corresponsione di un’indennità al conduttore, in caso di cessazione del rapporto contrattuale non dovuta alla risoluzione per inadempimento, disdetta o recesso, è propriamente la necessità di tutelare l’avviamento110 stesso, che si configura come il maggior valore attribuito all’immobile, rispetto al suo valore contabile111.
I conduttori di immobili destinati all’esercizio di attività a tutela piena, di fatto, subiscono un considerevole danno derivante dallo spostamento del luogo nel quale si stabiliscono per esercitare la propria attività, dal quale deriva inequivocabilmente la perdita dell’avviamento. Di conseguenza, per bilanciare il pregiudizio arrecato al conduttore, allo stesso è riconosciuta un’indennità, che gli viene corrisposta senza che egli debba provare concretamente e processualmente la sussistenza del danno, che è presunto in base dell’id quod plerumque accidit.
La disciplina inerente alla locazione di immobili deputati allo svolgimento di attività a tutela piena prescrive, infine, che al conduttore spetta il diritto di prelazione sull’immobile, sia nel caso di alienazione dello stesso, con conseguente diritto di riscatto, sia nell’ipotesi di nuova locazione, e che il medesimo ha la facoltà di sublocare o cedere il contratto. Al conduttore è anche riconosciuto il diritto di cedere il contratto anche senza il consenso del locatore, qualora sia locata o ceduta contestualmente l’azienda (art. 36)112. La legge 392/1978 ha introdotto, invece, una disciplina peculiare per altre tipologie di attività, denominate «attività a tutela attenuata». Tra di esse sono incluse le attività senza contatti diretti o svolte in immobili complementari113, le attività professionali e le attività transitorie114.
Nello specifico, le suddette locazioni si diversificano da quelle concernenti immobili a tutela piena, per l’omessa previsione del diritto di prelazione in caso di trasferimento a
110 Per avviamento si intende la capacità dell’impresa di produrre un reddito superiore a quello medio del settore in cui la stessa si colloca. Esso deriva da elementi di natura oggettiva, tra i quali rientrano l’organizzazione ovvero la struttura dell’impresa, o da elementi soggettivi, come le qualità imprenditoriali del titolare dell’azienda.
111 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
112 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
113 Per attività esercitate in «immobili complementari» si intendono gli immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi o villaggi turistici (art. 35 L. 392/1978).
114 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
titolo oneroso del bene e di nuova locazione, nonché per l’inapplicabilità alle stesse della normativa in tema di perdita dell’avviamento.
In particolare, i contratti di locazione di immobili «complementari o interni» sono esclusi dalla protezione apprestata alle attività a tutela piena, specie per quanto riguarda l’avviamento, considerata la natura «parassitaria»115 dello stesso nelle medesime tipologie locatizie. Infatti, spesso i conduttori, in qualità di titolari dell’attività svolta nel bene locato, godono del beneficio di una vasta clientela, dovuta non alla propria capacità imprenditoriale, bensì all’ubicazione dell’immobile116.
Nei contratti di locazione relativi ad immobili adibiti all’esercizio di attività di carattere professionale, oltre al diritto di prelazione e all’indennità da corrispondere per perdita dell’avviamento, è esclusa anche l’applicabilità delle disposizioni concernenti la sublocazione e la cessione del contratto (art. 36).
Di conseguenza, la qualificazione dell’attività come imprenditoriale ovvero come professionale assume, con riguardo alla regolamentazione dettata in tema di locazione non abitativa, notevole centralità. A tal proposito, è stato precisato che per determinare se l’attività esercitata concretamente nell’immobile locato sia imprenditoriale ovvero professionale non occorre prendere in considerazione la qualifica delle persone che esercitano la loro attività lavorativa all’interno dello stesso, bensì la prevalenza dell’elemento imprenditoriale o professionale della medesima attività117.
Nei contratti di locazione relativi ad immobili adibiti all’esercizio di attività transitorie118, invece, si ritengono applicabili le norme sulla sublocazione e sulla cessione del contratto, previste dal legislatore con riferimento alle attività commerciali, industriali, artigianali, alberghiere ed assimilate (art. 36).
Al contrario non si applicano alle fattispecie contrattuali riconducibili a questa tipologia sia le norme che prevedono il beneficio dell’indennità di avviamento, nel caso di cessazione anticipata del contratto, sia quelle concernenti il diritto di prelazione riconosciuto al conduttore sia le disposizioni relative alla durata minima contrattuale e alla rinnovazione (artt. 27, 28, 29)119.
115 C. Cost., 10 giugno 1992, n. 264, in Xxxx.xx.
116 XXXXXXX, La locazione, disciplina sostanziale e processuale, Bologna, 2009, pp. 267 ss.
117 Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2012, n. 8558, in Giustizia civile, 10, 2013.
118 Il contratto di locazione di immobili per l’esercizio di attività transitorie è sovente perfezionato con riferimento ai «temporary shop» ovvero ad immobili locati a comitati elettorali.
119 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
Difatti, nelle locazioni non abitative di immobili nei quali siano esercitate attività di natura transitoria, le parti sono legittimate a prevedere una durata contrattuale che sia inferiore a quella legislativamente imposta (art. 27).
Al fine di individuare con precisione quali siano i contratti inclusi nella suddetta categoria, è stato chiarito dalla giurisprudenza che per poter considerare un contratto di locazione come ricompreso nell’ambito delle locazioni non abitative transitorie, l’elemento della transitorietà deve essere espressamente dichiarato e giustificato in modo esplicito. In particolare, con la locuzione «dichiarato espressamente» si richiede che, al fine di accertare giudizialmente la sussistenza dell’elemento della transitorietà, le parti menzionino esplicitamente le motivazioni che abbiano determinato la natura transitoria dell’accordo120. Inoltre, la transitorietà deve essere «giustificata in modo esplicito», in relazione all’attività concretamente svolta nell’immobile locato.
Oltre alle attività a tutela piena ed a tutela attenuata, la legge sull’equo canone individua un’ulteriore categoria di contratti di locazione non abitativa «a tutela limitata», che si differenziano dagli altri per avere ad oggetto beni immobili destinati allo svolgimento di
«particolari attività», dalle quali emergono attività ricreative, assistenziali, culturali, e scolastiche ovvero immobili adibiti a sedi di partiti o sindacati (art. 42)121.
Le attività a tutela limitata sono assoggettate unicamente alla disciplina predisposta dalla legge 392/1978 con riferimento alla durata contrattuale. Difatti, le parti che intendono perfezionare un contratto di locazione di immobili destinati all’esercizio delle «attività a tutela limitata» non sono ammesse a prevedere una durata del contratto che sia inferiore ad un ammontare complessivo di sei anni (art. 27). Inoltre, anche le norme riguardanti la rinnovazione alla prima scadenza, e parimenti, la disdetta (artt. 28-29) si considerano vincolanti per la tipologia contrattuale in discorso, diversamente dalle altre in tema di perdita dell’avviamento, sublocazione o cessione del contratto122.
Infine, il legislatore ha individuato, sempre all’interno della legge 392/1978, un’ultima categoria di contratti di locazione non abitativa che consistono nelle «locazioni stagionali».
Le locazioni stagionali sono particolari fattispecie contrattuali, le quali differiscono dagli altri tipi di locazione non in ragione dell’attività esercitata nell’immobile locato, bensì per
120 Cass. civ., sez. III, 16 luglio 2019, n. 18942, in Xxxxxxxxxx.xx, 41, 2019.
121 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
122 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
la particolare struttura dello stesso schema contrattuale, che è destinato ad essere eseguito unicamente per un tempo determinato, il quale di regola coincide con una stagione123.
Dunque, proprio i tratti specifici e peculiari che caratterizzano le locazioni stagionali giustificano la loro sottoposizione ad una normativa che presenta elementi di differenziazione rispetto agli altri modelli di locazione disciplinati dalla Legge sull’equo canone.
In prima istanza, il legislatore ha stabilito, con riguardo alla durata contrattuale, che «il locatore è obbligato a locare l’immobile, per la medesima stagione dell’anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatto richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto» (art. 27, comma 6). Inoltre, per le locazioni stagionali, è prevista anche una durata massima pari a nove anni, per le locazioni di natura alberghiera, o a sei per tutte le altre.
Le disposizioni relative all’indennità di avviamento, al diritto di prelazione, alla sublocazione e cessione del contratto, invece, non sono sempre applicabili, ma sono sottoposte al vaglio dall’interprete, al quale spetta il compito di verificare, caso per caso, la loro compatibilità con l’elemento della stagionalità124.
3.2 Il canone di locazione e i limiti alla pattuizione del canone
Il Codice civile e, in particolar modo, la legge 392/1978 disciplinano separatamente ed dettagliatamente le eterogenee categorie di locazione di immobili non abitativi, analizzando specificamente i diversi elementi che le caratterizzano.
Nonostante alcuni aspetti, quali la durata contrattuale, la perdita di avviamento e il diritto di prelazione siano regolati specificamente dal Codice e, in misura maggiore, dalla Legge sull’equo canone, altri, come il corrispettivo, non sono oggetto di una normativa ugualmente dettagliata125.
Considerata la scarna disciplina dettata in tema di canone, la regola generale che vige per le locazioni non abitative è che le parti sono libere di determinare la misura del corrispettivo126.
123 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
124 XXXXXXX, PREDEN, op. cit., pp. 5 ss.
125 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Raso, Savore, Tomba, Le
locazioni commerciali, Trento, 2015, pp. 83 ss.
126 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Raso, Savore, Tomba, Le
locazioni commerciali, Trento, 2015, pp. 83 ss.
Inoltre, per quel che concerne le modalità di determinazione del canone, è stato ormai ribadito dalla giurisprudenza, che il conduttore ed il locatore, essendo liberi nel pattuire la misura del corrispettivo, possano legittimamente apporre al contratto una clausola grazie alla quale il canone è pari ad una percentuale, che varia di volta in volta, in relazione agli introiti derivanti dallo svolgimento dell’attività nell’immobile locato127.
Le uniche disposizioni aventi ad oggetto il canone e le modalità della sua determinazione, nelle locazioni non abitative, oltre alle norme di carattere generale del Codice civile128, sono gli artt. 32 e 79 della legge 392/1978.
Nello specifico, l’art. 32 disciplina esclusivamente le variazioni del canone pattuito tra il locatore ed il conduttore, prevedendo che lo stesso può essere aumentato dalle parti per un ammontare non superiore al 75 per cento delle variazioni «dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati» accertate dall’ISTAT. La normativa sulle variazioni del canone è applicabile soltanto ai contratti di locazione per i quali sia stabilita una durata non superiore a quella imposta dall’art. 27129.
L’art. 32 non si configura, dunque, come un limite alla libera pattuizione del canone, ma semplicemente come norma di natura eccezionale, che persegue, come finalità ultima, quella di consentire che il corrispettivo venga determinato dalle parti in misura adeguata rispetto alle potenziali variazioni del valore della moneta130.
La previsione di cui all’art. 32 è stata oggetto di molteplici modificazioni, realizzate dal legislatore attraverso due interventi correttivi, concretizzatisi con l’emanazione della legge 5 aprile 1985, n. 118 e successivamente, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n.
207.
Invero, nell’originaria formulazione dell’art. 32, alle parti era attribuita la facoltà di prevedere variazioni in aumento del corrispettivo solo allorquando fossero decorsi tre anni dal momento perfezionativo del contratto. Inoltre, era previsto che tali variazioni potessero essere concordate tra il conduttore ed il locatore nel rispetto di un intervallo di
127 Trib. Milano, 29 novembre 1982, in Loc. urbane, 283, 1983.
128 L’art. 1571 c.c. individua il canone quale corrispettivo al godimento del bene concesso dal locatore e l’art. 1587 c.c. lo qualifica come obbligazione principale del conduttore.
129 La durata legale prevista dall’art. 27 della legge 392/1978 per i contratti di locazione non abitativa è di nove anni per le locazioni alberghiere e di sei per le altre categorie.
130 Cass., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5349, in Immobili e diritto, 1, 36, 2010.
tempo non inferiore a due anni, i quali sarebbero dovuti intercorrere tra una modifica e la successiva131.
Con la legge 118/1985, invece, venne meno il divieto per le parti di adeguare il canone di locazione prima del decorso dei tre anni dalla conclusione del contratto e le stesse furono legittimate a determinare variazioni in aumento del corrispettivo con cadenza annuale132. Da ultimo, con il «decreto milleproroghe»133, il legislatore ha provveduto ad integrare la disposizione di cui all’art. 32, introducendo un presupposto in presenza del quale le parti possano pattuire variazioni del canone, senza osservare la soglia del 75 per cento di
«quelle accertate dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati».
Tale presupposto concerne la durata contrattuale. Difatti, nell’attuale formulazione dell’art. 32 è previsto che nei contratti contraddistinti da una durata maggiore rispetto a quella legalmente prevista dall’art. 27 della legge 392/1978 è possibile realizzare l’adeguamento del canone, anche superando il limite del 75 per cento, imposto per le altre tipologie locatizie, la cui durata è pari a sei o ai nove anni134.
Gli aumenti del canone, nei contratti di locazione non abitativa, non si verificano in modo automatico, essendo necessaria, a tal fine, un’esplicita richiesta proveniente dal locatore. Le pattuizioni concernenti ipotesi di adeguamento automatico sono, infatti, nulle poiché
«la previa richiesta del locatore costituisce elemento integrante ed essenziale della fattispecie acquisitiva del diritto del locatore all’aggiornamento del canone»135.
Il locatore, quindi, per ottenere la modificazione del canone, conseguentemente alle variazioni del potere d’acquisto della moneta, deve presentare la propria richiesta esplicitamente e con cadenza annuale, in modo da tutelare il diritto del conduttore di conoscere con certezza il modo di essere dell’obbligazione a cui è tenuto136.
131 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Montagno, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 90 ss.
132 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Xxxxxxxx, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 90 ss.
133 Decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207 in tema di «Proroghe di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti» convertito in Legge (aggiungere legge di conversione).
134 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Xxxxxxxx, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 90 ss.
135 Cass., sez. III, 2 ottobre 2003, n. 14673, in Arch. Locazioni, 93, 2004.
136 Cass., sez. III, 6 febbraio 1998, n. 1290, in Giur. it., 2037, 1998.
Il conduttore, invero, è ammesso a contestare l’aumento del canone richiesto dal locatore, qualora risulti illegittimo137. Tuttavia, tale contestazione non sarebbe ammissibile laddove nel nostro ordinamento fosse legittimo prevedere un meccanismo di adeguamento del canone contraddistinto da automaticità.
Per questa ragione, qualora sia stata omessa la richiesta di adeguamento del locatore e si sia verificato ugualmente un aumento del canone sulla base delle variazioni del valore della moneta accertate dall’ISTAT, tale incremento è nullo, con conseguente ripetibilità della somma corrisposta dal conduttore a tale titolo138.
Inoltre, l’art. 79 della legge 392/1978, completando la previsione di cui all’all’art. 32, sanziona la mancata osservanza delle norme in materia di canone con la nullità della pattuizione eventualmente conclusa. Infatti, qualora il locatore ed il conduttore concordino variazioni in aumento del canone in misura maggiore a quelle consentite dalla legge 392/1978, l’accordo da essi concluso è affetto da nullità139.
Dunque, le parti, rispettando le sole limitazioni stabilite dall’art. 32, sono libere di concordare la misura del canone, che deve essere corrisposto dal conduttore al locatore, quale sua obbligazione di carattere principale.
Il conduttore, oltre a dover adempiere alla propria obbligazione di pagamento del canone, deve corrispondere al locatore anche gli «oneri accessori», in virtù di quanto statuito dall’art. 9140.
Nello specifico, salvo patto contrario, il conduttore deve farsi carico delle spese concernenti «il servizio di pulizia, il funzionamento e l’ordinaria manutenzione dell’ascensore, la fornitura dell’acqua, l’energia elettrica, il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, lo spurgo dei xxxxx xxxx e delle latrine, nonché la fornitura di altri servizi comuni ed il servizio di portineria, solo nella misura del 90 per cento o inferiore».
La locuzione «salvo patto contrario», utilizzata dal legislatore con riguardo agli oneri accessori da corrispondere al locatore, ha fatto sorgere molteplici dubbi interpretativi, la
137 L’aumento del canone richiesto dal locatore è considerato illegittimo, allorquando valichi il limite quantitativo del 75 per cento delle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertate dall’ISTAT.
138 Trib. Monza, 30 gennaio 2007, in Massima redazionale Pluris Cedam Utet Giuridica.
139 CUFFARO, op. cit., pp. 267 ss.
140 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Maccioni, Maestro, Xxxxxxxx, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 102 ss.
cui soluzione è stata fornita dalla giurisprudenza. In particolare, ci si interrogava circa la possibilità per il locatore e il conduttore di stabilire, mediante un patto contrario, che ulteriori spese, non espressamente menzionate nell’art. 9, fossero addebitate al conduttore.
La giurisprudenza ha ritenuto, invece, che i «patti contrari» conclusi dalle parti possano solamente disporre un criterio di ripartizione delle spese che risulti essere meno oneroso per il conduttore, rispetto a quanto stabilito nella previsione legislativa141.
Inoltre, con riguardo alle modalità di pagamento degli oneri accessori, il comma 3 dell’art. 9 prevede che la totalità delle somme, generalmente quantificate forfettariamente dal locatore e dal conduttore, debba essere corrisposta entro un termine di due mesi dalla richiesta.
Infine, in aggiunta al canone e agli oneri accessori, al locatore è attribuito il diritto di richiedere ed ottenere dal locatario un «deposito cauzionale» ex art. 11142, considerato un
«pegno irregolare»143.
Il deposito cauzionale deve equivalere ad una somma complessivamente inferiore a tre mensilità del canone ed è produttivo di interessi legali, i quali devono essere corrisposti dal locatore al conduttore con una frequenza annuale144.
Dunque, secondo quanto disposto dalla legge 392/1978, da un lato, il locatore è gravato dall’obbligo di pagare al conduttore gli interessi legali prodotti dal deposito cauzionale e, dall’altro, il conduttore, è obbligato alla corresponsione del canone al locatore. Nonostante le suddette obbligazioni siano accomunate dalla medesima causa, da rintracciare nel medesimo rapporto contrattuale, sono comunque autonome l’una rispetto all’altra. Pertanto, si ritiene applicabile ad esse l’istituto della compensazione145.
In particolare, con riguardo al deposito cauzionale, il locatore non è tenuto soltanto a corrispondere al conduttore gli interessi legali, ma anche a restituire allo stesso la somma
141 Cass., sez. III, 12 ottobre 1998, n. 10081, in Mass. Giur. It., 1998.
142 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Maccioni, Maestro, Montagno, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 102 ss.
143 La dottrina assimila l’istituto del deposito cauzionale al pegno irregolare, in virtù della fungibilità della somma versata, a titolo di deposito, dal conduttore al locatore, il quale, alla scadenza del termine contrattuale dovrà restituire unicamente il tantundem eiusdem generis.
144 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Montagno, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 102 ss.
145 Cass., civ., sez. III, 21 giugno 2002, n. 9059, in Giust. Civ., 2002.
conferitagli a titolo di deposito. Tale restituzione avviene a seguito di un controllo del locatore avente ad oggetto le condizioni dell’immobile locato146.
Il deposito cauzionale può essere richiesto dal locatore nel rispetto di un limite quantitativo equivalente a tre mensilità. Infatti, qualora le parti prevedano un deposito di ammontare maggiore, l’accordo raggiunto delle stesse sarebbe nullo, secondo quanto disposto dall’art. 79.
Inoltre, ai sensi dell’’art. 11, gli interessi legali prodotti dal deposito cauzionale devono essere versati dal locatore con cadenza annuale. Tuttavia, la giurisprudenza è pervenuta, nell’applicare la disposizione, ad un’interpretazione diversa, non totalmente corrispondente al dato testuale. Attualmente si ritiene, infatti, che gli interessi sul deposito cauzionale possano essere pagati dal locatore anche al momento della scadenza contrattuale definitiva, così che egli possa corrispondere al conduttore la «intera somma, costituita da capitale ed interessi»147.
La ratio della previsione del diritto del locatore di richiedere il deposito cauzionale è quella di attribuirgli una garanzia dinanzi a possibili inadempimenti del conduttore, che potrebbero verificarsi nel corso dell’esecuzione del contratto. Secondo la dottrina, oltre ad avere una funzione di garanzia, il deposito cauzionale avrebbe anche una funzione risarcitoria anticipata, tutelando il locatore anche da un eventuale inadempimento dell’obbligo risarcitorio gravante sul conduttore148.
3.3 Requisiti formali ed obbligo di registrazione
Il contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo si differenzia dalla fattispecie del contratto di locazione abitativa non solo per la natura eterogenea delle norme dettate in tema di durata e canone, ma anche per i requisiti formali normativamente previsti.
Infatti, nel regolamentare la locazione di immobili ad uso abitativo, il legislatore ha fatto propria una determinata prospettiva concernente il concetto di «forma dell’atto giuridico», secondo la quale occorre che l’ordinamento giuridico disciplini, con apposite e precise norme, quali debbano essere i modi di «esternazione» dell’atto149.
000 XX XXXXX, XXXXX, op. cit., pp. 490 ss.
147 Cass., sez. III, 27 novembre 2006, n. 25136, in Arch. Locazioni, 2007.
148 Cass., sez. III, 21 aprile 2010, n. 9442, in CED Cassazione.
149 XXXXXXXXX, Formalismo e contratto di locazione, Milano, 2004, pp. 21 ss.
Pertanto, in applicazione di detto principio, l’art. 1 della legge 431/1998 ha previstola forma scritta ad substantiam del contratto di locazione abitativa. Tale disposizione si applica unicamente alle fattispecie locatizie abitative, mentre, per le locazioni non abitative, il legislatore non prevede alcun requisito formale e si applica la regola della libertà della forma150.
L’unica ipotesi nella quale è derogato il principio della libera estrinsecazione dell’atto è invece prevista dall’art. 1350, n. 8 c.c., con riferimento alle locazioni di beni immobili aventi una durata ultranovennale, per le quali si richiede la forma dell’atto pubblico ovvero della scrittura privata, a pena di nullità151.
A tal proposito, la giurisprudenza ha affermato che, al fine di applicare l’art. 1350, n. 8 alle locazioni non abitative, non occorre avere riguardo alla durata del contratto comprensiva della rinnovazione, bensì alla durata originariamente prevista152.
In particolare, per le locazioni commerciali e alberghiere, l’art. 27 della legge 392/1978 stabilisce una durata minima, rispettivamente, di sei e nove anni, nonché l’automatica rinnovazione alla scadenza delle stesse per eguale periodo di tempo, a meno che il conduttore non dia la disdetta ovvero il locatore eserciti il suo diritto di diniego della rinnovazione, quando consentito (artt. 28 e 29).
Proprio perché sono previste ipotesi in cui si può impedire la rinnovazione, i contratti di locazione di immobili adibiti all’esercizio di attività commerciali, alberghiere o assimilate non hanno sempre una durata complessiva superiore a nove anni e, dunque, non si ritiene sempre necessaria la forma scritta ex art. 1350, n. 8 c.c.153.
Tuttavia, anche se non è legislativamente imposto, i contratti di locazione non abitativa sono sovente stipulati per iscritto, considerata l’esigenza di certezza che li caratterizza. La forma scritta è consigliata, in particolar modo, nei casi in cui il contratto si discosti parzialmente dal modello legale, in quanto caratterizzato da previsioni derogatorie o
150 Nell’ordinamento italiano vige la regola della libertà della forma, secondo la quale i privati possono concludere contratti, finalizzati ad autoregolare i propri rapporti di natura economica, in qualunque forma essi ritengano opportuna, purché idonea al perseguimento dello scopo. Infatti, l’art. 1325 c.c. annovera la forma tra i requisiti essenziali del contratto, solamente quando essa sia prevista dalla legge a pena di nullità. 151 CERRI, XXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXXXX, MAESTRO, XXXXXXXX, XXXXXXX, RASO, XXXXXX, TOMBA, op. cit., pp. 102 ss.
152 Cass. civ., sez. III, 27 novembre 1993, n. 11771, in Giust. Civ, 1993.
153 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Maestro, Montagno, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 5 ss.
aggiuntive. Attraverso tale forma, infatti, si consente al giudice di ricostruire la volontà delle parti più agevolmente e con maggiore certezza154.
Deve comunque essere messo in evidenza che, pur non essendo prescritto il requisito della forma scritta ad substantiam per le locazioni di immobili ad uso non abitativo, il legislatore, con il già menzionato art. 1, comma 346 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, dispone per le stesse l’obbligo di registrazione.
L’obbligo di registrazione, in particolare, grava sul locatore, il quale deve provvedervi tempestivamente, onde evitare di incorrere nella sanzione della nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418, comma 1 e 3 c.c.
La ratio dell’obbligo di registrazione per i contratti di locazione non abitativa, conclusi sia verbalmente che per iscritto, consiste nell’ostacolare il fenomeno dell’evasione fiscale, che è particolarmente frequente, specie nel settore locatizio.
Questa finalità spiega perché la giurisprudenza ha affermato che la tardiva registrazione del contratto è idonea a sanare retroattivamente lo stesso, purché avvenga entro trenta giorni155.
La retroattività della sanatoria è stata affermata dalla giurisprudenza con l’obiettivo di tutelare il conduttore, quale contraente debole, consentendogli, dalla data della stipula del contratto, di mantenere e conservare l’avviamento, la prelazione, la libera trasferibilità dell’azienda e del contratto.
Difatti, se nell’ipotesi di registrazione tardiva dell’accordo, il contratto fosse sanato ex nunc alla data della registrazione, si verificherebbe una modifica del contratto originariamente concluso dalle parti, quantomeno con riferimento alla durata del contratto.
154 Cerri, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Maccioni, Maestro, Xxxxxxxx, Piraino, Raso, Savore, Tomba, op.
cit., pp. 5 ss.
155 Trib. Roma, sez. VI, 20 giugno 2018, n. 12964, in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2018; Cass., sez. un., 9 ottobre 2017, n. 23601, in Arch. Locazioni 2018.
CAPITOLO II
LE SOPRAVVENIENZE CONTRATTUALI
SOMMARIO: 1. Nozioni generali. – 1.1 La clausola «rebus sic stantibus». – 2. I rimedi caducatori previsti dall’ordinamento giuridico per le sopravvenienze. – 2.1 La risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione. – 2.2 La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. – 2.3 La clausola di irresolubilità. – 2.4 La clausola di recesso. – 3.I rimedi conservativi previsti dall’ordinamento giuridico per le sopravvenienze. – 3.1 Le clausole di adeguamento automatico. – 3.2 Le clausole di rinegoziazione. – 4. Le sopravvenienze atipiche o non codificate. – 4.1 La presupposizione. – 4.2 La buona fede e l’obbligo di rinegoziazione del contratto. – 4.3 I rimedi per l’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione. – 5. Esiste un generale principio immanente nel sistema di un generalizzato favor per la conservazione del contratto?
1. Nozioni generali
Il Codice civile, nel Titolo II del Libro IV, dedica un cospicuo numero di norme alla regolamentazione del contratto in generale (artt. 1321 – 1469-bis).
Nello specifico, l’art. 1321 c.c. fornisce la nozione di contratto, qualificandolo come
«l’accordo di due o più parti diretto a costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale».
Il termine «contratto» è utilizzato nel linguaggio comune sia per indicare l’accordo delle parti, quale atto di autonomia privata, sia il «regolamento contrattuale», che deriva dal perfezionamento dell’accordo156. Invece, per fare riferimento all’esecuzione del contratto, ed in particolare ai diritti e agli obblighi dei contraenti e alle vicende giuridiche sorte in seguito alla conclusione dell’accordo, si suole utilizzare l’espressione «rapporto contrattuale».
156 ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino, 2019, pp. 7 ss.
Difatti, qualora le parti intendano fare ricorso allo strumento del contratto, al fine di regolare i propri interessi di natura economica, esse dovranno non solo perfezionare l’accordo, ma dare parimenti luogo alla sua esecuzione.
Con riguardo alla fase esecutiva e, in particolare all’efficacia del contratto nel tempo, si possono distinguere contratti ad esecuzione istantanea157, che si dividono a loro volta tra contratti ad esecuzione immediata e contratti ad esecuzione differita, e contratti di xxxxxx000, che possono essere ad esecuzione periodica o continuata159.
Si tratta, pertanto, di categorie negoziali eterogenee che si differenziano tra loro per l’elemento della durata. In particolare, nei contratti ad esecuzione differita e nei contratti ad esecuzione periodica o continuata sussiste una distanza tra la conclusione e a completa esecuzione del contratto, in quanto i suoi effetti sono destinati a prodursi in un secondo momento ovvero continuativamente nel tempo.
Non è difficile comprendere che in questo lasso di tempo sopravvengano eventi idonei ad incidere sul sinallagma.
Infatti, nonostante ogni contratto possa astrattamente comportare rischi di carattere economico e giuridico, i contratti di durata ovvero ad esecuzione differita sono contraddistinti da rischi eloquentemente più elevati. Questi sono dovuti al fattore tempo, a causa del quale potrebbe verificarsi con maggiore frequenza il problema delle sopravvenienze160.
Invero, il protrarsi del rapporto contrattuale per un significativo arco di tempo, comporta il rischio che possano verificarsi eventi che modifichino il pregresso equilibrio contrattuale, così come determinato dalle parti al momento della stipula del contratto161. I suddetti eventi sono definiti, nel linguaggio giuridico, «sopravvenienze contrattuali» e si identificano con i «fatti, che, intervenendo dopo la conclusione del contratto e prima della sua completa attuazione, mutano il contesto in cui il contratto si attua»162. Il tema
157 I contratti ad esecuzione istantanea si suddividono in contratti ad esecuzione immediata e contratti ad esecuzione differita. Nei contratti ad esecuzione istantanea le prestazioni delle parti sono adempiute complessivamente in un determinato momento. Si veda, in tal senso, TORRENTE, XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, pp. 537 ss.
158 I contratti di durata sono contratti nei quali la prestazione delle parti si protrae nel tempo in modo continuo o si ripete periodicamente. Si veda, in tal senso, TORRENTE, XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, pp. 537 ss.
159 OPPO, I contratti di durata, I, in Riv. dir. Comm., 1943, pp. 227 ss.
160 ZIMATORE, Eventi esterni e rischi di demolizione del contratto. Il contratto ‘aperto’ all’adattamento: meccanismi e clausole in LUISS Law Review, II, 2021, pp. 51 ss.
161 TUCCARI, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, 2018, pp. 1 ss.
162 ROPPO, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Xxxxxx e Zatti, Milano, 2011, pp. 943 ss.
delle sopravvenienze contrattuali, da sempre centrale nel dibattito della dottrina civilistica italiana, è stato recentemente oggetto di particolare interesse data la legislazione emergenziale emanata al riguardo, di cui si dirà nel Terzo Capitolo.
Le sopravvenienze, in particolare, sono state definite da una parte della dottrina come uno
«pseudoconcetto», al quale si attinge per fare riferimento all’insieme dei molteplici eventi inattesi, intervenuti dopo il perfezionamento del contratto che incidono in modo permeante sul rapporto contrattuale163.
Il Codice civile, a tal proposito, distingue le sopravvenienze dalle cause invalidanti del contratto. Le prime incidono sul rapporto contrattuale e possano condurre alla risoluzione dello stesso, senza però incidere sulla genesi del contratto, diversamente dalle seconde, dalle quali deriva la nullità o l’annullabilità del contratto164.
Le sopravvenienze contrattuali, dunque, hanno richiesto una regolamentazione apposita del legislatore, il quale vi ha in parte provveduto, con la finalità di determinare definitivamente chi, tra le parti coinvolte nella stipula di un contratto a prestazioni corrispettive, debba addossarsi il rischio relativo alla verificazione di eventi inattesi e sopravvenuti nella fase esecutiva che alterino considerevolmente il sinallagma contrattuale165.
La suddetta problematica riguarda maggiormente i contratti a prestazioni corrispettive e, solo in misura minore, i contratti con obbligazioni a carico di una sola parte166.
Inoltre, la differenza intercorrente tra i contratti a prestazioni corrispettive, contraddistinti dalla presenza di uno nesso di sinallagmaticità tra le prestazioni, ed i contratti nei quali, essendovi obbligazioni a carico di uno solo dei contraenti, tale corrispettività è assente, comporta che i rimedi predisposti dal legislatore per ovviare alle sopravvenienze sorte in riferimento alle due tipologie di rapporti contrattuali siano a loro volta diverse.
Ebbene, dalla disciplina codicistica dettata in tema di sopravvenienze (art. 1463 c.c.; art. 1467 c.c.), emerge che qualora si verifichino eventi straordinari e sopravvenuti nel corso dell’esecuzione di contratti a prestazioni corrispettive, il legislatore dispone quale rimedio
163 XXXXXXX, Sopravvenienza, in Dizionari del diritto privato, a cura di Xxxxxxxxxxx e Pescatore, Milano, 2011, pp. 1638 ss.
164 AMBROSOLI, La sopravvenienza contrattuale, Milano, 2002, pp. 4 ss.
165 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
166 SACCO, I rimedi per le sopravvenienze, in Il contratto, a cura di Xxxxx e De Nova Torino, 2016, pp. 1704 ss.
la rimozione ovvero la riduzione degli effetti del contratto e, da ultimo, rimette la decisione alla parte controinteressata all’applicazione dei rimedi stessi.
Nei contratti con obbligazioni a carico di una sola parte, invece, risulta chiaramente dall’art. 1468 c.c., che la scelta spettante al soggetto obbligato sia semplificata rispetto ai contratti a prestazioni corrispettive. Invero, dovendo egli scegliere tra la perdita e la riduzione di un suo diritto, si ritiene secondo consolidata dottrina, che la scelta operata ex lege sia quella della riduzione del diritto167.
La disciplina relativa alle sopravvenienze contrattuali contenuta nel Codice civile prevede l’impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) e l’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.).
Esse rientrano nel novero delle sopravvenienze «tipiche», perché espressamente regolate dal legislatore, il quale, però, non ha provveduto a normare la totalità delle ipotesi di sopravvenienze esistenti.
Invero, esistono nell’ordinamento giuridico ipotesi di sopravvenienze «atipiche», non ricomprese nell’ambito applicativo degli artt. 1463 c.c. e 1467 c.c. e, dunque, non sussumibili all’interno delle fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Le sopravvenienze atipiche hanno indotto gli interpreti, proprio a causa della mancanza di una specifica disciplina loro dedicata, a fare ricorso alle regole generali dettate dal legislatore in materia di esecuzione del contratto ai fini dell’individuazione della normativa applicabile a dette ipotesi168.
In particolare, gli interpreti hanno individuato, quale regola generale potenzialmente applicabile a tali fattispecie, l’art. 1372 c.c. nel quale si enuclea uno dei principi cardine in tema di esecuzione ed effetti del contratto, che si sostanzia nel brocardo latino «pacta sunt servanda», diametralmente opposto al principio consacrato nella clausola rebus sic stantibus169.
1.1. La clausola «rebus sic stantibus»
167 SACCO, op. cit., pp. 1704 ss.
168 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
169 AMBROSOLI, op. cit., pp. 4 ss.
Nell’ordinamento giuridico italiano la regola «rebus sic stantibus»170 assicura che il contratto abbia forza di legge tra le parti a condizione che non vengano stravolti i presupposti fattuali e giuridici sulla base dei quali il vincolo è stato assunto. In altri termini, si tratta di una regola che sancisce il principio della rilevanza della sopravvenienza rispetto all’obbligazione di adempiere il contratto.
Dunque, il principio rebus sic stantibus impone che il rapporto contrattuale non resti inalterato, qualora si verifichi un mutamento delle circostanze di fatto sussistenti al momento della stipula del contratto.
Pertanto, si si tratta di una delle principali regole da osservare in tema di sopravvenienze, intese come eventi che, mutando radicalmente la situazione di fatto esistente al momento perfezionativo del contratto, incidono sull’originario equilibrio contrattuale, così come delineato dai contraenti171.
Allorquando sopraggiungano eventi inattesi ed imprevedibili che alterino considerevolmente l’equilibrio sinallagmatico del contratto, rendendo la prestazione di una delle due parti eccessivamente onerosa, si può ricorrere al rimedio della risoluzione ex art. 1467 c.c.172.
Per questo il principio rebus sic stantibus parrebbe in contrato con l’altrettanto generale principio del «pacta sunt servanda» sancito nell’art. 1372 c.c., attraverso il quale si ribadisce la forza vincolante del contratto, negando qualsivoglia rilevanza ai mutamenti della situazione di fatto verificatisi successivamente alla stipula dello stesso non tipizzati dal legislatore173.
Tuttavia, la dottrina più recente174 ha ravvisato che il contrasto tra i due principi generali del rebus sic stantibus e del «pacta sunt servanda» sia in realtà meramente apparente. Infatti, il fondamentale principio pacta sunt servanda non può essere applicato in termini rigidi e assoluti, ma va relativizzato per assicurarne il contemperamento con il principio rebus sic stantibus.
Dunque, i rimedi apprestati dall’ordinamento per reagire alle sopravvenienze, quali la risoluzione e la riconduzione ad equità, intervenendo per riequilibrare o eliminare un
170 Il brocardo «rebus sic stantibus» è utilizzato per indicare l’espressione italiana «stando così le cose».
171 GALLO, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, pp. 4 ss.
172 GALLETTO, La clausola «rebus sic stantibus», in Digesto civ., II, Torino, 1998, pp. 3 ss.
173 GENOVESE, Riflessioni in tema di clausola rebus sic stantibus, in Nuovo Diritto Civile, I, 2018, pp. 37 ss.
174 GALLETTO, op. cit., pp. 3 ss.
assetto di interessi di natura eterogenea da quello delineato dalle parti al momento della stipula del contratto, non confliggano e anzi sono funzionali alla regola «pacta sunt servanda» di cui all’art 1372 c.c.175.
In particolare, solo propendendo per la tesi della compatibilità tra i suddetti principi, si riesce a giustificare e ad attualizzare la previsione di cui all’art. 1467 c.c., in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, nella quale si richiede, al fine di ottenere la risoluzione del contratto, che l’assetto degli interessi risulti modificato a tal punto da non poterlo in alcun modo ricondurre all’originario rapporto contrattuale delineato dai contraenti176.
Al fine di comprendere la portata precettiva della clausola rebus sic stantibus, nonché l’incisività da attribuire ad essa in riferimento alla soluzione delle problematiche relative alle sopravvenienze contrattuali occorre interrogarsi sulla natura e collocazione giuridica di quest’ultima.
Infatti, la dottrina177 si è interrogata sulla possibilità di poter ritenere il principio rebus sic stantibus ricavabile dal dato positivo.
La notevole rilevanza pratica della questione si percepisce se si considera che «essendo ormai il diritto racchiuso nella legge, e la legge nei codici, e la consuetudine degradata a fonte inferiore, i principi debbono riaccreditarsi, cioè trovare il loro fondamento, le loro radici, nel testo scritto»178.
Al fine di fornire una soluzione adeguata alla questione emersa in dottrina, è stato necessario ripercorrere la storia della clausola rebus sic stantibus, onde soffermarsi sulla sua evoluzione e sui mutamenti dalla stessa subiti nel corso del tempo.
In particolare, tale clausola, ancor prima di essere oggetto di riflessioni giuridiche, è stata assoggettata ad una cospicua elaborazione di carattere filosofico.
Considerando le numerose teorie ed interpretazioni già esistenti nel 1300 e fin anche nell’antica Grecia concernenti la clausola rebus sic stantibus, si comprende quanto il principio in essa consacrato, così come la sua piena comprensione, siano sempre stati essenziali per il diritto179.
175 GALLETTO, op. cit., pp. 3 ss.
176 GALLETTO, op. cit., pp. 3 ss.
177 ADDIS, Sulla distinzione tra norme e principi, in Europa e dir. Priv., 2016, pp. 1024 ss.
178 ALPA, I principi generali, in Tratt. dir. Priv., diretto da Xxxxxx e Zatti, Milano, 2006, pp. 100 ss.
179 Difatti, personaggi del calibro di Xxxxxxxx, Xxxxxx e Xxxxxxx x’Xxxxxx si sono soffermati nei loro studi, sul valore pratico da attribuire alla clausola rebus sic stantibus, animati dall’esigenza di fare emergere una correlazione tra le modificazioni che continuamente si ripercuotono sulle situazioni fattuali, da un lato,
Nelle prime elaborazioni giuridiche prospettate180, alla suddetta clausola era stata attribuita una portata radicalmente generale. Si riteneva, infatti, che la stessa potesse essere potenzialmente applicata ad ogni dichiarazione di volontà e, di conseguenza, a qualunque contratto181. Tuttavia, ciò avrebbe comportato che al verificarsi di qualsiasi mutamento della situazione di fatto esistente al momento perfezionativo dell’accordo, sarebbe derivata, quale conseguenza della clausola rebus sic stantibus, la revoca ovvero la risoluzione del contratto182.
Per questo, successivamente, nel tentare di restringerne la portata applicativa alquanto generale, gli stessi giuristi hanno fornito una interpretazione parzialmente diversa della clausola rebus sic stantibus. Pertanto, esclusivamente gli eventi inattesi ed assolutamente estranei alla volontà delle parti che avessero comportato modificazioni della situazione di fatto originaria e, conseguentemente, dell’equilibrio contrattuale potevano essere idonei a dar luogo ai rimedi della risoluzione e della revoca183.
Tuttavia, nonostante le molteplici elaborazioni dottrinali ed una risonanza tale da risultare già in alcune delle prime codificazioni moderne, tra le quali sono ricomprese il Codice civile Generale Austriaco del 1811 o l’Allg. Xxxxx Xxxxxxxx del 1754, il principio rebus sic stantibus non ha ricevuto un espresso riconoscimento nei Codici moderni184.
Infatti, sia nel Code Napoléon del 1804 che nel Codice civile italiano del 1865 non si rinvenivano norme che facessero esplicito riferimento alla clausola rebus sic stantibus. Il riconoscimento positivo del principio in esame si è avuto in un secondo momento, da identificarsi con l’emanazione del D.L. Lt. 27 maggio 1915, n. 739, attraverso il quale è stata introdotta la prima regolamentazione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, quale sopravvenienza, e del rimedio applicabile alla stessa185.
e la certezza e stabilità, che da sempre contraddistinguono i vincoli costituiti attraverso gli accordi verbali, dall’altro. Si veda, in tal senso GENOVESE, op. cit., pp. 37 ss.
180 A partire dal 1300, anche giuristi come Xxxxxxx, Xxxxx e Xxxxxxx, hanno assunto quale oggetto del proprio studio la clausola rebus sic stantibus. Si veda, in tal senso GENOVESE, op. cit., pp. 37 ss.
181 OSTI, La così detta clausola «rebus sic stantibus» nel suo sviluppo storico, in Noviss. Dig. It., III, Torino, 1959, pp. 353 ss.
182 OSTI, op. cit., pp. 353 ss.
183 GALLETTO, op. cit., pp. 3 ss. 184 GENOVESE, op. cit., pp. 37 ss. 185 GALLETTO, op. cit., pp. 3 ss.
Inoltre, la clausola rebus sic stantibus si è affermato che l’art. 1467 del Codice civile del 1942c.c. contenga «in modo espresso ed in via generale il principio della implicita soggezione dei contratti con prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus»186. Ebbene, secondo quanto statuito dalla vigente normativa, la regola generale introdotta dalla clausola rebus sic stantibus fonda, attualmente, l’insieme delle sopravvenienze contrattuali e le loro conseguenze.
Dunque, considerata la capacità delle sopravvenienze di incidere radicalmente sui contratti conclusi dalle parti e di alterare l’equilibrio esistente tra le reciproche prestazioni, occorre soffermarsi su ulteriori regole e principi applicabili a tali sopravvenienze. Inoltre, bisogna analizzare i rimedi apprestati dal nostro ordinamento, gli orientamenti giurisprudenziali e le suggestioni della dottrina al fine di fronteggiare le implicazioni economiche e giuridiche delle sopravvenienze contrattuali.
2. I rimedi caducatori
Le sopravvenienze, si configurano come fatti oggettivi, imprevedibili e, pertanto, estranei alla volontà delle parti e non imputabili a comportamenti o attività delle medesime.
Il legislatore ha previsto dei rimedi, ai quali le parti possano fare ricorso per limitare le conseguenze negative scaturite dal verificarsi di sopravvenienze che comportino una modificazione dell’assetto degli interessi economici disposto dalle stesse mediante il regolamento contrattuale.
Successivamente il legislatore ha deciso di dare rilevanza delle sopravvenienze e le ha classificate quali eventi che influiscono sull’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni, offendo un temperamento al principio del «pacta sunt servanda» di cui all’art. 1372 c.c., che in astratto postula l’irrilevanza giuridica degli eventi successivi alla stipula idonei ad incidere sul rapporto contrattuale.
Pertanto, uno dei rimedi disposti dal Codice civile in caso di sopravvenienze è quello della risoluzione del contratto e si configura come un rimedio caducatorio, dal quale deriva il venir meno degli effetti dell’accordo perfezionatosi tra le parti.
L’ordinamento dispone che, onde non incorrere in sovrapposizioni tra eterogenee tecniche rimediali, si possa fare ricorso al rimedio della risoluzione unicamente dopo avere valutato dettagliatamente l’an e il quomodo della sopravvenienza.
186 Relazione al re del Ministro Guardasigilli al Codice civile del 16 marzo 1942, n. 665.
Difatti, il rimedio applicabile in caso di sopravvenienza dipende in modo significativo dall’an della stessa, ossia la rilevanza giuridica che la medesima assume, e del quomodo, che invece attiene al profilo della disciplina dettata dal legislatore in relazione alle diverse caratteristiche delle sopravvenienze187.
Inoltre, sempre con lo scopo di determinare quale sia la tecnica rimediale applicabile al caso concreto, l’interprete, dopo aver provveduto a fornire una valutazione concernente la rilevanza della sopravvenienza ed il tipo di tutela apprestata a quest’ultima, deve pervenire ad una classificazione e qualificazione della circostanza sopravvenuta188.
Invero, la dottrina ha individuato due tipologie di sopravvenienze, differenziandole tra
«sopravvenienze che determinano un’alterazione prevalentemente del prezzo di mercato delle prestazioni, il cui contenuto resta immodificato, e quelle che influiscono sul contenuto delle prestazioni, ancor prima che sui valori di scambio»189.
La suddetta distinzione, infatti, è posta alla base della disciplina codicistica avente ad oggetto le sopravvenienze contrattuali, che distingue due categorie di sopravvenienze, a seconda che esse comportino prevalentemente una alterazione del valore di scambio delle prestazioni (variazioni quantitative) ovvero influiscano sul contenuto sostanziale del contratto (variazioni qualitative)190.
Tali categorie di sopravvenienze sono ricondotte dalla dottrina e dalla giurisprudenza alle disposizioni dettate in tema di eccessiva onerosità, in riferimento alle variazioni quantitative, e di impossibilità sopravvenuta, con riguardo alle variazioni qualitative191. Il Codice civile, infatti, disciplina le sopravvenienze tipiche mediante le fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), al cui verificarsi ricollega il rimedio, caducatorio o demolitorio, della risoluzione del contratto.
La dottrina ha tentato, per lungo tempo, di individuare un discrimine netto tra le due figure disciplinate rispettivamente dall’art. 1463 c.c. e dall’ art. 1467 x.x., xxxxxx xxxxxxxx xx
000 XXXXX, op. cit., pp. 943 ss.
188 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
189 XXXXXXX, Sopravvenienze perturbative e rinegoziazione del contratto, Catania, 2006, pp. 1100 ss.
190 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
191 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
fattispecie si configuravano come sopravvenienze idonee ad incidere ed alterare l’equilibro contrattuale previamente determinato dalle parti, seppure in modo diverso192. Dunque, l’elemento di differenziazione rintracciato dalla dottrina maggioritaria risiede nella diversa qualificazione della sopravvenienza: quantitativo/economica, nella fattispecie dell’eccessiva onerosità sopravvenuta e qualitativa, nell’impossibilità sopravvenuta193.
Nello specifico, l’eccessiva onerosità e l’impossibilità sopravvenuta sono state inquadrate su piani distinti ed autonomi, considerata, da un lato, l’attitudine della prima a porre fine allo squilibrio economico tra le prestazioni originarie, e, dall’altro, quella della seconda ad interfacciarsi solamente con le ipotesi di inesigibilità della prestazione stessa194.
L’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità, inoltre, presentano una diversa rilevanza giuridica all’interno dell’ordinamento195.
A tal proposito, emerge la determinante differenza tra le due fattispecie, considerando la rilevanza generale che caratterizza le fattispecie inquadrabili nel quadro dell’impossibilità sopravvenuta e quella limitata attribuita alle ipotesi collocabili nell’ambito dell’eccessiva onerosità, la cui rilevanza è legata unicamente ad eventi «straordinari ed imprevedibili» che non rientrino nell’alea normale del contratto (art. 1467 c.c.).
Per questo, anche il rimedio della risoluzione che consegue sia all’impossibilità che alla eccessiva onerosità si atteggia difformemente nelle due ipotesi.
Infatti, mentre in caso di impossibilità sopravvenuta, alla parte che sia stata riguardata dalla circostanza sopravvenuta è concesso il diritto di scelta tra la revisione del contratto previamente concluso e la risoluzione dello stesso, laddove si incorra nell’eccessiva onerosità, invece, il medesimo diritto non è attribuito alla parte svantaggiata dalla sopravvenienza, la quale potrebbe solo optare per la risoluzione del contratto196.
Specificamente, stante la formulazione dell’art. 1467 c.c., il diritto di richiedere ed eventualmente ottenere la conservazione del contratto, mediante la modificazione e revisione dell’accordo originario, invece del rimedio caducatorio, non è concesso al contraente pregiudicato dall’evento sopravvenuto. La facoltà di mantenere invita il
192 XXXXXXX, Eccessiva onerosità della prestazione e superamento dell’alea normale del contratto, in Riv. dir. comm., I, 1960, pp. 460 ss.
193 REDENTI, Xxxxx nozione di «eccessiva onerosità», in Riv. trim. dir. Proc. Civ., 1949, pp. 347 ss.
194 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss. 195 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss. 196 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
rapporto, mediante la modifica delle condizioni contrattuali è attribuita solo alla parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa.
2.1 La risoluzione per impossibilità sopravvenuta
L’impossibilità sopravvenuta è una «situazione impeditiva dell’adempimento non prevedibile al momento del sorgere del rapporto obbligatorio e non superabile con lo sforzo che può essere legittimamente richiesto al debitore, e dunque, con lo sforzo dallo stesso esigibile»197.
Essa si colloca nel novero dei modi non satisfattori di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, considerato il principio secondo il quale «ad impossibilia nemo tenetur»198.
Difatti, secondo quanto disposto dall’art. 1256 c.c., l’impossibilità sopravvenuta comporta l’estinzione dell’obbligazione199 esclusivamente quando la prestazione divenga impossibile «per causa non imputabile al debitore».
Pertanto, al fine di determinare il discrimen tra l’impossibilità della prestazione e l’inadempimento, occorre stabilire se la causa dell’inadempimento sia o meno imputabile al debitore, la cui prestazione si qualifica rispettivamente come esigibile ovvero inesigibile.
L’impossibilità sopravvenuta, quale fatto estintivo dell’obbligazione, si identifica, quindi, con il «sopravvenire» di una causa estrinseca che influisce sulla prestazione previamente determinata nel contratto, impedendo in modo definitivo la sua esecuzione200.
In particolare, parte della dottrina ritiene che l’estinzione dell’obbligazione derivi dall’impossibilità sopravvenuta esclusivamente quando tale impossibilità rispetti particolari condizioni, tra cui sono ricomprese l’oggettività, l’assolutezza, la non imputabilità, l’imprevedibilità, la non originarietà e l’attualità201.
Invece, un’altra corrente dottrinale sostiene che, accogliendo un’interpretazione estensiva dell’art. 1463 c.c., l’impossibilità rilevante ai fini della risoluzione del contratto, sia anche quella relativa, che dunque non presenti i caratteri dell’oggettività e dell’assolutezza. Di
197 Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 2008, n. 24534, in Il Foro Italiano, 2008.
198 XXXXXXXX, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
199 Mentre l’impossibilità originaria della prestazione impedisce il sorgere del rapporto obbligatorio.
200 MARCHESINI, L’impossibilità sopravvenuta nei recenti orientamenti giurisprudenziali, in Il diritto privato oggi, a cura di Cendon, Milano, 2008, pp. 102 ss.
201 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
conseguenza, secondo la suddetta ricostruzione, la fattispecie relativa all’impossibilità sopravvenuta è idonea a ricomprendere tutti i casi in cui il creditore non riceva la prestazione ovvero le ipotesi nelle quali il rapporto contrattuale resti inattuato o attuato difettosamente per ragioni non imputabili al debitore.
Secondo la prima corrente dottrinale, al contrario, la prima delle condizioni a dovere essere rispettata al fine di poter configurare un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta e l’applicazione della correlativa disciplina, risiede nell’oggettività, la quale concerne la causa dell’evento impeditivo verificatosi, che non deve dipendere da vicende riconducibili alla sfera personale, patrimoniale, quindi, soggettiva del debitore, bensì esserne estranea.
Infatti, gli artt. 1463 e 1464 c.c. relativi all’impossibilità totale e parziale di una prestazione oggetto di un contratto sinallagmatico, ricomprendono nel proprio ambito applicativo unicamente le ipotesi di impedimenti che non dipendano dalla condotta del debitore, ma da forza maggiore ovvero caso fortuito202.
Invece, per quel che concerne il profilo dell’assolutezza, si richiede, che l’impossibilità, in quanto sopravvenienza, si sia verificata per un fatto naturale ovvero a causa dell’emanazione di una norma o di un provvedimento amministrativo, e non possa essere in alcun modo superata dal debitore, indipendentemente dagli sforzi che compia203.
Un’aggiuntiva condizione disposta dal legislatore, nel disciplinare tale sopravvenienza, si riscontra nella non imputabilità, che è contraddistinta da un evidente nesso che la lega alle precedenti condizioni dell’oggettività ed assolutezza.
Difatti, l’impossibilità ha un’efficacia liberatoria nei confronti del debitore, solo quando non sia imputabile a quest’ultimo, che perciò deve essere esente da colpa con riguardo all’evento impeditivo dell’adempimento.
202 La locuzione «forza maggiore» si utilizza per indicare un evento estremamente forte, al quale non è possibile sottrarsi e resistere, a causa del quale un soggetto è costretto a compiere un atto di carattere negativo o positivo, senza potervisi opporre. Si veda, in tal senso TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
La locuzione «caso fortuito» indica, invece, un evento inatteso ed imprevedibile, che influisce sul comportamento di un soggetto, senza dipendere in modo alcuno dalla sua attività psichica. Si veda, in tal senso, Cass. pen., Sez. IV, 31 maggio 1990, 7825 in xxxx.xx.
203 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
Inoltre, uno degli ulteriori elementi caratteristici dell’impossibilità sopravvenuta risiede nell’imprevedibilità dell’evento, intesa in senso soggettivo e dunque, con riguardo alla possibilità delle parti di prevederlo204.
Le ultime caratteristiche dell’impossibilità sopravvenuta, che risiedono nell’attualità e non originarietà, attengono, invece, al tempo e alla durata dell’impedimento, il quale deve configurarsi come sopraggiunto e definitivo per determinare il venire meno del vincolo obbligatorio205.
Difatti, l’impossibilità sopravvenuta è suscettibile di plurime classificazioni, da identificarsi nell’impossibilità definitiva e temporanea e nell’impossibilità totale e parziale206.
L’impossibilità definitiva, si verifica a causa di un evento irreversibile o avente durata indefinita e comporta l’estinzione automatica dell’obbligazione. Diversamente l’impossibilità temporanea, derivando da un accadimento momentaneo o provvisorio, non causa automaticamente l’estinzione dell’obbligazione, che avviene esclusivamente nell’ipotesi in cui «in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla»207.
Un’ulteriore distinzione si ravvisa tra l’impossibilità totale e impossibilità parziale. Infatti, mentre la prima impedisce del tutto il soddisfacimento dell’interesse del creditore e comporta, qualora sia anche definitiva, l’estinzione dell’obbligazione, la seconda, consentendo solo in parte la soddisfazione dell’avente diritto, determina un’estinzione limitata dell’obbligazione, continua a gravare sul debitore per la parte rimasta possibile, a meno che non rifiutata dal creditore (art. 1464 c.c.)208.
La dottrina, inoltre, ha individuato ipotesi particolari di impossibilità, tra le quali sono ricomprese l’impossibilità commerciale e legale209.
204 La prevedibilità ex latere debitoris è parametrata alla diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176, comma 1 c.c.) o a quella superiore, richiesta in base all’attività concretamente esercitata (ART. 1176, COMMA 2 c.c.). Si veda, al riguardo, MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
205 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
206 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
207 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
208 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
209 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
Con la locuzione «impossibilità commerciale» ovvero «impracticability» si suole riferirsi al notevole aumento del valore di scambio di una delle prestazioni non causato dalle normali fluttuazioni dell’andamento del mercato ma da eventi straordinari, come ad esempio una guerra o una pandemia, che rendano una delle obbligazioni economicamente impossibili da adempiere.
L’impossibilità legale o «juristic impossibility», invece, fa riferimento alle ipotesi in cui l’oggetto o la causa di un contratto, leciti al momento del perfezionamento, divengano illeciti, in seguito al verificarsi di un mutamento in ambito giuridico210.
Alla luce delle premesse svolte finora occorre mettere in luce che mentre con riguardo all’obbligazione l’impossibilità sopravvenuta ha un effetto liberatorio, configurandosi quale causa estintiva dell’obbligazione stessa (art. 1256 c.c.), in relazione al contratto, invece, attribuisce alla parte la cui prestazione è ancora possibile il diritto alla risoluzione del contratto (art. 1463 c.c.)211.
In particolare, secondo quanto statuito dall’art. 1463 c.c., rubricato «impossibilità totale», nell’ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione, la parte non più obbligata ad eseguire la prestazione divenuta impossibile non può chiedere l’esecuzione della controprestazione all’altro contraente e deve restituire quella eventualmente già ottenuta dallo stesso.
Pertanto, l’impossibilità sopravvenuta, alla stessa stregua di quanto avviene per le altre sopravvenienze contrattuali, facendo venire meno la causa del negozio giuridico in un momento successivo al suo perfezionamento, compromette la funzionalità del contratto a soddisfare gli interessi di una delle parti sottesi al contratto212.
Difatti, qualora una delle obbligazioni divenga impossibile da adempiere, l’alterazione del sinallagma delineatosi nel contratto, frustrerebbe la realizzazione della causa concreta, ovverosia l’assetto di interessi che le parti intendono perseguire mediante la stipulazione del contatto stesso213.
Dunque, la risoluzione del contratto, causata dall’impossibilità sopravvenuta totale di una delle prestazioni corrispettive, si verifica ipso iure ex art. 1463 c.c.
210 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
211 Si vedano al riguardo MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.; LOMBARDI, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in Il diritto privato oggi, a cura di Cendon, Milano, 2007, pp. 180 ss.
212 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
213 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
Invece, la risoluzione derivante da un’ipotesi di impossibilità parziale, considerato che in tal caso la prestazione continua a dovere essere parzialmente eseguita, è anch’essa parziale, secondo quanto previsto dall’art. 1464 c.c.214. Tuttavia, qualora la prestazione rimasta possibile non soddisfi l’interesse della controparte, quest’ultima ha la facoltà di recedere dal contratto (art. 1464 c.c.)215.
Dunque, il discrimen tra impossibilità totale e parziale talvolta è sottile e richiede un intervento chiarificatore dell’interprete, che abbia ad oggetto l’apprezzabilità della prestazione residua.
La giurisprudenza, con riguardo alla differenza intercorrente tra l’impossibilità totale e parziale, aveva inizialmente valorizzato il principio secondo il quale, in caso di contrasto sorto tra le parti, solamente il giudice può determinare se l’impossibilità della prestazione sia totale ovvero parziale, indipendentemente dal fatto che il creditore dichiari la permanenza del suo interesse a ricevere la prestazione ancora possibile.
All’interpretazione prospettata dalla giurisprudenza poteva criticarsi che, nello stabilire se una prestazione sia totalmente ovvero parzialmente impossibile, non si possa non considerare l’interesse del creditore il quale, ritenendosi egualmente soddisfatto dalla residua prestazione, può pretendere che l’esecuzione del rapporto contrattuale prosegua. La risoluzione del contratto, nel nostro ordinamento, inoltre, non è prevista unicamente per l’impossibilità sopravvenuta, ma anche quale conseguenza dell’inadempimento (art. 1453 c.c.).
Le due fattispecie di cui all’art. 1453 c.c. e 1463 c.c. sono, però, contraddistinte da una reciproca escludibilità216.
Infatti, l’impossibilità sopravvenuta, configurandosi quale fattore estintivo dell’obbligazione, impedisce che il debitore incorra in responsabilità per inadempimento, totale o parziale.
A tal riguardo, tuttavia, si è avuto modo di precisare che qualora la prestazione sia divenuta impossibile e abbia determinato l’estinzione dell’obbligazione, l’unica conseguenza diretta prevista dal legislatore, consiste nella liberazione del debitore.
Il debitore, però, pur essendo liberato dall’obbligazione ormai estinta, non sarebbe esonerato da responsabilità per inadempimento, qualora lo stesso si fosse fatto
214 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
215 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 450 ss.
216 LOMBARDI, op. cit., pp. 180 ss.
convenzionalmente carico di quest’ultima ovvero avesse assunto su di sé il rischio del caso fortuito217.
Ebbene, nonostante il rimedio della risoluzione contrattuale sia espressamente previsto dal Codice civile, nel combinato disposto degli artt. 1256 c.c. e 1463-1464 c.c., per la fattispecie concernente l’impossibilità sopravvenuta del debitore, nulla è, invero, previsto per l’ipotesi di impossibilità riconducibile al fatto del creditore.
A tal riguardo sono state sostenute molteplici teorie, che ritenevano che la soluzione applicabile al suddetto caso fosse la risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.) ovvero la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.)218.
In particolare, la tesi che propendeva per il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.), aveva come fondamento la teoria concernente l’esistenza di un collegamento tra corrispettività delle prestazioni, da un lato, e causa concreta del contratto dall’altro.
Secondo la medesima teoria, anche il venir meno della prestazione creditoria, cagionando uno squilibrio del sinallagma contrattuale, comporta l’irrealizzabilità della causa concreta e la risoluzione del contratto, con la previsione, però, di un risarcimento danni a carico del creditore, che abbia eventualmente violato i principi di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c.219.
2.2 La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta
La risoluzione del contratto, quale rimedio caducatorio previsto dal legislatore al fine di limitare le conseguenze negative derivanti dalle sopravvenienze, è previsto anche in riferimento all’eccessiva onerosità sopravvenuta di una delle prestazioni oggetto del contratto sinallagmatico.
L’art. 1467 c.c., infatti, statuisce nel comma 1 che «nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la
217 LOMBARDI, op. cit., pp. 180 ss.
218 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
219 MARCHESINI, op. cit., pp. 102 ss.
parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti di cui all’art 1458 c.c.»220.
Ebbene, nei contratti ad esecuzione differita, continuata o periodica, che sono contraddistinti dal decorso di un certo intervallo di tempo tra il momento perfezionativo del contratto e quello relativo all’esecuzione del rapporto contrattuale, possono verificarsi eventi, talvolta legati all’andamento del mercato e dell’economia (ad esempio, l’aumento dei prezzi) che rendono economicamente svantaggioso e sconveniente il contratto per una delle parti221.
Pertanto, onde evitare che ad ogni variazione di natura economica verificatasi in un momento successivo alla stipulazione del contratto venga attribuita rilevanza propria di sopravvenienza contrattuale a discapito della forza del vincolo contrattuale è stata emanata una disciplina, che ha posto delle condizioni da rispettare per le parti, per poter far ricorso al rimedio della risoluzione contrattuale, nel caso di mutamenti economici riguardanti l’originaria operazione concordata.
Nello specifico, restringendo la portata applicativa della clausola rebus sic stantibus, che attribuiva rilievo ad ogni mutamento della situazione di fatto, configuratasi come presupposto dell’atto eventualmente posto in essere dalle parti, l’art. 1467 c.c. dispone che solamente gli eventi straordinari ed imprevedibili che rendono la prestazione eccessivamente onerosa possono dare luogo alla risoluzione del contratto222.
L’introduzione della disciplina di cui all’art. 1467 c.c. è stata accolta con favore dalla dottrina, la quale affermava che «la rigorosa limitazione della clausola ad eventi che non possono assolutamente farsi rientrare nelle rappresentazioni che ebbero le parti al tempo del contratto, esclude il pericolo di eccessi; ma garantisce contro tal pericolo anche la rigida valutazione obiettiva del concetto di eccessiva onerosità»223.
Dunque, una delle condizioni richieste affinché si possa ricorrere al rimedio risolutorio in esame risiede nell’imprevedibilità e straordinarietà dell’evento sopravvenuto.
220 L’art. 1458 c.c. dispone che «La risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo (ex tunc) tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite».
221 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
222 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
223 FERRI, Le annotazioni di Xxxxxxx Xxxxxxxx in margine a taluni progetti del libro delle obbligazioni. Padova, 1990, p. 37.
La circostanza sopravvenuta deve, perciò, essere straordinaria, ovverosia eccezionale e collocata al di fuori dell’id quod plerumque accidit, ed imprevedibile, cioè non prevedibile anticipatamente dal contraente interessato che adoperi la diligenza dell’uomo medio.
In particolare, tra gli eventi straordinari ed imprevedibili rientrano, nella comune esperienza: guerre, catastrofi, pandemie o scioperi nazionali.
La dottrina si è per lungo tempo interrogata circa la possibilità di collocare la svalutazione monetaria nel novero degli eventi che presentino i caratteri distintivi dell’imprevedibilità e straordinarietà, pervenendo all’elaborazione di soluzioni di segno contrastante.
Infatti, la corrente che propende per la soluzione negativa assume, quale suo argomento principale, la vincolatività e prevalenza del principio nominalistico224 di cui all’art. 1277 c.c., al quale l’obbligazione pecuniaria è senza dubbio assoggettata225.
La ratio della teoria che riconduce il fenomeno della svalutazione monetaria al novero degli eventi rientranti nell’alea normale ed ordinaria del contratto, collocabile al di fuori dell’ambito applicativo dell’art. 1467 c.c., risiede nell’osteggiare il diffondersi dell’inflazione226.
D’altro lato, vi è anche una corrente di segno contrario, secondo la quale si può qualificare la svalutazione monetaria come un evento che integri i presupposti richiesti dall’art. 1467
c.c. per l’applicazione del rimedio ivi disposto. La suddetta corrente distingue il caso in cui un contratto sia concluso prima che abbia luogo la svalutazione monetaria da quello in cui lo stesso sia perfezionato a svalutazione monetaria già iniziata, statuendo che il primo rientri negli eventi imprevedibili e straordinari, diversamente dal secondo, considerato tale solamente in determinate circostanze227.
La giurisprudenza, invece, ha chiarito che la prevedibilità e la straordinarietà di un evento, pertanto, anche della svalutazione monetaria, devono essere valutate caso per caso e in
224 Il principio nominalistico è statuito nella formulazione dell’art. 1277 c.c., nella parte in cui sancisce che
«I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale».
225 TERRANOVA, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il Codice civile, diretto da XXXXXXXXXXX, Milano, 1995, pp. 135 ss.
226 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
227 Le circostanze in cui la risoluzione per eccessiva onerosità può essere concessa anche quando il contratto è concluso successivamente al momento di verificazione della svalutazione monetaria concernono le dimensioni e la gravità del fenomeno verificatosi. Ad esempio, la svalutazione monetaria non si considera imprevedibile e straordinaria durante una guerra, ma la guerra stessa si configura come evento straordinario. Si veda, in tal senso RUBINO, Svalutazione della moneta e risoluzione per eccessiva onerosità, in Xxxx.xx, I, 1947, pp. 727 ss.
concreto, assumendo come criteri principali il giudizio che l’uomo medio avrebbe formulato antecedentemente alla conclusione del contratto, il livello di prevedibilità dell’evento stesso e il suo impatto sull’equilibrio economico contrattuale228.
Perciò, le conclusioni tratte dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente convergono sulla possibilità di far ricorso al rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta anche nel caso di svalutazione monetaria, qualora la stessa integri un evento straordinario e imprevedibile in base ai suddetti criteri229.
Il secondo presupposto richiesto per l’operatività del rimedio risolutorio in questione concerne la durata contrattuale. Infatti, l’art. 1467 c.c. prevede che solo nei contratti in cui decorre un certo lasso di tempo tra la stipula del contratto e la sua esecuzione gli eventi sopravvenuti con le caratteristiche menzionate poco fa possono rendere esperibile il rimedio della risoluzione230.
L’art. 1467 c.c., richiede, inoltre, una situazione di eccessiva onerosità della prestazione sopravvenuta per una delle parti di un contratto sinallagmatico.
Pertanto, la situazione di eccessiva onerosità deve essere sopravvenuta, cioè verificarsi in seguito alla conclusione del contratto ma prima che la prestazione sia stata completamente eseguita.
Inoltre, l’onerosità sopravvenuta, che può consistere sia in un aggravio della prestazione da adempiere che in una «deminutio» del valore della controprestazione, deve essere, secondo quanto statuito dall’art. 1467 c.c., eccessiva.
In particolare, per essere eccessiva, l’onerosità deve causare un’alterazione significativa dell’equilibrio economico esistente tra la prestazione e la controprestazione, così come pattuite originariamente al momento della stipulazione del contratto.
L’art. 1467, comma 2 c.c. prevede che «la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto». Pertanto, l’alea normale del contratto deve essere superata per esperire il rimedio risolutorio.
228 Cass., sez. II, 15 dicembre 1984, n. 6574 in Il xxxx.xx.
229 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
230 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
In merito alla previsione di cui al secondo comma dell’art. 1467 c.c., parte della dottrina ha osservato una «sostanziale coincidenza fra le nozioni di alea normale, prevedibilità e misura eccessiva dell’onerosità»231.
Tuttavia, avvalorare tale teoria significherebbe ritenere che il requisito relativo all’alea normale del contratto sia privo di una propria autonomia concettuale. Invece, non solo la previsione di cui all’art. 1467 c.c. si ritiene essere autonoma, ma essa si colloca anche su un piano di tipo qualitativo, diversamente dagli altri requisiti della prevedibilità e dell’eccessiva onerosità, che operano su un piano quantitativo232.
Pertanto, per stabilire se è superata l’alea normale del contratto, occorre prendere in esame il rischio tipico relativo alla fattispecie contrattuale perfezionata, il quale può essere superato anche qualora non ricorrano eventi da potersi classificare come straordinari ed imprevedibili233.
Al fine di specificare quanto disposto nella formulazione del comma 2 dell’art. 1467 c.c., la dottrina ha fornito molteplici nozioni di «alea normale» del contratto.
In particolare, per alcuni studiosi, l’alea normale è rappresentata dal rischio relativo alle variazioni di costi e valori che si verificano nella normalità234, ovvero «dal rapporto di compensazione tra prevedibile costo e prevedibile rendimento della prestazione»235. Secondo altri, l’alea normale risiede nelle «oscillazioni di valore causate da normali fluttuazioni di mercato»236.
La giurisprudenza, invece, ha definito l’alea normale come «il rischio economico che incide sul valore delle prestazioni in coincidenza di eventi non straordinari o imprevedibili»237.
Il superamento dell’alea tipica del contratto concluso deve essere valutato dal giudice, attraverso un «giudizio di prevedibilità» finalizzato ad accertare lo squilibrio economico determinato dall’eccessiva onerosità, in quanto idonea ad incidere notevolmente su una prestazione contrattuale e a modificarne il valore238.
231 LIPARI, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità: la struttura del giudizio di prevedibilità e la rilevanza dell’inflazione, in Giust. civ., I, 1985, pp. 2790 ss.
232 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
233 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
234 BIANCA, Diritto Civile, III, Il contratto, Milano, 1984, p. 465.
235 BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 191.
236 XXXX, L’eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, pp. 108 ss.
237 Cass., sez. II, 5 gennaio 1983, n. 1, in Xxxx.xx, I, 1983.
238 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
Alla luce delle considerazioni svolte finora, l’unico rimedio concesso alla parte, la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa a causa di eventi imprevedibili e straordinari non rientranti nella normale alea contrattuale, consiste nella risoluzione del contratto.
Infatti, il contraente gravato dall’eccessiva onerosità della prestazione non può, argomentando a contrario da quanto previsto al comma 3 dell’art. 1467 c.c., imporre alla controparte una modificazione delle condizioni contrattuali originariamente definite.
La facoltà di chiedere la modifica delle condizioni contrattuali spetta, invece, alla controparte, come stabilito dal terzo comma dell’art. 1467 c.c. nella parte in cui dispone che «la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto».
Pertanto, la reductio ad aequitatem del contratto si configura come mera reazione eventuale e discrezionale al rimedio demolitorio del contraente la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa239.
In particolare, la reductio potenzialmente ottenibile dalla controparte si configura, secondo la dottrina maggioritaria, sia come una condizione sospensiva negativa del procedimento risolutorio240, che come una facultas solutionis, attraverso la quale il convenuto, proponendo la modificazione delle condizioni contrattuali, può sottrarsi alla restituzione della prestazione eventualmente già ottenuta241.
Di recente, proprio la reductio ad aequitatem è stata oggetto di plurime elaborazioni giuridiche e dottrinali, in considerazione dell’ipotizzata riforma del Codice civile con il
d.d.l. senato n. 1151242, concernente anche la fattispecie relativa all’eccessiva onerosità sopravvenuta243.
Nello specifico, l’intervento legislativo richiesto avrebbe dovuto modificare la normativa vigente, riconoscendo il diritto delle parti di un rapporto contrattuale, nel caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, di ottenere la rinegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso
239 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
240 CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1963, pp. 386 ss.
241 TERRANOVA, op. cit., pp. 135 ss.
242 D.d.l. senato n. 1151, in Xxxx.xx
243 XXXXXXX, Dalla risoluzione all’adeguamento del contratto. Appunti sul progetto di riforma del Codice civile in tema di sopravvenienze, in Il foro italiano, V, 2020, c. (colonna) 0102.
di mancato accordo, di agire in giudizio al fine di ottenere l’adeguamento delle condizioni contrattuali ed eliminare lo squilibrio244.
Tale proposta di legge, che per il momento non ha ottenuto particolare successo, aveva come obiettivo proprio quello di modificare la normativa di carattere generale dettata in tema di sopravvenienze contrattuali e, nel dettaglio, di eccessiva onerosità, al fine di concedere anche alla parte gravata dall’eccessiva onerosità della prestazione la possibilità di optare per un rimedio conservativo del contratto, che non implicasse inevitabilmente la caducazione degli effetti contrattuali.
Il Codice civile, dunque, continua a restare legato ad una logica demolitoria del vincolo contrattuale, prevedendo quali rimedi generali applicabili alle sopravvenienze l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione del contratto245.
Tale logica demolitoria si basa, infatti, su due principi: da un lato, il generale divieto per le parti di modificare il regolamento contrattuale, a meno che non si pervenga alla stipulazione di un nuovo contratto o non si prevedano apposite eccezioni; dall’altro, l’impossibilità di pretendere dal debitore l’esecuzione di una prestazione inesigibile o che comporti il superamento di un determinato livello di onerosità246.
Inoltre, la disciplina relativa all’eccessiva onerosità sopravvenuta non si esaurisce alla disposizione di cui all’art. 1467 c.c., ma si riscontra anche nella formulazione dell’art. 1468 c.c. in cui si statuisce che l’eccessiva onerosità sopravvenuta, nei contratti con obbligazioni a carico di una sola parte, quest’ultima «può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità».
Perciò, il rimedio della risoluzione ovvero della riconduzione unilaterale ad equità nel caso di eccessiva onerosità sopravvenuta può applicarsi unicamente nell’ipotesi di contratti a prestazioni corrispettive, diversamente da quanto previsto con riferimento ai contratti con obbligazioni a carico di una sola parte, contraddistinti da un unico rimedio esperibile, che sussiste nella modificazione del contratto al fine di ricondurlo ad equità247.
244 XXXXXXX, op. cit., c. 0102.
245 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
246 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
247 GABRIELLI, Rimedi giudiziali e adeguamento del contenuto del contratto alle mutate circostanze di fatto, in Studi Urbinati, 2014, pp. 169 ss.
Infine, la disciplina relativa all’eccessiva onerosità si chiude con la previsione dell’art. 1469 c.c. relativa ai contratti aleatori, nella quale si statuisce che le norme di cui agli artt. 1467 c.c. e 1468 c.c. non si applicano ai contratti che siano aleatori per loro natura, come il contratto di assicurazione, o per volontà delle parti, come il contratto di vendita di cosa sperata (art. 1472 c.c.).
Difatti, i contratti aleatori sono incerti nell’an e nel quantum, considerato che l’esistenza e l’entità delle prestazioni determinate dalle parti in simili contratti non dipende dalla volontà delle stesse, ma da un evento a ciò esterno. Perciò si comprende perché il rimedio risolutorio previsto per il caso dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non si applichi a tale tipologia di contratto, nel quale fisiologicamente non è di per sé possibile conoscere il preciso rapporto tra vantaggio e rischio derivanti dalla sua conclusione.
2.3 Clausola di irresolubilità
Il Codice civile dispone, quale rimedio di carattere generale per fronteggiare le sopravvenienze, la risoluzione del contratto.
La dottrina, tuttavia, si è interrogata circa la possibilità che le parti possano prevedere una ripartizione dei rischi diversa da quella legislativamente imposta, mediante l’apposizione nel regolamento di una «clausola di irresolubilità», che si sostanzia in un tentativo, espressione dell’autonomia privata, di sottrarsi alle conseguenze previste dal legislatore, nel caso di verificazione di sopravvenienze, quali l’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità.
La clausola di irresolubilità, dunque, è finalizzata a conferire maggiore certezza all’esecuzione del rapporto contrattuale e a tutelarsi dalle sopravvenienze e dall’esperibilità dei relativi rimedi.
Per questo, in particolare, ritenendo le disposizioni di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c., relative all’impossibilità sopravvenuta totale e parziale, norme derogabili, si è avvalorata l’ipotesi secondo cui è concesso alle parti di prevedere convenzionalmente che il rischio contrattuale sia addossato ad una di esse, tenuta ad adempiere indipendentemente dal sopravvenire dell’impossibilità della prestazione248.
248 VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell’emergenza sanitaria legata al COVID19, in Giustizia civile, 2020, pp. 2 ss.
La giurisprudenza, a tal proposito, ha riconosciuto ai contraenti la possibilità di addossare convenzionalmente ad uno di essi il rischio di verificazione di un evento sopravvenuto idoneo ad incidere sul sinallagma e di escludere, pertanto, l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1463 e 1467 c.c.249.
La dottrina, invece, ha affermato che la clausola di irresolubilità, parimenti a tutti i patti perfezionati dalle parti e volti ad escludere l’applicazione della normativa relativa alla risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità della prestazione, debbano essere considerati invalidi250.
Difatti, si è ritenuto che l’apposizione della clausola di irresolubilità alteri significativamente il sinallagma del contratto e lo snaturi, trasformandolo in un contratto aleatorio, considerata l’impossibilità di individuare con certezza l’an e il quantum del rischio concretamente assunto dalle parti.
Oltre alla suddetta clausola, la cui ammissibilità è tuttora discussa, il nostro ordinamento conosce appositi strumenti di carattere conservativo, attraverso i quali è consentito mantenere in vita il contratto in caso di sopravvenienze.
3. I rimedi conservativi
La disciplina delle sopravvenienze è caratterizzata dall’esistenza di soluzioni demolitorie e conservative del vincolo contrattuale251.
A tal proposito, la stretta correlazione che ha da sempre contraddistinto le sopravvenienze, da un lato, e l’autonomia negoziale dei contraenti nella autoregolamentazione e gestione del rischio contrattuale, dall’altro, ha posto dei limiti significativi agli interventi eteronomi in materia252.
I rimedi conservativi, disposti dal legislatore al fine di limitare le conseguenze negative derivanti dalle sopravvenienze, sono stati, di recente, oggetto di plurime rielaborazioni dottrinali e giurisprudenziali.
249 Cass., sez. II, 23 giugno 1984, n. 3694, in Giust. civ., I, 1985.
250 VERZONI, op. cit., pp. 2 ss.
251 XXXXXXX, Le sopravvenienze, in Trattato del contratto V, diretto da Xxxxx, Milano, 2006, pp. 503 ss.
252 XXXXXXX, op. cit., pp. 503 ss.
Nello specifico, la dottrina e la giurisprudenza, considerata in particolar modo la recente emergenza pandemica da Covid19, hanno ravvisato l’inadeguatezza dei rimedi demolitori a fronteggiare le sopravvenienze contrattuali253.
Difatti, le soluzioni prospettate nel Codice civile dal legislatore con riferimento alle sopravvenienze, come la risoluzione del contratto, disposta nel caso di impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) ed eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.), sono risultate insufficienti ed inidonee, dal punto di vista sociale ed economico, a governare l’insieme delle sopravvenienze verificatesi nel periodo emergenziale254.
Per questo, la dottrina civilistica si è soffermata sull’ambito applicativo dei rimedi conservativi del contratto, ritenuti più adeguati dei rimedi demolitori a salvaguardare l’interesse dei paciscenti.
Invero, sovente, l’interesse del contraente pregiudicato dalla sopravvenienza, in particolare quando lo stesso sia un imprenditore animato dalla necessità di minimizzare il rischio di perdere l’avviamento e la propria attività economica, è proprio quello di mantenere fermo il contratto ormai perfezionato, pur dovendo riadattare i termini economici previamente stabiliti255. Pertanto, i rimedi conservativi, perseguendo quale finalità ultima quella della conservazione del contratto, sono maggiormente confacenti alle esigenze di solidarietà sociale e di carattere economico manifestatesi nell’ordinamento.
Nel caso di eventi sopravvenuti che alterino il sinallagma contrattuale, occorre, dunque, alla luce delle suddette riflessioni dottrinali, non demolire, ma conservare il contratto, modificando, tuttavia, le condizioni originariamente previste, divenute impossibili ovvero eccessivamente onerose256.
Pertanto, i rimedi conservativi o «manutentivi» proposti hanno come obiettivo quello di mantenere in vita il contratto, che si realizza attraverso la modificazione ed il riadattamento del suo contenuto, in modo da renderlo nuovamente equilibrato e idoneo al soddisfacimento degli interessi delle parti257.
253 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
254 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
255 SENIGAGLIA, Le attuali sopravvenienze contrattuali tra diritto vigente e diritto vivente, in Jus Civile, 2021, pp. 1 ss.
256 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
257 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
La conservazione del contratto, però, si configura come una soluzione particolarmente complessa al problema delle sopravvenienze, specie se comparata al rimedio demolitorio della risoluzione, che comporta unicamente le eventuali questioni concernenti la ripetizione dell’indebito e la responsabilità258.
Infatti, dovendo provvedere ad una modificazione delle condizioni originarie del contratto, è necessario, in vista della sua conservazione, che si ricrei un equilibrio contrattuale, ormai non più esistente a causa delle sopravvenienze.
Dunque, tale equilibrio deve essere ristabilito nel contratto, onde consentire il soddisfacimento dell’interesse delle parti, ma, a tal fine, occorre in primo luogo determinare chi debba provvedere ed in che modalità si debba procedere alla modificazione delle condizioni contrattuali iniziali259.
In particolare, per quel che concerne il profilo della parte tenuta a provvedere all’adeguamento delle condizioni originarie di un contratto il cui equilibrio sia stato alterato da sopravvenienze, sembrerebbe che tale suddetta modifica possa essere dettata sia da una fonte legale che negoziale260.
Con riguardo al profilo delle modalità attraverso cui l’adeguamento del contratto si verifica, emerge che qualora la modifica sia prevista da una fonte legale, la stessa può attuarsi automaticamente ovvero mediante l’ausilio del giudice. Invece, qualora la stessa derivi da una fonte convenzionale, si prevede che l’adattamento delle condizioni contrattuali possa essere attuato sia attraverso un nuovo patto stipulato dalle parti a seguito durante la fase patologica sia mediante l’inserimento ex ante nel contratto di apposite clausole261.
Tuttavia, le clausole finalizzate all’adeguamento del contratto, non hanno natura modificativa dello stesso, considerato che nel caso di sopravvenienze, il medesimo si evolverà così come originariamente disposto, in esecuzione della volontà delle parti262.
3.1 Le clausole di adeguamento automatico
258 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss. 259 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss. 260 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss. 261 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss. 262 ZIMATORE, op. cit., pp. 51 ss.
L’ordinamento giuridico italiano predispone plurimi rimedi ai quali fare ricorso in caso di sopravvenienze contrattuali, da rintracciarsi sia nel Codice civile che nelle tecniche convenzionali di gestione del rischio, tra le quali si rinvengono si rimedi di tipo demolitorio che conservativo263.
Dunque, tra le tecniche convenzionali di gestione del rischio, rientranti nella disponibilità delle parti, si rinvengono le clausole di adeguamento automatico, di recesso, e di rinegoziazione, alle quali il legislatore riconosce, in quanto espressione dell’autonomia negoziale dei privati, un determinato ambito di operatività264.
Ebbene, le parti, nello stipulare un contratto, possono apporre allo stesso clausole di adeguamento automatico, attraverso cui si consente che la modificazione automatica delle condizioni contrattuali al verificarsi di determinati eventi, senza necessità che vi sia una successiva manifestazione della volontà delle parti in tal senso265.
L’inserimento di clausole di adeguamento automatico nei contratti a lungo termine si fa risalire addirittura al periodo medievale, in cui sarebbero state utilizzate dalle parti con la finalità di cautelarsi contro possibili fluttuazioni del valore della moneta corrente266.
Orbene, anche nell’ordinamento giuridico attuale è riconosciuta l’ammissibilità delle clausole di adeguamento automatico.
In particolare, le clausole di adeguamento automatico sono utilizzate dalle parti per ovviare a due precise esigenze, da un lato, quella di consentire la conservazione del contratto e, dall’altro, quella di cautelarsi contro gli effetti delle sopravvenienze frequenti nei contratti di durata267.
Inoltre, pur rispondendo alle medesime esigenze, le clausole di adeguamento automatico che possono essere inserite dalle parti all’interno del contratto sono molteplici e si differenziano per talune caratteristiche strutturali.
Vi sono, infatti, talune tipologie di clausole di adeguamento automatico, in base alle quali, in caso di sopravvenienze contrattuali, la modificazione delle originarie condizioni del contratto avviene secondo criteri certi e definiti. Tra queste possono annoverarsi, a titolo meramente esemplificativo, le clausole di indicizzazione, che vincolano l’adeguamento
263 XXXXXXX, op. cit., pp. 503 ss. 264 XXXXXXX, op. cit., pp. 503 ss. 265 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
266 DI MAJO, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, pp. 249 ss.
267 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
dell’importo pecuniario dovuto al parametro rappresentato dall’indice dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati così come accertati dall’ISTAT268. Invece, altre tipologie di clausole prevedono che la variazione delle condizioni contrattuali iniziali avvenga in base ad un parametro caratterizzato da una maggiore complessità, come, ad esempio, le valutazioni operate da consulenti economici269.
Ebbene, qualunque sia la struttura delle stesse, l’inserimento delle clausole di adeguamento automatico, configurandosi quale rimedio conservativo convenzionale, consente ai privati di preservare il contratto. Infatti, queste garantiscono ex ante che il rapporto prosegua laddove sopraggiungano di eventi idonei ad alterare l’equilibrio sinallagmatico del contratto.
Pertanto, nel caso in cui le parti abbiano optato per l’apposizione di una clausola di adeguamento intendono, al contempo, derogare alla disciplina dettata dal legislatore in tema di sopravvenienze.
Tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che la disciplina legale delle sopravvenienze è applicabile anche nel caso in cui le parti abbiano predisposto rimedi manutentivi convenzionali, laddove si verifichino «eventi talmente eccezionali nella loro natura o nella loro entità da rendere completamente inoperanti clausole di adeguamento prezzi pur abilmente e razionalmente congegnate»270.
Inoltre, secondo la dottrina, le clausole di adeguamento automatico, pur qualificandosi come un rimedio adatto a limitare le conseguenze degli eventi sopravvenuti che incidono negativamente sull’equilibrio contrattuale, presentano taluni profili di criticità, concernenti la loro idoneità a garantire la conservazione del contratto anche nelle ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione271.
I profili di criticità riguardano specialmente i casi in cui i contraenti abbiano adoperato le clausole di adeguamento automatico del contratto, prevedendo ex ante il verificarsi di determinati eventi, diversi da quelli poi sopraggiunti concretamente.
Una situazione riconducibile al suddetto quadro è rappresentata, a titolo esemplificativo, dall’ipotesi in cui le parti prevedano una clausola di adeguamento automatico al fine di limitare le conseguenze negative che potrebbero derivare dal concretizzarsi una
268 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
269 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
270 Cass., sez. II, 29 giugno 1981, n. 4249, in Xxxx.xx, I, 1981.
271 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
variazione del prezzo di una delle materie prime oggetto del contratto e, invece, si verifichi un aumento o una diminuzione del costo di una materia prima diversa da quella presa in considerazione dai contraenti272.
In tali ipotesi, le clausole di adeguamento automatico inserite dalle parti non riescono ad operare in tutto o in parte, a causa della verificazione di sopravvenienze non previste dai contraenti e si ritiene che torni ad essere applicata, alle ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, la disciplina legislativa (art. 1467 c.c.)273.
Inoltre, nell’ambito dei rimedi convenzionali manutentivi adoperabili per fronteggiare le sopravvenienze contrattuali, oltre alle suddette clausole di adeguamento, l’ordinamento conosce altre tipologie di clausole finalizzate anch’esse all’adeguamento del contratto che, tuttavia, non avviene automaticamente, ma necessita di una manifestazione di volontà delle parti. Si tratta delle clausole di rinegoziazione274.
3.2 Le clausole di rinegoziazione
Le clausole di rinegoziazione, note anche come «hardship clauses», rientrano nel novero dei rimedi convenzionali conservativi.
Esse, tuttavia, si differenziano dalle clausole di adeguamento automatico, poiché prevedono che il contenuto del contratto subisca un mutamento non automatico, ma solo in seguito ad una nuova manifestazione dell’autonomia contrattuale delle parti275.
Inoltre, le clausole di rinegoziazione non impongono alle le parti di perfezionare un negozio modificativo del precedente. Per comprendere quanto appena affermato occorre mettere in luce la distinzione tra obbligo di contrattare e obbligo di contrarre.
Infatti, le clausole di rinegoziazione sono idonee a far sorgere in capo alle parti solo il primo dei due obblighi menzionati e non anche il secondo e tale obbligo a trattare si configura come un semplice dovere di avviare le trattative276.
Nel prevedere gli eventi che potrebbero alterare il programma contrattuale pattuito dalle parti, la clausola di rinegoziazione può essere più o meno specifica. A tal proposito, si
272 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss. 273 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss. 274 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
275 DEL PRATO, Sulle clausole di rinegoziazione del contratto, in Riv. dir. Civ., 2016, pp. 804 ss.
276 PIGNALOSA, Clausole di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, in Nuov. giur. civ. comm., 2015, pp. 418 ss.
distinguono clausole di rinegoziazione «specifiche» e «generiche», a seconda dell’stensione della tutela che garantiscono ai contraenti277.
Le clausole di rinegoziazione «specifiche» sono definite tali poiché prevedono dettagliatamente i parametri che devono essere osservati dalle parti nella rinegoziazione del contratto, nel caso in cui l’equilibrio dello stesso venga destabilizzato dalle sopravvenienze278.
Chiaramente tali clausole non escludono la permanenza di un margine di discrezionalità, che rimane nella disponibilità dei contraenti nel corso della rinegoziazione. Difatti, laddove le clausole in esame predisponessero già l’intero contenuto dell’accordo di rinegoziazione si avrebbero clausole non differenti da quelle di adeguamento automatico. Invece, le clausole di rinegoziazione, seppur specifiche, lasciano ai contraenti un ampio margine di liberà negoziale, limitato solo dall’obbligo di osservare i parametri dettati dalle stesse nel xxxxx xxxxx xxxxxxxxxx000.
Tuttavia, le clausole di rinegoziazione specifiche sono contraddistinte da molteplici profili di criticità. In primo luogo, garantiscono alle parti una minore tutela, che è riferita unicamente alle circostanze risultanti dalle clausole stesse; inoltre, esse implicano un aumento dei costi della contrattazione dovuti all’impegno dei paciscenti nel prevedere specificamente ed ex ante i rischi contrattuali futuri ed eventuali.
Al contrario, le clausole di rinegoziazione generiche, nel prevedere circostanze più generali e pertanto flessibili, in virtù delle quali si possa dare luogo alla rinegoziazione, consentono alle parti di conservare una maggiore discrezionalità nel corso di svolgimento delle trattative, nonché di tutelarsi dinanzi alla possibile verificazione di un ampio ventaglio di sopravvenienze contrattuali280.
Nonostante appaia più conveniente, proprio per la maggiore autonomia concessa alle parti, propendere per l’inserimento di clausole di rinegoziazione generiche, anche queste presentano plurime problematiche, che concernono la fase applicativa, ossia le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare il contratto.
277 XXXXXXX, La rinegoziazione del contratto. Strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Padova, 2006, pp. 65 ss., secondo il quale le clausole di rinegoziazione «specifiche» offrono ai contraenti una tutela dinanzi alla verificazione di circostanze ben definite, mentre quelle «generiche», forniscono alle parti una tutela più estesa e meno circoscritta.
278 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss. 279 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss. 280 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
Nello specifico, per quel che concerne le problematiche applicative relative all’obbligo di avviare nuove trattative per la possibile ed eventuale ridefinizione dei contenuti contrattuali incisi dalle sopravvenienze, la clausola di rinegoziazione detta parametri generici che le parti potrebbero sfruttare per trarre un vantaggio, adattando il loro contenuto alle proprie reciproche esigenze più disparate.
Infatti, le clausole generiche si prestano facilmente al perpetrarsi di abusi che possono realizzarsi non solo mediante la condotta della parte favorita dalla sopravvenienza, ma anche a causa del comportamento della parte danneggiata dalla circostanza sopravvenuta. Infatti, mentre la prima potrebbe tentare di escludere la riconducibilità della sopravvenienza all’ambito applicativo della clausola di rinegoziazione, onde ottenere che il contratto prosegua nella sua esecuzione originaria la parte svantaggiata potrebbe richiedere la rinegoziazione anche quando la sopravvenienza non sia giuridicamente rilevante secondo quanto previsto convenzionalmente dai contraenti281.
Per queste ragioni, la dottrina282 ha prospettato diversi dubbi circa l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, delle clausole di rinegoziazione generiche. Si è affermato, tuttavia, che la validità delle clausole appartenenti a tale categoria debba essere valutata caso per caso, avendo riguardo al contenuto del contratto ed all’influenza sullo stesso della clausola ad esso apposta283.
Inoltre, un’ulteriore problematica sorta con riferimento alle clausole di rinegoziazione generiche, ma riscontrabile anche per quelle specifiche, riguarda le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare imposto da tali clausole.
Difatti, laddove nel contratto siano inserite clausole fonte di obbligo di rinegoziare il contenuto del contratto in capo alle parti e lo stesso non sia adempiuto, si ritiene configurabile un’ipotesi di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione284.
In particolare, l’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione è integrato laddove si rifiuti di trattare ovvero nel caso in cui le trattative siano iniziate ma condotte
281 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
282 XXXXXXXX, L’adeguamento del contratto nel diritto italiano, in Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie del contratto e rimedi, diretto da Xxxxxxx e Vaccà, Milano, 1992, pp. 300 ss.
283 GENTILI, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e Impresa, 2003, pp. 700 ss.
284 XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione dei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, pp. 300 ss.
scorrettamente dalle parti, in violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede per tutta la durata della negoziazione ex art. 1337 c.c.285.
Tuttavia, considerato che l’obbligo di rinegoziazione introdotto convenzionalmente dalla clausola si configura come un mero dovere di avviare le trattative e di condurle secondo buona fede e non come un obbligo di giungere effettivamente all’accordo modificativo finale, la mancata conclusione di un nuovo accordo, sostitutivo del precedente, non integra l’inadempimento ex art. 1218 c.c.
Occorre, però, a tal riguardo, precisare che qualora la fase della rinegoziazione non abbia esito positivo e le condizioni originarie del contratto non siano adattate alla nuova situazione di fatto dovuta alle sopravvenienze, l’unico rimedio esperibile dalla parte da ciò svantaggiata, consiste nell’avvalersi della disciplina legislativa dettata dal Codice civile in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione286.
Diversa l’ipotesi in cui l’obbligo di rinegoziare non sia stato adempiuto da una delle parti, poiché si pone il problema relativo al rimedio che la parte non inadempiente può esperire. È noto che il rimedio previsto dall’ordinamento nel caso di inadempimento di un’obbligazione la cui fonte è un contratto a prestazioni corrispettive è quello della risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. con eventuale risarcimento del danno.
Dunque, questa soluzione renderebbe applicabile il rimedio risolutorio alle ipotesi di violazione dell’obbligo di rinegoziazione introdotto convenzionalmente dalle parti attraverso la predisposizione di un’apposita clausola287.
Tuttavia, non è difficile comprendere come il rimedio risolutorio, a fronte all’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione di fonte convenzionale, frustrerebbe decisamente l’interesse sotteso alla previsione delle clausole di rinegoziazione, che si sostanzia nella conservazione del rapporto contrattuale i in caso di sopravvenienze.
Per questo motivo, una parte della dottrina ritiene che, nel caso di inadempimento dell’obbligo di contrattare, la parte non inadempiente possa attivare il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ex art. art. 2932 c.c. Xxxxxxxx, la stessa potrebbe adire il giudice affinché con una sentenza costitutiva, che tenga luogo
285 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
286 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss.
287 TUCCARI, op. cit., pp. 268 ss. che ritiene applicabili anche tutte le norme dettate dal Codice civile in materia di risoluzione per inadempimento, tra cui l’art. 1455 c.c., la quale statuisce che «il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra».
dell’accordo non concluso, provveda egli stesso in sostituzione delle parti, a modificare il contenuto del contratto, riequilibrandolo.
L’accoglimento di questa soluzione trova un ostacolo288 nel contenuto dell’obbligo che sorge dalle clausole di rinegoziazione: non si è un obbligo di concludere un accordo sostitutivo del precedente, ma si sostanzia in un obbligo di contrattare a contenuto indeterminato, ossia nell’obbligo di avviare nuove trattative e di condurle secondo buona fede per la possibile ed eventuale ridefinizione dei contenuti contrattuali incisi dalla sopravvenienza289.
Inoltre, considerato che le clausole di rinegoziazione, diversamente dalle clausole di adeguamento automatico, non predeterminano il contenuto dell’accordo sostitutivo e modificativo del contratto originario, la concessione di un simile potere di intervento al giudice si rivelerebbe eccessivamente invasiva dell’autonomia privata. Infatti, sarebbe concesso al giudice un potere alquanto generico di adeguare il contenuto del contratto, senza che vi siano limiti certi o criteri puntuali ai quali lo stesso debba attenersi290.
Dunque, la questione del rimedio applicabile in caso di violazione dell’obbligo di rinegoziazione è ancora discussa in dottrina e in giurisprudenza che, per le ragioni menzionate, tendono a propendere per il rimedio risolutorio.
4. Le sopravvenienze atipiche o non codificate
Come è stato già rilevato, le sopravvenienze, alterando l’equilibrio del contratto ed impedendone la corretta esecuzione, pregiudicano la certezza del diritto e il funzionamento dell’economia. Pertanto, il Codice civile detta una disciplina concernente le sopravvenienze, con riferimento alle ipotesi dell’impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) e dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (art. 1467 c.c.). Queste rientrano nel novero delle sopravvenienze «tipiche», al cui verificarsi il legislatore correla quale rimedio principale quello risolutorio.
288 La critica si basa sull’argomento secondo cui la sentenza costitutiva del giudice ex art. 2932 c.c., emanata per rimediare all’inadempimento di una delle parti dell’obbligo di rinegoziazione del contratto, darebbe vita un nuovo accordo tra le parti, sostitutivo del precedente. La costituzione di un nuovo accordo, tuttavia, non è la conseguenza propria della clausola di rinegoziazione, che impone alle parti unicamente l’obbligo di trattare, non quello di concludere positivamente le trattative giungendo effettivamente all’accordo modificativo finale.
289 PIGNALOSA, op. cit., pp. 418 ss.
290 GENTILI, op. cit., pp. 700 ss.
Le sopravvenienze, infatti, si suddividono in diverse categorie, tra cui rientrano da un lato, le sopravvenienze che alterano l’equilibrio contrattuale e dall’altro, quelle che frustrano la causa del contratto stesso, a loro volta riconducibili all’insieme delle sopravvenienze tipiche ed atipiche291.
Invece, le sopravvenienze «atipiche» o «non codificate», come suggerisce la denominazione, non si rinvengono in fattispecie normative e, quindi, non conoscono una disciplina legale292.
Pertanto, sia per le sopravvenienze atipiche che alterano l’equilibrio contrattuale, sia per le sopravvenienze atipiche che frustrano la causa del contratto, come nell’ipotesi del pacchetto turistico293, la dottrina e la giurisprudenza si è interrogata sulla disciplina ad esse applicabile.
Infatti, le sopravvenienze atipiche devono essere sottoposte ad una valutazione concernente la propria rilevanza, in termini di incidenza sull’equilibrio contrattuale, parimenti a quanto previsto dal legislatore per le sopravvenienze tipiche. Solo l’esito positivo di tale valutazione conduce a rinvenire un rimedio applicabile per riequilibrare il sinallagma e garantire il soddisfacimento dell’interesse del contraente inciso dalla circostanza sopravvenuta294.
In particolare, parte della dottrina propende per affermare l’irrilevanza giuridica di tutte le circostanze sopravvenute atipiche, proprio perché non sono stata tipizzate dal legislatore, secondo il brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Conseguentemente, nel caso in cui le medesime ricorrano, la regola è quella ricavabile dall’art. 1372 c.c. del pacta sunt servanda295.
Un’altra corrente dottrinale, xxxxxx, ritiene che in virtù della clausola rebus sic stantibus, anche alle sopravvenienze atipiche debba essere riconosciuta una rilevanza giuridica tale da legittimare il ricorso alle tecniche rimediali, predisposte con lo scopo di garantire la
291 XXXXX, Impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità della prestazione e «frustration of contract», in
Riv. trim. dir. proc. civ., II, 1973, pp. 1230 ss.
292 PIRAINO, Sull’esecuzione del contratto secondo buona fede, in La nuova giurisprudenza civile commentata, I, 2023, p. 173.
293 La giurisprudenza ha ravvisato l’esistenza di una sopravvenienza atipica nel caso in cui sia stato stipulato un contratto di pacchetto turistico tra un soggetto ed un’agenzia di viaggi, avente come destinazione una determinata meta, poi divenuta irraggiungibile a causa di un evento sopravvenuto. Si ritiene che in tal caso si incorra in una sopravvenienza atipica, che influisce, in particolar modo, sulla realizzazione della causa del contratto. Si veda, in tal senso, Cass. sez. III, 24 aprile 2008, n. 10651, in Il foro italiano, I, 2009, pp. 213 ss.
294 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
295 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
tutela della parte pregiudicata dagli eventi imprevedibili e straordinari influenti sull’equilibrio contrattuale o sulla sua causa.
Tra i sostenitori di questa tesi vi è chi ritiene che alle sopravvenienze atipiche dovrebbe applicarsi in via analogica la disciplina sull’impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione contenuta negli artt. 1463 c.c. e 1467 c.c.; altri, invece, propongono di far riferimento all’istituto della presupposizione e all’obbligo di rinegoziazione del contratto secondo buona fede.
4.1 La presupposizione
La presupposizione non è un istituto legislativamente previsto, ma si tratta di una figura di creazione giurisprudenziale e dottrinale, introdotta nell’ordinamento con la finalità di porre rimedio alle conseguenze negative causate dalle sopravvenienze atipiche296.
In particolare, il concetto di «presupposizione» è stato elaborato originariamente nell’ordinamento tedesco297, per poi essere ripreso dalla dottrina italiana, che lo ha ricondotto ad istituti eterogenei, tra cui si annoverano l’errore sui motivi e le sopravvenienze298, con riguardo all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.), impossibilità parziale (1464 c.c.) ed eccessiva onerosità sopravvenuta (1467 c.c.)299.
Nello specifico, si fa riferimento alla presupposizione allorquando emerga, interpretando in buona fede la volontà delle parti, che le stesse abbiano considerato una data circostanza di fatto come determinante per la conclusione dell’accordo, pur non menzionandola esplicitamente nel contratto300.
Orbene, la circostanza di fatto determinante per le parti e, dunque, dalle stesse
«presupposta» può essere anteriore, contestuale ovvero successiva alla stipulazione del contratto.
Pertanto, se la suddetta circostanza di fatto o «presupposto», sia essa anteriore, coeva o successiva, risulta menzionata espressamente nel contratto, essa assume il rilievo di una
296 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
297 WINDSCHEID, Die Xxxxx xxx xxxxxxxxx Xxxxxx xxx xxx Xxxxxxxxxxxxx, Xxxxxxxxxx, 0000.
298 MENGONI, Nota a cass., sez. un., 28 maggio 1953, in Riv. dir. comm., II, 1953, pp. 256 ss.
299 SBISÀ, La prima norma in tema di rinegoziazione nel contesto del dibattito sulle sopravvenienze, in
Contratto e impresa, I, 2022, p. 15.
300 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
vera e propria condizione, dalla cui verificazione dipende l’efficacia ovvero inefficacia del medesimo.
Invece, laddove il presupposto, pur essendo pacificamente ritenuto fondamentale delle parti, non risulti formalmente menzionato, non può applicarsi automaticamente la disciplina della condizione che fa dipendere dalla sua verificazione l’efficacia o inefficacia del contratto stesso (artt. 1353 e ss. c.c.)
Per questo, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate sui rimedi esperibili nel caso in cui le parti concludano un accordo, ritenendo fondamentale per la sua efficacia la realizzazione di una situazione di fatto attuale o futura, senza però farne menzione nel contratto, e tale situazione non si verifichi concretamente ovvero si modifichi nel xxxxx xxx xxxxx000.
Tale quesito ha suscitato riflessioni e risposte molto diverse. Una parte della dottrina, infatti, propende per la tesi «dell’irrilevanza dei motivi non dichiarati», e ritiene, dunque, che non essendovi alcuna disposizione legislativa che attribuisca rilievo o riconosca la figura della presupposizione, anche laddove l’evento presupposto dalle parti non si sia verificato o sia mutato, il contratto stipulato dalle stesse debba essere ugualmente eseguito302.
Un’altra corrente dottrinale, invece, ritiene che, onde garantire il rispetto del principio della «buona fede contrattuale», occorra tutelare la parte che ha stipulato il contratto sulla base dell’auspicata verificazione di un presupposto, conosciuto dalla controparte, però mai concretizzatosi ovvero venuto meno303.
Nell’ambito della medesima corrente dottrinale, però, si rintracciano soluzioni diverse, che corrispondono anche ad altrettanto diverse configurazioni della figura della presupposizione.
Difatti, nella Germania dell’Ottocento, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, al quale si deve l’originaria elaborazione della figura in esame, propendeva per una configurazione soggettiva della stessa e affermava che la situazione di fatto presupposta dovesse essere equiparata, nel suo trattamento, ad una clausola condizionale non esplicitata dai contraenti e, pertanto
301 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
302 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
303 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
attivabile unicamente mediante azione ovvero eccezione sollevata dalla parte interessata304.
La teoria soggettivistica, quindi, conferisce particolare rilievo alla volontà delle parti ed avvalora l’idea secondo la quale in ogni contratto vi sia un’implicita clausola «rebus sic stantibus», che comporta, nel caso di mutamento di ogni situazione di fatto presupposta, la risoluzione del contratto e l’impossibilità della sua esecuzione305.
Tuttavia, la tesi soggettivistica proposta da Xxxxxxxxxx creava confusione tra le circostanze presupposte dalle parti, ritenute fondamentali al fine del perfezionamento dell’accordo e, pertanto, meritevoli di tutela, dagli irrilevanti motivi individuali, per i quali non è prevista l’applicazione di alcun rimedio specifico306.
Pertanto, Xxxx Oertmann307 ha prospettato una concezione della figura della presupposizione che si incentrava sulla causa del contratto.
In particolare, si riteneva che qualora si modificasse ovvero non si verificasse una circostanza di fatto, che una delle parti si era rappresentata al momento del perfezionamento dell’accordo e che era stata riconosciuta come rilevante dalla controparte, ne sarebbe derivato il venire meno della causa del contratto e la sua conseguente nullità308.
Orbene, sia la tesi soggettivistica che quella oggettivistica prospettate dalla dottrina sono state riprese successivamente dalla giurisprudenza, che nelle più recenti pronunce ha fornito una nozione di presupposizione, definendola come «una circostanza esterna che si configura come uno specifico ed oggettivo presupposto di efficacia del regolamento pattizio»309.
La giurisprudenza di legittimità, invece, ha affermato che la modifica o il venir meno di un presupposto ritenuto fondamentale dalle parti per la conclusione dell’accordo comporta la risoluzione del contratto o l’invalidità dello stesso310.
Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha chiarito che la questione concernente la mancanza o il venir meno della circostanza di fatto presupposta dalle parti è una questione di fatto, il
304 MAGGIOLO, Presupposizione e premesse del contratto, in Giust. civ., I, 2014, pp. 860 ss.
305 MAGGIOLO, op. cit., pp. 860 ss. 306 MAGGIOLO, op. cit., pp. 860 ss. 307 Giurista tedesco dell’Ottocento. 308 MAGGIOLO, op. cit., pp. 860 ss.
309 Cass. civ. sez. II, 3 dicembre 2009, n. 25401 in Xxxx.xx.
310 Cass. civ. sez. II, 18 settembre 2009, n. 20245, in Xxxx.xx.
cui accertamento è riservato ai giudici di merito e non ai giudici di legittimità, ai quali spetta unicamente il giudizio riguardante la congruità della motivazione311.
Dunque, sia che essa propenda per una concezione soggettivistica ovvero oggettivistica, la giurisprudenza riconosce, generalmente, rilevanza alla figura della presupposizione, ritenendo che debba essere concessa tutela al contraente pregiudicato dalla vanificazione dei presupposti ritenuti fondamentali per la conclusione dell’accordo312.
Nello specifico, la giurisprudenza313, qualificando la presupposizione come una condizione inespressa, sostiene che alla stessa possa essere riconosciuta rilevanza, unicamente quando si riferisce ad una situazione di fatto: oggettiva ed esterna al contratto, ossia non dipenda dalla determinazione delle parti, determinante per l’equilibrio economico del contratto e conosciuta da entrambi i contraenti e 314.
La dottrina e la giurisprudenza, pur attribuendo entrambe rilevanza giuridica alla presupposizione, non concordano sul rimedio utilizzabile dai contraenti nel caso in cui essa ricorra.
Secondo una teoria di matrice dottrinale, configurandosi il presupposto rilevante per le parti come una condizione «implicita» del contratto, nel caso di mancata realizzazione dello stesso, il contratto è inefficace315.
Secondo una differente prospettazione, fondata sul principio secondo il quale la parte pregiudicata dalla circostanza sopravvenuta non può essere obbligata ad eseguire un contratto che sia difforme rispetto a quello inizialmente concluso, il rimedio da applicare nel caso in cui ricorra il caso della presupposizione consiste nella risoluzione del contratto, secondo quanto previsto in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) o impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.)316.
La giurisprudenza317, invece, ha proposto il rimedio dell’annullabilità del contratto per errore ovvero la nullità dello stesso per assenza di un suo elemento essenziale, ossia
311 MAGGIOLO, op. cit., pp. 860 ss.
312 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
313 Cass., sez. II, 13 ottobre 2016, n. 20620, in Xxxx.xx.
314 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
315 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
316 TUCCARI, op. cit., pp. 30 ss.
317 Cass., sez. II, 25 maggio 2007, n. 12235, in Xxxx.xx., 2008.
l’accordo tra le parti, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 1325 n. 1 e 1418, comma 2 c.c.318.
Nel panorama giurisprudenziale si rinviene anche un filone che attribuisce il diritto di recesso al contraente pregiudicato dalla mancata verificazione della circostanza presupposta, conosciuta dalla controparte e giuridicamente rilevante319.
Dunque, la totalità dei rimedi che sono stati considerati applicabili alla fattispecie della presupposizione, come la risoluzione del contratto, la sua inefficacia ovvero l’attribuzione del diritto di recesso, appartengono al novero dei rimedi demolitori o caducatori, che conducono inevitabilmente allo scioglimento del rapporto contrattuale 320.
Pertanto, considerata l’attuale tendenza degli interpreti a preferire i rimedi c.d. manutentivi, che consentono la conservazione del rapporto contrattuale attraverso una procedura di adeguamento del suo contenuto, la presupposizione ha ceduto il passo dinanzi all’evolversi di una nuova figura, che consiste nell’obbligo di rinegoziazione del contratto secondo buona fede321.
4.2 La buona fede e l’obbligo di rinegoziazione del contratto
Un ulteriore strumento di tutela dei contraenti dinanzi alla possibile verificazione di sopravvenienze contrattuali è stato introdotto in via interpretativa e consiste nell’obbligo di rinegoziazione del contratto secondo buona fede.
In particolare, l’obbligo di rinegoziazione del contratto è comparso inizialmente nelle raccolte di soft law322 all’inizio degli anni 2000, ed in seguito è stato assoggettato ad una dettagliata disciplina, contenuta nel Codice civile francese323 e in quello tedesco324.
318 L’art. 1325 c.c. disciplina i requisiti del contratto, prevedendo che tra gli stessi rientrino la causa, l’oggetto, la forma, quando risulti prescritta a pena di nullità, e, da ultimo, l’accordo delle parti.
Tale ultimo requisito verrebbe meno, secondo la giurisprudenza, nel caso in cui un presupposto ritenuto essenziale dai contraenti ai fini della conclusione dell’accordo non si realizzasse. Si veda in tal senso, Cass. sez. II, 18 settembre 2009, n. 20245, in Xxxx.xx, 2009.
319 TORRENTE, XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 700 ss.
320 PENNAZIO, La presupposizione tra sopravvenienza ed equilibrio contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, pp. 671 ss.
321 TUCCARI, op. cit., pp. 30 ss.
322 Art. 6:111 PECL (2002), in ??va bene anche sito.
323 Art. 1195 Code civil in cui si dispone che la parte pregiudicata dalla sopravvenienza «peut demander une renégociation du contrat à son cocontractant».
324 FONDRIESCHI, Tre modelli di rinegoziazione. Rinegoziazione spontanea, obbligo di rinegoziare e incentivi alla rinegoziazione, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2021, pp. 1 ss.
Nell’ordinamento giuridico italiano, invece, l’obbligo di rinegoziare il contratto secondo buona fede è comparso, oltre che nelle elaborazioni di carattere dottrinale e giurisprudenziale, nel disegno di legge delega di revisione del Codice civile del 2019, nel quale, auspicando l’introduzione di rimedi conservativi del contratto da applicare nel caso delle sopravvenienze, si proponeva di «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni, originariamente convenuta dalle parti»325.
Tale proposta di revisione del Codice civile, dunque, ha delineato i tratti costitutivi principali della disciplina concernente l’obbligo di rinegoziare il contratto secondo buona fede e ha preceduto di poco un periodo storico complesso caratterizzato dal diffondersi della pandemia da Covid-19 (l’emergenza sanitaria è iniziata nel marzo del 2020)., che ha messo in crisi anche il diritto contrattuale.
Pertanto, occorre avere ben chiara la distinzione tra la disciplina prevista dalla legislazione emergenziale con riferimento all’obbligo di rinegoziazione e quella concernente il medesimo obbligo, quale rimedio generale alle sopravvenienze contrattuali326.
A tal proposito, l’obbligo legale di rinegoziazione può potenzialmente operare, quale rimedio conservativo del contratto, sia nell’ambito della gestione delle sopravvenienze tipiche che di quelle atipiche.
Infatti, nell’ambito delle sopravvenienze tipiche (artt. 1463 e 1467 c.c.), si ritiene configurabile l’esistenza di un obbligo legale di rinegoziazione del contratto, che si desume dalla disciplina disposta dal Codice civile con riguardo alla fattispecie dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione327.
Nello specifico, l’esistenza di un obbligo di rinegoziazione si riconduce alla formulazione del terzo comma dell’art. 1467 c.c., nel quale si concede alla parte contro la quale è domandata la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, la possibilità di evitarla attraverso una proposta di modificazione equa dell’accordo originariamente concluso ma non più eseguibile nelle sue condizioni iniziali.
325 Ddl. 19 marzo 2019, n. 1151, in Xxxx.xx.
326 FONDRIESCHI, op. cit., pp. 1 ss.
327 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
La dottrina ha ritenuto, a tal proposito, che la suddetta previsione abbia attribuito un vero e proprio diritto soggettivo di evitare la risoluzione del contratto alla parte avvantaggiata dalla sopravvenienza, attraverso una propria iniziativa volta a modificare le condizioni del contratto previamente perfezionatosi328.
Pertanto, è stato riscontrato che, a fronte del diritto potestativo attribuito alla parte avvantaggiata dalla verificazione della circostanza sopravvenuta, la parte svantaggiata dalla sopravvenienza deve accettare la proposta di modificazione avanzata dalla controparte329.
Inoltre, l’obbligo legale di rinegoziazione assume il ruolo di rimedio manutentivo del contratto anche con riferimento all’insorgenza di sopravvenienze atipiche o non codificate. A tal proposito, la dottrina aveva originariamente prospettato dei dubbi circa la possibilità di ritenere sussistente un obbligo di rinegoziazione anche per le sopravvenienze non disciplinate dal legislatore. Queste, infatti, non essendo considerate giuridicamente rilevanti dal legislatore non avrebbero potuto derogare alprincipio del
«pacta sunt servanda» di cui all’art. 1372 c.c., in virtù del quale il contratto avrebbe dovuto essere eseguito nella sua iniziale configurazione, essendo impossibile modificare l’allocazione del rischio contrattuale ab initio pattuita330.
Invece, sulla base della teoria degli «incomplete contracts»331, secondo la quale risulta impossibile per le parti che stipulano un contratto a lungo termine prevedere anticipatamente tutte le circostanze potenzialmente idonee ad influire sulla corretta esecuzione del rapporto contrattuale, è stato ritenuto che l’obbligo di rinegoziazione sia configurabile anche nel caso delle sopravvenienze atipiche332.
Infatti, non potendo le parti pervenire ad una definitiva allocazione del rischio contrattuale ex ante, alle stesse viene riconosciuto il diritto di rinegoziare il contenuto dell’accordo ex post, qualora lo stesso sia alterato o mutato dalle sopravvenienze atipiche. In tal modo, dunque, si rende configurabile, anche in relazione alle stesse, il rimedio della rinegoziazione del contratto333.
328 XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione dei contratti a lungo termine, op. cit., pp. 300 ss.
329 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
330 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
331 Teoria americana dei «contratti incompleti». Si veda, in tal senso, XXXXXXXX, Judicial Competence and the Interpretation of Incomplete contracts, in J. Leg. Stud., 1990, pp. 530 ss.
332 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
333 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
Tuttavia, se si vuole accogliere questa tesi, occorre soffermarsi, in prima istanza, sulle basi giuridiche che legittimano l’ammissibilità dell’obbligo di rinegoziazione nell’ordinamento.
In particolare, l’obbligo di rinegoziare secondo buona fede che si pone a carico della parte pregiudicata dalla sopravvenienza, in seguito alla proposizione dell’offerta di riconduzione ad equità della controparte, troverebbe la propria fonte normativa, non solo nella previsione dell’art. 1467 c.c., ma anche e soprattutto nell’art. 1375 c.c., ai sensi del quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede334. Pertanto, la buona fede si configurerebbe sia come un principio generale volto a regolare l’esecuzione dell’accordo sia come fonte di integrazione dello stesso, attraverso il quale si introduce nel contratto, con specifico riguardo all’ambito delle sopravvenienze, un obbligo di rinegoziazione del medesimo335.
La buona fede, inoltre, viene considerata da taluno espressione del principio solidaristico consacrato nell’art. 2 della Costituzione, idoneo a fondare un obbligo di rinegoziazione, inteso quale più generale obbligo di cooperazione tra le parti, e dunque, di solidarietà336. Alla luce di tali considerazioni, la buona fede, considerate le caratteristiche che la contraddistinguono, ossia flessibilità e l’adattamento al contesto, si configura come una delle basi giuridiche fondamentali dell’obbligo di rinegoziare337.
Inoltre, mettendo in luce il contenuto essenziale dell’obbligo di rinegoziare il contratto, emerge un’ulteriore potenzialità applicativa del principio della buona fede, che costituirebbe non solo la fonte legale dell’obbligo menzionato, ma anche un parametro di valutazione. Pertanto, il contenuto dell’obbligo di rinegoziazione si sostanzierebbe
«essere obbligati a trattare e dunque, essere obbligati a porre in essere tutti quegli atti che in relazione alle circostanze possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute»338.
In altri termini, i contraenti, per adempiere all’obbligo impostogli nel caso in cui si verifichino sopravvenienze contrattuali, devono non solo limitarsi ad accettare l’invito a
334 XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione dei contratti a lungo termine, op. cit., pp. 300 ss.
335 FONDRIESCHI, op. cit., pp. 1 ss. 336 FONDRIESCHI, op. cit., pp. 1 ss. 337 FONDRIESCHI, op. cit., pp. 1 ss.
338 XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione dei contratti a lungo termine, op. cit., pp. 300 ss.
negoziare della controparte ma anche tenere un comportamento che deve essere assoggettato al parametro valutativo rappresentato dalla buona fede contrattuale339.
Oltre che nella buona fede contrattuale, si ritiene che una diversa base giuridica dell’obbligo di rinegoziazione possa essere rintracciata nella fattispecie di cui all’art. 1374 c.c., con specifico riguardo all’equità integrativa. Difatti l’art. 1374 c.c. prevede che
«il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza secondo gli usi e secondo equità».
Dunque, nonostante l’obbligo di rinegoziazione sia stato disciplinato espressamente solo nel disegno di legge concernente la proposta di modificazione del Codice civile (Ddl. 1151/2019), la dottrina sostiene che lo stesso fosse già immanente nel sistema, in quanto desumibile da numerose disposizioni, come l’art. 1375 c.c., in relazione alla buona fede, l’art. 2 Cost., in tema di solidarietà sociale e l’art. 1374 c.c. che consacra il principio dell’equità integrativa,340.
Tuttavia, alcune recenti pronunce giurisprudenziali non hanno avallato la suddetta tesi dottrinale, ritenendo invece che «in materia di contratti a prestazioni corrispettive, né l’art. 1374 c.c., né i doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, né il dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. consentono di ritenere esistente nel nostro ordinamento un obbligo di rinegoziazione dei contratti divenuti svantaggiosi per talune delle parti, ancorché in conseguenza di eventi eccezionali ed imprevedibili, e un potere del giudice di modificare i regolamenti contrattuali liberamente concordati dalle parti nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, al di là delle ipotesi espressamente previste dalla legge»341.
Tuttavia, la giurisprudenza non è unanime nel ritenere inammissibile l’obbligo di rinegoziazione, considerata la complessità che contraddistingue il tema.
Infatti, altre pronunce giurisprudenziali hanno affermato che l’obbligo di rinegoziazione tende, in realtà, a realizzare la volontà dei contraenti e che, dunque, non sussiste alcuna incompatibilità sostanziale tra tale obbligo e la libertà di autodeterminazione delle parti342. Chiaramente, la tesi che propende per ammettere l’esistenza di un obbligo di
339 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
340 FONDRIESCHI, op. cit., pp. 1 ss.
341 Trib. Roma, Sez. VI, 12 gennaio 2023, n. 800, in Massima redazionale, 2023.
342 SBISÀ, op. cit., p. 15.
rinegoziazione si fonda, in via principale, sulla necessità, fortemente avvertita dall’ordinamento, di predisporre strumenti conservativi del rapporto contrattuale, che suppliscano alla prevalenza dei rimedi demolitori apprestati dall’ordinamento al fine di contrastare le sopravvenienze343.
Per tale motivo, parte della stessa giurisprudenza che propende per la configurabilità dell’obbligo di rinegoziazione assume, quale fonte legale dello stesso, non solo le già esaminate disposizioni di cui agli artt. 1374, 1375 c.c. e 2 Cost., ma anche l’art. 2932 c.c., concernente la tutela in forma specifica, al quale potrebbe farsi ricorso nel caso di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione344.
4.3 L’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare, quali tutele?
L’ammissibilità dell’obbligo di rinegoziazione induce ad interrogarsi sulle conseguenze del suo inadempimento.
La dottrina e la giurisprudenza hanno prospettano soluzioni eterogenee relativamente alle forme di tutela per la parte del contratto che risulti pregiudicata all’omesso adempimento della controparte.
Parimenti a quanto si verifica con riferimento all’obbligo di rinegoziazione avente fonte negoziale, anche l’obbligo di rinegoziazione che si desume dalle disposizioni di cui agli artt. 1374 c.c. o 1375 c.c. e 2 Cost., la cui fonte è legale si ritiene correttamente adempiuto quando le parti inizino le trattative e le conducano secondo buona fede, non essendo le stesse obbligate a stipulare un nuovo accordo modificativo del primo.
Di conseguenza, l’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione così inteso si configura qualora le parti non conducano le trattative in modo leale e collaborativo ovvero si rifiutino ingiustificatamente di trattare, ma non quando all’esito delle stesse non abbiano concluso un accordo345.
Dunque, qualora tale obbligazione non sia adempiuta, la soluzione prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza si sostanziano nel rimedio risolutorio, nella tutela in forma specifica, nella tutela risarcitoria, ed infine, nella tutela d’urgenza346.
343 SBISÀ, op. cit., p. 15.
344 SBISÀ, op. cit., p. 15.
345 CINQUE, Sopravvenienze contrattuali e rinegoziazione del contratto, in Contratto e impresa, IV, 2020, pp. 1713 ss.
346 TUCCARI, op. cit., pp. 1 ss.
In particolare, per quel che concerne il rimedio risolutorio, egualmente a quanto osservato in merito alle clausole di rinegoziazione, si ritiene che lo stesso non sia applicabile alle ipotesi di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione desunto dalle norme menzionate. Difatti, l’applicazione dell’art. 1453 c.c. in tema di risoluzione per inadempimento, comporterebbe la risoluzione del rapporto contrattuale, contrastando con la finalità propriamente conservativa dello stesso, che è alla base dell’obbligo di rinegoziazione347. Un’ulteriore soluzione prospettata dalla dottrina e giurisprudenza consiste nella tutela in forma specifica e nella conseguente applicazione dell’art. 2932 c.c., nella parte in cui statuisce che «se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso».
Infatti, l’introduzione della tutela in forma specifica, quale rimedio all’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, si basa sull’accostamento tra il suddetto obbligo e l’obbligo di contrarre. Nello specifico, secondo parte della dottrina348 «il dovere di rinegoziazione null’altro è, se non un obbligo di contrarre: detto meglio, l’obbligo di essere disponibile a contrarre, nelle condizioni che risultano giuste alla stregua dei parametri risultanti dal testo originario del contratto, rivisitati alla luce dei nuovi eventi imprevedibili e sopravvenuti».
Pertanto, secondo la medesima corrente dottrinale, il giudice è titolare di un potere di revisione del contratto, che gli consente, nel caso in cui si verifichi tale inadempimento, di emanare una sentenza costitutiva attraverso cui si realizza il risultato economico originariamente voluto dai contraenti349. Nel pronunciare la sentenza costitutiva, il giudice dovrebbe attingere, in prima istanza, ai criteri dell’integrazione secondo equità, di cui all’art. 1374 c.c. e, in seconda battuta, alla regola dell’interpretazione secondo buona fede del contratto iniziale, come statuito dall’art. 1366 c.c.350.
Al contrario, un’altra corrente dottrinale ritiene che anche nell’ipotesi in cui il giudice si avvalga dei criteri statuiti dagli artt. 1374 x.x. x 0000 x.x., xx xxxxxxxx costitutiva dallo stesso emanata non sia in ogni caso idonea a sostituirsi alla volontà delle parti. Difatti, secondo la suddetta ricostruzione l’obbligo di rinegoziazione non coincide con l’obbligo
347 CINQUE, op. cit., pp. 1713 ss. 348 SACCO, op. cit., pp. 1704 ss. 349 GALLO, op. cit., pp. 4 ss.
350 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
di contrarre, ma con l’obbligo di trattare secondo buona fede le nuove condizioni contrattuali. Di conseguenza, non sussistendo in capo alle parti l’obbligo di concludere un accordo sostitutivo del precedente, ma semplicemente di tentare la rinegoziazione del contratto originariamente stipulato, il giudice non può ritenersi titolare di un potere revisorio autonomo, che prescinda dalla volontà dei contraenti.
Dunque, la tutela in forma specifica, secondo la dottrina maggioritaria351, attribuendo un’eccessiva discrezionalità al giudice, non risulta adeguata a porre rimedio all’eventuale inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione di uno dei due contraenti.
Tuttavia, diversamente dai contrasti relativi al rimedio risolutorio e alla tutela in forma specifica, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la tutela risarcitoria sia un adeguato strumento di tutela, da potere apprestare in caso di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione. Infatti, la questione sorta in merito all’applicabilità di tale rimedio, non ha mai riguardato la risarcibilità o meno dal danno subito dalla parte, nel caso di mancato adempimento dell’obbligo di rinegoziare il contratto secondo buona fede, bensì la sua concreta liquidazione352.
In particolare, al fine di determinare i criteri di quantificazione del danno subito, occorre discernere le trattative precontrattuali da quelle condotte per adempiere all’obbligo di rinegoziazione353. Difatti, le trattative precontrattuali sono condotte dalle parti con la finalità di raggiungere un accordo che conduca al perfezionamento del contratto tra le medesime, diversamente dalle trattative che derivano dall’obbligo di rinegoziazione, le quali, sono iniziate dai contraenti al fine di adeguare il contratto alle circostanze sopravvenute e pertanto si collocano in un momento successivo alla stipulazione dello stesso354.
Dunque, mentre nel caso delle trattative precontrattuali il danno derivante dall’inadempimento di una delle parti deve essere liquidato tenendo in considerazione la spese sostenute e le occasioni d’affari perdute dalla parte danneggiata, nell’ipotesi delle trattative connesse all’obbligo di rinegoziazione, il danno deve essere quantificato sulla base dell’eventuale esito della negoziazione, in modo da consentire al contraente
351 COSTANZA, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in AA.VV., Inadempimento, adattamento e arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi. Diritto e prassi degli scambi internazionali, Milano, 1992, pp. 316 ss.
352 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss. 353 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss. 354 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
danneggiato di ottenere un concreto ristoro ed una effettiva tutela per il pregiudizio dallo stesso subito355.
Per questo, la questione concernente la quantificazione del danno derivante dall’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione è particolarmente complessa.
In particolare, l’interprete, al quale spetta il compito di liquidare il suddetto danno, deve determinare l’entità del pregiudizio arrecato dalla parte adempiente356 sulla base di due parametri, i quali corrispondono rispettivamente alla «natura dell’affare»357 e alle
«condizioni dei contraenti»358.
Tuttavia, l’individuazione del pregiudizio sofferto da una delle parti coinvolte nello svolgimento delle trattative è decisamente ardua. Di conseguenza, non è escluso che il giudice addivenga alla liquidazione del danno derivante dall’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare il contratto sulla base di una valutazione di tipo equitativo, come statuito dall’art. 1226 c.c.359.
Infine, oltre alla tutela risarcitoria, alla tutela in forma specifica e al rimedio risolutorio, dottrina e giurisprudenza hanno prospettato, quale ulteriore soluzione applicabile al caso dell’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, la tutela d’urgenza. In particolare, la tutela cautelare si ritiene ammissibile nelle suddette ipotesi, qualora ricorrano i requisiti del «fumus boni iuris» e del «periculum in mora»360.
A tal proposito, il requisito del «fumus boni iuris» si ritiene integrato quando dall’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione possa verosimilmente derivare un effettivo pregiudizio per la parte adempiente, mentre il requisito del «periculum in mora» si considera sussistere tutte le volte in cui appaia concretamente difficile, se non impossibile, che il contraente pregiudicato possa addivenire alla sostituzione della controparte inadempiente361.
355 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
356 TUCCARI, op. cit., pp. 17 ss.
357 Il parametro della «natura dell’affare» implica una valutazione degli elementi oggettivi, tra i quali rientrano, a titolo esemplificativo la durata del contratto ovvero il prezzo.
358 Il parametro rappresentato dalle «condizioni dei contraenti» implica, invece, una valutazione degli elementi soggettivi, come, ad esempio, la natura delle persone giuridiche coinvolte ovvero l’appartenenza a un gruppo.
359 L’art. 1226 c.c. statuisce che «se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa».
360 XXXXXXX, op. cit., pp. 503 ss.
361 Trib. Bari, ord. 14 giugno 2011, in Contratti, VII, 2012, pp. 570 ss.