Jobs Act, atto I
Jobs Act, atto I
La legge n. 78/2014 fra passato e futuro
di Xxxxxx Xxxxxxx
Sommario: 1. Il “debito” accumulato nel passato. - 1.1. Orecchiando l’American Jobs Act. - 1.2. All’ombra della direttiva 1999/70/CE sul contratto a termine: il “salvataggio” della legge n. 230/1962 da parte di Corte costituzionale n. 41/2000. - 1.3. Il decreto legislativo n. 368/2001 attuativo della direttiva 1999/70/CE: l’avvento del “causalone”.
- 1.4. Il decreto legislativo n. 276/2003: apertura sulla flessibilità in entrata e valorizzazione dell’apprendistato. - 1.5. La tormentata storia del decreto legislativo n. 368/2001: la diversificazione tra settore privato e settore pubblico. - 1.6. L’evoluzione nel settore privato: la normativa “difensiva” per contenere interpretazioni giurisprudenziali considerate debordanti. - 1.7. La normativa “offensiva”: la legge n. 247/2007. - 1.8. Il decreto-legge n. 112/2008 convertito dalla legge n. 133/2008 e l’articolo 8 del decreto-legge n. 138/2011 convertito dalla legge n. 148/2011. - 1.9. La legislazione degli anni 2010-2012: la legge n. 183/2010 e il contratto a termine; la legge
n. 191/2009 e il decreto legislativo n. 24/2012 attuativo della direttiva 2008/104/CE e la somministrazione di lavoro a termine; il TU n. 167/2011 e l’apprendistato. - 1.10. La legge n. 92/2012, c.d. legge Fornero: la stretta sulla flessibilità in entrata in cambio dell’apertura su quella in uscita. - 1.11. Segue: la riconferma del “causalone”… con una eccezione, ma con una disciplina restrittiva del contratto a termine. - 1.12. La legge n. 99/2013: la correzione della disciplina restrittiva del contratto a termine. - 2. L’“anticipo” corrisposto nel presente. - 2.1. Dal decreto-legge n. 34/2014 alla legge n. 78/2014. - 2.2. Segue: una controriforma all’insegna dell’eliminazione del “causalone”.
- 2.3. Segue: rilevanza e tenuta dei limiti quantitativi: la durata di 36 mesi del singolo contratto a termine e complessiva di più contratti a termine. - 2.4. Segue: la percentuale massima del 20% di contratti a tempo determinato. - 2.5. Segue: l’intreccio fra contratto a termine e somministrazione di lavoro a termine. - 2.6. L’apprendistato come contratto prevalentemente occupazionale. - 3. … E il “saldo” previsto per il futuro.
1. Il “debito” accumulato nel passato
1.1. Orecchiando l’American Jobs Act
Chi sa come l’avrà orecchiato quel Jobs Act di cui ha creduto di farsi bello nella sua veste di neo-segretario del Pd, all’inizio di quella scalata alla poltrona di Presidente del Consiglio che gli avrebbe aperto la via alla trionfale cavalcata delle europee conclusa con uno storico più 40%? Certo è che, nel suo eNews 381 dell’8 gennaio 2014, Xxxxxx Xxxxx propone fra l’altro un Jobs Act articolato su una parte II, I nuovi posti di lavoro,
con l’elencazione di sette settori strategici per ciascuno dei quali «conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro»; e, rispettivamente, su una parte C, Le regole, suddividendo i temi in Semplificazione delle norme, Riduzione delle varie forme contrattuali, Assegno universale, Obbligo di rendicontazione on line, Agenzia Unica Federale, Legge sulla rappresentatività sindacale.
Se non si sa come, si sa da dove, perché American Jobs Act era il nome informale di un paio di proposte legislative fatte dal Presidente Xxxxxx Xxxxx in un messaggio televisivo nazionale indirizzato ad una sessione congiunta del congresso nel settembre del 2011. Quindi niente male come precedente illustre nell’ambito di una sinistra ormai costretta ad andarsi a ricercare il suo ideale di leader non più ad est, ma ad ovest, se non fosse che il messaggio rimase inascoltato. Certo, però, il contenuto delle proposte era un mix di misure di incentivo degli investimenti nell’industria traino per antonomasia, cioè quella delle costruzioni, guarda caso con una attenzione privilegiata alle scuole, e di supporto di componenti deboli del mercato del lavoro.
Un intervento battezzato come Jobs Act non poteva che essere finalizzato alla produzione di “lavori”, che rimandava assai prima ed assai più al come rilanciare la crescita economica; lezione tenuta presente dallo stesso Xxxxxx Xxxxx, laddove fa precedere la predisposizione di una politica industriale alla riscrittura della normativa lavoristica. Lezione, questa, tenuta presente in quella comunicazione informatica, ma, poi estromessa e rinviata ad altra sede, sì da finire per caratterizzare il Jobs Act in chiave di mera rivisitazione della legislazione, come se questa potesse considerarsi la sola o principale imputata della caduta occupazionale.
D’altronde era ed è la traduzione della costante sollecitazione comunitaria così come semplificata al limite della caricatura da una campagna massmediatica ben foraggiata e orchestrata, che la contrabbanda nei termini di una “flessibilità” forzata sempre al di là dell’ultima liberalizzazione legislativa. Ma, come si vedrà, la parola d’ordine europea è e rimane quella della flexicurity, dove la flessibilità nel rapporto di lavoro dovrebbe andare di pari passo con la sicurezza sul mercato del lavoro; cosa di cui sembra essere consapevole Xxxxxx Xxxxx sempre in quella comunicazione informatica, laddove accompagna una semplificazione delle norme ed una riduzione delle varie forme contrattuali con l’introduzione di un assegno universale e di un’agenzia unica federale. Consapevole, allora, da segretario del Pd, ma non poi da inquilino di Palazzo Chigi, perché condannato a dare un qualche seguito al molto, se non troppo, annunciato, con tanto di scadenze, farà poi propria la consumata tecnica dei due tempi: una flessibilità in entrata nel rapporto come mai vista somministrata subito per decreto-legge, non senza qualche inevitabile attenuazione in sede di conversione; ed una sicurezza sul mercato del lavoro rimessa ad un disegno di legge delega, tanto corposo quanto generico.
Vale la pena di segnalare come nella comunicazione informatica di Xxxxxx Xxxxx ci fosse anche la problematica richiamata alla piena attenzione del Parlamento e dell’opinione pubblica dalla vicenda Fiat, destinata ad avere una significativa ricaduta non solo nella produzione legislativa del Paese, con l’introduzione dell’articolo 8 della legge n. 148/2011, ma anche nel continuum di accordi interconfederali culminato con il Testo unico sulla rappresentanza di Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, e nel flusso di ricorsi giudiziari sull’articolo 19 Stat. lav., concluso, last but not least, con la sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013. La lista delle misure previste sotto la parte C si chiudeva con la previsione della legge sulla rappresentatività sindacale, che invece è uscita completamente dall’agenda del neo-Governo Xxxxx, certo per la necessità di tener
conto della forte contrarietà espressa dal Nuovo Centrodestra vis-à-vis di una posizione fra l’indifferenza e la diffidenza delle tre grandi confederazioni; ma anche per la rapida conversione dello stesso Governo ad una posizione anti-concertativa coerente con una legislazione del lavoro vista e vissuta come anti-labor.
1.2. All’ombra della direttiva 1999/70/CE sul contratto a termine: il “salvataggio” della legge n. 230/1962 da parte di Corte costituzionale n. 41/2000
Non è qui il caso di richiamare quanto ogni giorno ci è ricordato, ribadito, enfatizzato da ogni genere di fonte con un dispendio di numeri, percentuali, diagrammi in un crescendo negativo, timidamente ravvivato da accenni di una ripresa del Pil, della produzione, dei consumi, dei tassi di occupazione e partecipazione, peraltro sempre rinviata ad un futuro tanto atteso quanto incerto.
La crisi declinata in ogni sua variante finanziaria, economica, sociale rappresenta ormai la costante scena di fondo che stimola ma al tempo stesso condiziona qualsiasi politica, sì da rendere difficile prevedere ed anticipare la ricaduta effettiva di questa o quella misura, che, pur assunta con la migliore intenzione, facendo casomai tesoro dell’esperienza realizzatane in altro Paese comparabile, può rivelarsi a posteriori come improduttiva o addirittura controproducente. Sicché, lasciando alla corporazione degli economisti dissertare con la solita difformità di opinione, sulla efficacia o meno della politica delineata nel Jobs Act, ci si vuol qui limitare a rileggere il decreto-legge n. 34/2014, convertito dalla legge n. 78/2014 come ultima tappa di una qual sorta di lunga marcia legislativa costretta a conciliare con la normativa comunitaria la crescente fiducia nella resa occupazionale della flessibilità in entrata.
Trattasi, peraltro, di una “normazione” stratificata, di diversa origine, natura, rilevanza, tutt’altro che chiara, univoca e coerente nella sua portata. Viene, anzitutto, in rilievo quello che è stato il frutto della duplice stagione della politica del lavoro della comunità europea, cioè dell’“armonizzazione” di cui qui rileva anzitutto la direttiva 1999/70/CE, e, rispettivamente, del “coordinamento aperto” di cui qui interessa la sequenza maturata nell’ambito della strategia di Lisbona, con l’agenda Europa 2010 del 2000 e Europa 2020 del 2010.
Se come d’obbligo si parte dalla direttiva 1999/70/CE, certo è che si può sì ridimensionare il passo anticipato nel Preambolo e poi ripreso nel Considerando dell’accordo quadro sui contratti a tempo determinato 18 marzo 1999 ivi recepito, per cui «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro»; ma esso resta comunque a evidenziare il criterio guida dell’accordo, costituito dalla relazione da regola ad eccezione fra il rapporto a tempo indeterminato e determinato, poi tradotto nel duplice Obbiettivo: garantire il principio di non discriminazione (clausola 4) e prevenire gli abusi derivanti da una successione di contratti o rapporti a tempo determinato, tramite «una o più misure», date, anche alternativamente, dalla previsione di «ragioni obiettive» per i rinnovi e/o della «durata massima totale dei contratti […] successivi» e/o del «numero dei rinnovi» (clausola 5). Criterio guida, questo, di una relazione da regola ad eccezione, condiviso ab origine dal regolamento nazionale che aveva progressivamente sottratto al libero consenso del datore e del lavoratore, l’apposizione di un termine, facendogli effettuare un percorso
che lo avrebbe sempre più privato del suo carattere di elemento “accidentale”, fino a trasformarlo in un elemento “causale”, comunque si finisse per qualificare il relativo contratto, “sottotipo” o “speciale” che dir si voglia. Già l’articolo 2097 c.c. aveva richiesto che l’apposizione fosse giustificata dalla specialità del rapporto «o» risultasse da atto scritto. Ma, poi, la legge n. 230/1962, esplicitata la premessa per cui «Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate», prescriveva che l’apposizione fosse legittima solo se riconducibile ad una elencazione tassativa di ipotesi la cui esistenza doveva essere provata dal datore «e» effettuata per iscritto a pena di inefficacia (articolo 1, commi 1-3), nonché sanciva la parità di trattamento (articolo 5), con esclusione dalla sua copertura «dei rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e salariati fissi comunque denominati» (articolo 6).
A dire il vero, così come giuntaci all’inizio di questo secolo, la legge scontava, oltre a qualche modifica nell’elencazione tassativa, una duplice novità. La prima era costituita dalla previsione di “ragioni soggettive”, quali date dalla peculiare natura delle aziende, come per quelle esercenti trasporti aereo e servizi aeroportuali (articolo unico della legge n. 84/1986); oppure dalla particolare situazione dei lavoratori, come per quelli in mobilità (articolo 8, comma 2, legge n. 223/1991). E se l’una ipotesi non intaccava la giustificazione “tipica” del termine, cioè quella di correlarlo ad una esigenza aziendale, se pur non provata in specifico ma presunta in generale; l’altra lo faceva senz’altro, col prevedere una giustificazione “atipica” dello stesso termine, cioè quella di finalizzarlo ad una assunzione “incentivata” di lavoratori difficili da collocare.
Non meno rilevante era la seconda novità, introdotta dall’articolo 23 della legge n. 56/1987 nella linea di politica del diritto allora prevalente della c.d. gestione consensuale del mercato del lavoro, attuata tramite la c.d. contrattazione delegata, cioè una combinazione fra una normativa legislativa rigida ed una disciplina collettiva flessibile. Al suo comma 1, primo periodo, rilasciava ai «contratti collettivi stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» quella interpretata come una cambiale in bianco, circa l’individuazione di «ipotesi» ulteriori, oggettive o soggettive; ed al secondo periodo rimetteva ai «contratti collettivi» la determinazione del «numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato». Mentre, poi, al suo comma 2, introduceva un diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda per lavoratori che vi avessero prestato attività stagionale a tempo determinato, «con la medesima qualifica».
Il che non avrebbe impedito alla sentenza della Corte costituzionale n. 41/2000 di sottrarre la legge n. 230/1962 alla consultazione referendaria abrogativa, dando l’impressione di considerarla una qual sorta di ricezione anticipata della direttiva 1999/70/CE, secondo una tipica variante nazionale, diversa, ma complessivamente migliorativa. Tant’è che la legge, nel mentre rispettava di massima la clausola 4 sulla non discriminazione, con l’imporre la parità di trattamento rispetto al rapporto a tempo indeterminato, se pur sempre nel limite della compatibilità; più che compensava la mancata traduzione della clausola 5 della normativa comunitaria, circa la prevenzione degli abusi derivanti da una successione di contratti o rapporti a tempo determinato.
Dalla prospettiva comunitaria, la legge n. 230/1962, proprio perché si spingeva “a monte” a introdurre una disciplina hard dell’apposizione del termine, con l’imposizione di una “causale” tratta da una elencazione tassativa; ed, inoltre, con la previsione di una proroga, espletabile «col consenso del lavoratore, eccezionalmente, non più di una volta
e per un tempo non superiore al contratto iniziale» sempreché giustificata
«eccezionalmente […] da esigenze contingibili ed imprevedibili» e riferita «alla stessa attività lavorativa» (articolo 2, comma 1), si poteva, poi, limitare “a valle” a prevedere una disciplina soft dei rinnovi, con la fissazione di una distanza minima fra un contratto a termine e l’altro, di 15 ovvero 30 giorni in ragione di una durata inferiore o superiore ai 6 mesi e, comunque, la messa al bando delle «assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della presente legge» (articolo 2, comma 3).
1.3. Il decreto legislativo n. 368/2001 attuativo della direttiva 1999/70/CE: l’avvento del “causalone”
Ad un quarantennio di sostanziale stasi all’insegna di quella storica legge, avrebbe fatto seguito alla svolta del secolo un quasi quindicennio di iperattività parlamentare, con una deriva verso la elevazione del contratto a termine a misura elettiva di contrasto alla disoccupazione, se pur considerata e propagandata come propedeutica ad una uscita dalla precarietà. Deriva, questa, irregolare, ma costante a prescindere dall’alternarsi della maggioranza governativa; e destinata a confrontarsi più che con una convinta opposizione sindacale, con una resistenza inerziale della giurisprudenza.
Non doveva trascorrere molto tempo dalla sentenza della Corte costituzionale n. 41/2000, perché, a recepimento di un avviso sottoscritto solo dalla Cisl e dalla Uil, il secondo Governo Xxxxxxxxxx desse attuazione alla direttiva, emanando in forza della delega contenuta nella legge n. 422/2000, il decreto legislativo n. 368/2001. Il decreto innovava la disciplina hard dell’apposizione del termine, col sostituire all’elencazione tassativa delle “ragioni oggettive” una formula aperta in forza della quale «È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», da specificare per iscritto (articolo 1, commi 1 e 2), quindi dalle “causali” al “causalone”; peraltro con la contestuale aggiunta di esclusioni con riguardo a dati contratti di lavoro (temporaneo, di formazione e lavoro e di apprendistato: articolo 10, comma 1), nonché di preclusioni con rispetto a determinate situazioni (di scioperi, di licenziamenti collettivi avvenuti nei 6 mesi precedenti salvo le previste eccezioni o di sospensioni e riduzioni di orario con diritto all’integrazione salariale sempreché riferite alle stesse mansioni, di imprese prive della prevista valutazione dei rischi: articolo 3, comma 1).
Se non era esplicitamente detto che in assenza di tali “ragioni oggettive” il contratto dovesse considerarsi a tempo indeterminato, ciò era chiaramente deducibile dall’intero testo, tanto da divenire ius receptum da parte della dottrina e della giurisprudenza. E se non veniva previsto in generale un termine massimo di durata, lo si contemplava per la proroga che era praticabile come prima «con il consenso del lavoratore […] una sola volta e a condizione che […] si riferisca alla stessa attività lavorativa», ma ora «solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni», si ché con «esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del contratto a termine non potrà essere superiore ai tre anni». Qui, però, l’innovazione più significativa era data dalla condizione richiesta per la proroga, costituita non più «eccezionalmente […] da esigenze contingenti ed imprevedibili», ma, in piena coerenza con l’introduzione del “causalone”, da «ragioni oggettive» (articolo 4, comma 1).
La dottrina non avrebbe mancato di chiedersi se con il decreto legislativo n. 368/2001 non si fosse tolto al contratto a termine il suo carattere di eccezione rispetto a quello a tempo indeterminato, sì da entrare in contrasto con la disciplina o con la clausola di non regresso di quella stessa direttiva 1999/70/CE cui intendeva dare attuazione; e, a sua volta, la giurisprudenza non avrebbe esitato a far proprio un indirizzo restrittivo del “causalone”, così da richiederne la temporaneità se non addirittura l’eccezionalità ed imprevedibilità, col rischio ricorrente di sindacare le stesse valutazioni relative alla conduzione dell’impresa poste a monte della gestione della forza lavoro occupata.
Certo è che l’introduzione del “causalone” era destinato ad avere una ricaduta sulla “gestione consensuale del mercato del lavoro” fatta propria dalla normativa precedente: da una parte faceva venir meno l’esigenza di una flessibilizzazione contrattuale della elencazione tassativa delle “causali”; dall’altra, rafforzava l’opportunità di una predeterminazione convenzionale delle quote di contingentamento. Del che il decreto mostrava piena consapevolezza, perché abrogava sì per intero l’articolo 23 della legge
n. 56/1987 (articolo 11, comma 1), ma poi se lasciava cadere nel nulla il suo comma 1, primo periodo, riguardante l’introduzione ex contractu di “ragioni” ulteriori rispetto a quelle ex lege; ripescava il secondo periodo attinente alla «individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato […] affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi», peraltro escludendola per tutta una serie di ipotesi (nella fase di avvio di nuove attività, per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità, per l’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, per specifici spettacoli o programmi radiofonici e televisivi, per l’assunzione di lavoratori con più di 55 anni: articolo 10, comma 7; nonché, a certe condizioni, a fronte di difficoltà occupazionali per specifiche aree geografiche: articolo 10, comma 8).
Non solo, perché riprendeva, altresì, quel diritto di precedenza all’assunzione introdotto dall’articolo 23, comma 2, legge n. 56/1987, ma ora affidandone sempre «ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi la individuazione» (articolo 10, commi 9 e 10, decreto legislativo n. 368/2001).
Pur tuttavia l’introduzione di una de-regolazione secca delle causali non poteva certo dirsi compensata dalla conservazione di una de-regolazione controllata delle quote di contingentamento, sicché il risultato complessivo per la contrattazione collettiva non appariva certo a somma zero, anche a tener presente la rilevanza riconosciutale in attuazione della direttiva 1999/70/CE, con riguardo alla formazione e all’informazione (articoli 7 e 9, decreto legislativo n. 368/2001).
Quella che restava, invece, sostanzialmente immodificata era la precedente disciplina soft dei rinnovi, con il mantenimento dello stop and go e l’eliminazione dell’esplicita menzione dell’in fraudem legis, peraltro già consacrata in generale dall’articolo 1344
x.x. (xxxxxxxx 0, xxxxx 0, xxxxxxx legislativo n. 368/2001).
Tutto questo per il solo contratto a termine, perché a’ sensi del suo articolo 10, comma 1, lettera a, l’intero decreto legislativo n. 368/2001 non era applicabile in primis a «i contratti di lavoro temporaneo di cui alla legge 24 giugno 1997, n. 196 e successive modificazioni», cioè al contratto di prestazioni di lavoro temporaneo, così che il loro rispettivo regime restava ben distinto, senza intreccio alcuno.
1.4. Il decreto legislativo n. 276/2003: apertura sulla flessibilità in entrata e valorizzazione dell’apprendistato
Il decreto legislativo n. 276/2003 verrà a modificare radicalmente la scena di fondo, con l’invenzione di una ricca tipologia contrattuale caratterizzata dalla presenza di un termine, sì da avere un’evidente ricaduta sulla collocazione ed utilizzazione dello stesso contratto di lavoro a tempo determinato, senza peraltro modificarne la disciplina.
La finalità perseguita era certo quella destinata a tener banco per tutto il decennio seguente, cioè di riattivare una domanda di lavoro che si riteneva bloccata dalla rigidità di una normativa di assunzione, solo ammorbidita da quella sostituzione del “causalone” alle “causali” per l’apposizione del termine posta in essere dal decreto legislativo n. 368/2001; ma una finalità perseguita senza rimettere in discussione la primazia del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, col promuovere una flessibilità in entrata non spinta all’estremo, ma razionalizzata e governata, con una estensione della copertura protettiva, secondo una duplice linea di demarcazione.
La prima linea anzitutto era tracciata fra lavoro autonomo e subordinato, col sostituire il lavoro a progetto dotato di un suo statuto protettivo all’equivoco istituto delle collaborazioni coordinate e continuative; la seconda era tirata fra scopo occupazionale e formativo del lavoro subordinato: sull’un fronte, quello occupazionale, si intendeva ampliare e diversificare la famiglia del contratto di lavoro subordinato a termine, affiancando al tipo tradizionale regolato dal decreto legislativo n. 368/2001 un altro paio, contestualmente definito e regolato, cioè il contratto di somministrazione di lavoro a termine che, in virtù della garanzia assicurata dal somministratore, giustificava la maggior flessibilità offerta all’utilizzatore; ed il contratto di inserimento, che, in ragione dell’incentivazione normativa costituita da una assunzione senza “causali oggettive”, facilitava l’assunzione di categorie difficilmente collocabili sul mercato del lavoro; sull’altro fronte, quello formativo, si voleva rilanciare, il contratto di apprendistato, che, per quanto ricostruito allora dalla dottrina e dalla giurisprudenza come a tempo indeterminato, rimaneva caratterizzato dall’essere il periodo formativo a termine.
A proposito della disciplina del contratto di somministrazione di lavoro a termine c’è una soluzione di continuità rispetto al pregresso, perché bypassando l’articolo 10, comma 1, del decreto legislativo n. 368/2001, il decreto legislativo n. 276/2003 recuperava quella prevista per il contratto di lavoro a tempo determinato dallo stesso decreto legislativo n. 368/2001; ma rendendola più flessibile, visto che l’articolo 20, comma 4, primo capoverso, ammetteva tale contratto per le stesse «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo», ma con l’importante novità costituita dall’aggiunta «anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore»; per poi riprendere al secondo capoverso alla lettera l’attribuzione dell’«individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi […] ai contratti nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi». E, a sua volta, l’articolo 22, comma 2, prescriveva che il «rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368» ma solo
«per quanto compatibile», per poi subito dopo escludere comunque l’applicabilità del suo articolo 5, commi 3 ss., in tema di successione di contratti e regolare diversamente la proroga del termine iniziale, considerandola praticabile «in ogni caso […] con il
consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore».
Dall’altro lato, il contratto d’inserimento di cui allo stesso decreto legislativo n. 276/2003 riempiva il vuoto lasciato dal contratto di formazione e lavoro, coltivando un esclusivo scopo occupazionale, se pur coperto a’ sensi del suo articolo 54, comma 1, dall’obbligo di predisporre «un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo», poco consistente nel suo contenuto e poco incisivo nel suo apparato sanzionatorio. Scopo, questo, che intendeva realizzare nei confronti di soggetti “deboli”, cioè i giovani compresi tra i 18 e i 29 anni, i disoccupati di lunga durata dai 29 ai 32 anni, i lavoratori di più di 50 anni privi di un posto di lavoro, i lavoratori intenzionati a riprendere a lavorare dopo un fermo di almeno un paio d’anni, le donne residenti in aree geografiche con tassi minimali di occupazione e disoccupazione femminile, i soggetti affetti da gravi handicap fisici, mentali o psichici; ed intendeva farlo contando sull’incentivo normativo costituito dal poter assumere a termine senza bisogno di ricorrere alle “causali oggettive” costituite da «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo».
Così il contratto di inserimento liberava quello di lavoro a tempo determinato di cui al decreto legislativo n. 368/2001 della necessità di farsi carico di quelle “causali soggettive” rappresentate da tali soggetti “deboli”; ed al tempo stesso restituiva tutta intera all’apprendistato la sua finalità formativa. Non per nulla l’apprendistato veniva ridisegnato ed articolato dagli articoli 47 ss. secondo una triplice tipologia, ispirata e sorretta dall’ambizione di coprire tutta la potenziale domanda formativa esprimibile dai giovani fino ai 29 anni: per l’espletamento del diritto del diritto-dovere di istruzione e formazione; per il conseguimento di una qualificazione professionale; per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.
Il progetto sotteso al decreto legislativo n. 276/2003 risentiva di quello formulato nel Libro Bianco che aveva aperto il ritorno al Governo di Xxxxxxxxxx all’inizio del cambio di secolo, ma con un duplice limite: politico/sindacale il primo, quale dato dall’insuccesso del tentativo di sincronizzare flessibilità in entrata e in uscita, con una rivisitazione dell’articolo 18 Stat. lav.; finanziario il secondo, quale rappresentato dal mancato adempimento dell’impegno di accompagnare la maggiore flessibilità nel rapporto con una maggior sicurezza sul mercato del lavoro, secondo la formula conclamata della flexsecurity.
Solo che neppure nella sua finalità di una flessibilità in entrata razionalizzata e controllata era destinata a funzionare in forza della prevista doppia linea di demarcazione: non di quella tracciata fra lavoro autonomo e subordinato, per responsabilità prima della stessa giurisprudenza portata ad una interpretazione restrittiva al limite dell’inapplicabilità del lavoro a progetto; e neppure di quella tirata fra fine occupazionale e formativo nel lavoro subordinato, per responsabilità prima del Governo e delle Regioni, rivelatasi del tutto incapaci di far decollare l’ambiziosa riforma dell’apprendistato.
1.5. La tormentata storia del decreto legislativo n. 368/2001: la diversificazione tra settore privato e settore pubblico
Se l’inizio del nuovo secolo poteva alimentare l’idea di aver licenziato col decreto legislativo n. 368/2001 un regolamento del contratto a termine omogeneo e coerente, come tale destinato a durare, il decennio successivo avrebbe rivelato trattarsi di una mera illusione, tanto da fare proprio del contratto a termine il terreno prioritario dell’intervento legislativo e giurisprudenziale.
Il decreto legislativo n. 368/2001 riguardava sia il settore privato che il settore pubblico privatizzato, coerentemente al progetto coltivato nel decennio Novanta di un regolamento unitario dell’intero universo del lavoro subordinato quale offerto dal c.d. diritto comune, anche se ben presto il crescente collasso finanziario ed occupazionale avrebbe costretto a prendere atto del divario. Se un lavoro più flessibile all’ingresso poteva far crescere la domanda di lavoro, questo andava bene per il settore privato, ma non certo per il settore pubblico privatizzato: qui c’era il problema opposto di una esuberanza di personale, con in più l’estrema difficoltà di rendere stabile quello assunto come precario.
Il che spiega come quel divario si sia tradotto in un progressivo divaricamento del processo legislativo, attuatosi secondo un duplice modulo: da un lato, la legislazione relativa al mercato del lavoro ha limitato di massima la sua applicabilità al settore privato, sia esplicitamente come il decreto legislativo n. 276/2003 (articolo 1, comma 2, articolo 86, comma 8) e la legge n. 92/2012 (articolo 1, commi 7 e 8), sia implicitamente come il decreto-legge n. 34/2014, convertito dalla legge n. 78/2014; dall’altro lato, l’articolo 36, decreto legislativo n. 165/2001, sull’utilizzo di contratti di lavoro flessibile, ha introdotto una disciplina speciale, poi modificata, con alterne chiusure ed aperture, dall’articolo 4, comma 2, decreto-legge n. 4/2006, convertito dalla legge n. 80/2006, dall’articolo 3, comma 79, legge finanziaria n. 244/2007, dall’articolo 49, comma 1, decreto-legge n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, dall’articolo 17, comma 26, decreto-legge n. 78/2009, convertito dalla legge n. 102/2009, dall’articolo 4, comma 1, lettere a e a-bis, decreto-legge n. 101/2013, convertito dalla legge n. 125/2013.
Ciò, peraltro, non ha certo impedito l’esistenza di un precariato nel settore pubblico, con particolare riguardo a quello scolastico assurto a problema politico sindacale di estremo rilievo, con un corposo seguito giurisprudenziale che non ha mancato di coinvolgere le supreme corti italiane e comunitarie circa la sanzione applicabile in caso di abuso nella successione di contratti a termine, senza peraltro trovare a tutt’oggi una risposta univoca: limitabile alla sola liquidazione del danno o estendibile alla stessa conversione del rapporto, qui con una chiara rimessa in discussione non solo di una norma di legge ordinaria, quale l’articolo 36, comma 5, decreto legislativo n. 165/2001, ma di una disposizione costituzionale, quale l’articolo 97, comma 4, Cost.
1.6. L’evoluzione nel settore privato: la normativa “difensiva” per contenere interpretazioni giurisprudenziali considerate debordanti
Non meno accelerato si sarebbe rivelato il cammino del decreto legislativo n. 368/2001 con riguardo a quel settore privato rimasto il suo ambito applicativo del tutto privilegiato; e ciò per effetto di un crescente attivismo parlamentare che, sempre più dominato dal pensiero egemone del lavoro a termine come strumento occupazionale elettivo, si sarebbe mosso, se pur in modo discontinuo, su un duplice fronte: quello “difensivo”, episodico, diretto a correggere qualche filone giurisprudenziale portato a forzare il testo normativo di riferimento in senso restrittivo ribadendone o integrandone il senso; quello “offensivo”, costante se pur con un andamento oscillatorio, finalizzato a facilitare il ricorso al termine.
Quanto al primo fronte, quello “difensivo”, viene qui da menzionare la vicenda parallela ora testimoniata dall’articolo 2, decreto legislativo n. 368/2001, che al suo primo comma recupera la lettera f dell’articolo 1, comma 2, legge n. 230/1962, così come aggiunta successivamente dall’articolo unico della legge n. 84/1986; ed al suo comma 1-bis incorpora la integrazione di cui all’articolo 1, comma 558, legge n. 266/2005. Si trattava di far fronte ad un contenzioso sorto circa l’abuso del ricorso al contratto a termine per “punte stagionali” da parte di Alitalia e di Aeroporti di Roma e, rispettivamente, “oltre i tempi limite previsti” da parte di Poste italiane; e la soluzione è stata quella di legittimare per l’apposizione del termine “ragioni soggettive”, cioè date dalla particolare identità delle parti datoriali interessate, se pur con limitazioni circa la collocazione temporale o la durata, nonché la percentuale dell’organico ammessa.
Ben più significativa è stata la preoccupazione di ammortizzare la ricaduta negativa di una interpretazione giudiziale estremamente restrittiva circa l’interpretazione del “causalone”: sia in particolare con l’articolo 21, comma 1, decreto-legge n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, che ha aggiunto alla lista delle “ragioni” di cui all’articolo 1, comma 1, decreto legislativo n. 368/2001, la precisazione «anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro», riprendendola dalla formula dettata fin dall’inizio per la somministrazione a tempo determinato dall’articolo 20, comma 4, decreto legislativo n. 276/2003; sia in generale con l’articolo 30, comma 1, del c.d. collegato lavoro alla finanziaria 2010, legge n. 183/2010, che ha escluso l’estendibilità del giudizio sulle «clausole generali […] al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative, produttive che competono al datore di lavoro o al committente». E, per saltare all’ipotesi più recente, c’è da menzionare l’interpretazione autentica resa dall’articolo 1, comma 13, legge n. 92/2012, del tutto conforme a quella della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, circa la portata dell’espressione «indennità omnicomprensiva» di cui all’articolo 32, comma 5, legge n. 183/2010, occasione per qualche fuga in avanti da parte di una certa giurisprudenza.
Non si può parlare di una legislazione sempre risolutiva, dato che la tradizionale tendenza inerziale della giurisprudenza qui giustificata da una chiara propensione pro- labor, trovava e trova legittimazione nella presenza di una disciplina multilivello tale da permettere una notevole discrezionalità ermeneutica. Così, pure all’indomani del decreto-legge n. 112/2008, la giurisprudenza ha potuto continuare a boicottare il “causalone” non tanto in ragione di quella eccezionalità e transitorietà dell’esigenza aziendale, che l’articolo 1, comma 1, decreto legislativo 368/2001, come integrato
dall’articolo 21, decreto-legge n. 112/2008, sembrava aver messo al bando; quanto di quella specificazione precisa e dettagliata delle “ragioni” in funzione della loro immediata conoscibilità ed immodificabilità, che l’articolo 1, comma 2, decreto legislativo n. 368/2001, nel suo testo originario, sembrava imporre, xxxx’affermare che
«L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto, nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1». E, d’altronde, la pretesa di impedire alla giurisprudenza di utilizzare le clausole generali per espropriare la stessa libertà di impresa che l’articolo 30, comma 1, legge n. 183/2010, generalizza, riprendendola dall’articolo 27, comma 3, decreto legislativo n. 276/2003, suona come una vera e propria grida manzoniana, certo non destinata a essere rafforzata dall’integrazione aggiuntavi dall’articolo 1, comma 43, legge n. 92/2012, per cui l’eventuale trasgressione costituirebbe «motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto». Nelle dichiarazioni di principio la giurisprudenza si mostra di massima rispettosa di tale libertà; e se nelle decisioni lo è meno, le è facile far valere a giustificazione l’incertezza della linea di confine una volta calata dalla astrattezza dei concetti alla concretezza dei casi, sì che riesce difficile immaginare come un giudizio di fatto di fronte ad un giudice di merito possa trasformarsi in uno di diritto di fronte ad un giudice di legittimità.
1.7. La normativa “offensiva”: la legge n. 247/2007
Di certo, però, il fronte di maggior rilievo ed impatto è stato quello “offensivo”, finalizzato a facilitare il ricorso al contratto termine, che già si è detto aver avuto un andamento continuo, ma oscillatorio, a partire da quel decreto legislativo n. 368/2001 che già lo anticipava, poi conservato nel suo impianto e spirito originario per tutto il successivo decennio, se pur corretto e ricorretto da un ininterrotto flusso legislativo. Vien da dire, con tutta la approssimazione imposta dalla scarsa capacità di programmare e razionalizzare di un legislatore preso sistematicamente di contropiede, che proprio intorno al termine di quel decennio, la costante costituita da una de-regolamentazione del ricorso al contratto a termine abbia gradualmente cambiato veste: sia passata da una soft affidata alla contrattazione collettiva delegata ad una hard realizzata direttamente dalla legge.
Il tutto tenendo ben presente che quanto detto non può essere considerato e valutato di per sé solo, perché ricompreso in un programma di riforme assai più ampio quale costituito dall’intervento complessivo sul sistema previdenziale e sul mercato del lavoro volta a volta deciso dal Governo, dando vita ad un flusso legislativo tanto corposo quanto rinviato prevalentemente all’esercizio di deleghe e all’emissione di decreti ministeriali, quindi affidato ad un futuro incerto e nebuloso, con a suo carico un duplice cronico limite, attinente al reperimento a priori delle risorse e al controllo a posteriori dell’effetto prodotto.
Volendo ora procedere ad una ricognizione di massima, si può assumere a punto di partenza la legge n. 247/2007, contenente norme di attuazione del protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibile che, a testimonianza dell’ormai prossima fine di una intera stagione all’insegna del coinvolgimento delle parti sociali, rappresenta la penultima esperienza di legislazione contrattata, prima dell’ultima data dal decreto legislativo n. 167/2011, TU sull’apprendistato.
Nell’ambito di un testo a tutto campo che si estendeva da un intervento restrittivo sulla previdenza al varo di una serie di quattro deleghe in tema di ammortizzatori sociali, servizi per l’impiego e incentivi all’occupazione, apprendistato e formazione professionale, quel che qui rilevava era la finalità perseguita di «incrementare i livelli di occupazione stabile», come recitava il primo criterio direttivo per l’esercizio della delega in materia di incentivi all’occupazione (articolo 1, comma 32, lettera a, legge n. 247/2007), cui bene si accordava la ribadita relazione di regola/eccezione fra contratto a tempo indeterminato e determinato. Parlava in tal senso l’aggiunta all’articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001, di un comma 01, per cui «Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato», che trovava conferma con la contestuale novella dell’articolo 5 dello stesso decreto legislativo, con la previsione di due commi ulteriori: il comma 4-bis, primo periodo, che prevedeva il termine massimo complessivo dei 36 mesi per la successione di contratti a termine, per cui «Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono fra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato»; e i commi 4-quater e 4- quinquies, che ampliavano il diritto di precedenza dei lavoratori già occupati a termine presso la medesima azienda, inizialmente previsto dall’articolo 10, commi 9 e 10, del decreto legislativo n. 368/2001, contestualmente abrogati. E lo ampliava secondo una duplice ipotesi: generale, per cui il lavoratore che «nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi» vanta un diritto di precedenza per le successive assunzioni a tempo indeterminato con ad oggetto «le mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine» se effettuate entro 12 mesi dalla loro cessazione; particolare, per cui il lavoratore che sia stato «assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali» coltiva un diritto di precedenza per le successive assunzioni a tempo determinato «per le medesime attività stagionali» (articolo 1, commi 39 e 40, lettera b, legge n. 247/2007).
Non solo, perché, la elencazione delle ipotesi di esclusione della competenza affidata sempre «ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi» per l’individuazione delle quote di contingentamento dall’articolo 10, comma 7, decreto legislativo n. 368/2001, veniva prosciugata, con l’esclusione significativa dell’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno (articolo 1, comma 41, legge n. 247/2007).
Il lavorio a rappezzo su un testo pensato come un tutt’uno senza farsi carico di alcun coordinamento sistematico, segnerà tutto il futuro processo legislativo a cominciare proprio dal decreto legislativo n. 368/2001, per il ricorrente concorso fra l’urgenza di un intervento e la difficoltà di un aggiornamento complessivo, con a suo effetto inevitabile quello di ampliare l’area lasciata all’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, a scapito non solo della c.d. certezza del diritto ma della stessa finalità perseguita dal legislatore. Così la legge n. 247/2007 si lasciava alle spalle un decreto legislativo n. 368/2001, che, all’articolo 4, comma 1, in tema di disciplina della proroga, prevedeva che fosse «richiesta da ragioni oggettive» e si riferisse «alla stessa attività lavorativa», facendo sospettare la comune riconducibilità alle esigenze del datore; e che, all’articolo 5, comma 4-bis, in materia di regolamentazione della successione dei contratti a termine, prevedeva il termine massimo di 36 mesi per la successione di contratti a
termine, ma solo se relativi allo «svolgimento di mansioni equivalenti», facendo chiaramente intendere la esclusiva riferibilità alle incombenze del lavoratore.
Certo non mancava anche qualche significativa apertura al ricorso al contratto a termine, quale l’eccezione di cui al comma 4-bis, secondo periodo, per cui in deroga a quanto disposto dal primo periodo «un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta», ma solo «a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro […] e con l’assistenza di una rappresentante di una delle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale», previa determinazione da parte delle stesse organizzazioni «con avvisi comuni» della «durata del predetto ulteriore contratto», fermo restando che anche qui in
«caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato»; ma soprattutto l’esclusione sancita dal successivo 4-ter del regime previsto dal comma 4-bis, con un richiamo indifferenziato, ma certo riferibile soprattutto al suo primo periodo circa il limite massimo ivi previsto di 36 mesi per la successione di contratti a termine, «delle attività stagionali definite dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963/ n. 1525 […], nonché di quelle che saranno individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative» (articolo 1, comma 40, lettera b, legge n. 247/2007).
Comunque, alla vigilia della crisi finanziaria che avrebbe fatto da premessa a quella produttiva ed occupazionale a tutt’oggi perdurante, il contratto a termine non era ancora visto come la misura elettiva per far crescere la domanda di lavoro, che si era creduto di favorire con la messa a disposizione tramite il decreto legislativo n. 276/2003 di una ricca tipologia contrattuale c.d. atipica, dove spiccava dal punto di vista quantitativo il contratto di inserimento per le categorie deboli e da un punto di vista qualitativo l’apprendistato. Non per nulla la legge n. 247/2007, riecheggiava il contratto di inserimento, laddove prevedeva una convenzione di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative dei disabili; ma soprattutto contemplava una delega per il rilancio dell’apprendistato come strumento strategico per la formazione (articolo 1, commi 37 e 30 e 33, legge n. 247/2007).
1.8. Il decreto-legge n. 112/2008 convertito dalla legge n. 133/2008 e l’articolo 8 del decreto-legge n. 138/2011 convertito dalla legge n. 148/2011
La crisi, però, non avrebbe tardato a manifestarsi, sollecitando dal legislatore una ben diversa risposta, come ben testimonia il decreto-legge n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, che, sotto l’anodina intitolazione di disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, persegue un obbiettivo triennale di un tetto di indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e di rapporto fra debito pubblico ed un Pil destinato ad incrementarsi rivelatosi a dir poco illusorio.
Qui a tener banco è una politica di sviluppo economico e di stabilizzazione finanziaria, che trova una coda in una rivisitazione della disciplina del rapporto di lavoro, ridotta per il settore privato ma estesa per il settore pubblico privatizzato, dove costituisce una
corposa anticipazione della c.d. riforma Brunetta, quale data dalla legge delega n. 15/2009 e dal decreto legislativo n. 150/2009. Nell’economia del presente lavoro è sufficiente soffermarsi sull’articolo 21 di questa legge n. 133/2008, contenente modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, fermo restando il richiamo già effettuato al suo articolo 49, intervenuto a riscrivere l’articolo 36, decreto legislativo n. 165/2001, sul lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni.
Di tale articolo 21 s’è già avuto occasione di ricordare quanto fatto dal suo comma 1 sul fronte “difensivo” di contenimento di quell’indirizzo giurisprudenziale di sfavore al ricorso al contratto a termine consistente nel richiedere per le «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» di cui all’articolo 1, comma 1, decreto legislativo n. 368/2001, l’eccezionalità e la transitorietà, cioè di aggiungervi «anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro».
A prescindere dalla ricaduta teorica e pratica di una simile integrazione che sembra a posteriori essere stata troppo enfatizzata da una certa dottrina critica come se così si fosse realizzata una qual sorta di liberalizzazione spinta del ricorso al contratto a termine, resta l’apertura a quella linea di politica del diritto battezzata come “gestione consensuale del mercato del lavoro”, realizzata per via di una contrattazione delegata, cioè una combinazione fra una normativa legislativa rigida ed una disciplina collettiva flessibile. Così i commi 2 e 3 dell’articolo 21 integrano i commi 4-bis e 4-quater dell’articolo 5, decreto legislativo n. 368/2001: il primo, con riguardo alla previsione di un termine massimo complessivo di 36 mesi previsto per la successione di contratti a termine, aggiunge «fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale»; il secondo, con rispetto alla regolamentazione del diritto di precedenza per una successiva assunzione a tempo indeterminato ivi contemplato, inserisce «fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Il che si andava ad aggiungere a quanto previsto per la contrattazione collettiva dall’articolo 5, commi 4-bis, secondo periodo, 4-ter, 4-quater, e dall’articolo 10, comma 7, decreto legislativo n. 368/2001; si ché la stessa contrattazione continuava sì a non essere più formalmente delegata a individuare “ragioni” aggiuntive come previsto dal comma 1 dell’abrogato articolo 23, legge n. 56/1987, data l’avvenuta sostituzione del “causalone” alla precedente elencazione tassativa, ferma restando la discussione circa la rilevanza di una sua eventuale attività di specificazione dello stesso, ma le era riconosciuta un’ampia area di manovra: gestione del periodo massimo complessivo di 36 mesi previsto per la successione di contratti a termine, regolazione della durata di un contratto a termine ulteriore rispetto a quel periodo, regolamentazione di un diritto di precedenza per una successiva assunzione a tempo indeterminato, individuazione delle quote di contingentamento.
Solo che questa flessibilizzazione affidata alla contrattazione collettiva portava con sé la sua intrinseca debolezza istituzionale, implicita nella stessa individuazione delle organizzazioni sindacali e delle sedi negoziali competenti, ma soprattutto nella vincolatività e sanzionabilità della disciplina. Cosa, questa, rimasta irrisolta anche all’indomani di quell’articolo 8, decreto-legge n. 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011, che, almeno sulla carta, costituisce la massima apertura alla c.d. gestione consensuale del mercato del lavoro tramite una contrattazione delegata “rinforzata”: fornita di una capacità derogatoria rispetto alla legge praticamente illimitata, con
esplicita menzione dei «contratti a termine»; e dotata di una efficacia estesa all’intera forza lavoro occupata nell’azienda coinvolta.
Si può qui prescindere dalla correttezza costituzionale di questo articolo 8, prendendo atto che esiste una comune volontà delle parti sociali di non farvi ricorso, così come affermato nella postilla apposta a quell’accordo del giugno 2011, nel testo licenziato il 21 settembre 2011 con riguardo ad un regolamento del sistema sindacale così come ora tradotto nel Testo unico della rappresentanza sindacale 10 gennaio 2014, rimesso a quell’autogoverno delle stesse parti sociali, reso possibile dal ritrovato consenso fra le tre grandi confederazioni dei lavoratori.
Ma a prescindere dal dubbio sull’uso surrettizio che di questo benedetto articolo si faccia nella pratica quotidiana di base, a dispetto della pubblica sconfessione di vertice, resta che secondo l’interpretazione qui condivisa, l’individuazione delle parti legittimate è una qual sorta di assemblaggio spurio fra le «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale», autorizzate a
«concludere contratti collettivi di lavoro […] a livello aziendale o territoriale» contenenti «specifiche intese» derogatorie, e le «loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011», legittimate a dotare tali
«specifiche intese» di «efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali».
Ora non si riesce a capire quali siano le rappresentanze sindacali operanti in azienda che possano dirsi «loro» in quanto associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e territoriale, sia con riguardo alla «normativa di legge», già prima ma comunque certo dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013, sia con rispetto
«agli accordi interconfederali vigenti».
Ma questo è il frutto avvelenato di un indirizzo promozionale tradottosi nell’accordare un crescente spazio alla contrattazione delegata ben al di là della soluzione di continuità creata dalla abrogazione referendaria del 1995; sì da pensare di cavarsela con la mera sostituzione della formula convalidata dalla lettera a dell’articolo 19 Stat. lav. di
«associazioni aderenti a confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» con quella di «associazioni o organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, territoriale, aziendale», consacrata dal decreto legislativo n. 276/2003, senza prender atto che la abrogazione di quella formula statutaria rendeva ormai indifferibile una legge sindacale.
Per quanto lo Statuto non si interessasse del sistema contrattuale vigente, fondato sul reciproco riconoscimento delle parti sociali e articolato su un doppio livello secondo un raccordo soggettivo ed oggettivo; tuttavia il privilegio di costituire RSA accordato dalla lettera a dell’articolo 19 Stat. lav. in base alla rappresentatività “presunta” delle confederazioni di appartenenza, vi riusciva non solo compatibile, ma del tutto sintonico. Non così all’indomani dell’abrogazione referendaria del 1995, perché mentre lo Statuto continuava ad avere a referente quel sistema contrattuale sostanzialmente immodificato, così come “costituzionalizzato” un paio di anni prima dal protocollo del luglio 1993, il privilegio di costituire RSA ora attribuito dalla lettera b dell’articolo 19 in forza della rappresentatività “effettiva” delle associazioni firmatarie di contratti collettivi applicabili nell’unità produttiva, vi risultava se non incompatibile, certo a-sintonico, con un effetto destinato a rivelarsi appieno in un futuro non troppo lontano.
Xxxxxxx, a mo’ di provocazione, viene da chiedersi se l’articolo 8, decreto-legge n. 138/2011, non possa avere lo stesso destino dell’articolo 39, commi 2 ss., Cost., cioè, pur restando ignorato, di prevenire comunque che la contrattazione collettiva delegata possa essere fornita di una capacità derogatoria se non attuata secondo la procedura ivi prevista, con una portata generale prevalente su ogni altra norma di legge, data la stessa ampiezza della materia considerata. Adattandovi un verso famoso con un ben diverso destinatario, verrebbe da dire nec tecum, nec sine te.
1.9. La legislazione degli anni 2010-2012: la legge n. 183/2010 e il contratto a termine; la legge n. 191/2009 e il decreto legislativo n. 24/2012 attuativo della direttiva 2008/104/CE e la somministrazione di lavoro a termine; il TU n. 167/2011 e l’apprendistato
Intanto, però, era giunto al termine di un cammino durato ben 27 mesi dalla presentazione del relativo disegno di legge, il c.d. collegato lavoro 2010, cioè la legge n. 183/2010, con un contenuto enormemente dilatato rispetto a quello originario, comprensivo di una sorta di “riammissione in termini” per le deleghe già previste dalla legge n. 247/2007, a cominciare da quelle relative agli ammortizzatori sociali, ai servizi per l’impiego, agli incentivi, di un’ulteriore rivisitazione del sistema previdenziale nonché della disciplina del lavoro privato e dell’impiego pubblico.
Quel che qui interessa è l’azione di contrasto condotta nei confronti della penalizzazione del ricorso al contratto a termine, sia, come già anticipato, sul fronte “difensivo”, col contenimento del potere del giudice di utilizzare le clausole generali, fra cui le «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» per sindacare il merito delle
«valutazioni tecniche, organizzative, produttive che competono al datore di lavoro o al committente» (articolo 30, comma 1, legge n. 183/2010); sia, soprattutto, sul fronte “offensivo”, con l’applicazione del termine di «decadenza» di 60 giorni e di
«inefficacia» di 270 giorni di cui al novellato articolo 6, legge n. 604/1966, anche
«all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo» (articolo 32, comma 3, lettera d, legge
n. 183/2010), nonché con la limitazione del risarcimento del danno per cui «Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604» (articolo 32, comma 5, legge n. 183/2010).
Se ad essere oggetto di un continuo intervento a chiarimento e a rattoppo era stato il decreto legislativo n. 368/2001, non per questo il decreto legislativo n. 276/2003 era rimasto nel frattempo immodificato, con riguardo particolare a due istituti, destinati a condividere il terreno occupabile da un rapporto a termine. Si è visto come il decreto legislativo del 2003 abbia ricalcato per la somministrazione di lavoro a termine quanto previsto da quello del 2001 per il contratto a termine, a cominciare dalla previsione del “causalone”. Lo ha fatto con una normativa più flessibile, ben percepibile nella già
prevista riferibilità del “causalone” alla «ordinaria attività dell’utilizzatore» e nella apertura in materia di proroga, ma soprattutto nell’esclusione della disciplina sulla successione di contratti; per ciò stesso tale da rendere appetibile la somministrazione rispetto allo stesso contratto a termine.
E questo non senza trovare di lì a un quinquennio pieno supporto nel diverso indirizzo comunitario, non di sfavore ma di favore, come reso ben evidente dal confronto fa la direttiva 1999/70/CE sul contratto a termine e la direttiva 104/08/CE sulla somministrazione di lavoro.
Dopo la legge n. 247/2007 saranno la legge n. 191/2009 e il decreto legislativo n. 24/2012 emanato in attuazione di tale direttiva 104/08/CE, a modificare l’articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003, con l’aggiunta del comma 5-bis e, rispettivamente, dei commi 5-ter e 5-quater, che “liberalizzavano” il ricorso alla somministrazione di lavoro a termine. Il requisito del “causalone” previsto dal suo comma 4, primo periodo, non era più richiesto nelle ipotesi ivi previste di utilizzo di soggetti deboli sul mercato del lavoro: lavoratori in mobilità (comma 5-bis introdotto dall’articolo 2, comma 142, lettera b, legge n. 191/2009), percettori dell’indennità di disoccupazione non agricola da almeno 6 mesi, percettori comunque di ammortizzatori sociali da almeno 6 mesi, lavoratori definiti «svantaggiati» o «molto svantaggiati» a’ sensi del diritto comunitario (comma 5-ter introdotto dall’articolo 4, comma 1, lettera c, decreto legislativo n. 24/2012); nonché, «nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro» (comma 5-quater introdotto dall’articolo 4, comma 1, lettera c, decreto legislativo n. 24/2012).
Riaffiorava qui, nei nuovi commi 5-bis e 5-ter, quell’utilizzazione del termine già anticipata per la stessa somministrazione di lavoro dall’articolo 13, decreto legislativo n. 276/2003, cioè per facilitare l’occupazione di lavoratori difficilmente collocabili.
Ma, soprattutto, nel nuovo comma 5-quater c’era un’apertura piena alla contrattazione collettiva sulla disponibilità del “causalone”, che per il contratto a termine sarebbe stata realizzata solo dall’articolo 7, comma 1, lettera a, legge n. 99/2013, con la riscrittura di quell’articolo 1, comma 1-bis, decreto legislativo n. 368/2001, introdotto dalla legge n. 92/2012.
Tutto questo sempre nella totale ignoranza di quell’articolo 8, legge n. 148/2011, che, nell’ampia lista della normativa derogabile con efficacia estesa all’intera forza lavoro occupata nell’azienda coinvolta, contemplava anche i «casi di ricorso alla somministrazione di lavoro».
Solo che a ben guardare l’aggiunta dell’articolo 20, comma 5-quater, vanificava la stessa ratio dell’introduzione del “causalone” effettuata dall’articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001, per il contratto a termine e ripresa dall’articolo 20, comma 4, decreto legislativo n. 276/2003, per la somministrazione. Il “causalone” intendeva riassumere in sé tutte le “ragioni oggettive”, secondo una valutazione affidata alle parti, controllabile in via giudiziaria, con la limitazione successivamente esplicitata ex lege dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali; sicché risultava logicamente e praticamente incompatibile con la conservazione a capo della contrattazione collettiva di quella delega, di cui all’articolo 23, comma 2, della legge n. 56/1987, a introdurre ulteriori ipotesi rispetto a quelle tassativamente indicate dall’articolo 1, legge n. 230/1962. E non per nulla l’articolo 11, comma 1, decreto legislativo n. 368/2001, abroga contestualmente alla legge del 1962 anche il detto articolo 23.
Peraltro il decreto legislativo n. 276/2003 era già stato interessato da un aggiornamento effettuato da un testo non meno significativo e rilevante quale costituito dal decreto legislativo n. 167/2011, testo unico sull’apprendistato, frutto tardivo della delega di cui all’articolo 1, comma 30, legge n. 247/2007, considerabile a ragione l’ultimo esempio di legislazione contrattata. Secondo quello che può considerarsi il sintomo più evidente del crescente ridimensionamento effettivo del ruolo assegnato al contratto a tempo indeterminato, cioè di ribadirne a piè sospinto un primato poi smentito dall’effettivo intervento legislativo, qui l’articolo 1, comma 1, affermava decisamente e recisamente che «L’apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato», certo riprendendo quanto già ampiamente dedotto dalla decisione della Corte costituzionale n. 169/1973 che aveva esteso agli apprendisti il regime dettato dalla legge n. 604/1966 per il licenziamento individuale, ma consacrando così un dato smentito dal tipo e dal regime dell’apprendistato: circa il tipo, perché in quanto nato come contratto a causa mista, di una prestazione lavorativa contro non solo retribuzione, ma formazione, non si vede come, una volta esaurita la fase formativa dalla durata predeterminata, possa rinascere come contratto a causa semplice, prestazione lavorativa contro retribuzione; circa il regime, perché una volta esaurita tale fase formativa resta intatta la facoltà datoriale di licenziare l’apprendista senza dare alcuna giustificazione, anche se, a tutto rigor di logica, la dovrebbe esercitare nella sola giornata utile, cioè quella coincidente con la scadenza della durata stessa (articolo 2, comma 2, lettera m, TU n. 167/2011).
D’altronde l’articolo 4, comma 5, TU n. 167/2011, introduceva una esplicita eccezione per cui per «i datori di lavoro che svolgono la propria attività in cicli stagionali i contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di svolgimento del contratto di apprendistato anche a tempo determinato».
Comunque, ad interessare qui è una duplice peculiarità. La prima era figlia di una qual sorta di confessione di impotenza operativa da parte delle Regioni, con una apertura alla contrattazione collettiva delegata portata alla sua frontiera estrema, perché investita di competenza non a supplire, integrare, derogare ad una qualche disciplina legislativa, ma addirittura a fornire la stessa regolamentazione generale dell’apprendistato, rimessa «ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale», se pur nell’osservanza di principi e criteri predeterminati dalla legge stessa (articolo 2, comma 1, TU).
La seconda peculiarità era conseguente alla prima, ammessa in quello stesso articolo 1, comma 1, che, dopo aver celebrato l’apprendistato come «contratto di lavoro a tempo indeterminato», lo considerava «finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani», con una accoppiata che evidenziava la deriva dalla finalità formativa a quella occupazionale. Xxxxxx, questa, che sembrava figlia di una spregiudicata presa d’atto del fallimento dell’ambiziosa scommessa di una formazione a copertura generale contenuta nel decreto legislativo n. 276/2003, ripresa qui nella sua classica trilogia debitamente ribattezzata come apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, apprendistato professionalizzante, apprendistato di alta formazione e ricerca; assai prima e più che di una consapevole scelta di politica del lavoro.
A conferma risultava la nuova disciplina dell’apprendistato professionalizzante, di gran lunga il più frequentato e praticato, che, nella formale osservanza della giurisprudenza costituzionale in materia, assegnava alla contrattazione collettiva la regolamentazione
della «formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale» e riservava alle Regioni «l’offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali» (articolo 4, commi 2 e 3, TU). Ma questa offerta regionale veniva ridotta dal precedente monte minimo di 120 ore annuali, previsto dall’articolo 49, comma 5, decreto legislativo n. 276/2003, ad un monte massimo di 120 ore nel triennio (articolo 4, comma 3, TU); e per di più veniva considerata praticabile «nei limiti delle risorse annualmente disponibili» (articolo 4, comma 3, TU), con la disposizione scritta come transitoria, ma tale da valere come definitiva, per cui l’«assenza dell’offerta formativa pubblica di cui all’art. 4, co. 3» non condizionava l’applicazione della disciplina collettiva, sì da poter procedere prescindendo dalla formazione teorica e contando solo su quella pratica (articolo 7, comma 7, TU).
Così era la formazione on the job ad acquisire una valenza se non esclusiva, certo di gran lunga prevalente, in piena conformità alla prassi, tanto da rendere rilevante il rapporto fra apprendisti e specializzati/qualificati, che l’articolo 2, comma 3, decreto legislativo n. 167/2011, fissava nel 100%, sì da aversi un apprendista per ogni specializzato/qualificato.
Solo che in una prospettiva genuinamente formativa che avesse inteso far acquisire una qualificazione professionale non utilizzabile nella singola azienda, ma spendibile su un mercato di lavoro in trasformazione, come tale destinata a trovare la sua più piena ed efficace realizzazione in una alternanza scuola/lavoro, avrebbe dovuto essere proprio l’offerta formativa pubblica ad essere valorizzata.
1.10. La legge n. 92/2012, c.d. legge Fornero: la stretta sulla flessibilità in entrata in cambio dell’apertura su quella in uscita
L’eredità più significativa e rilevante della prof.ssa Xxxxxxx, ministra del lavoro del Governo Xxxxx, elevato alla porpora di senatore di diritto come presidente del Consiglio in pectore dal Presidente della Repubblica, resterà a ragione la riforma pensionistica di cui al decreto-legge n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011, con l’eliminazione della pensione di anzianità e l’elevazione dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia; ma quella più chiacchierata e criticata risulterà invece la riforma del mercato del lavoro di cui alla legge n. 92/2012. Se la si confronta con l’altra che l’ha preceduta poco meno di un decennio prima, cioè quel decreto legislativo n. 276/2003, passato alla storia col nome di un altro professore, Xxxxx Xxxxx cui l’avverso destino riservò di esserne l’ispiratore ma non l’autore, si vede come la sua versione definitiva sembra ovviare ad una duplice carenza circa quella flessibilità del rapporto auspicata a gran voce dalla nomenclatura comunitaria: la realizza in entrata ed in uscita e l’accompagna da una sicurezza perlomeno in itinere sul mercato del lavoro, resa ancora più necessaria proprio dalla precedente riforma previdenziale.
Ora non si intende ritornare sulla apertura alla flessibilità in uscita realizzata dalla legge Fornero con quella sua tormentata riscrittura dell’articolo 18 Stat. lav., se non per rammentare come fosse considerata una qual sorta di contropartita alla stretta sulla flessibilità in entrata, sì da condizionarsi reciprocamente nella faticosa gestazione
ministeriale e parlamentare. Si vuole solo sottolineare, con riguardo alla flessibilità in entrata come alla fine non solo non si rimettesse in discussione in premessa la primazia del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; ma addirittura la si enfatizzasse esplicitamente, con l’articolo 1, comma 1, lettera a, che si faceva carico di favorire «l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili […] ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro», riecheggiando al rialzo l’articolo 1, comma 01, del decreto legislativo n. 368/2001, aggiuntovi un quinquennio prima dall’articolo 1, comma 39, legge n. 247/2007.
Recuperando qui l’approccio sopra adottato per il decreto legislativo n. 276/2003, c’è da osservare come con riguardo al rapporto fra lavoro subordinato ed autonomo, il risultato sembrava a sfavore di quello autonomo, sospettabile, come continuava ad essere, di un uso fraudolento: per il lavoro a progetto era recepita quasi alla lettera la rigida interpretazione fattane dalla giurisprudenza; mentre per le partite IVA e per le associazioni in partecipazione era adottata una disciplina diretta a disincentivarne l’utilizzazione. Mentre con rispetto al rapporto fra scopo occupazionale e formativo del lavoro subordinato, il bilancio appariva ambivalente, fra soppressione secca del contratto d’inserimento e rivisitazione dell’apprendistato.
Da un lato, unico effetto dell’auspicato lavoro di sfoltimento di uno strumentario contrattuale calcolato nell’immaginario popolare nell’ordine di 45-50 tipi e sottotipi, l’articolo 1, comma 14, della legge abrogava il contratto d’inserimento previsto dal decreto legislativo n. 276/2003, che, come visto, coltivava un esclusivo scopo occupazionale, se pur occultato sotto l’obbligo di predisporre «un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo». Peraltro, non senza lasciare un vuoto nel collocamento delle categorie difficilmente occupabili previstavi, non certo compensato dal nuovo regime di incentivi all’assunzione con contratto a tempo determinato anche in somministrazione previsto dall’articolo 4, commi 8 e 11, legge n. 92/2012, solo per i lavoratori di età non inferiore ai 50 anni disoccupati da oltre 12 mesi e per le donne di qualsiasi età disoccupate da almeno 6 mesi e residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti dei fondi strutturali comunitari o disoccupate da almeno 24 mesi ovunque residenti.
Dall’altro lato, la esplicita e solenne proclamazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b, di valorizzare «l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro», risultava non solo una patetica forzatura rispetto alla cruda realtà di una rilevanza assoluta e percentuale ben prossima all’irrilevanza dell’apprendistato in termini di stock e di flusso; ma rimaneva priva di qualsiasi riscontro coerente ed effettivo. Anzitutto nel continuum dell’articolo 1, comma 1, le lettere a e b, il primo contratto a tempo indeterminato assunto a «forma comune di rapporto di lavoro» avrebbe dovuto essere di regola preceduto dall’apprendistato configurato «come modalità di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro»; ma, essendo già lo stesso apprendistato a’ sensi dall’articolo 1, comma 1, decreto legislativo n. 167/2011, «un contratto di lavoro a tempo indeterminato», peraltro recedibile ad nutum allo scadere del periodo formativo, tutto restava affidato all’eventuale ulteriore prosecuzione del rapporto.
Del che il legislatore mostrava di essere pienamente avvertito, tanto da aggiungere con l’articolo 1, comma 16, lettera d, legge n. 92/2012, un comma 3-bis all’articolo 2, comma 1, lettera i, decreto legislativo n. 167/2011, in forza del quale «L’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del
periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro […]. Gli apprendisti assunti in violazione dei limiti […] sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato, al di fuori delle previsioni del presente decreto, sin dalla data di costituzione del rapporto», sempreché a’ sensi del successivo comma 3-ter non si trattasse di datori di lavoro con meno di dieci dipendenti.
Ma, a prescindere dal riemergere della difficoltà di conciliare questa percentuale del 50%, ridimensionata al 30% dal successivo articolo 1, comma 19, della stessa legge n. 92/2012 per il triennio successivo all’entrata in vigore della legge, con una contrattazione collettiva già espressasi con la individuazione di una percentuale inferiore o superiore, essa restava di per sé sola misura di ben scarsa efficacia rispetto alla pretesa di fare dell’apprendistato una qual sorta di anticamera del primo contratto a tempo indeterminato.
C’era una sostanziale continuità rispetto a quella deriva occupazionale dell’istituto già sottolineata a proposito del decreto legislativo n. 167/2011 a partire dalla definizione offertane dal suo articolo 1, comma 1, come «contratto […] finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani». Così l’articolo 1, comma 16, lettera c, legge n. 92/2012, nel modificare l’articolo 2, comma 1, decreto legislativo n. 167/2011, vi aggiungeva una lettera a-bis), con cui delegava la contrattazione collettiva a prevedere «una durata minima del contratto non inferiore a sei mesi», al fine di assicurare un tempo almeno sulla carta sufficiente a dare una qualche formazione; ma vi sostituiva, altresì, il comma 3, riducendo il rapporto fra apprendisti e specializzati/qualificati a 3 a 2, sì da aversi tre apprendisti per ogni due specializzati/qualificati, per, poi, lasciarlo al 100% per i datori con meno di dieci dipendenti. E, a sua volta, l’articolo 1, comma 19, della stessa legge
n. 92/2012, riduceva per un periodo di 36 mesi decorrente dall’entrata in vigore della legge la percentuale di conversione dei contratti di apprendistato di cui all’articolo 2, comma 3-bis, del decreto legislativo n. 167/2011 dal 50 al 30%.
D’altronde nella stessa direzione sembrava doversi leggere la conferma della risalente tendenza a conformare la disciplina dell’apprendista a quella del lavoratore subordinato, quale data dalla possibilità di assumerlo «direttamente o indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro», a’ sensi dell’articolo 2, comma 3, decreto legislativo n. 167/2011; nonché di ammetterlo una volta disoccupato all’Aspi, a’ sensi dell’articolo 2, comma 2, legge n. 92/2012.
1.11. Segue: la riconferma del “causalone”… con una eccezione, ma con una disciplina restrittiva del contratto a termine
A ben guardare la rivisitazione della flessibilità in entrata perseguita dalla legge n. 92/2012 finiva per avere a suo destinatario privilegiato proprio quel contratto a tempo determinato, che a’ sensi del suo articolo 1, comma 1, si vedeva riconfermato come “eccezione” rispetto alla “regola” costituita dal contratto a tempo indeterminato. E, a dire il vero, a prescindere dalla già vista interpretazione autentica peraltro ormai scontata resa dall’articolo 1, comma 00, xxxxx xx xxxxxxx dell’espressione «indennità omnicomprensiva» di cui all’articolo 32, comma 5, legge n. 183/2010, la novella apportata al decreto legislativo n. 368/2001 appariva restrittiva: la proroga di fatto dopo
la scadenza del termine di cui all’articolo 5, comma 2, era portata sì da 20 e 30 giorni a 30 e 50, a seconda della durata, inferiore o superiore ai 6 mesi, con l’aggiunta di un comma 2-bis, contenente l’obbligo contestuale di comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente entro la scadenza del termine inizialmente fissato il se ed il quanto della prosecuzione del rapporto (articolo 1, comma 9, lettere e ed f, legge n. 92/2012); la distanza temporale richiesta nella successione di contratti a termine fra gli stessi soggetti e per mansioni equivalenti di cui all’articolo 5, comma 3, veniva ampliata da 10 e 20 giorni a 60 e 90, con la contestuale facoltà riconosciuta ai contratti collettivi di cui al precedente comma 1-bis di «prevedere stabilendone le condizioni, la riduzione dei predetti periodi, rispettivamente, fino a venti giorni e trenta giorni nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato: dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente», salva la supplenza ministeriale in caso di perdurante assenza di una disciplina collettiva (articolo 1, comma 9, lettere g ed h, legge
n. 92/2012); la durata massima di 36 mesi per la successione di contratti a termine di cui all’articolo 5, comma 4-bis, veniva considerata comprensiva degli eventuali «periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti tra i medesimi soggetti», svolti in forza di contratti di somministrazione di lavoro a termine (articolo 1, comma 9, lettera i, legge n. 92/2012); la sostituzione dell’articolo 32, comma 3, lettera a, legge n. 183/2010, con l’estensione del termine di «decadenza» dell’azione di «nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 268» da 60 a 120 giorni, se pur con la contestuale riduzione del termine di «inefficacia» di cui all’articolo 6, comma 2, legge n. 604/1966, così come novellato dall’articolo 1, comma 38, legge n. 92/2012, da 270 a 180 giorni (articolo 1, comma 11, lettera a, legge n. 92/2012).
Né mancava una politica di disincentivazione finanziaria dell’utilizzo di «rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato», in base alla previsione di «un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4 per cento della retribuzione imponibile a fini previdenziali» (articolo 2, comma 28, legge n. 92/2012); nonché del ricorso all’«interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni», in forza dell’imposizione a carico del datore di «una somma pari al 50 per cento del trattamento mensile iniziale di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni» (articolo 2, comma 31, legge n. 92/2012).
C’era però una novità che di per sé poteva anche sembrare di una rilevanza limitata, contenuta com’era nella durata, e accompagnata da un’apertura “controllata” da parte della contrattazione collettiva, ma che come tale già incorporava un potenziale di rottura, destinato a rivelarsi in tutta la sua portata di lì ad un paio d’anni.
All’articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001, veniva aggiunto un comma 1-bis che permetteva l’apposizione del termine anche in assenza del “causalone” previsto dal precedente comma 1, così accreditando un contratto a termine “acausale” (articolo 1, comma 9, lettera b, che a’ sensi del successivo articolo 4, comma 2-bis, non era passibile di proroga (articolo 1, comma 9, lettera d, legge n. 92/2012). Il che valeva in una duplice ipotesi: in generale, in quella disciplinata direttamente dalla legge alla lettera a del comma 1-bis, «del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore
per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato» (articolo 1, comma 9, lettera b, primo periodo, legge n. 92/2012); in particolare, in quella ulteriore rinviata dalla lettera b dello stesso comma 1-bis ai «contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale […] in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati», con riguardo ai «casi in cui l’assunzione a tempo determinato o la missione nell’ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all’articolo 5, comma 3», già riportate sopra, peraltro «nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva» (articolo 1, comma 9, lettera b, secondo periodo, legge n. 92/2012).
Certo il legislatore appariva consapevole del rapporto concorrenziale esistente sul mercato del lavoro fra contratto a termine e contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, che finiva per affrontare con un approccio caratterizzato da un certo tasso di ambiguità, condizionato dal ben diverso regime comunitario, come risultante dal confronto fra le due direttive 1999/70/CE e, rispettivamente, 2008/104/CE.
Sullo sfondo c’era quanto già fatto con la legge n. 191/2009 e col decreto legislativo n. 24/2012, in attuazione della direttiva 2008/104/CE, con particolare riguardo alle già viste modifiche introdotte all’articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003, cioè l’aggiunta dei commi 5-bis e, rispettivamente, 5-ter e 5-quater. Ed intervenendo a ridosso del decreto legislativo n. 24/2012, il legislatore, da un lato, per evitare che il contratto di somministrazione servisse ad eludere la durata massima complessiva di 36 mesi per la successione di più contratti a termine, prevedeva che fosse comprensiva anche di eventuali missioni; e per escludere che fosse utilizzato per una competizione sui costi, introduceva il contributo addizionale dell’1,4% per tutti i «rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Dall’altro lato, per favorire lo stesso contratto di somministrazione, non solo vi estendeva quanto previsto dal nuovo articolo 1, comma 1-bis, con un esplicito richiamo inserito nell’articolo 20, comma 4, decreto legislativo n. 276/2003 (articolo 1, comma 10, lettera b, legge n. 92/2012); ma continuava a non applicare la durata massima complessiva dei 36 mesi per la successione di più missioni e riduceva l’aliquota contributiva dovuta dai soggetti autorizzati alla somministrazione ai neo-istituiti fondi bilaterali dal 4% al 2,6% (articolo 2, comma 39, legge n. 92/2012), peraltro, poi, riportata alla percentuale originaria dall’articolo 1, comma 136, legge n. 147/2013.
1.12. La legge n. 99/2013: la correzione della disciplina restrittiva del contratto a termine
Consolidando un’apprezzabile tendenza legislativa, la legge n. 92/2012 prevedeva al suo articolo 1, comma 4, «il monitoraggio e la valutazione indipendenti della riforma», che, d’altronde, per la sua stessa dimensione e rilevanza doveva presumersi figlia di un’attenta ricognizione della situazione attuale e dell’evoluzione potenziale del mercato del lavoro, come tale dotata di una certa capacità di resistenza. Niente di tutto questo: ecco di lì a poco più di un anno scaturire dal cappello del Governo Xxxxx il c.d.
pacchetto lavoro, cioè quel decreto-legge n. 76/2013, convertito dalla legge n. 99/2013, che fin dalla sua rubrica, Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti, testimonia della duplice stretta della crisi occupazionale e finanziaria, peraltro affrontata con un assemblaggio di misure eterogenee.
A prescindere dalla utilizzazione dell’espressione di «Primi interventi urgenti», che sembra far supporre la novità della problematica da affrontare in maniera più sistematica in una fase successiva, certo il Pacchetto lavoro rivelava una attenzione tutta particolare alla crescente inattività e disoccupazione giovanile, ormai su percentuali tali da escludere intere generazioni dal mercato del lavoro.
Da un lato per «promuovere forme di occupazione stabile di giovani fino a 29 anni di età», veniva prevista una riduzione del costo del lavoro per i giovani fra i 18 e i 29 anni nell’ipotesi di nuove assunzioni a tempo indeterminato, comportanti un incremento occupazionale netto; nonché nelle ipotesi di trasformazioni di precedenti contratti a termine, peraltro seguite da una ulteriore assunzione di un lavoratore con contratto di lavoro dipendente (articolo 1, legge n. 99/2013). Dall’altro veniva costituita presso il Ministero del lavoro «una apposita struttura», con la missione di «dare tempestiva ed efficace attuazione, a decorrere dal 1 gennaio 2014 alla cosiddetta “Garanzia per i Giovani” (Youth Guarantee)», lanciata e patrocinata dalla UE; missione, questa, cui veniva aggiunta ad abundantiam l’altra affatto eterogenea «di promuovere la ricollocazione dei lavoratori beneficiari di interventi di integrazione salariale relativi, in particolare, al sistema degli ammortizzatori sociali cosiddetti “in deroga”» (articolo 5, comma 1, legge n. 99/2013).
Qui, però, interessa sottolineare la continuità/discontinuità rispetto alla legge n. 92/2012. C’era continuità con rispetto a quella deriva occupazionale dell’apprendistato anticipata dal decreto legislativo n. 167/2011 e ripresa dalla stessa legge n. 92/2012, con la finalità di restituirgli «il ruolo di modalità tipica di entrata nel mercato del lavoro»: la prevista adozione di linee guida da parte della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome, volte a disciplinare il contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere, poteva derogare il decreto legislativo n. 167/2011, con particolare riguardo al ridimensionamento del piano formativo individuale, così destinato a rimanere «obbligatorio esclusivamente in relazione alla formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche» (articolo 2, comma 2, legge n. 99/2013).
Ma c’era, altresì, discontinuità, affidata all’articolo 7 della stessa legge n. 99/2013, con a sua rubrica Modifiche alla legge 28 giugno 2012, n. 92, politicamente significativa ma tecnicamente approssimativa, perché novellava i decreti legislativi n. 368/2001 e n. 276/2003 anche laddove non toccati dalla legge precedente. Vi si giocava una partita che poteva ben essere considerata una qual sorta di contro-partita se pur contenuta, perché interveniva ad allentare la precedente stretta sulla flessibilità in entrata, a cominciare proprio da quel lavoro autonomo rispetto a cui il calo del contributo dato sul fronte occupazionale emerso all’indomani della legge Fornero, concorreva a toglier credito al sospetto di un suo uso fraudolento a danno del lavoro subordinato, cioè dal lavoro a progetto, dalle partite IVA, dalle associazioni in partecipazione.
La qual cosa risultava particolarmente evidente proprio con riguardo al contratto a termine, dove a tener banco era la deregolazione affidata alla contrattazione collettiva, con una qual sorta di revival rispetto alla stagione precedente il decreto legislativo n.
368/2001. Al suo articolo 1, il comma 1-bis veniva sostituito: il “causalone” di cui al comma 1, che non veniva richiesto, per la lettera a nell’ipotesi «del primo rapporto a tempo determinato», conservata identica con la sola aggiunta che la «durata non superiore a dodici mesi» era «comprensiva dell’eventuale proroga», ora permessa; e, per la lettera b, «in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (articolo 7, comma 1, lettera a, legge n. 99/2013).
Certo la delega alla contrattazione collettiva sussisteva anche prima, ma risulta di tutta evidenza la differenza quantitativa e qualitativa fra la “vecchia” e la “nuova” lettera b dell’articolo, comma 1-bis: là la dispensa dal requisito del “causalone” era condizionata dal dover essere prevista nell’ambito di un processo organizzativo determinato da ragioni debitamente elencate e limitata dal dover riguardare non più del 6% della forza lavoro occupata; qui suonava del tutto incondizionata ed illimitata.
C’era, altresì, la presa d’atto di un evidente eccesso di regolamentazione effettuato dalla legge n. 92/2012. Eccesso, questo, rivelatosi privo di senso, come l’aver preteso tramite un comma 2-bis aggiunto dalla legge n. 92/2012 all’articolo 5, decreto legislativo n. 368/2001, che, per godere della c.d. proroga di fatto prevista dal comma 2, il datore di lavoro avesse l’obbligo di comunicare al Centro dell’impiego territorialmente competente prima della scadenza del termine inizialmente fissato il se ed il quanto della prosecuzione del rapporto, così da vanificare completamente una disposizione dettata per ovviare ad una dimenticanza scusabile, trasformandola in una programmazione consapevole: quel comma 2-bis verrà abrogato, eliminando l’obbligo (articolo 7, comma 1, lettera c, legge n. 99/2013).
Xxxxxx rivelatosi addirittura controproducente, come l’aver aumentato la distanza temporale richiesta nella successione di contratti a termine fra gli stessi soggetti e per mansioni equivalenti di cui all’articolo 5, comma 3, decreto legislativo n. 368/2001, dai precedenti 10 e 20 giorni a 60 e 90 giorni, così da ostacolare quella forma di “stabilità della precarietà” costituita dall’assicurare allo stesso lavoratore una certa continuità occupazionale se pure a singhiozzo: quel comma 3 verrà cambiato, riportando la distanza a 10 e 20 giorni (articolo 7, comma 1, lettera c, legge n. 99/2013).
Nel cambiare questo comma 3 dell’articolo 5, decreto legislativo n. 368/2001, ci si farà carico di adeguare il rinvio alla contrattazione collettiva sulla nuova formula assai più ampia introdotta con la “nuova” lettera b dell’articolo 1, comma 1-bis, dello stesso decreto. Sicché suonerà non più nel senso ristretto che «i contratti collettivi […] possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione dei predetti periodi […] nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato», salvo la supplenza ministeriale in caso di perdurante carenza di una disciplina collettiva (articolo 1, comma 9, lettera h, legge n. 92/2012); ma nel senso amplissimo per cui le disposizioni di cui allo stesso comma 3 «non trovano applicazione […] nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (articolo 7, comma 1, lettera c, legge n. 99/2013). Con un effetto trascinamento automatico, l’intervento liberalizzante il ricorso al contratto a termine con riguardo al primo rapporto acausale veniva esteso anche alla prima missione del contratto di somministrazione di lavoro a termine in forza dello stesso testo dell’articolo 1, comma 1-bis, al riguardo rimasto invariato (v. anche l’articolo 20, comma 4, decreto legislativo n. 276/2003, modificato dall’articolo 1,
comma 10, lettera b, legge n. 92/2012; e già, prima, il comma 5-quater, aggiunto dall’articolo 4, comma 1, lettera c, decreto legislativo n. 24/2012).
2. L’“anticipo” corrisposto nel presente
2.1. Dal decreto-legge n. 34/2014 alla legge n. 78/2014
Se è pur possibile rintracciare nella legislazione precedente più di una anticipazione di quella inaugurata dal Governo Xxxxx con il decreto-legge n. 34/2014, certo la soluzione di continuità è radicale, tanto da poter far parlare di una svolta “storica” destinata a mutare la filosofia e la fisionomia del nostro diritto del lavoro. Una svolta, questa, da collocare nell’ambito di una generale rifondazione dell’assetto istituzionale e normativo del nostro Paese, dal testo costituzionale all’intero corpo normativo, che sembrava rispondere ad una tattica prevalentemente elettorale, riferita prima al Pd e poi al corpo elettorale; ma che risulta ormai ispirata ad una strategia di modernizzazione, di cui appare assai più chiara la rottura rispetto al passato che la ricaduta sul futuro.
E qui la rottura è anzitutto con il sindacalismo confederale, custode di un diritto del lavoro considerato anacronistico, sì da escluderlo non solo da qualsiasi concertazione anche solo informale sulla politica economico-finanziaria; ma anche da una previa consultazione su istituti come il contratto a termine e l’apprendistato, considerati a livello del tanto evocato diritto comunitario come temi tipici di coinvolgimento sindacale. Nel passaggio parlamentare il decreto-legge verrà ammorbidito, con l’eliminazione di alcuni eccessi inutili, come, per il contratto a termine, la previsione di ben otto proroghe; oppure incoerenti o addirittura incostituzionali, come, per l’apprendistato, l’esclusione della forma scritta per il piano formativo individuale o, per l’apprendistato di mestiere, la riduzione a mera possibilità dell’integrazione della formazione professionalizzante con la formazione per l’acquisizione di competenze di base e trasversali posta a carico della Regione.
Ciò, però, non cambierà la qualità della legge di conversione, legge n. 78/2014, che risulterà composta da due capi, un Capo I, Disposizioni in materia di contratto a termine e di apprendistato, ed un Capo II, Misure in materia di servizi per il lavoro, di verifica della regolarità dei contributi e di contratti di solidarietà. E non vi è dubbio che sia proprio il Capo I, coi suoi articoli 1, 2 e 2-bis, a costituirne la ragione fondamentale; mentre il Capo II, per gli articoli 3 e 4 attinenti alle misure in materia di servizi per il lavoro nonché di verifica della regolarità dei contributi, sembra costituire una mera anticipazione della delega in itinere e, per l’articolo 5, riguardante i contratti di solidarietà, risulta de plano una normativa ad personam, i.e. a misura del caso Electrolux, sì da risultare estraneo al percorso ricognitivo e ricostruttivo qui prescelto.
Si può dire che la discontinuità radicale di cui al Capo I sia, se non occultata, certo ammorbidita nella sua presentazione, già dall’utilizzazione della tecnica sperimentata in precedenza della mera e semplice novella puntuale ai precedenti decreto legislativo n. 368/2001 sul contratto a termine e n. 167/2011 sull’apprendistato; ma soprattutto dalla spendita di una parola neutra ed asettica come “semplificazione”, di per sé tale da suggerire la mera eliminazione di una superfetazione regolativa di una disciplina mantenuta integra nella sua essenza: l’articolo 1 è rubricato Semplificazione delle
disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine; e l’articolo 2 Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di apprendistato.
Peraltro il legislatore non poteva certo far finta di ignorare che con l’articolo 1 della legge di conversione, sotto la copertura della parola “semplificazione”. contrabbandava una liberalizzazione spinta della disciplina del contratto a termine prevista da quel decreto legislativo n. 368/2001 cui faceva da solenne epigrafe il suo articolo 1, comma 01, «Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». Xx xxxx, allora, aprire l’articolo 1 della legge di conversione con una qual sorta di dichiarazione d’intenti destinata peraltro a restarvi confinata, senza traslocare nello stesso decreto legislativo n. 368/2001, sì da risultare priva di qualsiasi significativa ricaduta ermeneutica: «Considerata la perdurante crisi occupazionale e l’incertezza dell’attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare, nelle more dell’adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente e salva l’attuale articolazione delle tipologie di contratti di lavoro, vista la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sono apportate le seguenti modificazioni: […]» (articolo 1, comma 1, legge n. 78/2014).
Un piccolo capolavoro di compromesso meramente verbale, fatto a taglia e incolla fra perdenti e vincenti del confronto, dove è il passaggio del nuovo regime sul contratto a termine a contare in forza della tesi che una massiccia iniezione di flessibilità in entrata gestita unilateralmente dalla controparte datoriale sia determinante nel creare occupazione; mentre riesce solo apparentemente rassicurante il preannuncio di un testo unico non per nulla «semplificato», comprensivo di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Da un lato, sembra suggerire che il futuro varo di un tale contratto, peraltro solo in via sperimentale, sarà accompagnato da un restringimento del ricorso al contratto a termine; ma, dall’altro, fa sospettare che quel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti… potrà esserlo ad esclusione o limitazione della reintegra.
2.2. Segue: una controriforma all’insegna dell’eliminazione del “causalone”
Di dritto e di rovescio, però, quella che resta consegnata alla legge di conversione è una disciplina che riprende soluzioni già recepite, ma generalizzandole e riadattandole, sì da dare vita ad un qualcosa di completamente nuovo. Se è vero che era stata la legge n. 92/2012 a intaccare l’asse portante del decreto legislativo n. 368/2001, cioè il “causalone”, aggiungendo al suo articolo 1 quel comma 1-bis che permetteva di prescinderne nelle ipotesi ivi previste; è pur vero che, per quanto anticipatorio si possa considerare un tale antecedente, la legge n. 78/2014 effettua un salto in termini non di quantità, ma di qualità, eliminando sic et simpliciter dal nuovo testo dell’articolo 1, comma l, il requisito prima richiesto in via generale per l’apposizione del termine, cioè l’esistenza di «ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro» (articolo 1, comma 1, lettera a, punto 1, legge n. 78/2014).
C’è il ricorso ad una regolazione affidata ad una mera valutazione datoriale che porta logicamente con sé l’esclusione sia della necessità di una mediazione collettiva, sia della possibilità di una verifica giurisprudenziale, in passato facilitata dal doverne offrire una giustificazione scritta. Così, ovvia conseguenza, è abrogato il comma 1-bis (articolo 1, lettera a, punto 2, legge n. 78/2014), che prevedeva una doppia eccezione alla regola del “causalone”, costituita non solo dall’«ipotesi di un primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi», ma anche e soprattutto da
«ogni altra […] individuata dai contratti collettivi»; e viene, altresì, amputato il comma 2 dello stesso articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001, che considerava l’«apposizione del termine […] priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni», con l’eliminazione della frase qui sottolineata (articolo 1, lettera a, punto 3, legge n. 78/2014).
Il nuovo articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 368/2001 compensa l’eliminazione del “causalone” con l’introduzione di un duplice limite quantitativo: riguardante il primo la durata di un contratto a termine «concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualsiasi tipo di mansione», che non può essere
«superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe»; e attinente il secondo alle c.d. quote di contingentamento, cioè al «numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro», che non può eccedere il «20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione» (articolo 1, comma 1, lettera a, punto 1, legge n. 78/2014), eccezion fatta per le ipotesi previste dal nuovo articolo 10, comma 5-bis, cioè contratti «stipulati tra istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa» (articolo 1, comma 1, lettera b- octies, legge n. 78/2014).
Il primo limite, circa la durata di 36 mesi, era già presente nell’originario decreto legislativo n. 368/2001, ma riferito non a quella del singolo contratto a termine, ma a quella complessiva calcolata sull’unica proroga allora ammessa o sulla successione di più contratti a termine.
Quanto alla proroga di un contratto a termine, il nuovo articolo 4 del decreto legislativo
n. 368/2001 ne prevede più di una, ma sempre con una durata complessiva del rapporto non eccedente i 3 anni, cioè «fino ad un massimo di cinque volte nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dai rinnovi, a condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa»; e, coerentemente alla soppressione del “causalone”, non richiede più né la giustificazione in termini di «ragioni oggettive», né ovviamente la «prova relativa all’obbiettiva esistenza delle ragioni» (articolo 1, comma 1, lettere b e b-bis, legge n. 78/2014). Mentre, quanto alla successione di contratti a termine, il nuovo articolo 5, comma 4-bis, primo e secondo periodo, dello stesso decreto ne ribadisce la precedente regolamentazione, ma anche qui sempre con una durata complessiva non oltrepassante i 3 anni: «qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono fra un contratto ed un altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato»; peraltro salva la possibilità di deroga, riconosciuta in generale alla contrattazione collettiva nazionale, territoriale o aziendale condotta con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale
(comma 4-bis, primo periodo), ma comunque concessa in particolare dalla legge con riguardo ad un unico «ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti», sempreché concluso secondo la procedura ivi prevista (comma 4-bis, secondo periodo) (articolo 1, comma 1, lettera b-quater, legge n. 78/2014).
Sicché con riguardo al primo limite di 36 mesi l’aliquid novi rilevante è costituito dall’essere previsto anche come durata del singolo contratto a termine «concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione»; dal momento che come durata complessiva è ripreso e sostanzialmente confermato rispetto al passato: sia con riguardo a quella di un contratto a termine passibile ora di un massimo di cinque proroghe, a «condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa», considerando la durata «indipendentemente dal numero dei rinnovi»; sia con rispetto a quella di più contratti a termine «per lo svolgimento di mansioni equivalenti […] fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore», valutando la durata come comprensiva «di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono fra un contratto e l’altro».
Passando al secondo limite circa le c.d. quote di contingentamento, previsto nel 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato di cui al novellato articolo 1, comma 1, decreto legislativo n. 368/2001, c’è da osservare come coesista col rinvio di cui al successivo articolo 10, comma 7, mantenuto sostanzialmente identico, per cui la
«individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato […] è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi» (articolo 1, comma 1, lettera b-novies, legge n. 78/2014); e venga, altresì, accompagnato dall’aggiunta all’articolo 5 di un comma 4-septies con la previsione di una sanzione amministrativa, pari al 20 o al 50% della retribuzione «per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni», a seconda che «il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale» non sia o sia «superiore a uno» (articolo 1, comma 1, lettera b-septies).
Un duplice limite, dunque, più un mantenimento di quel diritto di precedenza già previsto dal vecchio articolo 5 del decreto legislativo n. 368/2001, destinato a costituire una qual sorta di corsia privilegiata per una riassunzione. In continuità col passato, il comma 4-quater, primo periodo, lo riconosce al lavoratore occupato con uno o più contratti a termine per un periodo superiore a 6 mesi, con riguardo alle «assunzioni a tempo indeterminato» effettuate dallo stesso datore di lavoro «entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine», salvo che sia diversamente disposto da «contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale»; mentre il comma 4-quinquies lo attribuisce al lavoratore assunto a termine per attività stagionali, con rispetto a «nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali».
Ma ora, il primo periodo del comma 4-quater dell’articolo 5 viene completato con un secondo che prevede un regime rafforzato per le lavoratrici in congedo di maternità, per cui nel calcolo del periodo superiore a 6 mesi utile per godere del diritto di precedenza è incluso il congedo di maternità; ed il diritto è esteso, «con le stesse modalità», anche alle assunzioni a tempo determinato (articolo 1, comma 1, lettera b-quinquies, legge n. 78/2014). E, a sua volta, il primo periodo del comma 4-sexies dell’articolo 5, riguardante i termini entro cui farlo valere viene anch’esso completato con un secondo periodo, per cui il diritto di precedenza previsto dai precedenti commi 4-quinquies e 4-
sexies «deve essere espressamente richiamato nell’atto scritto di cui all’art. 1, comma 2», cioè quello avente ad oggetto l’apposizione del termine (articolo 1, comma 1, lettera b-sexies, legge n. 78/2014).
2.3. Segue: rilevanza e tenuta dei limiti quantitativi: la durata di 36 mesi del singolo contratto a termine e complessiva di più contratti a termine
Non rientra nell’economia di questo lavoro, che ha privilegiato la prospettiva storica evolutiva, scendere ad una analisi dettagliata delle legge, come ha già cominciato a fare la dottrina evidenziandone tutta la problematicità ermeneutica, dovuta in parte all’aver ereditato la tecnica di novellare “a spizzichi e bocconi” testi legislativi concepiti e nati con un loro equilibrio interno se pur compromissorio, senza farsi carico del necessario coordinamento fra vecchio e nuovo; ed in parte all’aver voluto dare l’impressione di una sia pur relativa continuità all’insegna di quel comma 01 dell’articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001, debitamente conservato, che consacra il contratto di lavoro subordinato come «forma comune di rapporto di lavoro».
Stando alla ricostruzione fattane nella prima parte, la legislazione maturata nell’ultimo trentennio è andata via via liberalizzando il ricorso al contratto a termine, secondo un percorso altalenante ma continuo, sì da intaccare seriamente la relazione da regola ad eccezione fra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo determinato. Intaccare, ma non rovesciare, almeno fino alla legge n. 92/2012, che non senza una qualche forzatura retorica poteva qualificare al suo articolo 1, comma 1, il contratto di lavoro a tempo indeterminato «cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro», senza essere contraddetta sostanzialmente dalla successiva legge
n. 99/2013, che si mostrava sì in controtendenza rispetto alla relativa stretta operata sulla flessibilità in entrata, ma con riguardo alla nostra materia si limitava ad aprire alla contrattazione collettiva e ad eliminare alcuni eccessi di regolazione precedentemente introdotti con riguardo ai tempi limite previsti per la proroga di fatto di un contratto a termine e per la successione di più contratti a termine.
Ora c’è da chiedersi se il cappello costituito dall’articolo 1, comma 01, del decreto legislativo n. 368/2001 sia ancora a misura del capo costituito dallo stesso decreto così come novellato da ultimo dalla legge n. 78/2014. Tutto dipende da come s’intenda la formula per cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la «forma comune di rapporto di lavoro», come espressione di una relazione qualitativa, ovvero di una mera relazione quantitativa rispetto al contratto a termine.
La storia legislativa, giurisprudenziale, dottrinale del contratto a termine culminata nella formula di cui all’articolo 1, comma 01, del decreto legislativo n. 368/2001 è stata caratterizzata fin dalla sua origine da una relazione qualitativa col contratto a tempo indeterminato, basata sulla rilevanza attribuita all’esigenza datoriale da soddisfare, se “stabile” o “temporanea”; così da sottrarre alla disciplina civilistica il termine, trasformandolo da elemento “accidentale”, rimesso alla mera volontà delle parti, a “causale”, vincolato ad una giustificazione, come tale idoneo a qualificare il relativo contratto come “tipo” o “sottotipo”.
Ma la legge n. 78/2014 dà per scontata una interpretazione della stessa formula nel senso di una mera relazione quantitativa, cioè di una maggiore diffusione del contratto a
tempo indeterminato; così da riportare sotto la disciplina civilistica lo stesso termine, ritrasformandolo da elemento “causale” in elemento “accidentale”, come tale inadatto a qualificare il relativo contratto come “tipo” o “sottotipo”. Tale relazione non è da intendersi in chiave descrittiva, come mera presa d’atto di una ricognizione sul mercato del lavoro, che fra l’altro con una significativa costanza restituisce una qual sorta di immagine dissociata, con a contratto “dominante” nello stock degli occupati il contratto a tempo indeterminato (circa l’85%), ma non nel flusso degli assunti il contratto a termine (circa il 65%); bensì in chiave prescrittiva, come introduzione di tetti temporali o percentuali intesi a contenere il quantum di un ricorso ad un contratto a termine, peraltro incentivato dal renderlo nell’an del tutto fungibile rispetto al contratto a tempo indeterminato.
Lo scambio fra l’introduzione dei visti limiti temporali e percentuali e la soppressione del “causalone” è stato oggetto di valutazione critica circa la sua compatibilità col diritto comunitario, riguardo alla disciplina prevista dalla direttiva e alla clausola di non regresso; e circa la sua resa sul mercato del lavoro, rispetto alla quantità e qualità dell’occupazione prodotta. Ma qui interessa solo riprendere la riserva diffusa circa il carattere del tutto disuguale di tale scambio, d’altronde perfettamente comprensibile perché sintonico rispetto allo scopo perseguito di facilitare il ricorso al contratto a termine nel rispetto formale della famosa clausola 5 della direttiva 1999/70/CE.
Come si è notato, quanto al limite di durata di 36 mesi, l’unico introdotto ex novo è quello relativo al singolo contratto a termine, con ad oggetto quello stesso previsto dall’abrogato articolo 1, comma 1-bis, per l’ipotesi eccezionale di un primo contratto a termine acausale, cioè «lo svolgimento di qualunque tipo di mansione». Un limite, questo, di per sé non richiesto dalla clausola 5 della direttiva, ma soprattutto piuttosto irrilevante, essendo difficile che un datore di lavoro concluda un contratto per un periodo lungo fino ad un triennio, così da non poterlo risolvere anticipatamente se non per giusta causa. Mentre è un lascito del passato il limite di durata complessiva sempre di 36 mesi per un contratto a termine prorogato, nonché per la successione di più contratti a termine; un lascito, peraltro, arricchito dal fatto che un contratto a termine è ora prorogabile non più per una sola, ma per cinque volte.
Sicché, a conti fatti, la durata complessiva può essere spalmata nel corso dei 36 mesi su un rapporto continuo, dato da un contratto iniziale più cinque proroghe; oppure su un rapporto discontinuo, fatto da un contratto iniziale più vari rinnovi, purché rispettosi degli intervalli temporali richiesti per lo stop and go; oppure su un rapporto misto, continuo/discontinuo costituito da un contratto iniziale più proroghe e rinnovi. Non è tutto, perché tale limite vale non solo ovviamente quando ci sia una identità soggettiva, cioè lo stesso datore e lo stesso lavoratore; ma anche quando ci sia una identità oggettiva, cioè, per le proroghe, la «stessa attività lavorativa» e, per i rinnovi, lo
«svolgimento di mansioni equivalenti»; formule queste non coincidenti, tanto da essere state interpretate in senso diverso, ma, comunque, di per sé tali rendere sufficientemente elastica la gestione del vincolo temporale di 36 mesi.
2.4. Segue: la percentuale massima del 20% di contratti a tempo determinato
Tant’è che secondo un’opinione tanto diffusa da risultare quasi unanime il limite vero introdotto a compenso del venir meno del “causalone” è quello relativo alle c.d. quote di contingentamento che il novellato articolo 1, comma 1, secondo periodo, prescrive nella misura del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato al 1o gennaio dell’anno di assunzione.
Non è un limite senza eccezioni dettate direttamente dal decreto legislativo n. 368/2001, perché, in aggiunta a quelle previste dall’articolo 10, commi 5-bis e 7, lettere a-c, l’articolo 1, comma 1, terzo periodo, ne contempla una ulteriore, per cui per «i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato». A dire il vero, un terzo periodo sibillino, perché non è chiaro se si riferisca anche al primo, come suggerirebbe la lettera, sì da escludere il doppio limite dei 36 mesi e del 20%; oppure solo al secondo periodo, come farebbe ritenere la logica, sì da escludere l’unico limite del 20%.
Ma rimane pur sempre quel limite per cui sarebbe possibile oggi considerare il contratto a tempo determinato non fungibile rispetto a quello a tempo indeterminato, se non più riguardo all’an, certo rispetto al quantum, sì da rendere lo scambio fra “causalone” e 20% compatibile col diritto comunitario vigente. Ciò, però, deve fare i conti con un doppio nodo ermeneutico, che, a seconda di come lo si intenda sciogliere, rende tale limite più o meno incisivo, sì da condizionarne largamente peso e rilievo.
Il primo nodo attiene al meccanismo sanzionatorio, perché, come visto, l’articolo 1, comma 1, che introduce il limite del 20% è poi richiamato dall’articolo 5, comma 4- septies, che prevede per la violazione di tale limite legale una mera sanzione amministrativa: esclusiva o cumulativa rispetto alla conversione del contratto a termine eccedentario in contratto a tempo indeterminato? A stare alla intentio del legislatore così come esplicitata nell’o.d.g. n. 22/11 fatto proprio dalla Commissione lavoro del Senato, la si dovrebbe considerare esclusiva, dato che vi si sollecita il Governo «ad adottare atti interpretativi utili a chiarire che in ogni caso i contratti a termine oggetto della violazione della percentuale consentita sono validi e proseguono fino alla scadenza stabilita dalle parti», a conferma della tendenza a privilegiare la sanzione monetaria rispetto a quella reale, la multa alla conversione così come la indennità alla reintegra. Non senza una qualche incoerenza sistematica, perché la conversione continua comunque ad essere esplicitamente prevista dal decreto legislativo n. 368/2001 per il superamento del limite meno stringente e rilevante di una durata complessiva di 36 mesi (articolo 5, comma 4-bis), oltre che del periodo di tolleranza previsto per la proroga di fatto (articolo 5, comma 2).
Solo che l’articolo 1, comma 1, secondo periodo, si apre con «Fatto salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7», cioè salva la competenza attribuita alla contrattazione collettiva di individuare la percentuale sindacale di contingentamento, che secondo l’interpretazione dominante era fino a ieri ritenuta passibile della sanzione della conversione del rapporto. Mentre oggi non lo può più, se è vero che la stessa percentuale legale del 20% predeterminata dallo stesso articolo 1, comma 1, secondo periodo, è soggetta all’esclusiva sanzione amministrativa.
Se così è, però, c’è il rischio che la violazione del limite sindacale che non si risolva anche in una del limite legale rimanga senza la stessa sanzione amministrativa, essendo
dubbio, in forza della lettera della legge e della natura della medesima sanzione, che possa essere applicata con riguardo alla violazione di un contratto collettivo, come dà, invece, del tutto scontato la circolare del Ministero del lavoro n. 18/2014. A questo punto non resterebbe spazio se non per il ricorso da parte del sindacato all’articolo 28 Stat. lav. e da parte del singolo lavoratore assunto col primo contratto a tempo determinato eccedentario ad una azione per danni.
Il secondo nodo ermeneutico attiene al rapporto fra la legge e la contrattazione collettiva, quale derivante dall’introduzione di quel limite del 20% che, in quanto dato percentuale definito dall’universo di riferimento esistente ad un certo momento, riesce inscindibilmente correlato al numero complessivo dei contratti a tempo indeterminato in forza al 1o gennaio dell’anno di assunzione. Ora c’è qui una restrizione della competenza in deroga lasciata alla contrattazione collettiva, perché la cancellazione del “causalone” di cui all’articolo 1, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo n. 368/2001 comporta logicamente l’abrogazione del successivo comma 1-bis, che alla sua lettera b le concedeva una qual sorta di carta bianca per escluderlo o modificarlo a piacere. Né si può dire che tale restrizione sia compensata dal permanere di quella competenza già attribuita alla stessa contrattazione collettiva dal decreto legislativo n. 368/2001, con riguardo agli intervalli temporali fra un contratto a termine ed un altro (articolo 5, comma 3), ai 36 mesi complessivi della successione fra più contratti a termine (articolo 5, comma 4-bis), ai diritti di precedenza (articolo 5, comma 4-quater). Si dovrebbe considerare compensata solo dal permanere della competenza della contrattazione collettiva in materia del limite quantitativo (articolo 10, comma 7). Ma attenzione, prima mancava la predeterminazione di un limite legale, sì che non c’era ieri quella questione circa la possibilità di derogarvi che c’è oggi, con la complicazione aggiuntiva costituita dall’articolo 2-bis, Disposizioni transitorie, della legge n. 78/2014. Ora, il suo comma 2 per cui «In sede di prima applicazione del limite percentuale […] conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro», sembrerebbe far dedurre, esplicitamente, che limiti percentuali «diversi», da intendersi inferiori al 20%, sopravvivano fino alla scadenza dei relativi contratti collettivi nazionali di lavoro in essere al momento dell’entrata in vigore della legge; ed, implicitamente, che i rinnovi di tali contratti non possano più prevedere ulteriori limiti al di sotto di quella percentuale.
Quel comma 2 deve, però, fare i conti col comma 3 a’ sensi del quale «Il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del presente decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale […] è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014». Il che sarebbe conciliabile col precedente comma 2, se inteso nel senso che, in difetto di contratti collettivi nazionali vigenti a lui applicabili che permettano di stare al di sotto della percentuale del 20%, il datore di lavoro dovrebbe rientrarvi entro la fine del 2014, senza peraltro tener conto del fatto che non lo può fare senza rispettare le scadenze dei contratti a termine in essere; altrimenti non potrebbe «stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato», qui con rinvio alla vista problematica relativa alla sanzione applicabile.
Sarebbe conciliabile, se il comma 3 non continuasse coll’aggiungere «salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole», dove il contratto collettivo ivi considerato non coincide con quel contratto collettivo nazionale in essere al momento dell’entrata in vigore della legge di cui al comma 2, per esser previsto che esso possa disporre un termine più favorevole, rispetto alla data del 31 dicembre 2014 fissata dalla legge stessa.
Dunque, se difetti un contratto collettivo nazionale in essere al momento dell’entrata in vigore della legge, «un contratto collettivo applicabile nell’azienda», a quanto pare quindi anche di livello aziendale, può prevedere un «limite percentuale o un termine più favorevole», dove, peraltro, l’uso dell’«o» alternativo rende il tutto incomprensibile. Essendo il «più favorevole» riferito al datore di lavoro, si dovrebbe concludere che quel tal contratto «applicabile nell’azienda», possa introdurre un limite sindacale superiore al 20%, ma sempre rispettando il termine del 31 dicembre 2014; oppure dilazionare il termine del 31 dicembre 2014, ma sempre mantenendo il limite legale inferiore al 20%: nell’uno e nell’altro caso un autentico nonsense.
Di certo, se passasse la tesi che la competenza della contrattazione collettiva si estendesse ad una deroga in peius del limite legale del 20% diverrebbe ancora più problematica la compatibilità del nuovo regime del contratto a termine col diritto comunitario. Del che non si fa certo carico la citata circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 18/2014, per cui «Il rinvio alla contrattazione è un rinvio privo di “particolari vincoli”». Ciò vuol dire che le parti sociali possono legittimamente derogare, ad esempio, al limite percentuale del 20%… (aumentandolo o diminuendolo) o alla scelta del Legislatore di “fotografare” la realtà aziendale all’«1 gennaio dell’anno di assunzione del lavoratore a termine».
2.5. Segue: l’intreccio fra contratto a termine e somministrazione di lavoro a termine
Secondo un modulo ormai scontato, un intervento legislativo sul decreto legislativo n. 368/2001 si porta dietro un qualche innesto al decreto legislativo n. 276/2003 e al decreto legislativo n. 167/2011, a conferma del carattere fungibile sul mercato del lavoro del ricorso al contratto a termine, alla somministrazione di lavoro a termine, all’apprendistato.
Il problema relativo alla somministrazione di lavoro a termine è sempre lo stesso, che, cioè, il legislatore si fa carico di metterla al passo con qualsiasi apertura sul contratto a termine, sì da mantenerla concorrenziale, ma si preoccupa poco o nulla di chiarire quale e quanto dell’ulteriore nuova disciplina sia coerentemente applicabile. Così l’articolo 2 della legge n. 78/2014 estende alla somministrazione di lavoro a termine l’eliminazione del “causalone”, col sancire la soppressione dei primi due periodi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003, che lo prevedevano, se pur con l’eccezione del primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a 12 mesi introdotta dalla legge n. 92/2012. E coerentemente fa seguire l’abrogazione del comma 5-quater dello stesso articolo 20, che attribuiva alla contrattazione collettiva la competenza ad individuare ulteriori deroghe al “causalone”; nonché la sostituzione al comma 1, lettera c, del successivo articolo 21, che in tema di forma del contratto di somministrazione richiedeva l’indicazione de «i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20», delle parole
«ai commi 3 e 4» con quelle «al comma 3». Ma non v’è dubbio che per abrogazione implicita siano cadute anche le eccezioni al “causalone” previste per facilitare il collocamento di soggetti deboli, quali il riferimento al comma 4 di cui al comma 5-bis e l’intero comma 5-ter dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003.
Fin qui tutto bene. Se non fosse che il legislatore, del tutto dimentico del diverso trattamento riservato dal diritto comunitario al contratto a termine e alla somministrazione di lavoro a termine non li avesse equiparati nel riscrivere l’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 368/2001, col riferirsi a un datore di lavoro parte di un contratto a termine o di un contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Sicché, stando alla stretta lettera, un somministratore non potrebbe concludere un singolo contratto di somministrazione di lavoro a termine per una durata superiore a 36 mesi, pur sempre scandibile su cinque proroghe; né potrebbe avere una percentuale di contratti di somministrazione di lavoro a termine, alle condizioni previste di tempi, organici e mansioni, superiore al fatico 20%.
È fin troppo facile cogliere l’impasse. Per superarla si è chiamato quell’articolo 22, comma 2, del decreto legislativo n. 276/2003 per cui il «rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alle disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, per quanto compatibile», per concludere che qui non lo sarebbe. Troppo facile, però, perché il giudizio del «per quanto compatibile» è esperibile quando il disposto sotto esame si riferisce solo al contratto a termine, non certo quando si riferisce esplicitamente anche al contratto di somministrazione del lavoro a termine, sì da non lasciare spazio alcuno all’interprete.
Per di più il limite di durata di 36 mesi per il singolo contratto di somministrazione di lavoro a termine appare poco o nulla coerente con l’esclusione di cui all’articolo 22, comma 2, decreto legislativo n. 276/2003 dell’applicabilità dell’articolo 5, commi 3 ss., del decreto legislativo n. 368/2001, sì da rendere inoperante non solo lo stop and go di cui al citato comma 3 ma anche il limite di durata complessiva di 36 mesi per la successione di più contratti a termine di cui al successivo comma 4-bis. Il che, però, rende facile aggirare quel limite di durata di 36 mesi per il singolo di somministrazione di lavoro a termine, col far ricorso prima a proroghe, poi a rinnovi neppure distanziati nel tempo.
Più delicato è il problema posto dal limite del 20%, specie se, come qui si ritiene in contrasto con la circolare ministeriale n. 18/2014, non lo si consideri elevabile da parte della contrattazione collettiva; ed ancor più se, come invece qui non si ritiene, questa volta d’accordo con la stessa circolare, lo si giudichi passibile della conversione del contratto di somministrazione di lavoro a termine eccedentario ancor prima che della sanzione amministrativa.
2.6. L’apprendistato come contratto prevalentemente occupazionale
Resta quello che ben può definirsi il “cenerentolo” del diritto del lavoro, quell’apprendistato cui si continua a pronosticare il futuro da principe preannunciato dall’articolo 1, comma 1, lettera b, della legge n. 92/2012, cioè di «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro», ma che il mercato del lavoro condanna a recitare la parte di domestico tutto fare, con la tolleranza se non la promozione della stessa legislazione intervenuta ad addomesticare lo stesso decreto legislativo n. 167/2001. Ne rappresenta l’ultima conferma proprio l’articolo 2 della legge n. 78/2014, che pur risulta più equilibrata rispetto al testo del decreto-legge n. 34/2014, dove quella
già segnalata come la lunga deriva occupazionale dell’apprendistato a partire dalla riforma inattuata del decreto legislativo n. 276/2003 appariva in tutta la sua evidenza.
Secondo la tecnica ormai collaudata di intervenire a spizzichi e bocconi su un atto legislativo dotato di un suo equilibrio complessivo, l’articolo 2, comma 1, della legge n. 78/2014 elenca una serie di modifiche al decreto legislativo n. 167/2001, se pure conservando quella delega alla contrattazione collettiva a tutto scapito della competenza regionale che lo caratterizzava fin dall’origine.
Tenuto conto che il decreto-legge n. 34/2014 eliminava per il piano formativo la forma scritta, il fatto che l’articolo 2, comma 1, lettera a, del TU continui a richiederla con la sostituzione di «forma scritta del contratto, del patto di prova e del relativo piano formativo individuale da definire […] entro trenta giorni dalla stipulazione del contratto» con «forma scritta del contratto e del patto di prova. Il contratto di apprendistato contiene in forma sintetica il piano formativo individuale», sembrerebbe cosa di poco conto (articolo 2, comma 1, lettera a, punto 1, legge n. 78/2012). Ma, a prescindere dalla genericità della espressione «in forma sintetica», che peraltro resterebbe pur sempre definibile «anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali», c’è certo una sottovalutazione di tale piano come referente e metro di misura dell’impegno formativo del datore di lavoro. Tanto più che ne è prevista l’inclusione immediata nello stesso contratto di apprendistato, privando così lo stesso datore di quel mese di tempo che, almeno in alcune Regioni, poteva utilizzare per farlo previamente redigere dagli enti formativi cui aveva iscritto l’apprendista per compiere il percorso formativo.
Ancor più significativa è l’aggiunta effettuata all’articolo 4, comma 3, del TU che già prevedeva che, con riguardo al tipo più comune e rilevante di apprendistato, cioè quello professionalizzante o contratto di mestiere, «La formazione di tipo professionalizzante e di mestiere, svolta sotto la responsabilità della azienda, è integrata, nei limiti delle risorse attualmente disponibili, dalla offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte complessivo non superiore a centoventi ore per la durata del triennio e disciplinata dalle Regioni sentite le parti sociali e tenuto conto dell’età, del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista».
Non c’è che dire, una disciplina minimale di quell’offerta pubblica funzionale a fornire all’apprendista quella preparazione di base e trasversale indispensabile per affrontare una realtà professionale continuamente mutevole; minimale, sia considerata in sé che in comparazione con l’esperienza d’oltralpe, costretta com’era «nei limiti delle risorse attualmente disponibili» e nei termini di ben 120 ore sui 3 anni. Ma, evidentemente, non bastava, perché ora l’articolo 4, comma 3, del TU prosegue coll’aggiungere: «La Regione provvede a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste» (articolo 2, comma 1, lettera c, legge n. 78/2014).
Certo non è detto esplicitamente che in caso di mancata comunicazione da parte della Regione entro il fatidico termine di 45 giorni il datore venga liberato dell’obbligo relativo all’“integrazione” della formazione di tipo professionalizzante e di mestiere rimasta a suo carico; ma sembrerebbe di sì, non senza una qualche giustificazione, perché certo non può essere chiamato a supplire alla mancanza dell’offerta pubblica. Quel che non sorprende, ma stupisce, è il tipo di approccio rivelatore di come venga ormai considerato l’apprendistato di mestiere, come un contratto capace di offrire al
meglio una formazione a misura della singola azienda, quindi con un contenuto occupazionale/fidelizzante, sì da inventare un escamotage burocratico destinato a rivelarsi liberatorio per il datore in più di una Regione, non per nulla dislocata al sud; invece di porsi un piano per garantire ovunque una seria ed efficace offerta formativa pubblica, secondo quella riscoperta tanto reclamizzata di una gestione unitaria del mercato del lavoro che dovrebbe trovare traduzione nella nascita di una Agenzia nazionale.
Una ulteriore attenuazione della disciplina pregressa è data dalla sostituzione dell’articolo 1, comma 3-bis, primo periodo, del TU che prima recitava «L’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro», ridotta al 30% per un periodo di 36 mesi dalla sua entrata in vigore dalla legge n. 92/2012 (articolo 1, comma 19, legge n. 92/2012, abrogato dall’articolo 1, comma 2, legge n. 78/2014). Ora recita, invece, «Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dal presente comma, esclusivamente per i datori che occupano cinquanta dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro» (articolo 2, comma 1, lettera a, punto 2, legge n. 78/2014), con conseguente abrogazione del successivo articolo 1, comma 3-ter, dello stesso TU che prima prevedeva l’esenzione dei datori di lavoro con meno di dieci dipendenti, superata ormai dall’elevazione del limite a cinquanta (articolo 2, comma 1, lettera a, punto 3, legge n. 78/2014). Quel che è lasciato immutato è fra l’altro l’ultimo periodo dell’articolo 2, comma 3-bis, del TU per cui «Gli apprendisti assunti in violazione dei limiti di cui al presente comma sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato, al di fuori delle previsioni del presente decreto, sin dalla data di costituzione del rapporto», cioè in soprannumero.
Ora, a quanto sembra, la contrattazione collettiva può sì individuare «limiti diversi» da quel 20%, abbassandolo o alzandolo, ma non estenderli ai datori al di sotto dei cinquanta dipendenti, ferma restando la solita problematica circa l’applicabilità della conversione anche ai limiti collettivi. Certo al riguardo è inevitabile comparare la almeno presunta eliminazione della conversione per la trasgressione delle c.d. quote di contingentamento dei contratti a termine con la conservazione della stessa conversione per l’inosservanza delle percentuali di trasformazione dei contratti di apprendistato.
Per chiudere è sufficiente ricordare che la legge n. 78/2014 si fa carico di favorire quell’apprendistato per la qualifica ed il diploma, che avrebbe dovuto costituire il modello di un vero contratto formativo costruito sull’apporto congiunto e coordinato di scuola e lavoro, ma rimasto del tutto al palo. Così all’articolo 3, dedicato all’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale del TU sono aggiunti due commi: un comma 2-ter che «Fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo»; ed un comma 2-quater che «Per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano che
abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, i contratti collettivi di lavoro stipulati da associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali» (articolo 2, comma 1, lettere b e b-bis, legge n. 78/2014).
Non manca neppure un “aiutino” per l’altro apprendistato, ancor più ambizioso ma ancor meno appetitoso, quello per l’alta formazione, con una modifica dell’articolo 8- bis, comma 2, del decreto-legge n. 104/2013 convertito dalla legge n. 128/2013, per cui contratti di apprendistato «possono essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall’art. 5 del testo unico», cioè di regola 17 anni, per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi 2 anni delle scuole secondarie di secondo grado per il triennio 2014-2016, «con particolare riguardo agli studenti degli istituti professionali» (articolo 2, comma 2-bis, legge n. 78/2014).
3. …E il “saldo” previsto per il futuro
Quello appena visto è l’“anticipo” del Jobs Act corrisposto per il presente, ma c’è un corposo e sostanzioso “saldo” in corso, così come anticipato dal disegno di legge delega passato al Senato e ora all’esame della Camera; che, peraltro, una volta definitivamente approvato, dovrà essere tradotto in decreti delegati lasciati largamente in mano al Governo, data la genericità, per non dir altro, dei principi e dei criteri direttivi costituzionalmente richiesti. Ma questa è altra storia affidata al futuro, su cui una dottrina lasciata completamente fuori dalla gestazione di una svolta anticipata dal Presidente del Consiglio dei Ministri come “epocale”, avrà il suo da fare per ridarle un minimo di sistematicità e pulizia tecnica.