La locazione di cosa futura, la qualificazione del contratto e la relativa disciplina
La locazione di cosa futura, la qualificazione del contratto e la relativa disciplina
di XXXXXXX XXXXXXXX,
Dottore in giurisprudenza
Università di Bologna
(CORTE DI CASSAZIONE, sezione terza civile, ord. 19 ottobre 2023, n. 29027 - Pres. Frasca - Est. Gorgoni.)
Abstract
Il contratto di locazione di cosa futura è atipico con causa mista. A esso, una volta realizzato il bene, si applica la disciplina della locazione qualora l’intento perseguito sia il godimento del bene, senza che rilevi l’attività produttiva intercorsa. Di conseguenza, per la qualificazione assume carattere dirimente la comprensione del divisato assetto di interessi, non aspetti circostanziali, quali la previsione di un termine entro cui il bene debba essere realizzato, oppure specifiche prescrizioni sulla sua struttura.
If the parties agree to lease a good to be produced, the rules governing the contract of leasing apply, whenever the parties’ intention focuses on the use of the future good and not on its creating process. Thus, coming to the qualification of the contract, attention should be paid on the interests of the parties arising out of their agreement and not on other aspects concerning their relationship, such as the prevision of a deadline for the construction of the good or specific requirements of its structure.
Sommario: 1. Il caso; 2. La locazione di cosa futura; 3. La determinazione della disciplina applicabile a un contratto misto di locazione e appalto; 4. L’inapplicabilità della disciplina pubblica di limitazione del canone di locazione a un contratto misto di locazione e appalto.
1. Il caso
La controversia ha visto coinvolte l’Agenzia delle entrate e una impresa di costruzioni. In risposta alla richiesta della prima di immobili da adibire ad archivio, la seconda si è offerta di provvedere all’edificazione e all’allestimento di cinque fabbricati, che sarebbero stati tutti concessi in locazione una volta terminati, impegnandosi, per il tempo necessario al completamento dell’attività di edificazione, a individuare una diversa struttura in via provvisoria e ad assumersi i costi per il trasloco del materiale da conservare. In origine, per tutta l’operazione, è stato previsto un corrispettivo di euro
4.900.00,00, considerato congruo dalla committente. Tuttavia, l’ammontare è diminuito in via progressiva; da un lato, l’art. 3, quarto comma, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, ha comportato una riduzione del quindici per cento dei compensi dovuti, a fare data dal 1° gennaio 2015, come previsto per i contratti di locazione passiva di immobili a uso istituzionale conclusi con la pubblica amministrazione. Dall’altro lato, l’art. 24 del d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla l.
23 giugno 2014, n. 89, ha disposto che tale riduzione dovesse operare con effetto retroattivo per tutti i corrispettivi dovuti sino dal luglio 2014.
Questa continua revisione peggiorativa si è unita a un aggravio di costi per l’impresa, aggravio riconducibile in parte agli oneri di urbanizzazione, anche in ragione della sopravvenienza di difficoltà nella realizzazione degli edifici, così che la prosecuzione dell’attività è divenuta non sostenibile sul piano economico. L’impresa ha agìto in giudizio prospettando anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 d.l. 95/2012, con riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 53 cost., e chiedendo la condanna dell’Agenzia delle entrate all’adempimento dell’obbligazione in origine prevista, con il pagamento della somma iniziale, comprensiva degli importi decurtati a partire dal luglio 2014.
In primo grado, la domanda è stata accolta e, di conseguenza, l’Agenzia è stata condannata a versare la maggiore somma richiesta. Il giudice ha considerato riassorbito il tema della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, attinente alla disciplina della riduzione dei corrispettivi. In merito all’identificazione della fattispecie, il negozio non è stato ricondotto alla mera locazione, ma è stato qualificato come contratto misto di locazione e appalto, in quanto compendiante anche una attività di realizzazione dell’opera, con conseguente disapplicazione del d.l. 95/2012.
La sentenza è stata riformata, avendo il giudice di appello ravvisato una locazione di cosa futura, così che si sarebbe dovuto avere riguardo alle sole norme sulla locazione stessa, tra cui quelle sul contenimento della spesa pubblica. E invero, secondo la pronuncia, l’interesse della pubblica amministrazione, ovvero la garanzia dell’equilibrio del bilancio assumono carattere prevalente sull’aspettativa del privato alla remunerazione della concessione in godimento del bene, ancorché non venuto a esistenza.
La Suprema Corte ha confermato la sentenza del giudice di secondo grado, assumendo che, “al fine di ricostruire l’intento empirico perseguito (…) e verificare se esso coincidesse con quello della locazione (…), ovvero con quello proprio dell’appalto (…), occorre partire dalla ricerca di mercato, intesa a sollecitare la presentazione di offerte per immobili, costruiti o da costruire, da adibire ad archivio”. Perciò, il negozio sarebbe stato da assoggettare alla disciplina della locazione, in quanto “già dal modo di porsi sul mercato con tale ricerca emerge che l’Agenzia delle entrate mirava ad acquisire il godimento di un immobile (…) tramite locazione (…) e non” considerava “l’attività realizzatrice propria di un appaltatore, perché il bene (…) avrebbe potuto essere indifferentemente già costruito o ancóra da costruire”. Il nomen iuris, come il richiamo
nelle clausole alla l. 27 luglio 1978, n. 392, hanno orientato a riportare l’intesa alla locazione, laddove una adeguata valorizzazione dell’attività richiesta avrebbe potuto fare propendere per una diversa soluzione.
2. La locazione di cosa futura
Non sussistono ostacoli alla stipulazione di un contratto di locazione di cosa futura [cfr. INZITARI, voce Locazione, in Enc. giur., XXI, Treccani, 1990, 5 ss.]. Posto che essa deve avere a oggetto un bene, mobile o immobile, purché suscettibile di un uso continuativo, questo può non esistere al momento della conclusione del negozio, in quanto ancóra da costruire [cfr. XXXXXXX, voce Locazione, in Dig. disc. priv. – Sez. civ., XI, Utet, 1994, 100 ss.]. Al riguardo, l’art. 1348 cod. civ. riconosce la possibilità di convenire quale oggetto di un accordo la prestazione di cose future, nel rispetto di quanto consentito dalla legge; perciò, è ammissibile la locazione di beni futuri [cfr. FUBINI, Il contratto di locazione di cose, Società editrice libraria, 1910, 204 ss.], non essendo rinvenibili divieti espressi per tale negozio, al contrario di altre fattispecie, come la donazione e la costituzione di ipoteca.
Piuttosto, è necessario interrogarsi sulla natura del contratto, poiché solo così si può determinare la relativa disciplina. In generale, la fattispecie non può essere ricondotta alla promessa di locazione, né a un accordo preliminare, fonte della reciproca obbligazione di stipulare quello definitivo [cfr. PROVERA, La locazione. Disposizioni generali, in Commentario del codice civile a cura di Xxxxxxxx e Branca, Xxxxxxxxxx, 1980, 104 ss.; cfr. ALIANELLO, Locazione di cosa futura, in Riv. giur. umbr. abruz., 1963, 1, 216 ss., ove si parla di locazione futura in termini di un contratto definitivo]. Sebbene l’oggetto non esista ancóra al momento della conclusione dell’intesa, quando sono presenti i requisiti di liceità, possibilità e determinabilità non sorgono dubbi in ordine alla deducibilità della res quale oggetto di un contratto.
L’accordo è immediatamente efficace, senza che possa essere considerato sottoposto alla condizione sospensiva della successiva realizzazione del bene [in questo senso, cfr. XXXXX, La locazione – conduzione, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Xxxx e Messineo, XXV, Xxxxxxx, 1972, 242 ss.]. Si profila l’applicazione analogica della disciplina sulla compravendita di cosa futura, regolata dall’art. 1472 cod. civ. Sebbene non sia possibile estendere le norme in materia di emptio spei, in quanto nella locazione di cosa futura non vi è incertezza sull’esecuzione delle prestazioni, così che il contratto - salvo che le parti abbiano stabilito diversamente concependo un meccanismo che renda incerta la prestazione o la sua consistenza - ha sempre natura commutativa e mai aleatoria [cfr. MIRABELLI, La locazione, in Trattato di diritto civile italiano a cura di Xxxxxxxx, VII, Utet, 1972, 17 ss.], nulla osta al richiamo della regolazione sulla emptio rei speratae. Quel che le parti deducono, infatti, è una prestazione futura, suscettibile di esecuzione per
l’opera di uno stipulante o di un terzo. Pertanto, quando essa abbia a oggetto un bene non ancóra esistente, la locazione è qualificabile, giusta l’opinione espressa in dottrina, come negozio a effetti tipici in parte sospesi [cfr. X. XXXXXXXXXXX, I negozi su beni futuri, Xxxxxx, 1962, 168 ss.], poiché la concessione del diritto di godimento è differita a un momento successivo, in quanto richiede la venuta a esistenza del bene. Già in occasione della stipulazione il contratto produce effetti rilevanti e compatibili con la natura in divenire del bene; infatti, da un lato, l’intesa vincola il locatore a compiere quanto necessario per la consegna della res, dall’altro, una volta in cui questa sia venuta a esistenza, obbliga il conduttore al pagamento del canone.
In contrasto con quanto accade per la emptio spei, il conduttore non accetta alcun rischio e, così, non è tenuto a versare il canone a prescindere dalla mancata ultimazione del bene. Pertanto, si pone il problema di stabilire che cosa accada nel caso in cui divenga impossibile la sua realizzazione. In questa ipotesi, sono due le plausibili conseguenze [cfr. XXXXX, La locazione, in Trattato di diritto privato a cura di Xxxxxxx, XIV, Xxxxxxxxxxxx, 2016, 47 ss.]. Ferma la nullità del contratto nell’eventualità di impossibilità iniziale di fatto o di diritto, se l’impedimento sia sopravvenuto nel corso dell’esecuzione opera l’art. 1465 cod. civ., ogniqualvolta si sia in presenza di impossibilità non imputabile. In caso contrario, il locatore andrà considerato inadempiente, con ogni relativa conseguenza.
3. La determinazione della disciplina applicabile a un contratto misto di locazione e appalto
A livello di classificazione, non è sempre possibile tracciare a priori una netta linea di demarcazione tra la nozione di contratto con causa mista e quella di negozio atipico [cfr. XXXXXXXXX, Il contratto e le sue classificazioni, in I contratti in generale a cura di Xxxxxxxxx, I, in Trattato dei contratti diretto da Xxxxxxxx, Utet, 1999, 42 ss.]. In linea di principio, il primo è il risultato della combinazione di clausole provenienti da altri accordi nominati, mentre il secondo presenta elementi di novità rispetto alle fattispecie regolate; tuttavia, tale distinzione non sempre coglie nel segno, in quanto pure negli accordi con causa mista è dato intravedere il tratto distintivo dell’atipicità, soprattutto se si ha riguardo sia all’unitarietà del regolamento consensuale così concepito, sia all’operazione economica sottesa [cfr. XXXXXXX XXXXXXX, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Morano, 1960, 219 ss.]. A maggiore ragione, questa conclusione si dimostra fondata nel caso di specie, in quanto, per curare gli interessi della pubblica amministrazione, non si è fatto ricorso ad alcun accordo tipico, ma a una combinazione di locazione e appalto, così da soddisfare molteplici interessi.
Questo pone un problema nella ricerca della disciplina applicabile. Poiché il contratto misto riunisce tratti discretivi di più schemi, quanto agli aspetti lasciati insoluti intervengono le norme specifiche delle diverse fattispecie coinvolte [cfr. GORGONI, Regole
generali e regole speciali nella disciplina del contratto, Xxxxxxxxxxxx, 2005, 173 ss.]. Nel caso di specie, il nodo da sciogliere consisteva nell’applicabilità o meno delle disposizioni speciali a contenimento della spesa pubblica, pensate per la sola locazione, a un contratto che, per quanto condividesse taluni caratteri riconducibili al medesimo genus, aveva una sua autonomia, poiché aveva per oggetto un bene esistente da costruire a opera del locatore. Ciò perché potrebbe apparire maggiormente affine con la figura dell’appalto.
Un primo approccio verso la soluzione del problema è rappresentato dalla cosiddetta teoria della prevalenza, secondo cui al contratto misto si applicherebbero le norme proprie del tipo individuato come carismatico [cfr. SICCHIERO, Il contratto con causa mista, Cedam, 1995, 47 ss.]. Quindi, occorrerebbe ricercare lo schema nel quale meglio ricondurre l’operazione economica, anche alla luce della comprensione della volontà in ordine alle prefissate finalità pratiche. Per esempio, la compravendita di un immobile non ancóra realizzato o da ristrutturare, con contestuale previsione dell’obbligazione del cedente di provvedere all’ultimazione, può soggiacere tanto alla disciplina della compravendita di cosa futura, quanto a quella della vendita di bene presente unita con l’appalto, a seconda del fatto che, nel sinallagma, tale attività edificatoria assuma una importanza predominante ovvero solo accessoria e strumentale al trasferimento della proprietà [x. Xxxx., 18 agosto 2021, n. 23110, in Dejure; Cass., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11656, in Corr. giur., 2008, 10, 1380, con nota di XXXXXXX e FIDONE, La giurisdizione in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione; rilevanza della distinzione tra appalto e vendita di cosa mobile futura].
La sentenza in esame è in linea con il criterio della prevalenza e, di conseguenza, cerca di stabilire di quale delle due fattispecie ricorrano in misura più significativa i caratteri. A questi fini, occorre comprendere quale sia l’elemento significativo a partire dal quale desumere il tipo negoziale predominante. In astratto, la locazione e l’appalto sono fattispecie non sovrapponibili, in quanto la prima ha per oggetto una obbligazione di dare, mentre la seconda si fonda sulla creazione di un opus. Tuttavia, nel caso dell’immobile da adibire ad archivio, la distinzione non è così netta, poiché l’inesistenza temporanea della res postula una attività strumentale positiva, che può essere concepita tanto come la prestazione principale dell’appaltatore, quanto come una accessoria del locatore. Perciò, non è agevole individuare un criterio che faccia ritrovare in modo netto il tipo assorbente. In materia di contratti misti di appalto e compravendita di cosa futura, la giurisprudenza ha attribuito rilievo a due elementi principali, ambedue ripresi e analizzati nella decisione in esame. In primo luogo, si è fatto leva su un aspetto di carattere oggettivo, cioè la natura dell’attività principale svolta [x. Xxxx., 20 aprile 2006, n. 9320, in Contratti, 2007, 1, 21, con nota di XXXXXXXXX, Vendita di cosa futura e appalto: criteri distintivi]. Perciò, il discrimine tra le due fattispecie dipenderebbe dall’attività prevalente in termini quantitativi, la realizzazione dell’opera oppure la fornitura di materiale.
Tuttavia, in questo contesto, non si sono ravvisati i presupposti per fare ricorso a questo orientamento, in quanto troppo incentrato sul tracciare la distinzione tra compravendita e appalto. Siccome, nel caso di specie, si discute per ricercare i confini tra due attività, ovvero l’edificazione e la concessione in godimento del bene, le quali si confondono nello svolgimento di una unica prestazione senza soluzione di continuità, diventa difficile attribuire a ciascuna una maggiore rilevanza quantitativa.
Una applicazione analogica del predetto criterio non tiene in considerazione la particolare natura del problema e la sentenza ha preferito avvicinarsi a un secondo orientamento, che ruota attorno alla ricerca dell’obbiettivo negoziale [x. Xxxx., sez. un., 31 ottobre 2008, n. 26298, in Mass. giur. it., 2008; Cass., sez. un., 19 novembre 2002, n.
16319, ibid., 2002; Cass., 2 agosto 2002, n. 11602, ibid., 2002]. Pertanto, il tipo fondamentale dovrebbe essere conforme all’intento empirico perseguito; con ciò non si deve fare riferimento all’opinione dei contraenti sulla qualificazione del loro rapporto. Infatti, l’effetto prodotto dal contratto è indipendente dalla rappresentazione dello stipulante, così che occorre avere riguardo all’operazione economica realizzata e, soprattutto, all’oggetto della prestazione caratteristica. Su queste basi, dal momento che il bene dedotto in contratto sarebbe stato preso in considerazione per il suo futuro godimento e non come mero frutto di una iniziativa costruttiva, la disciplina sarebbe dovuta riconfluire in quella della locazione di cosa futura, secondo la decisione della Suprema Corte.
Si individua la regolazione rilevante; anziché interrogarsi sulla configurazione dell’operazione, con un ragionamento eziologico si preferisce esaminare le ragioni per cui le parti abbiano configurato il loro assetto di interessi con un contratto misto. Tuttavia, simile argomentazione rischia di essere riduttiva, in quanto non coglie le sfumature derivanti dall’unione di più tipi negoziali. Infatti, la teoria della prevalenza è corollario dell’impostazione giurisprudenziale tradizionale, fedele alla cosiddetta cultura livellatrice del tipo [in questi termini, cfr. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Cedam, 1974, 13 ss.]. La qualificazione sarebbe guidata da una sorta di finalismo [cfr. SACCO, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, 3, 800 ss.] e, pertanto, ogni manifestazione di esercizio dell’autonomia dovrebbe essere ricondotta nelle maglie del modello legale più vicino, così che sia possibile farne discendere gli effetti. Di conseguenza, al contratto misto si estenderebbero solo le norme del tipo prevalente, con la totale, mancata applicazione di quelle del negozio accessorio.
Talvolta non è dato riscontrare un simile nesso, in particolare qualora gli elementi discretivi di ciascun tipo coesistano su un piano di equiordinazione e contribuiscano a dare vita a un contratto sui generis, caratterizzato da una sua causa e da effetti distintivi propri [cfr. DE NOVA, Frazionamento e aggregazione nei contratti alla luce del diritto comunitario, in Contratti, 1995, 1, 107 ss.]. Per esempio, ciò accade con l’accordo di logistica, nella cui struttura si rintracciano frammenti di altri negozi tipici, ovvero del
trasporto, del deposito e dell’appalto [cfr. XXXXX, Il contratto di logistica, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 5, 1113 ss.].
In questi casi, gli interessi che conformano la ragione di essere del regolamento hanno una connotazione originale, così che, anche avuto riguardo all’obbiettivo perseguito, non esiste alcun modello prevalente, perché nessuno di quelli coinvolti è in grado da solo di esaurire la disciplina dell’operazione congegnata, ma soltanto la loro commistione dà ragione dell’effettiva volontà. Pertanto, spesso il criterio dell’assorbimento è artificioso e ne occorre uno diverso, ovvero quello della combinazione [cfr. X. X. XXXXX, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Xxxxxxx, 1966, 353 ss.].
In questo senso, se le parti non fanno ricorso a un unico modello, ma a un regolamento composto da clausole riconducibili a diversi tipi, non è ragionevole stravolgere i tratti identitari dell’accordo e sottoporlo a una sola disciplina; piuttosto, l’intera operazione si articola in più prestazioni e per ciascuna interviene la regolazione coerente con l’interesse che la giustifichi [cfr. XXXXX, Il contratto di logistica, cit., 1122 ss.]. Questa impostazione è fedele a una qualificazione teleologica del negozio e considera il contratto misto nella sua unitarietà e non come mero tramite per la sussunzione di accordi atipici in una delle discipline legali [cfr. XXXXXX, Classe, concetto e tipo nel percorso per l’individuazione del diritto applicabile ai contratti atipici, Giappichelli, 2008, 6 ss.].
Soprattutto, in questo contesto, un simile approccio coglie nel segno. Infatti, gli obbiettivi prefissati dai contraenti sono diversi, ma l’attività richiesta all’impresa si palesa come fenomeno unitario, in quanto la componente edificatoria ha luogo in funzione della futura concessione in godimento dell’immobile e, a sua volta, questa trova il suo antecedente logico nella prima operazione. La causa del negozio non si compone di fattispecie dai confini marcati, ma, piuttosto, di un susseguirsi di azioni senza soluzione di continuità. Perciò, non è plausibile l’individuazione aprioristica di una sola disciplina cui ricondurre la regolazione del complessivo schema causale. Siccome i tratti discretivi delle due figure negoziali si confondono, è necessario valutare per ciascun frammento dell’attività svolta di quale delle due figure contrattuali essa risulti espressione.
4. L’inapplicabilità della disciplina pubblica di limitazione del canone di
locazione a un contratto misto di locazione e appalto
La teoria della combinazione consente di individuare meglio la disciplina applicabile al caso di specie. A tale riguardo, non è convincente il ragionamento della Suprema Corte, che fa leva sulla mera ricerca del tipo prevalente. Infatti, nella decisione non si rinvengono aperture verso una coesistenza dei modelli regolativi, ma si propone un confronto, al fine di valutare in quale dei due sussumere l’intesa. In particolare, sulla scorta della giurisprudenza europea [v. X. xxxxx., 10 luglio 2014, C. – 213/13, in Giorn. dir. amm.,
2015, 1, 122, con nota di XXXXX, La locazione di cosa futura e l’intangibilità del giudicato nazionale nel diritto europeo], un contratto avente per oggetto la costruzione di un bene immobile secondo le esigenze della pubblica amministrazione, a prescindere dalla sua futura locazione, è soggetto alla disciplina dell’appalto se gli obbiettivi del negozio si esauriscono nelle attività di progettazione e di esecuzione. Proprio per questa ragione, secondo la sentenza, è stata esclusa la qualificazione del contratto come appalto, in quanto, altrimenti, sarebbe stato nullo per la mancata osservanza delle norme sul procedimento di aggiudicazione, posto che l’esecutore non era stato individuato a seguito di una gara.
Tuttavia, come l’intesa non è riconducibile in pieno all’appalto, allo stesso modo non può essere sussunta nella locazione di cosa futura. Se, come argomenta la Suprema Corte, non sono incompatibili con tale fattispecie clausole caratteristiche dell’appalto, come la previsione di un termine finale per l’ultimazione dell’opera, oppure la regolazione della corresponsione di acconti in corso di esecuzione, per converso, in loro presenza, non è dato escludere che si possa ravvisare un appalto, poiché tale elemento può ricorrere in un contratto con causa mista [cfr. XXXXXXX e FIDONE, La giurisdizione in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, cit., 1393 ss.]. Infatti, avuto riguardo al modo in cui è stata convenuta l’esecuzione, non è possibile individuare un nesso di strumentalità tra le prestazioni e, in particolare, la realizzazione dell’immobile non era un mero presupposto del successivo godimento da parte della pubblica amministrazione.
Le due attività erano consecutive, ma equiordinate sul piano causale; in modo inevitabile, quella edificatoria deve precedere l’altrui godimento, ma la prima non si esaurisce nel garantire la successiva disponibilità del bene, poiché non deve essere locato un immobile qualunque. In altre parole, se, come detto in materia di locazione di scopo [cfr. CUFFARO, La locazione di scopo, in Prospettive e limiti dell’autonomia privata. Studi in onore di Xxxxxxx Xx Xxxx a cura di XXXXX, DELFINI e MAFFEIS, II, Xxxxxxx, 2015, 841 ss.], per la qualificazione del contratto atipico è necessaria la corretta comprensione della causa in concreto, nel caso di specie la funzione economico - individuale è la concessione in locazione di un bene specifico, realizzato sulla base delle esigenze dell’Agenzia, così che entrambi i tipi concorrono in una posizione di parità nel definire l’operazione.
Allo stesso modo, il corrispettivo riflette questa duplice natura della causa, poiché deve essere imputato non solo a titolo di canone per la futura locazione, ma anche - e soprattutto - come compenso per la sua edificazione. Pertanto, alla luce del criterio della combinazione, per la determinazione del corrispettivo è ragionevole rinviare non alla disciplina della locazione, ma, in primo luogo, a quella dell’appalto, in ragione dell’effettivo rischio sopportato. Di conseguenza, non convince la posizione della Suprema Corte; con rinvio a una decisione recente [x. Xxxx., 15 marzo 2018, n. 6389, in Dejure], per la sentenza in esame la qualificazione del negozio sarebbe irrilevante ai fini dell’operare della normativa di diritto pubblico, in quanto “quel che il legislatore persegue
non è (…) l’interesse di chi è parte del contratto (…), bensì il contenimento della spesa (…), a prescindere dalla natura della fonte di disponibilità fattuale del bene”. Invece, il quantum dovuto dall’amministrazione deve essere determinato in considerazione dell’obbiettivo di riequilibrio del bilancio, ma non sempre ciò si può risolvere in una decurtazione automatica del compenso, grazie a una applicazione delle norme sulla locazione passiva. Infatti, la riduzione della spesa deve essere ottenuta secondo il criterio più confacente a ciascuna fattispecie, in considerazione di tutti gli interessi concretamente perseguiti e alla luce dell’operazione economica congegnata.
Peraltro, una riduzione del corrispettivo sarebbe stata immaginabile, ma, quanto meno, a seguito di una valutazione analitica dei costi di edificazione, posto che occorre una attività organizzativa significativa, con oneri e rischi da considerare anche nella prospettiva del riequilibrio del bilancio pubblico. Nel caso di specie, l’unità del compenso impediva di distinguere il canone relativo all’uso dalla remunerazione per l’edificazione. La sentenza ha inciso sulla prestazione del conduttore, concepita come unitaria e, quindi, funzionale anche a dare ristoro agli oneri di costruzione. Ciò è iniquo, perché non inerivano ad alcun rapporto locatizio. Se l’immobile fosse stato realizzato con un aggravio delle spese, comprese quelle imprevedibili dovute all’organizzazione dei mezzi produttivi, esse avrebbero dovuto trovare una loro contropartita nel compenso pattuito. Dunque, questo non può essere compresso da norme a presidio di interessi generali estranei al sinallagma contrattuale e in contrasto con la sua piena attuazione. Se la disciplina di contenimento del corrispettivo non si applica alla locazione di cosa futura, come appare preferibile, il problema è da risolvere in senso opposto. In questo caso, l’interesse del privato deve prevalere su quello della pubblica amministrazione e il compenso deve essere di ammontare tale da consentire di fare fronte a tutte le spese di costruzione, anche a quelle sopravvenute, mentre ogni riduzione deve avvenire previa specifica contrattazione.
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