ARTICOLO 1 CODICE APPALTI - D. Lgs. 163/2006:
ARTICOLO 1 CODICE APPALTI - D. Lgs. 163/2006:
IL CONTRATTO DI APPALTO PUBBLICO, IN PARTICOLARE LA QUESTIONE DELLE SOCIETA’ IN HOUSE
A cura di Xxxxxxxx Xxxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxx
Premessa
La Pubblica Amministrazione, nell’esercizio della sua azione, si avvale non solo degli strumenti giuridici propri del diritto pubblico, ma si serve anche dei mezzi propri del diritto privato. In passato, infatti, si era soliti ritenere che questi ultimi fossero inidonei al conseguimento dei fini che caratterizzano una P. A., in quanto incapaci di soddisfare gli interessi della collettività, dato che nel diritto privato si trovano mezzi, strumenti, contratti e atti idonei a perseguire un interesse privatistico.
In realtà, solo grazie ad una evoluzione normativa e giurisprudenziale, si è potuto riconoscere in capo alla Pubblica amministrazione un’autonomia privata di diritto privato, in modo tale da perseguire un interesse pubblico tramite gli strumenti negoziali privatistici. Il riconoscimento di tale autonomia, da un punto di vista normativo, si ha con l’art. 1 comma 1-bis della l. n. 241 del 1990 così come è stata modificata dalla l. n. 15 del 2005. Il suddetto articolo sancisce che: La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. Dalla lettura della norma, pertanto, si evince il principio secondo cui la P.A., utilizza gli strumenti privatistici come alternativa generale all’esercizio del potere pubblico finalizzato al soddisfacimento del bene collettivo e pubblico. Chiarita tale premessa, i contratti che la P.A., nell’esercizio della sua autonomia negoziale, è legittimata a stipulare sono vari. Vi sono i contratti ordinari di diritto comune, disciplinati, appunto, dal codice civile; ma anche i contratti speciali di diritto privato, regolati dalle norme privatistiche di specie. Particolare rilievo hanno poi i c.d. “contratti ad oggetto pubblico”, questi, nascono da un intreccio fra contratto e provvedimento nell’ambito di settori aventi rilievo pubblico. Infine, un’ultima differenziazione va fatta tra i contratti attivi e quelli passivi. La distinzione tra questi due tipi è semplice: mentre i primi comportano un’entrata per l’Amministrazione, i secondi, invece,
sono produttivi di spese per la P.A., al fine di garantire beni e servizi. Un classico esempio di questi contratti è l’appalto.
Nel nostro ordinamento, però, troviamo una duplice figura di appalto. La prima è disciplinata dall’art. 1655 c.c, il quale cita testualmente: L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.1 In seno al codice civile, pertanto, viene accolta una nozione oggettiva di appalto, in quanto, quest’ultimo deve riguardare il compimento di un’opera o di un servizio. Ma vi è di più, infatti, dalla lettera della norma si evince una delimitazione di tipo soggettivo, dato che l’appaltatore deve essere un soggetto dotato di una propria organizzazione economica. La seconda figura di appalto, invece, è quella pubblica Questo è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso corrispettivo di danaro.
I caratteri salienti del contratto d’appalto sono:
1) l’incontro delle volontà del committente e dell’appaltatore, cioè di colui che professionalmente esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 c.c.);
2) la idonea organizzazione dei mezzi da disporre per soddisfare l’impegno contrattuale;
3) il rischio dell’imprenditore;
4) il pagamento da parte del committente della prestazione effettuata dall’appaltatore.
Pertanto, l’appalto pubblico è finalizzato alla scelta dell’impresa ritenuta la più capace, sotto l’aspetto tecnico, a realizzare l’opera pubblica alle condizioni più vantaggiose per l’Ente committente. L’appalto può riguardare un’opera pubblica, una pubblica fornitura o un pubblico servizio. Questo, infatti, ha ad oggetto la realizzazione di lavori, la prestazione dei servizi, nonché la fornitura di beni. Tale definizione di appalto, è anche quella che viene recepita dal diritto comunitario, il quale, fa girare la disciplina degli appalti intorno alla tricotomia servizi, lavori e forniture, stabilita dalle direttive 92/50, 93/37 e 93/36.
L’art. 1 del Codice appalti
Nel nostro ordinamento, la materia degli appalti è disciplinata dal D. Lgs. 163/2006. La norma di apertura del Codice appalti indica sotto il profilo soggettivo, i soggetti dell’ordinamento tenuti 1 Sul contratto di appalto privato si tornerà con separata trattazione – xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
all’applicazione della disciplina in essa contenuta e sotto il profilo oggettivo, i contratti ai quali essa deve applicarsi.
Nello specifico, l’art. 1 sancisce che: 1. Il presente codice disciplina i contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere. 1-bis. Il presente codice si applica ai contratti pubblici aggiudicati nei settori della difesa e della sicurezza, ad eccezione dei contratti cui si applica il decreto di attuazione della direttiva 2009/81/CE e dei contratti di cui all'articolo 6 dello stesso decreto legislativo di attuazione. 2. Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un'opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica.2
L’articolo in questione esterna i proprio effetti quindi su un duplice piano: soggettivo e oggettivo. Sul piano soggettivo, l’art 1 detta quali sono le categorie di soggetti legittimate a stipulare un contratto di appalto pubblico. La lettera dell’articolo, nella prima parte del primo comma sancisce che soggetti legittimati a stipulare un contratto di appalto pubblico sono le “stazioni appaltanti”. Si tratta di un concetto molto ampio, il quale, non trova una definizione in seno al Codice.
A dimostrazione della portate estensiva di tale concetto, vengono ricomprese, all’interno del concetto di “stazioni appaltanti” sia gli enti che i soggetti aggiudicatori. 3
Un’altra categoria di soggetti che rientrano nel ampio concetto di stazione appaltante riguarda coloro che vengono definiti come: “altri soggetti aggiudicatori”. Questi vengono identificati come soggetti privati che sono soggetti alle norme del Codice degli Appalti pubblici e che costituiscono, pertanto, stazioni appaltanti. 4
La seconda parte del 1 comma dell’art.1 del Codice del Consumo, determina che i contratti di appalto hanno “per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Si è già chiarito che cosa si intenda per contratto di “appalto pubblico; ora è opportuno, invece, indicare quali siamo le differenze sostanziali tra i contratti di appalto di “opera”, di “servizi” e di “forniture”.
Non si può trascurare l’obbligo di individuare, nell’ambito del regime giuridico di tali contratti il significato attribuito dal legislatore alla “nozione di appalto pubblico di forniture e/o servizi” in contrapposizione a quello di appalto di opere pubbliche al fine di stabilire il contenuto intrinseco ed evitare confusioni concettuali. Infatti, l’oggetto di un appalto è determinato in modo elastico
comprendendo qualsiasi opera o servizio o fornitura. Nel nostro diritto positivo l’intitolazione di una legge ha proprio compito di delimitare il campo d’azione ed il settore in cui le singole norme in essa contenute sono destinate ad operare. Così, se la legge è concepita con riferimento agli “appalti di opere pubbliche” tutte le disposizioni in essa contenute, sono destinate ad operare, in via di principio, solo in quell’ambito. Non si può operare una commissione per le varie discipline ma si deve operare una scelta a seconda del tipo di contratto. Il criterio adottato dal legislatore nazionale, espresso in una netta divisione fra le normative dei lavori, forniture e servizi, è di derivazione
3 L’ elencazione, tuttavia, è molto ampia ed è contenuta nell’art. 32 del Codice degli Appalti, il quale a sua volta, riproduce, con i giusti adeguamenti al diritto comunitario, sia l’art. 2 della l. n. 109/1994, sia gli articoli sulle amministrazioni aggiudicatrici contenute nel X.X.xx n. 358/1992 e nel X.X.xx n. 157/1995. Nello specifico, quindi, l’art. 32 disciplina che: 1. Salvo quanto dispongono il comma 2 e il comma 3, le norme del presente titolo, nonché quelle della parte I, IV e V, si applicano in relazione ai seguenti contratti, di importo pari o superiore alle soglie di cui all'art. 28: a) lavori, servizi, forniture, affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici; b) appalti di lavori pubblici affidati dai concessionari di lavori pubblici che non sono amministrazioni aggiudicatrici, nei limiti stabiliti dall'art. 142; c) lavori, servizi, forniture affidati dalle società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali; d) lavori, affidati da soggetti privati, di cui all'allegato I, nonché lavori di edilizia relativi ad ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici e universitari, edifici destinati a funzioni pubbliche amministrative, di importo superiore a un milione di euro, per la cui realizzazione sia previsto, da parte dei soggetti di cui alla lettera a), un contributo diretto e specifico, in conto interessi o in conto capitale che, attualizzato, superi il 50 per cento dell'importo dei lavori; e) appalti di servizi, affidati da soggetti privati, relativamente ai servizi il cui valore stimato, al netto dell'I.V.A., sia pari o superiore a 200.000 euro, ( 1) allorché tali appalti sono connessi ad un appalto di lavori di cui alla lettera d) del presente comma, e per i quali sia previsto, da parte dei soggetti di cui alla lettera a), un contributo diretto e specifico, in conto interessi o in conto capitale che, attualizzato, superi il 50 per cento dell'importo dei servizi; f) lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell'amministrazione aggiudicatrice; g) lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'art. 16, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dell'art. 28, comma 5, della legge 17 agosto 1942, n. 1150. L'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l'avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all'amministrazione stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l'indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto. L'amministrazione, sulla base del progetto preliminare, indice una gara con le modalità previste dall'art. 55. Oggetto del contratto, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori. L'offerta relativa al prezzo indica distintamente il corrispettivo richiesto per la progettazione definitiva ed esecutiva, per l'esecuzione dei lavori e per gli oneri di sicurezza; h) lavori, servizi forniture affidati dagli enti aggiudicatori di cui all'art. 207, qualora, ai sensi dell'art. 214, devono trovare applicazione le disposizioni della parte II anziché quelle della parte III del presente codice. 2. Ai soggetti di cui al comma 1, lettere d), e), f), g) non si applicano gli articoli 63; 78, comma 2; 90, comma 6; 92; 128; in relazione alla fase di esecuzione del contratto si applicano solo le norme che disciplinano il collaudo. Ai soggetti di cui al comma 1, lettere c) ed h), non si applicano gli articoli 78, comma 2; 90, comma 6; 92; 128; in relazione alla fase di esecuzione del contratto si applicano solo le norme che disciplinano il collaudo. 3. Le società di cui al comma 1, lettera
c) non sono tenute ad applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione dell'opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le seguenti condizioni: 1) la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica; 2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita; 3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell'opera o del servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo. 4. Il provvedimento che concede il contributo di cui alle lettere d) ed e) del comma 1 deve porre come condizione il rispetto, da parte del soggetto beneficiario, delle norme del presente codice. Fatto salvo quanto previsto dalle eventuali leggi che prevedono le sovvenzioni, il cinquanta per cento delle stesse può essere erogato solo dopo l'avvenuto affidamento
comunitaria. Per opera pubblica deve intendersi “una modificazione, una distruzione, una costruzione, un restauro, una riforestazione, una ricostruzione paesaggistica che, nella grandissima maggioranza dei casi, ha come risultato la costruzione, modificazione e distruzione di cose immobili.5
Se sulla materia del contratto di lavoro pubblico la dottrina e la giurisprudenza pervengono alle medesime conclusioni, di diverso tenore è il problema relativo alla natura del contratto di pubblica fornitura.
dell'appalto, previa verifica, da parte del sovvenzionatore, che la procedura di affidamento si è svolta nel rispetto del presente codice. Il mancato rispetto del presente codice costituisce causa di decadenza dal contributo
Dall’elenco contenuto nell’art. 32, quindi, si può desumere come nel concetto di stazione appaltante vengono ricomprese sia le amministrazioni aggiudicatrici che i soggetti privati che si sono aggiudicati l’appalto e che sono tenuti ad ottemperare al Codice degli Appalti. Da un punto di vista soggettivo, poi, è opportuno soffermare la nostra attenzione sulle amministrazioni aggiudicatrici di un appalto. Il comma 25 dell’art. 3, infatti, specifica che: 25. Le "amministrazioni aggiudicatrici" sono: le amministrazioni dello Stato; gli enti pubblici territoriali; gli altri enti pubblici non economici; gli organismi di diritto pubblico; le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.
4 Infatti l’art. 32 comma 1 lett d)integra il disposto dell’art. 3 comma 31, identificando gli “altri soggetti aggiudicatori” sotto un profilo oggettivo, ossia come soggetti privati a cui vengono affidati lavori ricompresi nell’Allegato I del Codice e, quindi, lavori concernenti ospedali, impianti sportivi e ricreativi per il tempo libero, edifici scolastici e universitari, edifici destinati a funzioni pubbliche amministrative, di importo superiore ad un milione di euro, per la cui realizzazione sia previsto per i soggetti di cui alla lettera a) un contributo diretto e specifico, in conto interessi o in conto capitale, che attualizzato superi il 50% dell’importo dei lavori. I maggiori problemi interpretativi, tuttavia, sono sorti sul concetto di organismo di diritto pubblico, il quale rientra nel genus dell’amministrazione aggiudicatrice. Per organismo di diritto pubblico si intende un qualsiasi organismo, organizzato anche in forma societaria che:
1) Sia istituito per soddisfare appositamente esigenze di interesse generale, che non presentino i caratteri della commerciabilità;
2) Sia dotato di personalità giuridica;
3) La cui attività sia maggiormente dallo Stato o dagli Enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure, la gestione di detto organismo sia soggetta al controllo di uno di questi enti, o ancora, che il consiglio di direzione e vigilanza o di amministrazione sia composto da membri la cui metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altro organismo di diritto pubblico.
Queste sono le caratteristiche principali di un organismo di diritto pubblico. Peculiarità che sono descritti in modo esaustivo dall’art. 3 comma 26 del Codice degli Appalti.
La definizione data dall’art. 3 c. 26 del Codice, ricalca quella data dal diritto comunitario, nella direttiva 2004/17, ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. a) e della direttiva 2004/18, ex art. 1 comma 9, che a sua volta deriva da una direttiva precedente, la n. 89/4407CEE, ai sensi dell’art. 1 lett. b), sugli appalti di lavori pubblici, poi trasfusa nella direttiva 93/37/CEE, quest’ultima, venne poi ripresa dal X.X.xx n, 406/1991, ex art. 3 e, infine, nella direttiva 92/50, riguardante gli appalti pubblici di servizi. È facile intuire come l’espressione organismo di diritto pubblico deriva dal diritto comunitario, il quale si era preoccupato di superare la nozione di “ente pubblico” fatta propria dalla giurisprudenza e dalla dottrina italiana, il cui fine ultimo era quello di applicare la disciplina in tema di contrattazione tramite una valorizzazione a 360 gradi del concetto di stazione aggiudicatrice. La dottrina, soprattutto Chiti, sottolinea come la nozione comunitaria è molto ampia e comprende sia soggetti privati e sia pubblici, che vengono individuati secondo criteri sostanziali che rispondono alle esigenze di una maggiore tutela del mercato in ambito europeo.
Quanto ai tre caratteri, la giurisprudenza comunitaria, ha sottolineato come questi devono essere tutti e tre compresenti, e non possono considerarsi alternativi gli uni con gli altri, va da sé che in caso di aggiudicazione di un appalto pubblico ad un organismo che si ritiene di diritto pubblico, ma manca di uno dei requisiti necessari, lo stesso appalto verrà revocato, o meglio ancora l’organismo sarà estromesso dalla gara ad evidenza pubblica. E’ necessario, tuttavia, chiarire la portata dei tre elementi che costituiscono un organismo di diritto pubblico. Il primo carattere che deve avere un organismo per essere definito di diritto pubblico è che quest’ultimo deve soddisfare interessi generali e non deve
La circolare del Ministero di Grazia e Giustizia 8 giugno 1983 n. 1/2439, afferma che “il contratto di fornitura può di volta in volta, essere assimilato ad un contratto di somministrazione o ad un contratto di vendita in cui la prestazione può essere in un’unica soluzione o frazionata per cui, in quest’ultimo caso, si ha un contratto di compravendita e consegne ripartite. Può essere assimilato ad un contratto di appalto”.
Xxxxx stesso tenore è l’orientamento seguito in giurisprudenza6 .
Pertanto il tipo di contratto va, dunque, ricercato di volta in volta, avendo riguardo alla “prestazione” in esso dedotta.
Nel caso che la prestazione “sia di dare” si ha la specie fornitura-compravendita o fornitura- somministrazione” a seconda delle modalità della consegna della cosa. Si ha la fornitura- compravendita quando la prestazione può essere in unica soluzione o anche frazionata, ma tale frazionamento ha luogo, in ogni caso, in sede di esecuzione e non di formazione del contratto.
presentare i caratteri della commerciabilità. Sul punto, è opportuno sottolineare come la Corte di Giustizia ha differenziato gli interessi generali aventi carattere industriale e commerciale, da quelli che non ne hanno. I bisogni non aventi caratteri non commerciale o non industriale, sono quelli che vengono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni e servizi sul mercato, e sono quei bisogni che lo Stato preferisce soddisfare o direttamente o attraverso l’ausilio di altri soggetti nei confronti dei quali intende mantenere una notevole influenza. Al fine di accertare la sussistenza o meno del requisito in esame, occorre, pertanto, dapprima verificare se l’attività dell’ente soddisfi effettivamente bisogni di interesse generale e, successivamente, determinare se tali bisogni abbiano o meno carattere commerciale o industriale. L’esistenza o meno di un bisogno di interesse generale deve essere valutata tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali, per esempio, le circostanza che hanno presieduto alla creazione dell’organismo. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizie Europea, pertanto, per determinare se un interesse abbia carattere generale, industriale o commerciale, si possono utilizzare vari parametri. Uno di questi, per esempio, può essere la presenza o meno di un esercizio in regime di concorrenza. Ma tale carattere presenta un’attenuazione di non poco conto. Infatti la Corte sostiene che non è necessario che l’organismo svolga attività volte a soddisfare l’interesse generale in via esclusiva o prevalente. Tale apertura, infatti, comporta che tale ente può essere considerato di diritto pubblico anche se svolge attività lucrativa, anche in modo secondario, purché, correlativamente a questa ponga in essere quelle attività che soddisfino interessi generali. Quanto al finanziamento dell’attività dell’ente da parte dello Stato o da altro ente territoriale, la Corte di Giustizia ha ritenuto che il finanziamento può avvenire anche in modo indiretto in favore di detto ente, per esempio, mediante l’imposizione di un pagamento di un canone ad opera degli utenti. Classico esempio di ciò sono i sistemi di radiodiffusione. La giurisprudenza italiana, tuttavia, non è rimasta inerte, e si è occupata dei problemi che derivano dalla nozione di organismo di diritto pubblico e dei caratteri imprescindibili che esso deve avere. Ma essa si è occupata prevalentemente di due problemi:
1)la possibilità di qualificare come organismo di diritto pubblico enti a forma societaria con partecipazione totale o parziale di un ente pubblico;
2)se vi sono margini di riconoscere come organismo di diritto pubblico enti che svolgono attività sia privata che pubblica. La prima questione è stata risolta in senso affermativo. Infatti una società per azioni a partecipazione pubblica può avere la veste di organismo di diritto pubblico, ma è necessario che la veste societaria sia neutrale. Infatti, si sostiene che la veste societaria non sia un elemento impeditivo per essere considerato organismo di diritto pubblico. Per quel che concerne, infine, la seconda questione, anche qui la giurisprudenza amministrativa è orientata a riconoscere anche all’organismo che svolge attività privata, la qualifica di organismo. Ciò è dovuto all’ovvia conclusione che un organismo rimane tale indipendentemente se sia pubblico o privato. Quello che conta è che quest’ultimo abbia i requisiti di legge per essere considerato un organismo di diritto pubblico.
5 M.S. Xxxxxxxx Diritto pubblico dell’economia 6 Consiglio di Stato 01.03.1990 n.342.
Si ha la fornitura-somministrazione quando la prestazione avviene con carattere di periodicità o continuità. Non è concepibile una prestazione unica. Nel caso in cui la prestazione dedotta su contratto “sia di fare” si ha la specie “fornitura – appalto”.
L’appalto di servizi rispetto a quello di opere è caratterizzato dal fatto che entrambi possiedono gli elementi tipici del contratto di appalto e cioè il “facere” ed il “risultato”, ma si distinguono in quanto nei servizi la promessa di un risultato ben definito, oggetto della prestazione, è una utilità che soddisfa l’interesse della P.A. senza la trasformazione della materia; mentre nell’appalto di opera il risultato consiste tipicamente nella produzione di un bene materiale ottenuto a seguito dell’elaborazione della materia da parte dell’appaltatore. A sua volta, l’appalto di servizi, in considerazione del fatto che il contenuto della prestazione è un “facere” si distingue dal contratto di somministrazione che ha per oggetto un “dare”.
L’appalto di servizi presentandosi come una utilità che soddisfa l’interesse della P.A. senza la trasformazione della materia, prende significato in relazione alla sua capacità di rispondere ai bisogni soggettivi, e, pertanto, gli elementi qualificanti del sistema dei rapporti fra la P.A. ed il prestatore di servizi sono caratterizzati dalla flessibilità del servizio offerto, dalla variabilità del prezzo e la sua relativa indipendenza del fattore costo, dalla componente fiduciaria che la P.A. esprime nei confronti di una e non altre offerte, e la variabilità del servizio offerto. Il contratto di servizi è, quindi, riconducibile ad una qualsiasi utilità con contenuto economico costituente un risultato (un quid) ottenuto da una attività di lavoro. Nel servizio è negoziata non una cosa ma una attività volta ad un risultato utile per il committente e che richiede un’attrezzatura tecnica ed un apparato organizzativo.
L’estensione del Codice alle società miste
Un tema particolarmente importante e spinoso che ha fatto nascere numerosi interrogativi è quello delle società miste. Per società “miste” s’intendono, in generale, quelle con presenza nel capitale sociale sia di soggetti pubblici che di soggetti privati Queste sono disciplinate dal 2 comma dell’art. 1 del Codice dei contratti pubblici, il quale, però, a fronte di un’apertura verso questo tipo di società nell’amministrare la cosa pubblica, nella seconda parte del 2 comma dell’art.1 del Codice degli appalti, si evince un contemperamento, in quanto la scelta del contraente privato deve avvenire sempre mediante una gara ad evidenza pubblica. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ha ritenuto necessario lo svolgimento di una gara pubblica per la scelta del socio privato nel procedimento di costituzione di tutte le società miste (a capitale pubblico di minoranza, come
previsto dalla legge, o di maggioranza)7. Cadendo la scelta del socio tendenzialmente su di un imprenditore, dotato di requisiti tecnico – finanziari e strutturali, risulta coerente con i principi generali in tema di buona amministrazione l’espletamento di un giudizio comparativo tramite le regole dell’evidenza pubblica, al fine di assicurare la migliore funzionalità del servizio stesso8. Tali regole si applicano anche laddove si tratta di socio finanziario, il quale è privo di requisiti tecnici o organizzativi inerenti la gestione del servizio stesso; ciò in conformità ai principi di trasparenza, imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione, nella specie consistenti nella scelta di un soggetto capace di pagare il prezzo più vantaggioso per l’ingresso nella compagine sociale.
La mancanza della fase concorsuale nell’individuazione della società affidataria si riteneva, dunque, compensata, nel rispetto dei valori della concorrenza e della par condicio, proprio dall’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica per la scelta del socio privato9. E’ rimasta, quindi, minoritaria la tesi secondo cui le regole dell’evidenza pubblica possono essere imposte solo con riferimento ai contratti di scambio, e non anche ai contratti associativi, tra i quali quelli societari; in cui assumerebbe valenza determinante, non già la minore o maggiore convenienza, quanto l’aspetto fiduciario della scelta dei partners.
Ciò risponde ad esigenze sia di imparzialità che di conoscibilità da parte dei cittadini, dei soggetti privati che fanno parte di una società che eroga un servizio pubblico o costruisce un’opera, a seguito di un appalto pubblico. Il modello delle società miste, però, porta con sé, come detto precedentemente, numerosi problemi. Il fenomeno è assai diffuso nel nostro Paese tanto negli ambiti statali e regionali quanto nell’area degli enti locali. Le società “miste” sono state “legittimate” anche per la gestione dei servizi pubblici locali con la legge 8 giugno 1990 n. 142 che prevede , dopo la forma di gestione in economia, a mezzo di azienda speciale e della istituzione, la società per azioni a prevalente capitale pubblico locale qualora si renda opportuno in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati (articolo 22 comma 3 lettera e). Le società miste della Legge 142 potevano essere solo S.p.A. e solo a maggioranza pubblica locale. Con successivi interventi giurisprudenziali e normativi ( tra i quali assume particolare rilievo la legge 23.12. 1992 n ° 498) venne ammessa anche la società con partecipazione minoritaria dell’ente locale come pure la società a responsabilità limitata. Veniva previsto che queste società potessero oltre che gestire servizi pubblici, realizzare infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico. Veniva nel frattempo chiarito da dottrina e giurisprudenza che tra
7 Cons. Stato, sez. V: 3 settembre 2001, n. 4586, in Cons. Stato, 2001, I, 1949; 19 febbraio 1998, n. 192, in Giur. it.,
1999, 1267.
8 Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 1998, n. 435, in Giur. it., 1998, 1945.
9Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2002, n. 917, in questa Rivista, 2002, 417
l’ente locale e la società mista non si stabiliva un rapporto di concessione, del tipo previsto alla lettera b) del citato articolo 22, comma 3 ed affidato di regola a seguito di confronto concorrenziale, ma si era in presenza di affidamento diretto, come per le aziende speciali, regolato attraverso il cosiddetto “contratto di servizio” . Circa il socio privato nulla stabiliva la legge 142/90 né in merito alle caratteristiche né circa le modalità di scelta salvo, ovviamente, l’obbligo di “motivazione” come per tutti gli atti amministrativi. Quindi nella prassi come partner di Enti locali sono entrati imprenditori del settore, ma anche istituti finanziari. La legge 498 / 92 sopra citata relativa alle “minoritarie” affidava l’attuazione ad un regolamento approvato con notevole ritardo, con DPR 16 settembre 1996 n° 533. Nell’anno 1997 con la legge 15 maggio n 127 (cosiddetta Bassanini bis) si avvia un preciso percorso di “privatizzazione” formale delle aziende speciali (trasformate in società di capitali). L’ente locale poteva infatti rimanere socio unico per non oltre due anni. Il quadro normativo quale risulta dopo l’ultimo intervento legislativo (legge 20 novembre 2009 , n°166) con l’avvertenza che occorre distinguere la disciplina dei servizi distribuzione gas ed energia elettrica, farmacie che restano regolati dalle leggi di settore , dagli altri servizi ( i principali dei quali: servizio idrico , rifiuti e trasporto pubblico). Per questi ultimi la Legge prevede che il conferimento della gestione avviene ordinariamente:
▪ mediante procedura ad evidenza pubblica a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite
▪ a società a partecipazione mista pubblica e privata a condizione che la selezione del socio privato avvenga mediante procedure ad evidenza pubblica che abbiano per oggetto al tempo stesso la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi. In sostanza, in conformità a quanto indicato nei documenti dell’Unione Europea, al socio pubblico spetta il controllo ed al socio privato la gestione.
Il legislatore ha disposto l’equiparazione fra i due modelli sopra descritti , entrambi considerati forme ordinarie di “conferimento della gestione”, alla condizione che la società mista sia strutturata in conformità a quanto richiesto dalle norme. In deroga all’affidamento ordinario e quindi come forma residuale la legge prevede la gestione cosiddetta “in house” e cioè a favore a società che abbia tre requisiti:
1. totale partecipazione pubblica ( di uno o più enti locali);
2. controllo analogo a quello esercitato dall’ente locale sui propri Servizi;
3. attività svolta dalla società con l’ente o gli enti pubblici che la controllano (si deve intendere i modo estensivo anche l’attività svolta a favore dei cittadini);
A questi requisiti derivanti dalle direttive UE il legislatore italiano ne ha aggiunto uno particolare che possiamo definire “ambientale” : quello relativo alle “caratteristiche economiche, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato.” E’ richiesta una verifica di mercato il cui esito va trasmesso all’Autorità garante della concorrenza per l’espressione di un parere (obbligatorio, ma non vincolante) che deve essere espresso entro sessanta giorni. Nella stragrande maggioranza dei casi l’Autorità si è espressa negativamente, per cui si può concludere che l’affidamento in house è in pratica assai difficile per non dire impossibile. La normativa in atto, sopra, citata prevede un periodo transitorio per le società miste esistenti che, se affidate con gara congiunta ( scelta del socio ed affidamento del servizio) cessano alla scadenza del contratto di servizio, mentre in caso contrario vengono a cessare alla data del 31.12. 2011. Le società miste il cui socio è stato scelto senza gara cessano al 31.12.2010. Anche le gestioni in house cessano al 31.12. 2011, ma la legge offre la possibilità di proroga fino alla scadenza prevista nel contratto di servizio qualora entro la predetta data le amministrazione cedano il 40% del capitale con procedure competitive ad evidenza pubblica ( con gara congiunta). E’ da prevedere quindi un “rilancio” delle società miste in trasformazione delle gestioni in house. Peraltro secondo la più autorevole dottrina (CAIA) nelle società miste di nuova costituzione il socio privato sarà investito di tutti i compiti operativi e si realizzerà ‐ nella sostanza ‐ una società senza azienda , una sorta di “sub concessione conforme a quanto stabilito nel “libro verde “ UE presentato il 30 aprile 2004. In estrema sintesi , secondo la Commissione UE:
a) la società mista deve essere costituita per svolgere prestazioni definite in modo chiaro e preciso;
b) al socio privato spetta svolgere le prestazioni rientranti nell’oggetto sociale;
c) il socio pubblico deve svolgere il ruolo del “controllore” in seno agli organi decisionali dell’impresa comune:
Nel caso di società in house esistenti, che dispongono già di una vera e propria organizzazione aziendale il privato svolgerà nella società mista solamente alcuni specifici compiti operativi per la durata residua dell’affidamento in corso. In conseguenza ci troveremo di fronte non una società mista in senso proprio e tipizzato, ma una figura di diritto transitorio all’interno della quale si avrà una ripartizione di compiti tra la società divenuta mista ed il socio privato. La società mista sarebbe quindi una specie di società consortile con il fine di coordinamento tra le due aziende sottostanti: quella della società in house e l’organizzazione aziendale del socio privato che svolge alcune predefinite fasi dell’attività con propri mezzi e proprio personale. Dalla necessità di una partecipazione minima del socio privato al capitale sociale nella misura del 40% non si deve dedurre che la quantità (meglio il fatturato) delle prestazioni rese dal privato rispetto a quello
complessivo della società mista debba essere di identica misura, anche se non può essere insignificante o eccessiva. Va osservato che le nuove norme non realizzano, come da taluni sostenuto, una “privatizzazione” del servizio dal momento che è il governo resta in capo all’ente pubblico ; tanto meno per il settore idrico in cui l’oggetto (l’acqua) è pubblica e gli impianti (gli acquedotti) rientrano nei beni demaniali e quindi sono incedibili.
Alla luce dell’evoluzione normativa e del crescente sviluppo delle società miste, la giurisprudenza italiana, stante l’assenza di specifiche decisioni, ha optato per un’interpretazione, a volte restrittiva, a volte estensiva, del dettato comunitario in ordine ai principi che presiedono alla stipulazione dei contratti pubblici.
In particolare, in ordine alla possibilità di affidamento diretto ai sensi dell’art. 113, comma 5, lettera b) T. U. E. L., è possibile riassumere i due orientamenti nel seguente modo:
1. l’uno restrittivo, secondo il quale il fondamentale principio comunitario della libera concorrenza sarebbe tutelato, nell’affidamento da parte dell’ente pubblico di un servizio, esclusivamente mediante il ricorso a procedure di evidenza pubblica, essendo tassativamente esclusa ogni ipotesi di affidamento diretto, anche a società miste partecipate dall’ente;
2. l’altro estensivo, secondo il quale, nell’ipotesi disciplinata dal citato art. 113 T.U.E.L, comma 5 lettera b), il rispetto del principio della concorrenza sarebbe assicurato, per le società miste pubblico private, dalla scelta del partner privato mediante procedure ad evidenza pubblica, che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche.
Per il primo orientamento, si rammenti, per tutte, la pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, decisione 27 ottobre 2006, n. 589, che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dall’effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”..
Per il secondo orientamento si veda TAR Campania Salerno, Sez. I, 19 luglio 2005, n. 1290 e, in senso convergente, T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 9 gennaio 2007, n. 72: “L’affidamento diretto di pubblici servizi a società miste con capitale maggioritario pubblico costituite dagli enti locali non contrasta con il sistema garantistico dell’ordinamento, posto che la scelta del partner privato delle compagini de quibus avviene attraverso procedure ad evidenza pubblica”.
Tra i due riferiti orientamenti, una posizione intermedia, che, ad oggi, è anche quella più rivoluzionaria, stante l’interpretazione in chiave del tutto nuova dell’istituto delle “società miste”, è quella espressa dalla Sezione II del Consiglio di Stato con il Parere n. 456 del 18 aprile 2007 che si
incentra sulla ritenuta ampia fungibilità tra lo schema funzionale della società mista e quello dell’appalto.
In altri termini, secondo la sezione consultiva, la gestione del servizio può essere indifferentemente affidata con apposito contratto di appalto o con lo strumento alternativo del contratto di società, costituendo una società a capitale misto.
La Giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ritenuto di pervenire a conclusioni differenti da quelle alle quali la giurisprudenza italiana era giunta sulla falsariga delle decisioni comunitarie, introducendo un orientamento di favore nei confronti del modello gestionale “società mista”, opportunamente contemperato con i principi comunitari.
La Sezione ha nuovamente analizzato la figura della “società mista” quale forma, già elaborata da autorevole dottrina, di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”, ritenendo che essa costituisca “una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali”, volta a rendere più flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e risultando, almeno in certi casi, di particolare efficacia10
L’iter logico seguito nel citato Xxxxxx è di immediata comprensione e può essere così semplificato:
1. alla stregua degli orientamenti comunitari in materia di in house providing, vi è da chiedersi se il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” sia riconducibile al modello dell’in house providing e, solo in caso affermativo, si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria;
2. una volta esclusa la riconducibilità del modello organizzativo “società mista pubblico- privato” al modello “in house providing”, vi è da concludere per l’inutilità della ricerca dei requisiti, sempre più selettivi, richiesti per tale modello organizzativo, a partire dal “controllo analogo”, anche nel modello di partenariato “società mista pubblico-privato”, al fine di giustificarne la compatibilità con la disciplina comunitaria;
3. la non riconducibilità della figura della “società mista” a quella dell’in house providing non implica, di per sé, l’esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società a partecipazione pubblica maggioritaria, il cui socio privato sia scelto con procedura ad evidenza pubblica;
4. il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” risulta compatibile con i principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea.
Essa ha ribadito la necessità di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta debba scegliersi un socio privato per la costituzione di una società mista, “a prescindere dal tipo di attività che tale società deve espletare12.
Sulla distinzione tra società in house e società mista, il C.d.S. ha sottolineato che la prima agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, in ragione del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi dall’amministrazione aggiudicatrice e della destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione stessa, mentre la figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria, in cui il socio privato è scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone, invece, la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino convergenza. Pertanto anche l’ancoraggio normativo cambia: il modello delle società miste è previsto in xxx xxxxxxxx xx xxx. 000, xxxxx 0, xxxx. x), d.lgs.
n. 267 del 2000, come modificato dall’art. 14 d.l. n. 269 del 2003 e dalla relativa legge di conversione, n. 326 del 2003, norme che, pur avendo attinenza ai contratti degli enti locali, delineano un completo paradigma, valido anche al di fuori del settore dei servizi pubblici locali.
La scelta di non includere nel Codice le disposizioni relative all’affidamento in house dei servizi pubblici locali potrebbe essere giustificata dal fatto che la ratio della disciplina codicistica risiede nell’esigenza di limitare la discrezionalità dell’azione di taluni soggetti pubblici così favorendo la trasparenza della procedura di scelta del contraente e al fine di creare le basi per una competizione concorrenziale tra più soggetti che si trovano nelle stesse condizioni.
Così TAR Valle d’Aosta13, che nel riprendere e mettere in atto i principi espressi nel parere n. 456/2007, pronuncia la seguente massima: “E’ legittimo l’affidamento diretto del servizio di distribuzione del gas ad una società mista il cui socio privato sia stato selezionato con gara”.
Ma tale decisione va oltre. Ritiene, infatti, il tribunale amministrativo regionale di poter prescindere dall’elemento della temporaneità dell’affidamento, considerando legittima la proroga, a società il cui socio privato sia stato scelto con le modalità di cui al Parere n. 456/2007, di un affidamento in
11 Si veda recente sentenza C.d.S., Sez. V, 30.9.2012, n. 7214, sulla differenza tra società miste e in house in xxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xx/XxxxXxxxXxxxXXX.xxx? artid=16975&dpath=document&dfile=12102010200420.pdf&content=Consiglio+di+Stato,+Sentenza+n.
+7214/2010,+in+tema+di+scelta+del+socio+privato+di+una+società+mista+-+stato+-+documentazione+-+, ma ancor prima la Sez. VI, 23.9.2008, n. 4603
12 Consiglio di Stato, sez. V, 04/03/2008, n. 889. 13 TAR Valle d’Aosta, 13 dicembre 2007, n. 163
essere per un periodo contenuto e definito entro margini ragionevoli (5 anni). Alla scadenza del quale l’amministrazione indirà una nuova gara per la scelta del nuovo socio gestore.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 03/03/2008, n. 1, poi, nel pronunciarsi, specificatamente, sul modello di società mista elaborato dal Cons. Stato nel 2007, ha ritenuto che tale modello rappresenta “una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all’affidamento del servizio alle stesse, anche se in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non è allo stato elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista”.
Mentre, prosegue l’Adunanza Plenaria, “il modello di società costruito con il citato del 2007 non è rinvenibile allorché il socio non venga scelto con procedura ad evidenza pubblica nella quale la gestione del servizio sia stata definita e precisata”.
Pertanto, la stessa assemblea, accoglie il modulo organizzativo indicato nel parere n. 456/2007 optando per l’ammissibilità dell’affidamento diretto del servizio pubblico in tutti quei casi in cui per la definitezza dell’oggetto e per la durata del servizio, la selezione del socio sia stata anche la scelta del socio gestore.
Infine, pare opportuno dar conto di un recente orientamento della Corte dei Conti14, in ordine alle questioni legittimanti l’affidamento in house e sui presupposti per l’affidamento diretto ad una società mista: ““L’affidamento diretto ad una società mista può operare laddove vi sia stata, oltre ad una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato, anche e, al tempo stesso, una procedura che definisca il servizio operativo da affidare direttamente al medesimo socio”.
“E’ evidente” prosegue la Corte dei Conti “la ratio di questa corrente di pensiero: se l’amministrazione, in sede di procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato, fissa con chiarezza e trasparenza anche l’oggetto del servizio che la società mista dovrà realizzare, appare coerente con i principi di libera concorrenza evitare una successiva ed ulteriore gara per l’affidamento dl servizio, nel presupposto che tale valutazione è già stata effettuata in favore del socio privato”.
Tale orientamento basato sulla fungibilità tra contratto di appalto e contratto sociale, rappresenta, ad avviso della sezione controllo della Corte dei Conti Siciliana, “un ottimo compromesso tra le esigenze di partenariato pubblico e privato proprie della potestà organizzativa dell’amministrazione pubblica, rispetto alle esigenze della comunità europea di tutela dei principi di libera concorrenza volti a prevenire eventuali distorsioni del mercato”.
Pare, dunque, di poter affermare che la giurisprudenza statale tenda ad uniformarsi alla proposta interpretativa avanzata dal Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007 che, dunque, a ragion veduta può considerarsi il nuovo punto di riferimento dal quale l’interprete deve prendere le mosse nel prosieguo della vicenda di cui si è discusso.
L’istituto delle società in house è stato al centro di due pronunce della Corte di giustizia che hanno avuto un’ampia risonanza tra gli operatori del diritto. Con la sentenza 17 luglio 2008, causa C- 371/05 (Commissione delle Comunità Europee c. Repubblica italiana), il giudice comunitario ha affrontato – in discontinuità rispetto a quanto gli stessi giudici comunitari hanno statuito in passato
– l’annosa questione della presenza di privati nel capitale della società affidataria in house. Con la seconda pronuncia, invece, il collegio, è ritornata sulla nozione di “controllo analogo”, affermando, come nella prima sentenza, principi che esplicano effetti meno restrittivi rispetto al passato.
Xxxxx, tuttavia, affrontare il dictum giudiziale. Con la prima pronuncia, la Corte ha rilevato che la mera partecipazione dei privati, al capitale della società aggiudicataria non è di per sé sufficiente, ad escludere il controllo analogo, in assenza di una loro effettiva partecipazione al momento della stipula della convenzione tra l’ente affidante e la società affidataria in house. La ratio che ha portato la Corte ha concludere in tal senso, si poggia, esclusivamente su esigenze di certezza del diritto, poiché, l’eventuale obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere a una gara di appalto deve essere valutato, in via di principio, alla luce delle condizioni esistenti alla data di aggiudicazione. I giudici comunitari, pertanto, hanno ritenuto che la presenza di soci privati nella società, non è ostativa, siccome intervenuta successivamente all’affidamento diretto e non ancora esistente al momento della stipula del contratto. Tale conclusione è in contrasto con i precedenti orientamenti, secondo cui, se il capitale della società affidataria è aperto, anche solo in parte, ai privati, la società affidataria non può essere considerata come struttura di gestione interna di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene, recepito a livello nazionale dal Consiglio di Stato sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072, il quale afferma che lo statuto della società affidataria non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati. Con la seconda sentenza citata precedente, ossia la pronuncia Coditel, la Corte di giustizia si è soffermata sul concetto di controllo analogo, in relazione ad una fattispecie in cui un’autorità pubblica si era associata ad una società cooperativa intercomunale i cui soci erano tutti autorità pubbliche, al fine di trasferirle la gestione di un servizio pubblico.
In tale occasione la Corte ha ritenuto che “il controllo esercitato sull’ente concessionario da un’autorità pubblica concedente sia analogo a quello che la medesima autorità esercita sui propri
servizi, ma non identico ad esso in ogni elemento. Secondo la Corte, inoltre “L’importante è che il controllo esercitato sull’ente concessionario sia effettivo, pur non risultando indispensabile che sia individuale”. La Corte riconosce che, allorché varie autorità pubbliche scelgano di svolgere le loro missioni di servizio pubblico facendo ricorso ad un ente concessionario comune, è di norma escluso che una di tali autorità, salvo che detenga una partecipazione maggioritaria nell’ente in questione, eserciti da sola un controllo determinante sulle decisioni di tale ente, ma ammette un’eccezione. Infatti, nel caso in cui varie autorità pubbliche detengano un ente concessionario cui affidano l’adempimento di una delle loro missioni di servizio pubblico, il controllo che dette autorità pubbliche esercitano sull’ente suddetto può venire da loro esercitato congiuntamente. Se, invece, dovesse trattarsi di un organo collegiale, la procedura utilizzata per adottare la decisione, segnatamente il ricorso alla maggioranza, non incide. Secondo la Corte richiedere che il controllo esercitato da un’autorità pubblica in un caso del genere sia individuale avrebbe la conseguenza d’imporre una gara di appalto nella maggior parte dei casi in cui un’autorità pubblica intendesse associarsi ad un gruppo formato da altre autorità pubbliche, come una società cooperativa intercomunale. Un risultato del genere non sarebbe conforme al sistema di norme comunitarie in materia di appalti pubblici e concessioni. Si riconosce, infatti, che un’autorità pubblica ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. Detta possibilità per le autorità pubbliche di ricorrere ai propri strumenti per adempiere alle loro missioni di servizio pubblico può essere utilizzata in collaborazione con altre autorità pubbliche. La conclusione – secondo la stessa Corte - non sarebbe inficiata dai principi della precedente sentenza Xxxxxx, atteso che in quella circostanza - pur affermando che una partecipazione minima ed esigua, tale da non consentire ad un comune di esercitare il controllo su un concessionario che gestisce un servizio pubblico – ciò nonostante i giudici omettevano di affrontare la questione se un siffatto controllo potesse essere esercitato in maniera congiunta. Al fine di corroborare quanto detto finora, vengono presi in considerazione gli art. 43 e 49 Ce, i quali, disciplinano i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in base alla cittadinanza così come l’obbligo di trasparenza che ne discende. La giurisprudenza comunitaria, dal combinato disposto delle norme teste citate, rileva che tali corollari non ostano all’affidamento diretto di un appalto pubblico di servizi a una società per azioni a capitale interamente pubblico qualora l’ente pubblico che costituisce l’amministrazione aggiudicatrice eserciti su tale società un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e “questa società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”. Il giudice comunitario ha chiarito che la condizione che il soggetto di cui trattasi
realizzi la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono è finalizzata, in particolare, a garantire che la disciplina comunitaria a tutela della concorrenza continui ad essere applicabile nel caso in cui un’impresa controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa pertanto entrare in concorrenza con altre imprese. Secondo il giudice comunitario, infatti, “un’impresa non è necessariamente privata della libertà di azione per la sola ragione che le decisioni che la riguardano sono prese dall’ente pubblico che la detiene, se essa può esercitare ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori. È inoltre necessario che le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente locale in questione. Entro tali limiti, risulta giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 93/36, in quanto questi ultimi sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere”.
Nel precisare il principio la Corte ha stabilito che “occorre considerare che il fatturato determinante è rappresentato da quello che l’impresa in questione realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante, compreso quello ottenuto con gli utenti in attuazione di tali decisioni. Infatti, le attività di un’impresa aggiudicataria da prendere in considerazione sono tutte quelle che quest’ultima realizza nell’ambito di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la stessa amministrazione aggiudicatrice o l’utente delle prestazioni” fine, nel valutare se un’impresa svolga la parte più importante della sua attività con l’ente pubblico che la detiene “si deve tener conto di tutte le attività realizzate da tale impresa sulla base di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente da chi remunera tale attività, potendo trattarsi della stessa amministrazione aggiudicatrice o dell’utente delle prestazioni erogate, mentre non rileva il territorio in cui è svolta l’attività”. Più di recente la Corte di giustizia CE ha confermato che il potere riconosciuto alla società aggiudicataria di fornire servizi ad operatori economici privati non impedisce che l’obiettivo principale di detta società rimanga la gestione di servizi pubblici. Pertanto, l’esistenza di un potere siffatto non è sufficiente per ritenere che detta società abbia una vocazione commerciale che rende precario il controllo di enti che la detengono. Secondo la Corte “Tale conclusione è confermata dal fatto che la società aggiudicataria deve svolgere la parte più importante della sua attività con gli enti locali che la controllano, consente che questa società eserciti un’attività avente un carattere marginale con altri operatori diversi da questi. La disamina della recente giurisprudenza comunitaria è stata recepita dal giudice nazionale e, in particolare, dal Giudice delle Leggi, il quale, con sentenza del 23 dicembre 2008, n. 439 ha precisato che l’effettuazione di prestazioni che non siano del tutto marginali a favore di altri soggetti renderebbe quella determinata impresa “attiva sul mercato”, con conseguente alterazione delle regole
concorrenziali e violazione dei principi regolatori delle gare pubbliche e della legittima competizione. In altri termini, una lettura non rigorosa della espressione “parte più importante della sua attività” inciderebbe sulla stessa nozione di soggetto in house alterandone il dato strutturale che lo identifica come una mera “articolazione interna” dell’ente stesso. Una consistente attività “esterna” determinerebbe, infatti, una deviazione dal rigoroso modello delineato dai giudici europei, con la conseguenza, da un lato, che verrebbe falsato il confronto concorrenziale con altre imprese che non usufruiscono dei vantaggi connessi all’affidamento diretto e più in generale dei privilegi derivanti dall’essere il soggetto affidatario parte della struttura organizzativa dell’amministrazione locale; dall’altro, che sarebbero eluse le procedure competitive di scelta del contraente, che devono essere osservate in presenza di un soggetto “terzo” (quale deve ritenersi quello che esplica rilevante attività esterna) rispetto all’amministrazione conferente.
Rimanendo nei nostri confini nazionali, i principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria e accolti successivamente dal Consiglio di Stati, sono stati nuovamente presi in considerazione dai Giudici di Palazzo Spada, con la sentenza sez. V, 3 febbraio 2009, n. 591, che pare non essersi adeguata al nuovo orientamento del giudice comunitario.
Sostengono i giudici amministrativi che la semplice previsione statutaria delle possibilità di ingresso del capitale privato nella società affidataria pregiudica la sua condizione di organo in house in quanto implica la finalizzazione dell’attività dell’ente societario alla tutela di interessi esterni a quelli del socio pubblico e non giustifica l’affidamento diretto della stessa. In particolare, con la sentenza n. 1365/2009, il Supremo Consesso ha fornito risposta al quesito riguardante la possibilità di concepire il requisito del “controllo analogo” come risultato dell’intermediazione delle regole civilistiche sulla governance societaria, ovverosia, se in una società compartecipata in via totalitaria da più enti pubblici, che sia anche diretta affidataria di un servizio pubblico locale, il “controllo analogo”, inteso nei sensi della “dottrina Teckal”, postuli necessariamente anche il “controllo”, da parte del socio pubblico, sulla società e, in via consequenziale, su tutta l’attività, sia straordinaria sia ordinaria, da essa posta in essere. Al fine di risolvere la suindicata “quaestio iuris”, i giudici si sono adeguati a principi comunitari indicati nelle pagine precedenti (Corte di Giustizia con la sentenza del 13 novembre 2008 sulla vicenda “Coditel Brabant SA). Applicando la sentenza citata, quindi, i Xxxxxxx, affermano che quanto statuito dai giudici comunitari smentisce la tesi cosiddetta “commercialistica”, seguita d una parte della giurisprudenza di merito, afferma la necessità, ai fini della configurabilità di un controllo analogo, della ricorrenza, in capo ad un socio pubblico, di un potere di controllo sulla società assimilabile a quello delineato dall’art. 2359, commi 1 e 2, c.c.. Opina diversamente, invece, la Corte di giustizia, chiarendo l’esigenza che il controllo
della mano pubblica sull’ente affidatario sia effettivo, ancorché esercitato congiuntamente e, deliberando a maggioranza, dai singoli enti pubblici associati. Rilevato ciò, Il Supremo Consesso conclude affermando che l’impostazione del Giudice europeo trova riscontro sia nelle esperienze positive di molti Stati membri sia nel diritto amministrativo italiano, che annovera diverse forme associative tra enti pubblici, anche per finalità di gestione in comune di pubblici servizi in cui il controllo da parte del singolo ente sull’attività svolta, nell'interesse comune, dalla specifica forma associativa non è individuale, ma intermediato e, quindi, inevitabilmente attenuato dall’applicazione delle regole sul funzionamento interno dell’istanza associativa. Ancor più recentemente, il Consiglio di Stato con sentenza n. 1447 dell’8 marzo 2011 ha ribadito che, secondo l’orientamento consolidato, nel caso di affidamento in house conseguente all’istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata per la gestione di un servizio pubblico, il controllo, analogo a quello che ciascuno di essi esercita sui propri servizi, deve intendersi assicurato anche se esercitato non individualmente ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo. Il requisito del controllo analogo deve essere quindi verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente. con riferimento ai presuppostiti comunitari del modello in house, affinché non sia applicabile la disciplina comunitaria degli appalti pubblici, non è sufficiente la sussistenza del requisito del sopradescritto controllo analogo, ma è necessario anche, sul piano funzionale, che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano. Tale “condictio sine qua non”, affermata, altresì, sin dalla sentenza Xxxxxx, si realizza sia nel caso in cui l’organismo in house svolga attività sostitutive dei servizi erogati dall’amministrazione all’utenza (ex art. 113 TUEL), sia quando l’organismo stesso procuri all’ente controllante fattori produttivi e risorse necessarie per l’attività istituzionale. Xxxxxxx, tuttavia, distinguere le due ipotesi. Mentre nel primo caso l’in house è alternativo all’appalto; nel secondo l’ente controllato opera come stazione appaltante espletando le gare per la selezione degli appaltatori. L’individuazione della parte di attività svolta dall’ente affidatario diretto in favore dell’amministrazione controllante non deve avvenire in astratto, con esclusivo riferimento all’oggetto sociale del soggetto gestore, ma è necessario verificare la situazione di fatto sussistenza al momento della stipulazione. Sul punto si è espresso il Consiglio di Stato, asserendo la necessità che il soggetto in house svolga i suoi compiti in via sostanzialmente esclusiva con l’amministrazione. Pertanto, si può concludere
che tale requisito sussiste quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servizi a soggetti diversi dall’ente controllante, oppure li fornisca in misura irrilevante sulle strategie aziendali, e in ogni caso non fuori dall’ambito di competenza territoriale dell’amministrazione.
La disciplina de qua, è stata da ultimo modificata l decreto sulla “spending review” - il d. l. 95 del 2012 convertito con la legge 135/2012 - il Governo ha riprodotto il divieto di procedere all’affidamento diretto alle società con capitale interamente pubblico di servizi di importo superiore alla soglia di 200.000 euro.
La norma è stata adottata successivamente alla sentenza resa dalla Corte Cost. nr. 199/2012 - il decreto legge è del 6 luglio, laddove la sentenza risulta depositata in data 20 luglio – tuttavia, si pone il problema di stabilirne la compatibilità con quanto statuito dal giudice costituzionale e di conseguenza l’efficacia o meno.
È evidente, infatti, che, per analogia, la norma contenuta nell’art. 4 del d.l. 95/2012, in quanto riproduttiva di una disposizione dichiarata in un secondo momento costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale, potrebbe essere considerata abrogata in maniera implicita per le analoghe considerazioni che hanno comportato l’illegittimità costituzionale della normativa sui servizi pubblici. Tuttavia, il fatto che tale norma sia stata confermata in sede di conversione del decreto legge, avvenuta successivamente alla pronuncia della Corte, evidenzia la volontà del legislatore di confermarne l’efficacia, con evidenti dubbi di legittimità costituzionale della disposizione stessa. L’avvenuta abrogazione dell’art. 4 incide non solo sulle norme concernenti le modalità di gestione dei servizi pubblici, ma va a travolgere anche la disciplina delle società a partecipazione pubblica locale, di cui ai commi 9-17 dell’art. 4, che prevedeva l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica e delle società in house al rispetto del patto di stabilità interno, nonché delle normative in materia di reclutamento del personale, di cui al d.lgs 165/2001, e di contratti pubblici, d.lgs. 163/2006. Il venir meno di tali previsioni fa sì che mentre da una parte il Governo adotta nuove misure di razionalizzazione della spesa pubblica con il d.l. 95/2012, dall’altra parte si realizza una fuoriuscita dall’ambito di applicazione del patto di stabilità interno di molteplici soggetti a partecipazione pubblica, con evidenti conseguenze negative sul raggiungimento dell’obiettivo del contenimento della spesa pubblica. La caducazione di tale previsione comporta, pertanto, la sopravvivenza di affidamenti in corso illegittimi e contrari al quadro giuridico europeo; basti in tal senso pensare agli affidamenti in house in violazione dei paletti imposti dal diritto dell’Unione europea oppure agli affidamenti concessi a società pubblico-private in assenza di gara, per le quali il legislatore aveva disposto la cessazione entro il 31 dicembre 2012. La sentenza della Consulta, a fronte delle considerazioni su riportate, riveste un ruolo particolarmente rilevante in
quanto da una parte riporta in auge modelli gestionali che sembravano ormai superati, basti pensare alla gestione diretta e alla gestione tramite azienda speciale che era consentita solo per la gestione dei servizi pubblici privi di rilevanza economica; dall’altra l’effetto abrogativo della sentenza va ad innovare l’ordinamento modificando in maniera significativa la materia dei servizi pubblici. Infatti, nella misura in cui si rendono possibili tutte le forme gestionali, anche quelle che la previgente normativa aveva escluso in tutto o in parte per i servizi pubblici di rilevanza economica, in primo luogo viene meno la rilevanza della distinzione piuttosto “labile” ed opinabile tra servizi pubblici a rilevanza economica e quelli privi di rilevanza economica dal momento che tale distinzione non comporta più l’applicazione di un distinto regime giuridico. In questo modo viene superata, seppure in via non risolutiva, la vexata quaestio sul significato di “rilevanza economica”; questione interpretativa molto controversa sia nella dottrina che nella giurisprudenza e che era stata risolta in maniera diversa dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6529 del 10 settembre 2010, Sezione V) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 325 del 2010). In secondo luogo, si attribuisce piena autonomia agli enti locali chiamati a scegliere, in qualità di vere e proprie Autorità di regolazione, le modalità di gestione dei servizi attraverso l’esercizio della propria potestà regolamentare. Infatti, gli enti locali, rebus sic stanti bus, al fine di gestire un servizio pubblico di rilevanza economica potrebbero ricorrere alle seguenti formule: alla gestione concorrenziale di cui all’art. 4, commi 1-7; alla gestione in esclusiva a società private scelte a seguito dell’espletamento di procedure ad evidenza pubblica; a società miste pubbliche-private individuate a seguito di gare a cd “doppio oggetto”; a società con capitale interamente pubblico purché ricorrano le condizioni richieste dall’ordinamento comunitario; alla gestione diretta o alla gestione tramite azienda pubblica.
Tali soluzioni si prospettano solo per i servizi pubblici di rilevanza economica per i quali non vi è una particolare disciplina di settore; per quelli invece per i quali vi è una normativa ad hoc, quali le farmacie, il settore dell’energia, del gas e dei trasporti, oltre che il servizio idrico tale normativa resta in vigore e non viene minimamente intaccata nella sua efficacia dall’avvenuta abrogazione dell’art. 4 del d.l. 138/2011. Da ultimo, il Consiglio di Stato, con la sentenza del 11.02.2013 n. 762 ha chiarito che a seguito dell'abrogazione referendaria dell'articolo 23-bis Dl n. 112/2008, è venuto meno il principio della eccezionalità del modello "in house" per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Ne consegue, pertanto, che la scelta dell'Ente locale sulle modalità di organizzazione dei servizi pubblici locali, e in particolare l'opzione tra modello "in house" e ricorso al mercato, deve basarsi ora sui consueti parametri di esercizio delle scelte discrezionali, cioè: valutazione degli interessi pubblici e privati coinvolti; individuazione del modello più efficiente ed economico; adeguata
istruttoria e motivazione. Se vengono rispettati questi parametri e quelli dell'affidamento "in house" ("controllo analogo" e società 100% pubblica) la scelta dell'Ente è inattaccabile.