Contract
5. CONTRATTI REALI
5.3. Fiducia
Già in epoca arcaica, la mancipatio poteva essere collegata ad un patto fiduciario, che permetteva il conseguimento di tre scopi diversi.
1 | Un debitore trasferiva con atto formale la proprietà di un suo bene al creditore, col patto che la cosa fosse trasferita in senso inverso, quando l’obbligazione fosse adempiuta. | Fiducia cum creditore | Se l’obbligazione non sarà adempiuta, il creditore continuerà a restare proprietario della cosa data in garanzia reale. All’inizio, il dovere di ritrasferire la cosa ha un rilievo solo etico, perché si fonda esclusivamente sulla fides del creditore. Di qui il nome di fiducia. Con i giuristi tardorepubblicani questo dovere diventa giuridico. |
2 | Un paterfamilias poteva mancipare una sua cosa a un altro paterfamilias, perché quest’ultimo, per un certo periodo di tempo, gliela conservasse e poi facesse la mancipatio della cosa in senso inverso. | Fiducia cum amico | Se il fiduciario si comporta in modo sleale, venendo meno alla fides, inizialmente non vi sono rimedi. Solo più tardi anche queste situazioni verranno tutelate con l’azione di fiducia. |
3 | Un paterfamilias poteva mancipare una sua cosa a un altro paterfamilias, perché quest’ultimo, per un certo periodo di tempo, la usasse nel modo pattuito e poi facesse la mancipatio della cosa in senso inverso. | Fiducia cum amico |
L’eccessiva complessità del rituale di due mancipationes e i rischi connessi al patto fiduciario fanno decadere rapidamente la fiducia che è sostituita da altri contratti reali.
Fiducia
Fiducia cum creditore
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pegno
Fiducia cum amico 2
6
deposito
Fiducia cum amico 3
6
comodato
5.6. Pegno
Il pegno si conclude tramite consegna di una cosa da parte di un paterfamilias (debitore pignorante) ad un altro paterfamilias (creditore pignoratizio) a scopo di garanzia di un debito proprio o altrui – e quindi di una obbligazione preesistente –: il creditore pignoratizio si assume l’obbligo di restituire la cosa al debitore pignorante, quando questi abbia estinto il debito garantito.
Chi riceve la cosa come garanzia reale ne acquista la detenzione, ma comunque viene tutelato dal pretore con gli interdetti concessi a tutela del possesso.
Se la cosa non viene restituita, il creditore può esperire un’azione pretoria in personam e in factum diretta contro chi aveva ricevuto il pegno (ossia il soggetto attivo del rapporto obbligatorio garantito).
6. OBBLIGAZIONI LITTERIS (CONTRATTI LETTERALI)
Quelle che Gaio indicava come obbligazioni contratte litteris nascevano per mezzo di parole scritte. Si trattava di certe scritture contabili dette pure nomina transscripticia (= “crediti trascritti”), ed il negozio che esse concretavano viene dai romanisti denominato expensilatio.
Nelle famiglie romane di un certo livello sociale che permettesse, o imponesse, ordine e chiarezza nella gestione del patrimonio familiare era d’uso tenere un libro contabile, detto codex accepti et expensi, cioè “libro di entrata e uscita”. Esso era un quaderno, composto da una serie di tavolette cerate – più tardi anche da un insieme di fogli rilegati in costa –, e conteneva le scritture relative ai movimenti di cassa; a quanto pare lungo tutto il quaderno, in ogni coppia di pagine che si appalesassero alla sua apertura, nella pagina sinistra venivano registrate le entrate (accepta) e nella pagina destra le uscite (expensa). L’uso era di aggiornare il codex alla fine di ogni mese, trascrivendovi in bella copia le annotazioni rilevanti che il titolare aveva fatte via xxx xxx xxxxx xxx xxxx stesso in un brogliaccio quotidianamente aggiornato.
Come riferisce Gaio (3.128-130) due sono i modi in cui può avvenire la trascrizione del credito:
2) a persona in personam:
“ho versato (expendi) a Sempronio 500 sesterzi che mi deve Tizio”
Transscriptio
1) a re in personam:
“ho versato (expendi) a Sempronio sesterzi 1.000 che mi deve per l’affitto del fondo capenate”
1) Transscriptio a re in personam
Questa scrittura può spiegarsi, dal punto di vista della pratica contabile, nel modo seguente. Poniamo che io abbia affittato a Sempronio il fondo agricolo capenate per un canone annuo di 1.000 HS e che l’annata di affitto vada dall’aprile dell’anno 30
a.C. al marzo dell’anno 29 a.C.; ancora, che il termine di pagamento dei canoni sia il primo di marzo 29 a.C. e che il raccolto venga effettuato dal colono nell’ottobre 30
a.C. A raccolto avvenuto (poniamo il 20 ottobre 30 a.C.), il credito del canone annuo è interamente entrato nel mio patrimonio di locatore perché la somma relativa mi è interamente e certamente dovuta: ma essa non è ancora esigibile, quindi non mi è stata pagata e dunque non rappresenta ancora un attivo di cassa: pertanto non posso
registrarla come ricevuta (cioè come acceptum). Il primo di marzo 29 a.C., però, i canoni sono diventati esigibili, ma Sempronio non mi ha ancora pagato. È a questo punto che io eseguo nel mio libro la scrittura di cui ci stiamo occupando (“pagati a Sempronio 1.000 HS che mi deve – o doveva – per l’affitto del fondo capenate”) con il significato (contabile) seguente: i 1.000 HS in parola dovrebbero essermi pervenuti in cassa e invece Sempronio non me li ha dati; ciò equivale al fatto che egli me li abbia pagati ma io glieli abbia poi ridati senza doverglieli. In pratica ciò può in particolare avvenire perché Sempronio, alla scadenza del termine, mi ha chiesto di pazientare un poco, ed io ho consentito unicamente a condizione che egli a sua volta consentisse alla trascrizione del suo debito nella forma del nomen transscripticium, il che mi permetterà di agire contro di lui – ove egli persista troppo a lungo nel non pagare – con la condictio, azione nella quale verrà dedotto il solo mio credito della somma in questione in quanto basato sulla scrittura, e non (come invece se esperissi l’actio ex locato) il rapporto di locazione-conduzione, nel quale caso egli potrebbe oppormi eventuali domande riconvenzionali o eccezioni con tale rapporto connesse. Con l’atto è stata dunque realizzata una novazione oggettiva con mutazione della causa del rapporto obbligatorio: l’obbligazione, che Sempronio aveva verso di me, di pagarmi 1.000 HS ex conducto (= in forza del contratto di affitto) è estinta e sostituita dall’obbligazione, sempre di Sempronio, di pagarmi 1.000 HS in forza dell’expensilatio.
2) Transscriptio a persona in personam
Possiamo spiegare anche questa scrittura in modo analogo alla precedente. Io sono creditore di 500 HS nei confronti di Tizio. Tizio, invece di pagarmi, mi assegna (in modo informale) Sempronio come nuovo debitore, cioè delega Sempronio a mio favore. Con la scrittura, che assumerà la data del giorno in cui è effettuata la delegazione, io esprimo (contabilmente) l’idea che in tale data io dovrei avere in cassa 500 HS pagatimi da Tizio, ma non li ho perché (dopo che Tizio mi ha pagato) li ho dati a Sempronio senza doverglieli, e quindi Sempronio me li deve. Precisamente si realizza in questo modo una delegazione passiva, vale a dire una novazione soggettiva con mutazione del debitore, dunque trasferimento del rapporto di valuta dal delegante Tizio al delegato Sempronio: in seguito ad essa io perderò dunque la mia azione contro Tizio e acquisterò contro Sempronio la condictio per la stessa somma.
Queste scritture erano evidentemente state escogitate dai tecnici della contabilità e non dai giuristi; giuridica è invece la loro interpretazione. I giuristi hanno tenuto conto del senso contabile delle scritture, cioè dell’effetto che esse sono dirette a realizzare, che è l’effetto novatorio – novazione oggettiva con mutamento della causa nella transscriptio a re in personam, novazione soggettiva con cambiamento del debitore (delegazione passiva) nella transscriptio a persona in personam –, ed hanno inoltre stabilito che la produzione di tale effetto va ricollegata all’effettuazione della scrittura nel libro contabile del creditore, per cui dunque il negozio novatorio si
concreta litteris e l’obbligazione che ne sorge si forma litteris. Perché l’effetto si produca, non è però, ovviamente, sufficiente l’esecuzione della scrittura, che è opera unicamente della parte creditrice: è necessario che l’effettuazione della scrittura, con l’effetto che le è connaturato, corrisponda alla volontà delle parti: la volontà del creditore può risultare dalla semplice effettuazione della scrittura, ma la volontà del debitore dovrà risultare altrimenti: è necessario, in altre parole, che il creditore abbia effettuato la scrittura nel suo codex accepti et expensi col consenso del debitore. Il consenso del debitore potrà essere espresso in qualunque modo, e cioè in modo informale purché chiaro ed univoco, quindi sarà normalmente fornito dal debitore con un iussus: un’autorizzazione ad effettuare la scrittura indirizzato dal debitore al creditore titolare del libro contabile. Questo iussus costituisce dunque il presupposto necessario per la validità e l’efficacia dell’expensilatio.
Ai tempi di Giustiniano, i nomina transscripticia non si usavano più, tanto che i compilatori del Corpus Iuris civilis non solo non hanno riportato alcun passo relativo ai nomina transscripticia, ma hanno cancellato da tutti i testi la loro menzione, comprese le indicazioni generali dell’obligatio litteris contracta.
Fra i sudditi stranieri delle province orientali (i peregrini sub imperio) erano diffusi due tipi di documento, che, secondo Gaio, producevano obbligazioni letterali fra i soli peregrini (nella prassi, però, li impiegavano anche i romani, quando concedevano prestiti di denaro ai provinciali): entrambi si sostanziavano nel riconoscimento di un debito.
La sìngrafe (greco syngraphé = “scritto insieme”) è redatta in terza persona e in duplice esemplare, uno per ciascuna parte.
Il chirografo (greco cheirógraphon = “scritto di propria mano”) è redatto in prima persona singolare dal debitore e in unico esemplare per il creditore.
7. OBBLIGAZIONI VERBIS: LA STIPULATIO
La stipulatio era un contratto erbis che si concretava nello scambio di una domanda
e di una risposta. Ciò comportava che il debitore (promissor = il promittente) era
obbligato dal momento in cui aveva risposto alla domanda posta (stipulator = lo stipulante).
Come riferisce Gaio, il contratto si concludeva nel seguente modo:
dal creditore
Gaio 3.92: L’obbligazione nasce verbis da una domanda e una risposta, come ‘dari spondes? spondeo; dabis? dabo; promittis? promitto; fidepromittis? fidepromitto; fideiubes? fideiubeo; facies? Faciam.
L’uso di verbi differenti non modificava il fatto che si trattava comunque di una
stipulatio: ciò che contava non erano le parole impiegate, ma il fatto che c’era stata una domanda seguita da una risposta.
In diritto classico vi erano 5 condizioni formali che le parti erano tenute a rispettare:
1. oralità dell'atto
5. obbligo personale
ontinu
c le
2. atto c o
ontestua
4. atto tra presenti
3. atto simmetrico
1. Per definizione, come si è già detto, la stipulatio è un atto orale e quindi non si può concludere se non parlando entrambe le parti. Ad esempio, un muto o un sordo non potevano concludere stipulazioni, in quanto il sordo non poteva intendere quello che gli diceva l’altra parte e il muto non poteva pronunciare le parole che portavano alla
conclusione del contratto. P dell’atto, se qualcuno di loro
r aggirare questi ostacoli dovuti alla voleva farsi promettere con stipulatio,
natura stessa lo poteva fare
tramite uno schiavo presente, che gli avrebbe acquistato anche la relativa azione. Allo
6
stesso modo, chi di loro voleva obbligarsi, lo poteva ordinare ad uno schiavo o ad un sottoposto.
La stipulatio rimase per secoli un atto orale, ma, almeno dalla tarda Repubblica, si poteva redigere un documento del suo contenuto: tale redazione scritta si mostrava molto utile soprattutto per semplificare la domanda nelle stipulazioni di una certa complessità. Nel porre domanda, il futuro creditore può semplicemente richiamarsi al contenuto del documento e ottenere la solita risposta adesiva del futuro debitore: “Prometti di dare (o di fare) tutto ciò che sta scritto nel documento?”; “Prometto”. Per tutto il periodo tardo repubblicano e classico, il documento non aveva alcun valore costitutivo della obbligazione, ma un mero valore probatorio, nel senso che, in una eventuale lite, rendeva più comodo per l’interessato fornire la prova dell’avvenuta stipulatio.
Tuttavia, dopo la concessione generale della cittadinanza nel 212, e la conseguente influenza delle tradizioni giuridiche, di matrice greco-ellenistica, delle province orientali, che al documento attribuivano spesso valore costitutivo di un diritto, si diffuse la tendenza a trasformare la stipulatio in un negozio scritto. Infine, Giustiniano dispose che si dovesse prestare fede alla scrittura, a meno che una delle parti contraenti non fornisse prova che essa medesima o la controparte non era presente nel luogo e nel giorno in cui la stipulatio risultava conclusa.
2. Un’esigenza essenziale della stipulatio era il fatto che non vi dovevano essere ‘tempi morti’ tra la domanda e la conseguente risposta. La contestualità era richiesta non per una questione di puro formalismo, ma al fine di assicurare che il contenuto del contratto fosse stabilito in modo in equivoco:
Venuleio, D.45.1.137 pr.: L’atto dello stipulante e del promittente deve essere continuo (anche se può esservi qualche intervallo naturale) e bisogna subito rispondere allo stipulante.
3. La risposta, oltre che contestuale, doveva essere congrua: il promittente, cioè, doveva necessariamente usare lo stesso verbo che figurava nella domanda (la ripetizione del verbo era dovuta anche all’assenza nella lingua latina dell’affermazione ‘sì’).
4. Gaio indica chiaramente che “non si può contrarre una obbligazione verbale tra assenti”. Questo requisito era strettamente legato sia a quello della continuità sia a quello dell’oralità. In diritto classico, ad esempio, non era possibile concludere una stipulatio con uno scambio di lettere: era necessario trovarsi nel medesimo luogo, nel medesimo momento. Gaio presenta comunque un modo pratico per superare questo veto, che era sicuramente un forte ostacolo per gli scambi commerciali: farsi ‘rappresentare’ da uno schiavo.
5. Era poi essenziale che colui che prometteva fosse pure colui che s’obbligava a fornire la prestazione promessa. Si tratta qui del carattere personale delle obbligazioni. Da ciò discendeva il divieto di concludere una stipulatio in favore di
un terzo (“Prometti di dare 100 a Tizio?” – a meno che lo stipulator non avesse interesse al pagamento al terzo) o per il fatto di un terzo (“Prometti che Tizio mi darà 100?”). Tuttavia, la giurisprudenza classica trovò il modo di superare tali divieti per mezzo di stipulazioni penali sottoposte a condizione e la cui domanda aveva, rispettivamente, la seguente formulazione: “Prometti di dare a me 200, se non darai 100 a Tizio?” e “Prometti di dare a me 200, se Tizio non mi darà 100?”. Come risulta chiaro, la promessa condizionata riguardava un fatto proprio e quindi perfettamente valida.
Quanto al contenuto, attraverso la stipulatio si poteva promettere qualunque prestazione (possibile, lecita, determinata o determinabile), sia essa consistente in un dare o fare o assicurare (praestare).
La stipulatio, poi, era lo strumento privilegiato per far sorgere obbligazioni generiche o alternative.
In una obbligazione generica, la prestazione consisteva nel dare una cosa o una determinata quantità di cose appartenenti ad un genere (ad es., uno dei miei schiavi, tot di olio o di grano). In età classica, il debitore, al quale di regola spettava la scelta, poteva liberarsi offrendo pure la cosa di qualità peggiore: ad es., uno schiavo anziano o malato. Al contrario, se la scelta competeva al creditore, questi poteva esigere la qualità migliore. Progressivamente si parametrò la scelta su una cosa di media qualità.
In una obbligazione alternativa, invece, era prevista la scelta fra più di una prestazione: la scelta di quale andasse eseguita competeva ad una delle parti, più spesso al debitore.
Un esempio si legge nel testo 41, che qui riporto per comodità del lettore, che contiene parte di una costituzione di Giustiniano:
Cod. Iust. 4.5.10 pr.-2: [pr.] Qualora taluno abbia promesso con una stipulatio di dare lo schiavo di quel nome oppure una certa quantità di denaro … e, posto che fosse sua la scelta di adempiere pagando una di queste cose, le abbia per errore pagate entrambe, si discuteva di quale cosa gli fosse consentito chiedere la restituzione e se ne avesse la scelta lo stipulante (= creditore) o il promittente (= debitore). [1] Per Ulpiano (d’accordo con precedenti giuristi) la scelta è di chi ha ricevuto entrambe le cose, di modo che restituisca quella che preferisce. Invece, per Papiniano (d’accordo con Xxxxxx Xxxxxxxx) la scelta è di chi ha pagato entrambe le cose, cioè di chi, anche prima di adempiere, aveva la scelta fra le due prestazioni. [2] Noi (= Giustiniano) ... preferiamo il parere di Giuliano e Papiniano.
La fattispecie al centro del dibattito giurisprudenziale riguardava un debitore che si era obbligato con stipulatio a dare un certo schiavo o una certa somma di denaro. Per errore il debitore aveva eseguito entrambe le prestazioni. Era palese che uno dei due beni – o lo schiavo o il denaro – doveva tornare al promittente: ma a chi spettava la scelta?
I giuristi classici erano attestati su due diverse posizioni.
Secondo Ulpiano, che accoglieva il parere di precedenti giuristi, la scelta spettava al creditore/stipulante, perché egli era divenuto a sua volta debitore di una prestazione alternativa da indebito.
Papiniano, invece, uniformandosi al parere di Xxxxx Xxxxxxxx, concedeva la scelta al debitore iniziale, nell’ipotesi normale che fosse sua la scelta di quale prestazione eseguire.
E fu proprio questa seconda opinione ad essere fatta propria da Giustiniano che in tal modo mise fine al secolare dibattito dottrinale.
Come in altre fonti di obbligazioni (da atto lecito o illecito), anche nella stipulatio potevano aversi più soggetti come creditori e/o come debitori. In questi casi, sorgevano obbligazioni solidali, qualificate, rispettivamente, attive, se più sono i creditori, e passive, se più sono i debitori.
La solidarietà, dal latino in sòlidum “per intero”, poteva essere o cumulativa o elettiva. La solidarietà cumulativa si verificava quando il debitore doveva adempiere per intero la prestazione a favore di ogni creditore oppure quando tutti i debitori (es. più autori di un illecito) singolarmente erano tenuti a corrispondere per intero la prestazione (ovvero l’intera pena) nei confronti dell’unico creditore (vittima dell’illecito).
Nell’ipotesi di solidarietà elettiva (prevista solo negli atti leciti), il creditore poteva pretendere l’intero adempimento da ciascuno dei debitori, e l’adempimento di uno dei condebitori liberava tutti gli altri.
Ad una normale stipulatio poteva aggiungersi (in senso tecnico-giuridico, accedere) un’altra stipulatio, anche qui passivamente o attivamente.
Dal lato passivo, ossia del debitore, la stipulatio accessoria realizzava la funzione di garanzia personale. Chi era già creditore da stipulatio nei confronti di Caio chiedeva ad un terzo: “Prometti di darmi lo stesso (idem) che mi deve Caio?”. Il terzo che rispondeva “Prometto” si impegnava, come garante, a eseguire la prestazione, qualora il debitore principale (Caio) non avesse adempiuto.
Dal lato attivo, cioè del creditore, la domanda della stipulatio accessoria era posta da un terzo, detto adstipulator, in questa forma: “Prometti di dare a me lo stesso (idem) che hai promesso a Tizio (= creditore)?”. In questo modo il terzo era legittimato, dal punto di vista sostanziale, a ricevere la prestazione dal debitore, dal punto di vista processuale a chiamarlo in giudizio in caso di inadempimento.
Infine, il terzo poteva, a seguito di autorizzazione del creditore principale (Tizio), rimettere il debito; se tale autorizzazione mancava, il terzo era perseguibile, con azione penale, dal creditore principale per il doppio del danno patrimoniale sofferto, come previsto dalla legge Aquilia (capo II): tale situazione venne depenalizzata in età classica.
8.3 Società
La società (societas) è un contratto consensuale, con il quale due o più soggetti, detti socii, si obbligavano reciprocamente a mettere in comune, in tutto o in parte, i loro beni o le loro attività economiche, per il conseguimento di un risultato che fosse utile a tutti, risultato che poteva derivare da attività di mera gestione o di lucro1.
Il modello più antico di società era espresso dal consorzio tra fratelli coeredi (consortium ercto non cito): nessuno degli eredi aveva una parte definita del patrimonio, ma tutti erano proprietari della sua totalità. Sulla scia di questo, si venne ad affermare anche il consorzio fra estranei, costituito con una particolare applicazione della in iure cessio “rinuncia in tribunale”.
Il contratto di società poteva essere concluso tra tutti i tipi di persone (mercanti, banchieri, ecc.) per una durata limitata nel tempo o anche senza limiti. In funzione del tipo di scopo comune si potevano distinguere diversi tipi di società:
Societas unius negotii: società per un solo affare
Societas omnium bonorum: società per tutti i beni
Societas lucri, quaestus, ecc.: società per attività imprenditoriale con scopo di lucro
Societas alicuius negotiationis: società per un certo tipo di attività economica (es. il commercio degli schiavi)
Tipi di società
Non era ammessa invece la costituzione della c.d. società leonina, ove un socio era tenuto solamente alle perdite, e quindi escluso dai profitti2.
1 Cfr. art. 2247 c.c. (Contratto di società): Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili.
2 Il nome deriva da Fedro, Favole, 1.6: Mai è affidabile la società con un potente e questa favoletta comprova il mio assunto. Una mucca, una capra, e una pecora paziente all’offesa (iniuria) furono soci con un leone nella foresta. Essi catturarono un cervo grosso grosso, e il leone, fatte le parti, disse: «Io mi prendo la prima parte perché (hoc nomine “a questo titolo”) mi chiamo re; la seconda mi spetta perché sono socio (consors); la terza, poi, mi tocca perché sono il più valente; e la quarta, se qualcuno la tocca, guai a lui». Così la protervia (improbitas) di uno solo arraffò l’intera preda.
Il consenso continuativo, e non soltanto iniziale, di due o più soci è l’elemento fondante di ogni tipo di societas: se viene a mancare il consenso – talora indicato con il termine affectio, come nel matrimonio – di uno di loro, la società si estingue. L’accordo iniziale fa sorgere a carico di ogni socio l’obbligazione di conferire beni o attività personali, la cui natura e ammontare varia a seconda del tipo di società – per conseguire un fine economico comune, con la divisione dei profitti e delle perdite.
In diritto romano la società non gode di una propria autonomia patrimoniale (una cassa comune). Il vincolo che si crea fra i soci non rileva all’esterno, giacché è il singolo socio a contrattare con i terzi e/o a chiamarli o ad essere da loro convenuto in giudizio.
Quanto al criterio di suddivisione dei profitti e delle perdite e al tipo di conferimenti, si può leggere:
Xxxx 0.000: Vi fu una gran discussione sulla possibilità di formare una società in cui uno avesse parte maggiore nei profitti e minore nelle perdite; il che Quinto Mucio ritenne contrario alla natura della società. Ma per Xxxxxx Xxxxxxxx, il cui parere è ormai prevalso, era possibile non solo formare una simile società, ma persino formarne una in cui un socio era escluso dalle perdite, ma partecipava ai profitti, purché la sua opera fosse tanto preziosa da rendere equa la sua ammissione nella società con questa clausola. Oggi è pacifico che si possa formare una società in cui un socio conferisca denaro e un altro no, pur essendo comune il profitto tra loro: spesso infatti l’opera di uno vale quanto il denaro.
Già ben prima del tempo di Gaio, si affermò la concezione più dinamica del contratto di società, professata da Servio (giurista del I secolo a.C.), che concesse non solo la diversità di quote fra soci per profitti e perdite, ma anche l’esclusione di uno dei soci dalle perdite, sempreché l’attività professionale da lui conferita (socio d’opera) fosse talmente rilevante per il buon andamento della società da far reputare equa la sua esclusione da ogni esborso in caso di passività o fallimento. Qualora i soci avessero concordato percentuali diverse solo per i profitti (o solo per le perdite), s’intendeva che esse valessero parimenti per le perdite (o per i profitti). Qualora non vi fossero stati accordi sul punto, s’intendeva che profitti e perdite andavano distribuiti in parti uguali.
Le eventuali controversie insorgenti tra i soci erano regolate da un’apposita azione di buona fede, l’“azione per il socio” (actio pro socio), che – oltre a prevedere la condanna pecuniaria nei limiti del possibile – provocava lo scioglimento della società. È proprio questa azione contrattuale unitaria che andava a costituire l’autentico, e il solo, elemento unificante dei vari tipi di società.
8.4. Mandato
Il mandato (mandatum)3 obbliga una parte, detta mandatario, a compiere una o più attività per conto di un’altra parte, detta mandante. Il mandatario, accettando, si obbliga ad eseguire tali attività senza alcun compenso, salvo aver diritto verso il
3 Cfr. art. 1703 c.c. (Nozione): Il mandato è il contratto col quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra.
mandante al rimborso delle spese e dei danni incontrati nella gestione. La previsione di un compenso, infatti, configurerebbe il rapporto come una locazione d’opera.
Il mandato è un contratto: | |
consensuale | è il solo consenso dei contraenti a far nascere l’obligatio mandati; non necessitava di alcuna forma particolare, né forma scritta, né parole solenni da pronunciare |
bilaterale imperfetto | l’obbligazione principale (che sorge sempre) era quella del mandatario e consisteva nell’eseguire l’attività o il servizio di cui si era fatto carico; un’obbligazione, ma solo accessoria, sorgeva (ma non necessariamente) a carico del mandante, quella di rimborsare le eventuali spese e/o danni subiti dal mandatario nell’esercizio del mandato |
di buona fede | esso era governato dalla bona fides, che permetteva al giudice di valutare con un più ampio margine di manovra le obbligazioni delle parti; l’actio mandati conteneva la clausola “ex fide bona” |
inter amicos | Il mandato trae origine dai doveri propri e dall’amicitia: accettare il mandato dato da un terzo (in linea di principio un amico) era considerato dai Romani come un dovere morale. E dunque una mercede è contraria all’adempimento dei propri doveri |
Il mandato può essere concluso, come riferisce Gaio (3.156; cfr. rer. cott. D. 17.1.2) nell’interesse del mandante (mea gratia), o di un terzo estraneo al negozio (sua gratia: tu mi incarichi di gestire i beni di Tullius che è all’estero), o di entrambe le parti del negozio (mea et tua gratia), o anche di una delle parti e di un terzo (mandante & terzo: mea et sua gratia; mandatario e terzo: tua et sua gratia). Non è invece valido, ovviamente, il mandato nell’esclusivo interesse del mandatario, poiché si tratta di un semplice consiglio o suggerimento.
E neppure è valido, in diritto classico, il mandato da eseguirsi dopo la morte di uno dei contraenti (c.d. mandatum post mortem), poiché viene a mancare la mutua fiducia fra di loro, che sta alla base di ogni mandato; il diritto giustinianeo ne ammetterà viceversa la validità.
Qualora un mandatario accetti l’incarico di dare denaro a mutuo ad un terzo, si ha il
c.d. mandato di credito: qui il mandante assume la veste di garante personale dell’obbligazione sorta da mutuo. Tale figura di mandato può consentire l’apertura di credito in più luoghi, senza la necessità che il mandante debba essere fisicamente presente.
Quanto agli obblighi delle parti, il mandatario, che è persona di fiducia della controparte, assume essenzialmente due obblighi:
1) l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico, seguendo le istruzioni ricevute;
2) l’obbligo di trasferire in capo al mandante, nei modi idonei, gli effetti (reali o obbligatori) degli atti compiuti.
I limiti del mandato devono essere rispettati diligentemente. Nel caso in cui il mandatario oltrepassi i suoi poteri si verifica il c.d. eccesso di mandato: sulle conseguenze del problema possiamo leggere due frammenti di Paolo che ricordano una controversia Sabiniani-Proculiani.
Paolo, D.17.1.5: [pr.] I limiti del mandato devono essere rispettati diligentemente. [1] Infatti, colui che li abbia superati si considera fare qualcosa di diverso, ed è tenuto (a rispondere), se non abbia adempiuto all’incarico assunto. [2] Pertanto, se ti avrò dato mandato di comprare la casa Seiana per cento e tu avrai comprato per cento o anche per meno la casa Tiziana, di valore gran lunga maggiore, non si considera che tu abbia portato a compimento il mandato … [5] La condizione del mandante può invece divenire migliore se, avendoti conferito mandato di comprare Stico per dieci, tu lo abbia comprato per un prezzo minore, o per lo stesso prezzo, ma in modo che però qualcos’altro si aggiungesse allo schiavo: in entrambi i casi, infatti, tu hai eseguito (il mandato) o non andando al di là del prezzo o mantenendoti nei limiti di esso.
Paolo, D.17.1.15: Se io ti avessi conferito mandato di comprare un fondo, poi ti avessi scritto di non comprarlo, e tu, prima di sapere che te lo avevo vietato, lo avessi comprato, sarò obbligato nei tuoi confronti con l’azione di mandato, affinché non soffra danno chi assume il mandato.
I giuristi sabiniani consideravano inadempiente il mandatario che eccedesse i limiti dell’incarico (cd. eccesso di mandato), ad es. avesse comperato a 200 quel che avrebbe dovuto comprare a 100: per questo motivo, a loro avviso, il mandante non era tenuto a riconoscere il negozio compiuto.
Viceversa, i giuristi proculiani, la cui opinione era destinata a prevalere, ritenevano che il mandato fosse valido nei termini pattuiti (100, e non 200): entro tali limiti, il mandante aveva l’obbligo, come in ogni mandato, di risarcire al mandatario spese e danni eventualmente subiti nell’espletamento del contratto.
Per far valere le rispettive pretese, le parti dispongono della “azione di mandato” (actio mandati), di buona fede, qualificata “diretta” per il mandante e “contraria” per il mandatario.
Poiché nel mandato il consenso deve essere continuativo, il contratto può essere risolto o per revoca da parte del mandante o per rinuncia da parte del mandatario, ovvero per morte di uno di essi, come già accennato prima. L’estinzione del mandato non fa venir meno gli obblighi creatisi in precedenza tra le parti.
Il mandato produce effetti solo tra le parti contraenti, non avendo verso i terzi altro valore se non quello eventuale e concomitante di autorizzare il mandatario a compiere determinati atti nell’interesse del mandante.
10. I QUASI CONTRATTI
Le figure di atti leciti non contrattuali produttivi di obbligazione sono essenzialmente cinque.
1. Tutela dell'impubere
5. Comunione incidentale
2. Legato con effetti obbligatori
4. Gestione di affari altrui
3. Pagamento dell'indebito
Della tutela dell’impubere, del legato con effetti obbligatori, del pagamento
d’indebito si è già detto in altre parti del corso.
Rimane da dire qualcosa sulla gestione di affari altrui e sulla comunione incidentale.
4. La gestione di affari altrui (negotiorum gestio) si sostanzia nell’attività che un soggetto, detto gestore o gerente, compie per conto e nell’interesse di un altro soggetto, che prende il nome di gerito, senza però avere ricevuto alcun incarico (se invece fosse stato incaricato di compiere tali attività si tratterebbe di mandato).
Il gestore ha l’obbligo di condurre una gestione c.d. utile, ossia, ad esempio, non
deve sostenere spese che il gerito non avrebbe potuto o voluto sostenere se si fosse occupato in prima persona dell’affare, di portare a termine l’affare e di trasferire al
gerito i beni e i diritti acquistati dalla gestione. Gestione utile non finale utile, ma semplicemente inizio utile della gestione.
significa esito
Il gerito, se la gestione è stata utile, ha l’obbligo di prendere su di sé tutti gli effetti degli atti compiuti dal gestore, primariamente di assumere le obbligazioni e di risarcire spese e danni.
Tutte queste obbligazioni possono essere fatte valere con la “azione di gestione d’affari” (di buona fede), che è “diretta” per il gestore e “contraria” per il gerìto, come riferito da Gaio:
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Se qualcuno ha gerìto gli affari di un assente, benché a sua insaputa, nondimeno per qualunque spesa abbia utilmente fatto a favore del patrimonio dell’assente o anche per eventuali obbligazioni assunte verso terzi a carico del patrimonio dell’assente ha un’azione a questo titolo. Perciò dall’evento nasce un’azione reciproca che si chiama di gestione di affari” (negotiorum gestorum).
5. La comunione incidentale (communio ìncidens) crea situazioni di comproprietà indipendentemente dalla volontà dei comproprietari (se la comunione fosse volontaria, si rientrerebbe, invece, nel contratto di società).
La gestione della cosa comune (o dell’eredità comune) può far sorgere obblighi reciproci fra i comproprietari (o fra i coeredi), obblighi che derivano dagli atti di gestione compiuti dai contitolari (si pensi al caso che uno solo dei contitolari abbia sostenuto spese per la conservazione del bene, o al contrario abbia percepito tutti i frutti). Tali doveri reciproci possono farsi valere con un’azione divisoria, la cui formula presenta sia la adiudicatio “assegnazione”, sia la condemnatio: in tal modo un contitolare può essere condannato a pagare la sua parte di spese, oppure a restituire la parte dei frutti spettante agli altri.
Inquadramento
OBBLIGAZIONI DA DELITTO
Fra gli atti illeciti è necessario operare subito una distinzione: alcuni sono perseguibili su iniziativa della parte lesa nelle forme del processo privato, mentre altri, invece, avvertiti come più pericolosi per la pace sociale e la sicurezza della città
– chiamati poi crimina (crimini, reati) –, vengono perseguiti e repressi dall’autorità pubblica fin dall’età arcaica, come accade per l’omicidio, l’alto tradimento, la falsa testimonianza, e per altri comportamenti considerati tali da una legge o a discrezione dei magistrati titolari di imperium.
Nel periodo arcaico, pochi sono gli illeciti perseguibili dalla parte lesa e dai quali si fa sorgere una obbligazione, che vincola il loro autore a eseguire una prestazione di contenuto patrimoniale – poi consistente in una somma di denaro – a favore della parte lesa. Si tratta di alcune ipotesi di furto, di lesioni fisiche e di danneggiamento di beni altrui, ipotesi che più tardi, intorno al III secolo a.C., andranno a costituire la categoria – di creazione giurisprudenziale – dei delicta (delitti). Nel caso in cui l’autore dell’illecito non adempia volontariamente l’obbligazione sorta a suo carico, la parte lesa potrà agire contro di lui con la legis actio sacramento in personam.
La situazione parzialmente si modifica a partire dalla metà del III secolo a.C.: infatti, nell’àmbito del processo formulare, il pretore consente di agire con azioni penali private non solo contro gli autori degli illeciti già previsti dal ius civile, ma anche contro gli autori di atti ritenuti illeciti dal pretore stesso e perseguibili con apposite azioni pretorie in factum.
In tutti i casi, siano essi civili o pretorii, l’eventuale sentenza di condanna ha sempre contenuto pecuniario: la somma di denaro è inflitta come pena per l’illecito commesso ed è quantificata per lo più in un multiplo, fino al quadruplo, del danno patrimoniale recato.
Le azioni penali, civili o pretorie, possiedono tre caratteristiche peculiari, che le differenziano dalle altre azioni:
Caratteristiche azioni penali
NOSSALITÀ, qualora autore dell’illecito sia un sottoposto (libero o schiavo)
INTRASMISSIBILITÀ
PASSIVA, qualora deceda l’autore dell’illecito
CUMULO (o
cumulatività) di pene e di azioni
Esaminiamo queste caratteristiche più nello specifico.
◆ Quando si parla di cumulo, ci si riferisce a due ipotesi: la prima è quella costituita dal caso in cui vi siano più autori dell’illecito, la seconda è quella per cui dal medesimo delitto può derivare, oltre alla responsabilità penale, anche quella di far avere all’offeso il risarcimento del danno attraverso il contestuale esperimento dell’azione risarcitoria (o reipersecutoria). Quindi, da un lato, cumulo delle pene (ciascuno degli autori dell’illecito è tenuto a pagare l’intera pena pecuniaria, secondo i principi della solidarietà cumulativa); dall’altro, cumulo delle azioni (penale e risarcitoria, secondo i principi del concorso di azioni).
Tuttavia, l’operatività del cumulo viene limitata dall’interpretazione dei giuristi classici, soprattutto allo scopo di impedire che la parte lesa consegua un vantaggio economico sproporzionato rispetto all’illecito subito. Si veda, ad esempio, quanto sostiene Giavoleno (attorno al 100 d.C.) a proposito delle azioni esperibili contro chi ha fatto un uso indebito (= diverso da quello pattuito) della cosa ricevuta in comodato:
Giavoleno, D.47.7.72(71) pr.: Se il comodatario ha commesso furto sulla cosa ricevuta in comodato, si può agire contro di lui sia di furto sia di comodato. Se si è già agito di furto, l’azione di comodato si estingue. Se si è già agito di comodato, all’azione di furto si oppone l’eccezione.
Il giurista esclude, in questo caso, il cumulo delle azioni, con modalità diverse a seconda che l’azione esperita per prima sia quella per l’illecito (furto) o quella per l’inadempimento contrattuale (comodato).
◆ La nossalità è una seconda caratteristica delle azioni penali.
Il problema si pone in relazione al fatto che a commettere l’illecito non sia stato un
paterfamilias, ma un sottoposto, libero o schiavo.
La formula, nel caso del furto, assume un tenore parzialmente diverso:
Se risulta che lo schiavo Stico ha rubato ad Aulo Agerio (= derubato) una coppa d’oro o è stato complice o istigatore (ope consilio) del furto, per la qual cosa Numerio Negidio (= padrone dello schiavo) deve (oportet) sottostare alla pena pecuniaria in quanto ladro o consegnare per l’espiazione (noxae dedere) lo schiavo Stico, // il giudice condanni NN (= padrone dello schiavo) a pagare ad AA (= derubato) una somma pari al doppio del valore che la cosa ebbe (al momento del furto) o a consegnare per l’espiazione lo schiavo Stico. Se non risulta, assolva.
Qui è uno schiavo ad aver commesso un furto non flagrante; ma nulla cambierebbe, qualora l’autore dell’illecito fosse un sottoposto libero e, salvo l’ammontare della condanna, si trattasse di un furto flagrante. Dunque, se a commettere furto è un sottoposto, l’obbligazione sorge direttamente a carico dell’avente potestà, e contro di lui si agisce.
Se nello spazio di tempo che intercorre fra la commissione dell’illecito e l’inizio del processo l’avente potestà è mutato (per una qualsivoglia ragione), l’azione va esperita contro l’ultimo titolare della potestà, al quale si è trasmessa pure l’obbligazione. L’avente potestà è posto di fronte ad una alternativa: o accettare il processo con
l’eventualità di sottostare alla pena pecuniaria, o dare a nossa il sottoposto, cioè trasferirne la proprietà al derubato.
Tale alternativa non sussiste se risulta che il padrone/paterfamilias era al corrente del proposito illecito del sottoposto o, a fortiori, se ne è stato l’istigatore: in queste ipotesi l’avente potestà deve necessariamente sottostare alla pena pecuniaria.
◆ Ultima questione da affrontare è se le azioni penali siano trasmissibili agli eredi degli interessati. In altre parole: se muore una delle parti, ci si chiede se le azioni passano o non passano ai rispettivi eredi.
Bisogna anzitutto distinguere il caso in cui muoia l’attore (= chi ha subìto l’illecito) da quello in cui muoia il convenuto (= l’autore dell’illecito): diversa, infatti, è la risposta data dell’ordinamento giuridico.
Se muore il convenuto (= l’autore dell’illecito), nessuna azione penale si trasmette ai suoi eredi. L’intrasmissibilità passiva è così la terza caratteristica delle azioni penali.
Solamente nell’ipotesi in cui gli eredi del convenuto abbiano tratto un vantaggio economico dall’illecito da lui commesso (ad es., da un furto) si può agire contro di loro, ma non con l’azione penale, bensì con un’azione (non penale) in factum nei limiti dell’arricchimento da questi conseguito.
Viceversa, se muore l’attore, la regola generale prevede che l’azione penale si trasmetta ai suoi eredi, come normalmente si verifica nelle azioni non penali (ossia quelle a tutela del creditore di una obbligazione sorta da un atto lecito, come un contratto): si parla qui di trasmissibilità attiva dell’azione. A costituire eccezione, fra le azioni penali, è l’azione spettante per lesioni fisiche o morali, dato il suo carattere strettamente personale: sarebbe infatti iniquo che gli eredi di chi ha subìto la lesione (iniuria) ne traessero il vantaggio patrimoniale derivante dalla condanna pecuniaria dell’autore della lesione, e dunque l’azione per iniuriae non è trasmissibile attivamente.
Gli illeciti civili (delicta) sono quattro, tipici: il furto (furtum); la rapina (bona vi rapta), individuata nel corso del I secolo a.C., nel clima di guerra civile, come ipotesi di furto con violenza; lesioni fisiche e poi anche morali (iniuria); danneggiamento di beni altrui (damnum iniuria datum), come fra 250 e 200 a.C. viene disciplinato dalla legge aquilia, che riordina e integra la casistica precedente.
Le azioni penali contro gli autori di questi illeciti sono esperibili senza limiti di tempo.
Invece, dagli illeciti pretorii, più numerosi, per lungo tempo non sorge alcuna obbligazione, e quindi il loro autore è tenuto solo sul piano processuale da azioni pretorie in factum, esperibili dalla parte lesa entro un anno da quando essa è in grado di agire.
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FURTO (FURTUM)
La precisa configurazione di questo delitto, riconosciuto ab antiquo dal ius civile, varia a seconda delle varie epoche storiche del diritto romano.
Oggetto di furto, di regola, è solamente la cosa mobile, mentre elemento soggettivo è il dolo (dolus malus), qualificato come volontà di rubare (animus furandi) o di procurarsi un lucro (animus lucri faciendi).
Inteso in origine come asportazione (amotio) della cosa dalla sfera di disposizione altrui, il furto raggiunge in età repubblicana la massima estensione di significato, tale da includere ogni danno dolosamente arrecato a terzi in ordine ad un loro bene, per poi subire, nel corso dell’età classica, un processo inverso di delimitazione, soprattutto di fronte all’individuazione di altre fattispecie delittuose. Si perviene così a considerare, come elemento oggettivo del furto, ogni sottrazione (contrectatio) di cosa altrui, nella cui nozione si ricomprende, oltre alla asportazione (ablatio), caratteristica del moderno furto, anche l’appropriazione di cosa altrui detenuta in base a un determinato titolo come nella moderna appropriazione indebita, nonché l’occultamento del ladro o dell’oggetto rubato configuranti rispettivamente il favoreggiamento e la ricettazione moderni, lo sfruttamento di errore altrui quale si ha nel ricevere un pagamento indebito, e ancora la sottrazione del mero uso di una cosa (furto d’uso).
Già le Dodici Tavole attestano la distinzione – verosimilmente individuata ancor prima – tra furto flagrante e furto non flagrante (manifestum e nec manifestum).
Se il furto è flagrante, ossia – secondo la concezione originaria – se il ladro è visto e catturato nell’atto di rubare, il derubato può procedere immediatamente contro di lui con l’azione esecutiva “per imposizione della mano”, per manus iniectionem (Tav. VIII.14). Il ladro, portato in tribunale, è assegnato dal magistrato giusdicente al derubato, che lo tiene presso di sé in uno stato di soggezione (addictus), come un qualunque condannato in un processo di cognizione che non ha ottemperato alla condanna patrimoniale, e con le medesime conseguenze estreme (vendita come schiavo di là dal Tevere o uccisione).
La nozione di flagranza è ben presto estesa – probabilmente a seguito di interpretazione creatrice dei pontefici – anche a casi in cui la refurtiva fosse ritrovata dopo una perquisizione formale nella casa del presunto ladro, oppure costui si opponga ad essa, o ancora abbia nascosto la refurtiva presso terzi (Tav. VIII.15a-b).
Negli altri casi si verifica un furto non flagrante, che obbliga il ladro a pagare una somma doppia rispetto al valore della refurtiva (Tav. VIII.16): contro questi il derubato, nel processo arcaico per legis actiones, può agire con l’azione sacramento nella forma in personam.
Quando si verificano determinate condizioni, ossia quando il ladro commetta furto di notte oppure quando, di giorno, si difenda con armi, egli può essere legittimamente ucciso, purché, nella seconda ipotesi, il derubato chieda aiuto ad alta voce, chiamando i vicini a testimoni (Tav. VIII.12-13).
Nell’ultima Repubblica e nel Principato, i giuristi riflettono sia sulla individuazione dei presupposti di flagranza, sia sulla nozione stessa di furto e su numerosi altri aspetti.
Ad esempio, ritengono perseguibile per furto chi, avendo ricevuto in prestito d’uso (= comodato) qualcosa (dapprima un animale da soma, poi qualunque cosa), ne abbia fatto un uso indebito, o, parimenti, avendola ricevuta per conservarla (deposito), ne abbia fatto uso:
Gellio, Notti Attiche 6.15: [1] Labeone, nel secondo libro del suo commento Alle dodici Tavole, scrisse che nel passato si ebbero processi di furto rigorosi e severi, e che, com’era solito dire Bruto, era stato condannato per furto anche chi aveva condotto un giumento in un luogo diverso da quello per cui lo aveva ricevuto in prestito e, parimenti, chi lo aveva spinto più lontano del luogo stabilito. [2] Su questa linea, Q. (Mucio) Scevola nel sedicesimo libro dei suoi libri Sul diritto civile scrisse quanto segue: “Chiunque riceve in custodia una cosa e la usa, o riceve una cosa in prestito a uso (= comodato) e la usa ad uno scopo diverso da quello per cui l’ha ricevuta, è responsabile di furto”.
Rimane legittima l’uccisione del ladro notturno o, se armato, diurno, ma ora contro ogni altro autore di un furto il derubato deve agire in giudizio con le apposite formule delle relative azioni penali. Nell’ipotesi di furto non flagrante occorre agire con la seguente formula:
Se risulta che Numerio Negidio (= il presunto ladro) ha rubato ad Aulo Agerio (= il derubato) una coppa d’oro o è stato complice o istigatore (ope consilio) del furto, per la qual cosa NN deve (oportet) sottostare alla pena pecuniaria in quanto ladro, // il giudice condanni NN a pagare ad AA una somma pari al doppio del valore che la cosa ebbe (al momento del furto). Se non risulta, assolva.
Come appare palesemente dalla formula, questa azione può essere concessa non solo contro il presunto ladro, ma anche contro il complice o l’istigatore del furto.
Qualora a commettere furto siano più autori o vi sia un istigatore – e lo stesso vale per gli altri illeciti –, ciascuno di loro è tenuto a subire l’intera pena pecuniaria, poiché, come già detto, essa è inflitta per punire l’atto illecito commesso: tecnicamente, a carico di tutti i coautori sorge una obbligazione solidale cumulativa, in cui ciascuno dei debitori in solido deve l’intero debito. (Non così accade nel caso di obbligazione solidale elettiva, nascente solo da un atto lecito come un contratto, in cui la prestazione eseguita da uno dei condebitori libera gli altri).
Nel furto, e in qualche altro caso, il derubato (o, in generale, l’offeso) può agire con una ulteriore azione, detta rei persecutoria “che persegue (il valore del)la cosa”, per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale sofferto.
Le azioni di furto importano l’infamia del condannato, per cui quest’ultimo viene privato della capacità di postulare pro aliis (“stare in giudizio in luogo di altri”), del ius suffragii (“diritto di votare nei comizi”) e del ius honorum (“diritto di essere eletti alle magistrature”).
Già a partire dalla tarda età classica, la persecuzione privata del furto declina di fronte alla sua concorrente persecuzione pubblica in sede di cognitio extra ordinem criminale.
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RAPINA (BONA VI RAPTA)
Tra i delitti privati Gaio menziona, accanto al furto, la rapina. In quanto sottrazione violenta di cose altrui, essa rientrava in origine sotto la disciplina del furto. Sul finire dell’età repubblicana, a seguito dell’acuirsi dei conflitti interni derivante dalle vicende conseguenti alla dittatura di Silla, il pretore Lucullo introdusse con un apposito editto una formula per perseguire con la pena del quadruplo la sottrazione violenta di beni (bona vi rapta), ossia la rapina, se compiuta per il tramite di bande armate. Successivamente, per estensione giurisprudenziale, venne ricompresa nella rapina pure la sottrazione di beni compiuta anche da singole persone armate o da bande non armate.
Tuttavia, i casi più gravi vengono ben presto considerati crimina e perciò attratti nella sfera della repressione pubblica, e non più lasciati all’iniziativa processuale – aleatoria in un clima di intimidazione e violenze – della parte lesa.
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LESIONI (INIURIA)
Nel periodo monarchico e per parte della Repubblica, l’unico genere di lesioni che hanno rilevanza sul piano giuridico e trovano sanzione sono soltanto le lesioni fisiche: nelle dodici Tavole sono contemplati tre diversi tipi di lesione che comportano sanzioni differenti a seconda delle conseguenze (Tav. VIII.2-4), cosicché la dottrina moderna ha operato una distinzione fra lesioni permanenti e non permanenti, distinzione che non è però presente nelle fonti antiche.
Per le lesioni permanenti, come la mutilazione di un arto o la inutilizzazione di un organo non vitale (c.d. membrum ruptum), le dodici Tavole prevedono la pena del taglione (la talio), a meno che non sia intervenuta una composizione volontaria tra offeso e offensore, consistente in un’offerta di contenuto patrimoniale fatta dall’offensore e accettata dall’offeso. Anche se a prima vista potrebbe sembrare una pena barbara, il taglione rappresenta comunque un’evoluzione rispetto a una vendetta eccessiva lasciata all’offeso o ai suoi agnati.
Viceversa, per le lesioni non permanenti è previsto l’obbligo di pagare all’offeso una sanzione patrimoniale, il cui ammontare sia direttamente proporzionale alla gravità della lesione: per una percossa semplice (iniuria nel significato originario), come una sberla o un pugno non devastante, l’offensore deve versare all’offeso 25 assi; per una frattura (os fractum), 300 assi se il leso è una persona libera, 150 assi se schiavo.
A partire dalla metà del III secolo a.C., le tre ipotesi originarie (percossa semplice, frattura, mutilazione) sono unificate nella nozione unica di iniuria “lesione”; un po’ più tardi, il pretore demanderà il giudizio a un collegio di giudici (non a un giudice unico), i quali, in caso di condanna, potranno stabilirne l’ammontare in denaro secondo quanto sembri loro “giusto ed equo”.
Un esempio esplicativo di questa evoluzione si rinviene in un divertente aneddoto raccontato da Xxxx Xxxxxx (II secolo d.C.), che riporta una discussione sulle dodici Tavole fra il giurista Sestio Xxxxxxx e il filosofo Favorino. Quest’ultimo, ad un certo
punto, è critico sull’entità della pena pecuniaria fissa, divenuta irrisoria a causa della svalutazione dell’asse:
Gellio, Notti Attiche 20.1.12-13: [12] E poi, come ho detto, vi sono pene eccessivamente blande: non pare forse anche a te troppo debole che stia scritto (nelle dodici Tavole) che l’iniuria vada punita come segue: «Se fece iniuria a un altro, vi siano 25 assi di pena». Chi sarà tanto povero da non togliersi, per 25 assi, lo sfizio di una lesione lieve? [13] Perciò anche il vostro Labeone, nel suo Commento alle Dodici Tavole, disapprovava così questa norma: «Xxxxx Xxxxxxx era uno davvero sfrontato e proprio insensato. Per divertirsi, aveva l’abitudine di colpire col palmo della mano il volto di un uomo libero. Un suo schiavo lo seguiva portando una borsa piena di denaro. Sùbito dopo aver schiaffeggiato qualcuno, ordinava (allo schiavo) di corrispondere (all’offeso) 25 assi, secondo la norma delle Dodici Tavole». Perciò, da allora in poi, i pretori provvidero a superarla e disapplicarla e, nell’editto, promisero che per la valutazione pecuniaria delle iniuriae avrebbero dato un collegio di giudici.
La nozione di iniuria, elaborata dai giuristi e accolta dai pretori nell’editto, viene così ampliata fino a includervi ogni lesione alla integrità anche morale di una persona libera, come, ad es., l’insulto, la diffamazione, l’oltraggio al pudore.
Si perviene così alla costruzione di una azione generale di iniuriae per ogni tipo di lesione (fisica o morale) – la cui pena pecuniaria continua ad essere stabilita da un collegio di giudici – grazie, ancora una volta, al lavoro d’interpretazione dei giuristi. In proposito, come ci riferisce Ulpiano, il grande giurista di età augustea Labeone afferma che il delitto di iniuria può compiersi in due modi: per mezzo di un gesto materiale o di parole. La gravità dell’iniuria può dipendere, sempre secondo Labeone, da tre fattori.
Gravità dell’iniuria dipende
condizione personale della vittima: è grave l’iniuria nei confronti di un magistrato, o del padre, o del patrono.
qualità del comportamento lesivo: grave è infliggere una ferita al volto o nel colpire il volto di qualcuno.
momento in cui la si arreca: è grave l’iniuria durante i giochi o in un luogo frequentato: non così se l’iniuria avviene in un luogo deserto.
▫
DANNEGGIAMENTO (DAMNUM INIURIA DATUM)
Per il periodo arcaico si conoscono soltanto alcune singole ipotesi di danno a beni altrui, regolate per la maggior parte da norme attribuite dalle fonti antiche alle dodici
Tavole (e ricomprese, secondo le moderne ricostruzioni della legge decemvirale, nella Tav. VIII) e per le quali sono previste sanzioni che vanno dalla repressione pubblica (anche la pena di morte) all’obbligo di risarcire il danno arrecato. Ad esempio, l’abbattimento di un albero altrui (Tav. VIII.11) comporta una sanzione patrimoniale di 25 assi.
Nel III secolo a.C., le varie ipotesi di danno a beni altrui recato con un comportamento ritenuto ingiustificato (damnum iniuria datum) ricevono una disciplina organica ad opera della legge aquilia (precisamente un plebiscito). Il testo, perduto, è stato oggetto di numerose ricostruzioni da parte dei moderni fatte sulla base delle citazioni e dei commenti dei giuristi classici.
Qui propongo il testo secondo la ricostruzione del xxxx. Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx:
Capo I. Se alcuno abbia ucciso lo schiavo o la schiava altrui o animali (pecus) altrui, sia tenuto a pagare in denaro al proprietario il valore maggiore che ebbe lo schiavo o la pecus nell’ultimo anno.
Capo II. Se il costipulante abbia fatto in frode allo stipulante l’acceptilatio del denaro, sia condannato a pagare allo stipulante il valore del danno.
Capo III. Se alcuno abbia prodotto ad altri la perdita di un’altra cosa [= ‘altra’ rispetto a quelle del capo I e II], per averla bruciata, fatta a pezzi, (o comunque) resa inservibile iniuriā, sia tenuto a pagare in denaro al proprietario il valore che essa ebbe negli ultimi 30 giorni.
Contro colui che nega l’azione sia in duplum.
Se lo schiavo abbia ucciso, essendone a conoscenza il padrone, l’azione contro quest’ultimo sia in solido, se non ne era conoscenza, l’azione sia nossale.
Delle tre disposizioni originarie della legge due sono quelle ora rilevanti: quella del capo I, che sanziona l’uccisore di altrui schiavi o animali da gregge o da mandria (le pécudes), come pecore o cavalli; e quella del capo III, che punisce chi ha distrutto o reso inservibili cose inanimate (e la giurisprudenza considerò previsto nella stessa norma anche il ferimento degli schiavi o animali la cui uccisione è sanzionata nel primo capo).
Il danneggiante è tenuto, come pena, a pagare al proprietario del bene il valore più alto che esso ha raggiunto nell’ultimo anno in caso di uccisione di schiavi o animali da gregge o da mandria, oppure negli ultimi trenta giorni nelle ipotesi contemplate dalla disposizione del capo III (il che in pratica significa il valore al momento del danno).
A seguito dell’affermarsi del processo formulare, l’autore del danneggiamento deve essere chiamato in giudizio con le apposite formule delle azioni di cognizione. E, perché egli sia perseguibile, occorre verificare la sussistenza di due requisiti, l’uno oggettivo, l’altro soggettivo.
Con il primo (profilo oggettivo) si richiede l’esistenza di un nesso causale, cioè che il danno sia materialmente imputabile all’attività dell’autore. Anzi, in origine si esige il contatto diretto dell’agente col bene danneggiato: ‘corpore corpori’ dicono i giuristi per riassumere efficacemente la circostanza che è necessaria un’attività fisica dell’agente sulla struttura materiale del bene. Più tardi i giuristi interpreteranno
estensivamente il requisito, concedendo la possibilità di agire per alcune situazioni in cui è assente il contatto diretto: ad esempio, stabiliscono che si possa agire quando si chiudano animali altrui nella stalla, lasciandoli senza cibo e causandone la morte; o ancora quando si spinga uno schiavo altrui a salire su un albero da cui egli cada rovinosamente.
Con il secondo requisito (profilo soggettivo) si esige che il danno sia causato dal suo autore con un comportamento non giustificato dall’ordinamento. Per individuare quali siano i comportamenti ingiustificati, e pertanto antigiuridici, i giuristi concentrano la loro riflessione sui criteri di imputabilità del danno.
In età tardorepubblicana tali criteri sono identificati nelle nozioni di dolo e di colpa. Se il dolo si sostanzia nell’intenzionalità di provocare il danno, la colpa – che ha richiesto ai giuristi notevoli sforzi per farne emergere la nozione e un costante lavoro di riconduzione di questo o quel comportamento a tale nozione – è un comportamento ritenuto riprovevole se posto a confronto con quello di un modello anch’esso costruito dai giuristi su base casistica. Se si viene meno alla prudenza e diligenza dell’uomo medio (prudens et diligens paterfamilias, come dirà Paolo, giurista tardoclassico), cioè se non si è in grado di prevedere ciò che normalmente si prevede, s’incorre nella colpa-negligenza, che è imputabile a tutti.
I due requisiti – nesso causale e comportamento antigiuridico (per dolo o per colpa) – emergono chiaramente e congiuntamente nel seguente passo:
Ulpiano, D.9.2.11 pr.: [1] Mentre si giocava a palla, uno dei giocatori la colpì con violenza, e la palla si abbatté sulla mano di un barbiere. Questi stava radendo uno schiavo, che per il colpo del rasoio si vide tagliata la gola. [2] Risponderà per legge aquilia quello dei due (giocatore o barbiere) che sia in colpa. Secondo Pròculo, è in colpa il barbiere: e, certo, se questi stava a radere dove si era soliti giocare vi è di che imputargli.
L’esposizione del caso non consente al giurista di dichiarare contro chi (giocatore o barbiere) il padrone dello schiavo possa esperire l’azione spettantegli in base alla legge aquilia: infatti, considerando solo il nesso causale, chiamato in giudizio potrebbe essere indifferentemente il giocatore o il barbiere.
Per questa ragione, il giurista prende in considerazione, congiuntamente, l’altro requisito, per cercare di individuare chi dei due abbia tenuto una condotta tale da potergli attribuire una responsabilità per colpa. Di sicuro si sottintende la possibilità che ambedue siano esenti da responsabilità, mentre il testo sembra ignorare l’eventualità di un concorso di colpa, tematica peraltro assente dalla prospettiva giuridica della giurisprudenza classica.
Il giocatore sarebbe in colpa se, “colpendo la palla con violenza”, avesse tenuto un comportamento negligente o imprudente rispetto a un eventuale modello di corretto giocatore, oppure se avesse infranto eventuali regole del gioco (stabilite da un regolamento, scritto o consolidato dalla prassi), di cui s’ignora l’esistenza.
Il barbiere ambulante sarebbe in colpa se fosse stato negligente o imprudente nella scelta del luogo dove svolgere la propria attività, sistemandosi – come prospetta il testo – in un luogo ove normalmente si era soliti giocare a palla.
Altro testo che presenti entrambi i profili, oggettivo (nesso causale) e soggettivo (colpevolezza), è tratto dai Digesta di Alfeno:
Alfeno, D.9.2.52 pr.: Se uno schiavo è morto in seguito alle ferite – e ciò non è accaduto per imperizia del medico o negligenza del padrone – si può correttamente agire per la sua uccisione ingiustificata.
Nonostante la morte non immediata dello schiavo ferito, per il giurista persiste il nesso causale. Pertanto, il dominus potrà agire per l’uccisione del proprio schiavo in base al primo capo della legge aquilia (e non, in base al capo terzo, per il ferimento), purché la morte non sia dovuta a imperizia del medico che abbia curato lo schiavo o a negligenza del padrone che non abbia provveduto a farlo curare.
Il padrone dello schiavo può agire contro il danneggiante con la seguente formula:
Azione da legge aquilia (contro chi nega).
Se risulta che Numerio Negidio ha ucciso ingiustificatamente (iniuriā) Stico, schiavo di Aulo Agerio, al doppio della somma che per tale ragione Numerio Negidio deve dare ad Aulo Agerio, // il giudice condanni Numerio Negidio a dare ad Aulo Agerio. Se non risulta, assolva.
Nell’intentio, questa formula prevede – secondo quanto stabilito dalla legge aquilia – la richiesta di “una somma pari al massimo valore raggiunto dallo schiavo Stico nell’anno precedente”; mentre, nella condemnatio “condanna”, la somma viene raddoppiata perché il convenuto ha negato ogni responsabilità. Se, al contrario, il convenuto ammetteva la propria responsabilità, la condanna era espressa nello stesso valore massimo indicato nell’intentio.
Come nelle altre azioni penali, la condanna svolge funzione di pena per la commissione dell’illecito, ma in pratica opera anche come risarcimento, tanto che questa azione sarà percepita come non più penale, ma solo risarcitoria, forse nel diritto romano tardo e certamente nel Medioevo (vedi, nel nostro diritto vigente, l’art. 2043 c.c.).
Leggiamo ora un ultimo testo in cui il giurista Labeone (che raccoglie l’approvazione di Ulpiano) concentra la sua attenzione sul nesso causale:
Ulpiano, D.9.2.9 pr.: Se un’ostetrica diede un farmaco a una schiava che poi morì, Labeone fa una distinzione: se l’ostetrica lo somministrò con le proprie mani, appare “avere ucciso”; se invece lo diede alla schiava perché lo assumesse da sé, si deve dare un’azione in factum. Questo parere è adeguato, perché nel secondo caso ha piuttosto procurato una causa di morte che ucciso.
Nel passo il bene danneggiato è costituito da una schiava, che forse si sta sottoponendo ad un aborto o forse sta per partorire o ha appena partorito, poiché sembra appurato che l’ostetrica debba in ogni caso rispondere: muta solo il titolo che dipende dalle modalità di somministrazione del farmaco. Se l’ostetrica lo ha direttamente somministrato alla schiava, si rientra nell’ipotesi di uccisione prevista
dal primo capo della legge aquilia, e il padrone della schiava potrà chiamare in giudizio l’ostetrica appunto con l’actio ex lege Aquilia vista poco sopra. Se invece l’ostetrica ha fornito il medicamento, ma la schiava lo ha assunto da sé, allora la situazione è estranea alle ipotesi contemplate dalla legge aquilia. Tuttavia, l’ostetrica non è ritenuta del tutto esente da responsabilità e pertanto sarà perseguibile con una azione penale in factum (pretoria), in cui spetterà al giudice stabilire l’ammontare della condanna pecuniaria, inferiore rispetto a quella prevista nell’azione da legge aquilia. Con la persecuzione privata concorre la persecuzione pubblica dell’uccisione dello schiavo sino dalla lex Cornelia sillana.
In diritto giustinianeo, si manifesta la tendenza ad attenuare il carattere penale dell’actio legis Aquiliae, considerata ormai quale rimedio generale di risarcimento di ogni danno arrecato alle cose: già in diritto classico si era affermato il suo concorso alternativo con azioni reipersecutorie.
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ILLECITI PRETORII – QUASI DELITTI
I numerosi comportamenti non contemplati dal ius civile, ma ritenuti illeciti dal pretore, sono perseguiti con azioni in factum, di durata annuale (ossia esperibili dalla parte lesa entro un anno da quando essa è in grado di agire), nella cui formula – secondo la previsione dell’editto pretorio – è precisato l’ammontare della pena pecuniaria o il criterio per determinarla.
Anzitutto, egli sanziona vari comportamenti che turbano il regolare svolgimento del processo formulare: tra gli altri casi, concede un’azione
- contro chi non ottemperi ai decreti da lui emessi;
- contro chi, convenuto in giudizio, non vi compaia e non dia un garante per la comparizione;
- contro il giudice che abbia mal giudicato (qui litem suam fecerit) per amicizia o inimicizia verso uno dei litiganti o per corruzione o ancora per avere condannato il convenuto ad una somma diversa da quella prevista nella formula, quando questa la indicasse in modo preciso.
Inoltre, in relazione allo stato edilizio-abitativo del tempo, il pretore introduce nell’editto le formule di due azioni, esperibili da qualunque cittadino.
La prima è diretta contro chi abita un immobile da cui si siano versate sostanze liquide o gettati oggetti solidi sul suolo pubblico provocando danni.
La seconda è diretta contro chi ha posato o appeso ad una sporgenza di un edificio (davanzale di finestra, balcone, cornicione, tettoia) una cosa a rischio di caduta.
12. ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI
12.1. Modi di estinzione per ius civile
Le obbligazioni, come nascono da fatti o atti giuridici chiamati fonti, così ‘muoiono’, nel senso che si estinguono in forza di determinati fatti o atti, chiamati in dottrina modi di estinzione, che si posso distinguere in due categorie.
ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI
Modi di ius civile
Solutio per aes et libram Acceptilatio Novazione
Litis contestatio
Confusione/Impossibilità sopravvenuta/Dissenso comune/Recesso unilaterale/Morte
Modi di ius honorarium Patto di non richiedere Compensazione
La prima, più numerosa, comprende quei modi che distruggono il rapporto obbligatorio sul piano del ius civile. Sono i modi che estinguono ipso iure (automaticamente) l’obbligazione. Il giudice, chiamato a decidere in caso di controversia, se gli appare evidente il fatto estintivo, deve pronunciarsi per l’inesistenza del dovere giuridico di dare o facere affermato dall’attore nei confronti del convenuto.
La seconda categoria comprende alcuni fatti o atti che per ius civile non distruggono l’obbligazione, per i quali però il diritto onorario, anzitutto quello pretorio, permette di paralizzare la pretesa processuale del creditore-attore tramite l’opposizione di una eccezione.
1) Solutio per aes et libram e solutio
In età arcaica, per sciogliersi dal vincolo di soggezione (non ancora obbligatorio) del
nexum – oltre ovviamente alla restituzione dei beni ricevuti contestualmente al nexum
– occorreva compiere uno scioglimento formale, speculare a quello da cui era sorto il vincolo e consistente in un altro atto analogo alla mancipatio e dunque mediante il rito del bronzo e della bilancia, detto solutio per aes et libram “scioglimento tramite (il rito di) bronzo e bilancia”, in cui l’assoggettato doveva pronunciare le parole “Con questo bronzo e con questa bilancia, da te io mi sciolgo e ‘libero’”.
Anche dopo l’abolizione del nexum e la generale affermazione del vincolo obbligatorio, l’arcaico rituale rimane in uso, ma soltanto per sciogliere il debitore dal
vincolo di una obbligazione sorta da un atto per aes et libram e non effettivamente adempiuta: assume in sostanza la funzione di rimettere il debito.
Progressivamente il termine solutio viene staccato dal rituale del bronzo e della bilancia ed impiegato per indicare lo scioglimento da qualunque obbligazione in seguito all’adempimento, specie il pagamento.
Xxxx 0.000: L’obbligazione si estingue soprattutto con l’adempimento (solutio) di quanto è dovuto. Ci si domanda, quindi, se uno che con il consenso del creditore adempia una cosa per un’altra (aliud pro alio) si liberi automaticamente (ipso iure), come è avviso dei nostri maestri; oppure se a stretto diritto rimanga obbligato, ma debba difendersi con l’eccezione di dolo contro il richiedente, come è parere degli autori dell’opposta scuola.
Gaio considera normale – e, in effetti, al suo tempo lo era da alcuni secoli – che l’obbligazione si estingua “soprattutto con la solutio”, ossia con l’adempimento, che nella sua forma più usuale è il pagamento.
Adempiere significa eseguire esattamente la prestazione dovuta.
Perciò Gaio si domanda se possa considerarsi estinta automaticamente (ipso iure) l’obbligazione nell’ipotesi in cui il creditore accetti che gli venga data una cosa diversa rispetto a quella dovuta (aliud pro alio), situazione contemplata anche dal Codice civile vigente come “prestazione in luogo dell’adempimento”4. I giuristi sabiniani propendono per la risposta affermativa, mentre, secondo i proculiani, il creditore potrebbe ancora agire in giudizio, ma vedrebbe paralizzata la pretesa dall’eccezione di dolo opposta dal convenuto-debitore, il che realizza così un’estinzione non automatica, ma “in forza di una eccezione”.
La prestazione può essere eseguita a persone terze rispetto al rapporto obbligatorio e investite della sua ricezione tramite una stipulatio [la domanda rivolta al debitore al creditore: “Prometti di dare a me o a Tizio …?”; oppure, se la domanda è formulata per la medesima prestazione da un secondo creditore: “Prometti di dare a me la stessa cosa (idem) che hai promesso a Caio (primo creditore)?”].
All’opposto, la prestazione può essere eseguita pure da terzi indicati dal debitore o anche da un terzo all’insaputa o contro la volontà del debitore stesso.
b) Acceptilatio
Alle origini per estinguere l’obbligazione verbale nata da sponsio, non bastava adempiere la prestazione promessa, ma occorreva compiere un atto verbale di liberazione formale. Il debitore che aveva adempiuto domandava: “Hai ricevuto quel
4 Art. 1197 c.c. (Prestazione in luogo dell’adempimento): Il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta. In questo caso l'obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita.
Se la prestazione consiste nel trasferimento della proprietà o di un altro diritto, il debitore è tenuto alla garanzia per l’evizione e per i vizi della cosa secondo le norme della vendita, salvo che il creditore preferisca esigere la prestazione originaria e il risarcimento del danno.
In ogni caso non rivivono le garanzie prestate dai terzi.
che io ti ho promesso?”, e il creditore che aveva ricevuto la prestazione esatta rispondeva: “Ho (ricevuto)”.
Questo modo di estinzione è denominato acceptilatio, che può rendersi come “conferma di avere ricevuto”.
Quando, grazie all’elaborazione giurisprudenziale, si giunse a ritenere che fosse sufficiente la solutio per estinguere l’obbligazione, il dialogo formale venne impiegato per operare la remissione del debito, ossia per estinguere una obbligazione non effettivamente adempiuta. Nel caso in cui un paterfamilias avesse voluto rimettere debiti sorti da obbligazioni non verbali, poteva trasfondere il rapporto obbligatorio esistente in una stipulatio, da compiersi ovviamente col medesimo debitore – il che comportava una novazione (vedi sub c) – e quindi far seguire il rito verbale di formale estinzione.
c) Novazione (novatio)
La stipulatio è il modo principe per compiere una novazione (novatio), che consiste nel trasfondere e sostituire una obbligazione esistente con una nuova, che abbia qualcosa di diverso rispetto alla precedente.
La novazione può essere oggettiva o soggettiva.
Oggettiva
quando creditore e debitore rimangono i medesimi, ma cambia la causa della obbligazione
NOVAZIONE
Soggettiva
quando muta la persona del debitore o del creditore
Novazione oggettiva. Tizio (creditore) si fa promettere con stipulatio da Caio (debitore) quel che Caio già gli deve come prezzo di una compravendita. Il debito da compravendita è estinto e la somma è ora dovuta in forza della stipulatio. Se si vuol realizzare una novazione di una precedente stipulatio, occorre che vi sia qualcosa di nuovo, anche di poco conto, nel contenuto: ad es., la modifica di un termine, oppure l’aggiunta o la eliminazione di una condizione.
Novazione soggettiva. Se muta il debitore, il debito di un paterfamilias viene assunto da un altro paterfamilias: si configura così una delegazione passiva (tecnicamente una expromissio). Se invece un nuovo paterfamilias subentra come creditore a quello precedente, si configura una delegazione attiva (tecnicamente una delegatio).
d) Litis contestatio
Questo atto, conclusivo della prima fase (in iure) del processo formulare, può estinguere una obbligazione, purché si agisca con un’azione in personam, la cui
formula contenga il verbo oportere “dovere (di dare o di fare)”, in un processo conforme ai tre requisiti della legge Giulia. Negli altri casi, il convenuto che sia di nuovo chiamato in giudizio dallo stesso attore per la medesima questione controversa, può opporre l’apposita eccezione.
e) Altri modi di estinzione per ius civile.
Confusione: quando le posizioni di creditore e di debitore si concentrano nel medesimo paterfamilias, ad es., perché l’uno diviene erede dell’altro. |
Impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore: ad es., se la cosa dovuta è perita (andata distrutta) a causa di un terremoto. |
Nei contratti consensuali, l’obbligazione si estingue per dissenso comune delle parti, purché nessuna di esse abbia iniziato a eseguire la prestazione. |
Recesso unilaterale: consentito nella società e nel mandato. |
Morte: estingue soltanto poche fra le obbligazioni da atto lecito, come quelle in cui rileva la qualità della persona obbligata (ad es., nella società e nel mandato) o la sua speciale competenza, come in numerose ipotesi di locazione di opera. Estingue invece tutte le obbligazioni da atto illecito, purché l’eventuale processo in corso non abbia ancora concluso la prima fase (intrasmissibilità passiva delle relative azioni penali). |
* * *
13.2. Modi di estinzione per diritto onorario
Nei modi di estinzione della seconda categoria, l’obbligazione è considerata estinta solamente sul piano processuale, per diritto onorario (pretorio): qualora l’eccezione opposta risulti fondata, il giudice investito della controversia deve assolvere il debitore-convenuto, che comunque rimane obbligato sul piano del ius civile. In altri termini, il diritto permane, ma non è più azionabile con successo.
Si illustrano brevemente i due principali modi che estinguono l’obbligazione sul piano del diritto onorario, denominati spesso in dottrina ope exceptionis “in forza di una eccezione”, dal mezzo prevalentemente impiegato.
a) Patto di non richiedere (pactum de non petendo)
Fra creditore e debitore è intervenuto un patto informale, col quale il primo rinunciava per sempre a esigere la prestazione dal debitore, rimettendogli il debito; poi però, ripensandoci, lo chiama in giudizio come inadempiente.
Il debitore convenuto oppone la eccezione perentoria di patto che, se provata, porta alla sua assoluzione; l’azione contro di lui non sarà più riproponibile in forza del principio della irripetibilità del processo fra le stesse parti e per la stessa questione litigiosa.
b) Compensazione (compensatio)
Fino a tutto il II periodo, la compensazione opera in pochi casi specifici, poiché il diritto romano è fondamentalmente concepito come un sistema di azioni, che tende a isolare l’uno dall’altro i singoli rapporti di debito e credito.
Notevole è la differenza dal mondo giuridico moderno, in cui il principio della compensazione appartiene alla normalità dei rapporti patrimoniali.
Casi di compensazione in diritto romano | |
Azioni di buona fede | Nelle azioni di buona fede, la formula conferisce al giudice un ampio margine discrezionale nel valutare il comportamento reciproco dei litiganti in base alla buona fede (oggettiva): “con riguardo a tutto ciò che (quidquid), in forza di tale rapporto, NN (= convenuto) deve dare o fare nei confronti di AA (= attore) secondo buona fede (ex fide bona)”. Pertanto, il giudice può ridurre il credito vantato dall’attore, fino a pervenire all’assoluzione del convenuto (mai alla condanna dell’attore): può dunque compensare fino ad un risultato uguale a zero, mai però negativo per il creditore- attore. |
Banchiere | Un banchiere, quando agisce contro un cliente, deve detrarre dal credito fatto valere nella pretesa (intentio) l’importo dei crediti esigibili (ossia non condizionati o a termine) che il cliente vanti nei suoi confronti. Occorre però che si tratti di crediti omogenei, cioè del medesimo genere, ad es. di denaro o di derrate. La relativa formula processuale è così congegnata: Azione esperibile dal banchiere (pretoria, con compensazione). Se risulta che NN (= cliente) deve dare ad AA (= banchiere) 10.000 sesterzi in più di quanto AA deve a NN, materia del contendere, // il giudice condanni NN a pagare ad AA 10.000 sesterzi. Se non risulta, assolva. |
Bonorum emptor | Chi ha acquistato in blocco i beni di un fallito (bonorum emptor “compratore dei beni”) e, con un’azione con trasposizione di soggetto, agisce contro i debitori del fallito deve tener conto degli eventuali crediti (di qualunque genere) vantati da costoro nei confronti del fallito. Ovviamente, compete al giudice – al momento di quantificare la condanna pecuniaria – valutare l’ammontare della deduzione, ossia operare la compensazione. |
Azioni nei limiti del peculio | Infine, chi esperisce un’azione nei limiti del peculio contro un paterfamilias per il debito di un suo sottoposto deve detrarre dalla pretesa (intentio) relativa al peculio l’importo di eventuali debiti, non rilevanti per ius civile (= cd. obbligazioni naturali), del sottoposto nei confronti del paterfamilias stesso. |