Edizione di martedì 14 febbraio 2023
Edizione di martedì 14 febbraio 2023
Proprietà e diritti reali
Immobile locato a straniero privo di permesso di soggiorno: conseguenze per il locatore
di Xxxxxxx Xxxxx, Professore e Avvocato, Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato, Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Procedimenti di cognizione e ADR
La clausola di proroga della competenza giurisdizionale contenuta in condizioni generali di contratto non sottoscritte né espressamente richiamata nel testo contrattuale è inefficace
di Xxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Esecuzione forzata
L’aggiudicatario dell’immobile è successore a titolo particolare del debitore esecutato, anche agli effetti di cui all’art. 111 c.p.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Obbligazioni e contratti
Le tormentate vicende del patto di quota lite e le condizioni per la sua validità
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Comunione – Condominio - Locazione
Il Condominio non può vietare la locazione abitativa per finalità turistica di breve periodo: differenze rispetto alle attività ricettive (extralberghiere)
di Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Diritto successorio e donazioni
Collazione e tassazione dell’atto di divisione
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Diritto e reati societari
La mancata prova della colpa di organizzazione e del relativo nesso causale con il reato presupposto esclude la configurabilità di una responsabilità dell’ente ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Fallibilità della società start-up e termini per l’accertamento
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, Cultore di Diritto Commerciale presso l' Università degli Studi di Verona
Diritto Bancario
Recesso per giusta causa dal rapporto di apertura di credito
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Nuove tecnologie e Studio digitale
Avvocati alla prova dell’Intelligenza Artificiale: ChatGPTapre una nuova era
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Coach, Formatore, Consulente – CEO di MYPlace Communications
Proprietà e diritti reali
Immobile locato a straniero privo di permesso di soggiorno: conseguenze per il locatore
di Xxxxxxx Xxxxx, Professore e Avvocato, Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato, Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Parole chiave
TU Immigrazione – reato – immigrazione irregolare – permesso di soggiorno – favoreggiamento – alloggio – locatore – dolo specifico – ingiusto profitto – confisca
Sintesi
Cresce il contenzioso legato al fenomeno dell’immigrazione c.d. clandestina, che, in ambito locatizio e in presenza di alcuni elementi, genera conseguenze severe di natura penale in capo al locatore. Frequenti, dunque, gli interventi del Legislatore, volti a disciplinare la materia. Tra gli ultimi, il cd. “Decreto Flussi”, D-L 2 gennaio 2023 n. 1 (“Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”), appena entrato in vigore. Il più strutturato intervento sul tema è costituito dal d.lgs. 25 luglio del 1998, n. 286 (cd. T.U. Immigrazione), volto a reprimere condotte illecite che favoriscono l’ingresso e la permanenza illegale nel territorio dello Stato. In particolare, con riferimento al secondo profilo, il Legislatore ha inteso rimuovere quelle condizioni e quei presupposti che possono favorire la permanenza sul territorio nazionale dello straniero senza regolare permesso di soggiorno. Tra queste, il T.U. Immigrazione punisce chi, ricorrendo taluni presupposti, concede alloggio, anche in locazione, ad uno straniero privo di titolo di soggiorno, prevedendo conseguenze sia personali, che, soprattutto, patrimoniali a carico del locatore, fino alla confisca dell’immobile locato.
Sull’ingresso illegale nel territorio dello Stato
L’art. 12, co. 1, d.lgs. 286/1998 punisce chiunque, violando le disposizioni del T.U. Immigrazione, “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto degli stranieri nel territorio dello Stato, ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel
territorio dello Stato”. Si tratta di un reato di pericolo, a forma libera, di mera condotta. Tale disposizione è volta a punire – peraltro con pene molto severe – non solo tutte quelle condotte volte a consentire l’arrivo nel territorio dello Stato dei soggetti stranieri irregolari, ma anche quelle, subito successive, finalizzate a garantire la corretta riuscita dell’operazione.
L’ art. 12, co. 3, d.lgs. 286/1998 riproduce la disposizione di cui al co. 1, prevedendo però pene più elevate, in presenza di alcune aggravanti (Cfr. Cass. S.U. 40982/2018).
Sul favoreggiamento della permanenza dello straniero irregolare
L’art. 12, co. 5, d.lgs. 286/1998 punisce con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a euro 15.493 i soggetti che favoriscono la permanenza di persone irregolari nel territorio italiano e, in particolare, “fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico…”.
Tale disposizione si pone in un momento successivo rispetto a quella di cui all’art. 12, co. 1, in quanto è necessario che il soggetto irregolare abbia già fatto ingresso nel territorio dello Stato. Il reato ex art. 12, co. 5, infatti, prevede la realizzazione di una condotta legata alla permanenza dello straniero e, dunque, di una condotta del tutto diversa dall’ingresso illegale. Il delitto in parola si caratterizza per il dolo specifico, poiché per la sua configurabilità è necessario che l’agente agisca allo scopo di ottenere un profitto ingiusto (non è necessario che lo stesso sia poi effettivamente realizzato – sul punto Cass. 26457/2013)
La locazione di un immobile ad uno straniero irregolare e la sanzione accessoria della confisca
Con il cd. “pacchetto sicurezza” del 2008 il Legislatore ha introdotto l’art. 12, co. 5 bis. Tale disposizione costituisce una figura autonoma di reato che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni “chiunque a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ovvero cede, anche in locazione, un immobile ad uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione”. La commissione di tale delitto, determina rilevanti conseguenze patrimoniali in quanto è prevista la sanzione accessoria della confisca dell’immobile, ossia la definitiva privazione della proprietà dello stesso. In particolare, l’art. 12 co. 5 bis, nella seconda parte stabilisce che “la condanna con provvedimento irrevocabile…comporta la confisca dell’immobile.”
La confisca, che segue la disciplina prevista nel codice di rito, non si applica ove l’immobile appartenga a persona estranea al fatto. Ciò accade, per esempio, nel caso in cui l’immobile venga subaffittato a terzi, senza il consenso del proprietario.
Il reato ha natura istantanea e, quindi, si perfeziona nel momento in cui si conclude ovvero si rinnova il contratto di locazione. Non è dunque necessario che il conduttore abbia preso
possesso dell’immobile ovvero abbia pagato il canone concordato. La lesione del bene giuridico protetto si verifica nel momento in cui le parti raggiungono l’accordo per iniziare la locazione, con il contestuale approfittamento economico da parte del locatore.
Occorre rilevare che, come chiarito dalla giurisprudenza, il delitto ex art. 12 co. 5 bis è integrato anche dalla sublocazione dell’immobile a soggetti irregolari (sempre che l’agente si approfitti di tale condizione – sul punto, Cass. 29289/2017). In tal caso, però, il locatore dell’immobile concorre con il conduttore che dà alloggio a soggetti irregolari solo nel caso in cui partecipi al profitto ingiusto ottenuto dallo stesso conduttore. La giurisprudenza di legittimità, infatti, non ha ritenuto sufficiente la mera consapevolezza della illecita destinazione dell’immobile locato (sul punto, Cass. 29828/2017).
L’aspetto più controverso del reato riguarda l’elemento soggettivo: come chiarito dalla Corte di Cassazione è richiesto il dolo specifico, costituito dal fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri. Sulla nozione di xxxxxxxx profitto si è più volte espressa la Corte di Cassazione, secondo cui “tale situazione si realizza quando l’agente, approfittando di tale stato (ndr. ovvero della clandestinità del conduttore), imponga condizioni particolarmente onerose ed esorbitanti nel contratto di locazione” (sul punto, Cass. pen. Sez. I, n. 46070/2003). Tuttavia, la Corte di Cassazione, ha recentemente ritenuto di estendere la nozione di ingiusto profitto, sostenendo che lo stesso “si può desumere dalle condizioni contrattuali oggettivamente più vantaggiose per l’agente, ma che non deve consistere, necessariamente, in un sinallagma contrattuale eccessivamente gravoso per lo straniero irregolare (sul punto, Cass. pen. sez. I, n. 32391/2017).
In altre parole, perché il profitto possa ritenersi ingiusto è sufficiente che la condizione di irregolarità dello straniero abbia solo agevolato la conclusione di un contratto a condizioni oggettivamente più vantaggiose. Tale vantaggio, non è necessariamente riconducibile ad un canone di locazione esorbitante rispetto ai normali valori del mercato. Ed infatti, come chiarito dalla giurisprudenza, il vantaggio può consistere, a titolo esemplificativo, nella riscossione in nero del canone di locazione. In tal caso, infatti, l’ingiusto profitto consisterebbe nella possibilità di evadere le tasse, agevolata dalla condizione di clandestinità dello straniero (cfr. Cass. 32392/2017 cit.).
La differenza tra il co. 5 e 5 bis dell’art. 12 del d.lgs 286/1998
Molti autori hanno rilevato un conflitto tra il co. 5 e 5 bis dell’art. 12 del d.lgs. 286/1998, in quanto è ben possibile che la locazione di un immobile a titolo oneroso ad un soggetto irregolare possa configurare un favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ex art. 12 co.
5. Sul punto è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione, la quale non ha ritenuto sussistente il lamentato conflitto tra le due fattispecie, in quanto per integrare il co. 5 bis è necessario che l’agente agisca esclusivamente al fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ad un soggetto irregolare, mentre per integrare il co. 5 non è sufficiente mettere a disposizione del c.d. clandestino un alloggio, ma occorre che l’agente agisca allo scopo di favorire la permanenza irregolare nel territorio dello stato, in violazione delle norme previste
dal T.U. IMMIGRAZIONE (sul punto, Xxxx. 20889/2017). La soluzione raggiunta dalla Corte, però, non risolve la questione, in quanto si ritiene che non sia agevole per l’interprete individuare in concreto la sottile distinzione prospettata.
Procedimenti di cognizione e ADR
La clausola di proroga della competenza giurisdizionale contenuta in condizioni generali di contratto non sottoscritte né espressamente richiamata nel testo contrattuale è inefficace
di Xxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Cass., Sez. Un., Ord., ud. 8 novembre 2022, 10 gennaio 2023, n. 361, Pres. Manna – Est. Tricomi.
[1] Giurisdizione civile – Giurisdizione sullo straniero – Contratto di compravendita tra un’impresa italiana ed un’impresa straniera – Clausola di proroga della giurisdizione – Requisito della forma scritta – Sussistenza – Inserimento della clausola in condizioni generali non sottoscritte e riferimento contenuto nell’indice del contratto sottoscritto – Insufficienza (Conv. Bruxelles 27/09/1968, art. 17; Reg. (CE) n. 44/2001, art. 23; Reg. (UE) n. 1215/2012, art. 25, cod. proc. civ., art. 41; cod. civ. art. 1341)
Qualora, nell’ambito di un contratto di compravendita tra un’impresa italiana ed un’impresa straniera, la clausola di proroga della giurisdizione in favore di uno degli Stati membri – per la quale l’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 e, in seguito, l’art. 23 del Regolamento (CE) n. 44 del 2001 e l’art. 25 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, prescrivono il requisito della forma scritta – sia inserita tra le condizioni generali di contratto, non sottoscritte, e ad essa sia fatto riferimento soltanto mediante un rinvio, nell’indice del contratto sottoscritto, al capitolo recante le condizioni generali, si deve escludere che la clausola attributiva della giurisdizione sia stata effettivamente oggetto di una pattuizione manifestata, in modo chiaro e preciso, tra le parti e che pertanto il suddetto requisito sia stato rispettato.
CASO
Il Fallimento S.p.a. aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Santa Xxxxx Xxxxx Vetere, la società Francese Sas, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, quantificati in lire 580.000.000, conseguenti all’inadempimento delle obbligazioni derivanti da un contratto di fornitura di un impianto industriale, destinato al proprio stabilimento di
Marcianise, per il riempimento di bombole metalliche con panna.
L’impianto, sin dall’istallazione e nelle prime fasi di utilizzo, aveva manifestato avarie, difetti e disfunzioni tali da rendere necessari innumerevoli interventi tecnici con interruzione della produzione e perdita dei prodotti.
La società convenuta si costituiva in giudizio ed eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, dovendo la causa essere decisa dal giudice francese, e contestava poi nel merito la pretesa risarcitoria.
Il Tribunale con sentenza non definitiva rigettava l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito, affermando la giurisdizione del giudice italiano. Avverso tale decisione la società Francese proponeva riserva di appello.
Con sentenza definitiva il Tribunale accoglieva la domanda risarcitoria della società attrice e condannava la convenuta al pagamento della somma di € 314.454,21.
La società Francese proponeva appello avverso la sentenza non definitiva riguardante la giurisdizione ed avverso la sentenza definitiva riguardante il merito della controversia.
La Corte d’Appello di Napoli rigettava entrambe le impugnazioni.
La Corte d’Appello evidenziava che per definire la questione che verteva sulla giurisdizione occorreva stabilire il luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio era stata o doveva essere eseguita e, ancor prima, era necessario stabilire la natura giuridica di tale obbligazione.
Secondo la tesi della società appellante, l’obbligazione rientrava nello schema del contratto di compravendita e, dunque, il giudice competente doveva essere quello del luogo della consegna del bene, luogo che doveva essere individuato sul suolo francese, ivi essendo avvenuta la suddetta consegna.
Tale assunto non veniva condiviso dalla Corte d’Appello che ha affermato che il contratto in essere tra le parti doveva qualificarsi come contratto di appalto, la cui esecuzione era avvenuta in Italia.
Infatti, il negozio non si limitava a stabilire una semplice fornitura di un bene, ma prevedeva la posa in opera di un’apparecchiatura industriale particolarmente complessa e poneva, come risultava anche letteralmente dal documento contrattuale, una serie di attività a carico della società Francese, che andavano dall’esecuzione di alcuni collegamenti elettrici ed idrici all’istallazione in loco dell’apparecchiatura industriale, all’avviamento e al collaudo della stessa, tutte attività da svolgere in Marcianise.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte d’Appello di Napoli evidenziava che il contratto di appalto era un contratto che prevedeva l’esecuzione di opere e dunque doveva aversi riguardo
per individuarsi la competenza giurisdizionale all’ipotesi di foro alternativo di cui all’art. 5, n. 1, lett. b), del regolamento CE. La società appellante lamentava la violazione dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles, sulla proroga della competenza sulla giurisdizione, come recepito nel regolamento CE n. 44 del 2001 sub art. 23.
La società Francese sosteneva che le parti avevano previsto, convenzionalmente, una clausola di proroga della giurisdizione nell’art. 15 delle condizioni generali di vendita, tuttavia, secondo la Corte d’Appello tale clausola doveva considerarsi tamquam non esset, poiché era contenuta in un testo separato ed autonomo dal contratto, privo di sottoscrizione della controparte e senza alcun aggancio specifico o richiamo nel contratto di appalto dedotto in lite.
Di conseguenza, non poteva ritenersi sussistere l’ipotesi prevista nell’art. 23, sub a), del regolamento CE n. 44 del 2001, e nemmeno potevano ritenersi sussistenti le altre ipotesi ivi previste sub b) e c), non essendo stata data prova dell’esistenza di un comportamento concludente delle parti o di una prassi commerciale costantemente accettata ed applicata.
Sulla base di tale motivazione, la Corte d’Appello rigettava tutte le doglianze della società Francese riguardanti la violazione delle norme internazionali in materia di giurisdizione, confermando la statuizione del giudice di primo grado circa la sussistenza della giurisdizione in capo al giudice italiano.
Nel merito la Corte d’Appello di Napoli riscontrava l’inadempimento della società Francese e confermava anche in questa parte la sentenza di primo grado.
SOLUZIONE
[1] I motivi di ricorso, concernenti la contestazione della giurisdizione del giudice italiano e l’applicazione la legislazione italiana, in ragione della loro connessione, sono stati trattati congiuntamente dalle Sezioni Unite della Cassazione, cui la Sezione II della Cassazione aveva rimesso il ricorso della Società francese, e non sono fondati.
In primo luogo, non sussistono le condizioni per disporre rinvio pregiudiziale alla CGUE. La giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit, C283/81; sentenza, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio italiano), ha chiarito che, al fine di evitare che in un qualsiasi Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme del diritto dell’Unione, qualora non sia previsto alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto Europeo, al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri, fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Xxxxx (Xxxxx xx xxxxxxxxx, xxxxxxxx xxx 00 marzo 2017, in causa C-3/16, Aquino, par. 32).
Gli organi giurisdizionali non sono, invece, tenuti a disporre il rinvio pregiudiziale qualora
rilevino, come nella specie in ragione della giurisprudenza della CGUE di seguito richiamata, che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi sia già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.
Nel merito, viene in evidenza l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, alla quale sono seguiti i Regolamenti Bruxelles I (Reg. CE 22/12/2000, n. 44/2001) e Bruxelles Ibis (Reg. UE n. 12/12/2012 n. 1215).
La Convenzione di Bruxelles del 1968, all’art. 2, salvo le eccezioni poi previste, pone la regola generale che “le persone aventi il domicilio nel territorio di uno Stato contraente sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti agli organi giurisdizionali di tale Stato”.
All’art. 5, comma 1, nel prevedere un foro alternativo, sancisce, per quanto qui rileva, che “il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente:
1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita (…)”.
Più complesso, ma coerente con la Convenzione, il contenuto dell’art. 5 del Reg 44/2001, richiamato dalla sentenza di appello, laddove prevede, dopo aver stabilito una regola analoga a quella sopra riportata, che in via alternativa “ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è:
– nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, – nel caso della prestazione di servizi, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto”.
La Corte d’Xxxxxxx, nel decidere la controversia, aveva qualificato come appalto (prestazione di servizi) e non come compravendita, il contratto in questione.
La Corte d’Appello nell’interpretare l’atto negoziale aveva rilevato come le parti avevano voluto dar luogo ad un contratto di appalto, in quanto lo stesso non si limitava a stabilire solo una semplice fornitura ma prevedeva la posa in opera di una apparecchiatura industriale e poneva, come risultava anche letteralmente dal documento contrattuale in atti, una serie di attività a carico della società Francese che andavano dalla esecuzione di alcuni collegamenti elettrici ed idrici alla installazione in loco dell’apparecchiatura industriale, all’avviamento e al collaudo di essa, tutte attività da svolgere in Marcianise. L’obbligazione della società Francese non era limitata alla consegna di un bene ma consisteva nell’attivazione di un impianto di notevoli dimensioni, e la società Francese aveva riconosciuto di essere obbligata a tali prestazioni, essendo pacifico che essa si era adoperata per il montaggio dell’impianto e per il
suo avviamento.
Inoltre, la Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che risultava dalla documentazione che la società Francese aveva compiuto una serie di interventi di adeguamento operativo degli impianti. Si trattava, quindi, di un’obbligazione di risultato che andava inquadrata nel contratto di appalto.
Dunque, alla luce dell’accertamento della Corte d’Appello e della rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati è corretta l’attività di qualificazione giuridica e la sussunzione del contratto in esame nel modello dell’appalto, ancor più se si consideri che, ai fini della differenziazione tra vendita ed appalto, quando alla prestazione di fare, caratterizzante l’appalto, si affianchi quella di dare, tipica della vendita, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla materia, con riguardo alla volontà dei contraenti oltre che al senso oggettivo del negozio, al fine di accertare se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro lo scopo del contratto (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l’effettiva finalità del contratto (vendita); in tal senso, Xxxx., n. 5935/2018.
Pertanto, assodata (non essendo peraltro di interesse ai fini della presente nota) la qualificazione del contratto intercorso tra le parti quale contratto di appalto, la competenza giurisdizionale era individuata dalla Corte d’Appello in capo al giudice del luogo di esecuzione del contratto che si trova in Italia.
Come già affermato dalla Corte di cassazione (Cass., Sez. Un. n. 23593/2010 ed anche Xxxx. Sez. Un. n. 8224/2002, Cass. Sez. Un. n. 9105/2005, e da ultimo, dandovi continuità, Xxxx., Sez. Un. n. 26986/2020), in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente, in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; luogo che va determinato in conformità della legge che disciplina l’obbligazione controversa secondo le norme di conflitto del giudice adito, nella specie il giudice italiano, e quindi, in base all’art. 57 della L. n. 218/1995, vertendosi in materia contrattuale, secondo la legge del Paese con il quale il contratto presenti il collegamento più stretto, nella specie in ragione di quanto sopra esposto l’Italia.
La determinazione della giurisdizione e della legge applicabile in ragione di quanto sopra esposto non è oggetto di deroga in quanto, come affermato dalla Corte d’Appello, tra le parti non era intervenuta una Legittima clausola di proroga della giurisdizione e della legge applicabile.
Nelle “General terms and conditions of sales” (Condizioni generali di vendita) della società Francese, riportate, dopo la sigla delle parti, all’ultimo capitolo “I”, ultima pagina, all’art. 15, si prevedeva: “Any dispute arising from the interpretation or execution of a sales contract or relating thereto, which cannot be settled amicably, shall be submitted of the Court of our Head Office, The agreements are governed by the law of France. The generaL terms and conditions of sales in French
language is the sole authentic text” (“Ogni controversia nascente dall’interpretazione o dall’esecuzione di un contratto di vendita o ad esso connessa che non possa essere composta in via amichevole dalle parti sarà sottoposta al Tribunale della nostra sede legale [vale a dire della società Francese]. Gli accordi sono regolati dal diritto francese. Le condizioni generali di vendita in lingua francese costituiscono l’unico testo autentico”).
La Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che tale clausola risultava contenuta in un testo separato ed autonomo dal testo del contratto e questo testo era privo di sottoscrizione del Fallimento, e mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo nel testo del contratto di appalto dedotto in lite, per cui il contenuto della ridetta clausola non poteva essere considerato quale contenuto del contratto di appalto stesso.
Ad avviso della ricorrente (la società Francese), invece, le condizioni generali di vendita non erano contenute in un testo separato e autonomo rispetto al documento contrattuale, né il testo era stato allegato al contratto in modo precario, né il contratto mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo alle condizioni generali di vendita.
A tal fine, la ricorrente metteva in evidenza come il contratto siglato tra le parti era costituito da un unico documento di 41 pagine materialmente unite da una legatura e composto da un’intestazione, un indice analitico “Summary” contenente la lista dei capitoli costituenti il contratto stesso; otto capitoli rubricati con le lettere dalla lettera A alla lettera I; a seguire i capitoli stessi che si susseguono nell’ordine indicato nell’indice iniziale, ognuno preceduto da un’intestazione identica al nome del capitolo indicato nell’Indice.
Alle condizioni generali di vendita della società Francese era dedicato l’ultimo capitolo rubricato nell’indice sotto la lettera I, denominato “General terms and conditions of sales”.
Tale capitolo era poi, in effetti, costituito dalle ultime tre pagine del complessivo documento negoziale, di cui la prima è costituita dall’intestazione del capitolo identica a quella contenuta nell’indice sub “I”, e le due pagine seguenti riportavano il testo delle condizioni generali di vendita della società Francese, tra cui, l’ultima pagina, l’art. 15 sopra riportato relativo alla clausola di proroga.
Il Fallimento deduceva la necessità della specifica approvazione della clausola, ai sensi dell’art. 1341, c.c., in quanto clausola vessatoria.
L’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (entrata in vigore il 1° febbraio 1973) concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, regola la “proroga di competenza” giurisdizionale.
La Convenzione di Bruxelles del 1968 è stata dapprima sostituita dal Regolamento (CE) n. 44/2001 e successivamente dal Regolamento (UE) n. 1215/2012, anche noto come Regolamento “Bruxelles I bis”, in vigore dal 10 gennaio 2015.
L’art. 17, prevede: “Qualora le parti, di cui almeno una domiciliata nel territorio di uno Stato contraente, abbiano convenuto la competenza di un giudice o dei giudici di uno Stato contraente a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competenza esclusiva spetta al giudice o ai giudici di quest’ultimo Stato contraente. Questa clausola attributiva di competenza deve essere conclusa:
a) per iscritto o verbalmente con conferma scritta, o b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra loro, o c) nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale campo, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel ramo commerciale considerato”.
La Convenzione di Bruxelles del 1968, prima, ed i Regolamenti Bruxelles I e I bis, poi, hanno così attribuito la possibilità alle parti di stabilire la giurisdizione, di talché, in tal caso, il potere- dovere di decidere di un dato giudice viene esteso (prorogato) a comprendere una controversia rispetto alla quale esso non avrebbe competenza giurisdizionale.
Analoga disposizione si rinviene nell’art. 23, commi 1 e 2, del reg, n. 44 DEL 2001 del 2001 “(…) La clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: a) per iscritto o oralmente con conferma scritta, o b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro, o
c) nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale campo, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel ramo commerciale considerato”.
Anche nell’art. 25 del Reg. n. 1215 del 2012 si rinviene analoga disposizione: “Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L’accordo attributivo di competenza deve essere:
a) concluso per iscritto o provato per iscritto;
b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o c) nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato”.
La questione proposta dalla società Francese era incentrata sui requisiti richiesti dall’art. 17, ai fini della validità della clausola di attribuzione della giurisdizione, la quale, in linea di principio, deve intendersi esclusiva (Corte giustizia, 21 maggio 2015, El Majdoub, si cfr., Cass., S.U., n. 1717 del 2020, e Cass., S.U., n. 3624 del 2012).
Come la Corte di cassazione ha già affermato (Cass., Sez. Un. n. 16491/2021 ed anche Cass., Sezz. Un. n. 13594/2022), va considerato che, in quanto espressione dell’autonomia negoziale, che l’ordinamento unionale accorda alle parti in materia di attribuzione della competenza giurisdizionale, la clausola di proroga della giurisdizione – art. 17 della Convenzione del 1968,
art. 23 Reg. 44/2001, art. 25 Reg. UE 12 dicembre 2012, n. 1215, tanto che i principi sviluppati con riferimento alla Convenzione di Bruxelles si reputano applicabili anche ai regolamenti Bruxelles I ed I bis (Corte giust., 7/02/2013, C-543/10, Refcomp) – consente di derogare ai principi generali in materia di competenza stabiliti dai citati Convenzione e Regolamenti, a condizione che le parti vi aderiscono in uno dei modi previsti dalla norma stessa.
È l’incontro delle manifestazioni di volontà delle parti che giustifica il primato accordato alle parti, in nome del principio di autonomia della volontà, alla scelta di un giudice diverso da quello che sarebbe stato eventualmente competente (CGUE, 20 aprile 2016, C-366/13, Profit Investment SIM Spa ).
I requisiti di forma prescritti, ovvero la predisposizione in forma scritta della clausola o la conferma di essa per iscritto se stipulata oralmente sono propriamente intesi a garantire che il consenso in merito alla proroga sia stato effettivamente prestato (Corte giust., 21 maggio 2015, X-000/00, Xxxxxx Xx Xxxxxxx). Xx intende tutelare il contraente più debole evitando che clausole attributive di giurisdizione, inserite nel contratto da una sola delle parti, passino inosservate (sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, C-159/97, par. 19 e giurisprudenza ivi citata).
Pertanto, è compito prioritario del giudice, avanti al quale la questione del forum prorogatum sia sollevata in virtù dell’attribuzione convenzionale della competenza operata dalle parti, accertare se la relativa pattuizione abbia formato oggetto di un effettivo consenso tra le medesime parti e se l’incontro delle volontà in tal modo realizzatosi sia avvenuto in modo chiaro e preciso (Corte giust., 20/02/1997, C-106/95, Mainschiffahrts-Genossenschaft eG).
La CGUE ha avuto modo di affermare nella sentenza 8 marzo 2018, X00/00, Xxxx Xxxx & Xxxxxx XX/XX, par. 27, che “allorchè una clausola attribuiva di giurisdizione è stipulata nell’ambito di condizioni generali, la Corte ha dichiarato che una simile clausola è lecita qualora, nel testo stesso del contratto firmato dalle due parti, sia fatto un richiamo espresso a condizioni generali contenenti la clausola medesima”.
Principi analoghi si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che, peraltro, quanto alla deduzione di parte controricorrente circa l’applicabilità dell’art. 1341, c.c., ha già avuto modo di affermare che la clausola di proroga convenzionale della giurisdizione a norma dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, secondo l’interpretazione vincolante di cui alla sentenza della Corte di Giustizia CEE 14 dicembre 1976, in causa 24 del 1976, e le modifiche introdotte dalla convenzione del Lussemburgo del 9 ottobre 1978 (resa esecutiva con L. n. 967 del 1980), non necessita della specifica approvazione richiesta dall’art. 1341 c.c., ma esige serie garanzie di consapevole adesione da parte del contraente che non l’ha predisposta, nonché la specifica indicazione del giudice straniero in favore del quale la giurisdizione italiana è derogata (Cass., S.U., n. 2642 del 1998, n. 6634 del 2003). Tale principio è stato riaffermato rispetto all’art. 23 del Reg. 44/2001 del 2001 (Cass., S.U., n. 20887 del 2006, n. 1871 del 2020).
Sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 9210/1987, si è affermato, in relazione all’art. 17
comma 1, della Convenzione, nell’interpretazione resa dalla Corte di giustizia della CEE con la citata sentenza n. 24 del 1976, che in tema di proroga convenzionale della giurisdizione in favore di uno degli stati aderenti alla convenzione di Bruxelles del 27 settembre, e per il caso in cui la relativa clausola sia inserita fra le condizioni generali predisposte da uno dei contraenti e riportate a tergo del documento contrattuale, il requisito della forma scritta, è rispettato solo quando il documento stesso, sottoscritto da entrambe le parti, contenga, se non la specifica approvazione per iscritto di quella clausola, un richiamo espresso di dette condizioni generali.
Tale pronuncia ha trovato conferma nelle successive decisioni. Si è statuito, infatti, che “in tema di proroga della giurisdizione in favore di uno Stato membro dell’Unione Europea, prevista dall’art. 23 del Regolamento CE n. 44 del 2001, la necessità della forma scritta della clausola che la preveda è soddisfatta anche quando essa non sia contenuta nel contratto sottoscritto dalle parti ma sia inserita in altro documento o formulario, al quale il contratto rinvia, quando risulti chiaramente che il rinvio investe in modo chiaro tutte le clausole del documento richiamato e che le parti abbiano voluto una “relatio perfetta” anche della clausola di proroga” (Cass., Sez. Un. n. 3693/2012); qualora la clausola di proroga della giurisdizione sia contenuta nella condizioni generali di contratto, si ritiene che essa sia lecita, qualora nel testo del contratto sottoscritto dalle parti – senza la necessità di una specifica approvazione per iscritto – sia contenuto un richiamo espresso alle condizioni generali contenenti la clausola stessa (citata Xxxx., Sez. Un.
n. 8895/2017, nel richiamare la sentenza della Corte giustizia, 20 aprile 2016, Profit Investment SIM).
Con la recente ordinanza n. 13594 del 2022, le Sezioni Unite, sempre con riguardo alla clausola di proroga contenuta nelle condizioni generali di contrato hanno affermato che il rispetto del requisito della forma scritta, previsto per il patto di proroga della giurisdizione in favore dell’autorità giudiziaria di un Paese estero, dall’art. 25, par. 1, lett. a), del Reg. UE n. 1215 del 2012, richiede, secondo l’interpretazione datane dalla CGUE con sentenza dell’8 marzo 2017, in causa n. 64/2017 (sopra richiamata), che la clausola attributiva della giurisdizione sia stata effettivamente oggetto di pattuizione tra le parti, manifestatasi in modo chiaro e preciso, ed è pertanto rispettato nel caso in cui tale clausola sia contenuta nelle condizioni generali di contratto predisposte dalla parte acquirente, espressamente richiamate negli ordini di acquisto e ad essi allegate, potendo le stesse ritenersi accettate dalla parte venditrice unitamente agli ordini di acquisto integranti la proposta contrattuale.
Nella fattispecie in esame, la clausola di proroga della competenza giurisdizionale in favore del giudice francese, e in favore della legge francese, come accertato dalla Corte d’Appello risulta contenuta nelle condizioni generali di contratto non sottoscritte, né la clausola di proroga è stata espressamente richiamata nel suo contenuto nel testo del contratto sottoscritto, di talché dalla mera indicazione nell’indice, del capitolo recante condizioni generali di contratto, sia pure qualora congiunto materialmente al contratto, non può farsi discendere che la clausola di proroga ha costituito oggetto di specifica pattuizione negoziale tra le parti, manifestatasi in modo chiaro e preciso, come richiesto dalla giurisprudenza della CGUE che ha interpretato le disposizioni del diritto dell’Unione di cui si tratta, e dalla
giurisprudenza di legittimità che ne ha fatto applicazione.
Esecuzione forzata
L’aggiudicatario dell’immobile è successore a titolo particolare del debitore esecutato, anche agli effetti di cui all’art. 111 c.p.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cassazione civile, seconda sez., sentenza del 2 settembre 2022, n. 25926; Pres. Xx Xxxxxxxx; Rel. Tedesco.
Xxxxxxx: “L’acquisto del bene sottoposto ad esecuzione forzata, da parte dell’aggiudicatario, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario, e pur ricollegandosi ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, ha natura di acquisto a titolo derivativo, non originario, in quanto si traduce nella trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato, con la conseguenza che, qualora, nel corso del giudizio promosso contro il proprietario di un immobile, il bene venga espropriato in esito ad esecuzione forzata, la sentenza che definisce quel giudizio deve ritenersi opponibile all’aggiudicatario, ai sensi dell’art. 111, comma 4 c.p.c., in qualità di successore a titolo particolare nel diritto controverso, salva l’eventuale operatività delle limitazioni previste dagli artt. 2915 e 2919 c.c.”.
CASO
G.A. vendeva un immobile ad una società, che tuttavia, poco dopo, citava in giudizio per sentire dichiarare la nullità della compravendita per violazione del divieto di patto commissorio. In via subordinata, l’attore G.A. proponeva domanda per avere il corrispettivo della vendita, che assumeva non essere stato pagato dalla società acquirente.
La domanda di nullità dei contratti di compravendita era tempestivamente trascritta il 17 maggio 1997.
Il Tribunale adito rigettava la domanda di nullità, ma accoglieva la subordinata e ordinava alla convenuta il pagamento di € 62.415,00.
Sulla base di tale sentenza X.X. xxxxxxx l’esecuzione forzata, pignorando l’immobile trasferito
con i contratti oggetto della domanda di nullità. La trascrizione del pignoramento contro la venditrice inadempiente era, naturalmente, successiva alla trascrizione della domanda di nullità della vendita.
Nel 2008 si concludeva l’esecuzione ed il bene era aggiudicato in favore di M.A.G. e F.G. (lotto 1) e di una azienda agricola (lotto 2).
Nel frattempo, si era svolto il giudizio di appello contro la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda principale di nullità della vendita, sentenza che era stata impugnata sia da G.A. sia dalla società acquirente.
Con sentenza del 20 giugno 2007, l’appello del G.A. era accolto e la Corte d’Appello di Venezia dichiarava la nullità della vendita, condannando la società acquirente al rilascio del bene immobile a suo tempo acquistato con i contratti dichiarati nulli.
La sentenza diveniva definitiva solo il 4 novembre 2014 in seguito al giudizio per cassazione.
Sulla base della sentenza d’appello, G.A. chiamava in giudizio gli aggiudicatari del bene, ai quali chiedeva la restituzione dell’immobile, sostenendo che la trascrizione della domanda di nullità della vendita, accolta in secondo grado, era precedente alla trascrizione del pignoramento.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda. Seguiva l’appello della azienda agricola dinnanzi alla Corte di merito, la quale sospendeva il giudizio in attesa della formazione del giudicato sulla decisione che aveva dichiarato la nullità dei contratti.
Si evidenzia che la richiesta di sospensione per pregiudizialità era stata avanzata dagli aggiudicatari già in primo grado, ma la domanda era stata rigettata.
Sceso il giudicato sulla sentenza che dichiarava la nullità della vendita, e riassunto il processo di secondo grado, la Corte d’appello confermava la decisione del Tribunale, evidenziando che:
a) non occorreva che l’attore impugnasse il decreto di trasferimento, essendo sufficiente far valere la priorità della trascrizione della domanda di nullità della vendita;
b) la mancanza della sospensione del procedimento in primo grado è irrilevante, in quanto la sospensione è stata disposta in secondo grado ed il processo è stato sospeso sino al verificarsi del giudicato. Ne consegue il rigetto delle censure di inammissibilità della domanda perché asseritamente proposta sulla base di una sentenza che, al momento della citazione, non era ancora passata in giudicato.
L’azienda agricola ha proposto ricorso per cassazione formulando sei motivi.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione ha rigettato l’intero ricorso, condannando la ricorrente al pagamento del doppio del contributo unificato e statuendo il seguente principio di diritto:
“L’acquisto del bene sottoposto ad esecuzione forzata, da parte dell’aggiudicatario, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario, e pur ricollegandosi ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, ha natura di acquisto a titolo derivativo, non originario, in quanto si traduce nella trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato, con la conseguenza che, qualora, nel corso del giudizio promosso contro il proprietario di un immobile, il bene venga espropriato in esito ad esecuzione forzata, la sentenza che definisce quel giudizio deve ritenersi opponibile all’aggiudicatario, ai sensi dell’art. 111, comma 4 c.p.c., in qualità di successore a titolo particolare nel diritto controverso, salva l’eventuale operatività delle limitazioni previste dagli artt. 2915 e 2919 c.c.”
QUESTIONI
Con i primi due motivi, esaminati congiuntamente, la ricorrente ha denunciato, da una parte, la nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360, n. 4, c.p.c., nonché la violazione dell’art. 295 c.p.c., dall’altra l’errata interpretazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., anche ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.
In sostanza, la ricorrente ha sostenuto che la mancata sospensione del processo di primo grado per pregiudizialità avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a dichiarare la nullità del procedimento, che non avrebbe potuto essere proseguito, essendo incerti sia l’interesse ad agire che la legittimazione dell’attore, in assenza del passaggio in giudicato della sentenza che aveva dichiarato la nullità della vendita ed in forza dell’efficacia non sanante del giudicato sopravvenuto in corso di causa.
Entrambi i motivi sono infondati, in quanto la mancata sospensione del processo in primo grado non ha comportato alcun vizio del procedimento tale da comportare la rimessione della causa al primo giudice. Inoltre, le condizioni dell’azione (legittimazione ed interesse ad agire) possono sopravvenire in corso di causa (Cass., n. 3314/2001; n. 5321/2016).
Con il terzo motivo è denunciata la violazione ed errata interpretazione degli art. 163 e 164
c.p.c. in relazione all’atto di citazione, avendo, G.A., proposto azione contro gli aggiudicatari sulla base di una sentenza pronunciata contro xxxxx e senza aver promosso un’azione di rivendicazione contro gli aggiudicatari al fine di far valere l’inefficacia del decreto di trasferimento.
Il motivo è infondato, poiché è noto che “l’acquisto di un bene da parte dell’aggiudicatario in sede di esecuzione forzata, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario, e pur ricollegandosi ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, ha natura di acquisto a titolo derivativo e non originario, in quanto si traduce nella trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato” (Cass. n. 443/1985; n. 27/2000; n. 20037/2010; n. 6386/2017; n. 20608/2017).
In forza di ciò, è applicabile all’aggiudicatario l’art. 111 c.p.c., nel senso che gli è opponibile la sentenza pronunciata contro il debitore esecutato, essendo l’aggiudicatario successore a titolo particolare di quest’ultimo, salvi i limiti di cui agli artt. 2915 e 2919 x.x. (Xxxx., x. 0000/0000). Xxxxxxxx, non occorre l’impugnazione del decreto di trasferimento per l’opponibilità all’aggiudicatario del giudicato inter alios (Cass., n. 6072/1985).
Infatti, con il decreto di trasferimento, il giudice dell’esecuzione si limita ad ordinare la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle ipoteche (art. 586 c.p.c.), ma non anche della trascrizione della domanda giudiziale con cui un terzo abbia preteso la proprietà o altro diritto reale sul bene esecutato (Cass., n. 13212/2003; n. 5121/1978).
Anche il quarto e quinto motivo sono esaminati congiuntamente, in quanto con essi la ricorrente ha asserito la pretesa violazione ed errata interpretazione dell’art. 2652, n. 6, c.c. in combinato disposto con gli artt. 586 e 619 c.p.c., sostenendo, in primo luogo, che l’art. 2652, n. 6, c.c. non poteva essere applicato al caso di specie, trattandosi di conflitto tra acquirenti di diritti incompatibili, essendo la trascrizione posteriore avvenuta non in forza di un titolo negoziale, ma di un atto, quale il pignoramento, destinato a dare avvio ad un procedimento giurisdizionale.
Per rafforzare quanto dedotto la ricorrente ha evidenziato che, peraltro, nel caso in esame il pignoramento fu trascritto dal medesimo soggetto (il venditore) che aveva trascritto la domanda di nullità dei contratti di compravendita. Pertanto, il venditore avrebbe dovuto far valere i propri diritti nell’esecuzione in corso, tramite opposizione, anche per evitare il pagamento del prezzo da parte degli aggiudicatari, pagamento effettivamente corrisposto e riscosso proprio dal venditore-creditore procedente. Insomma, quest’ultimo avrebbe espropriato il bene, incassandone il ricavato, e al contempo preteso nei confronti dell’aggiudicatario di essere riconosciuto proprietario del bene stesso.
Entrambi i motivi sono infondati: la Corte evidenzia ancora che l’aggiudicatario subentra nella medesima situazione giuridica soggettiva spettante al debitore sul bene espropriato. Infatti, nella vendita forzata, pur avendo quest’ultima carattere diverso dalla comune alienazione negoziale in quanto trasferimento coattivo, permane la derivazione del diritto del nuovo titolare del bene dal precedente titolare, vale a dire che vi è una successione in senso proprio, quale sostituzione di un soggetto ad un altro nella titolarità del diritto trasferito, che rimane oggettivamente immutato.
Ne è conferma il diritto positivo, ossia l’art. 2919 c.c., che statuisce che la vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione. L’aggiudicatario viene dunque posto nella stessa condizione di chi acquista un bene mediante vendita negoziale, nel senso che sono a lui trasferiti gli stessi diritti del suo dante causa.
Anche la garanzia per evizione di cui all’art. 2921 c.c., pur essendo peculiare rispetto all’omonima azione nell’ambito della vendita volontaria, sta a significare che i creditori,
intanto hanno diritto al ricavato della vendita forzata, in quanto il prezzo versato abbia surrogato la cosa venduta, entrando a far parte del patrimonio del debitore, effetto che però non si verifica laddove manchi la qualità di proprietario del bene di costui.
Quindi, anche nell’esecuzione forzata, il conflitto tra acquirente e terzi va risolto secondo i principi generali, con le particolari disposizioni previste per l’evizione (art. 2921 c.c.) (Cass., n. 655/1964).
La Suprema Corte osserva che l’art. 2915 c.c. condiziona l’opponibilità al pignoramento delle domande per la cui efficacia di fronte ai terzi la legge richiede la trascrizione, al fatto che la trascrizione sia anteriore al pignoramento. In questo ambito, il creditore pignorante è equiparato al terzo acquirente e nella fattispecie, la domanda di nullità è stata trascritta prima del pignoramento, di conseguenza l’aggiudicatario è privo della tutela prevista in favore del sub acquirente dall’art. 2652, n. 6, c.c. (Cass., n. 1292/1974; n. 37722/2021).
Peraltro, il fatto che l’attore sia il medesimo creditore pignorante non introduce alcuna reale ragione di anomalia, né crea le premesse per un indebito arricchimento, poiché l’aggiudicatario dispone dei rimedi a lui riconosciuti dall’art. 2921 c.c. che regola l’evizione nella vendita forzata e che esprime il principio secondo cui è vietato l’indebito arricchimento dei creditori ed eventualmente del debitore e di coloro cioè che si ripartiscono il prezzo ricavato dalla vendita del bene espropriato e poi tolto all’acquirente.
La violazione ed errata interpretazione degli artt. 2652, n. 6, c.c. e 619 c.p.c. è stata dedotta anche quale sesto motivo di ricorso, con cui la ricorrente ha censurato il rigetto della domanda riconvenzionale proposta proprio dalla azienda agricola, domanda volta a far valere la presunta prevalenza del decreto di trasferimento rispetto alla domanda giudiziale trascritta prima del pignoramento.
La Suprema Corte dichiara il motivo inammissibile, in quanto ripetitivo dei due precedenti e in contrasto con gli insegnamenti già evidenziati in merito agli artt. 2652, n. 6 c.c. e 2919 c.c. e xxxxxxx, quindi, il ricorso, esprimendo la massima riportata in epigrafe.
Obbligazioni e contratti
Le tormentate vicende del patto di quota lite e le condizioni per la sua validità
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., sez. II., 5 ottobre 2022, n. 28914 – Pres. D’Ascola – Rel. Scarpa Parole chiave: Avvocato – Patto di quota lite – Validità – Condizioni
[1] Xxxxxxx: Il patto di quota lite, stipulato dopo la riformulazione dell’art. 2233 c.c. (operata dal
d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248) e prima dell’entrata in vigore dell’art. 13, comma 4, l. 31 dicembre 2012, n. 247, che non violi il divieto di cessione di crediti litigiosi di cui all’art. 1261 c.c., è valido se, valutato sotto il profilo causale della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dai contraenti, nonché sotto il profilo dell’equità, alla stregua della regola integrativa di cui all’art. 45 del codice deontologico forense, nel testo deliberato il 18 gennaio 2007, la stima tra compenso e risultato effettuato dalle parti all’epoca della conclusione dell’accordo non risulta sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, rispondendo lo scopo di prevenire eventuali abusi a danno del cliente e di impedire la stipula di accordi iniqui alla tutela di interessi generali.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1261, 2233; l. 247/2012, art. 13
CASO
Due avvocati agivano nei confronti di tre clienti – che avevano assistito in un giudizio promosso per ottenere il risarcimento dei danni da morte di un congiunto – per il pagamento dei compensi professionali loro spettanti in forza di un patto di quota lite (contenuto in una scrittura privata conclusa nel 2009) che prevedeva il riconoscimento, in favore di ciascun legale, di un importo pari al 15% della somma che sarebbe stata concretamente incassata dai clienti.
I due decreti ingiuntivi emessi in accoglimento dei ricorsi degli avvocati venivano fatti oggetto
di opposizione, che era respinta dal Tribunale di Gela all’esito della riunione dei giudizi, essendosi esclusa la nullità del patto di quota lite, pur dovendosene ravvisare l’iniquità per manifesta sproporzione dei compensi risultanti dalla sua applicazione anche rispetto ai valori massimi previsti dal d.m. 55/2014.
I tre clienti, rimasti soccombenti, impugnavano con ricorso per cassazione l’ordinanza pronunciata dal Tribunale di Gela.
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, ha cassato con rinvio il provvedimento gravato, affermando che, prima dell’entrata in vigore della l. 247/2012 (che ha reintrodotto il divieto abrogato dal d.l. 223/2006), il patto di quota lite concluso tra cliente e avvocato poteva essere validamente concluso, a condizione che, da un lato, non fosse violato il divieto di cessione di crediti litigiosi previsto dall’art. 1261 c.c. e che, dall’altro lato, il compenso così pattuito non fosse sproporzionato per eccesso rispetto a quanto sarebbe risultato dall’applicazione dei parametri tariffari.
QUESTIONI
[1] Nella fattispecie portata all’attenzione dei giudici di legittimità, due avvocati, nell’assumere l’incarico di assistenza di tre clienti in un’azione giudiziale da promuovere al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti per la morte di un congiunto, avevano previsto, con apposita scrittura privata sottoscritta nel 2009, che il compenso di ciascuno di essi sarebbe stato pari al 15% della somma concretamente incassata dai clienti.
I compensi, dunque, erano stati determinati per il solo caso di esito positivo della lite, prevedendosi il pagamento, in sostituzione degli onorari, di una somma di denaro calcolata in percentuale sull’importo incassato dai clienti, rappresentante – di fatto – una parte del credito risarcitorio litigioso.
Si era in presenza, dunque, di un patto di quota lite, da cui va tenuta distinta la convenzione – della cui legittimità non si è mai dubitato – definita “palmario”, che, cioè, preveda il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche determinata in percentuale rispetto all’importo riconosciuto in giudizio alla parte) aggiuntiva e non sostitutiva rispetto all’onorario, a titolo di premio (ossia di palmario, appunto) o di compenso straordinario, in considerazione dell’importanza e della difficoltà della prestazione professionale.
La vicenda scrutinata dalla sentenza che si annota si colloca nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore, da un lato, del d.l. 223/2006 (che, riformulando l’art. 2233 c.c., aveva disposto l’abrogazione delle disposizioni normative che, con riferimento alle attività libero- professionali e intellettuali, prevedevano il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti) e, dall’altro lato, dell’art. 13 l. 247/2012 (che, al
comma 3, sancisce la libertà della pattuizione dei compensi tra cliente e avvocato, mentre, al comma 4, vieta i patti che prevedano l’attribuzione all’avvocato di una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa a titolo di compenso).
Fino al 2006, quindi, la pattuizione di compensi parametrati all’esito della lite, ovvero al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, era tassativamente vietata e tale divieto, venuto meno a seguito delle disposizioni contenute nel d.l. 223/2006, ha ripreso vigore a partire dal 2012.
La ratio sottostante al divieto del patto di quota lite è stata variamente individuata nell’esigenza di assicurare il decoro della professione forense, che può essere messo a repentaglio da pattuizioni che escludano la spettanza del compenso in caso di soccombenza; nel ruolo dell’avvocato come soggetto che collabora all’attuazione della legge e all’amministrazione della giustizia, che postula un necessario distacco tra il legale e il suo cliente, suscettibile di essere compromesso dalla commistione di interessi derivante da una compartecipazione ai risultati economici della controversia; nella tutela del cliente, ritenuto parte debole del rapporto, rispetto a comportamenti abusivi dell’avvocato che conducano al pagamento di compensi sproporzionati rispetto all’attività svolta.
Peraltro, secondo un’interpretazione rimasta comunque minoritaria, anche nel lasso di tempo compreso tra il 2006 e il 2012 il patto di quota lite doveva reputarsi invalido, stante la vigenza del divieto di cessione di crediti litigiosi sancito dall’art. 1261 c.c.: in quest’ottica, la modifica del comma 3 dell’art. 2233 c.c. operata dal d.l. 223/2006 riguardava, in realtà, il requisito formale essenziale dei patti che stabiliscono i compensi professionali, restando invece immutati i criteri sostanziali dettati nei primi due commi e il conseguente divieto di pattuire un compenso la cui misura violi il criterio di adeguatezza e di proporzionalità rispetto all’opera prestata.
A tale proposito e nello stesso arco temporale, è intervenuta anche la modifica dell’art. 45 del codice deontologico forense (apportata nel 2007), in base alla quale all’avvocato è consentito pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto di cui all’art. 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta.
Secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con tale modifica si è inteso prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e precludere la conclusione di accordi iniqui, ma non si è esclusa l’ammissibilità del patto di quota lite, giacché l’aleatorietà che lo connota non impedisce di valutarne l’equità, ossia la ragionevolezza o meno della stima effettuata dalle parti all’epoca della conclusione dell’accordo e la sua proporzionalità o meno rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti (con particolare riguardo al valore e alla complessità della lite, nonché alla natura del servizio professionale).
Secondo questa impostazione, pertanto, è la proporzionalità (ovvero l’equità) della stima sottesa alla conclusione del patto di quota lite a fungere da discrimine tra la sua validità o la
sua invalidità, quale elemento intorno cui ruota il complessivo equilibrio contrattuale e che fonda la sinallagmaticità idonea a esclude il possibile contrasto della causa dell’accordo con gli interessi generali che la norma deontologica mira a salvaguardare.
Sempre in questa prospettiva, il controllo di ragionevolezza del patto di quota lite, teso a scongiurarne l’iniquità, non è da intendersi limitato alla verifica del rispetto dei doveri di comportamento dell’avvocato nella fase antecedente alla o coincidente con la conclusione dell’accordo, ma deve attingere precipuamente l’equilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti e, in particolare, la giustificabilità dei reciproci spostamenti patrimoniali. D’altro canto, il sindacato sull’adeguatezza e sulla proporzionalità della misura del compenso rispetto all’opera prestata trova fondamento nell’art. 2233, comma 2, c.c. e, attenendo all’equilibrio sinallagmatico del regolamento negoziale, può condurre alla declaratoria di nullità del patto, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c.
Da questo punto di vista, infatti, se è vero che la violazione di norme deontologiche – che assume sempre rilievo di carattere disciplinare – non dà luogo, di per sé, all’illiceità della prestazione o ad altre cause di nullità del contratto di mandato tra professionista e cliente, è altrettanto vero che, quando essa rivesta una particolare gravità (perché la norma disattesa, quale deve considerarsi quella che impone la congruità del compenso professionale, non riveste una portata limitata al rapporto tra professionista e ordine di appartenenza, ma è volta a tutelare interessi di carattere generale), può nondimeno incidere sulla validità dell’accordo.
Alla luce di tale ricostruzione, i giudici di legittimità hanno affermato di non condividere l’orientamento secondo cui il patto di quota lite stipulato prima dell’entrata in vigore dell’art. 13, comma 4, l. 247/2012 poteva validamente prevedere compensi maggiori rispetto ai massimi tariffari, sul presupposto di una possibile sua riconduzione a equità; ciò in ragione dell’obiettiva difficoltà di potere concretamente realizzare una simile operazione, che implica l’individuazione di un generale strumento giudiziale che si presti alla modifica delle condizioni di un regolamento contrattuale per sua natura aleatorio e il cui squilibrio sarebbe frutto non di sopravvenienze, ma di un’originaria abusiva sproporzione – verificabile già al momento della stipula – tra il compenso dell’avvocato e l’attività professionale svolta o da svolgere.
Di qui la conclusione per cui, pur dovendosi reputare ammissibile la conclusione del patto di quota lite tra cliente e avvocato nel periodo in cui le parti lo avevano stipulato (ossia nel 2009), lo stesso doveva comunque considerarsi invalido, perché contrastante con i requisiti sostanziali di proporzione e di ragionevolezza nella pattuizione del compenso (e negli stessi termini si è espressa la successiva Cass. civ., sez. VI, 14 ottobre 2022, n. 30287), con conseguente cassazione della pronuncia gravata che, disattendendo tali canoni ermeneutici, non aveva rilevato la riscontrata iniquità.
Comunione – Condominio - Locazione
Il Condominio non può vietare la locazione abitativa per finalità turistica di breve periodo: differenze rispetto alle attività ricettive (extralberghiere)
di Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Corte d’Appello Milano, sezione III, sentenza 13 gennaio 2021, n. 93
Condominio – unità abitative adibite a locazioni turistiche di durata inferiore ai trenta giorni – incidenza sulla destinazione d’uso degli immobili – esclusione – natura giuridica di attività ricettiva (extralberghiera) – esclusione – contrarietà al regolamento condominiale (contrattuale) – esclusione – prova della turbativa della tranquillità del condominio – non sussiste.
Riferimenti normativi: D. Lgs. 23/05/2011, n. 79, art. 53
“… la semplice limitazione al godimento degli immobili, senza la determinazione di un peso di prestazioni positive, non raffigura né una servitù né un onere reale … il divieto di svolgere una determinata attività negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere: precisamente, una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non conferire all’immobile una certa destinazione…”
“… Proprio la mancata previsione di alcuna prestazione accessoria oltre al diritto personale di godimento (quali tipicamente la pulizia periodica dei locali, il cambio sistematico della biancheria d’arredo, la somministrazione di cibo e bevande) esclude che l’immobile degli appellanti sia mai stato destinato ad uso alberghiero … questo sì, effettivamente, sovrapponibile all’affitto di camere ammobiliate vietato dal regolamento…”
“… Le locazioni stipulate dagli appellati sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per brevi periodi non superiori a 30 giorni ai sensi dell’art. 53 del D.Lgs. n. 79 del 2011, che la Regione Lombardia ha espressamente escluso dall’ambito delle attività ricettive (quali proprio quelle di Bed and Breakfast ed affittacamere): esse non si distinguono dunque dalle ordinarie locazioni (cui
certamente il condominio non può neppure opporre un proprio gradimento, il che porta a ritenere l’onere di informazione preventivo all’amministratore come finalizzato al più alla facilitazione dei contatti con i conduttori, ogni diversa interpretazione configurando la nullità della clausola), connotandosi solo per la loro durata transitoria…”
CASO
La sentenza in commento ha ad oggetto una locazione turistica di breve periodo all’interno di un condominio, fattispecie che continua ad essere causa di frequenti liti tra comproprietari.
Questa è la vicenda: due condòmini concedevano in locazione, per brevi o brevissimi periodi, l’immobile di proprietà, per finalità turistiche.
Il condominio censurava, avanti al Tribunale, la suddetta attività, sulla scorta della clausola di regolamento condominiale contrattuale, approvato all’unanimità nel 1961, a cui tenore era vietato l’esercizio all’interno dell’appartamento dell’attività di “pensione” o l’uso dello stesso “a camere ammobiliate affittate a terzi”; peraltro, a detta dell’attore, tale attività avrebbe arrecato disturbo alla quiete e danno al decoro del condominio (senza contare l’omissione della previa comunicazione all’amministratore).
I condòmini convenuti eccepivano la non opponibilità, nei loro confronti, del predetto regolamento, atteso l’acquisto dell’appartamento in epoca successiva e atteso il fatto che le limitazioni in questione costituivano servitù atipiche, come tali opponibili ai terzi acquirenti solo ove trascritte o specificamente indicate, conosciute e approvate nell’atto di acquisto.
Contestavano inoltre quanto asserito dal condominio anche sotto il profilo della turbativa e della lesione del decoro.
Il Tribunale, pur qualificando (erroneamente) le locazioni in questione come “attività di Bad&Breakfast”, rigettava la domanda del condominio sull’assunto che la clausola regolamentare avrebbe dovuto essere trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665
c.c. o specificamente conosciuta al momento dell’acquisto dell’immobile, non essendo sufficiente il mero richiamo del regolamento contenuto nell’atto di compravendita.
Il condominio impugnava la sentenza di primo grado.
Resistevano gli appellati, rappresentando che la locazione breve non violava il regolamento, non essendo attività assimilabile all’affitto di camere ammobiliate ma trattandosi di affitto dell’intera unità immobiliare, per uso abitativo, senza servizi accessori di carattere alberghiero; eccepivano inoltre l’assenza di turbativa della tranquillità e di lesione dell’igiene e del decoro dell’edificio.
SOLUZIONE
La Corte respingeva l’appello e confermava la sentenza del Tribunale.
QUESTIONI GIURIDICHE
La Corte d’Appello di Milano affronta due questioni giuridiche, connesse al tema dell’utilizzo, in condominio, dell’unità immobiliare per finalità turistiche: la prima riguarda la previsione di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive da parte del regolamento condominiale contrattuale, la seconda ha ad oggetto i limiti a cui debbono uniformarsi le locazioni turistiche di breve periodo (ma non solo) in condominio.
1) La previsione di limiti con regolamento condominiale contrattuale
Occorre preliminarmente osservare che la sentenza in commento va a correggere un errore interpretativo del primo Giudice, in punto di qualificazione giuridica della fattispecie, la quale non ha ad oggetto l’attività turistica ricettiva extralberghiera (come Bad&Breakfast e affittacamere) ma la locazione abitativa con finalità turistica di breve durata.
In effetti – precisa la Corte – nel caso di specie i condòmini/locatori non fornivano nessuna prestazione accessoria oltre al diritto personale di godimento (quali, tipicamente, la pulizia periodica dei locali, il cambio sistematico della biancheria d’arredo, la somministrazione di cibo e bevande), ciò che esclude che l’immobile degli appellanti sia stato destinato ad uso (extra)alberghiero[1].
A ciò si aggiunga che i proprietari erano soliti locare l’intera unità immobiliare e non singole camere e, sotto questo profilo, il regolamento condominiale contrattuale vietava l’affitto a terzi di “camere ammobiliate”, divieto non passibile di interpretazione estensiva in quanto restrittivo del diritto dominicale[2].
La differenza sostanziale, sotto il profilo giuridico, tra l’attività ricettiva extralberghiera in condominio e la locazione abitativa con finalità turistica in condominio (breve o non breve che sia) è data dal fatto che, solo nel primo caso, si assiste ad una modifica della destinazione d’uso dell’immobile, atteso che l’attività ricettiva implica l’espletamento di servizi accessori non sovrapponibili alla nozione tipica di godimento del bene immobile[3].
Ciò premesso, pur rettificando in questo senso la qualificazione giuridica della fattispecie, il Collegio prende posizione – e lo fa disattendendo sul punto la pronuncia del Tribunale – in ordine alla natura giuridica delle clausole delimitative di poteri e facoltà dei singoli condomini sulle proprietà esclusive.
Invero, decidendo il caso sul presupposto dell’errata qualificazione della fattispecie siccome ricadente in una attività ricettiva extralberghiera (segnatamente attività di B&B), il Tribunale aveva ritenuto che detta circostanza non fosse comunque opponibile ai condòmini convenuti, in quanto la restrizione contenuta nel regolamento condominiale contrattuale – “divieto di uso dell’appartamento a camere ammobiliate affittate a terzi”- non era stata trascritta nei registri
immobiliari o, in alternativa, al momento dell’acquisto dell’immobile non vi era stata una specifica contestuale conoscenza e accettazione del vincolo ma, al contrario, un mero richiamo del regolamento in parte qua.
Questo perché il Tribunale aveva aderito a certa giurisprudenza secondo la quale il divieto previsto dal regolamento configura una servitù atipica di non facere a carico di ciascuna unità immobiliare, a favore di tutte le altre[4]: si legge infatti nella sentenza che “… con l’approvazione all’unanimità del regolamento del Condominio … (il quale prevede il divieto di “uso dell’appartamento a camere ammobiliate affittate a terzi”), i condomini hanno costituito una servitù atipica di non facere a carico di ciascuna unità immobiliare ed a favore di tutte le altre: come tale, essa sarebbe opponibile al terzo che sia divenuto proprietario di una di dette unità solo a condizione che la clausola regolamentare sia stata trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665 c.c., oppure che l’acquirente abbia preso atto in modo specifico della stessa contestualmente all’atto di acquisto, non essendo invece sufficiente che l’atto di provenienza contenga un mero richiamo al contenuto del regolamento…”[5].
La Corte di Xxxxxxx in commento, al contrario, ritiene che le limitazioni alla destinazione delle proprietà esclusive, eventualmente previste nel regolamento contrattuale, debbano essere inquadrate giuridicamente siccome obbligazioni propter rem (nel caso specifico, con contenuto negativo), nel senso di non conferire all’immobile una certa destinazione: si viene dunque a determinare una mera limitazione del godimento o dell’esercizio dei diritti del proprietario dell’unità immobiliare, a differenza delle più rigorose ipotesi di imposizione di servitù o di oneri reali[6].
Corollario della differente (e meno restrittiva) qualificazione giuridica del divieto è “l’idoneità della mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di acquisto ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti”[7], circostanza che, in quanto di fatto sussistente, avrebbe di per sé integrato il presupposto di legittimità.
2) Le locazioni turistiche in condominio
Ma – precisa la Corte di Appello – la fattispecie in esame è diversa: rilevato che si verte in tema di locazione turistica (breve), alla quale non è opponibile il regolamento condominiale contrattuale, in quanto non viene a determinarsi un mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, il Collegio dichiara che non è stato comunque posto in essere dai conduttori – e quindi non sussiste alcuna responsabilità dei locatori, nei confronti del condominio – alcun comportamento in violazione del regolamento stesso.
Come detto, la locazione turistica non è attività ricettiva ed è regolata dalle norme del codice civile, giusta il rinvio operato dall’art. 53 D. Lgs. n. 79/2011 (Codice del turismo): “Gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, sono regolati dalle disposizioni del codice civile in tema di locazione” (in buona sostanza, pur trattandosi di locazioni abitative, non si applica la Legge n. 431/1998).
La decisione della Corte è quindi del tutto condivisibile nel suo argomentare che le locazioni stipulate per finalità turistica non si distinguono dalle ordinarie locazioni (cui certamente il condominio non può neppure opporre un proprio gradimento), se non per la loro durata transitoria.
Certo è, di contro, che anche le parti del rapporto di locazione, segnatamente gli ospiti/conduttori, sono tenuti ad osservare le comuni regole di convivenza vigenti all’interno del condominio, previste dal codice civile: si pensi al divieto di turbativa della quiete condominiale e al rispetto dell’igiene e del decoro del medesimo, sui quali aspetti l’espletata istruttoria, in primo grado, aveva escluso profili di responsabilità.
E’ opportuno precisare, in via generale, che per “finalità turistica”, la quale deve essere espressamente indicata nel contratto al fine di evitare “confusione” con la diversa locazione transitoria, s’intende il contratto stipulato “… per ragioni di svago, villeggiatura, vacanza o riposo, senza alcun collegamento con esigenze abitative primarie, per un periodo di tempo normalmente ma non necessariamente limitato” (Tribunale di Firenze, sentenza n. 1848/2006).
La necessità che le parti esternino la finalità turistica è una delle ragioni per le quali è richiesto il requisito della forma scritta a pena di nullità (ad substantiam), ciò da cui deriva l’obbligatorietà della forma scritta anche per tutti gli ulteriori atti derivanti dal contratto di locazione.
La locazione turistica si caratterizza per l’irrilevanza della durata, che non è prefissata dal Legislatore nel minimo e/o nel massimo: il dato della finalità turistica della locazione prevale su quello della durata (tant’è che quest’ultima non vale a “tipizzare” la fattispecie contrattuale, potendo essere di pochi giorni o – teoricamente – di molti anni, con modalità, per esempio, “stagionale”).
Nel caso di specie, si è visto trattarsi di locazioni turistiche di durata breve, se non brevissima, in ogni caso inferiore ai trenta giorni: fermo restando il beneficio fiscale della non necessità di registrazione del contratto di durata pari o inferiore ai trenta giorni, è del tutto pertinente, al di là del caso in commento, richiamare la normativa in materia di locazioni brevi ex art. 4 D.L. n. 50/2017, che ben può essere utilizzata anche in caso di locazioni turistiche, sul presupposto della durata compresa entro i trenta giorni[8].
Si tratta, come è noto, di una norma tributaria, che consente ai contraenti persone fisiche (esclusa quindi l’attività di impresa) di beneficiare di una serie di vantaggi fiscali: a partire dal 1° giugno 2017, ai redditi derivanti dai contratti di locazione breve si applicano – si tratta di una scelta del locatore liberamente assunta – le disposizioni in materia di cedolare secca sugli affitti, di cui alla disciplina generale dettata dall’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2011.
[1] Si veda, ex multis, Xxxx. civ., sez. II, sentenza, 08/11/2010, n. 22665: “L’attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le sue modeste dimensioni, richiede non solo la cessione del godimento di locale ammobiliato e provvisto delle necessarie
somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno. In difetto della prestazione di detti servizi, pertanto, quella cessione non può essere ricondotta nell’ambito dell’attività di affittacamere, né quindi sottratta alla disciplina della locazione ad uso abitativo”; in senso analogo, ex multis: Cass. civ., sez. III, 18/05/1993, n. 5632; Cass. civ., sez. III, 30/04/2005, n. 9022.
[2] Cass. civ., sez. II, ordinanza 02/03/2017, n. 5336: “Le pattuizioni contenute nell’atto di acquisto di un’unità immobiliare compresa in un edificio condominiale, che comportino restrizioni delle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva dei singoli condomini ovvero relative alle parti condominiali dell’edificio, devono essere espressamente e chiaramente enunziate, atteso che il diritto del condomino di usare, di godere e di disporre di tali beni può essere convenzionalmente limitato soltanto in virtù di negozi che pongano in essere servitù reciproche, oneri reali o, quanto meno, obbligazioni “propter rem”: ne consegue l’invalidità delle clausole che, con formulazione del tutto generica ed inidonea, peraltro, a superare la presunzione ex art. 1117 c.c., limitano il diritto dei condomini di usare, godere o disporre dei beni condominiali, riservando all’originario proprietario l’insindacabile diritto di apportare modifiche alle parti comuni, con conseguente intrasmissibilità di tale facoltà ai successivi acquirenti da quello”.
[3] Sul tema si rinvia a LUPPINO S., “Le locazioni in condominio”, Santarcangelo di Romagna, 2020.
[4] Sul tema delle servitù in condominio (art. 1027 c.c.), XXXXXX R., “Il nuovo condominio”, Napoli, 2018, pag. 144, scrive: “… Xxxxxx, avremo servito in condominio solo allorché al condòmino viene consentito un utilizzo ulteriore e diverso rispetto all’utilitas propria del bene con corrispondente ampliamento del diritto di quel condomino e restrizione dei diritti degli altri condomini”.
[5] Conforme Cass. civ., sez. II, sentenza, 18/10/2016, n. 21024: “La previsione, contenuta in un regolamento condominiale convenzionale, di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, va ricondotta alla categoria delle servitù atipiche e non delle obbligazioni “propter rem”, difettando il presupposto dell’”agere necesse” nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio; ne consegue che l’opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti va regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, nella nota di trascrizione, delle specifiche clausole limitative, ex artt. 2659, comma 1, n. 2, e 2665 c.c., non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale”. In senso analogo, Cass. civ., sez. II, sentenza, 19/03/2018, n. 6769.
[6] Cass. civ., sez. II, sentenza, 05/09/2000, n. 11684: “Con il regolamento condominiale possono esser costituiti pesi a carico di unità immobiliari di proprietà esclusiva e a vantaggio di altre unità abitative, cui corrisponde il restringimento e l’ampliamento dei poteri dei rispettivi proprietari, o possono imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore di altri condomini o di soggetti diversi, ovvero possono limitarsi il godimento o l’esercizio dei diritti del proprietario
dell’unità immobiliare. Nel primo caso è configurabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nel secondo un onere reale e nel terzo un’obbligazione “propter rem”, non trascrivibili. Il divieto di adibire l’immobile ad una determinata destinazione, ovvero di esercitarvi determinate attività è inquadrabile in quest’ultimo istituto, e il corrispondente diritto è prescrittibile se il creditore non lo esercita per il periodo predeterminato dalla legge”.
[7] Cass. civ., sez. II, sentenza, 28/09/2016, n. 19212:“La decisione non è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 luglio 2003 n. 10523; Cass. 14 gennaio 1993 n. 395; Cass. 26 maggio 1990 n. 4905) secondo cui “le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale, che può imporre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti, di loro esclusiva proprietà purché siano enunciate in modo chiaro ed esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione nell’atto di acquisto, si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che – seppure non inserito materialmente – deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto”. In senso analogo: Cass. civ., sez. II, sentenza, 11/02/2022, n. 4529.
[8] Sia consentito rinviare al mio contributo in materia di locazioni atipiche: XXXXXXXX X.,
“Affitti brevi” (versione ebook), Xxxxxxxxxxxxx xx Xxxxxxx, 0000.
Diritto successorio e donazioni
Collazione e tassazione dell’atto di divisione
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Cass. Civ., Sez. Trib., Sentenza n. 2588 del 27/01/2023
Divisione ereditaria – Imposta di registro – Applicazione dell’imposta – Rinvio alle disposizioni in materia d’imposta di successione – Donazioni soggette a collazione – Calcolo nella base imponibile – Rilevanza – Conseguenze
Massima: “Nella imposizione di registro della divisione ereditaria ex art.34 D.P.R. 131/86, al fine di stabilire la massa comune e, di conseguenza, al fine di accertare la eventuale divergenza tra quota di fatto-quota di diritto e la presenza di eccedenze-conguagli tra coeredi tassabili come vendita- trasferimento, si deve tenere conto del valore del bene donato in vita dal de cuius ad uno dei coeredi condividenti e come tale oggetto di collazione ex artt. 724 e 737 cod. civ.”.
*Massima non ufficiale
Disposizioni applicate
Codice Civile, articoli 724 e 737; D.P.R. n. 131/1986 articolo 34; D.Lgs. n. 346/1990 articolo 8
[1] L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso in Cassazione contro una pronuncia della Commissione Tributaria Regionale che la vedeva soccombere in un giudizio avverso un Notaio in relazione ad un avviso di liquidazione per il recupero della maggiore imposta di registro dovuta su un atto di divisione di comunione ereditaria.
In particolare, la commissione tributaria aveva osservato che il Notaio correttamente aveva versato l’imposta di registro con aliquota dell’1% e non con la maggiore aliquota dovuta, ex art.34, comma 2, D.P.R. n. 131/1986, in caso di conguaglio superiore del 5% del valore della quota di diritto divergente da quella di fatto, dal momento che alla base imponibile per l’imposta di registro concorreva anche il valore del bene donato in vita dal de cuius ad uno dei condividenti, e come tale soggetto a collazione. Diversamente ragionando (cioè determinando
la base imponibile sul solo relictum oggetto di divisione) si sarebbe determinata una tassazione indebita, facendo emergere dei conguagli eccedenti in forza di un’operazione non rispondente né al principio di capacità contributiva né alla disciplina civilistica della collazione, con stravolgimento a fini esclusivamente fiscali degli effetti propri della divisione.
Con l’unico motivo di ricorso in Cassazione, l’Agenzia delle Entrate rilevava che la Commissione Tributaria Regionale non avrebbe considerato che, per le comunioni ereditarie, la massa comune ai fini dell’articolo 34 cit. (comma 1) è costituita ex lege dall’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione, la quale (art. 8 D.Lgs. 346/1990) fa esclusivo riferimento al relictum e non anche al donatum oggetto di collazione (invece rilevante ai diversi fini della franchigia); inoltre, la donazione del bene oggetto di collazione integra un’attribuzione di ricchezza esulante dalla divisione, nella quale rientra soltanto come imputazione di quota e calcolo fittizio.
Nel caso di specie, osservava, “la divisione tra i coeredi interessati è avvenuta proprio mediante l’imputazione alla quota a sé spettante ad opera della condividente donataria (…) dei beni da lei ricevuti a titolo di donazione, con prelievo, ad opera dei restanti condividenti, di quote superiori a quelle di diritto del relictum”.
A sostegno della propria tesi, la ricorrente portava alcuni precedenti di giurisprudenza di legittimità che avevano, effettivamente, escluso il calcolo delle donazioni pregresse ed oggetto di collazione dalla base imponibile.[1]
[2] Il ricorso veniva ritenuto infondato e la Suprema Corte enunciava il principio di diritto riportato nella massima qui in commento.
Essendo stati richiamati dalla ricorrente gli opposti precedenti orientamenti di legittimità, gli Ermellini hanno accuratamente motivato le ragioni del discostamento da tali pronunce. A tal fine, la sentenza in esame riprende, fa propri e conferma i ragionamenti già espressi dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 22123 del 03/08/2021.
Nel dare risposta al quesito se debbano o meno considerarsi, ai fini della determinazione della base imponibile di un atto di divisione, le donazioni invita effettuate dal de cuius e soggette a collazione, viene innanzitutto in esame il disposto dell’art. 34 D.P.R. 131/1986.[2]
In particolare, assume rilevanza l’inciso del primo comma ove si stabilisce che la massa comune, nelle divisioni ereditarie, è data dal valore “dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione”. Dalla determinazione di tale valore, conseguono tutte le valutazioni in ordine all’esistenza di una sproporzione tar le quote assegnate di fatto e quelle spettanti di diritto e, dunque, l’emersione di conguagli (da tassarsi come trasferimento).
Il Testo Unico delle imposte di successione e donazione (D. Lgs. n. 346/1990), in ordine alle donazioni pregresse effettuate dal de cuius, si limita, all’art. 8, comma 4, a prevedere che: “Il valore globale netto dell’asse ereditario è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle
aliquote applicabili norma dell’art. 7, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari (…); il valore delle singole quote ereditarie o dei singoli legati è maggiorato, agli stessi fini, di un importo pari al valore attuale delle donazioni fatte a ciascun erede o legatario. (…)”, nonché, all’art. 9, a definire l’attivo ereditario come l’insieme di “tutti i beni e i diritti che formano oggetto della successione, ad esclusione di quelli non soggetti all’imposta (..)” (con ciò escludendo le donazioni pregresse, non essendo soggette a tassazione in sede successoria).
Ed è proprio sul tenore letterale di tali norme che si fondano i precedenti di segno opposto della giurisprudenza nonchè i provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate.
In particolare, quest’ultima, sin dal 1987 afferma costantemente che le donazioni sono richiamate dalle norme fiscali in tema di successione solo ai fini della determinazione (in origine dell’aliquota applicabile, ora, a seguito delle modifiche legislative intervenute nel 2006) dell’erosione delle franchigie e che “l’istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell’asse ereditario e nel calcolo delle quote su cui verranno applicate le aliquote d’imposta. I beni donati non rientrano pertanto nelle masse ereditarie e non possono considerarsi ‘esistenti’ in data di apertura della successione. Le quote di diritto verranno calcolate sulla base del valore dell’asse ereditario netto”.[3] E su tale linea, come detto, si è assestata fino a poco tempo fa anche la Giurisprudenza di legittimità, la quale giungeva alla conclusione che in sede di divisione ereditaria la differenza tra la quota determinata senza tener conto del donatum e quella risultante a seguito dell’aggiunta dei beni oggetto di collazione dal donatario deve considerarsi conguaglio.
[3] Tale impostazione è stata radicalmente ripensata dalla Suprema Corte nel citato precedente dell’agosto 2021, cui si ritiene debba essere data conferma e continuità.
A giudizio degli Xxxxxxxxx, “il rinvio operato dall’art. 34 TUR all’imposta di successione non può non risentire del fatto che la disciplina di quest’ultima è stata fatta oggetto, com’è noto, di varie e non sempre lineari riforme e stratificazioni normative e che, in particolare, la norma che dovrebbe fungere da parametro di riferimento (l’art. 8, comma 4, TUS) è stata privata di ogni pratica e complessiva rilevanza (implicita abrogazione) per il venir meno, a seguito del superamento normativo del regime impositivo proporzionale, della finalità prettamente antielusiva che essa perseguiva”. E di tale implicita abrogazione si trova conferma nell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di coacervo delle donazioni ai fini dell’imposta sulle successioni.[4]
Dell’art. 34 citato, dunque, può e deve essere data una lettura diversa, interpretandolo “in accordo con la disciplina civilistica, nel senso di comprendere i beni del compendio successorio tenendo conto anche del valore delle donazioni collazionate e con imputazione dei debiti (…); pertanto la base imponibile per calcolare l’imposta di registro sulla divisione deve essere determinata sulla somma del valore del bene caduto in successione e del valore del bene collazionato per imputazione”.[5]
I Giudici della Suprema Corte evidenziano, poi, come l’imposta di registro, nell’ambito che qui ci occupa, abbia quale scopo la tassazione dell’effettivo trapasso di ricchezza che con la divisione può realizzarsi; “ed è solo imputando le donazioni pregresse alla massa comune che si ha modo di verificare se un simile trapasso di ricchezza imponibile si è davvero verificato, ed in che misura, in capo a taluno dei condividenti.
Al contrario, se delle donazioni non si tenesse conto, l’imposta di registro sulla divisione ereditaria verrebbe a colpire un disavanzo tra quota di fatto e quota di diritto che non è significativo né rivelatore dell’attribuzione di una ricchezza supplementare, quanto soltanto della riconduzione ad equilibrio e parità delle porzioni (…) assegnate ai condividenti”.
[4] La pronuncia in commento, confermando l’inversione operata con il citato precedente, fornisce ulteriore sostegno a quella che da tempo era l’opinione della dottrina, soprattutto notarile.
Questa aveva avuto modo di evidenziare come la collazione venisse in rilievo “dopo la resa dei conti e dopo la formazione dello stato attivo e passivo dell’eredità, in vista dei prelevamenti (art. 725 cod.civ.) che preludono alla formazione delle porzioni ereditarie in proporzione alle quote (art. 726 cod.civ.)”.[6]
La medesima dottrina proponeva, quindi, una soluzione che potesse coniugarsi con quello che era l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza, fornendo un’alternativa ai prelevamenti che garantisse una natura meramente dichiarativa alla divisione anche per il caso di imputazione delle donazioni ricevute.
La fase dei prelevamenti, infatti, “non è necessaria e ben può essere assorbita nella mera fase di accertamento dell’obbligo di conferire, cui consegua la fase altrettanto di accertamento, e quindi dichiarativa, della reale entità delle quote spettanti ai condividenti” (…) In questo senso, si possono coniugare fiscalmente la regola della determinazione dell’asse (al netto del donatum) e quella della proporzionalità alle quote, scollegando queste ultime dalla mera misura numerica stabilita (…) per il concorso tra coeredi”.[7]
Seguendo tale ragionamento, si perviene alle medesime conclusioni cui sono giunti gli Ermellini nella pronuncia in esame, ossia che non vi sia alcun trasferimento di ricchezza ulteriore rispetto alla massa ereditaria, da tassarsi quale conguaglio, rimanendo la sperequazione delle quote un fattore meramente apparente, giustificato dalle operazioni matematiche connesse alle regole della collazione.
Una differenza sembra permanere tra le posizioni di dottrina e (più recente) giurisprudenza. Nella citata pronuncia n. 22123/2021 è, infatti, precisato che la base imponibile sia da determinarsi in base alla “somma del valore del bene caduto in successione e del valore del bene collazionato per imputazione”, laddove la dottrina, forse più correttamente, sostiene che la massa da considerarsi ai fini fiscali rimanga quella del solo c.d. relictum, essendo la collazione esclusivamente la causa giustificatrice di un apporzionamento che apparirebbe, altrimenti,
incoerente con la quota a ciascuno astrattamente spettante.[8]
[1] Si vedano: Cass. Civ., Ordinanza n. 11040 del 27 aprile 2021; Cass. Civ., Ordinanza n. 25929 del 16/10/2018; Cass. Civ., Sentenza n. 5972 del 14/03/2007; Cass. Civ., Sentenza n. 8335 del 10/04/2006; Cass. Civ., Sentenza n. 8489 del 04/09/1997.
[2] Il cui testo, così recita:
“1. La divisione, con la quale ad un condividente sono assegnati beni per un valore complessivo eccedente quello a lui spettante sulla massa comune, è considerata vendita limitatamente alla parte eccedente. La massa comune è costituita nelle comunioni ereditarie dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione, e nelle altre comunioni, dai beni risultanti da precedente atto che abbia scontato l’imposta propria dei trasferimenti.
I conguagli superiori al cinque per cento del valore della quota di diritto, ancorché’ attuati mediante accollo di debiti della comunione, sono soggetti all’imposta con l’aliquota stabilita per i trasferimenti mobiliari fino a concorrenza del valore complessivo dei beni mobili e dei crediti compresi nella quota e con l’aliquota stabilita per i trasferimenti immobiliari per l’eccedenza. (…)”
[3] Risoluzione n. 250249 del 12/05/1987
[4] Tra le molte, si vedano: Xxxx. Civ., ordinanza n.758/2019; Cass. Xxxx., ordinanza n. 12779/2018; Cass. Civ., sentenza n. 24940/2016; Cass. Civ. n. 26050/2016; Cass. Civ n. 5972/2007; Cass. Civ. n. 29739/2008.
Per maggiori approfondimenti, si rimanda a RAMPONI, “Il coacervo delle donazioni. Problemi generali e ipotesi particolari: le donazioni indirette” in Consulenza Immobiliare n. 13/2019, Euroconference Editoria, pagg. 40 ss.
[5] Così Xxxx. Civ. n. 22123/2021 cit.
[6] XXXXXXXXX, Il valore attribuito ai diritti assegnati tra diritto tributario e impugnative negoziali, in Contratto di divisione e autonomia privata – Atti del Convegno tenutosi a Santa Margherita di Pula, Fortevillage 30-31 Maggio 2008, disponibile su xxxxx://xxxxxxxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxxx.xxx?xxxx00/0000&xxx0
Dello stesso autore si veda: “Divisione – Individuazione della massa nelle ipotesi successorie e non successorie – Riflessi delle assegnazioni sulla configurabilità di conguagli fittizi”, in CNN – Studio
n. 24-2015/T, pagg. 11 ss., xxxxx://xxxxxxxxx.xx/xxxxx/xxxxxxx/xxxxx/00-00-x.xxx
[7] PETTERUTI, Divisione – Individuazione della massa nelle ipotesi successorie e non successorie – Riflessi delle assegnazioni sulla configurabilità di conguagli fittizi, cit., pag. 13
[8] Un esempio può aiutare a fare chiarezza. Successione di Tizio. Eredi i di lui figli, Xxxx e Xxxxxxxxx. Patrimonio relitto pari a 100.000. In vita, Xxxxxxxxx aveva ricevuto una donazione di 50.000, senza dispensa da collazione. Nell’ottica preferibile, i fratelli potrebbero operare una divisione attribuendo a Caio 75.000 ed a Sempronio 25.000 del relictum, scontando il relativo atto di divisione un’imposta dell’1% sulla somma di 100.000 (relictum) e non sul maggior importo di 150.000 (relictum più donazione soggetta a collazione).
Diritto e reati societari
La mancata prova della colpa di organizzazione e del relativo nesso causale con il reato presupposto esclude la configurabilità di una responsabilità dell’ente ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Cassazione penale, Sez. IV, Sentenza, 11 gennaio 2023, n. 570
Parole chiave: Infortuni sul lavoro – Responsabilità penale in genere
Xxxxxxx: “È necessario accertare la c.d. “colpa di organizzazione” dell’ente, ovvero il non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato per poter imputare all’ente l’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo”.
Disposizioni applicate: art. 25 septies D. Lgs. n. 231/2001
Nel caso di specie, una S.p.A. è stata chiamata a rispondere, a norma dell’art. 25 septies D. Lgs.
n. 231/2001, del reato presupposto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche dal proprio amministratore unico, in concorso con l’amministratore unico della S.r.l. a cui erano stati subappaltati alcuni lavori.
In particolare, durante la fase di smontaggio di un ponteggio, un dipendente della subappaltatrice era stato colpito da un’asse di contenimento, perdendo l’equilibrio e – in assenza di dispositivi di sicurezza per la prevenzione del rischio di cadute dall’alto – facendo una rovinosa che ne provoca il decesso.
Il Tribunale di prime cure, pur constatando che la S.p.A. avesse adottato un modello organizzativo, l’ha comunque condannata, considerando che la violazione delle norme antinfortunistiche le aveva procurato un vantaggio consistito nel risparmio derivante (i) dall’impiego di lavoratori soltanto formalmente dipendenti della subappaltatrice, ma in realtà sottoposti al poter direttivo della S.p.A., (ii) dalla mancata messa a disposizione di tali lavoratori di idonei mezzi di protezione individuale, in particolare dall’assenza di dispositivi di
protezione anticaduta, nonché (iii) dalla loro omessa formazione specifica in materia di montaggio/smontaggio dei ponteggi.
Avverso tale decisione, la S.p.A. ha impugnato una tale decisione, ma la Corte d’Xxxxxxx ha confermato la sentenza di primo grado, ponendosi tuttavia in contraddizione con l’analisi del contenuto del modello organizzativo compiuta dalla sentenza di primo grado ed evidenziandone la genericità e l’inadeguatezza.
La S.p.A. ha quindi proposto ricorso in cassazione lamentando, in particolare, l’erronea disapplicazione degli artt. 6 e 7, comma 2 D. Lgs. n. 231/2001, in ordine alla valutazione di idoneità in concreto ed ex ante del modello organizzativo adottato dalla S.p.A., prima della verificazione dell’infortunio.
Gli ermellini hanno accolto il ricorso della S.p.A. ritenendo innanzitutto che, se l’efficace adozione di “modelli di organizzazione e di gestione” richiamati dagli artt. 6 e 7 del D. Lgs. n. 231 del 2001 consente all’ente di non rispondere dell’illecito, la mancanza di tali modelli non implica un automatico addebito di responsabilità.
Ripercorrendo la più recente giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione ha sottolineato che è escluso che possa venire attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa (Xxxx. Pen., Sez. IV, n. 32899 del 08/01/2021; Cass. Pen., Sez. IV, n. 18413 del 15/02/2022).
La Suprema Corte ha infatti sottolineato che l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui e ha quindi affermato la necessità che sussista la c.d. “colpa di organizzazione” dell’ente, ovvero il fatto di non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
Stando così le cose, la Corte ha sottolineato che la colpa di organizzazione debba essere rigorosamente provata e che non va confusa o sovrapposta con la colpevolezza del dipendente o amministratore dell’ente responsabile del reato. Xxxxxx, gli ermellini lamentano che, nel caso in esame, non è stato dato evidenza della concreta configurabilità di una colpa di organizzazione della S.p.A., né è stato stabilito se vi sia stato un nesso causale tra tale elemento e la verificazione del reato presupposto.
Alla luce di quanto precede, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della S.p.A., annullando con rinvio la sentenza impugnata per nuovo giudizio al fine di evidenziare la sussistenza di una eventuale colpa di organizzazione della S.p.A., che abbia avuto un effettivo nesso causale con il reato presupposto.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Fallibilità della società start-up e termini per l’accertamento
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, Cultore di Diritto Commerciale presso l' Università degli Studi di Verona
Cass. Civ. Sez. 1, Ordinanza 18 maggio 2022[1], n. 14316, Pres. Xxxxxxxxx X. – Rel. Xxxxx P.
Parole chiave: Start-up innovativa – natura dell’iscrizione nel Registro delle Imprese – non preclusa la successiva verifica giudiziale prefallimentare
Riferimenti normativi: D.l. n. 179 del 18 ottobre 2012[2]: artt. 25 e 31, Legge Fallimentare art.
6, Cod,civ.: art. 2193, L. n. 2248 del 20 marzo 1865: all. E artt. 4 e 5.
CASO
La questione sottoposta a mezzo ricorso alla Suprema Corte ha per oggetto l’efficacia, con riferimento ad una Procedura fallimentare richiesta in capo ad una società iscritta, nella sezione speciale del competente Ufficio del Registro delle Imprese, quale start-up innovativa, nella sezione speciale del Registro delle imprese.
Le ragioni del gravame si fondano sulle motivazioni espresse dai Giudici del reclamo[3], nel revocare il Fallimento, secondo i quali:
1. l’iscrizione “automatica” di una start-up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese è assistita da una “presunzione di veridicità”;
2. tale iscrizione avviene sulla base dell’autocertificazione del legale rappresentante – resa sotto la sua responsabilità penale – quanto ai prescritti requisiti, quindi derivandone la sua esclusione dalla soggezione a fallimento[4];
3. ne risulterebbe, di conseguenza, preclusa la verifica in sede prefallimentare dell’effettivo possesso dei requisiti medesimi.
Secondo la ricorrente avanti il Giudice di Legittimità tale iscrizione è elemento necessario ai fini di pubblicità “costitutiva” o “normativa”, ma risulta privo di efficacia sanante, ove manchino
i rispettivi elementi della fattispecie, non peraltro surrogabile dalla semplice autocertificazione del legale rappresentante[5].
SOLUZIONE
La Corte, riconoscendo la fondatezza del motivo di impugnazione, preliminarmente analizza le disposizioni normative applicabili[6] e richiama la loro evoluzione operando, a supporto sella propria decisione, un raffronto con le analoghe previsioni quanto all’impresa agricola. Nel contempo evidenzia come i requisiti prescritti dalla legge, ed in modo particolare quelli alternativi[7], testimoniano l’intento del legislatore di incentivare, agevolandola, solo la start- up che sia effettivamente – non solo formalmente o statutariamente – e nel continuum[8] munita di una reale capacità innovativa, correlata alla propria concreta attività[9].
Nel richiamare una parte minoritaria della giurisprudenza di merito[10], che valorizza le disposizioni di carattere procedimentale per sostenere come “il dato formale dell’iscrizione della start-up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese costituirebbe in via esclusiva, esaurendolo, il presupposto della fruizione dei benefici di legge”, la Corte ritiene più condivisibile una lettura meno formalistica – e restrittiva – seguita dal Giudice di prime cure, così come dalla prevalente giurisprudenza di merito[11], per cui tale “iscrizione rappresenta una condizione certamente necessaria, ma non anche sufficiente a garantire l’applicazione della disciplina agevolata e, segnatamente, l’esonero dalla dichiarazione di fallimento”. Ciò in quanto, puntualizza la Corte, “dovendo essere sempre assicurato e verificato, nella sede giudiziale specificamente preposta, l’effettivo e concreto possesso dei requisiti prescritti, al di là della loro formale attestazione e di un loro riscontro meramente cartolare”. Si osservi, quindi, come ne derivi un obbligo, per il giudice, procedere a detta verifica in sede prefallimentare che in un’interpretazione ampia dell’indirizzo di Legittimità, potrebbe spingersi non solo ai due momenti statiti, riconducibili all’iscrizione ed all’esame in sede prefallimentare, ma anche nel continuum intercorso tra i due attesi gli effetti che derivano dal poter venir meno, anche temporaneo, dei prescritti requisiti di legge.
Merita attenzione il passo della Pronuncia in cui, apparendo quale elemento fondante della rilevanza attribuita alla materia in questione, relativamente agli effetti derivanti da illeciti in materia di iscrizione non legittima, precisa come siano stati segnalati i rischi di abusi e turbative del mercato e della concorrenza, derivanti da un illegittimo beneficio di incentivi/ benefici fiscali, finanziari, in materia di lavoro e concorsuale.
In primis la Corte sgombra il campo dalla «pretesa “presunzione di veridicità” dell’autocertificazione resa dal legale rappresentante della start-up innovativa»[12], indicando come non assuma dirimente neppure il conseguimento dell’iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese[13]. Le argomentazioni della Corte traggono riferimento dalla diversa posizione giuridica, proprio in ragione di espressa disposizione normativa[14], prevista in materia di impesa artigiana – sempre avuto riferimento alla fruibilità di agevolazioni – che comunque la Corte medesima ha interpretato nel senso che «integra un elemento necessario ma non sufficiente per definire l’impresa come artigiana, costituendo un “coelemento” della fattispecie
acquisitiva della qualifica soggettiva … la cui sussistenza deve essere «verificata in concreto dal giudice»»[15]. Di rilevante interesse appare l’ulteriore considerazione dalla Corte[16], a supporto della scelta interpretativa operata, per la quale diversamente affermando “la sufficienza del mero dato formale” si verrebbe a collidere con “il potere del giudice di disapplicare il provvedimento illegittimo, «in quanto adottato in assenza delle condizioni previste dalla legge
…”[17].
Viene quindi analizzata la portata dell’attività di verifica amministrativa in sede di presentazione della domanda di iscrizione alla Sezione Speciale definita, dalla dottrina “controllo qualificatorio” che. secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito[18], “è di tipo prettamente formale – così come di mera legalità è quello spettante in seconda battuta al Giudice del registro – in quanto limitato alla verifica della corrispondenza tipologica dell’atto da iscrivere a quello previsto dalla legge, senza alcuna possibilità di accertamento in ordine alla sua validità, controllo invece riservato alla sede giurisdizionale contenziosa”. Chiarisce la Corte, quindi, come tali principi generali siano applicabili anche al controllo da operarsi in sede di iscrizione delle start-up innovative, derivandone come: a) il perimetro di competenza del Conservatore risulterebbe limitato alla carenza formale dei presupposti[19], b) restando esclusa ogni analisi nel merito delle dichiarazioni presentate[20],
c) la sorveglianza demanda al Giudice del Registro delle imprese (art. 2188, comma 2, c.c.) è da intendersi esercitata a tutela di interessi generali.
La Corte, analizzando compiutamente ogni rilevante aspetto connesso e collegato alla materia posta alla sua decisione, considera anche gli effetti di profilo processuale della tutela dei diritti, sottolineando come “la contraria opinione rende ingiustamente più onerose – in contrasto con gli artt. 24 Cost. e 6, par. 1, Cedu – le iniziative dei creditori di fronte alla insolvenza di un debitore iscritto nella sezione speciale delle start-up innovative”. Ne deriverebbe infatti l’onere, prima di presentare il ricorso per dichiarazione di fallimento, ex art. 6 l.f. di ottenerne la cancellazione dell’iscrizione nelle forme giudiziarie previste.
Si richiama all’attenzione come la Corte, inoltre, sottolinei ed evidenzi – quasi quale elemento a supporto della rilevanza a disporre, da un lato, la cancellazione in sede di Volontaria Giurisdizione e, dall’altro, di non veder ostacolato né ritardato il legittimo svolgimento delle iniziative volte a sottoporre all’Autorità giudiziaria un’istanza di fallimento vieppiù ove sussista un illegittimo formale impedimento -.
Principio di Diritto
A conclusione dell’analisi svolta dalla Corte, formulando il seguente principio di diritto “L’iscrizione di una società quale start-up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese, in base all’autocertificazione del legale rappresentante circa il possesso dei requisiti formali e sostanziali, ed alla successiva attestazione del loro mantenimento, ai sensi dall’art. 25 del
d.l. n. 179 del 2012, convertito dalla l. n. 221 del 2012, non preclude la verifica giudiziale dei requisiti medesimi in sede prefallimentare[21], in quanto la suddetta iscrizione costituisce presupposto necessario ma non sufficiente per la non assoggettabilità a fallimento, a norma
dell’art. 31, d.l. cit., essendo necessario anche l’effettivo e concreto possesso dei requisiti di legge per l’attribuzione della qualifica di start-up innovativa”. Giova sottolineare come il principio di diritto richiami la condizione della “successiva attestazione del loro mantenimento” sottolineando la continuità nello status escludendosi, quindi, la sua cristallizzazione ad un tempo momento, iniziale, indipendentemente dalle evoluzioni, ad esso successive, che l’attività della start-up venga ad assumere o sviluppare.
QUESTIONI APPLICATE NELLA PRATICA
Appare legittimo ritenersi opportuno, quindi:
a) in sede di strutturazione del Progetto di Start-up Innovativa deve essere definito un preciso e concreto perimetro delle attività, chiamate a consentirne il riconoscimento, sotto gli aspetti sostanziale e formale individuandone i vari elementi, processi, procedure, potenziali di sviluppo, termini e modalità di loro applicazioni in sede di svolgimento dell’attività stessa così come le loro prospettive di sviluppo nonché, ove possibile, le aree di futuro intervento di ulteriori innovazioni;
b) nel perdurare dell’attività imprenditoriale[22], risulta non privo di effetti il monitorare puntualmente – prevedendo in via cautelativa anche l’evitare di soluzioni di continuità -, da parte degli Amministratori, il permanere o meno delle condizioni previste dalla normativa tempo per tempo vigente, delle condizioni e requisiti per la qualificazione di Start-up Innovativa[23]. Di tali verifiche risulta opportuno, anche a fini di eventuale ulteriore prova e fermi i previsti obblighi di informativa societaria (infra), presentare, a cadenza almeno annuale, un puntuale e completo Report al Consiglio di Amministrazione, contenente i termini, modalità, criteri e verifiche effettuate, assistito eventuali analisi svolte da consulente esterni da cui risulti il mantenimento dei prescritti requisiti;
c) “lato creditore” appare non solo opportuno acquisire ed analizzare, per tempo[24], gli elementi ed i dati rilevanti e giustificanti l’iscrizione nella Sezione Speciale, così come il suo mantenimento, resi disponibili ai terzi a’ sensi di legge (infra).
[1] Data pubblicazione 4 luglio 2022.
[2] Convertito dalla l. n. 221 del 2012.
[3] Corte d’Appello di Trieste, sentenza n. 537/2018 depositata il 08/10/2018, in revoca del fallimento dichiarato dal Tribunale di Udine con sentenza del 22/05/2018.
[4] Puntualizzano i Giudici di merito, in ogni caso, “ferma restando l’accessibilità alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento”.
[5] Si sottolinea, aspetto processuale ma comunque di sicuro interesse, come la Corte riporti – richiamando anche un proprio precedente (Xxxx. 16538/2020) il dare atto, a cura di entrambe
le parti hanno dato atto in rispettive memoria, dell’intervenuta chiusura del fallimento, “per compiuta ripartizione finale dell’attivo, pur rilevandone concordemente l’irrilevanza processuale in sede di legittimità”).
[6] Richiamando, in particolare, che:
“il primo comma dell’art. 31 prevede che «la start-up innovativa non è soggetta a procedure concorsuali diverse da quelle previste dal capo II della legge 27 gennaio 2012 n. 3» (“Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio”)”, e
“(solo con l’ormai prossima entrata in vigore del Codice della crisi e dell’insolvenza i creditori saranno legittimati, in determinati casi, a proporre la domanda di liquidazione controllata, ai sensi dell’art. 268, comma 2, come modificato dal d.lgs. n. 147 del 2020)”.
[7] Art. 25, comma 2, lettera h) n,1 1), 2) e 3) in materia di spese in ricerca e sviluppo, percentuale di dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo aventi caratteristiche di elevato standing formativo accademico, titolarità (anche come depositaria o licenziataria) di almeno una privativa industriale in taluni specifici settori che siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività di impresa.
[8] Pur se limitatamente al periodo previsto dalla legge stessa, con i limiti derivanti dalla non contestuale costituzione in sede di iscrizione nell’apposita sezione (art. 25, comma 3 d.l. 179/2012) da coordinarsi, quanto ai successivi effetti che ne derivano, con il successivo art. 31, comma 4.
[9] La particolare attenzione del Legislatore al rispetto delle agevolazioni riconosciute a tali iniziative imprenditoriali appare sottolineata, sotto l’aspetto della significatività dei controlli, dal comma 5 dell’art. 31 nella parte in cui espressamente, prevede che il Ministero dello sviluppo economico, in materia di vigilanza sul corretto utilizzo delle agevolazioni e sul rispetto della disciplina qui trattata, possa avvalersi del Nucleo speciale spesa pubblica e repressione frodi comunitarie della Guardia di finanza.
[10] Citando Trib. Milano 7 settembre 2017.
[11] Citando “da ultimo” App. Milano 8 luglio 2021, Trib. Milano 8 aprile 2021, App. Brescia 25 gennaio 2021, Trib. Genova 3 novembre 2019, sottolineandosi in Pronuncia “tutte in ambito prefallimentare”., a meglio significare la specifica loro riferibilità all’istituto in trattazione.
[12] Richiamando propri precedenti quanto all’esaurirsi dei loro effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. non costituendo ex sé prova in sede giudiziale lasciando, quindi, al giudice di adeguatamente valutarla (Cass. Sez. U, 12065/2014; Cass. 11276/2018, 8973/2020, Cass. 32568/2019).
[13] Richiamando come, ai sensi dell’art. 2193 c.c., primo comma essa abbia natura di
pubblicità dichiarativa, sottolineando come talune disposizioni prevedano espressamente una natura costitutiva “tra le quali rientra, in primis, l’efficacia costituiva dell’iscrizione delle società di capitali”. Lo stesso xxxxxx viene chiarito, anche con riferimento all’iscrizione nelle sezioni speciali del registro delle Imprese.
[14] Art. 5 della l. n. 443 del 1985 (legge quadro sull’artigianato).
[15] Citando Cass. 18723/2018.
[16] Richiamando propri precedenti Cass. 18723/2018, 29916/2018.
[17] Nell’ipotesi, richiamata a riferimento “per il riconoscimento della qualifica di impresa artigiana” che, mutatis mutandis, viene ritenuto applicabile anche per le Startup Innovative.
[18] Richiamando “ex multis, Trib. Roma 5 aprile 2019”.
[19] “(sia pure non limitata all’esistenza della domanda e dell’autocertificazione circa il possesso dei requisiti, ma estesa alla manifesta mancanza di elementi, emergente dall’esame degli stessi atti e documenti allegati)”.
[20] A titolo che appare quale necessario chiarimento, trattandosi di diversa perimetrazione di compiti nell’ambito di soggetti appartenenti all’Amministrazione Pubblica, viene richiamato il potere di vigilanza “sul corretto utilizzo delle agevolazioni e sul rispetto della relativa disciplina”, attribuito al Ministero dello sviluppo economico dall’art. 31, comma 5, d.l. n. 179 del 2012 (infra).
[21] La Corte, a definizione di tale escursus, viene ad affermare la piena compatibilità tra tale potere di controllo formale ed il più ampio sindacato di merito dell’autorità giudiziaria competente ad esaminare la domanda di fallimento della start-up.
[22] Attese il contenuto delle previsioni normative sopra richiamate e descritte, il termine finale – ai fini del mantenimento dei vantaggi previsti dalla normativa stessa – cessa con la cancellazione dalla Sezione Speciale per scelta dell’Imprenditore ovvero per decorrenza del termine finale – quinquennale (art. 31, comma 4) a decorrere dalla data di costituzione e della Società, fermi termini più brevi in caso di costituzione ante entrata in vigore della Legge di Conversione del D,l, 172/2912-.
[23] A tale proposito si richiama, tra le altre, uno dei requisiti – che appaio limitati temporalmente al momento della richiesta di iscrizione – previsti per l’scrizione nella Sezione Speciale riservata alle Start-up Innovative, secondo il quale le spese in ricerca e sviluppo devono a) risultare dall’ultimo bilancio approvato e b) essere descritte in nota integrativa (d.l. 172/2012, art. lettera h), n. 1).
[24] Sia in sede di instaurazione dei rapporti con la parte interessata che nel durante, in
particolare al rilevarsi di circostanze e/o elementi anche prospettici di sua insolvibilità.
Diritto Bancario
Recesso per giusta causa dal rapporto di apertura di credito
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
La disciplina del recesso dal contratto di apertura di credito è prevista dall’art. 1845 c.c., che distingue tra i contratti a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. Dal recesso derivano, notoriamente, due effetti: la sospensione della disponibilità del fido (efficacia estintiva del recesso) e l’obbligo di rientro da parte del cliente.
Il termine stabilito dal secondo comma dell’art. 1845 c.c. (applicabile alle aperture di credito a tempo determinato) concerne l’obbligo di restituzione delle somme già utilizzate, e non invece l’efficacia (estintiva) del recesso, la quale si realizza immediatamente in conseguenza del relativo esercizio mediante comunicazione all’affidato; il termine stabilito dal terzo comma attiene invece proprio al profilo dell’efficacia della revoca, dovendosi la norma interpretare nel senso che, successivamente alla comunicazione del recesso, il rapporto rimarrà efficace (e l’accreditato potrà quindi compiere ulteriori atti di utilizzo della provvista) fino alla scadenza del termine di preavviso stabilito contrattualmente o, in via gradata, dagli usi, o ancora, in assenza, in quello di quindici giorni stabilito dalla legge. Nulla viene disposto, invece, relativamente al termine per la restituzione delle somme già utilizzate e dei relativi accessori (nei termini ABF Roma n. 4155/2015).
Il primo comma dell’art. 1845 c.c. stabilisce che «Salvo patto contrario, la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa».
Si considerano “giusta causa” di recesso quegli eventi che determinano una concreta modificazione delle basi essenziali del contratto, soprattutto in termini di significativa menomazione del rapporto di fiducia normalmente posto a fondamento del contratto di apertura di credito.
Rilevano, al riguardo: il deterioramento delle condizioni patrimoniali del sovvenzionato (inadempimento; indici di insolvenza); l’aver fornito alla banca informazioni inesatte sulla propria situazione finanziaria; il rifiuto a sostituire/reintegrare le garanzie prestate (art. 1844 c.c.); la destinazione delle somme accreditate diversa da quella concordata (ex multis Cass. n.
4538/1997; Cass. n. 831/1998; Trib. Xxxxx 00.0.0000; Trib. Roma, 14.2.2011; Trib. Livorno 9.5.2016). Possono assumere rilievo anche la morte o la sopravvenuta incapacità dell’accreditato.
Il recesso per “giusta causa”, espressamente previsto per l’apertura di credito a tempo determinato, può essere convenuto dalle parti anche per l’apertura di credito a tempo indeterminato (pur non essendo previsto dal terzo comma dell’art. 1845 c.c.).
Nel recesso per “giusta causa” la banca deve indicare nella comunicazione (recettizia) i motivi del recesso. Il difetto di “giusta causa” rende inefficace il recesso, con eventuale diritto dell’accreditato a chiedere il risarcimento dei danni. Nelle aperture di credito a tempo indeterminato è sufficiente l’indicazione dell’esercizio della facoltà di cui all’art. 1845 c.c., eventualmente integrato dalle clausole contrattuali che lo prevedono.
L’esercizio del diritto di recesso è legittimo anche nel caso in cui la banca abbia in precedenza tollerato gli sconfinamenti. Il solo ritardo nell’esercizio del diritto di recesso – per quanto imputabile al titolare del diritto stesso tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato – non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca rinuncia tacita o modifica della disciplina contrattuale, per cui, in difetto di deduzione e prova di tali evenienze, è legittima la revoca dell’affidamento intimata dalla banca pur dopo avere a lungo tollerato gli sconfinamenti dai relativi limiti da parte del correntista (Cass. n. 23382/2013, che richiama il precedente di Cass. n. 5240/2004; Cass. n. 29317/2020).
Nuove tecnologie e Studio digitale
Avvocati alla prova dell’Intelligenza Artificiale: ChatGPTapre una nuova era
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Coach, Formatore, Consulente – CEO di MYPlace Communications
Un’epoca in cui i cittadini avrebbero potuto creare da sé contratti, ricorsi e moduli sembrava lontano, se non impossibile. Invece è quello che potrebbe cominciare ad accadere nel prossimo futuro, sull’onda delle novità che sta portando con sé la nuova forma tecnologia rappresentata dal chatbot lanciato solo due mesi or sono dalla società OpenAI: ChatGPT.
IL FUTURO DELLA CONSULENZA LEGALE?
Sappiamo che la tecnologia chatbot esiste da tempo ed è rappresentata da software che sono in grado di dialogare con l’essere umano, fornendo risposte ai quesiti e producendo contenuti coerenti con le richieste umane. Il punto è che ChatGPT rappresenta un salto qualitativo notevole che l’intelligenza artificiale compie, con capacità di ragionamento, analisi e soluzioni creative mai viste prima. Ora l’intelligenza artificiale simula in tutto e per tutto l’intelligenza umana, fornendo contenuti alla pari se non superiori. Certo, molti potrebbero obiettare, manca la parte emotiva dell’essere umano, la relazione, l’intuito e la capacità di andare oltre la mera risposta al quesito. È anche vero che da tempo sono in corso studi per colmare questi gap e potete stare certi che quanto prima la soluzione verrà trovata, rendendo praticamente indistinguibile la relazione umana e quella con l’intelligenza artificiale.
Questa prospettiva fa sognare alcuni e fa rabbrividire altri. Mi rendo conto che lo scenario è fantascientifico e che non siamo abituati ad immaginare, ma soprattutto considerare, questo come uno scenario “normale”, parte della quotidianità. Esattamente come le generazioni di avvocati prima dell’attuale non avrebbero mai creduto al fascicolo telematico, all’abbandono della carta (per non parlare della penna), alla relazione a distanza che avrebbe sostituito quella in presenza, alla pec, all’escussione dei testimoni in videoconferenza e alla pratica professionale da da remoto (come avvenuto durante la pandemia). Figuriamoci, poi, immaginare il giudice-robot e l’intelligenza artificiale emettere sentenze. Impossibile, diranno molti. Come impossibile sembrava solo pochi decenni or sono che lo studio legale sarebbe
diventato una attività imprenditoriale, cosa che oggi è oramai acclarato, salvo qualche nostalgico dei tempi che furono, che non accetta l’evidenza dei fatti. Come sempre, non prendo posizioni in merito, ogni opinione è legittima, mi limito a portare la fotografia della realtà, per aiutare ciascuno a fare i debiti conti e non rimanere in uno scenario decontestualizzato.