CLAUSOLE ABI INVALIDE, FIDEIUSSIONE E CONSERVAZIONE DEL CONTRATTO
XXXXXXXX XXX INVALIDE, FIDEIUSSIONE E CONSERVAZIONE DEL CONTRATTO
Analisi e commento della recente giurisprudenza in materia
XXXXXXXX XXX INVALIDE E FIDEIUSSIONE: LA GIURISPRUDENZA SCEGLIE LA CONSERVAZIONE DEL CONTRATTO
il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 9354 del 3 maggio 2019, ha rilevato che l’inserimento delle clausole contrattuali presenti nello schema di contratto predisposto dall’ABI nel 2003 nel contratto di fideiussione stipulato in favore di una banca - secondo un modello che la Banca d’Italia, con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, aveva ritenuto essere contrastante con il divieto di intese anticoncorrenziali - può determinare unicamente la nullità parziale della fideiussione limitatamente alle relative clausole (articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI), sempre però che il fideiussore abbia dato la prova 1) che dette intese siano confluite nel contratto in questione e 2) della lesione della sua libertà contrattuale.
L’elemento di novità e di interesse è costituito dalla circostanza che per lungo tempo sia la giurisprudenza di merito che la giurisprudenza di legittimità, avevano ritenuto viziati da nullità assoluta i contratti di fideiussione contenenti le clausole individuate al punto precedente.
In particolare, da una lato, la Cassazione aveva rilevato che non fossero esclusi dall’accertamento della nullità ai sensi dell’art. 2, comma 3 della Legge Antitrust i contratti che costituivano applicazione a valle di un’intesa anticoncorrenziale vietata ex art. 2 della stessa legge, per il solo fatto di essere stati stipulati anteriormente al riconoscimento dell’illiceità dell’intesa da parte dall’Autorità Garante; dall’altro, la giurisprudenza di merito aveva evidenziato che ciò che rileva, ai fini della dichiarazione di nullità del contratto fideiussorio, è l’illecita condotta anticoncorrenziale posta in essere dal sistema bancario, concretatasi nella predisposizione di modelli negoziali uniformi.
La nullità di cui si discute e da cui sarebbe affetto il contratto di fideiussione deriverebbe quindi dalla violazione di norma imperativa, ai sensi dell'art. 1418 comma 1 c.c. e, in particolare, della norma ritenuta di ordine pubblico economico contenuta all'art. 2, comma 2, lett. a) della Legge Antitrust.
Viceversa, la sentenza in commento sembra superare la precedente impostazione giurisprudenziale che considerava viziato da nullità assoluta il contratto di fideiussione contenente le clausole mutuate dallo schema di contratto predisposto dall’ABI nel 2003.
Infatti, da una parte, in un’ottica di conservazione del contratto, il Tribunale di Roma si è discostato da tale linea interpretativa rilevando la nullità parziale, relativa quindi esclusivamente alle clausole in parola; dall’altra parte, ha ancorato la declaratoria di nullità parziale alla prova, da parte del garante, che le intese bancarie dell’ABI siano effettivamente confluite nel contratto di fideiussione e che tali intese abbiano leso la di lui libertà contrattuale.
In verità non si tratta di novità assoluta, dal momento che un orientamento giurisprudenziale secondo cui la presenza delle clausole in parola nel contratto di garanzia darebbero luogo non tanto ad una nullità assoluta, quanto parziale, e quindi relativa esclusivamente alle clausole viziate, si era già delineato nella giurisprudenza di merito.
Ed è proprio tale orientamento che la sentenza in commento sembra aver parzialmente seguito, seppur condizionando tale vizio del contratto alla prova da parte del fideiussore che dette intese siano confluite nel contratto e che sia stata effettivamente lesa la sua libertà contrattuale.
Infatti, già il Tribunale di Forlì, nella recente sentenza n. 265 del 25 marzo 2019, ha ritenuto non ricorrere nessuna ipotesi di nullità delle fideiussioni oggetto della controversia, seppur contenenti clausole riproduttive dello schema ABI del 2003.
E ciò sulla base del seguente impianto argomentativo: vero è che l’art. 1418 comma 1 c. c. sanziona con la nullità la violazione di norme imperative, e nessuno dubita che l’art. 2 legge n. 287/90 costituisca norma imperativa;
altrettanto vero è che la regola della buona fede costituisce norma imperativa in quanto applicazione del principio di cui all’articolo 2 della Costituzione; eppure la violazione di tale precetto, pur potendo condurre alla caducazione del negozio, non ne determina la radicale nullità.
La ragione di ciò deriva dal fatto che deve distinguersi tra norme di comportamento e norme di validità del contratto: le prime non attengono alla struttura e al contenuto del negozio e perciò non incidono sulla valida genesi del titolo negoziale.
Nel caso di specie è evidente che si tratta di norme di comportamento violate, in quanto 1) le clausole di cui si tratta non presentano di per sé elementi che ne determinino la nullità, 2) dette clausole sarebbero perfettamente valide così come formulate, e 3) la loro illegittimità deriva invece da una circostanza esterna al negozio, e cioè dal fatto che esse corrispondano ad intese volte ad alterare il normale gioco della concorrenza.
Ma occorre tenere conto che il negozio concluso a valle non è un negozio diretto ad attuare tali intese.
Nel negozio a valle, infatti, di contraenti intenzionati eventualmente ad attuare l’intesa illecita ve n’é solo uno ed è la banca; la funzione del negozio che è comune ad entrambi i contraenti è quella di garantire una certa operazione; le clausole di per sé (a prescindere cioè dalle illegittime intese a monte) non violano alcun requisito strutturale o di contenuto.
Dunque non ricorrerebbero neppure le ipotesi di cui all’art. 1418 comma 2 c.c.
Il negozio a valle è lo sbocco delle intese anticoncorrenziali ma solo eventualmente per la banca, non per il cliente, ed in determinate circostanze può anche essere di pregiudizio che il motivo relativo ad una sola delle parti si rifletta in modo così radicale sul negozio concluso.
Dunque non sussistono i presupposti per dichiarare che le garanzie di cui ci si occupa siano radicalmente nulle.
D’altronde, secondo un analogo impianto argomentativo seguito dal Tribunale di Treviso, con la sentenza n. 1623 del 26/07/2018, “Un contratto che sia stato validamente perfezionato, in presenza dei requisiti strutturali di validità previsti dalla legge e che non persegua in sé una causa illecita o immeritevole per l’ordinamento giuridico, non può subire effetti invalidanti in dipendenza dell’accertamento della nullità o della caducazione di un rapporto giuridico diverso ed intercorso tra terzi, e dal quale non vi è prova sia derivato.”
Detta pronuncia quindi stabilisce che la nullità delle fideiussioni stipulate in conformità allo schema di contratto predisposto dall’ABI per violazione del divieto di intese anticoncorrenziali, come ravvisato nel parere dall’AGCM del 22 agosto 2003, non può travolgere in alcun modo i contratti di fideiussione in cui non vi sia alcun oggettivo richiamo alla deliberazione dell’associazione delle imprese bancarie di approvazione del modello standardizzato di fideiussione omnibus, né in quelli in cui non risulti che tale deliberazione abbia vincolato l’istituto di credito stipulante al rispetto dello schema ABI nella contrattazione con terzi.
Infatti, in una simile circostanza non può essere individuato nessun nesso di dipendenza delle fideiussioni con la deliberazione dell’ABI, ovvero un collegamento negoziale nel suo significato tecnico.
Del resto nella normale dinamica della contrattazione individuale tale legame non è in alcun modo riscontrabile.
Vale a dire che le intese non sembrano costituire un tutt’uno con i contratti a valle, ovverosia non sono a questi collegati né per legge né per volontà delle parti e non ne costituiscono in alcun modo un presupposto di esistenza, validità od efficacia.
Dunque, ogni caso in cui manchi un concreto nesso di dipendenza o un collegamento – da rilevarsi in concreto e nei termini sopra indicati – tra le intese ABI a monte ed il contratto di garanzia a valle, quest’ultimo – seppur contenente clausole corrispondenti a quelle dello schema predisposto dall’ABI - deve essere ritenuto esente da vizi.
Su questo nuovo filone giurisprudenziale, sempre in materia di fideiussione, si innesta anche una nuova interpretazione dell’art. 1957 comma 1 x.x. xxxxx xx xxxxxxxxxxxx xxxxxxxx xxx xxxxxxx decadenziale ivi previsto.
Questo il percorso argomentativo: la norma in esame non è posta a presidio di alcun interesse di ordine pubblico e dunque deve considerarsi materia nella piena disponibilità delle parti.
Detta norma, come noto, individua un termine di decadenza relativo all’azione spettante al creditore che può essere validamente derogato dalle parti determinando unicamente l’assunzione volontaria, da parte del garante, del maggior rischio consistente nella persistenza, per un lasso temporale più lungo, della propria corresponsabilità patrimoniale.
Nel quadro dato è quindi evidente che la deroga in parola, pattiziamente convenuta dalle parti, non possa e non debba essere necessariamente ricollegata alla deroga che della disposizione è stata “concordata” dall’ABI.
Tanto considerato, alla luce delle argomentazioni sin qui svolte, per poter eccepire un vizio del contratto di garanzia contenente una clausola che deroghi all’art. 1957 comma 1, c.c. sarà quindi necessario che vi sia – come già rappresentato
– un concreto e provato nesso di dipendenza funzionale tra il contratto stesso e le intese ABI.
Avv. Xxxxxxxxx Xxxxxx