LE REGOLE DEL CONTRATTO
LE REGOLE DEL CONTRATTO
FORME E LIMITI DELL’ATTIVITÀ NEGOZIALE NELLA ROMA ANTICA
1. Premessa 2. L’origine delle obbligazioni 3. La summa divisio
gaiana e le obbligazioni verbis contractae 4. La stipulatio 5.
Stipulari alteri nemo potest: la regola e le eccezioni 6.
Conclusioni.
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1. Premessa
Come è noto, l’esperienza giuridica romana è stata la prima ad avere elaborato una nozione tecnica di “contratto” e a formulare con riguardo ad esso regole che sarebbero, poi, entrate nella tradizione giuridica europea; la moderna disciplina delle regole generali relative alla formazione del contratto, infatti, trova la propria origine proprio nella disciplina delle obbligazioni e del contratto così come ricostruita dalle fonti romane. Questa affermazione, che potrebbe in verità risultare sin troppo semplicistica e generale, in realtà, trova la propria giustificazione nel percorso di ricezione e conseguente adattamento che tali fonti hanno subito nel corso dell’evoluzione dei diversi sistemi giuridici europei fin dal XII secolo.
Con il presente contributo, per quanto possibile e nei limiti di quanto possa rientrare nell’interesse di un pubblico preparato ed appassionato piuttosto a temi e questioni storico-archeologiche che al diritto in quanto tale, si proverà a rendere conto di tale evoluzione e scoprire quali spunti il diritto romano dei contratti ha lasciato noi in eredità sino ad oggi. Per affrontare correttamente le questioni che ci si accinge qui ad analizzare e per non stravolgerne il senso, occorre preliminarmente precisare alcuni punti.
Innanzitutto, in diritto romano, a differenza di quanto è riscontrabile oggi nelle moderne sistematiche del diritto, non esistette mai una “teoria generale del contratto” propriamente intesa; in quanto restii ad affrontare un qualsiasi tipo
di schematizzazione astraendo dai diversi istituti giuridici, i Romani preferirono piuttosto un approccio concreto per casi e una valorizzazione del diritto privato dal punto di vista degli strumenti giudiziari idonei a farlo valere. Le regole e la casistica che noi riscontriamo nelle fonti, quindi, trovano sempre il loro punto di partenza in una diatriba ovvero in un caso concreto. È nel momento in cui regole consolidate a fondamento di una particolare disciplina non trovano più corrispondenza nelle esigenze della vita comune che comincia quello che si può tranquillamente definire come “processo creativo”: nuove soluzioni vengono individuate a tutela di problemi nuovi, ma generalmente avvertiti, ad opera dell’elaborazione scientifica degli esperti di diritto. Questo tipo di approccio ha evidentemente delle ripercussioni sulla cd. sistematica della materia contrattuale, non esistendone di fatto una; nemmeno l’uso del termine “contractus” ovvero anche solo del termine “obligatio”, che del contratto rappresenta la categoria generale, trova spazio in alcuna delle opere giuridiche ovvero delle raccolte di norme a noi note. Non vi è infatti riferimento a tali figure né nelle XII Tavole (ove trovano spazio unicamente alcune regole in materia di sponsio e di nexum, i quali invero rappresentano gli antecedenti storici dell’obbligazione romana) né in altre opere fondamentali del diritto romano, quali ad esempio i libri tres iuris civilis di Sabino ed i libri 18 di Xxxxxx Xxxxx: infatti tali opere riportano solo una trattazione della stipulatio sotto la rubrica de verborum obligatione. È solo nelle Istituzioni di Xxxx, redatte dall’insigne giurista all’incirca tra la fine del regno di Xxxxxxxx Xxx (138-161) e il 180 d.C., unica opera pervenutaci quasi integralmente dall’epoca classica, conservata in un palinsesto custodito nella biblioteca capitolare di Verona, che troviamo la più concreta sistemazione della materia contrattuale, conforme alla natura manualistica dell’opera; Gaio è il primo giurista ad attestare la principale classificazione delle fonti dell’obbligazione, incentrata sul binomio contratto - delitto. Sarà, invece, attestata solo nelle successive Res cottidianae la più celebre tripartizione delle fonti dell’obbligazione (contratto, delitto e le cd. variae causarum figurae): tale tripartizione è presente anche nel Digesto al frammento D. 44. 7. 1 pr, così come tratta dalle Res cottidianae, e avrà tale fortuna da essere, poi, ripresa dallo stesso codice civile italiano del 1942.
Chiarito questo punto preliminare, è possibile procedere all’analisi delle regole generali del contratto romano, partendo dalla nozione e dall’origine dell’obligatio e della più importante e diffusa tra le obbligazioni romane, vale a dire la stipulatio. Testi utili alla ricostruzione di tali istituti sono, evidentemente, accanto alle Istituzioni Gaiane, i passi contenuti nel Digesto, le Costituzioni raccolte nel Codex e nelle Novellae Constitutiones di Giustiniano, nonché le stesse Istituzioni giustinianee, raccolti tutti nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Inoltre, proprio perché il diritto in generale è materia che più di altre attiene alla vita pratica, molti spunti e scoperte interessanti in relazione alla vita contrattuale nell’Antica Roma ci arrivano tanto dalla letteratura latina quanto da documenti della prassi negoziale privata, ritrovati per via archeologica: contratti rinvenuti su tavolette, scritti su pietra, coinvolgimenti personali raccontati in forma di narrazione sono stati importanti per la ricostruzione di alcuni elementi della disciplina del contratto antico come noi lo conosciamo.
2. L’origine delle obbligazioni
L’obligatio era - ma la definizione è tranquillamente valida anche per l’obbligazione moderna - quel rapporto in forza del quale un soggetto, detto debitore, era tenuto nei confronti di un altro soggetto, detto creditore, al compimento di una determinata prestazione. Nell’ipotesi in cui il debitore avesse omesso di compiere la propria prestazione, questi avrebbe risposto, tradizionalmente, o con il suo corpo1 o con il suo patrimonio. Gli elementi essenziali del rapporto obbligatorio erano dunque due: l’obbligo alla prestazione dovuta dal debitore al creditore e la responsabilità del debitore stesso nei confronti del creditore in caso d’inadempimento. L’obligatio di epoca classica, e già in epoca tardo repubblicana, corrisponde nelle sue linee
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□ L’obligatio in origine era idonea a creare un vincolo di tipo personale, in virtù del quale
in caso d’inadempimento il debitore avrebbe risposto con il suo stesso corpo. Esemplificativo di tale condizione era il nexum, il quale sarebbe stato abolito solo con la Lex Poetelia Papiria del
325 a.C., a partire dalla quale la responsabilità divenne di tipo patrimoniale, rimanendo il debitore obbligato solo con i suoi beni.
essenziali a tale definizione astratta, ed è il presupposto concettuale di quello che definiremo poi “contratto” nelle sue linee essenziali; diversa, invece, si ritiene fosse l’obbligazione primitiva.
Il regime arcaico delle forme primitive di obligatio era contenuto nelle XII Tavole e contemplava la possibilità che l’obbligazione avesse origine da fatto lecito e da fatto illecito. Nelle fonti troviamo numerosi esempi dell’uno e dell’altro fatto generatore di obbligazione, ma per l’analisi che qui ci occupa senza dubbio maggiore rilievo assumono le obbligazioni originate da fatto lecito. Strettamente collegato a tali obbligazioni era il problema economico relativo al credito; a ben vedere, in una società in cui i principali rapporti attengono alle dinamiche interne della familia, era difficile individuare uno spazio residuo per le relazioni extrafamiliari. Questo non significa però che a Roma, almeno a partire dalla fase etrusco latina della civitas quiritaria, non esistesse una forma minima di scambi di merci e di prestazioni artigianali: tale economia di scambi interessava però la sola parte della pecunia destinata all’uso extrafamiliare e quindi si esauriva, in sostanza, nel baratto di cose. È, quindi, evidente come non ci fosse alcun bisogno di ricorrere alla tecnica del credito, chiedendo liquidità2 in prestito con l’obbligo di restituzione, ratio fondamentale dell’”obbligarsi” anche oggigiorno. La situazione mutò tra la fine del VI secolo a.C. e l’inizio del V secolo a.C., quando una grave crisi economica investì Roma; la domanda di risorse a titolo di credito crebbe notevolmente, soprattutto con riguardo a larga parte di quella classe plebea che dalla crisi era uscita particolarmente afflitta, domanda che si scontrò con una certa diffidenza da parte di coloro che avevano conservato la propria disponibilità economica a concedere il credito senza adeguate garanzie. La soluzione che si profilò come la più adatta fu quella del nexum, che oggi si ritiene la più risalente forma di obligatio. Tale istituto altro non era che un adattamento della più antica figura
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□ Con il termine liquidità non si fa qui riferimento all’uso vero e proprio di una moneta
tecnicamente intesa, essendo stato attestato sino al III secolo a. C. l’uso dell’Aes rude e dell’Aes signatum, che non portando l’indicazione del valore e dell’autorità emettente non possono considerarsi monete o denaro modernamente intesi.
del mancipium, in forza della quale al paterfamilias competevano le più ampie facoltà dispositive su tutti i membri del nucleo familiare; non si trattava, in effetti, di una mera disponibilità sulle cose inanimate o sugli animali, ma di una vera e propria autorità alla quale erano inderogabilmente subordinati i filii, i nepotes, le mogli e ogni altro uomo libero o cittadino che ne risultasse altrimenti sottoposto.
Del nexum non abbiamo molte notizie certe; una norma delle XII tavole la ricorda congiuntamente alla mancipatio:
Tb, 6.1: Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto3.
Come per la mancipatio, anche riguardo al nexum le dichiarazioni rese apertamente (di fronte, cioè, a testimoni, come indica l’uso del verbo nuncupare4) avevano pieno valore. Nulla dice la norma sul contenuto effettivo di tale nexum; a grandi linee si può affermare che a differenza della mancipatio, che aveva effetti reali, il nexum aveva, invece, effetti obbligatori. La natura del vincolo posto in essere era di carattere personale e comportava, quindi, la soggezione fisica del debitore. Nel periodo di crisi a cavallo tra il VI e il V secolo a.C. molto probabilmente la gran parte della plebe romana che fino a quel momento era vissuta di attività artigiana e che, a differenza dei ricchi patrizi e di un numero esiguo di plebei, aveva risentito in misura maggiore del mutamento del contesto economico, cominciò a praticare la via dell’auto asservimento. In sostanza, accadeva ciò: il debitore mancipava (ovvero assoggettava) se stesso, mediante una nexi datio, divenendo oggetto del mancipium (dominio) del creditore e assumendo quindi lo status di nexus. Tale status di regola durava sino a quando un terzo non si fosse presentato a
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□ «Quando si compia un nexum e una mancipatio , gli effetti siano quelli che risultano
dalle parole pronunciate».
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□ Si veda a tal proposito Xxxx, 2, 104, nuncupare est enim palam nominare.
riscattarlo oppure lo stesso nexus, mediante il proprio lavoro, non giungesse ad ottenere a titolo di compenso la propria liberazione, che consisteva in uno scioglimento dei suoi vincoli mediante la cd. solutio per aes et libram5. Trattandosi di un prestito a cui ricorrevano i non abbienti, era molto probabile l’inadempimento; per tale ragione molto spesso si rendeva necessario agire in via esecutiva contro il debitore, con l’esperimento della legis actio per manus iniectionem che aveva due possibili esiti, entrambi fatali al debitore: o la sua uccisione o la vendita al di fuori dei confini della città. Dalle fonti, però, emerge un dato interessante: i nexi, in realtà, vivevano in una condizione di sottomissione ai creditori all’interno della città e non al di fuori delle sue mura6. Tale circostanza rende plausibile l’ipotesi che tra creditore e debitore fosse concluso un patto, legittimato dalla norma delle XII tavole sopra riportata, che permettesse al creditore di tenere il debitore, o un membro della sua famiglia, presso di sé in condizione servile, evitando in questo modo l’uccisione o la vendita del debitore stesso. Da tale circostanza discendeva, probabilmente, il nome nexus, legato, appunto, che rimanda alla condizione effettiva di “legati” a cui erano sottoposti i servi. Questo status di cose perdurò sino a quando la Lex Poetelia Papiria de nexis nel 326 a.C. non abolì la responsabilità di tipo personale7, sostituendola con la responsabilità di tipo pecuniario; lo stesso nexum lasciò, poi, spazio al mutuo vero e proprio, in virtù del quale solo la
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□ La formula classica della solutio per aes et libram è contenuta in Gaio, 3, 174: Quod
ego tibi tot milibus eo nomine…solvo liberoque hoc aere aeneaque libra hanc tibi libram primam postremamque secundum legem publicam.
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□ Sulla condizione dei nexi e sul nexum si veda in particolar modo Livio, Ab Urbe
condita, 2, 23-32; 6, 11, 18, 8.9; 15, 9; 20, 6; 27; 31, 4; 32, 1; 36, 12.
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□ O quanto meno non iniziò quel processo che condusse alla sua scomparsa, essendoci
fonti che attestano il perdurare dell’esecuzione personale anche dopo la lex Xxxxxxxx Xxxxxxx. Si veda Gellio, Noctes Atticae, 11, 18, 18; 20, 1, 51 e LENEL, EP 401.
consegna delle cose era necessaria affinché sorgesse l’obbligo di restituzione8.
Senza dubbio, però, il più importante tra gli istituti ascrivibili alle origini dell’obbligazione romana da atto lecito è la sponsio: c’è chi sostiene che tale figura fosse addirittura risalente rispetto al nexum, poiché non presupporrebbe un’economia già a conoscenza della moneta, quanto meno nella forma dell’aes rude. Ciò che è certo è che anch’essa, in origine, rappresentava una forma di garanzia per fatto altrui che vincolava il soggetto come garante per il fatto di un terzo o un avvenimento oggettivo mediante un giuramento. Lo sponsor poteva promettere sia un comportamento proprio sia un comportamento altrui; così sembra indicare l’uso in forma passiva del verbo spondere conservato nei modelli di sponsio tramandati dalle fonti: Spondes mihi DARI centum? – Prometti che mi SIA DATO cento? Si trattava dunque di una forma di tipo alternativo e non secondario: il creditore poteva rivolgersi alternativamente ed indifferentemente contro lo sponsor o contro il reale debitore per l’adempimento della prestazione a lui dovuta.
In seguito, la forma verbis tipica della sponsio sarebbe stata utilizzata per indicare direttamente il vincolo contrattuale del debitore; così, mentre sponsor avrebbe continuato a designare il garante, spondere e sponsio avrebbero, invece, indicato il vincolo del debitore in generale. Dal punto di vista strutturale, la sponsio consisteva, quindi, in una solenne interrogazione verbale, seguita da una risposta parimenti solenne e verbale, secondo lo schema: spondes? Spondeo. L’atto, quindi, consisteva in un’offerta seguita da accettazione e, in quanto tale, era riconosciuto dal ius civile e accessibile, evidentemente, solo ai cives. In particolare era necessario l’utilizzo della parola sacramentale spondere, che, probabilmente, era ritenuta avere un valore magico, al fine di non estenderne l’utilizzo ai peregrini, per i quali verrà,
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□ È doveroso qui ricordare tra gli istituti alle origini dell’obligatio anche la vadiatura e la
praediatura; di essi non sono pervenute a noi ricche testimonianze, rendendone di fatto difficile il corretto inquadramento giuridico. Basti ricordare che, esattamente come la sponsio di cui di seguito, lo scopo principale a cui erano preposti era quello di fornire una garanzia per il fatto altrui, secondo lo schema usuale della corresponsione tra quaestio e responsio.
invece, in séguito, concepita una forma peculiare di sponsio, priva del suo elemento rituale, ovvero la stipulatio. Da tale scambio di domanda e risposta nascevano un debito e un credito e di conseguenza il promittente era tenuto ad una prestazione futura. La portata della sponsio era molto ampia: poteva essere utilizzata per promesse di dare, di fare, di non fare. Le fonti ne attestano l’utilizzo anche al di fuori di rapporti meramente patrimoniali, come strumento finalizzato alla promessa in sposa della figlia (sponsalia), ovvero nell’ambito del diritto pubblico: l’iter d’approvazione dell’antica lex comiziale era riconducibile, in sostanza, allo schema della sponsio9. Si attesta l’utilizzo della struttura sponsale anche nei rapporti internazionali, in particolare nella conclusione dei trattati di pace: era questo l’unico caso uno straniero si poteva obbligare mediante la sponsio10.
3. La summa divisio gaiana e le obbligazioni verbis contractae
L’obbligazione classica si sviluppa proprio a partire dalle arcaiche forme di obligatio a cui si è fatto ora riferimento; per procedere ad un’analisi più approfondita della stessa si può partire dalla classificazione degli atti o fatti da cui le obbligazioni hanno origine, ad opera del giurista Xxxx nelle sue Istituzioni:
Gaio, 3, 88: Quarum summa divisio in duas species dicitur: omnis enim obligatio vel ex contractu nascitur vel ex delicto.
Ogni obbligazione nasceva, quindi, o da contratto o da delitto; è una
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□ Sono i giuristi classici a definire la lex come «communis reipublicae sponsio». Si veda
Papiniano, libro 1 definitionum, D. 1, 3, 1. In questo caso il magistrato interrogava il populus
(velitis iubeas Quirites, vos rogo Quirites) e questi rispondeva uti rogas.
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□ Si veda Gaio 3, 94: Unde dicitur uno casu hoc verbo peregrinum quoque obligari
posse, velut si Imperator noster Principem alicuius peregrini populi de pace ita interroget: pacem futuram spondes? vel ipse eodem modo interrogetur.
bipartizione, questa, a cui si fa riferimento svariate volte in alcuni passi del Digesto11, ma che lo stesso Xxxx sembra non ritenere del tutto soddisfacente, riconoscendo lo stesso giurista che vi sono delle obbligazioni che non nascono ex contractu, quale ad esempio la solutio indebiti, vale a dire il pagamento dell’indebito che obbliga l’accipiente alla restituzione di quanto percepito. Secondo Xxxx in questo caso non si sarebbe in presenza di un’obbligazione nascente da contratto in quanto la volontà delle parti non è rivolta all’assunzione di un vincolo obbligatorio, ma piuttosto alla sua estinzione12. Tale critica trova coerente sviluppo in un passo delle Res cottidianae in cui Xxxx introduce una nuova classificazione, incentrata su una tripartizione delle fonti dell’obbligazione:
Xxxx, 2 Aureorum libri, D. 44, 7, 1 pr: Obligationes aut ex contracu nascantur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuriis.
Anche in questa seconda ripartizione, il nucleo fondamentale rimane invariato: le principali fonti dell’obbligazione restavano i contratti e i delitti, ai quali si aggiungeva la categoria residuale delle variae causarum figurae, nella quale erano ricomprese tutte le figure obbligatorie non altrimenti riconducibili ai contratti o ai delitti13.
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□ Si vedano Xxxxxxx, 41 ad Xxxxxxx, D. 5, 1, 57; Xxxxx, 20 ad edictum, D. 5, 3, 14;
Xxxxxxx, 29 ad edictum, D. 14, 5, 4, 2; Xxxxxxx, 29 ad edictum, D. 15, 1, 9, 6; Xxxxxxx, 7
disputationum, D. 44, 7, 14.
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□ Sul punto si veda Gaio 3.91: …Sed haec species obligationis non videtur ex contractu
consistere, quia qui solvendi animo dat, magis distrahere vult negotium quam contrahere.
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□ Le fonti riportano inoltre un’ulteriore
classificazione attribuita a Xxxxxxxxx, che taluni ritengono di dubbia genuinità, che per dovere di completezza pare giusto ricordare: Xxxxxxxxx, 2 regularum, D. 44, 7, 52, pr.: Obligamur aut re, aut verbis, aut simul utroque; aut consensu, aut Xxxx, aut Iure honorario, aut necessitate, aut ex peccato.
Tra le obbligazioni che nascono da contratto, Xxxx distingue in particolar modo quattro genera:
Gaio, 3.89: (…) Harum autem quattuor genera sunt: aut enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu.
Tra queste quattro categorie di obbligazioni da contratto, per il tema che qui ci occupa sono interessanti in particolare le obbligazioni cd. verbis contractae, di cui Xxxx dà la seguente definizione:
Xxxx, 3.92: Verbis obligatio fit ex interrogatione et responsione, velut: DARI SPONDES? SPONDEO; DABIS? DABO; PROMITTIS? PROMITTO; FIDEPROMITTIS? FIDEPROMITTO; FIDEIUBES? FIDEIUBEO; FACIAS? FACIAM.
Sono quindi obligationes verbis contractae quelle la cui struttura consiste in un’interrogazione, con conseguente risposta, verbalmente espressa, sullo schema della già ricordata sponsio. L’elemento fondamentale di tali obbligazioni sono i certa verba, vale a dire quelle parole solenni stabilite che, se ritualmente pronunciate, avrebbero determinato il sorgere, il contenuto e l’esigibilità dell’obbligazione stessa: avevano un valore, quindi, di tipo costitutivo e l’obligatio non necessitava per essere valida ed efficace di elementi ulteriori (la documentazione scritta o la presenza di testimoni, che pure era eventualmente ammessa se ritenuta opportuna, avevano valore esclusivamente probatorio). L’oralità costituiva, quindi, l’essenza dell’atto, ragion per cui entrambe le parti dovevano essere in grado di parlare ed intendersi reciprocamente; essendo la dichiarazione orale il fondamento dell’atto, gesti o scritti non furono ammessi come sostitutivi e, per esempio, muti e sordi non potevano validamente stipulare un’obligatio verbis contracta. Un altro elemento importante connesso all’oralità nelle obbligazioni verbali era la necessità della presenza simultanea delle parti e la cd. unitas actus. Le fonti riportano come un’obbligazione verbale non potesse esistere tra assenti e come fosse necessario che la domanda e la risposta fossero temporalmente concomitanti. Ultima caratteristica rilevante delle obbligazioni verbali era la corrispondenza tra quanto chiesto e quanto risposto, tra interrogatio e
responsio. Alle origini, si osservava un formalismo più rigido e una necessità più pregnante di corrispondenza, mentre in epoca più tarda il rigore va attenuandosi, quando si comincerà a guardare più alla sostanza che alla forma dell’atto, e l’obbligazione – stipulazione per la gran parte – sarà considerata valida anche senza tale necessaria corrispondenza. Questo è lo schema tipico e più risalente, che caratterizza tutte le forme a noi note di obbligazioni verbis contractae: fu solo in un periodo successivo che su tale schema s’inserì l’elemento dell’accordo o consenso, che, se è assente, avrebbe determinato la nullità dell’obbligazione.
4. La stipulatio
La figura più importante di obbligazione verbale fu senza dubbio la stipulatio: è stata definita come “una delle più riuscite creazioni del genio giuridico romano” e mostra, seguendo le parole di Xxxxx Xxxxxx “la vera predilezione romana per l’accuratezza, la brevità e la semplicità”. Un passo delle Notti Attiche di Xxxx Xxxxxx, relativo all’arte dialettica, aiuta a rendere quest’idea:
Xxxx Xxxxxx, Noctes Atticae, 16, 2: Legem esse aiunt disciplinae dialecticae, si quapiam re quaeretur disputeturque atque ibi quid rogere ut respondeas, tum ne amplius quid dicas quam id solum quod es rogatus aut aias aut neges; eamque legem qui non servent, (…) existumantur indoctique esse disputandique morem atque rationem non tenere (…) Indefinitus namque inexplicabilisque sermo fiat, nisi interrogationibus responsionibusque simplicibus fuerit determinatus.
Così come la concordanza, in una disputa, tra quanto domandato e quanto risposto era considerata lex della disciplina dialettica - e quindi non solo un’usanza, ma un vero e proprio principio cogente -, tanto più per un’obbligazione verbis contracta come la stipulatio tale congruenza era fondamentale, per definire chiaramente i limiti entro i quali le parti si volevano obbligare. In effetti, è proprio la stipulatio l’istituto che meglio costituisce il paradigma per la dottrina generale del contratto e delle obbligazioni; proprio dall’analisi di questa figura, per via induttiva - quando la scarsità delle fonti altro non ha permesso - molto spesso si sono ricostruite le caratteristiche
generali dell’obligatio e del contractus stesso.
In linea generale, la stipulatio era un contratto formale, realizzato oralmente, con cui una parte, detta promittente, si obbligava nei confronti di un’altra parte, detta stipulante, al compimento di una certa prestazione. Il negozio rientra quindi nel concetto tradizionale di obbligazione, in particolare quelle verbis contractae. Il prototipo della stipulatio fu la già ricordata sponsio, anche se se non è chiaro quale fosse l’esatto rapporto tra le due; originariamente, e lo si è detto in precedenza, stante l’inutilizzabilità della sponsio da parte dei peregrini, la stipulatio, atto proprio quindi dello ius gentium, fu creata appunto su modello della sponsio stessa per permettere anche a chi non fosse cittadino di contrarre validamente un’obbligazione. Successivamente, però, nel corso della sua evoluzione, la stipulatio si discosterà di molto dal suo antecedente più accreditato, sino a presentare caratteristiche peculiari proprie14. È bene notare, comunque, che le differenze che intercorrono tra i due negozi sono di tipo formale, non strutturale, legate all’origine in due contesti di ius differenti: mentre la sponsio, almeno alla sua origine, era atto religioso, la stipulatio era atto esclusivamente civile. Allo stesso modo, mentre la sponsio era atto rigidamente formale, seppur orale, la stipulatio, mantenendo l’oralità, era un negozio più libero, nel senso che per contrarre una stipulazione era possibile utilizzare qualunque parola avente carattere impegnativo.
Una definizione compiuta di stipulatio la possiamo trovare nel Digesto:
Xxxxxxxx, 26 ad Sabinum, D. 45, 1, 5, 1: Stipulatio (…) est verborum conceptio, quibus is qui interrogatur, daturum facturumque se quod interrogatus est, responderit.
La stipulatio era quindi definita come una conceptio verborum; letteralmente,
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□ Per chiarire meglio i rapporti tra i due istituti si veda Gaio 3.93 Sed haec quidem
verborum obligatio: DARI SPONDES? SPONDEO, propria civium Romanorum est: ceterae vero iuris gentium sunt, itaque inter omnes nomine, sive cives Romanos, sive peregrinos valent; et quamvis ad Graecam vocem expressae fuerint (…).
un “concepimento di parole”. Al di là della colorita traduzione letterale, l’immagine evocata dal termine conceptio aiuta a capire in cosa consistesse esattamente la stipulatio: in un istituto intimamente connesso con le parole che la originavano. Più che nelle altre obbligazioni letterali, qui le parole avevano un profondo valore costitutivo, in virtù del quale la stipulatio nasceva come immediatamente provvista di contenuto. Solo nel momento in cui all’interrogatio corrispondeva la responsio, infatti, la stipulatio si poteva dire conclusa: l’efficacia e la validità del negozio dipendeva, quindi, direttamente dai verba. Essendo un’obbligazione verbale, la prima delle caratteristiche strutturali era l’oralità, dalla quale derivavano alcune peculiarità proprie della sua struttura e della sua disciplina.
Si è già visto in relazione alla sponsio come per la validità del negozio fosse necessaria la corrispondenza tra domanda e risposta, che non doveva sussistere solo a livello contenutistico, ma anche e soprattutto a livello formale: a domanda specifica corrispondeva una risposta specifica. Per quanto riguarda la stipulatio, invece, almeno a partire all’età imperiale potevano essere utilizzate espressioni non formalmente corrispondenti, quindi verbi diversi per l’interrogatio e la responsio, ovvero la domanda e la risposta potevano essere pronunciate in lingue differenti dal latino, ferma restando la loro validità esclusivamente nell’ambito dello ius gentium15.
Analogamente a qualunque altra obbligazione verbis contracta, il requisito dell’oralità rendeva impossibile per alcuni soggetti contrarre una stipulazione, poiché incapaci16: come abbiamo già accennato sopra, non erano infatti
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□ Sul punto si veda Ulpiano, 48 ad edictum, D. 45, 1, 1, 6. Eadem an alia lingua
respondeatur, nihil interest. Proinde si quis Latine interrogaverit, respondeatur ei Graece: dummodo congruenter respondeatur: obligatio constituta est. Idem par contrarium. Sed utrum hoc usque ad Graecum sermonem tantum protrahimus: an vero et ad alium. Poenum forte, vel Assyrium, vel cuius alterius linguae, dubitari potest? Et scriptura Xxxxxx, sed et verum patitur, ut omnis sermo contineat verborum obligationem: ita tamen ut uterque alterius linguam intelligat, sive per se sive per verum interpretem. Si noti, inoltre come, conformemente all’ultimo paragrafo del passo fosse ammesso l’uso dell’interprete, anche se ovviamente con funzione di supporto, non rilevando altrimenti la sua presenza nemmeno a fini probatori.
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□ Si veda Ulpiano, 48 ad edictum, D. 45, 1, 1 pr. e Gaio, 3, 105.
legittimati i sordi, i muti, gli infanti e gli assenti, anche se, nella prassi si ovviava a tali inconvenienti facendo intervenire uno schiavo dell’incapace, che assumeva per il dominus diritti e doveri. Il pazzo, infine, non poteva partecipare ad alcun negozio, quindi nemmeno alla stipulatio, poiché non intellegit quid agat17, mentre il pupillo e la donna sotto tutela potevano eventualmente farsi assistere dal tutore18.
5. Stipulari alteri nemo potest: la regola e le eccezioni
Dalla struttura stessa della stipulatio come concatenazione tra interrogatio e responsio di due soggetti, lo stipulator e il promissor, discendeva la necessità e l’obbligatorietà della presenza di sole due parti per la conclusione del contratto; non vi era, quindi, spazio, per un terzo soggetto, per il quale non si può stipulare né a favore né contro.
È il Digesto a riportare la regola alteri stipulari nemo potest, secondo cui nessuno può farsi promettere in favore di altri: all’inosservanza del principio corrispondeva la nullità della stipulazione. Tale nullità nei confronti di soggetti terzi rappresenta null’altro che un corollario del più generale principio di diritto romano che esclude la possibilità di acquisire un diritto per opera di persone estranee (o liberae, secondo la dicitura giustinianea) alla famiglia19. Mentre per quanto riguarda le stipulationes a carico di un soggetto diverso dal promittente la ragione della nullità era abbastanza evidente, nel senso che era assurdo che una persona estranea alla contrattazione fosse gravata di un debito che non avesse accettato, per quanto invece riguarda le stipulazioni in favore la ragione
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□ Si veda Gaio, 3, 106.
18
□ Si veda Gaio, 3, 107 e 3, 108.
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□ Sul punto si veda Gaio, 2, 95: (…) et hoc est, quod dicitur, per extraneam personam
nihil adquiri posse (…). Cfr. anche I. 2, 9, 5 e Xxxx. Sent. 5, 2, 2.
della nullità pare meno evidente, poiché l’effetto complessivo di questo accordo era in generale favorevole e vantaggioso per il terzo. In realtà, però, poteva anche non essere così: proprio la circostanza che, effettivamente, il vantaggio che si voleva accordare al terzo poteva anche non essere da lui ben accetto, fece prevalere su ogni altra considerazione la circostanza che il terzo non avesse fatto la relativa richiesta. Per questo motivo tale nullità, originariamente circoscritta alla sola stipulatio, divenne regola valida per tutti le convenzioni stipulate a vantaggio di estranei20. In realtà le fonti dimostrano come tale regola non fosse accettata senza obiezioni: al contrario, la prassi fu proprio quella di cercare delle eccezioni alla regola generale, allo scopo di rendere ammissibili dei negozi che nella vita economica romana avevano assunto un’importanza per nulla irrilevante. Per quanto infatti tale regola generale non sia mai stata abbandonata, vennero ideati degli espedienti che, pur mantenendo formalmente salda la regola, permisero di ottenere la validità di negozi che di fatto quella regola eludevano; la giurisprudenza classica, e ancor più quella tardo antica, non mancarono di avvalorare tali espedienti, qualora risultassero evidenti l’interesse e il consenso del terzo al negozio.
Il principio della nullità dei contratti in favore di terzo trova ampio spazio nelle fonti; nel Digesto, in particolare, si trova il principio così come enunciato da Ulpiano, nella sua formulazione più tradizionale e nota:
Xxxxxxx, 49 ad Sabinum, D. 45, 1, 38, 17: Alteri stipulari nemo potest, praeterquam si servus domino, filius patri stipuletur; inventae sunt enim huiusmodi obligationes ad hoc, ut unusquisque sibi adquirat quod sua interest caeterum, ut alii detur, nihil interest mea. (…)21.
20
□ Le fonti ricordano il principio di nullità non solo con riferimento alla stipulatio, ma
anche in generale al contrahere , al gerere, al legem dicere, al pacisci. Si veda a tal proposito Xxxxx, 12 ad Xxxxxxx, D. 44, 7, 11; Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxx, libro singulari Όρων, D. 50, 17, 73,
4.
21
Questo passo contiene il principio generale di nullità così come a noi noto e parla espressamente di nullità del contratto verbale22: è proprio della stipulatio che si dichiara la nullità, parlando specificamente di huiusmodi obligationes, di obbligazioni, cioè, “di tal genere”, poste in essere allo scopo di acquisire per sé ciò che interessava allo stipulante.
Le ragioni del divieto di stipulare in favore di terzi sono state individuate principalmente nella struttura della stipulatio; era inconcepibile, infatti, separare i contraenti da coloro che avevano pronunciato i verba, ragion per cui la formula produceva i suoi effetti in capo a coloro che la declamavano. Non vi era in sostanza spazio per una qualche connessione con un terzo estraneo al rito formale. Di più: la formula stessa prevedeva, nella domanda, la presenza della parola “mihi “ con riferimento al soggetto che in quel momento poneva la domanda, e non la parola “Titio “, come riferimento ad un ipotetico terzo.
La dottrina più recente propone una diversa teoria sull’origine del divieto, che sarebbe stata di natura processuale. Effettivamente, la regola dell’alteri stupulari nemo potest poteva essere applicata anche a contratti e ad atti assolutamente informali, quale ad esempio il constitutum debiti23, ragion per
□ Un ulteriore riscontro lo si può avere nelle Istituzioni Gaiane; cfr. Gaio, 3, 103: Praeterea inutilis est stipulatio, si ei dari stipulemur, cuius iuri subiecti non sumus. Unde llud quaesitum est, si quis sibi et ei cuius iuri sbiectus non est dari stipuletur, in quantum valeat stipulatio. Nostri praeceptores putant in universum valere et proinde ei soli qui stipulatus sit solidum deberi, atque si extranei nomen non adiecisset. Sed diversae scholae autore dimidium ei deberi existimant, pro altera vero parte inutilem esse stipulationem. Sul punto si veda anche
I. 3, 19, 4 e I. 3, 19, 19. Ancora nel Digesto: Xxxxx, 3 quaestionum, D. 45, 1, 126, 2: (…) sed quod libertus patrono dari stipulatus est, inutile est, ut nec ad solutionem proficiat adiectio absentis, cui principaliter obligatio quaerebatur.
22
□ Parimenti si riferiscono alle sole obligationes verbis contractae le decisioni riportate in
Xxxxxxxx, 4 ad Xxxxxxx Xxxxxx, X. 00, 0, 000 xx e in Ulpiano, 26 ad edictum, D. 12, 1, 9, 4.
23
□ Il constitum debiti era un patto con il quale due o più parti regolavano l’adempimento
di un’obligatio in denaro sorta tra di esse o tra di esse e un terzo (il cd. alius); le parti potevano concordare un termine futuro di pagamento (il cd. constitutum debiti proprii) o stabilire che, in caso d’inadempimento del terzo una delle parti avrebbe pagato all’altra il credito da lui vantato verso il terzo stesso (il cd. constitutum debiti alieni). Era, quindi, un patto del tutto privo di particolari formalità; le parti potevano deciderne il contenuto e le modalità di stipulazione.
cui non avrebbe senso ricondurre tale divieto ad una questione puramente formale, poiché anche istituti liberi in relazione alle espressioni da utilizzare e privi di ogni formalismo sarebbero stati sottoposti al divieto. L’origine andrebbe quindi ricondotta alle peculiarità della disciplina processuale nel diritto romano: l’azione che nasceva dalla stipulatio era un’actio certi il cui presupposto era il mancato trasferimento del certum oggetto della stipulazione, non trasferibile al terzo. Evidentemente, nel momento in cui una promessa di alteri certum dari fosse stata posta in essere, non ci sarebbe stata nessuna azione esperibile per far valere la pretesa del terzo.
Entrambi gli orientamenti in linea di massima paiono fondati e possono tranquillamente convivere. A ben vedere, infatti, il problema e la questione della tutela processuale della stipulatio era fondamentalmente collegata alla forma e alla struttura della stipulatio stessa. Se la stipulazione acquistava valore nel momento in cui venivano pronunciati i verba, non era concepibile che in tale struttura chiusa e rigida ci fosse spazio per concedere un’azione ad un terzo che non partecipasse al momento costitutivo.
Per quanto riguarda gli effetti che derivavano da tale nullità, il primo aspetto da considerare riguardava la portata: si trattava di una nullità assoluta o di una nullità relativa? Ad essere nulla era solo la stipulazione contratta verso il terzo o anche il rapporto tra lo stipulante e il promettente era travolto da tale nullità? Le fonti e la letteratura sono piuttosto discordanti in proposito, anche se, molto probabilmente, tale discordanza è strettamente collegata con il rimaneggiamento subito dalle fonti stesse ad opera dei compilatori giustinianei. Normalmente si ritiene che in diritto classico la nullità fosse concepita come assoluta, riferendosi quindi a qualsiasi effetto derivante dal contratto, sia tra le parti contraenti sia nei confronti del terzo24.
24
□ A onor del vero, si è cercato in dottrina di fornire qualche appiglio al riconoscimento
già in età classica di alcuni limiti di validità alla stipulazione conclusa tra le parti, partendo dai dati ricavabili dalle fonti a noi pervenute. Ha così preso forma, ad esempio, la cd. teoria dell’interesse, in virtù della quale le stipulazioni in favore di una persona terza rispetto ai contraenti erano valide nella misura dell’interesse pecuniario di chi stipulava; lo stipulante avrebbe quindi potuto agire contro il promittente-debitore solamente qualora avesse un interesse di natura pecuniaria a che quest’ultimo eseguisse la prestazione a favore del terzo
Anche il rapporto con il terzo beneficiario era da considerarsi radicalmente nullo: il terzo in favore del quale si pattuiva non poteva quindi opporre alcuna azione a tutela del proprio diritto. È presente però nelle fonti letterarie un testo di un certo interesse, anche perché utile a capire come le fonti letterarie, a volte siano un importante strumento di integrazione e di analisi delle fonti giuridiche tout court: si tratta di un passo tratto dall’Apologia o Pro se de magia (liber) di Xxxxxxx, un’autodifesa che il filosofo e retore romano vissuto in pieno II secolo d. C. (tra il 125 e il 180) pronunciò a seguito di un’accusa di magia. Tale testimonianza ha inoltre un valore aggiunto nella circostanza che Xxxxxxx fu, tra l’altro, patrocinatore a Roma; l’abilità e la lucidità della sua argomentazione sono, poi, senza dubbio utili per chiarire meglio il problema dell’effetto della stipulazione nei confronti del terzo.
Scorrendo il testo si evince che Xxxxxxx aveva sposato una ricca vedova ultraquarantenne, Aemilia Pudentilla di Xxx, i cui figli di primo letto, Xxxxxxxx e Xxxxxxx, sospettavano (sostenuti in ciò da alcuni loro congiunti) che il matrimonio dello scrittore con la madre fosse dettato da ragioni di opportunismo. Pudente, dopo la morte di Xxxxxxxx, promosse un’accusa di magia davanti al proconsole d’Africa, Xxxxxxx Xxxxxxx, allo scopo di dimostrare come Xxxxxxx avesse sedotto con arte magiche la madre per convincerla a convolare a nuove nozze. L’accusa, in realtà, era costruita completamente su motivi insignificanti, che Xxxxxxx poté ribattere con facilità; la parte più interessante attiene alla chiusura dell’orazione, in cui l’autore rivela un particolare che stravolge completamente la prospettiva sulla sua accusa. Stando al testo, Xxxxxxx, prima del matrimonio, avrebbe stipulato con i figli di
beneficiario. La mancanza di un interesse di tipo pecuniario in capo allo stipulante nella pretesa che il promittente eseguisse la prestazione in favore del terzo, rendeva nullo – e non coercibile
– il contratto in favore di terzo beneficiario. Sul punto si veda Ulpiano, 49 ad Sabinum, D. 45, 1, 38, 17 e C. 8, 39, 3 pr (Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx a. 290). Il problema principale legato al requisito dell’interesse per la validità della stipulazione in favore di terzo era quello della possibilità di far valere processualmente tale interesse: se fosse stato presente un interesse di tipo pecuniario in capo allo stipulante, questi poi come avrebbe potuto agire per farlo valere? Quale tipo di azione avrebbe avuto a sua disposizione? In realtà, la classicità dei passi posti a fondamento di tale teoria è dubbia: la gran parte della dottrina che si è occupata di tale problema ha sempre ritenuto i passi interpolati e ha quindi ricondotto la regola dell’interesse ad un’innovazione di origine giustinianea.
Pudentilla un patto in virtù del quale avrebbe loro restituito la dote, pari a
300.000 sesterzi. Dice Apuleio:
Xxxxxxx, Pro se de magia liber, 91, 7. iam primum mulieris locupletissimae modicam dotem neque eam datam, sed tantum modo
<promissam>; 8. praeter haec ea condicione factam coniunctionem, nullis ex me susceptis liberis <si> vita demigrasset, uti dos omnis apud filios eius Pontianum et Pudentem maneret, sin vero uno unave superstite diem suum obisset, uti tum dividua pars dotis posteriori filio, reliqua prioribus cederet.
92, 1. Haec, ut dico, tabulis ipsis docebo. Fors fuat an ne sic quidem credat Aemilianus sola trecenta milia nummum scripta eorumque repetitionem filiis Pudentillae pacto datam. 2. Cape sis ipse tu manibus tuis tabulas istas, da impulsori tuo Xxxxxx: legat, pudeat illum tumidi animi sui et ambitiosae mendicitatis. Quippe ipse egens, nudus CCCC milibus nummum a creditore acceptis filiam dotavit; 3. Pudentilla locuples femina trecentis milibus dotis fuit contenta, et maritum habet et multis saepe et ingentibus dotibus spretis inani nomine tantulae dotis contentum, 4. ceterum praeter uxorem suam nihil computantem, omnem supellectilem cunctasque divitias in concordia coniugis et multo amore ponentem.
Concludendo, poi, l’orazione, il filosofo continua:
102: 1. Quid etiam est, Xxxxxxxxx, quod non te iudice refutaverim? Quod pretium magiae meae repperisti? Cur ergo Pudentillae animum veneficiis flecterem? Quod ut ex ea commodum caperem? Uti dotem mihi modicam potius quam a[m]mpla<m> diceret? O praeclara carmina! 2. An ut eam dotem filiis suis magis restipularetur quam penes me sineret? Quid addi ad hanc magiam potest?
Seguendo le parole di Xxxxxxx, emerge chiaramente come l’oratore avesse stipulato con la futura moglie (ora deceduta) prima delle nozze un patto avente ad oggetto una stipulatio alteri a favore di Xxxxxxxx e Xxxxxxx: Xxxxxxx parla infatti di eorumque repetitionem filiis Pudentillae pacto datam, cioè del diritto
che loro avrebbero avuto alla ripetizione di quanto dato. È questo sicuramente un contratto intervenuto tra il filosofo e la futura consorte, nel quale i di lei figli non erano intervenuti in alcun modo, tanto più che di tale stipulazione erano all’oscuro. Quella descritta è senza dubbio una stipulazione in favore di terzi: due soggetti stipulano una prestazione a favore di soggetti che a quella stipulazione non hanno preso parte. Il fatto che Xxxxxxx la descriva come una prassi normale dimostrerebbe come, quantomeno con riguardo alle famiglie romane dotate di una certa disponibilità economica, fosse in uso porre in essere stipulazioni di questo tipo al fine di tutelare il patrimonio della familia in ipotesi comuni come le seconde nozze. Nel testo emerge inoltre come proprio i terzi avrebbero avuto diritto ad un’azione diretta, in virtù della repetitio filiis pacto data per mezzo della quale i figli avrebbero avuto il diritto di ottenere quanto loro promesso dai due stipulanti originari. Secondo una parte degli autori che hanno studiato questo testo, proprio l’espressa menzione dell’esistenza di tale patto renderebbe plausibile la tutela del diritto del terzo non contraente già in epoca classica, per mezzo della concessione di un’actio utilis al terzo ben prima di del diritto giustinianeo; del resto già in epoca classica il magistrato aveva il potere di concedere ex decreto un’actio utilis, ogni volta che lo ritenesse opportuno ed equo, pur non essendo essa stata riportata prima nell’editto25. Tale circostanza implicherebbe un’infrazione evidente del principio classico per cui non si può alteri stipulari.
Non tutta la critica è però dello stesso avviso: l’atto di cui parla il testo del De Magia consisterebbe in realtà in un patto dotale a favore di terzo “speciale”, in quanto coinvolge soggetti terzi non in potestate (vale a dire soggetti al diretto controllo di un soggetto esercente la potestà), come appunto erano i figli di Xxxxxxxxxx, e non invece soggetti in potestate nei confronti dei quali numerose fonti dimostrano che in età giustinianea tali patti dotali erano validi ed efficaci. La domanda sorge allora spontanea: perché il diritto (successivo) giustinianeo avrebbe dovuto limitare la validità e l’efficacia dei patti dotali ai soli soggetti in
25
□ Trattasi quindi di un’actio decretalis e non di un’actio edictalis.
potestate patris constituti, visto che, secondo quanto riporta Xxxxxxx, già nel II secolo d.C., in pieno diritto classico, tale possibilità era riconosciuta generalmente, anche a soggetti non in potestate? Coloro che appunto individuano in questa situazione un’antinomia argomentano collocando l’orazione di Xxxxxxx nella corretta posizione nei confronti delle fonti. Trattasi di un testo di parte, di un’orazione di difesa appunto, con la quale l’oratore vuole scongiurare un’accusa di magia: si è detto infatti che il riferimento al patto con cui Xxxxxxx ha promesso di restituire la modesta dote ai figli di Xxxxxxxxxx apparirebbe più come un colpo di scena finale piuttosto che un’argomentazione di diritto. Tale circostanza, quindi, è valsa a scagionare Xxxxxxx, ma non certo a fondare una pretesa giuridica da parte di Xxxxxxx e Xxxxxxxx; essi, come sarà prassi nel diritto successivo26, per far valere la loro pretesa sulla dote della madre avrebbero dovuto stipulare un patto successivo con Xxxxxxx stesso, dal quale risultasse che il filosofo e patrigno s’impegnava a tale restituzione. Il testo, quindi deve essere considerato, dal punto di vista giuridico, semplicemente come una testimonianza della prassi stipulatoria di patti dotali in favore dei discendenti già in epoca classica, ma nulla dimostra sull’origine già classica della tutela diretta del terzo in caso di stipulatio alteri nella forma di patto dotale in favore del terzo.
Molto più frequente in età classica fu piuttosto il ricorso ad una serie di espedienti allo scopo di tutelare, seppur indirettamente, la posizione giuridica del terzo: gli stratagemmi maggiormente utilizzati la pena convenzionale e l’adiectus solutionis causa.
Relativamente alla pena convenzionale, si può leggere il già citato frammento di Xxxxxxx, che dopo aver sancito il divieto di stipulare in favore di terzo, nell’ultima parte enuncia:
Xxxxxxx, 49 ad Sabinum, 45, 1, 38, 17. (…) Plane si velim hoc facere, poenam stipulari conveniet: ut si ita factum non sit, ut
26
□ Si veda C. 5, 14, 4 (Xxxxxxxx a. 240).
comprehensum est committetur stipulatio etiam ei, cuius nihil interest; poenam enim cum stipulatur quis, sit quantitas, qua eque conditio stipulationis.
Per rendere legittima una stipulazione contratta in favore di un soggetto estraneo alla stipulazione stessa sembrerebbe fosse sufficiente concordare il pagamento di una penale, in modo tale che, se non fosse stata rispettata la volontà dei contraenti di far beneficiare un terzo estraneo al contratto di una certa prestazione, automaticamente sarebbe sorto l’obbligo al pagamento di tale penale. Si tratta una soluzione molto semplice e lineare, in quanto, predisponendo una pena convenzionale, non sarebbe stato necessario trovare alcun espediente interpretativo per rendere valida la stipulatio, che lo sarebbe stata per il solo fatto dell’apposizione di tale condizione oggettiva.
Un ulteriore escamotage utilizzato nell’ambito delle stipulazioni a favore di terzo fu l’adiectus solutionis causa; questa consisteva in una stipulazione nella quale il terzo, che non aveva preso parte alla stipulazione, appariva alternativamente accanto allo stipulante e aveva il diritto di acquistare, appunto, come adiectus27. Il valore dell’adiectus solutionis causa era evidentemente pratico: il terzo, che non avrebbe mai acquistato un titolo di credito da un contratto stipulato tra due soggetti diversi da lui, avrebbe comunque potuto ricevere validamente quella prestazione e di conseguenza avere poi titoli per difenderla, per mezzo dell’exceptio doli. A rendere efficace il contratto in favore di terza persona era quindi la combinazione di exceptio doli e adiectus. Il punto debole di tale escamotage consisteva però nell’impossibilità
27
□ Sul punto si veda Xxxxx, 3 quaestionum, D. 45, 1, 126, 2: (…) Plane, si liber homo
nostro nomine pecuniam daret, vel suam, vel nostram, ut nobis solvetur, obligatio nobis pecuniae craeditae adquireretur: sed quod libertus patrono dari stipulatus est, inutile est: ut nec ad solutionem proficiat adiectio absentis, cui principaliter obligatio quaerebatur. (…). Trattasi di una stipulazione con cui Xxxx Xxxx, avo materno di Xxxx, si era fatto promettere dal futuro marito di lei che, in caso di divorzio, avrebbe restituito la dote Xxxxx uxori vel Xxxx Xxxx avo materno. Xxxxx interpreta tale stipulazione come una stipulatio del genere sibi aut illi dari, rendendo così possibile che la moglie acquisti come solutionis causa adiecta. Non tutti gli autori sono però concordi con quest’interpretazione, in quanto ritengono che la stipulazione che emerge dal passo non corrisponda ad una costruzione mihi aut Titio e quindi valida perché contenente tutti gli elementi necessari per l’operare dell’adiectus;, quanto piuttosto ad una stipulazione concepita esclusivamente a favore del terzo assente, e quindi radicalmente nulla.
di costringere il debitore a pagare all’adiectus: al problema trovò una soluzione la giurisprudenza con l’introduzione della clausola utrum ego velim (a quale dei due vorrò) a completamento della domanda “decem mihi aut Xxxx dare spondes?28”
In diritto classico si formò inoltre un terzo espediente utile a superare il divieto di stipulare alteri, vale a dire una combinazione tra la pena convenzionale e l’adiectus solutionis causa. L’utilizzo di tale espediente è attestato in un rilevante numero di passi29: le formule utilizzate sono essenzialmente due,
«mihi decem aut Titio quinque dari» e «decem mihi aut hominem Titio dare», nelle quale è combinato l’elemento dell’alternatività proprio dell’adiectus con la previsione del pagamento di una somma maggiore proprio della pena convenzionale. In entrambe i casi il problema centrale era la liberazione del debitore dal creditore a seguito della prestazione al terzo: la soluzione differiva a seconda di quale tra i due tipi di stipulazione venisse preso in considerazione. Nella stipulazione «mihi decem aut quinquem Titio dare», era necessario capire se il pagamento della minor somma al terzo risolvesse tutto il rapporto obbligatorio; a ben vedere, il pagamento della minor somma rispetto a quella dovuta non comportava la solutio dell’obbligazione, anche nell’ipotesi in cui il creditore volesse accontentarsene, poiché era necessario compiere tutta la prestazione per intero. Pagando solo la minor somma, il totale della prestazione risultava non adempiuto: ecco perché, pagando all’adiectus la minor somma di quinques, il debitore non era liberato. Diversamente accade nell’ipotesi contraria, qualora sia stipulato «mihi quinque aut illi decem»; in
28
□ Si veda a tal proposito Xxxxxxxxx, 27 quaestionum, D. 45, 1, 118, 2. Dalla lettura del
testo si profilano due possibilità: il creditore può richiedere la prestazione al diretto debitore (xxxx), e sarà allora tutelato con un’actio certae pecuniae; altrimenti può decidere di richiedere la prestazione al terzo, ma sarà tutelato solamente con un’actio incertae pecuniae. Quindi, sulla base della clausola utrum ego velim, la prestazione del terzo sarebbe stata coercibile ad opera del creditore, che avrebbe potuto liberamente scegliere a quale debitore richiedere la prestazione.
29
□ Si veda Xxxxx, 15 quaestionum, D. 46, 3, 98, 5; Xxxx, 0 xx xxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx,
X. 00, 0, 000, 0; Xxxxxxxx, 13 digestorum, D. 46, 3, 34, 2.
questo caso, il debitore, pagando la maggior somma all’adiectus, restava liberato, poiché nella somma maggiore è compresa quella minore30.
Nella stipulazione «mihi quinque aut illi decem», quindi, affinché il debitore fosse liberato, questi non avrebbe dovuto pagare cinque allo stipulante, ma dieci a Titio; in più, pagando i dieci, il debitore non avrebbe avuto diritto a ripetere i cinque in più.
Per quanto riguarda il secondo tipo di stipulatio con adiectio e pena convenzionale, quella del tipo «decem mihi aut Titio hominem dari», a saltare subito agli occhi è la diversità di oggetti tra la stipulatio e l’adiectio: mentre la prima ha per oggetto una somma di denaro, la seconda ha per oggetto una cosa. Per questa ragione si ritiene che il vero oggetto della prestazione fosse in realtà la cosa, mentre la somma di denaro avesse solo la funzione di pena convenzionale. Il problema principale, comunque, non diverge di molto dal primo tipo di stipulazione con adiectus: si tratta sempre di capire se la soluzione dell’adiectus comportasse la liberazione del debitore dall’obbligazione. La controversia è attestata nelle fonti con significativi contrasti circa l’effetto estintivo immediato o meno della consegna in luogo del pagamento, risoltasi poi in senso affermativo31.
30
□ Ciò emerge chiaramente in Paolo, 15 quaestionum, D. 46, 3, 98, 5: Qui stipulatus "
sibi aut Titio" si hoc dicit " si Titio non solveris" dari sibi, videtur condicionaliter stipulari. et ideo etiam sic facta stipulatione: " mihi decem aut quinque Titio dari?" quinque Titio solutis liberabitur reus a stipulatore. quod ita potest admitti, si hoc ipsum expressim agebatur, ut quasi poena adiecta sit in persona stipulantis, si Xxxxx solutum non esset. at ubi simpliciter " sibi aut Titio" stipulatur, solutionis tantum causa adhibetur Xxxxxx et ideo quinque ei solutis remanebunt reliqua quinque in obligatione. contra si mihi quinque, illi decem stipulatus sim, quinque Titio solutis non facit conceptio stipulationis, ut a me liberetur: porro si decem solverit, non quinque repetet, sed mihi per mandati actionem decem debebuntur.
31
□ Sul punto si vedano i frammenti Xxxxx, 72 ad edictum, D. 44, 7, 44, 4; Xxxx, 0 xx
xxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx, X. 00, 0, 000, 0; Xxxxxxxx, 54 digestorum, D. 46, 3, 34, 2. Alla soluzione a cui si è fatto cenno si è giunti in applicazione della disciplina della cd. datio in solutum, vale a dire la prestazione in luogo dell’adempimento, un modo estintivo di obbligazioni che prevedeva un pagamento di una cosa per un'altra cosa. Tale modalità estintiva delle obbligazioni era ammessa in diritto classico solo se volontaria, quindi solo nell’ipotesi in cui il creditore vi acconsentisse; nel diritto tardo antico si ammise anche qualche ipotesi di prestazione sostitutiva necessaria, nei casi d’impossibilità assoluta di pagamento in danaro liquido. In particolare, circa la portata degli effetti estintivi della datio in solutum, si
Al di là di questi espedienti creati in diritto classico, molto interessanti sono le diverse actiones utiles alle quali il terzo avrebbe avuto diritto a partire dalla fine del III secolo d.C., su concessione della cancelleria imperiale. Si tratta quindi di forme di tutela diretta della posizione del terzo, senza più rendere necessario l’utilizzo dei sopra menzionati espedienti. La casistica che emerge dalle fonti è abbastanza varia, ma ai fini di questa breve analisi pare opportuno soffermarsi su due casi in particolare, ovvero la donatio sub modo e il depositum in publicum.
Sulla questione della donatio sub modo ci è pervenuto in due redazioni un rescritto del 290 d.C. contenente la decisione degli Imperatori Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx: le due versioni contengono alcune varianti significative. La prima redazione è quella contenuta nei Fragmenta Vaticana:
Fr. Vat. 286: Idem32 Xxxxxx Xxxxxxxxx: «Quoties donatio ita conficitur, ut post tempus id quod donatum est alii restituatur, veteris iuris autorictatem rescriptum est, si is in quem liberalitatis compendium conferebatur stipulaus non sit, placiti fide non servata, ei qui liberalitatis auctor fuit vel heredibus eius condicticiae actionis pesecutionem competere. Sed cum postea benigna iuris interpretazione divi principes ei qui stipulatus non sit utilem actionem iuxta donatoris voluntatem decernendam esse admiserint, actio, quae sorori tuae, si in rebus humanis ageret, potuit decerni, si quae proponis vera sunt, tibi adcommodabitur».
La seconda è riportata nel Codice giustinianeo:
contrapponevano due scuole di pensiero, quella sabiniana, secondo cui la datio in solutum comportava l’estinzione ipso iure dell’obbligazione e quella proculeiana secondo cui l’estinzione operava solo se fosse stata sollevata l’eccezione davanti al magistrato. Tra le due prevalse l’opinione sabiniana, che trovava espressione anche nel frammento di Xxxxxxxx, 54 digestorum,
D. 46, 3, 34, 2 in tema di adiectus e in virtù del quale si riteneva appunto che la consegna della cosa avesse valore estintivo.
32
□ Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx.
C. 8, 55, 3 (Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx a.290): Quoties donatio ita conficitur, ut post tempus id, quod donatum est, alii restituatur: veteris iuris autorictate rescriptum est, si is in quem liberalitatis compendium conferebatur, stipulatus non sit: placiti fide non impleta ei qui liberalitatis auctor fuit, vel heredibus eius condictitiae cationi persecutionem competere. Sed cum postea benigna iuris interpretatione divi principes ei, qui stipulatus non sit, utilem actionem iuxta donatoris voluntatem competere admiserint: actio quae sorori tuae, si in rebus humanis ageret, competebat, tibi accomodabit.
Entrambi i testi riportano un caso di donazione modale, con obbligo di restituzione trascorso un determinato periodo di tempo; i testi, però, differiscono in alcuni punti significativi. Il testo riportato nei Fragmenta Vaticana, raccolta antecedente rispetto a quella del Codice, usa l’espressione decerdendam esse, riferita all’actionem utilem in luogo dell’espressione competere actionem, che si ritrova nel testo codicistico. La differenza è fondamentale: l’utilizzo dell’espressione competere actionem sarebbe un’interpolazione, in quanto un’actio che compete – nel senso di “spetta di diritto”– a colui che non aveva preso parte alla stipulazione non può mai essere utile, ma è sempre diretta. Il testo dei Fragmenta, invece, permettendo di ricostruire l’utilizzo dell’espressione decerdendam esse riferita all’actionem utilem, fa comprendere come in realtà fosse solamente accordata al magistrato la facoltà di concedere al terzo, caso per caso, qualora lo ritenesse giusto, un’actio utilis. Si ritenne quindi per questo motivo legittimo, relativamente alla donazione sub modo e in presenza di alcune circostanze, di tutelare direttamente il terzo contro il donatario e gli eredi del donante: fu per questo che gli imperatori optarono per la concessione, causa cognita, di un’azione contro il donatario iuxta causa donantis - un’azione, quindi, sui generis, diversa dai rimedi tradizionali concessi a tutela del donante33.
33
□ Ovvero la condictio nel diritto classico e l’actio praescriptis verbis nel diritto
successivo.
I problemi interpretativi che sono sorti relativamente alla portata del rescritto dioclezianeo, sia nella versione riportata dai Fragmenta sia in quella riportata nel Codice, attengono alla corretta interpretazione del testo ed alla contestualizzazione del caso riportato. La fattispecie di cui si tratta nel testo potrebbe essere ricostruita in due modi differenti: si potrebbe ricondurre la soror a cui si fa riferimento nell’ultima parte del rescritto alla donante stessa, colei dalla quale proviene la donatio sub modo, intendendo quindi che la Xxxxx Xxxxxxxx a cui si accorda l’actio sia colei in favore della quale era stata accordata la restituzione della donazione dopo un certo periodo. Ovvero, secondo un’altra ricostruzione, la soror potrebbe essere invece la terza persona in favore della quale era stato stabilito il modus e Xxxxx Xxxxxxxx ne sarebbe stata l’erede, usufruendo quindi dell’azione che competeva alla sua dante causa. Tra le due, è la seconda l’interpretazione quella che pare più corretta, poiché in questo modo troverebbe giustificazione la diversità di disciplina tra il diritto classico e il diritto “nuovo” introdotto dalla benigna interpretatio dei divi principes, vale a dire la concessione di un’actio utilis, non altrimenti prevista dal diritto tradizionale; se la sorella fosse stata la donante, avrebbe infatti goduto di una tradizionale condictio senza bisogno dell’intervento di una benigna interpretatio che appunto colmasse un vuoto di disciplina.
Che questo caso di donazione modale sia riconducibile o no ad un contratto a favore di terzo è problema discutibile, e talvolta si è sostenuta l’estraneità di tale figura dalla categoria della stipulatio alteri. In effetti, una donazione modale è e rimane un atto di liberalità, estraneo quindi alla struttura di un atto a titolo oneroso come la stipulatio, e a tale disciplina deve rispondere. È corretto a mio parere ritenere che il caso della donatio sub modo e della concessione di un’azione al terzo originariamente estraneo esprima un’apertura del diritto giustinianeo verso il riconoscimento di espressioni non tradizionali d’istituti correntemente in uso nella prassi, e ciò poteva verificarsi nel caso di un terzo beneficiario rispetto alla stipulatio e rispetto alla donatio. Da sottolineare, comunque, che è proprio il caso della donazione modale a
rimanere più a lungo impresso nel corso dello sviluppo del diritto privato moderno: basti pensare, per esempio, che nel codice civile francese, all’art. 1121, è indicata proprio la donation avec charge (donazione modale) come uno dei due casi in cui è ammessa la stipulation pour autrui, altrimenti considerata radicalmente nulla in diritto privato francese proprio sulla scorta del principio stipulari alteri nemo potest.
L’altra ipotesi di concessione di un’actio utilis a cui si ritiene opportuno qui fare riferimento riguarda il caso del deposito in publicum a disposizione del creditore. Si può leggere nel seguente rescritto dioclezianeo:
C. 4, 32, 19 (Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx AA. Et CC. Xxxxxxxx Xxxxxx): Acceptam mutuo sortem cum usuris licitis creditori post testationem offer ac, si non suscipiat, consignatam in publico depone, ut cursus usurarum legitimarum inhibeatur. In hoc autem casu publicum intellegi oportet vel sacratissimas aedes vel ubi competens iudex super ea re aditus deponi eas disposuerit. Quo subsecuto etiam periculo debitor liberabitur et ius pignorum tollitur, cum Serviana etiam actio manifeste declarat pignoris inhiberi persecutionem vel solutis pecuniis vel si per creditorem steterit, quominus solvatur. Quod etiam in traiecticiis servari oportet. Creditori scilicet actione utili ad exactionem earum non adversus debitorem, nisi forte eas receperit, sed vel contra depositarium vel ipsas competente pecunias.
La parte più interessante di questo rescritto è quella finale, che ha inizio con creditori scilicet; dice il testo “(…) è concessa al creditore un’actio utilis per l’esecuzione di questi non contro il debitore, anche se probabilmente le aveva ricevute, ma o contro il depositario o colui che ha presso di sé il denaro stesso”. In sostanza viene concessa un’actio utilis al creditore per esigere la somma depositata in un luogo pubblico (vel sacratissimas aedes vel ubi competens iudex super ea re aditus deponi eas disposuerit) non dal deponente, ma bensì dal depositario. L’azione, quindi, era concessa contro il depositario stesso o, dice appunto il rescritto, contro il terzo che abbia presso di sé il denaro, a tutela di un soggetto terzo (il creditore) i cui interessi rilevano
nonostante non abbia partecipato alla stipulazione. In questo caso però, la sola previsione di un’actio utilis per il terzo non vale da sola ad individuare un’eccezione al principio generale che nega validità alla stipulatio alteri poiché, nel caso in esame, il testo alterna all’actio utilis esperibile contro il donatario, la possibilità di esperire la stessa azione utile contra ipsas pecunias, vale a dire un’azione di tipo reale esorbitante i limiti di un’azione nascente da contratto. a ragione si può quindi ritenere che nell’ipotesi in esame ci si trovi di fronte ad un caso concernente la disciplina del deposito giudiziale nel diritto romano, e dunque l’azione in esame deve essere coordinata con tale disciplina, e non con quella del contratto a favore di terzi.
È interessante notare anche in questo caso una particolarità riguardante il moderno diritto in privato; l’Αστικός Κώδικoς, il codice civile greco, che riconosce il contratto in favore di terzi, parimenti ammette la possibilità per il terzo di agire direttamente contro il promittente solamente alle condizioni previste all’art. 411, vale a dire nel caso in cui la prestazione in suo favore risulti dalle intenzioni delle parti contraenti ovvero dalla natura o dallo scopo del contratto. Inoltre, all’art. 432, I comma è ammessa incondizionatamente l’azione diretta in capo al terzo beneficiario contro il promittente nel caso della consegna della cosa dovuta al creditore dalla pubblica autorità competente. In questo caso il creditore può in ogni momento reclamare all’autorità la cosa consegnata; l’azione diretta del terzo trova la sua ragion d’essere nella legge stessa. Tale disciplina ricorda proprio quella appena analizzata del deposito in publicum: la codificazione greca parrebbe l’unica ad aver qualificato tale ipotesi come contratto in favore di terzo.
6. Conclusioni
Al termine di questo breve contributo sulle forme dell’attività negoziale a Roma e in particolare sulle regole ed eccezioni in materia di stipulatio, si può ora provare a trarre alcune conclusioni. Si è visto come l’attività negoziale nell’antica Roma si servisse di alcuni negozi tipici presieduti da regole formali ben determinate: in particolare, approfondendo la stipulatio fra le molteplici figure obbligatorie, ci si è resi conto che questa rispondeva ad alcune
caratteristiche proprie dell’oralità, quali la presenza contemporanea di due soggetti in grado di esprimersi, la corrispondenza tra domanda e risposta con effetto costitutivo, l’impossibilità che la stessa producesse effetti nei confronti di un soggetto che alla stipulazione stessa non avesse preso parte. Sono queste caratteristiche che si sviluppano in relazione alla stipulatio nel corso del tempo, a partire da quelle forme di eterogaranzia quali il nexus e la sponsio che ne rappresentano gli antecedenti, e restano salde sino, si può dire, ai giorni nostri. Il principio dell’alteri stipulari nemo potest ha infatti rivestito un ruolo di grande importanza nel corso di tutta la storia del diritto codificato, in particolar modo in Francia dove ha trovato espressa previsione nel Code Civil. La relatività degli effetti del contratto è un problema che ha caratterizzato gran parte della scienza giuridica privatistica dal 1800 sino ai giorni nostri: l’ultimo paese in ordine di tempo a rinunciare ad una rigorosa applicazione dello stesso è la Gran Bretagna che nel 1999, con il Contracts (Rights of Third Parties) act, riconosce finalmente l’ammissibilità e la piena autonomia del contratto a favore di terzi. Anche alcune soluzioni nate in diritto romano per ovviare alla rigidità del principio dell’alteri stipulari nemo potest hanno trovato ricezione nei moderni ordinamenti privatistici europei; si è fatto l’esempio della Grecia e della Francia e in effetti le discipline recepite dai codici civili di tali paesi sono per larga parte debitori al diritto romano.
Esistono quindi connessioni storiche e giuridiche tra il diritto romano e gli ordinamenti attuali, dovute ad una lunga evoluzione storica di regole ed istituti nati in diritto romano ed adattati nel tempo alle diverse esigenze: è importante capire questo, al di là del facile utilizzo che si pensa di poterne fare, per comprendere come lo studio del diritto romano non sia uno studio fine a se stesso, ma piuttosto, come tutti gli studi storici, sia fondamentale per capire al meglio i processi storici che hanno interessato le società occidentali ed i loro sistemi giuridici.