Edizione di martedì 4 settembre 2018
Edizione di martedì 4 settembre 2018
Privacy
Price discrimination e protezione dei dati personali: possibili scenari
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Diritto del Lavoro
Infortunio sul lavoro: il datore di lavoro è responsabile anche per negligenza o imperizia del lavoratore
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Diritto Bancario
La calcolabilità degli interessi moratori ai fini della verifica di usurarietà
di Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto e reati societari
Accordo per la manleva del nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento
di Xxxxxxx Xx Xxxxxxxx - Studio Xxxxxx Xxxxxxx Zei e Associati
Diritto e procedimento di famiglia
Assegno di divorzio: conta anche il contributo personale ed economico del coniuge alla vita familiare
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
Litispendenza e cause pendenti in differenti gradi di giudizio
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
La nullità dell’atto di citazione nella più recente giurisprudenza
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Esecuzione forzata
Sovraindebitamento e cessione del quinto dello stipendio
di Redazione
Obbligazioni e contratti
Il dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza di condizione sospensiva
di Xxxxx Xxxxxxxx
Proprietà e diritti reali
La quantificazione del danno da indennità di occupazione dell’immobile nel caso di convivenza more uxorio
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Sovraindebitamento: il fideiussore può essere considerato “consumatore”
di Redazione
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Sovraindebitamento: l’insostenibile durata del piano del consumatore
di Redazione
Procedimenti di cognizione e ADR
Sul valore probatorio del messaggio di posta elettronica ordinaria: ora la Cassazione opta per l’art. 2712 c.c.
di Xxxxxx Xxxxxxxxxx
Privacy
Price discrimination e protezione dei dati personali: possibili scenari
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Con l’espressione price discrimination si intende quella strategia di prezzi per la quale beni o servizi identici o simili tra loro vengono venduti, da parte di uno stesso fornitore, a prezzi differenti e maggiori del loro costo marginale[1].
In tali casi il prezzo di un bene non è definito dai suoi costi di produzione e commercializzazione, ma da quanto il consumatore è disponibile a spendere per acquistarlo (propensione al consumo o prezzo di riserva).
Quanto più un’impresa è in grado di individuare con precisione tale propensione al consumo, tanto più ampia sarà la capacità di definire una strategia personalizzata attraverso la quale vendere lo stesso prodotto a più consumatori applicando a ciascuno un prezzo differente[2].
Sotto tale prospettiva, il tema del trattamento dei dati personali assume un’importanza decisiva per ogni titolare che intenda estrarre valore dalle informazioni raccolte. Le nuove tecnologie stanno rivelando un potenziale senza precedenti nel rendere sempre più specifiche e precise le suddivisioni in cluster ai quali applicare differenziazioni di prezzo. La propensione al consumo di un determinato bene da parte di un potenziale acquirente può essere sempre più agilmente dedotta dalla conoscenza dei suoi comportamenti online e offline.
Quali rischi comportano tali strategie per le libertà e i diritti delle persone?
Prendendo in considerazione uno scenario tipo, è possibile affermare che vi sono gruppi di soggetti disposti a pagare prezzi differenti per lo stesso bene. Alcuni di loro attribuiranno invece al prodotto il valore 0, esprimendo così la corrispondente propensione al consumo poiché il bene è di scarso interesse, oppure poiché il potenziale acquirente è un soggetto incapiente. Quest’ultima categoria di consumatori resterà per così dire “fuori dal gioco” essendo esclusa dall’area di ottimizzazione del venditore; non userà ad esempio una clinica privata ma la sanità pubblica, non pagherà la benzina perché non ha la possibilità di acquistare una macchina usufruendo così del servizio di trasporto pubblico. Di tali individui si prenderà dunque cura lo Stato attraverso il welfare.
Semplificando, si possono individuare tre categorie di soggetti che entrano a far parte del gioco:
L’impresa che, attraverso le informazioni raccolte sulle preferenze dei consumatori, mira a massimizzare i ricavi;
I soggetti disposti ad acquistare il bene ad un prezzo più elevato di quello fissato dall’impresa utilizzando quella capacità di spesa non ancora aggredita (che d’ora in avanti chiameremo «surplus»);
Coloro che non entrano nel gioco e dei quali si prende cura lo Stato attraverso il servizio pubblico finanziato da quella frazione del surplus con il quale i soggetti che hanno capacità di spesa pagano le tasse.
Cosa succederebbe dunque se l’impresa conoscesse la propensione al consumo di un soggetto per ogni singolo bene? Cosa accadrebbe, ad esempio, se l’azienda farmaceutica sapesse che un individuo ha un bisogno impellente di una determinata medicina?
In questo caso, l’impresa potrebbe massimizzare i propri ricavi aggredendo quel surplus che viene in parte utilizzato per l’acquisto di beni e, in altra parte, per il pagamento delle tasse.
Ad oggi, non ci troviamo ancora di fronte ad un utilizzo intensivo di tali pratiche di price discrimination e, nella maggioranza dei casi, il prezzo praticato ad una pluralità di consumatori per il singolo bene è il medesimo.
La difficoltà principale riscontrata dalle imprese nell’attuazione di tali strategie risiede nel reperimento dei dati personali degli utenti. Stiamo tuttavia entrando in un’epoca in cui la produzione dei dati aumenta ogni anno[3] in modo esponenziale consentendo parallelamente una maggiore disponibilità e circolazione di quello che è stato definito il «nuovo petrolio»[4].
Per effetto dei Big Data, dell’Internet of Things e della commoditizzazione dell’informazione, potrebbe dunque configurarsi una nuova forma di lock-in determinata dal fatto che i dati renderanno manifesto il contesto nel quale l’interessato vive e consentiranno alle imprese di estrarre il corrispondente surplus in misura maggiore rispetto a quanto sarebbe accaduto in una condizione di assenza di informazioni e di cose decontestualizzate. È infatti plausibile pensare che il consumatore difficilmente rinuncerà all’acquisto del bene, proprio perché questo è stato specificamente valutato dall’impresa come necessario per il suo paniere.
L’aggressione del surplus da parte dell’impresa potrà comportare una costrizione per il consumatore ad essere più produttivo per poter acquistare altri beni e dunque una riduzione del proprio tempo libero, oppure, più verosimilmente, un’aggressione della parte di surplus utilizzata per finanziare il welfare e sussidiare i soggetti più bisognosi.
Dunque, da un trattamento dei dati personali non accompagnato da una redistribuzione del gettito fiscale, potrebbe derivare un mancato soddisfacimento dei bisogni primari per un numero molto ampio di soggetti proprio a causa dell’erosione della componente sociale da parte delle imprese.
Tuttavia, il processo di gestione dei Big data non è un processo esclusivamente verticale,
ovvero non sono le sole imprese a conoscere le preferenze dei consumatori, ma gli stessi consumatori che si confrontano tra loro[5]. Un potenziale acquirente potrebbe ad esempio trovarsi a pagare lo stesso bene più di un altro soggetto e constatare immediatamente di essere stato vittima di una discriminazione e opporsi a questa forma di profilazione aggressiva. Tale elemento di opposizione è spesso sottovalutato, ma potrebbe rappresentare il principale ostacolo a queste strategie di mercato.
Il confronto tra interessati si configura come tutela ulteriore rispetto a quelle giuridica e tecnologica presenti nel GDPR e può portare alla reazione nella misura di un mancato acquisto del bene imponendo al titolare del trattamento di rimuovere tale discriminazione[6].
È dunque possibile per un’impresa aumentare i propri ricavi attraverso il trattamento dei dati personali senza per questo limitare i diritti e le libertà delle persone fisiche?
L’obiettivo di sistema che l’impresa si potrebbe porre per valorizzare il proprio database è quello di lavorare per spostare verso l’alto la curva della domanda e, in tal senso, i dati e la contestualizzazione sono quanto di più utile ci sia.
In sostanza, se l’aumento del valore del bene è dato da un reale riscontro dell’utilità per il consumatore, lo stesso avrà una percezione positiva di tale strategia e sarà maggiore la probabilità che anche i soggetti che restavano fuori dal gioco perché non interessati al prodotto, optino per rientrarvi e acquistarlo in quanto rispondente ad una loro utilità[7].
Una piena valorizzazione dei dati personali potrebbe essere raggiunta non tanto attraverso l’aggressione al surplus, quanto piuttosto dallo sfruttamento della loro capacità di aumentare la domanda.
L’obiettivo da un punto di vista economico della privacy by design[8] è quello di effettuare una contestualizzazione del bene che consenta di estrarre l’informazione dai dati, ma di lasciare fuori la persona poiché, come dimostrato, questa si opporrebbe ad una limitazione della propria libertà personale.
«Il fatto che privacy e Big data non appaiano come contendenti, ma come due alleati per garantire la protezione dei dati personali – e la valorizzazione dei dati – è presupposto di stabilità per l’affermarsi dei benefici innegabili che deriveranno dai Big data»[9].
Dunque, difendere la privacy della persona assume un valore di difesa della collettività e, in particolare, individuare soluzioni che configurino come accettabile un determinato trattamento di dati personali effettuando una previa valutazione per i rischi e le libertà delle persone fisiche, potrebbe comportare il duplice effetto di consentire una massimizzazione dei ricavi da parte delle imprese, garantendo tuttavia il rispetto delle regole in materia di protezione dei dati personali.
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[1] Xxxxxxx; Xxxx X.; Xxxxxxx Xxxxxxxx., Economies of Scale, Imperfect Competition and International Trade. in International Economics – Theory and Policy, VI, 2003, p. 142.
[2] Per citare alcuni tra i tanti esempi possibili di applicazione di tali pratiche, si pensi ai biglietti aerei il cui prezzo cambia a seconda del preavviso con il quale vengono acquistati. Ancora, all’interno di molti e-commerce, il conversion rate misura il numero di utenti del sito che si trasformano in clienti acquistando un prodotto. Ogniqualvolta il tasso diminuisce al di sotto di un valore determinato, il prezzo dei beni viene automaticamente adeguato al fine di stimolare la domanda.
[3] Xxxxx J.; Xxxxxxx X., Extracting Value from Chaos, libro bianco finanziato da EMC-IDC, disponibile online. Xxxxx X.; Xxxxxx H.R., How Much Information?, 2003, disponibile online. Secondo tali studi si stima che dalla nascita del computer fino al 2006 siano stati prodotti approssimativamente 180 esabyte di dati, mentre il totale è cresciuto fino a più di 1600 esabyte nel solo periodo che è intercorso tra il 2006 e il 2011.
[4] L’espressione è riportata in WORLD ECONOMIC FORUM, Personal Data: the emergence of a new asset class, 2011 p. 5.
[5] A tal proposito, basti pensare ai fenomeni dei rating o delle recensioni.
[6] Così è avvenuto nel 2000 quando Amazon, dopo aver aumentato il prezzo di alcuni DVD ai soli utenti che si erano dimostrati più interessati, è stato costretto a porgere le scuse e a bloccare la sperimentazione dopo che gli stessi avevano manifestato apertamente un chiaro disappunto per quanto accaduto.
[7] Si pensi alle tecnologie che monitorano l’utilizzo degli oggetti acquistati, per poi suggerire il momento in cui si sta per verificare un guasto o la necessità di una revisione, o ancora, ai sistemi di geolocalizzazione installati nelle autovetture che avvertono autonomamente il servizio di soccorso in seguito ad un incidente stradale, riducendo così in misura significativa i rischi per l’incolumità della persona.
[8] Cfr. Art 25 par.1, Regolamento Europeo 2016/679: “Taking into account the state of the art, the cost of implementation and the nature, scope, context and purposes of processing as well as the risks of varying likelihood and severity for rights and freedoms of natural persons posed by the processing, the controller shall, both at the time of the determination of the means for processing and at the time of the processing itself, implement appropriate technical and organisational measures, such as pseudonymisation, which are designed to implement data-protection principles, such as data minimisation, in an effective manner and to integrate the necessary safeguards into the processing in order to meet the requirements of this Regulation and protect the rights of data subjects”.
[9] D’Xxxxxxxx X.-Xxxxx M., op.cit., p.23.
Diritto del Lavoro
Infortunio sul lavoro: il datore di lavoro è responsabile anche per negligenza o imperizia del lavoratore
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 16 giugno 2018, n. 16026
Risarcimento – infortunio sul lavoro –- rischio elettivo – prevenzione delle condizioni di rischio – sussistenza
MASSIMA
Il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite alla possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, quali destinatari della tutela, dimostrando, secondo l’assetto giuridico posto dall’art. 2087 c.c., di aver messo in atto ogni mezzo preventivo idoneo a scongiurare che, alla base degli eventi infortunistici, possano esservi comportamenti colposi dei lavoratori. L’unico limite è quello del comportamento del lavoratore che ponga in essere una condotta personalissima avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o ad essa non riconducile esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata.
COMMENTO
Nel caso de quo, a seguito di un infortunio mortale avvenuto ai danni di un dipendente delle ferrovie, i suoi eredi avevano adito il Tribunale di Benevento chiedendo la condanna dell’INAIL al pagamento, iure hereditario, dell’indennizzo per il danno biologico subito dal de cuius, e del pari anche la condanna del datore di lavoro al risarcimento per i danni subiti e subendi.
Il dipendente delle ferrovie era stato investito da un treno nell’operazione di controllo, effettuato prima degli orari prestabiliti per l’intervento di manutenzione, sugli scambi ferroviari. Sia il Tribunale di Benevento che la Corte d’Appello di Napoli hanno escluso il diritto al risarcimento dei danni e all’indennizzo degli eredi ritenendo che il comportamento tenuto dal de cuius fosse da inserirsi nel novero del c.d. rischio elettivo. Infatti, la decisione del dipendente di intervenire prima del tempo, in assenza di una prassi in tal senso ed in spregio alle indicazioni datoriali circa l’orario di svolgimento dell’intervento sugli scambi ferroviari costituisce un comportamento del tutto atipico ed eccezionale rispetto al procedimento lavorativo e, quindi, tale comportamento atipico si pone come causa esclusiva dell’intervento spezzando il nesso causale tra attività lavorativa e danno.
Alla luce di ciò gli eredi del lavoratore hanno impugnato la sentenza resa dalla Corte d’Xxxxxxx affermando che la stessa ha erroneamente valutato il comportamento del lavoratore in termini di anomalia ed imprevedibilità e soprattutto che fosse onere del datore di lavoro dimostrare l’esistenza di un divieto rispetto al comportamento tenuto e l’inesistenza di una prassi conforme alla condotta del lavoratore.
La Suprema Corte ha riconosciuto la fondatezza del ricorso proposto dagli eredi affermando che i Giudici di merito hanno errato nell’applicazione dei principi consolidati in materia poiché si sono limitati solamente ad evidenziare la grave anomalia del comportamento, mentre avrebbero dovuto indagare se la condotta personalissima tenuta dal lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o ad essa non riconducile, fosse stata esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa, e come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. Inoltre, non è stato neppure accertato che il datore di lavoro avesse adottato tutte le cautele necessarie per prevenire le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori.
La Corte di Cassazione ha pertanto rinviato alla Corte d’Appello di Napoli la decisione affinché si attenga al principio di diritto affermato.
Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”
Diritto Bancario
La calcolabilità degli interessi moratori ai fini della verifica di usurarietà
di Xxxxx Xxxxxxxx
Alcuni autori e parte della giurisprudenza (Trib. Milano 16.2.2017, 8.6.2017, 28.7.2017, 11.1.2018, 13.2.2018; Trib. Treviso 12.6.2018 e 22.3.2018) sollevano significativi dubbi riguardo alle concrete possibilità di verificare l’usurarietà degli interessi moratori al momento della pattuizione del mutuo (il solo rilevante ex lege ai fini dell’usura), per l’impossibilità di procedere alla determinazione di un tasso effettivo che tenga conto degli interessi di mora.
Come risaputo, è possibile determinare il tasso effettivo di una operazione di finanziamento esclusivamente quando sono note e conosciute ex ante tutte le variabili della formula di matematica finanziaria, ossia il capitale, il tasso di interesse e il tempo (la durata dell’operazione di finanziamento).
Relativamente agli interessi corrispettivi, al momento (genetico) della stipula del finanziamento, è possibile determinare il tasso effettivo poichè si conoscono ex ante le basi di calcolo: il capitale erogato, il tasso di interesse e la durata dell’ammortamento.
Riguardo alla possibilità di stabilire il tasso effettivo dell’operazione di finanziamento comprensiva degli interessi di mora, all’atto della stipula del mutuo si conoscono solo il tasso di interesse moratorio ma non gli altri indispensabili elementi della base di calcolo del tasso effettivo, ossia il capitale/importo inadempiuto (le rate insolute e il capitale residuo dopo la decadenza dal beneficio del termine) e il tempo, ossia la durata dell’inadempimento, variabili che, peraltro, potrebbero anche non configurarsi mai, se non si manifestano ritardi nei pagamenti.
Volendo aggirare questa insormontabile difficoltà di calcolo ex ante, ossia al momento della stipula del mutuo, è necessario precostituire artificiosamente quanto arbitrariamente due dei tre coefficienti mancanti della base di calcolo, ossia l’importo inadempiuto (capitale) e la durata dell’inadempimento (tempo), ipotizzando ‘a tavolino’, in astratto, un certo numero di rate inadempiute per un certo periodo tempo, rendendo così forzosamente calcolabile ex ante l’incidenza degli interessi di mora ai fini dell’usura.
Diritto e reati societari
Accordo per la manleva del nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento
di Xxxxxxx Xx Xxxxxxxx - Studio Xxxxxx Xxxxxxx Zei e Associati
Cassazione civile ordinanza n. 17500 del 4 luglio 2018
È lecito e meritevole di tutela l’accordo concluso tra soci di società per azioni, con il quale, in occasione del finanziamento partecipativo di uno di essi, gli altri si obblighino a manlevare il nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento, mediante attribuzione a quest’ultimo del diritto di vendere (c.d. put), entro un determinato termine, e agli altri dell’obbligo di acquistare la partecipazione a un prezzo prefissato – pari a quello iniziale, con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società – ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite, la cui meritevolezza è insita nell’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario.
L’ordinanza n. 17500 del 4 luglio 2018 della Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione offre un valido spunto per analizzare, in chiave “attuale” l’istituto del patto leonino (art. 2265 c.c.), secondo cui sono nulli gli accordi in base ai quali un socio venga escluso da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.
In particolare, la pronuncia affronta un caso specifico, dal quale trarre alcuni principi generali, che riguarda la possibilità di considerare valido l’accordo parasociale in base al quale al nuovo socio, in sede di conferimento, sia concesso un diritto di vendere la propria quota di partecipazione (cd. opzione put), entro un dato termine e ad un prezzo fisso, corrispondente a quello pagato, oltre agli interessi, con il correlativo obbligo di acquisto a carico degli altri soci; sollevandolo, conseguentemente, da possibili perdite subite dal proprio “investimento”.
Anche se si sarebbe portati a propendere per una soluzione negativa, la pronuncia in commento arriva a conclusioni diverse e lo fa, prevalentemente, alla luce di una concezione della “causa concreta” o della “funzione concreta” del negozio posto in essere fra le parti.
Anche se la ratio del patto leonino è quella di evitare un’alterazione della causa del contratto di società, ontologicamente connaturato dal rischio d’impresa: investire capitale di rischio può comportare utili o perdite, sulla base dell’ordinanza in commento, si giunge ad affermare che il principio non può e non deve essere osservato in senso assoluto ed acritico allorquando i contingenti interessi della società, nel bilanciamento, appaiano limitati nel tempo e soprattutto prevalenti rispetto a quelli dei singoli soci.
Invero, con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha sostenuto la piena validità di un siffatto accordo parasociale, massimando il principio di diritto secondo cui: “È lecito e meritevole di tutela l’accordo concluso tra soci di società per azioni, con il quale, in occasione del finanziamento partecipativo di uno di essi, gli altri si obblighino a manlevare il nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento, mediante attribuzione a quest’ultimo del diritto di vendere (c.d. put), entro un determinato termine, e agli altri dell’obbligo di acquistare la partecipazione a un prezzo prefissato – pari a quello iniziale, con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società – ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite, la cui meritevolezza è insita nell’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario”.
Il tema deve dunque essere posto e valutato su un duplice piano.
Sotto il profilo “strutturale” l’accordo si pone nell’ambito della circolazione delle azioni che, salvo limiti statutari o di legge, è in linea di principio del tutto libera, e non incorre di per sé nel divieto del patto leonino; invero quest’ultimo concerne la suddivisione dei risultati dell’impresa “con rilievo reale verso l’ente collettivo; mentre nessun significato in tal senso potrà assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorché non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, né modifichi la posizione del socio in società, e dunque non abbia nessun effetto verso la società stessa: la quale continuerà ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali”.
Nel caso di specie, infatti, la società è del tutto indifferente alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell’esercizio dell’opzione put a prezzo prefissato. Tali conseguenze si configurano come neutrali ai fini della realizzazione della causa societatis già solo per “la presenza di elementi negoziali idonei a condizionare il potere di ritrasferimento a circostanze varie, capaci di orientare la scelta dell’oblato nel senso della vendita, ma anche della permanenza in società; onde non ne viene integrata l’esclusione da ogni partecipazione assoluta e costante dalle perdite”.
Sotto il profilo della “funzione” concreta il patto viene ritenuto lecito, in quanto sorretto da una valida causa di finanziamento dell’impresa e di espansione dell’attività sociale (causa mista: associativa e di finanziamento), finanche più meritevole dei diritti dei soci intesi uti singuli, specie se contenuta entro il perimetro di un’operazione di “finanziamento” che, come nel caso di specie, ha finalità e tempistiche predeterminate.
E’ appena il caso di notare come la Prima Sezione, obiter dictum, accolga la teoria della causa in “concreto”, ossia della valutazione degli interessi perseguiti dalle parti nella loro oggettività; superando definitivamente la tradizionale teoria della causa negoziale come funzione economico-sociale.
La valutazione della causa concreta appare infatti molto più idonea ed efficace nel vaglio delle complesse figure elaborate dall’odierna prassi commerciale. In particolare l’ opzione put a
prezzo prefissato sarà perfettamente lecita laddove la “ragione pratica del meccanismo (…) è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci”.
A ciò deve aggiungersi che il favor legislativo e la prassi sono peraltro da tempo allineate per la creazione di strumenti e tecniche di reperimento di capitale presso terzi volto all’incentivazione dell’attività d’impresa (strumenti finanziari partecipativi; obbligazioni, nelle varie tipologie; azioni di riscatto e di risparmio; pegno di azioni e/o quote ecc.), alternative al ricorso al tradizionale prestito bancario e per le quali risulta ormai superato il dogma della indissolubilità del nesso potere-rischio (si pensi, in particolare, agli strumenti finanziari partecipativi ecc.).
Da un punto di vista economico, infine, i benefici integrati dall’accordo in questione hanno un duplice effetto: da un lato, l’impresa è riuscita nell’intento di reperire capitale finanziario a condizioni ragionevolmente più favorevoli di quanto il sistema bancario potrebbe concederle (minor tasso d’interesse, assenza di costituzione di garanzie sulle partecipazioni ecc.), coinvolgendo peraltro un nuovo soggetto nella “vita” societaria; dall’altro, la partecipazione del socio acquista un carattere di maggiore flessibilità, vantaggiosa sia in caso di permanenza nella compagine sia in caso di eventuale dismissione.
La Corte ha pertanto ritenuto meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., lo schema così delineato di opzione put – anche considerata la difficile contingenza economica che, sempre più, mette a repentaglio il principio costituzionale di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., considerata la finalità di finanziamento, sottesa ad una operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario, seppure realizzata con modalità atipiche.
Diritto e procedimento di famiglia
Assegno di divorzio: conta anche il contributo personale ed economico del coniuge alla vita familiare
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Cass. Civ. S.U. sentenza n. 18287 11 luglio 2018
Divorzio – Assegno – Criterio composto: assistenziale/compensativo/perequativo
(Art. 5 comma 6 L. n. 898/1970 modificata con L. n. 74/1987, art. 29 Cost.)
Il riconoscimento dell’assegno di divorzio deve avvenire valutando le rispettive condizioni economiche dei coniugi, il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale, tenendo presente anche la durata del matrimonio e l’età dell’avente diritto.
CASO
Si tratta di una coppia emiliana sposata da più di 30 anni, lui 66 anni e lei 62 anni.
Modeste origini, patrimonio e reddito accumulati nel corso della vita matrimoniale. Imprenditore lui, professionista lei.
In separazione, l’ingente patrimonio era stato diviso, le aziende a lui e il denaro e gli immobili a lei.
In sede di divorzio il Tribunale di Reggio aveva riconosciuto alla donna un assegno divorzile di
4.000 euro fondandolo sull’elevato tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio, e sulle aspettative economiche in espansione del marito.
La Corte d’appello di Bologna, aderendo all’emergente orientamento della Cassazione inaugurato con la sentenza n. 11504/2017, aveva negato il diritto all’assegno divorzile, in forza del principio dell’autosufficienza economica.
La signora aveva, infatti, un reddito proprio di circa 50.000 euro annui e un cospicuo patrimonio immobiliare ottenuto con la separazione, pertanto, seppur in presenza di sperequazione tra le capacità patrimoniali dei coniugi, l’agiatezza della moglie non consentiva l’attribuzione di un assegno divorzile.
La vicenda è arrivata alla Cassazione. Nel ricorso, la difesa della donna ha chiesto e ottenuto la remissione alle sezioni unite, al fine di ottenere un’univoca interpretazione dell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio.
Secondo i legali della ricorrente, così come formulata, la norma non contiene il principio di autosufficienza richiamato nella citata sentenza. L’applicazione di tale principio può portare a “gravi ingiustizie sostanziali”, in particolare per i matrimoni di lunga durata e nei casi in cui un coniuge si sia fatto carico degli impegni familiari rinunciando alle proprie aspettative di lavoro.
L’orientamento della corte di legittimità basato soltanto sull’indipendenza economica del coniuge, violerebbe il principio della solidarietà anche post matrimoniale contenuto nel nostro ordinamento.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione compie un excursus sulle interpretazioni e modificazioni della norma all’indomani della sua emanazione nel 1970.
Dottrina e giurisprudenza hanno sempre attribuito all’assegno divorzile una natura composita: assistenziale, stante il riferimento alle condizioni economiche dei coniugi, risarcitoria, quando si richiamano le ragioni della decisione, compensativa, in relazione al richiamo del contributo personale ed economico dato alla condizione della famiglia e al patrimonio di entrambi.
I criteri erano utilizzati in maniera equivalente dal giudice ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio.
Nel tempo, la funzione dell’assegno si è caratterizzata sempre più come “perequativa”, mirando a colmare lo squilibrio economico che può venirsi a creare con la fine del matrimonio.
Nel 1987, anche a causa del mutamento sociale e del cambiamento del ruolo della donna nella famiglia e nella società, la formulazione della norma è stata modificata introducendo la condizione “dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”.
Con la sentenza a sezioni unite n. 11490/1990, la Cassazione fornì un’interpretazione rimasta costante per circa trenta anni, con cui si affermava che l’assegno di divorzio, dopo la novella legislativa, acquisiva principalmente funzione assistenziale.
Il coniuge aveva diritto all’assegno se il giudice accertava l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (redditi, patrimonio e altro) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto nel corso del matrimonio.
Faceva ingresso, quindi, un parametro, quale il tenore di vita, a cui si ancorava il giudizio di
inadeguatezza ai fini dell’an debeatur dell’assegno, per poi passare alla determinazione del
quantum debeatur utilizzando come parametri gli altri criteri richiamati dalla norma.
La sentenza della prima sezione n. 11504/2017, eliminando il riferimento al tenore di vita, ha posto alla base del giudizio d’inadeguatezza il solo presupposto dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno, rendendo la valutazione degli altri criteri solo eventuale.
Con la pronuncia resa a sezioni unite, la Cassazione precisa che il criterio dell’autosufficienza non può da solo stare alla base del giudizio di fondatezza della domanda di assegno.
Il ruolo del singolo coniuge nella relazione matrimoniale costituisce un fattore importante, frutto di scelte comuni che si fondano sull’autodeterminazione e sull’autoresponsabilità. Tali scelte incidono sul profilo economico-patrimoniale post matrimoniale.
Pertanto, secondo la Corte Suprema, occorre tenere conto del modello di relazione che i coniugi hanno voluto attuare, nel rispetto del principio della pari dignità dei coniugi, di uguaglianza e di libertà di scelta.
Il giudizio di adeguatezza dei mezzi, in sostanza, deve essere rapportato non solo all’insufficienza oggettiva ma anche a quello che si è contribuito a realizzare nella famiglia.
QUESTIONI
La sentenza delle sezioni unite arriva a mitigare un orientamento caratterizzato forse da eccessiva rigidità, che si fondava su un’interpretazione poco in linea col testo di legge e con i principi cardine dell’ordinamento in materia di famiglia.
Il criterio dell’autosufficienza era stato per lo più applicato dai tribunali di merito, ma alcuni di essi avevano messo in luce le carenze della nuova interpretazione, discostandosene (Tribunale di Udine sez. I sentenza del 1° giugno 2017 e Tribunale di Roma sez. I sentenza 21 luglio 2018).
La decisione della Cassazione riporta l’assegno divorzile non più a una funzione meramente assistenziale, ma valorizza il background della coppia e le scelte di vita che sono state compiute congiuntamente dai coniugi.
Procedimenti di cognizione e ADR
Litispendenza e cause pendenti in differenti gradi di giudizio
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Cass., ord., 18 giugno 2018, n. 15981 – Pres. Xxxxxxxx – Rel. Xxxxxxxx
Litispendenza – Pendenza di cause identiche in diversi gradi del giudizio – Sospensione per pregiudizialità della causa successivamente promossa – Inammissibilità (C.p.c. artt. 39, 295, 337)
[1] Qualora una stessa causa venga proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza anche se la controversia previamente instaurata sia già stata decisa in primo grado e figuri radicata davanti al giudice del gravame, senza, correlativamente, possibilità di far luogo alla sospensione del giudizio promosso per secondo.
CASO
[1] La Cassazione ha pronunciato a séguito di regolamento di competenza spiegato contro un’ordinanza con la quale il Tribunale di Messina aveva disposto la sospensione, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., di un giudizio incardinato su due distinte domande proposte dalla curatela di un fallimento avverso, rispettivamente, l’amministrazione comunale della stessa città, per la condanna al pagamento del saldo prezzo di una vendita immobiliare, e un istituto di credito, per la declaratoria di estinzione di un’ipoteca accesa sul complesso immobiliare oggetto della predetta vendita. La sospensione era stata decretata in relazione alla contestuale pendenza in seconde cure, innanzi alla Corte d’appello di Messina, di una causa ove il credito vantato dal fallimento era stato dedotto in via di compensazione avverso una contrapposta pretesa creditoria azionata dal Comune, convenuto nell’altro giudizio, nelle forme dell’insinuazione tardiva al passivo fallimentare ex art. 101 l. fall, (nel testo anteriore alla riforma). Con il regolamento di competenza il curatore fallimentare ha contestato la sussistenza degli estremi della sospensione con riguardo specifico alla causa promossa contro la banca per l’accertamento dell’intervenuta estinzione dell’ipoteca.
SOLUZIONE
[1] La Corte ha accolto il proposto regolamento, osservando che l’accertamento, da parte della Corte d’appello, del credito opposto in compensazione in sede di verificazione del passivo fallimentare non potrebbe in ogni caso generare effetti vincolanti rispetto al giudizio, pendente davanti al Tribunale, ove dibattuta è l’estinzione dell’ipoteca: vuoi per difetto dell’indispensabile coincidenza dell’elemento soggettivo tra le due cause; vuoi per l’estraneità dello stesso credito al novero degli elementi di cui si compone la fattispecie costitutiva
dell’ipoteca in discussione.
A ciò si è aggiunto che, essendosi promossa la causa davanti al Tribunale a mezzo di ricorso ex art. 702-bis c.p.c., necessariamente avrebbe dovuto trovare applicazione il principio per cui, sussistendo le condizioni per far luogo alla sospensione a norma, a seconda dei casi, degli artt. 295 ovvero 337 c.p.c., la stessa non potrebbe essere disposta se non previa conversione del rito – nella specie, evidentemente, mancata -, da sommario in ordinario.
[2] Il giudice di legittimità non si è limitato, però, a quanto sopra, sottoponendo, ancorché non richiesto, al proprio sindacato critico il provvedimento sospensivo impugnato anche nella parte concernente il giudizio sul credito per il saldo prezzo della vendita immobiliare. Tra questa e la causa vertente, in appello, sullo stesso credito, ivi dedotto in compensazione, non intercorre una relazione di pregiudizialità-dipendenza, bensì di identità, non rilevando in senso contrario la circostanza dell’inversione del ruolo processuale delle parti nel passaggio dall’un giudizio all’altro. E questo fa sì che a ricevere applicazione, nella fattispecie, debba essere la disciplina della litispendenza ex art. 39, 1° comma, c.p.c., a ciò non potendosi rinvenire ostacolo nel fatto della pendenza delle due cause in gradi differenti di giudizio, dal momento che anche in tal caso si profila quel rischio di duplicità di giudizi e confliggenti regolamentazioni dello stesso rapporto che soltanto l’eliminazione dalla scena di una delle due cause, e non il suo artificioso mantenimento in vita sebbene nello stato di quiescenza, è in grado di prevenire.
Quale delle due cause vada rimossa, mediante declaratoria della litispendenza e annessa cancellazione dal ruolo, è chiaramente, in forza del criterio di prevenzione di cui a detto art. 39, 1° comma, c.p.c., quella radicata davanti al tribunale: al qual riguardo la Corte ha ritenuto di poter provvedere direttamente e “in prima persona”, senza bisogno di rinviare la causa al giudice di merito, nell’esercizio dei poteri attinenti alla prosecuzione del processo che le sono conferiti dal successivo art. 49, 3° comma.
QUESTIONI
[1] Se la ratio primaria della sospensione per pregiudizialità-dipendenza regolata dall’art. 295
c.p.c. va identificata nella necessità di evitare un conflitto pratico tra giudicati (Cass. 24 giugno 2014, n. 14274, Lavoro nella giur., 2014, 920; Cass. 3 ottobre 2012, n. 16844; X. Xxxxxxxx, voce Sospensione del processo civile. A) Processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 26 s.), è di assoluta evidenza, come la Corte ha ribadito nell’occasione, che tale sospensione possa essere disposta solamente in quanto le parti del processo sulla causa pregiudiziale coincidano con quelle del processo sulla causa dipendente, giacché, diversamente, la sentenza che sarebbe resa all’esito del primo processo non sarebbe opponibile come res iudicata nel secondo (Cass. 11 agosto 2017, n. 20072; Cass. 17 luglio 2015, n. 15094; Cass. 30 giugno 2015, n. 13423; E.T. Xxxxxxx, Manuale di diritto processuale civile, II, 4a ed., Milano, 1981, 189).
Nel solco della communis opinio giurisprudenziale, la presente decisione mostra di mantenersi anche per quanto attiene all’affermata inammissibilità della sospensione ex art. 295 c.p.c. in
sede di procedimento sommario di cui ai successivi artt. 000-xxx xx. (Xxxx. 00 xxxxxxx 0000, x. 00000; Cass., 2 gennaio 2012, n. 3, in Giur. it., 2012, 2326, con note critiche di X. Xxxxxxxxxx e
X. Xxxxxx). L’impostazione non è, peraltro, andata immune da censure in àmbito dottrinale, dove si è posta in luce l’apoditticità di quello che ne rappresenta l’autentico cardine argomentativo, vale a dire l’asserto secondo cui l’accertamento degli estremi di pregiudizialità- dipendenza cui è subordinata nel caso la sospensione non sarebbe mai suscettibile di istruzione sommaria ma richiede lo spiegamento delle forme della cognizione piena proprie del rito ordinario (X. Xxxxxxx, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna, 2013, 480 ss.; X. Xxxxxxxxxx, Della sospensione per pregiudizialità del procedimento sommario di cognizione, in Giur. it., 2012, 2329 s.).
[2] Per lungo tempo la giurisprudenza è rimasta attestata sul principio per cui, pur a fronte di due controversie identiche sul piano oggettivo e soggettivo, non sarebbe comunque consentito procedere alla dichiarazione della litispendenza, potendosi al più far luogo, in sua vece, alla sospensione ex art. 295 c.p.c. allorché si tratti di controversie pendenti in differenti gradi di giudizio (cfr. Cass. 15 dicembre 2011 n. 27018; Cass. 18 aprile 2007, n. 9313; Cass. 18 giugno 2002 n. 8833). Questa posizione è stata però ripudiata dalle Sezioni unite con la pronuncia n. 27846 del 12 dicembre 2013 (in Riv. dir. proc., 2014, 1254), che ne ha denunciato lo stridente contrasto con la lettera dell’art. 39, 1° comma, c.p.c. – secondo cui la litispendenza può essere rilevata «in qualunque stato e grado del processo» – e con la ratio, quale sopra illustrata, che vi è sottesa. Neppure sotto il profilo che si sta ora considerando, dunque, la decisione in commento rappresenta una novità: ma in una ad altre pronunce che parimenti si sono conformate ai dettami delle Sezioni unite, autorizza a parlare di revirement ormai definitivamente acquisito sul punto.
Procedimenti di cognizione e ADR
La nullità dell’atto di citazione nella più recente giurisprudenza
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Abstract: Il presente Focus è dedicato all’analisi delle più recenti pronunce in materia di nullità dell’atto di citazione, procedendo con distinto riguardo ai vizi inficianti la vocatio in ius ovvero l’editio actionis.
1. Come noto, l’art. 164 c.p.c., disciplinante la nullità dell’atto di citazione, è tradizionalmente suddiviso in due parti: l’una, dedicata alle nullità che colpiscono la
c.d. editio actionis, l’altra, a quelle che inficiano la c.d. vocatio in ius.
Quest’ultimo tipo di invalidità, secondo quanto previsto dal primo comma della norma menzionata, si configura nelle seguenti ipotesi: a) omessa o assolutamente incerta indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta, di nome, cognome, residenza o codice fiscale dell’attore, di nome, cognome, codice fiscale, residenza o domicilio o dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono, ovvero, nel caso in cui attore o convenuto sia una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, omessa o assolutamente incerta indicazione della denominazione o della ditta, ovvero dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio; b) omessa indicazione della data dell’udienza di comparizione; c) assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge; d) omesso avvertimento circa le decadenze previste ex lege in caso di tardiva costituzione del convenuto.
A fronte di tali vizi, l’art. 164 c.p.c. prevede differenti alternative, a seconda, anzitutto, che il convenuto si costituisca o meno in giudizio. In caso di mancato costituzione, infatti, il giudice dispone d’ufficio la rinnovazione della citazione che, se eseguita entro il termine perentorio a tal fine assegnato, sanerà il vizio con conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. In caso di avvenuta costituzione del convenuto, questa di regola produce la sanatoria del vizio con salvezza dei menzionati effetti sostanziali e processuali, fatta eccezione per l’ipotesi in cui il convenuto costituito denunci l’inosservanza dei termini a comparire o la mancanza del prescritto avvertimento: in tal caso, infatti, il giudice è tenuto a fissare una nuova udienza per garantire il rispetto dei termini previsti ex lege.
Le nullità che affliggono la editio actionis, viceversa, sono individuate dal quarto comma della norma in due fattispecie, ossia: a) omessa o assolutamente incerta determinazione della cosa oggetto della domanda; b) omessa esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni.
Anche per questa ipotesi, come noto, la norma distingue a seconda che il convenuto si sia
costituito o meno: nel primo caso, il giudice assegnerà all’attore un termine per provvedere alla mera integrazione della domanda; nel secondo, dovrà provvedersi alla rinnovazione dell’atto di citazione. In ogni caso, restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o all’integrazione: in altri termini, la sanatoria di un vizio inerente alla editio actionis – a differenza di quelli che investono la vocatio in ius – ha effetti solamente ex nunc.
2. Con riguardo alle nullità che colpiscono la c.d. vocatio in ius dell’atto di citazione, appare in primo luogo interessante riportare la decisione assunta da Xxxx. Reggio Xxxxxx, 2 settembre 2014 (in xxx.xxxxxx.xx), laddove si è affermato che, in ipotesi di radicale mancanza della vocatio in ius, in tutti i suoi elementi, la nullità da cui è afflitto l’atto di citazione sarebbe insanabile, in quanto non rientrante né nei casi di cui all’art. 164, quarto comma, c,p.c., né nei casi di cui all’art. 164, primo comma, c.p.c.
Con riguardo all’ipotesi di inosservanza del termine di comparizione o di mancanza dell’avvertimento prescritto dall’art. 163, n. 7, c.p.c., Cass., 16 ottobre 2014, n. 21910 ha precisato che l’esclusione della sanatoria della nullità dell’atto di citazione in relazione all’avvenuta costituzione del convenuto – con obbligo per il giudice di fissare nuova udienza nel rispetto dei termini -, suppone una costituzione del convenuto limitata alla sola deduzione della nullità in parola, con esclusione dello svolgimento di altre difese: in tal caso, infatti, si dovrà ritenere verificata la sanatoria dell’atto.
Sempre con riguardo al termine a comparire, poi, si è recentemente rilevato come, in caso di inosservanza del termine predetto, la nullità della citazione non è comunque predicabile allorquando esso termine risulti rispettato per effetto dell’avvenuto differimento dell’udienza di trattazione a norma dell’art. 000-xxx, xxxxxx x xxxxxx xxxxx, x.x.x. (xxxx, Cass., 6 febbraio 2018, n. 2853).
Trattandosi di atto di citazione in appello, la predetta nullità per inosservanza del termine a comparire non può invece dirsi sanata nel caso di costituzione in giudizio di alcuni soltanto degli appellati, dovendosi, per contro, assegnare all’appellante un termine per rinnovare la citazione, onde consentire l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. (Cass., 3 novembre 2016, n. 22279).
Ancora, appare utile ricordare la distinzione tra nullità che investono, appunto, la vocatio in ius dell’atto di citazione da quelle che inficiano la notificazione dell’atto medesimo: rientra nel primo caso – e, dunque, nell’oggetto del presente focus -, la fattispecie della proposizione di una domanda nei confronti di una persona giuridica estinta, e ciò in quanto, in tal caso, non può dirsi neppure instaurato un regolare rapporto processuale (in termini, Cass., 2 febbraio 2018, n. 2647). Tale differenza, come noto, si riflette anche sulle conseguenze che il rilievo dei predetti vizi produce in sede di appello: laddove il vizio rilevato attenga alla vocatio in ius, infatti, non è consentito al giudice di appello rimettere la causa in primo grado ex art. 354
c.p.c. (di nuovo, Xxxx., n. 2647/2018).
Sempre con riguardo alla possibilità per il giudice d’appello di rimettere la causa in primo grado, Xxxx., 12 ottobre 2017, n. 24017 ha escluso, di nuovo, la percorribilità di tale strada nel caso in cui, con l’atto di appello, il convenuto dichiarato contumace in primo grado deduca la nullità della citazione introduttiva di quel giudizio per esservi indicata una data di prima comparizione già scaduta al momento della sua notificazione, atteso, ancora, che tale ipotesi non è assimilabile ai casi tassativamente indicati negli artt. 353 e 354 c.p.c.; in tal caso il giudice di appello sarà tenuto a rilevare che il vizio si è comunicato agli atti successivi dipendenti, compresa la sentenza, e a decidere la causa nel merito, previa rinnovazione degli atti nulli, ad eccezione di quello introduttivo, rispetto al quale l’effetto sanante è stato già prodotto dalla proposizione dell’appello della parte illegittimamente dichiarata contumace in primo grado.
Poiché lo scopo della vocatio in ius è la corretta instaurazione del contraddittorio delle parti – ciò che può dirsi verificato solo nel momento in cui la domanda è portata a conoscenza della parte convenuta – laddove, prima della notificazione dell’atto di citazione intervenga la morte della parte attrice, la conseguente estinzione del mandato conferito al difensore determina la nullità della vocatio in ius e dell’intero eventuale giudizio che ne è seguito, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (Cass., 20 novembre 2017, n. 27530).
Per quanto concerne la sanatoria dei vizi inficianti la vocatio in ius, conseguente alla costituzione del convenuto, Cass., 8 novembre 2017, n. 26473 si è pronunciata in materia di cessione di ramo d’azienda, chiarendo come in tal caso la costituzione in giudizio della cessionaria valga a sanare i vizi della vocatio in ius della società cedente, e ciò in quanto la sanatoria opera indipendentemente dalla volontà del convenuto e a prescindere dalle difese svolte.
Xxxx., 28 marzo 2017, n. 7885 si è poi espressa con riguardo al caso di nullità della vocatio in ius per omessa indicazione della data di udienza di comparizione, precisamente all’interno di un atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo: anche in tal caso la proposizione dell’atto di appello opera quale sanatoria ex tunc del vizio, con la conseguenza per cui il giudice adito, esclusa l’irrevocabilità del provvedimento monitorio, è tenuto a decidere la causa nel merito.
3. Passiamo ora all’analisi delle più recenti pronunce in materia di nullità per inadeguata formulazione della c.d. editio actionis, e dunque di quei vizi che si risolvono nell’omissione o nell’assoluta incertezza circa il petitum o la causa petendi della domanda proposta.
Anzitutto, l’inidoneità della mera costituzione del convenuto a sanare il vizio in esame è stata ribadita da Cass., 23 agosto 2011, n. 17495, che ha ricordato come i vizi riguardanti la editio actionis siano rilevabili d’ufficio dal giudice e, appunto, non possano essere sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto, essendo questa inidonea a colmare le lacune della citazione stessa, che compromettono il suo scopo di consentire non solo al convenuto di difendersi, ma anche al giudice di emettere una pronuncia di merito, sulla quale dovrà formarsi
il giudicato sostanziale; in tali casi, in altri termini, non può farsi applicazione delle regole contenute negli artt. 156, terzo comma, e 157 c.p.c., essendo la nullità in rilievo prevista in funzione di interessi che trascendono quelli del solo convenuto.
Con riguardo alla nullità derivante dall’assoluta indeterminatezza dell’oggetto, interessante è la pronuncia di Trib. Udine, 17 agosto 2015 (in xxx.xxxxxx.xx), laddove tale vizio è stato ravvisato nella fattispecie in cui l’attore, con atto di citazione, si sia limitato a chiedere, genericamente, la declaratoria di nullità di atti negoziali dei quali non risultassero specificati né i contraenti né l’oggetto; il tribunale, in tale occasione, ha altresì precisato che la possibilità di sanare tale vizio, in difetto di un precedente provvedimento giudiziale ex art. 164 c.p.c., permanesse fino all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Ancora, Trib. Torre Annunziata, 12 febbraio 2015 (sempre reperibile su xxx.xxxxxx.xx) ha chiarito quando non possa dirsi sussistente la nullità in esame, e più precisamente quando l’attore, nell’atto di citazione, abbia delineato i fatti costitutivi della propria pretesa in modo sufficiente ad esplicitare l’azione che il medesimo ha inteso proporre, ed in particolare abbia specificato senza incertezze – se non marginali o comunque superabili attraverso l’esame del contenuto complessivo dell’atto introduttivo – petitum e causa petendi della formulata domanda.
Con riguardo, di nuovo, ai limiti di rilevabilità del vizio in questione, la recente Cass., 5 febbraio 2018, n. 2755, ha ribadito come l’eventuale nullità, non sanata, dell’atto introduttivo per motivi attinenti all’editio actionis, risolvendosi in motivo di nullità della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado, ove non sia fatta valere in appello, non può essere dedotta per la prima volta nella fase di cassazione, a causa della intervenuta preclusione derivante dal principio, affermato dall’art. 161 c.p.c., di conversione dei motivi di nullità della sentenza in motivi d’impugnazione.
Esecuzione forzata
Sovraindebitamento e cessione del quinto dello stipendio
di Redazione
Uno dei temi di maggiore attualità in materia di sovraindebitamento del consumatore è costituito dalla opponibilità delle cessioni del quinto dello stipendio.
È noto che la L. 3/2012 concede la possibilità ai soggetti non fallibili, incapaci di ripagare i propri debiti per cause sopravvenute non attribuibili alla loro volontà (quindi, meritevoli), di vedere falcidiati i propri impegni.
Nell’ambito di queste procedure il problema che si pone è se il finanziamento assistito da “cessione di quote di stipendio/pensione” debba essere rimborsato secondo il piano di ammortamento originariamente concordato o possa essere falcidiato.
Con una condivisibile pronuncia, il Tribunale di Pescara (decreto del 16.2.2017, Est. Xxxxxxxxx) ha ritenuto evidente che, quando la L. 3/2012 fa riferimento alla situazione debitoria, richiama “qualunque obbligazione faccia capo ad un soggetto, scaduta o da scadere, relativa ad un contratto avente validità ed efficacia ovvero ad un contratto non più in essere perché ad es. risolto ecc., a cui il predetto non è in grado di far fronte. La normativa sui contratti pendenti propria delle procedure di concordato preventivo e di fallimento non può quindi trovare alcuna applicabilità, neppure in via analogica, alle fattispecie regolate da questa normativa, mancando tra l’altro l’eadem ratio”.
D’altra parte questo si deduce dalla stessa lettera della L. 3/2012, che, all’articolo 7, dice: “Il debitore in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori….”, mentre all’articolo 8 afferma: “La proposta di accordo o di piano del consumatore prevede la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti. ” ; il riferimento allo stato di debitore o alla condizione di
debitore è integrale, senza previsione di alcune eccezione o limitazione.
Il Tribunale di Pescara sintetizza anche le diverse teorie di cui attualmente si dibatte. Secondo una prima, il piano non potrebbe pregiudicare i diritti dei terzi, essendo la cessione stata notificata ritualmente prima della presentazione della domanda ex L. 3/2012 ed essendo quindi inattaccabile da questa. Peraltro il piano, sempre secondo la predetta tesi non potrebbe pregiudicare i diritti dei creditori verso i terzi ed in questo caso il credito avente ad oggetto
il quinto della pensione/stipendio sarebbe, per effetto della notifica della cessione, un credito vantato dalla finanziaria-cessionaria direttamente verso l’ente pensionistico/datoriale e che, come tale, rimarrebbe del tutto salvo ed impregiudicato.
Le obiezioni risultano però superate osservando come “la legge sul sovraindebitamento, a fronte di un oggettivo aumento della popolazione insolvente e del credito al consumo, si ponga l’obiettivo
di ristrutturare integralmente la situazione debitoria del soggetto interessato, evitando, a determinate condizioni, che una persona possa essere inseguita dai debiti tutta la vita ed offrendo alla stessa la cd seconda chance, secondo una prospettiva largamente diffusa negli Stati Uniti d’America, ossia la prospettiva di un pieno reinserimento sociale; neppure va trascurato lo scopo di far diminuire il numero delle procedure esecutive in funzione del miglior funzionamento del settore giustizia”.
Del resto, altri Tribunali, nell’ambito di due delle procedure previste da tale legge, il piano del consumatore(Tribunali di Siracusa e Pistoia) e la liquidazione del patrimonio (Tribunale di Piacenza), hanno sancito la revocabilità dei finanziamenti dietro cessione del quinto e delega di pagamento; in tal modo il debitore si riappropria del suo reddito, o meglio della somma che serve per il sostentamento della sua famiglia, destinando la parte residua ai creditori nel loro complesso, comprese le finanziarie e le banche con le quali aveva stipulato prestiti con cessione del quinto.
Analogamente il Tribunale di Napoli Nord, in composizione collegiale (Decreto 16.05.2018, Pres. Caria, Est. De Vivo), ha rigettato il reclamo proposto da un istituto di credito nei confronti di un consumatore, ribadendo che “il credito ceduto dal lavoratore alla finanziaria è un credito futuro, che sorge relativamente ai ratei di stipendio soltanto nel momento in cui egli matura il diritto a percepire lo stipendio mensile e, per ciò che concerne il TFR, soltanto nel momento in cui cessa il rapporto di lavoro. Tale impostazione appare coerente con i principi generali che governano la disciplina del sovraindebitamento, quali la natura concorsuale del procedimento e la parità di trattamento dei creditori, ciò che induce a ritenere che anche il cessionario del quinto debba essere assoggettato alla falcidia prevista per i chirografari”.
Si tratta di posizioni condivisibili e non soltanto sotto il profilo giuridico. È bene ricordare, infatti, che la L. 3/2012 nasce con una precipua finalità sociale e punta ad offrire una seconda opportunità a coloro i quali hanno contratto debiti allorquando potevano ragionevolmente assolverli e si sono poi trovati, per eventi imprevedibili (di varia natura), a non potere regolarmente adempiere. La norma deve pertanto essere sempre letta ed interpretata con
quel favor debitoris cui il legislatore si è ispirato, al fine di evitare che il piccolo imprenditore, il professionista, l’artigiano o il consumatore in gravi difficoltà economiche si rivolgano
ad usurai senza scrupoli ovvero siano portati a pensare a gesti estremi.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
Obbligazioni e contratti
Il dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza di condizione sospensiva
di Xxxxx Xxxxxxxx
Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 2018, n. 1887 – Pres. Matera – Rel. Scarpa
[1] Contratto sottoposto a condizione – Condizione sospensiva – Condicio iuris – Pendenza della condizione – Dovere di comportamento secondo buona fede – Estensione e limiti (Cod. civ., artt. 1358, 1359, 1375)
[1] Colui che si è obbligato a trasferire un bene sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative ha il dovere di conservare integre le ragioni della controparte, comportandosi secondo buona fede, compiendo, cioè, tutte le attività, che da lui dipendono, per l’avveramento di siffatta condizione, le quali tuttavia non possono implicare il sacrificio dei suoi diritti o interessi, in particolare imponendo l’accettazione del mutamento dell’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto, posto che l’obbligo di buona fede è semplicemente volto ad impedire (e non a provocare) ai contraenti un minor vantaggio ovvero un maggior aggravio economico.
CASO
[1] La controversia decisa dalla Suprema Corte trae origine da un contratto, stipulato tra la società proprietaria di un edificio ed un architetto, che impegnava quest’ultimo ad occuparsi della ristrutturazione del fabbricato verso il corrispettivo costituito dall’attribuzione della proprietà di una parte del medesimo. L’accordo era subordinato alla condizione sospensiva costituita dall’approvazione comunale del progetto di ristrutturazione dell’immobile, la quale era stata rifiutata dalle autorità competenti a causa della difformità del progetto in discorso dalle prescrizioni urbanistiche applicabili. Al fine di ottenere l’approvazione comunale l’architetto aveva allora preparato una variante del progetto, che la società committente si era però rifiutata di sottoscrivere osservando come la stessa comportava una modificazione a suo svantaggio dei termini dell’accordo originario, obbligandola ad attribuire alla controparte una porzione più ampia dell’edificio.
L’architetto aveva quindi deciso di agire in giudizio dispiegando, tra le altre, domanda di risoluzione del contratto e risarcimento del danno per inadempimento della società committente, ma in tutti e tre i gradi del procedimento vedeva rigettare le proprie pretese per una serie di ragioni tra le quali interessa richiamare, in questa sede, quelle prospettate dalla Suprema Corte a conferma della sentenza emessa dalla Corte d’Appello.
SOLUZIONE
[1] Tanto la Cassazione quanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti.
Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002,
n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente.
Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…).
L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.
QUESTIONI
[1] Pur arrivando a formulare una soluzione del caso di specie nella sostanza condivisibile, il ragionamento sviluppato dalla Cassazione si presta ad essere censurato sotto diversi profili.
Alla pronuncia può essere innanzitutto rimproverato un utilizzo inappropriato nonché contraddittorio di alcune fondamentali nozioni in tema di pendenza della condizione.
Dopo avere constatato il mancato avveramento della condizione sospensiva e la conseguente inefficacia del contratto sottoposto alla loro attenzione, gli ermellini hanno invero ritenuto che il successivo comportamento della società committente, relativo al rifiuto di sottoscrivere la variante progettuale preparata dall’architetto, dovesse essere vagliato alla luce del dovere di comportamento secondo buona fede di cui all’art. 1358 c.c. Questa norma, tuttavia, si riferisce espressamente alla fase di pendenza della condizione, la quale notoriamente termina nel momento in cui si constata che l’evento dedotto in condizione ha avuto luogo oppure non si è verificato (si tratta di nozione istituzionale: v., per tutti, Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 48a ed., Padova, 2017, p. 156): l’applicazione dell’art. 1358 c.c. prospettata da Cass. n. 1887 del 2018 è, quindi, da un lato scorretta perché riferita ad una situazione che fuoriesce dal perimetro applicativo della norma, dall’altro contraddittoria in quanto gli stessi giudici avevano precedentemente – e senza dubbio correttamente – preso atto del mancato avveramento della condizione sospensiva che aveva segnato la conclusione della fase di pendenza. Per spiegare il grossolano errore in cui è incorsa la Suprema Corte si può immaginare che la stessa sia stata tratta in inganno dal fatto – comunque mai menzionato nella pronuncia – che l’approvazione comunale del progetto di ristrutturazione edilizia non era definitivamente preclusa alle parti e poteva ancora essere raggiunta tramite una modifica del progetto stesso; quanto appena rilevato però non toglie che l’evento dedotto in condizione fosse costituito dall’approvazione del primo progetto presentato e che tale specifico evento non si fosse verificato, mettendo così fine allo stadio di pendenza della condizione apposta al negozio dai contraenti.
Lungi dal poter essere vagliato alla luce del disposto dell’art. 1358 c.c., il rifiuto della società committente di sottoscrivere la variante progettuale preparata dalla controparte era pertanto intervenuto in un momento nel quale il mancato avveramento della condizione sospensiva aveva fatto sì che il contratto fosse ormai divenuto definitivamente inefficace e, come tale, inidoneo a produrre qualsivoglia obbligo in capo alle parti: ed è per questa ragione, anziché per la non contrarietà al dovere di correttezza pendente condicione di cui all’art. 1358 c.c., che
il rifiuto in parola doveva quindi essere considerato legittimo.
Un secondo profilo della pronuncia che appare poco convincente è, poi, quello relativo alle disposizioni normative – l’art. 1358 c.c., come visto – alle quali essa fa riferimento per disciplinare la condotta delle parti diretta ad ostacolare il verificarsi della condizione contrattuale.
L’impostazione tradizionalmente sostenuta dalla giurisprudenza e dalla parte prevalente della dottrina rinviene la disciplina in parola negli artt. 1358 e 1359 c.c.: il dovere di correttezza sancito dal primo impone alle parti del contratto condizionato di non influire sull’evento condizionale impedendone la verificazione nel proprio interesse e il secondo – ai sensi del quale la condizione si considera in tal caso avverata – esprime, sotto forma di finzione giuridica, la sanzione per la violazione dell’obbligo dettato nella norma precedente (v., fra i tanti, Xxxxxxxxx, La finzione di avveramento della condizione, Padova, 1994, p. 86 ss.; Xxxxx, Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di Xxxxxx e Xxxxx, 2a ed., Milano, 2011, p. 594; Xxxxxxx, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Xxxx e Messineo, 2a ed., Milano, 2002, p. 162 s., 520; Maiorca, voce Condizione, in Digesto, disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, p. 313; Xxxxxxxx, Il paradigma della condizione e le dinamiche negoziali, Napoli, 2016, p. 276 ss.). Questa impostazione è particolarmente radicata soprattutto nella giurisprudenza, tanto che per rintracciarla è non di rado necessario non fermarsi alla massima e procedere alla lettura della motivazione delle pronunce (ex multis, v., per tutte, Cass., 28 marzo 2014, n. 7405, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 862 ss., con nota di Las Casas, Potestatività della condizione e qualificazione dei comportamenti strumentali all’avveramento). Secondo un indirizzo dottrinale, tra l’altro, la questione della legittimità del comportamento di una parte, relativo al (mancato) avveramento di una condizione contrattuale, verrebbe in realtà disciplinata solamente dall’art. 1359 c.c. ed esulerebbe dalla sfera applicativa dell’art. 1358 c.c., il quale si riferirebbe invece (e soltanto) alla tutela delle prestazioni costituenti l’oggetto del contratto condizionato durante la pendenza, imponendo ai contraenti l’obbligo di disporne tenendo in debita considerazione la possibilità che ciò di cui si ha la disponibilità pendente condicione finisca per spettare alla controparte nel caso di verificazione dell’evento condizionante (v., anche per ulteriori citazioni di dottrina conforme, Xxxxxxxx, Il dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale, Padova, 2006, p. 4 ss.; Id., Il fondamento e il campo di applicabilità della finzione di avveramento della condizione, in Obbl. contr., 2007, p. 633 ss.; Resti- vo, Note critiche sul ruolo della regola di buona fede nella disciplina della pendenza della condizio- ne, in Giur. it., 2006, p. 1147; Las Casas, op. cit., p. 869 ss.).
Ciò considerato, allora, non può non sorprendere il fatto che la sentenza in esame, pur affermando di doversi occupare di un problema di valutazione di conformità rispetto all’art. 1358 c.c. del comportamento di una delle parti concernente la (mancata) verificazione dell’evento dedotto ad oggetto di una condicio iuris, non contenga alcun riferimento alla finzione di avveramento.
Questa singolarità potrebbe forse essere dovuta al fatto che i giudici, pur senza esplicitare questo passaggio del proprio ragionamento, abbiano tenuto conto del diffuso orientamento
che – osservando come non si possa sostituire un provvedimento amministrativo con l’equipollente costituito da una mera finzione, oltretutto finalizzata alla tutela di un interesse di carattere privato – esclude l’applicabilità dell’art. 1359 c.c. alle condizioni legali costituite da un atto della pubblica amministrazione e alla controparte delusa dall’inefficacia del negozio sospensivamente condizionato riconosce, in questi casi, il diritto di pretendere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno subito (v., fra le tante, Xxxx., 16 novembre 1960, n. 3071, in Giust. civ., 1961, I, p. 237 ss.; Cass., 11 novembre 1967, n. 2718, in Giur. it.,
1968, I, 1, c. 1375 ss.; Cass., 4 aprile 1975, n. 1204, in Foro it., 1975, I, c. 1990 ss.; Cass., 5 febbraio 1982, n. 675, in Rep. Giur. it., 1982, voce Obbligazioni e contratti, n. 317; Cass., 10 marzo 1992, n. 2875, in Giust. civ., 1992, I, p. 373 s.; Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 3
aprile 1996, n. 3084, in Giust. civ., 1996, I, p. 2259 ss.; Cass., 22 marzo 2001, n. 4410. Nello stesso senso v., in dottrina, Xxxxx, op. cit., p. 599 s.; C.M. Xxxxxx, Diritto civile, 3, Il contratto, 2a ed., Milano, 2000, p. 556, 563; Sacco e De Nova, Il contratto, 4a ed., Torino, 2016, p. 1089).
La dottrina e la giurisprudenza più attente hanno peraltro evidenziato come l’impostazione testé riferita non possa valere per tutti i casi, in quanto la polisemia dell’espressione “condicio iuris” impone di distinguere, ai fini dell’applicazione dell’art. 1359 c.c., fra due ordini di ipotesi: quelle in cui il provvedimento amministrativo è requisito legale di efficacia dell’atto privato, nelle quali la finzione di avveramento della condizione deve senz’altro ritenersi inoperante per le ragioni anzidette (si pensi, per esempio, alle varie forme di approvazione ed autorizzazione alle quali la legge subordina l’efficacia dei contratti stipulati dagli enti pubblici); e quelle in cui, pur discorrendosi di condicio iuris, il provvedimento amministrativo viene dedotto dalle parti ad oggetto della condizione sospensiva apposta ad un negozio che in realtà può dispiegare i propri effetti sul piano civilistico anche senza che quel provvedimento venga rilasciato, nelle quali l’art. 1359 c.c. può allora trovare spazio proprio al fine di vedere quegli effetti realizzarsi a tutela della parte che preferisca questa soluzione all’accoppiata dei rimedi risolutorio e risarcitorio (al riguardo v., anche per ulteriori citazioni di dottrina conforme, Xxxxxxxx, op. cit., p. 328 ss.; Xxxxxxx, op. cit., p. 149 s.; Xxxxx, L’art. 1359 cod. civ. ed il suo ambito oggettivo di applicazione, in Nuova giur. civ., 2011, I, p. 47 ss.; per la giurisprudenza v., in particolare, Cass., 27 febbraio 1998, n. 2168, in Contr., 1998, p. 553 ss., con nota di Avondola, Condizione legale e applicabilità dell’art. 1359 c.c.). Si pensi, per fare un esempio, alla compravendita di un terreno subordinata al rilascio della relativa concessione edilizia: in questo caso, dare spazio all’operatività della finzione di avveramento di cui all’art. 1359 c.c. servirà a riconoscere il prodursi del trasferimento del diritto di proprietà sul terreno dal venditore all’acquirente che sia comunque interessato a tale esito, pur rimanendo egli
sprovvisto del diritto di edificare – che evidentemente non sorgerà per effetto dell’art. 1359 c.c.
– sul terreno in discorso.
Proprio a questa seconda tipologia di casi appartiene la fattispecie sulla quale si è pronunciata Cass. n. 1887 del 2018, posto che l’approvazione comunale del progetto di ristrutturazione dell’immobile non costituiva requisito legale dell’operatività degli effetti dell’operazione negoziale divisata dalle parti ed era stata dalla volontà di queste ultime dedotta in condizione sospensiva: laddove fosse stata accertata la sussistenza dei presupposti per l’operatività dell’art. 1359 c.c., quindi, la finzione di avveramento della condizione ben avrebbe potuto
operare anche con riguardo alla condizione di cui si discuteva nella vicenda giudiziaria in esame.
Proprietà e diritti reali
La quantificazione del danno da indennità di occupazione dell’immobile nel caso di convivenza more uxorio
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Tribunale civile di Firenze, Sez. II^, 7.11.2017, n.3558, dott.ssa Xxxxxx
Quantificazione del danno – Indennità di occupazione dell’immobile – Convivenza more uxorio – Fittizia intestazione del bene ad uno solo dei due conviventi – Negozio fiduciario
In relazione alla pretesa risarcitoria dell’attore per il mancato godimento dell’immobile, questo Xxxxxxx ritiene che, nel caso di specie, venga in rilievo un danno in re ipsa, individuabile, di per sé, nella perdita della disponibilità del bene da parte del dominus, così come nell’impossibilità, per questi, di conseguire l’utilità anche solo potenzialmente ricavabile dal bene medesimo, in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso.
CASO
Per mere esigenze fiscali, in regime di convivenza more uxorio, uno dei conviventi intesta l’intera proprietà dell’immobile all’altro, anche se il prezzo per l’acquisto del ben risulta essere stato corrisposto nella misura del 50% cadauno; contestualmente, a garanzia del versamento del prezzo, il convivente non intestatario, ottiene dall’altro una contestuale dichiarazione (negozio fiduciario) con la quale l’intestatario del bene immobile si obbliga a ritrasferire il 50% della proprietà al convivente, a semplice richiesta.
Cessata l’affectio, il convivente non proprietario, su richiesta dell’altro, è costretto a lasciare l’immobile, nel quale rimane la convivente stessa; tuttavia quest’ultima non adempie “il patto”, ossia l’obbligo di ritrasferire a prima richiesta il 50% della proprietà del bene all’altro convivente, venendo meno agli obblighi di cui al negozio fiduciario e contestando la validità dell’accordo fiduciario.
SOLUZIONE
Dopo un lungo iter giudiziario, che vede come prodromico l’accertamento con passaggio in giudicato delle vicende inerenti la proprietà del bene e la validità dell’accordo fiduciario, Il Tribunale di Firenze accoglie le richieste risarcitorie del convivente non intestatario del bene costretto a lasciare l’immobile, accerta e quantifica il danno da quest’ultimo subito per effetto del mancato godimento del bene, modulando ai criteri propri delle principali pronunce di legittimità sulla materia del risarcimento dei danni da indebita occupazione dell’immobile, in
particolare tenendo conto del valore locativo del bene. QUESTIONI
Il punto di partenza per accertare l’esistenza di un danno ed arrivare alla necessaria quantificazione dello stesso, risulta essere la pacifica circostanza che uno dei due conviventi abbia avuta la piena ed esclusiva disponibilità di un bene di cui non era proprietario a discapito dell’altro e contro la volontà di quest’ultimo e dall’altra che in base alla comune esperienza, deve ritenersi che l’immobile sarebbe stato oggetto di un’utilizzazione fruttifera, mediante, ad esempio, la sua locazione, facendo uso delle presunzioni, ai fini probatori.
In effetti, il Tribunale giunge alla pacifica conclusione dell’esistenza di un danno risarcibile, per il mancato godimento dell’immobile, facendo applicazione degli istituti: del danno in re ipsa, come indicato nella massima, alla configurazione del c.d. “danno conseguenza”, di cui alle Sezioni Unite del 11.11.2008 n.26972 ed infine al “danno figurativo”, inteso quale valore locativo del cespite abbandonato, richiamando Xxxx. Civ. 649/00; 1373/99; 1123/98).
Il Tribunale ancora la propria decisione all’oramai pacifico principio espresso dalla Suprema Corte per il quale: “il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti, frutti che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono – solo in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione – essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile” (in tal senso sentenza Cass. del 5 settembre 2013, n. 20394 che richiama Xxxx. nn. 7881/11 e 7716/90, entrambe pronunciate in ipotesi di giudizio di divisione).
Risulta iniquo immaginare che una volta definita pacificamente e con passaggio in giudicato, l’accertamento della quota di comproprietà di un bene immobile in capo ad uno dei due comproprietari, quest’ultimo possa essere escluso tout court da ogni “beneficio” e/o vantaggio derivante dall’essere titolare di un diritto reale, tanto più che l’estromissione dal bene (rectius: rilascio) per effetto della cessazione della convivenza, interveniva contro la propria volontà.
In altri termini, la Cassazione, facendo propri i principi della dottrina di autorevoli precedenti di legittimità, valorizza la “titolarità del diritto reale”, ritenendo iniquo che colui che sia privato
– contro la propria volontà – dell’utilizzo del bene, possa rimanere privo di tutela, in questo caso: indennitaria/risarcitoria.
Pur arrivando alla precisa definizione di una quota consistente di danni riconosciuti in capo al convivente non intestatario del bene immobile, commisurata ad un apprezzabile lasso di tempo nell’occupazione abusiva del bene immobile e determinati attraverso l’ausilio di CTU sul valore locativo del bene, tuttavia il Tribunale, in perfetta aderenza ai principi della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ. 11629/99).ha escluso la domanda di risarcimento
danni per danno emergente e lucro cessante; la domanda di risarcimento dei danni per le spese di mutuo finalizzato all’acquisto di altro immobile, per carenza di immediata e diretta consequenzialità del contraente inadempiente, ritenendo non sussistere nel caso de quo gli estremi applicativi tipici dell’articolo 1223 c.c..
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Sovraindebitamento: il fideiussore può essere considerato “consumatore”
di Redazione
Il Tribunale di Padova apre al fideiussore-consumatore. Si tratta di un arresto importante (sentenza 27 giugno 2018) reso nell’ambito di un giudizio civile, che può essere utilmente applicato anche in tema di sovraindebitamento.
Nel caso di specie, un istituto di credito ha ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti del debitore principale e dei garanti.
Nel costituirsi in giudizio la parte opponente ha eccepito l’incompetenza territoriale del tribunale per avere residenza in territorio ricadente sotto la competenza territoriale del Tribunale di Rovigo, invocando l’applicazione del foro del consumatore in forza del principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia Europea con le decisioni nn. 74 e 534 del 2015; la giurisprudenza comunitaria infatti ha riconosciuto la prevalenza del foro del consumatore anche per il caso in cui soggetti privi di collegamento patrimoniale con la società abbiano rilasciato una garanzia per la medesima.
La banca, parte opposta, nel costituirsi in giudizio ha valorizzato il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione (Ordinanza n. 24846 del 05.12.2016) secondo cui, in presenza di un contratto autonomo di garanzia, è all’obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo della qualità di consumatore ai fini dell’applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore anche in punto di competenza, in quanto, pure in tale evenienza, come nel contratto di fideiussione, l’obbligazione del garante è funzionale rispetto a quella garantita.
Il Tribunale di Padova, nello stralciare le posizioni dei garanti al fine di definire un giudizio autonomo, ha dato loro ragione.
È stato preliminarmente osservato che anche sotto il profilo della gerarchia delle fonti e di supremazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, i principi affermati, già nel 2015, dalla Corte di Giustizia Europea appaiono travolgere anche il dictum espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Ordinanza n. 24846/2016) poiché appare inidonea una sentenza del giudice del singolo stato membro a superare un principio di portata generale affermato dalla Corte di Giustizia che, pur in un sistema di civil law, qual è quello interno e comunitario, vede attribuire alle decisioni della Corte di Giustizia una forza cogente più simile a quanto accade nei sistemi a common law.
Il caso all’esame della Corte di Giustizia nella causa 534/2015 è stato infatti risolto confermando l’orientamento espresso nell’ordinanza della Corte di Giustizia del 19 novembre 2015, la quale si è pronunciata anch’essa sul tema dell’applicabilità alla fideiussione delle leggi sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori.
La Corte ha chiarito come sia del tutto irrilevante l’oggetto del contratto ai fini dell’applicabilità della tutela del consumatore al garante-fideiussore, negando che la nozione di “consumatore” o di “professionista” potesse essere assegnata soltanto sulla base del rapporto di accessorietà con il contratto “garantito”.
Tale criterio corrisponde all’idea sulla quale si basa il sistema di tutela istituito dalla Direttiva UE 93/2013, ossia che il consumatore si trova in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il livello di informazione.
Tale situazione di inferiorità può ben rintracciarsi anche nell’ipotesi di un contratto di garanzia, stipulato tra una banca ed alcuni garanti-persone fisiche.
Ciò che rileva è l’accertamento, nel merito, della qualità in cui i fideiussori hanno agito stipulando la garanzia personale.
In altri termini, la Corte di Giustizia europea ha precisato che la nozione di consumatore, ai sensi dell’articolo 2, lett. b), Direttiva UE 93/2013, ha un carattere oggettivo.
Essa va determinata alla luce di un criterio funzionale consistente nel valutare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito di attività estranee alla professione.
Nel costituirsi in giudizio la banca non ha dedotto o dimostrato che le due garanti avessero un interesse economico specifico al rilascio della fideiussione omettendo di contestare la circostanza, evidenziata dalle attrici, di non essere mai state socie della società per cui avevano prestato la garanzia, evidentemente, solo in forza di un rapporto parentale o affettivo con i soci della stessa.
In ogni caso, la banca non ha fornito una prova di quale fosse il collegamento che potesse ritenere superata la natura di consumatore delle due garanti così che si è ritenuto necessario dare atto che le stesse risiedono in un comune (Masi) che, pur essendo nella provincia amministrativa di Padova, rientra nel territorio di competenza del Tribunale di Rovigo.
Alla luce di ciò è stata affermata la competenza territoriale del Tribunale di Rovigo quale foro del consumatore ed il decreto ingiuntivo è stato revocato.
Questo importante principio comunitario, ribadito a chiare lettere dal Tribunale di Padova, può riverberare effetti importanti in tema di sovraindebitamento.
Ad oggi, dopo il ben noto arresto della Cassazione, sentenza n. 1869/2016, i giudici di merito si sono pronunciati in modo non sempre univoco.
Alcuni Tribunali hanno negato la possibilità di accedere al piano del consumatore a soggetti che hanno prestato fideiussione in favore di imprenditori, facendo prevalere la natura del soggetto garantito piuttosto che quella di consumatore di colui che ha sottoscritto il contratto di fideiussione.
In altri casi i giudici hanno posto delle condizioni, facendo rientrare nel novero dei consumatori i debitori che avevano garantito obbligazioni di imprenditori a condizione che la prestazione di tale fideiussione non fosse caratterizzata da indici di futuro insuccesso così certi da escludere il presupposto della meritevolezzarichiesto per l’accesso del garante alla procedura di composizione della crisi (Tribunale di Rovigo, decreto 13 dicembre 2016); ovvero nel caso in cui la crisi da sovraindebitamento era stata originata dalla scelta di prestare fideiussione ad un mutuo contratto dal coniuge per importi sproporzionati alle proprie sostanze (Tribunale di Torre Annunziata, decreto del 12.12.2016).
Di converso, c’è chi ha ritenuto che l’accumulo da parte del sovraindebitato di debiti volti a ripianare l’attività imprenditoriale del coniuge non vale a configurare in capo a questi la qualifica di imprenditore non essendovi riflessi diretti su un’attività imprenditoriale propria, per cui il sovraindebitato è consumatore ai sensi dell’articolo 6 X. 0/0000 ( Xxxxxxxxx xx Xxxxxx Xxxxxx, decreto 19 novembre 2016).
Adesso il Tribunale di Padova offre un altro elemento convergente verso la qualità di consumatore in capo al garante; circostanza che apre le agevolazioni della L. 3/2012 in tema di sovraindebitamento ad una ulteriore (ampia) platea di debitori.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Sovraindebitamento: l’insostenibile durata del piano del consumatore
di Redazione
Acque chete e tempi lunghi in riva al Lago. Con una argomentata e convincente decisione
il Tribunale di Como ha omologato un piano del consumatore con dilazione a 20 anni (decreto 24 maggio 2018, Est. Xxxxxxxx).
Invero, in assenza di un univoco dato normativo che stabilisca in maniera chiara il perimetro temporale nel quale si debbono snodare le procedure di sovraindebitamento, non può che supplire – si legge nella pronuncia del Tribunale di Como – l’interpretazione giurisprudenziale del dato normativo, che presuppone, muovendosi nel tracciato dei principi di rango costituzionale, il bilanciamento di contrapposti interessi di rango costituzionale (la ragionevole durata dei procedimenti nonché la effettività della tutela giurisdizionale).
Sulla materia si sono formati due orientamenti giurisprudenziali.
Il primo che, nell’ammettere procedure di sovraindebitamento di durata anche assai rilevante, non ha mancato di sottolineare la ratio della L. 3/2012, dando maggiore rilevanza al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti del consumatore sovraindebitato, mentre l’altro ha inteso individuare il limite di siffatta tutela nell’ancora più generale (in quanto involgente un interesse collettivo) principio della ragionevole durata delle procedure giudiziarie.
Il primo orientamento ha ritenuto di ammettere piani del consumatore con dilazioni anche di 20, 25 o 30 anni(Tribunale di Catania, decreti del 27.4.2016, 17.5.2016, 24.5.2016,
12.7.2016, 15.9.2016) ovvero di 18 anni(Tribunale di Napoli decreto 28.10.2015) o di 10 anni (Tribunale Napoli, decreto 18.2.2017).
I parametri presi in considerazione da tale impostazione sono stati quelli
i tempi di rateazione nelle imposte erariali (di 72 o 120 rate) e
l’età del debitore, rapportata alla vita media degli uomini (79,3) o delle donne (84,6).
In particolare, nei casi affrontati, i debitori risultavano proprietari di immobili, destinati a casa familiare e non inseriti nel piano del consumatore tra i beni da mettere a disposizione dei creditori, ritenendo di salvaguardare le esigenze abitative degli interessati e perseguendo, così, quel fine sociale cui la L. 3/2012 tende.
Inoltre, in tali pronunce si è rilevato che la stagnazione del mercato immobiliare, le difficoltà di conseguire prezzi di vendita congrui in tempi accettabili e, non ultima, la considerazione che le risorse dei debitori sarebbero state penalizzate dall’esigenza di affittare un’abitazione con evidente decremento di quelle disponibili per i creditori, inducono a ritenere non utilmente praticabile l’alternativa liquidatoria.
Il secondo orientamento ha invece negato l’ammissibilità del piano nei casi di termini di pagamento di 8 anni(Tribunale Pistoia, decreto 28.2.2014), di 12 anni (Tribunale di Ravenna, decreto 10.3.2017), di 15 anni(Tribunale di Monza, decreto 2.4. 2014), di 40 anni (Tribunale di
Pisa, decreto 05.7.2017).
Alcuni Tribunali si sono determinati ad ammettere le procedure ponendo un tempo massimo di ora 3 ora 5anni (Tribunale di Rovigo, 13.12.2016; Tribunale di Milano, 27.11.16) ora 7 anni, prendendo a parametro di riferimento le indicazioni della Cassazione (n. 8468/2012) o dall’articolo 2, comma 2 bis, L. 89/2001 (Xxxxx Xxxxx) che garantisce una ragionevole durata del procedimento quantificandola in misura massima di sei anniper le procedura concorsuali.
Il Tribunale di Como ritiene che non sia possibile optare per una aprioristica adesione all’uno od all’altro dei citati orientamenti, senza tenere in debita considerazione i caratteri peculiari e le specificità di ogni singola proposta di sovraindebitamento, atteso che, da un lato, proprio tale lettura è necessitata dalla stessa ratio della L. 3/2012, ispirata all’esigenza di matrice comunitaria di tutelare l’impresa e il consumatore attraverso strumenti di risoluzione della crisi o dello stato di sovraindebitamento, riconoscendo un’altra “chance”; e dall’altro solo tale lettura è idonea a rendere realmente effettivo lo speciale strumento di tutela ideato dal legislatore.
Nel caso trattato, il piano del consumatore si fondava su una proposta dilazione del credito residuo ancora vantato da un istituto di credito per l’acquisto di un immobile destinato ad abitazione principale del debitore, con una rateazione di 20 anni, offrendo ai creditori il pagamento della complessiva somma di euro 125.000, quale capitale residuo con tasso di interesse fisso del 2,30% annuo, e con una rata mensile costante di euro 650,27, a fronte del valore stimato dell’immobile, già oggetto di procedura esecutiva immobiliare, di euro 125.108,00 (con prezzo base stimato per il primo esperimento di vendita, applicata la riduzione forfetaria del 15%, in euro 106.341,80).
La banca si era opposta alla omologa del piano lamentando essenzialmente la irragionevole durata della procedura, articolata in 20 anni.
Tuttavia il Tribunale di Como non ha accolto le osservazioni dell’istituto di credito sostenendo che il mutuo in questione fu contratto nel luglio 2007: la
prospettata durata risulta compatibile con la natura giuridica del rapporto negoziale sottostante (mutuo fondiario) che secondo la prassi bancaria raggiunge tempistiche anche di molto superiori a quelle indicate nel piano del consumatore in esame.
Dall’altro lato, sottolinea il Tribunale, il debitore ha offerto al creditore l’esatto valore del
credito residuo ancora vantato dall’istituto di credito (125 mila euro, oltre interessi al 2,30%), ed addirittura una somma presumibilmente superiore a quella in ipotesi ritraibile dalla procedura esecutiva (anche in caso di vendita al primo esperimento, fissato al prezzo base di perizia di euro 106.341,80), atteso che costituisce ormai un fatto notoriamente apprezzabile in termini statistici quello che gli utenti che si indirizzano verso il mercato delle vendite esecutive immobiliari usufruisce in maniera massiva della facoltà prevista dalla legge all’art. 571, II co. c.p.c., di offrire un corrispettivo ridotto fino ad un quarto rispetto al prezzo base, quale offerta minima ammissibile.
Senza considerare che in caso di allocazione sul mercato dell’immobile non al primo esperimento di vendita, ma, secondo il dato statistico medio delle procedure esecutive immobiliari registrato presso la sezione esecuzioni immobiliari del Tribunale di Como,
negli esperimenti di vendita successivi, il valore di realizzo dell’immobile sarebbe insufficiente a garantire il soddisfacimento dell’intero credito, che invece nella proposta di piano del consumatore, è assicurato.
Diviene pertanto nel caso di specie non appagante, e dannoso per gli stessi interessi dei creditori, dilungarsi sull’attuale dibattito giurisprudenziale in ordine alla individuazione in astratto di un termine assoluto, da individuare quale parametro fisso rispetto al quale vagliare la meritevolezza delle procedure di sovraindebitamento, dovendosi invece preferire
una ponderata valutazione sulla singola fattispecie.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
Procedimenti di cognizione e ADR
Sul valore probatorio del messaggio di posta elettronica ordinaria: ora la Cassazione opta per l’art. 2712 c.c.
di Xxxxxx Xxxxxxxxxx
Cass. civ., Sez. VI – 2, ord., 14 maggio 2018, n. 11606 – Pres. Manna – Rel. Scarpa
Processo civile – Prove – Documentali – Posta elettronica ordinaria – Valore (cod. civ., art. 2712; d.lg. 7.3.2005, n. 82, artt. 1 e 20; regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 23.7.2014, artt. 3 e 25)
[1] Nei procedimenti giudiziari civili il messaggio di posta elettronica ordinaria è un documento informatico non firmato, costituente piena prova dei fatti e cose ivi rappresentati ove colui contro il quale la e-mail è prodotta non ne disconosca la conformità ai fatti e cose medesimi.
CASO
[1] La società Alfa proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo, col quale il Tribunale di Milano le aveva intimato di pagare il prezzo di una fornitura di merce eseguita dalla società Beta, e successivamente impugnava dinanzi alla Corte d’Appello del capoluogo lombardo la sentenza che, preso atto dell’intervenuta corresponsione di un acconto, l’aveva condannata al versamento della differenza (oltre interessi e spese).
Il Collegio di II grado respingeva il gravame, ritenendo che il contratto fra gli odierni contendenti ed il credito azionato in via monitoria da Beta fossero dimostrati dai messaggi di posta elettronica ordinaria (d’ora in poi anche, per brevità, “e-mail”) scambiati dai rappresentanti delle due società e non contestati quanto a contenuto e provenienza.
L’assunto veniva censurato dinanzi alla Suprema Corte sotto i profili della violazione degli artt. 115/116 c.p.c. e 2697 cod. civ., nonché del vizio di motivazione, Alfa rimproverando ai giudici di seconde cure un’erronea applicazione delle regole vigenti in materia di prova e distribuzione del relativo onere.
SOLUZIONE
[1] La Cassazione ha rigettato tali doglianze (e più in generale il ricorso) per manifesta infondatezza (e parziale inammissibilità), osservando che:
ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera p), del d.lg. 7.3.2005, n. 82 (cd. codice
dell’amministrazione digitale, infra anche “CAD”), la e-mail costituisce un documento informatico – ossia un “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”, come tale rientrante nella categoria delle riproduzioni meccaniche (specificamente, appunto, informatiche) di fatti e cose, disciplinate dall’art. 2712 del codice civile;
di conseguenza, la e-mail – pur priva di firma – forma piena prova dei fatti o cose ivi rappresentati, in mancanza di disconoscimento di conformità operato da colui contro il quale essa è prodotta.
QUESTIONI
[1] Con l’ordinanza in commento il Supremo Collegio torna ad affrontare – a distanza di un paio di mesi da altre due pronunce (Cass. civ., Sez. Lav., 15.3.2018, n. 6425, e 8.3.2018, n. 5523)
– il tema dell’efficacia probatoria del messaggio di posta elettronica ordinaria (non certificata), giungendo a conclusioni non del tutto conformi rispetto a detti precedenti; invero:
nelle sentenze di marzo del corrente anno la Sezione Lavoro, dopo aver negato alla e- mail la natura di scrittura privata ex 2702 c.c., ha per tale motivo dedotto la non riferibilità del messaggio al suo apparente autore, oltre ad affermare – sulla scorta del comma 1-bis dell’art. 20 del CAD – che il giudice è libero di valutare l’idoneità di detto documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta avuto riguardo alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità;
il provvedimento oggi in esame, invece, fa discendere dal mancato disconoscimento della controparte la piena valenza probatoria del documento informatico, sul piano della veridicità di quanto enunciato nella e-mail e della riconducibilità della medesima
a chi vi figura quale xxxxxxxx, senza – per quel che sembra – riservare al giudice margini di discrezionalità o svincolo (con sostanziale coincidenza tra il concetto di “piena
prova”, sancito dall’art. 2712 c.c., e quello di prova legale).
A sommesso avviso di chi scrive, va intanto chiarito che – ferma restando l’esattezza della classificazione della e-mail in termini di documento informatico – deve essere corretta l’opinione secondo cui il messaggio di posta elettronica ordinaria non sarebbe firmato: se, a norma dell’art. 3 n. 10 del regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.7.2014 (cd. regolamento eIDAS, in vigore dal 1° luglio 2016 e, come noto, direttamente applicabile anche in Italia), per “firma elettronica” si intende “un insieme di dati in forma elettronica, acclusi oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici e utilizzati dal firmatario per firmare”, allora anche la e-mail è – grazie alle cd. credenziali ( username e password) – munita di firma elettronica.
Ciò puntualizzato, è d’obbligo aggiungere che “Il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del codice civile quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, è formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID ai sensi dell’articolo 71 con modalità tali da garantire la
sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore.” (art. 20, comma 1-bis, CAD); ora, poiché la e-mail non è corredata da firme avanzate o qualificate (né digitali) e l’Agenzia per l’Italia digitale non risulta aver emanato le linee-guida previste dal citato art. 71 del codice dell’amministrazione digitale, trova applicazione il principio (dettato dal secondo periodo del summenzionato art. 20) in base al quale “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità.”.
Come risolvere il conflitto tra la disposizione testé ricordata e quella dell’art. 2712 del codice civile ?
I canoni ermeneutici della posteriorità (il sopra riportato testo del comma 1-bis dell’art. 20 CAD è stato introdotto dall’art. 20, xxxxx xxxxxx, lett. a), del d.lg. 13.12.2017, n. 217, mentre la modifica dell’art. 2712 c.c. è stata inserita dall’art. 162 del d.lg. 30.12.2010, n. 235) e della specialità (il documento informatico è una sottocategoria delle riproduzioni informatiche ex art. 2712 c.c.) conducono a ritenere che, anche in assenza di disconoscimento della controparte, il magistrato possa disattendere le risultanze della e-mail prodotta in causa e/o di negarle la forma scritta: convincimenti, questi, esprimibili peraltro solo con adeguata e convincente motivazione, giacché – ai sensi dell’art. 25, comma 1, del regolamento eIDAS – “A una firma elettronica [tale è quella di cui è munita ogni e-mail, come si è visto, n.d.r.] non possono essere negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica o perché non soddisfa i requisiti per firme elettroniche qualificate.”.
Se si aderisce a tale opzione interpretativa, sarà legittimo dedurre – in maniera speculare – che il giudice sia libero di valorizzare (motivatamente, beninteso) la portata probatoria di una e- mail pure laddove il controinteressato abbia disconosciuto la sua paternità o la conformità di quanto ivi enunciato, così come nella ulteriore ipotesi di mancato riconoscimento diretto o indiretto (in quest’ultima evenienza, nel senso della libertà di apprezzamento in relazione a riproduzioni informatiche diverse dai messaggi di posta elettronica, cfr. Cass. civ., Sez. I, 16.5.2016, n. 9982).