Contract
IL COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
- Prof. Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx Presidente
- Prof. Avv. Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Guastalla Membro designato dalla Banca d’Italia
- Prof. Avv. Xxxxx Xxxxxxx Membro designato dalla Banca d’Italia
- Avv. Xxxxxx Xxxxxxxxxx Membro designato dal Conciliatore Bancario Finanziario
- Avv. Xxxxxx Xxxxxx Membro designato da Confindustria, di concerto con Confcommercio, Confagricoltura e Confartigianato (Estensore)
nella seduta del 26 febbraio 2013 dopo aver esaminato
• il ricorso e la documentazione allegata;
• le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione;
• la relazione istruttoria della Segreteria tecnica
FATTO
La ricorrente è una s.r.l. in liquidazione esposta verso il ceto creditorio, cui appartiene altresì la banca resistente in forza di un pregresso rapporto di finanziamento regolato in conto corrente. Il 18 giugno 2012, la società ricorrente, in persona del suo liquidatore, sporgeva reclamo alla banca resistente, lamentando il fatto che la resistente avesse bloccato, rendendola indisponibile, la somma di € 4.059 equivalente al rimborso del credito IVA effettuato dall’erario, versata alla ricorrente il 28 maggio. Tale somma, nell’ambito del concordato preventivo stragiudiziale che la ricorrente stava tentando di negoziare coi creditori, doveva destinarsi al pagamento dei soli creditori privilegiati, mentre i crediti vantati dalla resistente nei confronti della ricorrente erano di natura esclusivamente chirografaria.
Nel riscontro dell’11 luglio 2012, la resistente sottolineava l’impossibilità a concedere la disponibilità della somma alla luce, da un lato, dello stato di sofferenza della ricorrente, dall’altro del mancato accoglimento (datato 7 giugno 2012) da parte della banca della sopradetta proposta di concordato stragiudiziale formulata dalla ricorrente. Non risultava inoltre alla resistente che altri creditori avessero approvato alcuno dei termini del piano di esdebitamento avanzato. Dal momento che il concordato stragiudiziale era un contratto atipico, teso alla ricerca del consenso dei creditori ad un progetto di salvataggio di un’azienda, la resistente avrebbe messo a disposizione della massa di creditori, solo una volta identificata la stessa ed ottenuto il consenso di tutti i creditori, ogni somma attiva.
Insoddisfatta della replica ottenuta, il 19 settembre 2012 la ricorrente presentava ricorso illustrando come, nel giugno 2010, avesse ottenuto dalla resistente una linea di finanziamento garantita da fidejussione dei soci per un totale di € 100.000, ma come già nel dicembre dell’anno successivo, in dipendenza della crisi generale del sistema economico, si fosse
trovata costretta a cessare l’attività e deliberare la messa in liquidazione. La proposta di concordato preventivo stragiudiziale elaborata dal liquidatore, che prevedeva il pagamento per intero dei creditori privilegiati e per il 13% di quelli chirografari tramite il ricavato della cessione della licenza dell’attività e il credito IVA di € 4.058, veniva rigettata dalla resistente. Di tale credito IVA il liquidatore chiedeva inizialmente il rimborso alla resistente, salvo poi domandare all’agente di riscossione l’accreditamento dell’importo su altro conto corrente presso altra banca. Proseguiva la ricorrente evidenziando come la resistente, dopo aver bloccato e reso indisponibile la somma, avesse provveduto ad estinguere i rapporti con la ricorrente ed a passarne a sofferenza la posizione. Alla proposta formulata l’8 febbraio 2012 dai fideiussori del pagamento di € 40.000 a saldo e stralcio della posizione debitoria, seguita da un’ulteriore offerta di € 9.000 in caso di accettazione del concordato stragiudiziale, la resistente non aveva fornito alcuna replica, limitandosi a trattenere il credito IVA. In ragione dell’indisponibilità dei fondi e della mancata adesione della resistente/creditrice (oltre che di altri due fornitori di utenze energetiche e telefoniche) alla proposta concordataria. Tanto aveva fatto sì che alla ricorrente fosse stato impossibile stipulare la cessione di ramo d’azienda, risolta per come previsto dall’art. 2560 c.c. in quanto subordinata al buon fine del concordato. Inoltre, era diventata esecutiva la procedura di sfratto promossa dal locatore dei locali della ricorrente il che ne andava per ciò solo a pregiudicare ogni possibilità di recupero. Concludeva la ricorrente, imputando all’atteggiamento “ostruzionistico” della resistente il grave pregiudizio arrecato ai creditori privilegiati e domandando a questo Arbitro la restituzione della disponibilità del credito IVA, nonché, ove ravvisato un comportamento scorretto da parte resistente, l’adozione degli opportuni provvedimenti.
Il 19 ottobre 2012 la resistente depositava le controdeduzioni in cui, dopo aver ripercorso i fatti come già narrati, sottolineava di non aver mai avuto conferma dall’approvazione del piano di esdebitamento proposto dalla ricorrente da parte di altri creditori e ribadiva la propria disponibilità a rendere disponibile le somme attive una volta ricevuta tale approvazione. Precisava inoltre come l’art. 2560 c.c. non contemplasse alcun obbligo ma solo facoltà dei creditori a liberare l’alienante dai debiti pregressi. Richiamava poi, a conforto della legittimità del suo operato, le condizioni generali di contratto sottoscritte il 24 maggio 2010, a mente delle quali “in caso di insolvenza del titolare del rapporto la banca è espressamente autorizzata a compensare più rapporti o più conti di qualsiasi genere o natura ancorché i crediti non siano liquidi ed esigibili, senza obbligo di preavviso e/o formalità”. Concludeva pertanto la resistente, chiedendo a questo Arbitro la reiezione del ricorso.
DIRITTO
Prima di scendere nel merito del contendere, questo Collegio ritiene opportuno precisare la corretta qualificazione giuridica del contesto operativo nel quale s’innesta l’odierno litigio. Contesto che parrebbe essere stato frainteso da entrambe le parti contendenti.
La società ricorrente, in persona del suo liquidatore, asserisce di aver tentato di condurre in porto un concordato preventivo stragiudiziale coi propri creditori: concordato che sarebbe stato compromesso dalla condotta denunziata in capo alla banca resistente. In particolare, tanto non avrebbe consentito la cessione della licenza relativo all’esercizio commerciale già gestito dalla società in bonis, cessione la cui efficacia risultava sospensivamente condizionata all’“accettazione da parte di creditori di una proposta di concordato preventivo stragiudiziale”. Il richiamo al concordato preventivo stragiudiziale è altresì contenuto nelle difese della resistente che la stessa qualifica come “contratto atipico che si risolve nella ricerca del consenso dei creditori ad una proposta volta al salvataggio dell’azienda”.
Non pare a questo Collegio che il richiamo alla procedura concordataria, pur nella sua versione meramente stragiudiziale oggi sostanzialmente superata dalle diverse soluzioni
alternative contenute nella legge fallimentare (cfr. ad es. art. 67, comma 3° lett. e) e art. 182/bis L.F.), possa ritenersi pertinente al caso di specie, atteso che qualsivoglia accordo o procedimento alternativo al fallimento implica la giuridica fallibilità del debitore. Va rammentato che, a mente dell’art. 1 L.F. (per come modificato dall’art. 1, comma 1: d. lgs. 12.9.2007 n. 169 con efficacia dal 1.1.2008) non è soggetta né a fallimento né a concordato l’impresa che nei tre esercizi anteriori alla data di presentazione dell’istanza (o comunque, in caso di accordo stragiudiziale, dal manifestarsi dell’insolvenza) abbia avuto un attivo patrimoniale annuo complessivo non superiore ai 300.000 euro e ricavi lordi annui non superiori ai 200.000 euro, nonché un debito complessivo non eccedente i 500.000 euro. Ora, per quanto non risultino prodotti in atti i bilanci relativi ai tre esercizi anteriori, la proposta concordataria evidenzia un passivo totale di meno di 91.000 euro e la proposta di cessione formulata, al prezzo di 27.000 euro, menziona quali componenti dell’attività un bancone bar scaffalato e accessoriato, tavoli e seggiole, 2 condizionatori, scaffalature varie in acciaio e per dispensa, dunque valori nettamente inferiori alla soglia dei 300.000 euro, il che lascia altresì ragionevolmente presumere che il volume complessivo del fatturato annuo anteriore si sia attestato sotto la soglia dei 200.000,00 euro. Tanto porterebbe ad escludere che la società potesse tecnicamente proporre un concordato non disponendo dei requisiti sufficienti a renderla assoggettabile al fallimento. Il sedicente concordato preventivo parrebbe dunque doversi riqualificare alla stregua di tentativo di negoziazione individuale condotto in xxx xxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxxx xxx xxxx creditorio.
Le domande formulate dalla ricorrente si articolano, per un verso, nella richiesta di restituzione di un riaccredito Iva di 4.058,00 euro, a dire della ricorrente indebitamente compensate dalla banca sul proprio maggior credito vantato a fronte di una linea di finanziamento, e per altro verso, nell’accertamento di un eventuale comportamento scorretto da parte della resistente con l’assunzione dei provvedimenti del caso.
Ora, il cuore del contendere si incentra proprio sulla ritenuta illegittimità del comportamento osservato dalla banca, la quale, non avendo aderito al concordato, avrebbe in un primo momento trattenuto detto importo derivante dal credito Iva restituito dall’Erario, quindi passato a sofferenza la posizione e compensato il predetto credito col proprio maggior credito derivante dal predetto finanziamento insoluto.
In linea di principio, la compensazione propria, che ha luogo cioè rispetto a posizioni nascenti da rapporti giuridicamente autonomi (quali sarebbero il credito derivato dal riaccredito Iva e il saldo debitore del conto passato a sofferenza, dunque previa chiusura del conto stesso; cfr. altresì sull’autonomia del rapporto Collegio Milano, dec n. 1409/2010) costituisce il normale esercizio di un diritto che questo Arbitro ha già altrove ritenuto perfettamente lecito (Collegio Milano dec. n. 34/2012).
Non è dunque possibile rinvenire, in siffatto comportamento, alcuna fattispecie di violazione. Questo non già sulla base delle inconferenti difese della Banca, la quale osserva nelle controdeduzioni che la somma controversa sarebbe stata resa disponibile alla ricorrente solo dopo che tutti i creditori avessero aderito alla proposta concordataria: asserto doppiamente fuori luogo, una prima volta in quanto palesemente provocatorio sul piano dialettico, atteso che la banca resistente poche righe sopra afferma espressamente di non aver aderito alla proposta compositiva; una seconda volta in quanto quivi non di concordato trattasi bensì di proposta compositiva individuale, ancorché condotta a immagine e somiglianza di un’offerta concordataria. L’assenza di violazione si rinviene invece nel fatto che la resistente, così come non aveva alcun obbligo di aderire a quella proposta, del pari essa, operando una compensazione sulle partite a debito e a credito nei confronti della ricorrente si è limitata ad avvalersi di un diritto accordatole tanto dalla legge quanto dalla specifica pattuizione di cui all’art. 11 delle condizioni generali di contratto in essere fra le parti.
Per altro verso, la ricorrente sembrerebbe addebitare alla resistente una responsabilità per la fallita composizione stragiudiziale in ragione della sua mancata adesione alla procedura che non avrebbe permesso all’art. 2560 c.c. di esplicare l’effetto di esdebitazione a beneficio del debitore cedente.
L’argomento non ha pregio, per almeno tre ragioni.
In primo luogo, la banca resistente non aveva alcun obbligo di aderire alla proposta individuale compositiva (ma neppure avrebbe avuto tale obbligo quand’anche la procedura fosse ascrivibile al modello concordatario o ad altra assimilabile procedura concorsuale).
In secondo luogo, la circostanza che la proposta di cessione dell’attività fosse condizionata all’accettazione della proposta di sistemazione, rende del tutto inconferente il richiamo al disposto dell’art. 2560 c.c., norma che, in caso di cessione di azienda, prevede che l’alienante (nella specie il ricorrente) sia liberato dal proprio debito solo se il creditore vi consenta, dovendosi qui condividere la, pur più che ovvia, affermazione della banca per la quale tale norma accorda una facoltà e non già impone un obbligo al creditore del cedente di acconsentire a siffatta liberazione.
In terzo luogo, la stessa ricorrente afferma che la proposta compositiva non ha avuto seguito per la mancata adesione, oltre che della resistente, anche di altri due fornitori di utenze energetiche e telefoniche e che nel frattempo lo sfratto intimato dalla proprietà dell’immobile, in cui era sito l’esercizio in predicato di cessione, era divenuto esecutive rendendo impraticabile la cessione stessa o altre soluzioni. Ne consegue che comunque, a prescindere dalla mancata adesione della banca resistente, l’operazione non avrebbe avuto successo e l’esecutività dello sfratto, non vertendosi appunto in una effettiva condizione concordataria idonea a congelare le azioni esecutive, avrebbe comunque sortito il suo effetto.
Né maggior pregio ha il sostenere, come la ricorrente sostiene, che l’importo controverso fosse di vitale importanza per il successo dell’operazione compositiva (pagamento fra il 12% e il 13 dei chirografi). Xxxx è al contrario che la proposta versata in atti prevedeva il pagamento della predetta percentuale al netto del sopraindicato importo che invece, sempre stando alla proposta, ove acquisito alla “massa”, avrebbe comportato un incremento di siffatta percentuale al 17%. Il che vale ad escludere che il rifiuto di adesione all’asserito concordato e la compensazione di tale importo possano aver eziologicamente influenzato il fallimento di un tentativo di sistemazione, la cui attuazione anzidetto livello minimo non presupponeva affatto la disponibilità del predetto importo.
Il Collegio non accoglie il ricorso.
P.Q.M.
IL PRESIDENTE
firma 1