UGIVI
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UGIVI
Unione Giuristi della Vite e del Vino Verona – Vinitaly – 7 aprile 2001
Nuovi oneri e adempimenti nel rapporto di agenzia Patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto
Indennità di fine rapporto e diritto alla provvigione
Premessa. - 1. L’attuazione della direttiva 86/653 ed il criterio interpretativo elaborato dalla Xxxxx xx Xxxxxxxxx. 0. Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto e la legge comunitaria 2000. – 3. La forma del contratto. – 4. La provvigione e gli obblighi del preponente : i nuovi articoli 1748 e 1749 cod. civ. – 5. Lo «star del credere» e la legge comunitaria 1999. - 6. Il ruolo agenti e rappresentanti di commercio alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000. L’atteggiamento della giurisprudenza italiana. – 7. Affinità e differenze tra la figura dell'agente e quella del procacciatore d'affari. – 8. Lo scioglimento del contratto: l’indennità di fine rapporto e l’evoluzione della giurisprudenza italiana in ordine alla validità dei criteri di quantificazione individuati dalla contrattazione collettiva.
Premessa
Questa relazione si propone di analizzare le novità introdotte nella disciplina italiana del contratto di agenzia dal d. lgs. 65/99 e, più di recente, dalla legge comunitaria 2000 1.
La normativa dedicata al contratto di agenzia è stata infatti oggetto di rilevanti modifiche negli ultimi dieci anni, a seguito dell’emissione della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653 2, dei decreti legislativi attuativi della stessa n. 303/91 e n. 65/99, delle pronunce della Corte di Giustizia (del 1998 e 2000) relative alla compatibilità del ruolo agenti e rappresentanti (ed in particolare della sanzione di nullità del contratto, comminata in caso di mancata iscrizione dell’agente nel ruolo) con la direttiva 86/653, della legge comunitaria 1999, che ha sostanzialmente eliminato lo star del
1 Legge 29 dicembre 2000, n. 422, in G.U. 20 gennaio 2001, n. 16 (suppl. ord. n. 14).
2 In G.U.C.E. L 31 dicembre 1986, n. 382, 17
credere, quanto meno nell’accezione precedente, e della legge comunitaria 2000, che ha inserito un nuovo secondo comma nell’art. 1751 bis cod. civ., dedicato al patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto.
Affronteremo preliminarmente la novità più recente, costituita dalla modifica della disciplina del patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto, per passare poi, in sintesi, alla problematica relativa alla forma del contratto, anche alla luce delle precisazioni contenute nei decreti legislativi n. 303/91 e n. 65/99.
Verranno poi analizzate la principale obbligazione del preponente, ovvero il pagamento delle provvigioni, e le modifiche apportate agli articoli 1748 e 1749 cod. civ.
Passeremo quindi all’esame dello star del credere, come modificato dalla legge comunitaria 1999 ed alle possibilità residue, compresa l’eventuale introduzione di una clausola penale connessa all’inadempimento dell’obbligo di informazioni.
Verrà inoltre esaminato il ruolo agenti e rappresentanti di commercio ed i riflessi delle sentenze della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000 sulla giurisprudenza italiana che tradizionalmente considerava la mancata iscrizione dell’agente nel ruolo quale causa di nullità dell’intero contratto.
Analizzeremo poi le più rilevanti differenze esistenti tra il contratto di agenzia ed il contratto di procacciamento d’affari ed i riflessi delle novità emerse nella disciplina del ruolo sui procacciatori d’affari che dissimulino in realtà un vero e proprio contratto di agenzia.
Infine ci occuperemo del problema più rilevante, quanto meno dal punto di vista economico, emerso a seguito dell’attuazione della direttiva comunitaria 86/653 e più precisamente i criteri di quantificazione dell’indennità di fine rapporto e l’atteggiamento della giurisprudenza più recente, e più in generale del contenuto dell’art. 1751 cod. civ.
1. L’attuazione della direttiva 86/653 ed il criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia.
L’attuazione della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653 è stata effettuata dal legislatore italiano in due tempi: il primo intervento (d. lgs. 303/91) è stato infatti caratterizzato da una certa imprecisione ed ha dato luogo a modifiche in parte insufficienti ed in parte addirittura in contrasto con il contenuto stesso della direttiva.
La situazione italiana non è peraltro passata inosservata agli organi comunitari, che hanno avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia affinché si uniformasse al contenuto della direttiva, con particolare riferimento ad un errore evidente contenuto nel testo dell’art. 1751 cod.
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civ. dove le condizioni per il sorgere del diritto erano state indicate come alternative anziché concorrenti.
Da questa procedura di infrazione è scaturito il d. lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, che ha apportato modifiche agli articoli 1742, 1746, 1748, 1749 e 1751 cod. civ., rispettivamente dedicati alla nozione del contratto (le modifiche apportate attengono alla forma), agli obblighi dell’agente (agire con lealtà e buona fede), ai diritti dell’agente (con particolare riferimento al compenso), agli obblighi del preponente ed all’indennità di fine rapporto.
Prima di affrontare i temi più rilevanti oggetto della presente relazione, è opportuno menzionare il criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia in tema di direttive comunitarie (la cui efficacia nei singoli ordinamenti interni, come è noto, è ben diversa da quella dei regolamenti), consistente nella necessità per il giudice nazionale, e conseguentemente anche ed a maggior ragione per l’operatore del diritto, di interpretare le disposizioni nazionali di attuazione di una direttiva comunitaria, quanto più è possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva stessa.
2. Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto e la legge comunitaria 2000.
L’art. 5 del d. lgs. 10 settembre 1991, n.303, ha inserito nel codice civile italiano l’art. 1751 bis, che regola il patto di non concorrenza a carico dell’agente dopo la cessazione del contratto.
Trattasi in sostanza di una sorta di estensione temporale del vincolo di esclusiva, che in precedenza veniva disciplinata facendo ricorso all’art. 2596 cod. civ., che prevedeva la necessità di prova scritta del patto, la limitazione ad una zona determinata ed una durata non superiore a 5 anni.
L’applicazione dell’art. 2596 cod. civ., certamente più sfavorevole per l’agente, è ora superata integralmente dalla disciplina di cui al predetto art. 1751 bis cod. civ.
L’art. 1751 bis, conformemente al testo della direttiva, prevede che il patto di non concorrenza debba essere redatto per iscritto, così inserendo la forma scritta (in precedenza prevista dall’art. 2596 cod. civ. esclusivamente per la prova dell’accordo) tra i requisiti di validità della clausola, debba riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia, e debba essere di durata non superiore ai due anni successivi all’estinzione del contratto (così riducendo drasticamente il precedente limite quinquennale dell’art. 2596 cod. civ.).
Prima dell’emissione della legge comunitaria 2000, non era previsto alcun compenso quale corrispettivo per l’assunzione dell’obbligo da parte dell’agente.
La legge comunitaria 2000, con il suo art. 23, ha inserito un nuovo secondo comma all’art. 1751 bis, che sostanzialmente prevede il diritto dell’agente ad un’indennità in relazione all’assunzione dell’obbligo di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto.
Preliminarmente va ribadito che il riferimento ad una presunta attuazione dell’art. 20 della direttiva 86/653 (contenuto nell’art. 23) appare difficilmente comprensibile poiché, come detto, l’art. 20 non si occupa minimamente del diritto dell’agente ad una indennità, mentre l’art. 17 2a), ultimo capoverso, della direttiva, si limita a menzionare la possibilità per gli Stati membri di prevedere l’eventuale esistenza di un patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto tra le circostanze da prendere in considerazione per la corresponsione dell’indennità 3 (con riferimento al requisito dell’equità).
Il nuovo comma prevede, in occasione della cessazione del rapporto, il diritto per l’agente alla corresponsione di una indennità in relazione all’accettazione del patto.
Si precisa che l’indennità ha natura non provvigionale, e pertanto non sarà possibile, come talvolta avvenuto in passato, considerare adempiuto l’obbligo di pagamento con l’inclusione dell’indennità nella percentuale provvigionale, sia tramite una pattuizione generale (che consideri compresa nella provvigione già riconosciuta anche l’indennità), sia con la scomposizione della provvigione e con la correlativa indicazione di una apposita percentuale a titolo di indennità.
La norma precisa che l’indennità dev’essere determinata ad opera delle parti, tenendo conto degli accordi economici nazionali di categoria 4, e dev’essere commisurata ai seguenti parametri:
- la durata del patto (nel limite biennale di cui al primo comma);
- la natura del contratto;
- l’indennità di fine rapporto.
In difetto di accordo tra le parti, è previsto un meccanismo di quantificazione giudiziale in via equitativa. Il giudice, nella sua valutazione, dovrà tenere presenti anche i seguenti quattro elementi:
1) la media dei compensi dell’agente nel corso del rapporto e la loro incidenza sul fatturato complessivo dell’agente nello stesso periodo;
2) la causa di cessazione del contratto;
3) l’ampiezza della zona;
4) il fatto che l’agente sia o meno monomandatario.
3 Questa possibilità non è stata utilizzata dal legislatore italiano, che non contempla il patto di non concorrenza tra gli elementi da valutare per l’esistenza e la quantificazione dell’indennità.
4 Che peraltro, allo stato, nulla dispongono in proposito.
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Gli anzidetti criteri appaiono senz’altro abbastanza generali, con la conseguenza che viene lasciato al giudice un ampio margine di discrezionalità.
Margine di discrezionalità che, se da un lato dovrebbe consentire di considerare tutte le possibili varianti delle singole fattispecie, dall’altro non depone certamente in favore della creazione di orientamenti giurisprudenziali uniformi, quanto meno nelle sue prime applicazioni.
Resta poi il problema dell’eventuale impugnazione dell’accordo in ipotesi raggiunto dalle parti, laddove ritenuto non conforme ai parametri sopra evidenziati.
L’art. 23, dopo aver riportato il nuovo secondo comma dell’art. 1751 bis, prosegue precisandone i limiti di applicabilità soggettiva (che peraltro avrebbero potuto essere inseriti all’interno del comma medesimo).
Il nuovo comma si applicherà infatti esclusivamente agli agenti che esercitino la propria attività in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con unico socio. Si prevede inoltre la possibilità di applicazione anche alle società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali, ove ciò sia previsto dagli accordi nazionali di categoria (che allo stato nulla dispongono in proposito).
Infine è indicata l’entrata in vigore del nuovo comma, che acquisterà efficacia dal 1 giugno 2001. Vari sono i problemi che potranno sorgere da questa nuova disposizione, sia con riferimento ai contratti in corso che in relazione ai nuovi rapporti, anche in considerazione dell’inesistenza di una disciplina transitoria.
Per quanto attiene ai limiti di operatività del patto di non concorrenza, la giurisprudenza di merito, in relazione ad un contratto nel quale la zona era individuata sulla base di un criterio esclusivamente geografico, ha ritenuto valida l’estensione dell’obbligo di non concorrenza a tutti i potenziali clienti della zona, in quanto anche il contratto non prevedeva limitazioni di sorta per lo svolgimento dell’attività promozionale all’interno della zona stessa.
La violazione del patto ad opera dell’agente costituisce un inadempimento che senza dubbio potrà consentire al preponente di agire nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno subito.
E’ inoltre possibile prevedere, sin dalla stipula del contratto, una penale per l’ipotesi di inadempimento (è altresì consigliabile in questi casi fare salvo espressamente l’eventuale maggior danno derivante dall’inadempimento, ad evitare che la penale debba considerarsi onnicomprensiva). A questo proposito è opportuno segnalare alcune pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto ammissibile una richiesta di inibitoria della prosecuzione dell’attività dell’agente con la ditta concorrente (tramite un provvedimento d’urgenza), a condizione peraltro che non sia prevista alcuna clausola penale.
La predetta soluzione è stata ritenuta opinabile dalla dottrina, con la quale concordiamo, sul presupposto della differenza esistente tra norme proibitive (che comporterebbero la nullità del contratto che venisse stipulato in violazione delle stesse) e norme statuenti obbligazioni negative, quale il patto di non concorrenza, la cui violazione non può comportare la nullità del contratto.
Va detto inoltre che il terzo preponente è del tutto estraneo ai rapporti tra le parti originarie e conseguentemente il contratto stipulato in violazione del divieto dovrebbe poter consentire al preponente originario di agire nei confronti dell’agente inadempiente esclusivamente per il risarcimento del danno e non per ottenere l’adempimento coattivo del patto stesso.
3. La forma del contratto.
In tema di forma del contratto di agenzia, prima di esaminare le disposizioni dettate in materia dal codice civile, e più precisamente dall’art. 1742 cod. civ. 5, e dalla contrattazione collettiva, è opportuno esaminare brevemente il testo della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653 che al requisito della forma del contratto dedica il suo art. 13 6.
Il primo comma stabilisce che ciascuna delle parti ha il diritto di chiedere ed ottenere dall’altra parte un documento firmato che riproduca il contenuto del contratto, incluse eventuali clausole addizionali. Si precisa inoltre che tale diritto è irrinunciabile.
Il secondo comma consente poi a ciascuno Stato membro di considerare la forma scritta7 quale requisito di validità dell’intero contratto.
Il testo previgente dell’art. 1742 cod. civ., in ossequio al principio della libertà di forma, immanente nel nostro ordinamento 8, nulla disponeva in tema di forma del contratto, che trovava invece una certa regolamentazione ad opera della contrattazione collettiva, che sin dall’accordo economico collettivo erga omnes 9 20 giugno 1956 prevedeva (art. 2):
5Oggetto, come vedremo, di una doppia modifica, sia ad opera del d. lgs. 303/91 che del successivo d. lgs. 65/99.
6Inserito nel capitolo IV: Conclusione ed estinzione del contratto di agenzia.
7 «Nonostante il paragrafo 1, uno Stato membro può prescrivere che un contratto di agenzia sia valido solo se documentato per iscritto».
8Principio che comporta l’impossibilità di considerare la forma della volontà negoziale come un requisito di validità del negozio. Trattasi di una regola generale suscettibile di eccezioni, le quali però debbono essere specificamente indicate dalla legge.
9La cui efficacia non è dunque limitata agli iscritti alle associazioni stipulanti ed a coloro che l’abbiano esplicitamente o implicitamente richiamato nel singolo contratto di agenzia, costituendo un trattamento economico normativo minimo inderogabile nei confronti di tutti gli agenti e rappresentanti di commercio delle imprese industriali: ciò in quanto è stato a suo tempo recepito dal DPR 16 gennaio 1961, n. 145.
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«...All’atto del conferimento dell’incarico all’agente o rappresentante debbono essere precisati per iscritto, oltre al nome delle parti, la zona assegnata, i prodotti da trattarsi, la misura delle provvigioni e compensi, la durata, quando questa non sia a tempo indeterminato».
Previsioni di analogo tenore sono state successivamente inserite altresì negli accordi economici di diritto comune del settore industria (aec 16 novembre 1988 - modifica del precedente aec 19 dicembre 1979 - art. 0 xxxxx xxxxx) x xxx xxxxxxx xxxxxxxxx (xxx 9 giungo 1988 - modifica del precedente aec 24 giugno 1981 - art. 2 terzo comma), con l’unica precisazione che gli elementi del contratto da precisarsi per iscritto debbono essere contenuti in un unico documento.
La dottrina prevalente e una parte della giurisprudenza (dopo alcune sentenze che ritenevano necessaria la forma scritta ad substantiam o non la ritenevano necessaria né ad substantiam né ad probationem) hanno, peraltro correttamente, ritenuto che le predette disposizioni non consentissero di affermare che la forma scritta potesse essere richiesta ad substantiam, cioè quale condizione di validità dell’intero contratto, ma al più ad probationem, e cioè al mero fine di fornire la prova dell’esistenza del contratto.
La differenza sopra evidenziata comporta quale conseguenza che, laddove la forma rivesta un carattere meramente probatorio (e sia dunque richiesta ad probationem e non ad substantiam), il contratto dovrà ritenersi perfettamente valido ed efficace anche se concluso oralmente, mentre potranno sorgere complicazioni solo nell’ipotesi in cui ne venga contestata l’esistenza. In tale ultima ipotesi, non sarà possibile fornire la prova dell’esistenza del rapporto tramite testimoni o presunzioni.
La prova dell’esistenza del rapporto (salva l’ipotesi, peraltro abbastanza rara nella prassi, della perdita incolpevole del documento contrattuale, che consentirebbe il ricorso alla prova per testi) dovrà quindi essere fornita tramite documenti scritti o con gli strumenti del giuramento (decisorio, che può essere deferito alla controparte) e/o della confessione eventualmente resa dalla controparte (che può essere provocata richiedendo in giudizio l’interrogatorio formale sul punto; per la confessione stragiudiziale invece, non pare che la stessa possa essere provata tramite testimoni vertendo su di un oggetto - l’esistenza del rapporto - per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge).
Ulteriore ipotesi è quella in cui l’esistenza del rapporto non venga contestata in giudizio dalla controparte.
A seguito dell’emissione della direttiva comunitaria, l’art. 1742 cod. civ. ha subito un primo intervento modificativo ad opera del d. lgs. 303/91 (art. 1) che, inserendo un nuovo secondo comma, ha previsto il diritto per ciascuna delle parti di ottenere dall’altra una copia del contratto debitamente sottoscritta.
Dopo questo primo intervento, ed a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per la non corretta attuazione della direttiva 86/653, si è resa necessaria l’adozione di un secondo strumento normativo, costituito dal d. lgs. 65/99, che con il suo art. 1 ha sostituito integralmente il secondo comma dell’art. 1742 cod. civ.
Il nuovo testo stabilisce che il contratto dev’essere provato per iscritto e che ciascuna parte ha il diritto irrinunciabile di ottenere dall’altra un documento firmato che riporti il contenuto del contratto e di eventuali clausole aggiuntive.
Ciò comporta da un lato la conferma che la forma scritta non è un requisito di validità del contratto, ma un semplice elemento necessario per fornire la prova dell’esistenza dello stesso, e dall’altro che il contratto di agenzia deve considerarsi valido anche se stipulato verbalmente.
Come detto in precedenza, non sarà possibile (salva l’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del documento) fornire la prova dell’esistenza del rapporto tramite testimoni o presunzioni, essendo all’uopo necessario un documento scritto.
La seconda parte della norma, che riporta fedelmente il contenuto della direttiva, recependo le osservazioni di cui al punto 2 del parere motivato 10, mentre conferma la validità di contratti verbali di agenzia, prevedendo il diritto irrinunciabile ad ottenere un documento scritto che riproduca il contenuto del contratto, fissa un preciso obbligo a carico delle parti, che dovranno dunque recepire in un documento scritto il contenuto dei reciproci accordi, con la correlata possibilità, in caso di rifiuto di una di esse, di agire giudizialmente per ottenerne la redazione.
4. La provvigione e gli obblighi del preponente : i nuovi articoli 1748 e 1749 cod. civ.
La disciplina del compenso dell’agente, a seguito della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n.653, ha subito drastici mutamenti.
Nella sua versione originaria l’art. 1748 cod. civ. prevedeva che l’agente avesse diritto alla provvigione solo per quegli affari che avessero avuto una regolare esecuzione e, in caso di esecuzione parziale, la provvigione andava corrisposta in proporzione alla parte eseguita.
L’art. 1749 cod. civ. precisava inoltre che l’agente conservava il diritto alla provvigione laddove il difetto di esecuzione fosse stato imputabile al preponente.
10Parere motivato emesso il 13 luglio 1998, a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea in data 24 settembre 1996 a carico dell’Italia per l’attuazione incompleta della direttiva 86/653.
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La regolare esecuzione dell’affare, per concorde orientamento della giurisprudenza, si riteneva coincidente con il concetto di buon fine elaborato nell’ambito della contrattazione collettiva 11, e cioè con il pagamento da parte del terzo, che seguiva l’adempimento del preponente (di norma costituito dalla consegna della merce).
A seguito della direttiva 86/653 e del successivo intervento della Commissione, è stato effettuato un radicale cambiamento (peraltro non così radicale laddove si utilizzi la possibilità di deroga) dei principi di carattere generale posti a base del diritto al compenso in favore dell’agente.
Il primo intervento legislativo di attuazione della direttiva comunitaria (d. lgs. 303/91) per la verità non ha inciso sul concetto di regolare esecuzione dell’affare, limitandosi a modificare la rubrica dell’art. 1748 cod. civ. ed inserendo un nuovo terzo comma che, in applicazione peraltro parziale dell’art. 8 a) della direttiva, ha stabilito il diritto dell’agente alla provvigione anche sugli affari conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del contratto, a condizione che la conclusione sia ascrivibile all’attività svolta dall’agente in costanza di rapporto.
Questa trasposizione parziale presentava il limite costituito dall’assenza, nel dettato legislativo, di qualunque riferimento ad un termine dopo la cessazione del contratto oltre il quale il diritto al compenso doveva considerarsi escluso: la genericità della previsione ha suscitato infatti un certo disorientamento.
Non vi era dunque in diritto italiano alcun riferimento al periodo di tempo da prendere in considerazione per poter valutare in concreto l’esistenza del diritto dell’agente alla provvigione per affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto. Va detto peraltro che, proprio in questo caso, era possibile utilizzare quel criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia (esaminato nel paragrafo 1) e risalire dunque al testo della direttiva recuperando il concetto di «termine ragionevole» ivi contenuto.
Sul contenuto del decreto legislativo 303/91, ed in relazione alla sua scarsa conformità al testo della direttiva comunitaria, la Commissione delle Comunità Europee il 24 settembre 1996 ha avviato, come detto, una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, costretta a correre ai ripari con l’emissione di un ulteriore decreto legislativo (d. lgs. 65/99) che, al contrario del precedente, ha inciso profondamente sul diritto dell’agente al compenso.
Il testo dell’art. 1748 cod. civ. è stato integralmente sostituito dall’art. 3 (I comma) del d. lgs. 65/99 che, applicando letteralmente il contenuto della direttiva, ha apportato una serie di modifiche.
Il nuovo testo del primo comma dell’art. 1748 cod. civ. stabilisce infatti che l’agente ha diritto alla provvigione in relazione a tutti gli affari conclusi durante il contratto, quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento.
11 Art. 4 a.e.c. 25 maggio 1935, art. 4 a.e.c. 30 giugno 1938, art. 5 a.e.c. 20 giugno 1956, art. 4 a.e.c. 9
Il secondo comma precisa poi che il preponente è tenuto a corrispondere all’agente la provvigione anche per quegli affari che il preponente ha concluso direttamente con clienti in precedenza acquisiti dall’agente (per affari dello stesso tipo), con clienti appartenenti alla zona riservata all’agente o con clienti facenti parte di un gruppo contrattualmente riservato all’agente stesso, salvo deroga ad opera delle parti.
Queste ultime precisazioni, pur contenute nel testo della direttiva, appaiono sovrabbondanti in quanto ben potevano, quanto meno per la maggior parte, ritenersi assorbite dalle previsioni dell’art. 1743 cod. civ. in tema di esclusiva e dal vecchio testo dell’art. 1748 cod. civ. in tema di provvigioni per affari conclusi direttamente dal preponente.
Anche in relazione al diritto alle provvigioni, come avvenuto in tema di indennità di fine rapporto, appare evidente l’influsso determinante della legislazione tedesca (dove l’esclusiva automatica non esiste) che, unitamente alla legislazione francese, può dirsi caratterizzare integralmente il testo della direttiva.
Il quarto comma dell’art. 1748 precisa poi il momento nel quale la provvigione, già attribuita all’agente sulla base del criterio generale contenuto nel primo comma, costituito dalla conclusione dell’affare nel corso del contratto per effetto dell’attività dell’agente 12, matura in favore di quest’ultimo («spetta all’agente»).
Questo momento viene individuato con un criterio di carattere generale, peraltro derogabile, consistente nel «…momento e nella misura in cui…» il preponente ha eseguito la sua prestazione o avrebbe dovuto eseguirla in base al contratto concluso con il terzo.
Al precedente criterio generale della regolare esecuzione dell’affare viene dunque sostituito quello dell’esecuzione della prestazione da parte del preponente.
In applicazione di questo principio il preponente dovrebbe quindi corrispondere all’agente le provvigioni (nei termini precisati all’art. 1749 cod. civ. 13) del tutto indipendentemente dal pagamento da parte del terzo, ed è in quest’ottica che si giustifica il contenuto del sesto comma che prevede l’ipotesi di restituzione delle provvigioni riscosse da parte dell’agente 14.
In sostanza il diritto dell’agente alla provvigione maturerebbe al momento dell’esecuzione della prestazione da parte del preponente, e cioè per norma al momento della consegna della merce.
Il criterio generale contenuto nel quarto comma è peraltro suscettibile di deroga ad opera delle parti, che possono dunque accordarsi diversamente, posticipando (o in ipotesi anche anticipando)
giugno 1988 e art. 6 a.e.c. 16 novembre 1988.
12 Salva l’esistenza dell’esclusiva, come precisato nel secondo comma.
13 Entro la fine del mese successivo al trimestre nel quale le provvigioni sono maturate.
14 L’obbligo di restituzione è limitato all’ipotesi ed alla misura in cui sia certo che il contratto tra il cliente ed il preponente non avrà esecuzione. Tale mancata esecuzione dovrà inoltre essere del tutto indipendente da eventuali cause imputabili al preponente.
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l’esigibilità della provvigione ad un momento successivo (o anteriore) rispetto all’adempimento da parte del preponente.
Tale possibilità incontra però un limite nella seconda parte del quarto comma, dove si precisa che al più tardi la provvigione è da considerarsi esigibile, inderogabilmente, dal momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito la prestazione o avrebbe dovuto eseguirla qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico.
Ciò significa in sostanza che è possibile posticipare la maturazione (o esigibilità) delle provvigioni sino al pagamento da parte del terzo (e cioè sino al buon fine dell’affare).
In definitiva dunque, dal punto di vista pratico, è ad oggi possibile prevedere che la provvigione maturi al momento del pagamento da parte del cliente, con il solo limite derivante dall’impossibilità di attendere l’integrale pagamento, in quanto anche pagamenti parziali sembrano determinare la maturazione, pro quota, della provvigione.
La differenza rispetto al regime previgente consiste nella necessità di inserire un’apposita pattuizione che preveda la predetta deroga, in quanto il regime generale applicabile automaticamente è, come detto, radicalmente cambiato.
Il terzo comma dell’art. 1748 cod. civ. attiene alla disciplina delle provvigioni per affari conclusi dopo la cessazione del contratto. Disciplina questa che, come abbiamo visto in precedenza, era già stata inserita nel codice civile, anche se in maniera lacunosa, dal d. lgs. 303/91.
Il d. lgs. 65/99 precisa che l’agente ha diritto alla provvigione in due ipotesi:
- se la proposta è pervenuta all’agente o al preponente prima della fine del contratto;
- se gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dopo lo scioglimento del contratto e la conclusione è da attribuirsi prevalentemente all’attività svolta dall’agente.
Nella seconda ipotesi è stata colmata la lacuna in precedenza evidenziata, con l’inserimento della dizione «entro un termine ragionevole».
La regola generale, che prevede il diritto alla provvigione in favore dell’agente uscente, è però suscettibile di eccezioni nel caso in cui, in relazione a specifiche circostanze, risulti equo ripartire la provvigione tra gli agenti intervenuti per la conclusione dell’affare.
Il V comma dell’art. 1748 precisa che laddove preponente e terzo (cliente) si accordino per non dare in tutto o in parte esecuzione al contratto l’agente avrà diritto, per la parte ineseguita, ad una provvigione ridotta nella misura determinata dagli usi, o dal giudice secondo equità 15.
15 Disposizione questa che non ha subito modifiche rispetto al passato e che era in precedenza contenuta nell’art. 1749 II comma, che per la verità si riferiva anche alle norme corporative.
Anche l’art. 1749 cod. civ. è stato integralmente sostituito dal d. lgs. 65/99 (art. 4, I comma), ma in realtà le modifiche rispetto al precedente testo introdotto dal d. lgs. 303/91 si riducono all’obbligo per il preponente di agire, nei rapporti con l’agente, con lealtà e buona fede.
Questa precisazione, pur in linea con il testo della direttiva, appare superflua poiché il medesimo risultato poteva ottenersi tramite l’applicazione dei principi generali del nostro ordinamento relativi all’esecuzione del contratto secondo buona fede.
Per il resto l’art. 1749 riprende disposizioni in precedenza contenute nell’art. 1748 (come modificato dal d. lgs. 303/91).
La parte più interessante dell’art. 1749 si connette ai problemi da sempre esistenti, dal punto di vista probatorio, in relazione al diritto dell’agente alle provvigioni; problemi che già in passato avevano fatto nascere accesi dibattiti sull’utilizzabilità o meno della richiesta di esibizione in giudizio delle scritture contabili del preponente e relativa CTU.
Una lettura superficiale dell’art. 1749 cod. civ. potrebbe far ritenere che l’agente abbia attualmente il diritto di ottenere senza difficoltà sia l’esibizione in giudizio delle scritture contabili del preponente sia la relativa CTU.
A ben guardare però, la situazione non è esattamente in questi termini poiché l’articolo citato si limita a garantire il diritto all’ottenimento di un estratto delle scritture contabili relative alle provvigioni corrisposte e pare dunque non autorizzare una richiesta esplorativa e generalizzata tendente a verificare la congruità di quanto corrisposto in relazione a qualunque affare concluso.
In altri termini, il contenuto dell’art. 1749 cod. civ. (in origine inserito dal d. lgs. 303/91 nell’art. 1748 cod. civ.) non significa che si determini una sorta di inversione dell’onere probatorio, che rimane invece completamente a carico dell’agente, dovendo ritenersi che gli strumenti processuali dell’esibizione delle scritture contabili del preponente e della consulenza tecnica siano dei mezzi eccezionali, tali in ogni caso da non poter supplire ad eventuali carenze di carattere probatorio dell’agente.
E’ stato infatti precisato16 che, pur avendo le leggi di attuazione della direttiva previsto un regime di maggior favore per l’agente sia in ordine al momento genetico del diritto alla provvigione che in relazione al relativo onere probatorio, in ogni caso grava sull’agente l’onere di provare la conclusione del contratto e altresì di precisare, in caso di una pluralità di contratti promossi, quali siano stati i contratti conclusi e per quale ammontare. Allo stesso modo, laddove l’esigibilità delle provvigioni sia condizionata al pagamento da parte del terzo, pare doversi ritenere che l’agente abbia l’onere di dimostrarlo.
16 Cass. 2 maggio 2000, n. 5467.
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Sembra dunque continuare a gravare sull’agente l’onere di precisare i fatti e di fornire la prova degli elementi costituitivi del suo diritto alla provvigione, ed in particolare la promozione di affari e la conclusione degli stessi.
La Corte di Cassazione si è peraltro pronunciata in maniera non sempre conforme in questa materia.
5. Lo «star del credere» e la legge comunitaria 1999.
Con la legge comunitaria 1999 17, e più precisamente con il suo art. 28, la disciplina del contratto di agenzia, ed in particolare la possibilità di inserimento nel testo del contratto del patto cosiddetto dello «star del credere», ha subito un’ulteriore modifica 18.
Le disquisizioni sulla natura giuridica della clausola relativa allo star del credere, unitamente alle varie e molteplici problematiche sorte attorno alla stessa nell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che si è susseguita nel corso degli anni, perdono di rilevanza, quanto meno in gran parte, in relazione al contenuto del predetto art. 28 19, che sancisce un divieto espresso e generalizzato di porre a carico dell’agente una responsabilità, anche solo parziale, per l’inadempimento del terzo.
L’obbiettivo primario di questo intervento è senza dubbio quello di eliminare la possibilità per le parti di prevedere una clausola generale relativa allo star del credere.
La prima modifica elimina infatti la possibilità di richiamare l’art. 1736 cod. civ., che disciplina lo star del credere nel differente contratto di commissione.
Sulla possibilità di applicazione analogica di questa norma al contratto di agenzia, con la conseguente necessità di prevedere un compenso per l’agente, si è svolto in passato, un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, risolto in favore dell’impossibilità di applicazione analogica, e pertanto l’espressa eliminazione del rinvio all’art. 1736 cod. civ. può apparire superflua. Ciò anche in considerazione del divieto espresso contenuto nel nuovo terzo comma.
Il terzo comma dell’art. 1746, dopo aver sancito il divieto di inserire una clausola generale che preveda la responsabilità dell’agente, sia totale che parziale, per l’inadempimento del terzo, contempla però una possibilità di deroga. Alle parti è infatti consentito, eccezionalmente, di concordare una apposita garanzia a carico dell’agente, ma con limitazioni ben precise.
17 Legge 21 dicembre 1999, n. 526, in G.U. 18 gennaio 2000, n. 13, Serie Gen., Suppl. Ord. n. 15/L.
18 Xxxxxxxx riesce difficile comprendere quale attinenza possa avere la disciplina dello star del credere con la legge comunitaria, considerando che il testo della direttiva 86/653 non prende in considerazione l’argomento.
19 L’art. 28 ha infatti inserito una precisazione nel secondo comma dell’art. 1746 cod. civ. ed ha aggiunto un nuovo terzo comma.
Deve trattarsi di accordi singoli, da concordare di volta in volta, con riferimento ad affari determinati individualmente, di valore rilevante e di natura particolare, con ciò ribadendo l’inadeguatezza di previsioni di carattere generale.
E’ fissato inoltre un limite quantitativo alla garanzia dell’agente, che non può superare l’importo della provvigione spettante allo stesso per il singolo affare.
E’ infine necessario che l’agente riceva di volta in volta un compenso per l’assunzione della garanzia.
Non è prevista una disciplina transitoria, cosa che avrebbe senza alcun dubbio potuto essere opportuna, né è prevista alcuna deroga per l’entrata in vigore, da ritenersi quindi coincidente con quella della legge comunitaria 20.
La prima conseguenza di queste modifiche è la nullità, per contrarietà a norma imperativa, di tutte le clausole contenute nei singoli contratti, sottoposti al diritto italiano, che prevedano l’applicazione dello star del credere, così come delle relative pattuizioni contenute nella contrattazione collettiva. Appare quindi evidente l’impossibilità di inserire nel contatto clausole generali che, direttamente o indirettamente, comportino una responsabilità, totale o parziale, da parte dell’agente per l’inadempimento del terzo. E’ questo un divieto decisamente esplicito, che prevede delle eccezioni altrettanto dettagliatamente disciplinate, e che non lascia dunque molto spazio all’autonomia delle parti per elaborare sistemi alternativi, che correrebbero peraltro il rischio di essere considerati nulli poiché indirettamente contrari al principio predetto. Anche la stessa eccezione al criterio di carattere generale appare di non facile attuazione.
Sarà quindi opportuno e necessario imporre all’agente il rispetto rigoroso dell’obbligo di informazioni di cui al primo comma dell’art. 1746 cod. civ., limitare al massimo il potere di rappresentanza conferito agli agenti, con la conseguente necessità di approvazione da parte del preponente per la valida conclusione di contratti, ed in generale una maggiore accortezza del preponente nella valutazione degli ordini ricevuti.
A questo proposito è opportuno segnalare una tendenza dottrinale che, proprio sulla base dell’obbligo di informazioni (la cui violazione potrebbe essere sanzionata da una clausola penale) ha tentato di ricostruire una disciplina lecita dello star del credere, in quanto nulla vieterebbe di commisurare la penale ad una percentuale del valore della perdita subita dal preponente.
Soluzione questa da valutarsi con estrema prudenza.
Da ultimo è opportuno fare presente che gli altri Stati membri destinatari della direttiva 86/653 applicano una disciplina senza dubbio meno restrittiva di quella introdotta in Italia dalla legge
20 2 febbraio 2000.
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comunitaria 1999, così confermando che la modifica della normativa italiana non era imposta da nessun obbligo di carattere comunitario.
6. Il ruolo agenti e rappresentanti di commercio alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000. L’atteggiamento della giurisprudenza italiana.
La problematica dell’iscrizione dell’agente al ruolo e quella connessa delle conseguenze della sua mancanza sulla validità del contratto e sull’attività posta in essere dall’agente in esecuzione dello stesso21, hanno creato sin dagli anni settanta accese discussioni e dibattiti in dottrina e giurisprudenza, sfociati nella declaratoria di nullità del contratto concluso con agente non iscritto al ruolo e nella possibilità per l’agente di vedere accolte in parte le proprie pretese con il riconoscimento di provvigioni tramite l’azione di indebito arricchimento e la conversione del contratto nullo in un valido contratto di procacciamento d’affari e, in alcune recenti pronunce 22, altresì a titolo di indennità di fine rapporto, tramite l’applicazione dei principi generali in tema di indebito arricchimento.
A questi contrasti pare aver posto fine la sentenza 30 aprile 1998 della Corte di Giustizia, che ha stabilito la contrarietà di quella parte della normativa sul ruolo che impone l’iscrizione dell’agente (e dalla quale la giurisprudenza passata faceva discendere la nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa) con il contenuto della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653.
Successivamente all’emissione di questa pronuncia della Corte di Giustizia, si sono riscontrati atteggiamenti divergenti da parte della giurisprudenza di merito italiana, ai quali è seguita, nel maggio del 1999, una sentenza della Corte di Cassazione 23 che, in applicazione del principio stabilito in sede comunitaria, ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado disponendo la disapplicazione della normativa interna ad opera del giudice di rinvio, con la conseguenza che l’iscrizione al ruolo non va ritenuta come un requisito di validità del contratto. Ulteriori pronunce conformi sono state emesse dal Supremo Collegio nel novembre del 1999.
La questione è stata nuovamente sottoposta alla Corte di Giustizia da parte del Tribunale di Brescia 24, e la decisione è stata emessa in data 13 luglio 2000, confermando da un lato l’incompatibilità con il testo della direttiva 86/653 di una legge nazionale che condizioni la validità del contratto
21 Per un esame più approfondito della normativa sul ruolo e dell’efficacia delle direttive comunitarie nell’ordinamento dei singoli Stati membri, si rimanda a un nostro precedente scritto: Venezia, Il ruolo agenti e l’efficacia delle direttive comunitarie, in I Contratti, 1999, p. 1056 e ss.
22 Cass. 30 maggio 1997, n. 4798 e 4799.
23 Cass. 18 maggio 1999, n. 4817.
24 Causa c 456/98 Centrosteel srl c Adipol Gmbh, in Dir. com. scambi int. 2000, p. 581 e ss., con nota di Venezia, In tema di efficacia della direttiva sugli agenti commerciali: come volevasi dimostrare.
all’iscrizione in un albo od elenco e dall’altro la necessità di interpretare il diritto nazionale alla luce delle lettera e della ratio della direttiva.
Con la sua prima pronuncia del 30 aprile 1998 Corte di Giustizia, adita su iniziativa del Tribunale di Bologna, ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE, per la soluzione di una questione pregiudiziale attinente all’interpretazione della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, n. 653, ha ritenuto assolutamente incompatibile con il testo della direttiva comunitaria 86/653 una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in un apposito albo.
Questa presa di posizione della Corte, molto chiara dal punto di vista del principio di diritto enunciato, ha sollevato il problema degli effetti di tale sentenza sia sul giudizio per la cui soluzione era sorta la questione pregiudiziale, sia su eventuali futuri giudizi che avrebbero potuto presentarsi dinanzi al giudice nazionale.
La questione è senza dubbio molto delicata e comporta l’esame di problematiche di diritto comunitario abbastanza complesse attinenti all’efficacia delle direttive comunitarie nei singoli ordinamenti interni 25, nel caso in cui non siano state emesse conformi norme nazionali di attuazione entro i termini previsti dalle direttive stesse. In particolare, in relazione ai soggetti coinvolti nella singola controversia ci si domanda se sia possibile attribuire alle disposizioni della direttiva un’efficacia diretta, nel rispetto del principio generale dell’efficacia esclusivamente verticale delle direttive comunitarie.
Passando dalla teoria alla pratica, è utile segnalare quale sia stato l’atteggiamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, anche al fine di chiarire, allo stato, l’importanza da attribuire nel singolo caso concreto all’eventuale mancata iscrizione dell’agente nel ruolo.
Una delle prime pronunce di merito, emessa nel 1998 dal Tribunale di Milano sezione lavoro (in qualità di giudice di appello), ha ritenuto determinante la pronuncia della Corte di Giustizia, con la conseguente disapplicazione della normativa interna sul ruolo agenti e rappresentanti e la totale irrilevanza ai fini della validità del contratto dell’eventuale mancata iscrizione dell’agente al ruolo stesso. Questa sentenza, senza dubbio molto chiara sulla soluzione da dare al problema , non lo è stata altrettanto nella motivazione della propria scelta, limitandosi ad un richiamo alla sentenza della Corte dalla quale sarebbe derivata la predetta irrilevanza.
Una successiva pronuncia del Tribunale di Lodi (investito della questione solo incidentalmente, quale giudice di rinvio di un precedente giudizio per Cassazione) ha invece assunto un atteggiamento diametralmente opposto, confermando la nullità del contratto e ritenendo dunque ininfluente la pronuncia della Corte di Giustizia. Ciò in quanto la direttiva comunitaria 86/653
25 Si rimanda sul punto al nostro articolo cit. in nota 21.
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potrebbe avere efficacia diretta solo ed esclusivamente nell’ambito di rapporti verticali, nei quali sia parte uno Stato membro, e conseguentemente, trattandosi nella fattispecie di rapporti tra privati (intercorrenti tra un agente ed un preponente), nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla sentenza della Corte, che al più avrebbe consentito all’agente di adire l’autorità giudiziaria chiedendo la condanna dello Stato italiano al risarcimento dei danni subiti a causa della mancata corretta attuazione della direttiva comunitaria 86/653 26.
Questa impostazione che, al contrario della precedente, ha determinato la conferma della declaratoria di nullità del contratto, è stata, come detto, completamente sovvertita da una successiva pronuncia della Corte di Cassazione del maggio del 1999. La Corte, effettuando un’interpretazione estensiva del concetto di rapporto verticale, ha affermato la diretta applicabilità della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653, anche nei rapporti intercorrenti tra agente e preponente (privati), dove dunque, almeno dal punto di vista dei soggetti processuali, non sia parte lo Stato.
Questa interpretazione è basata sulla considerazione che debba badarsi più che alla qualità dei soggetti, agli interessi tutelati dalla norma (nella specie l’art. 9 della legge 204/85), interessi che legittimerebbero una qualificazione in termini di rapporto verticale, con la conseguente applicabilità diretta di quelle disposizioni della direttiva dalle quali discende l’incompatibilità con la legge sul ruolo, e la possibilità di disapplicazione da parte del giudice nazionale della normativa interna sul ruolo agenti e rappresentanti (nella parte in cui legittima la sanzione di nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa).
Sulla medesima linea interpretativa si pongono una serie di successive pronunce del novembre 1999 27, nelle quali si afferma che, in seguito alla decisione della Corte di Giustizia 30 aprile 1998, le disposizioni delle leggi nazionali degli Stati membri non possono stabilire la nullità dei contratti di agenzia stipulati con soggetti non iscritti in un apposito ruolo.
Pertanto, allo stato, in considerazione della presa di posizione del Supremo Collegio, può affermarsi che l’iscrizione al ruolo agenti e rappresentanti non è più considerata come un requisito di validità del contratto di agenzia.
L’irrilevanza dell’iscrizione al ruolo ai fini della validità del contratto di agenzia è suscettibile di generare problematiche non secondarie in tutti quei rapporti di procacciamento d’affari, con procacciatori non iscritti al ruolo, che poco abbiano a che vedere con lo svolgimento di attività saltuaria e senza obblighi di promozione, essendo invece veri e propri contratti di agenzia, formalmente inquadrati negli schemi del procacciamento d’affari per evidenti motivi di convenienza.
26 Corretta attuazione che avrebbe dovuto comportare l’abolizione da parte del legislatore italiano dell’obbligo di iscrizione quale condizione di validità del contratto
27 Cass. 12 novembre 1999, dal n. 12580 al n. 12585
In passato infatti, nonostante le varie aperture giurisprudenziali in termini di indebito arricchimento, la mancata iscrizione al ruolo poteva considerarsi una circostanza decisiva per ottenere la reiezione in giudizio di eventuali richieste di riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di agenzia, da considerarsi in ogni caso nullo.
Attualmente invece, in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale della Cassazione sopra menzionato, non si può escludere che, laddove il contratto di procacciamento d’affari sia stato utilizzato a fini elusivi, un’eventuale richiesta di riconoscimento dell’esistenza di un contratto di agenzia possa essere accolta, con le relative conseguenze in termini di diritto alle provvigioni ed alle indennità di preavviso (o risarcimento del danno) e di fine rapporto.
Da ultimo è opportuno segnalare che la Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente, il 13 luglio 2000, sulla medesima problematica già affrontata dalla sentenza del 30 aprile 1998. In tale nuova pronuncia, pur confermandosi l’incompatibilità tra la direttiva comunitaria ed una legge nazionale che consideri l’iscrizione in un albo quale requisito di validità del contratto, la Corte di Giustizia ha posto l’accento sulla possibilità per il giudice nazionale di escludere la nullità del contratto di agenzia concluso con soggetto non iscritto, per via interpretativa. Queste conclusioni sono basate sul già menzionato principio secondo il quale, applicando il diritto interno, la giurisdizione nazionale chiamata ad interpretarlo è tenuta a farlo, per quanto possibile, alla luce del testo e delle finalità della direttiva per pervenire al risultato da questa perseguito.
La soluzione proposta lascia perplessi in quanto è in netto contrasto con la possibilità di applicazione diretta della direttiva affermata dalla pronuncia del maggio 1999 della Corte di Cassazione. Oltre a ciò, va detto che la stesa Corte di Giustizia menziona la predetta sentenza della Cassazione quale prova dell’intervenuto adeguamento della giurisprudenza italiana per via interpretativa. Appare evidente che la Corte di Giustizia non abbia esaminato in profondità la motivazione della pronuncia della Corte di Cassazione. Bisognerà quindi presumibilmente attendere un’ulteriore sentenza della Corte di Giustizia per stabilire se l’ampliamento del concetto di rapporto verticale effettuato dalla Corte di Cassazione possa ritenersi in linea con la giurisprudenza comunitaria, e come tale efficace.
7. Affinità e differenze tra la figura dell'agente e quella del procacciatore d'affari.
Il contratto di procacciamento d’affari è un contratto atipico, che non trova cioè la sua regolamentazione in alcuna specifica norma di legge.
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L’oggetto del contratto è abbastanza simile a quello di agenzia, anche se se ne differenzia decisamente in virtù delle sue peculiari caratteristiche.
Il procacciatore infatti, pur essendo anch’egli un collaboratore del produttore o del distributore di beni o servizi, ha un legame con quest’ultimo assai debole.
L’incarico viene di norma conferito con una semplice autorizzazione e consiste nella raccolta di proposte d’ordine (cioè ordinazioni) presso clientela potenziale, senza però che il procacciatore assuma alcuna obbligazione nei confronti del produttore in merito allo svolgimento dell’attività di promozione.
Quale compenso per l’attività svolta, al procacciatore viene riconosciuta una provvigione se l’affare segnalato va a buon fine o se all’ordinazione inviata segue la conclusione di un contratto.
Il contratto di procacciamento d’affari è caratterizzato dall’occasionalità, e cioè dalla carenza di stabilità e continuità.
Per norma non viene affidata al procacciatore alcuna zona ed il rapporto, di solito a tempo indeterminato, si scioglie ad iniziativa di una qualunque delle parti, con preavviso minimo.
Normalmente non sono previste clausole di esclusiva e neppure clausole di non concorrenza, soprattutto dopo la fine del rapporto.
Al procacciatore d’affari non è di norma conferito il potere di rappresentanza (ipotesi peraltro eventuale anche nel contratto di agenzia) e pertanto il potere di concludere contratti è riservato, salvo casi particolari, esclusivamente al produttore.
La sostanziale instabilità ed occasionalità dell’attività del procacciatore non esclude peraltro che, di fatto, vengano segnalati molti nominativi e conclusi numerosi contratti, in quanto ciò che rileva non è tanto la frequenza ed il risultato dell’attività, quanto piuttosto l’assenza dell’obbligo di svolgere attività promozionale, così come di attenersi alle istruzioni del preponente (fatte salve ovviamente le condizioni di vendita).
L’attività è in sostanza molto simile a quella dell’agente, ma caratterizzata dalla più totale assenza di vincoli per il procacciatore, che agisce quindi in totale indipendenza ed autonomia, senza che sia possibile ricondurre a questa figura l’assunzione di qualunque obbligazione, soprattutto in relazione allo svolgimento di attività promozionale (che come è noto costituisce invece l’obbligazione primaria dell’agente).
Quale contropartita per questa totale carenza di obblighi vi è una altrettanto totale assenza di tutela, sia per quanto attiene alle modalità di scioglimento del rapporto che in relazione all’eventuale indennità di preavviso o di fine rapporto, da considerarsi decisamente escluse.
Per questa sostanziale assenza di tutela il rapporto di procacciamento d’affari viene talvolta utilizzato a meri fini elusivi della normativa prevista per il contratto di agenzia.
Il criterio di differenziazione, oltre ovviamente al tipo di contratto adottato, è costituito dalle concrete modalità di svolgimento del rapporto, dalle quali si evince chiaramente se ci troviamo di fronte ad un autentico rapporto di procacciamento d’affari o ad un contratto di agenzia qualificato come procacciamento d’affari a fini elusivi. Come già accennato nel paragrafo precedente, in passato quest’ultima ipotesi poteva avere qualche possibilità di successo, consentendo al preponente di andare indenne dall’applicazione della normativa prevista per il contratto di agenzia, laddove il procacciatore non fosse stato iscritto al ruolo agenti in quanto, in tal caso, la sanzione era costituita dalla nullità del contratto di agenzia la cui esistenza fosse stata in ipotesi accertata.
Attualmente però, come detto, la situazione è radicalmente cambiata.
Infine non va sottovalutata l’eventualità che l’E.N.A.S.A.R.C.O., a seguito di ispezione, accerti la predetta simulazione, con la conseguente irrogazione di pesanti sanzioni.
In conclusione può dirsi che il contratto di procacciamento d’affari è senza dubbio uno strumento assai flessibile e privo di particolari oneri e impegni, anche di carattere economico, ma che deve essere utilizzato solo nel caso in cui si intenda effettivamente servirsi di collaboratori occasionali e non nella ben differente ipotesi in cui si cerchi una collaborazione stabile senza voler sottostare alla disciplina del contratto di agenzia poiché, in quest’ultimo caso, il rischio di una vertenza alla fine del rapporto, per la richiesta del riconoscimento dell’esistenza di un contratto di agenzia, è senza dubbio molto alto.
8. Lo scioglimento del contratto: l’indennità di fine rapporto e l’evoluzione della giurisprudenza italiana in ordine alla validità dei criteri di quantificazione individuati dalla contrattazione collettiva.
La disciplina italiana dell’indennità di fine rapporto, nonostante l’intervento della direttiva comunitaria 86/653 e l’emissione di due decreti legislativi (303/91 e 65/99) di attuazione, è particolarmente complessa, e ciò soprattutto in considerazione da un lato della presenza della normativa prevista dalla contrattazione collettiva e dall’altro delle difficoltà di trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano, che hanno reso necessaria, come detto, l’emissione di due decreti legislativi.
La complessità della situazione è inoltre accentuata dalla carenza di coordinamento tra la normativa, anche derivante dalla contrattazione collettiva, vigente prima dell’emissione della direttiva 86/653 e le modifiche e integrazioni apportate dai decreti legislativi 303/91 e 65/99.
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L’indennità di fine rapporto è disciplinata dall’art. 1751 cod. civ. che, come detto, ha subito drastici cambiamenti in esecuzione della direttiva comunitaria.
Il primo decreto legislativo di attuazione (d. lgs. 303/91) ha infatti sostituito integralmente (art. 4) l’art. 1751, non riportando però fedelmente le disposizioni della direttiva e creando così accesi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza. Dibattiti alimentati dalle organizzazioni di categoria che nel 1992, nell’intento di dare attuazione alla lacunosa disciplina prevista dall’art. 1751 cod. civ., hanno emesso a loro volta nuovi accordi economici collettivi, al fine di stabilire criteri idonei alla quantificazione dell’indennità, ma che di fatto hanno riproposto, con alcune modifiche meramente formali, la medesima normativa vigente prima dell’emissione della direttiva.
Questo atteggiamento ha fatto sì che la giurisprudenza, avendo a propria disposizione i criteri di quantificazione previsti dalla contrattazione collettiva e, come vedremo, una normativa di attuazione lacunosa, in molti casi abbia optato per la soluzione più semplice, e cioè l’applicazione degli accordi economici, senza badare peraltro alla circostanza che, prescindendo dalla validità dei predetti accordi, così facendo la disciplina dell’indennità di fine rapporto finiva per non subire alcun cambiamento rispetto al passato.
Questa abnorme situazione è stata rilevata dagli organi comunitari, che hanno avviato, come detto, una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la non corretta attuazione della direttiva 86/653. E’ quindi divenuto improcrastinabile un secondo intervento legislativo al fine di sanare il contrasto con il testo della direttiva, armonizzando così la normativa italiana con le disposizioni dettate in sede comunitaria.
E’ stato quindi emesso il d. lgs. 65/99 che, tra le altre variazioni apportate alla disciplina codicistica, ha modificato l’art. 1751 cod. civ. risolvendo però, come vedremo, solo parzialmente i problemi emersi a seguito del primo intervento di adeguamento.
I molteplici problemi di attuazione della direttiva, con particolare riferimento all’indennità di fine rapporto, sono derivati principalmente dalla sostanziale diversità tra la disciplina contenuta nel testo della direttiva e la previgente normativa italiana. In Italia infatti, al momento dell’emissione della direttiva, l’indennità era costituita da due componenti: la prima riconosciuta in ogni ipotesi di cessazione del contratto e la seconda (indennità suppletiva di clientela) laddove il contratto a tempo indeterminato fosse risolto ad iniziativa del preponente, per fatto non imputabile all’agente.
Nella direttiva comunitaria invece non è prevista alcuna corresponsione automatica in caso di cessazione del rapporto, ed è garantita a ciascuno Stato membro la facoltà di scelta tra due soluzioni (l’una derivante dalla legislazione tedesca e l’altra da quella francese), ispirate la prima ad un criterio meritocratico, che riconosce dunque il diritto ad un’indennità solo se e nella misura in cui l’agente abbia apportato clientela al preponente (o sviluppato quella esistente) con sostanziali
vantaggi per il preponente dopo la cessazione del rapporto in relazione alla clientela apportata e la corresponsione risponda ad equità, e la seconda ad un criterio risarcitorio, essendo l’ammontare dell’indennità rapportato al pregiudizio subito dall’agente in relazione alla cessazione del rapporto (da valutarsi secondo determinati indici).
Il legislatore italiano si è dunque trovato a dover scegliere tra due meccanismi entrambi alquanto differenti rispetto alla normativa italiana allora vigente.
La scelta, com’era prevedibile, è caduta sulla cosiddetta soluzione tedesca, ovvero la prima delle predette, rispondente ad un criterio ispiratore di carattere meritocratico, scelta che ha comportato, come detto, a seguito dell’emissione del d. lgs. 303/91, la sostituzione integrale dell’art. 1751 cod. civ.
Questo primo intervento del legislatore italiano è stato però caratterizzato dalla presenza di un errore e di due omissioni, che hanno comportato molteplici problemi di carattere interpretativo ed applicativo, una presa di posizione da parte delle associazioni di categoria che, come detto, nel 1992 hanno stipulato nuovi accordi nel tentativo di individuare idonei criteri di quantificazione dell’indennità ed una conseguente proliferazione di vertenze giudiziarie, accompagnate da contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali.
L’errore commesso è costituito dall’aver previsto le due condizioni, indicate nell’art. 17 del testo della direttiva come necessarie entrambe per il sorgere del diritto, in via alternativa, così potenzialmente legittimando la corresponsione dell’indennità una volta riscontrata l’esistenza anche di una sola di esse, e dando così luogo ad una situazione di potenziale squilibrio.
Questo primo errore, peraltro rimediabile in via interpretativa, è stato sanato dal d. lgs. 65/99, che ha modificato l’art. 1751 cod. civ. precisando che le due condizioni (apporto o sviluppo della clientela e rispondenza ad equità) debbono sussistere entrambe per il venir in essere del diritto.
Anche una delle due omissioni, e più precisamente la meno grave, consistente nella mancata previsione del diritto all’indennità in caso di decesso dell’agente, è stata eliminata dal d. lgs. 65/99, che ha effettuato un’ulteriore modifica all’art. 1751 cod. civ., inserendo il nuovo comma 7, che testualmente dispone: «L’indennità è dovuta anche se il rapporto cessa per morte dell’agente».
Ben più rilevante è invece la seconda omissione, alla quale peraltro non ha inspiegabilmente posto rimedio il d. lgs. 65/99, consistente nel non aver preso in considerazione un aspetto essenziale dell’indennità, così come disciplinata dalla direttiva, e cioè i criteri per la sua quantificazione.
L’art. 17 della direttiva prevede infatti che le medesime condizioni da prendere in considerazione per valutare l’esistenza del diritto, vadano tenute presenti anche per la quantificazione dello stesso.
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La direttiva stabilisce che l’agente ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui sussistono le due condizioni dell’apporto e sviluppo di clientela con sostanziali vantaggi per il preponente, anche dopo la cessazione del rapporto, e della rispondenza ad equità della corresponsione.
Nell’art. 1751 cod. civ. invece non vi è traccia della locuzione «..nella misura in cui», che avrebbe potuto risolvere senza difficoltà i vivaci dibattiti dottrinali e giurisprudenziali tuttora esistenti.
Pertanto, nell’art. 1751 cod. civ. non risulta previsto o indicato, anche in chiave di mero rinvio, alcun criterio per la quantificazione dell’indennità, che viene determinata esclusivamente nel suo limite massimo, corrispondente ad un anno di provvigioni, calcolate sulla media delle provvigioni percepite negli ultimi 5 anni di durata del contratto o nell’intero contratto, se di durata inferiore a 5 anni.
Alla situazione di incertezza esistente dopo l’emissione del d. lgs. 303/91 28 è stato aggiunto un elemento di ulteriore complicazione da parte delle associazioni di categoria che, in relazione alla disciplina innovativa in tema di indennità di fine rapporto contenuta nel d. lgs. 303/91, hanno ritenuto 29 di stipulare nuovi accordi economici 30 per fissare i criteri di quantificazione dell’indennità.
Prima di esaminare i criteri elaborati dalla contrattazione collettiva, è opportuno far presente che l’assenza di validi criteri di quantificazione dell’indennità di fine rapporto è più apparente che reale, in quanto le modifiche all’art. 1751 cod. civ. sono state effettuate in esecuzione degli obblighi derivanti da una norma di carattere comunitario, e cioè la direttiva 86/653.
Il d. lgs. 303/91, così come il successivo d. lgs. 65/99 sono quindi norme nazionali di attuazione di una direttiva comunitaria e come tali sono suscettibili di essere interpretate dal giudice nazionale alla luce del principio interpretativo, elaborato dalla Xxxxx xx Xxxxxxxxx 00, consistente nella necessità per i giudici nazionali di interpretare le disposizioni nazionali di attuazione di una direttiva comunitaria, quanto più è possibile, alla luce della lettera e della ratio della direttiva medesima, senza che a ciò possa essere di ostacolo l’eventuale errore in cui sia incorso il legislatore nazionale. Pertanto il giudice nazionale, al fine di individuare i criteri di quantificazione dell’indennità, ha l’obbligo di interpretare l’art. 1751 cod. civ. tenendo presente il testo della direttiva, e può quindi
28 Situazione che pare immutata anche a seguito del successivo d. lgs. 65/99 che, come detto, ha inspiegabilmente omesso di intervenire sul punto.
29 Anche in relazione al contenuto di un articolo dell’accordo economico 16 novembre 1988 (art. 19), che espressamente prevedeva che, qualora fosse stata intrapresa un’azione legislativa tendente a modificare le clausole dell’accordo, o che avesse comportato oneri nuovi per i preponenti, le parti avrebbero dovuto concordare provvedimenti idonei al fine di evitare che il complesso degli oneri dell’accordo subisse modificazioni di sorta, pena la decadenza dell’intero accordo.
30 AEC 30 ottobre 1992, per il settore industria, 19 novembre 1992, per il settore artigianato e 27 novembre 1992, per il settore commercio.
31 Anche al fine di mitigare l’esclusione di efficacia diretta, nei rapporti tra privati, delle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise contenute in direttive comunitarie.
utilizzare i due criteri dell’apporto o sviluppo di clientela e della rispondenza ad equità della corresponsione non solo per il sorgere del diritto, ma altresì per la sua quantificazione.
Spetta dunque alla giurisprudenza il compito di elaborare validi criteri di quantificazione dell’indennità, basati sulla misura dell’apporto di clientela e della rispondenza ad equità della corresponsione, criteri la cui esistenza dovrà essere oggetto di accertamento nel singolo caso concreto sulla base delle risultanze probatorie, il cui onere appare gravare esclusivamente sull’agente.
Inquadrata correttamente la problematica dal punto di vista teorico, è opportuno esaminare la soluzione elaborata dalle parti sociali e trasfusa negli accordi economici del 1992 al fine di valutarne la compatibilità con la disciplina italiana e soprattutto con la normativa comunitaria.
Gli anzidetti accordi economici 32, nel dichiarato intento di dare pratica attuazione al nuovo testo dell’art. 1751 cod. civ., non hanno fatto altro che riproporre sotto una veste formalmente differente, la medesima disciplina esistente prima dell’emissione della direttiva 86/653.
Difatti, da un lato si è fatto coincidere il concetto di equità con l’indennità di fine rapporto, da sempre accantonata presso il fondo F.I.R.R. dell’E.N.A.S.A.R.C.O., che come per il passato viene riconosciuta in ogni ipotesi di scioglimento del contratto, e dall’altro è stata prevista la corresponsione di un’indennità aggiuntiva, esattamente corrispondente alla previgente indennità suppletiva di clientela, e da considerasi presumibilmente dovuta in relazione alla clientela apportata o sviluppata dall’agente nel corso del rapporto.
In altri termini, le parti sociali, dopo aver riscontrato la necessità di variare le previsioni degli accordi economici in considerazione delle novità contenute nell’art. 1751 cod. civ. (come modificato dal d. lgs. 303/91) hanno di fatto riproposto esattamente lo stesso meccanismo previsto in precedenza senza alcuna variazione, così disattendendo quelli che erano, quanto meno formalmente, i propri obbiettivi.
Risulta inoltre completamente disatteso lo spirito della direttiva, che da un lato impone che la valutazione sulla rispondenza ad equità della corresponsione venga effettuata a posteriori e non prima ancora che il rapporto abbia inizio, e dall’altro commisura l’indennità dovuta all’effettivo apporto o sviluppo di clientela, e cioè ad un criterio meritocratico che non si riscontra nel testo degli accordi, che appaiono invece desiderosi esclusivamente di mantenere inalterata la situazione previgente.
Infine, l’attribuzione di percentuali fisse al concetto di equità ed all’apporto di clientela non è corretto in quanto equità ed apporto di clientela non sono due voci cui far corrispondere importi
32 Che si sono limitati a sostituire gli articoli dedicati all’indennità di fine rapporto, rimanendo per il resto in vigore gli accordi precedenti.
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determinati o determinabili su base percentuale, ma criteri di quantificazione che tali importi debbono servire a determinare.
In conclusione, i criteri di cui ai predetti accordi economici a nostro avviso non possono ritenersi applicabili, se non in xxx xxxxxxxxx, x xxxx xx xxxx xxxx nei quali l’agente non riesca in concreto a fornire un idoneo supporto probatorio per dimostrare l’apporto di clientela e la rispondenza ad equità della corresponsione.
Nonostante che, come rilevato in precedenza, a seguito di un corretto inquadramento teorico della questione, la possibilità di applicare gli accordi economici collettivi del 1992 dovrebbe considerarsi meramente residuale, va sottolineato un maggioritario orientamento giurisprudenziale che, quanto meno in una serie di decisioni di merito, ha finito per applicare gli accordi economici quale criterio ordinario di quantificazione dell’indennità.
In sostanza si sono delineati due orientamenti prevalenti:
- uno dei quali maggioritario che, come detto, ha ritenuto applicabili gli accordi economici;
- l’altro, decisamente minoritario, che ha interpretato l’art. 1751 cod. civ. seguendo la ratio della direttiva, operando una differente quantificazione, basata sulla misura dell’apporto di clientela e sulla rispondenza ad equità della corresponsione.
Nell’ambito dell’orientamento maggioritario, uniforme nel ritenere applicabili i criteri di quantificazione contenuti negli accordi economici, varie sono state le prese di posizione dei giudici di merito, che hanno addotto motivazioni di volta in volta differenti, così evidenziando una disomogeneità di vedute.
Alcune pronunce hanno infatti utilizzato gli accordi economici quale criterio residuale di quantificazione in relazione alle carenze di carattere probatorio riscontrate nei ricorsi presentati dagli agenti: in altre parole, rilevata l’impossibilità di effettuare una quantificazione valutando la misura dell’apporto e dello sviluppo della clientela in quanto tali elementi non erano stati forniti dai ricorrenti, hanno ripiegato sul più agevole criterio di calcolo degli accordi economici.
Un altro nutrito gruppo di pronunce ha effettuato una valutazione aprioristica di maggior favore degli accordi economici rispetto al contenuto dell’art. 1751 cod. civ., ed ha applicato i primi in quanto non in contrasto con l’inderogabilità a svantaggio dell’agente stabilita dallo stesso art. 1751. La situazione giurisprudenziale relativa ai criteri di quantificazione da utilizzare per la determinazione nel singolo caso concreto dell’indennità dovuta è senza dubbio abbastanza delicata, anche se non va sottovalutato quell’orientamento minoritario che, utilizzando correttamente il criterio ermeneutico elaborato in materia dalla Corte di Giustizia, ha valutato il concreto apporto di clientela e la rispondenza ad equità della corresponsione, tentando così di uniformarsi al testo della direttiva.
Non va infatti dimenticato che, quale che sia la giustificazione da addurre dal punto di vista teorico, attualmente l’indennità di fine rapporto viene determinata dalla maggior parte della giurisprudenza italiana con il medesimo meccanismo che la direttiva comunitaria doveva superare.
Da ultimo, nel corso del 2000, si sono avute anche due pronunce della Corte di Cassazione che però, basandosi su di una questione di carattere procedurale (non erano stati riprodotti nel ricorso gli articoli degli aec da valutare), non hanno preso in considerazione il problema dell’efficacia degli accordi economici collettivi del 1992.
Peraltro, va tenuto presente che l’interpretazione dell’art. 1751 cod. civ. in armonia con il testo della direttiva, che senza dubbio comporterà l’attribuzione al giudice di un certo margine di discrezionalità, non significa che l’indennità dovrà sempre essere riconosciuta nel suo ammontare massimo, ma al contrario che tutte le circostanze dovranno essere attentamente valutate, comprese ad esempio quelle relative al potere di attrazione del marchio ed all’attività promozionale e pubblicitaria effettuata in zona dal preponente, alla luce del principio dell’onere della prova che, come detto, appare gravare interamente sull’agente.
Pertanto, sul presupposto del futuro prevalere della corretta interpretazione dell’art. 1751 cod. civ., i problemi di quantificazione dell’indennità sono destinati a spostarsi sul piano probatorio, anche in considerazione del requisito consistente nei vantaggi sostanziali che il preponente continui a trarre dalla clientela apportata.
L’art. 1751 cod. civ., dopo aver enunciato i requisiti necessari per il sorgere del diritto all’indennità e prima della fissazione del limite massimo della stessa, prevede, conformemente al testo della direttiva, tre ipotesi nelle quali l’indennità non è dovuta.
La prima si riscontra nel caso in cui il preponente risolva il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto.
Trattasi di una forma di recesso risolutivo, che dovrebbe consentire di far luce su di un contrasto da tempo esistente tra una parte della dottrina e la giurisprudenza dominante, vertente sulla possibilità di applicare analogicamente al contratto di agenzia la disciplina del recesso per giusta causa prevista per il rapporto di lavoro subordinato dall’art. 2119 cod. civ.
Mentre da un lato la giurisprudenza, anche recente 33, ammette pacificamente l’applicabilità della norma in via analogica anche al rapporto di agenzia, tenendo conto solo di rado delle differenze esistenti tra le due figure contrattuali, parte della dottrina ritiene che tale applicabilità contrasti con il principio di specialità proprio delle norme dettate per il rapporto di lavoro subordinato.
33 Cass. 20 aprile 1999, dal n. 3898 al n. 3901, in Mass. giur. it. 1999, col. 462 (attinenti alle modalità di contestazione della giusta causa); Cass. 1 febbraio 1999, n. 845, in Mass. giur. it. 1999, col. 129 – 130 (dove
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L’art. 2119 cod. civ. 34non richiede l’accertamento dell’esistenza di un vero e proprio inadempimento ad un obbligo contrattualmente assunto, essendo sufficiente il venir in essere di una
«giusta causa», che peraltro comporti conseguenze gravi, e cioè l’impossibilità di prosecuzione, anche provvisoria del rapporto.
Il tenore dell’art. 1751 cod. civ. (come modificato dal d.lgs. 303/91), pur apparentemente riprendendo pedissequamente il testo dell’art. 2119 cod. civ., se ne differenzia laddove parla espressamente di grave inadempienza, con la conseguenza che il più ampio concetto di giusta causa elaborato nell’area lavoristica, che consentirebbe di recedere dal contratto anche in relazione al semplice venir meno del rapporto fiduciario esistente tra le parti, non può ritenersi applicabile al contratto di agenzia.
In altri termini, ferma la possibilità di recedere dal rapporto in tronco (sulla scorta di un’applicazione analogica dei principi contenuti nell’art. 2119 cod. civ.), l’art. 1751 cod. civ. consente al preponente di non concedere il preavviso o alternativamente di non rispettare il naturale termine di scadenza, e di non corrispondere né l’indennità di fine rapporto né l’indennità di mancato preavviso o il risarcimento corrispondente, ma solo in relazione all’esistenza di un grave inadempimento, ovvero di un inadempimento di non scarsa rilevanza, e non di un generico venir meno del rapporto fiduciario esistente tra le parti o di qualunque altra causa che da tale inadempimento ben potrebbe prescindere.
La seconda ipotesi attiene alle dimissioni dell’agente, che in quanto tali non gli consentono di richiedere l’indennità di fine rapporto. A fronte di questa regola di carattere generale sono però previste due eccezioni, che permettono dunque all’agente di mantenere il proprio diritto all’indennità anche in caso di recesso.
Le anzidette eccezioni si riscontrano nell’ipotesi in cui il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente stesso, quali l’età, l’infermità e la malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività.
Appare evidente la differenza esistente tra la prima delle due eccezioni (recesso giustificato da circostanze attribuibili al preponente) e la prima ipotesi di perdita del diritto all’indennità (recesso risolutivo operato dal preponente per una grave inadempienza dell’agente), differenza che parrebbe consentire all’agente di recedere dal rapporto per un inadempimento del preponente non
per la verità il riferimento all’art. 2119 viene effettuato tenendo presente la diversa natura dei rapporti); Xxxx. 14 gennaio 1999, n. 368 e 369, in Mass. giur. it. 1999, col. 38 – 39.
34 Art. 2119 cod. civ. :« Recesso per giusta causa. – Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda».
particolarmente qualificato, al contrario di quanto avviene invece in caso di inadempimento da parte dell’agente.
Questo squilibrio, originato dalla genericità con la quale si fa riferimento alle circostanze attribuibili al preponente che possano aver indotto l’agente a recedere dal rapporto, lascia alquanto perplessi, anche in relazione alla sinallagmaticità del contratto di agenzia ed alla posizione di sostanziale autonomia ed indipendenza che caratterizza le due parti contrattuali. E’ peraltro necessario attendere che la giurisprudenza prenda una posizione sul punto al fine di individuare un’esatta delimitazione tra i due tipi di inadempimento.
La terza ed ultima ipotesi di perdita del diritto all’indennità, derivante dalla legislazione francese35, consegue alla cessione del contratto da parte dell’agente, previo accordo con il preponente.
La perdita del diritto all’indennità per l’agente uscente si giustifica con il passaggio del diritto all’agente subentrante, che senza dubbio avrà corrisposto un prezzo all’agente uscente per divenirne cessionario.
Ancora l’art. 1751 cod. civ. prima di stabilire, in armonia con il testo della direttiva, un termine di decadenza di un anno entro il quale l’agente deve comunicare al preponente l’intenzione di far valere i propri diritti, prevede la possibilità per l’agente di ottenere, oltre all’indennità, anche il risarcimento del danno.
Questa previsione ha fatto sì che una parte della dottrina si orientasse verso la tesi del risarcimento da atto lecito, così teorizzando la possibilità per l’agente di effettuare una richiesta a titolo di risarcimento del danno collegata al mero fatto della cessazione del rapporto (sia che avvenga tramite recesso con preavviso, sia con lo spirare del termine in un contratto a tempo determinato).
A nostro modo di vedere, prescindendo dal rilevare che la stessa configurabilità di una categoria di atti leciti dai quali possa derivare il diritto al risarcimento del danno non è pacifica in dottrina, va fatto presente che, essendo l’art. 1751 cod. civ. riferito indifferentemente al contratto a tempo determinato ed indeterminato, appare inaccettabile la ricostruzione interpretativa dell’ipotesi ivi prevista che tende a considerarla come una fattispecie di risarcimento da atto lecito (nella specie costituito dall’esercizio del diritto di recesso o dalla scadenza del termine) poiché, come detto,
35 Le origini francesi di questa previsione sono riscontrabili nel decreto del 5 novembre 1946 (successivamente dichiarato nullo dalla pronuncia del Consiglio di Stato del 30 aprile 1948) il cui oggetto era la disciplina del mandato commerciale. In tale normativa gli articoli da 34 a 48 erano dedicati al contratto di agenzia. Più precisamente era prevista la possibilità di cessione della propria “carte” da parte di un agente ad un altro agente, pervio accordo con il preponente. Laddove il preponente avesse negato il proprio consenso alla cessione del contratto, l’agente poteva richiedere il risarcimento del danno, quantificato equitativamente nelle due ultime annualità di provvigioni, e corrispondente al valore della “carte” cioè all’apporto di clientela dell’agente in favore del preponente. Nonostante la pronuncia del Consiglio di Stato, la giurisprudenza ha finito per adottare quale criterio di quantificazione di carattere generale per l’indennità di fine rapporto le due annualità di provvigioni anzidette.
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bisognerebbe riconoscere il diritto al risarcimento anche nell’ipotesi di semplice scadenza del contratto a termine.
E’ quindi senza dubbio preferibile interpretare la norma sul risarcimento in armonia con i principi generali, con la conseguente necessità di riscontrare, per il riconoscimento del diritto, un illecito (sia di carattere contrattuale che extracontrattuale) commesso dal preponente in occasione della cessazione del rapporto (in particolare in relazione alle modalità di cessazione, anche con riguardo ad un eventuale affidamento che sia stato in ipotesi creato sulla prosecuzione del rapporto).
Quest’ultima opinione è stata di recente confermata da una pronuncia del Supremo Collegio 36.
E’ inoltre prevista l’inderogabilità dell’art. 1751 cod. civ. a svantaggio dell’agente, in ciò superando le previsioni della direttiva che si limitavano a stabilirla durante la vigenza del contratto.
Infine, come detto in precedenza, il secondo intervento attuativo, effettuato dal d. lgs. 65/99, ha inserito un nuovo settimo comma, che prevede il diritto dell’agente (o meglio dei suoi eredi) all’indennità, anche in caso di decesso.
Milano, 9 Marzo 2001
Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx
36 Cass. 30 agosto 0000, x. 00000.