ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITA' DI BOLOGNA
Matricola n. 0000698937
ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITA' DI BOLOGNA
SCUOLA DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA
LA CESSIONE DEL CONTRATTO DEI CALCIATORI
Tesi di laurea in DIRITTO SPORTIVO
Relatore Presentata da
Xxxx. Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx
Sessione I^
Anno Accademico 2016/2017
Indice
Introduzione 5
Capitolo I: Il contratto di lavoro dei calciatori.
1. La natura controversa del rapporto di lavoro.
1.1. L’evoluzione storica della disciplina giuridica del lavoro sportivo 7
1.2. L’attuale disciplina del lavoro sportivo: la l. 23 marzo 1981 n. 91 12
2. Il contratto di lavoro sportivo. I requisiti essenziali.
2.1. Le parti. Il confine tra professionismo e dilettantismo 14
2.2. La causa. L’opzione per la subordinazione 15
2.3. L’assunzione diretta e la forma del contratto di lavoro sportivo 20
2.3.1. Forma scritta ad substantiam e ipotesi di invalidità contrattuale 22
2.3.2. La conformità al contratto tipo 24
2.3.3. Accordo collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P.A. – A.I.C 24
2.3.4. Efficacia temporale dell’accordo collettivo 26
2.3.5. Il rapporto tra accordo collettivo e contratto tipo 28
2.3.6. Il rapporto tra contratto tipo e contratto individuale di lavoro 29
2.3.7. I contratti stipulati in modo non conforme al contratto tipo. I patti aggiunti al contratto sportivo 30
2.3.8. Il deposito e l’approvazione del contratto ad opera della Federazione sportiva competente 34
2.4. L’oggetto del contratto di lavoro sportivo. Le “folli” clausole dei contratti dei calciatori 35
3. Le clausole facoltative e disposizioni normative non applicabili.
3.1. Clausola compromissoria 38
3.2. Clausola di non concorrenza 40
3.3. Le norme non applicabili al lavoro subordinato sportivo 41
Cap. II: Il vincolo sportivo.
1. Introduzione 45
2. Le origini del calciomercato: dai cambi di residenza degli inizi del ‘900 alle spese record del “Grande Torino”.
2.1. Il calcio dei “pionieri” e il primo grande trasferimento: il «caso Rosetta 46
2.2. La Carta di Viareggio e la legalizzazione del calciomercato 48
2.3. Gli anni del dopoguerra e il “Grande Torino” 49
3. Il vincolo sportivo.
3.1. L’origine storica 51
3.2. Il presupposto del vincolo: il tesseramento 54
3.3. La qualificazione giuridica del vincolo 57
3.4. La disciplina del vincolo nei Regolamenti Organici della F.I.G.C. precedenti alla l. n. 91/1981 59
3.5. Abolizione o mantenimento del vincolo? Le posizioni contrastanti di
F.I.G.C. e A.I.C. alla fine degli anni ’70 64
3.6. L’intervento del legislatore: la l. n. 91/1981 e l’abolizione del vincolo 67
Cap. III: La cessione del contratto dei calciatori.
1. L’art. 16 l. n. 91/1981 apre una fase transitoria (1981-1986).
1.1. Il trasferimento dei calciatori “ancora vincolati” 70
2. L’abolizione del vincolo e la cessione del contratto ex art. 5 l. n. 91/1981.
2.1. Il termine 73
2.2. La forma ed i moduli predisposti 75
2.3. Le cessioni temporanee dei contratti: ipotesi di prestito 78
2.4. L’accordo di partecipazione: la c.d. compravendita 84
2.5. Le clausole “particolari”. La c.d. clausola di “recompra”. La clausola di risoluzione del contratto 86
3. Le dispute dottrinali circa la qualificazione giuridica da attribuire al trasferimento dei calciatori.
3.1. Le correnti dottrinarie precedenti alla l. n. 91/1981 98
3.2. L’antitesi tra civilisti e tributaristi 100
4. Il ruolo affidato alle Federazioni dalla l. n. 91/1981: la cessione dei calciatori tra le leggi dello Stato e le disposizioni federali.
4.1. La violazione delle regole sportive nell’ottica del giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c 110
4.2. Sulla forma della cessione del contratto di lavoro del calciatore professionista: la simulazione quoad pretium 113
5. Art. 6 l. n.91/1981: l’indennità di preparazione o promozione 117
6. La rivoluzione «Xxxxxx» e la libera circolazione dei calciatori professionisti.
6.1. La vicenda 121
6.2. Gli effetti della sentenza 123
7. Il premio di addestramento e formazione tecnica 128
Bibliografia 130
Introduzione:
La tesi di laurea ha lo scopo di ripercorrere l’evoluzione della disciplina della cessione del contratto dei calciatori e costituire motivo di riflessione circa i continui e repentini cambiamenti cui sono soggetti il mondo del calcio e correlativamente il diritto sportivo. La prima parte dell’elaborato è dedicata necessariamente all’inquadramento giuridico del rapporto di lavoro sussistente tra il calciatore e la società sportiva con l’analisi delle varie correnti dottrinarie e delle più importanti pronunce giurisprudenziali che hanno portato alla definizione del rapporto di lavoro degli sportivi in termini di specialità rispetto alla disciplina di diritto comune. Il passo naturale successivo è stato quello di analizzare gli elementi essenziali del contratto di lavoro sportivo ed in particolare, sono state fatte emergere tutte le problematiche relative al requisito formale che la legge prescrive per la stipula dello stesso, nonché le peculiarità della prestazione che costituisce l’oggetto del contratto. È stato messo in luce come, al giorno d’oggi, le prestazioni che le parti devono soddisfare sono contenute all’interno di clausole contrattuali che si evolvono e si complicano ogni giorno di più per stare al passo con i tempi. Il calcio viene considerato sempre più un business e la continua evoluzione del calciomercato è un segnale emblematico in tal senso. Il percorso che con il mio elaborato ho voluto tracciare parte dalle primordiali trattative ostacolate dalla presenza del vincolo sportivo che impediva ai calciatori di essere liberi di contrattare il proprio futuro. La legge n. 91/1981 e la sentenza “Xxxxxx” hanno giocato un ruolo fondamentale per i calciatori professionisti. Hanno consentito infatti l’abolizione del vincolo sportivo (possibilità per i giocatori di trasferirsi “a parametro zero” a fine contratto) nonché la libera circolazione dei calciatori comunitari contribuendo a delineare quello che è l’assetto moderno delle trattative di calciomercato in cui i procuratori dei calciatori la fanno sicuramente da padrone. L’ultima parte della trattazione ha come obiettivo quello di considerare le clausole più utilizzate nelle trattative dei giorni
nostri con il tentativo di darne una definizione a livello giuridico, non essendo ancora state inquadrate in maniera sistematica dalla legge.
Un esempio è rappresentato dall’abolizione dell’opzione prevista dalle Norme Organizzative Interne Federali (N.O.I.F.) di cedere un calciatore in comproprietà e la sostituzione recentissima con la clausola c.d. di
«recompra», e ancora la cessione del contratto dei calciatori con la forma del «prestito con obbligo di riscatto» che trova la ratio nelle agevolazioni che le società coinvolte traggono a livello finanziario.
Xxxxxxx Xxxxxxxx
Capitolo I. Il contratto di lavoro sportivo.
1. La natura controversa del rapporto di lavoro sportivo.
1.1. L’evoluzione storica della disciplina giuridica del lavoro sportivo.
“I calciatori si comperano e si vendono; le società di calcio se li disputano, a suon di miliardi, in quella sorta di borsa dei calciatori, che va sotto il nome di campagna cessioni e acquisti. Così è però solo nell’immaginario collettivo; il mercato c’è, ma non ha né può avere ad oggetto, a rigor di logica giuridica, i calciatori in quanto tali, bensì il contratto in forza del quale le società calcistiche si procurano le loro prestazioni” (1).
A tale contratto fa riferimento la legge 23 marzo 1981, n. 91, recante norme in materia di rapporti tra società sportive e sportivi professionisti. Ciò che si negozia nel mercato dei calciatori è, dunque, il contratto di lavoro.
Per poter analizzare in maniera efficace il contratto in questione è necessaria la comprensione dell’evoluzione storica della disciplina giuridica del lavoro sportivo. La questione relativa all’individuazione della natura di tale rapporto di lavoro ha rappresentato a lungo terreno di vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la sua qualificazione giuridica.
Il problema venne affrontato per la prima volta in occasione della tragedia della collina di Superga (2) che diede luogo il 15/09/1950 alla sentenza del Tribunale di Torino la quale stabilì che il contratto che lega un calciatore professionista ad una società debba considerarsi quale prestazione d’opera, assimilabile, in particolare, al contratto che lega un impresario di pubblici spettacoli agli «artisti scritturati». Il Tribunale respinse la tesi che il calciatore fosse un bene della società di appartenenza e concluse che la morte del calciatore per responsabilità di un terzo (vettore) non costituì
(1) Così, testualmente, XXXXXXX, La compravendita dei calciatori, in Contratto e Impresa, 1/2001, p.1.
(2) La tragedia di Superga fu un incidente aereo avvenuto il 4 maggio 1949. Il mezzo, con a bordo l’intera squadra del “Grande Torino”, si schiantò contro la Basilica di Superga provocando la morte di 31 persone. Nel 2015, in ricordo della tragedia, la FIFA ha proclamato il 4 maggio come “giornata mondiale del giuoco del calcio”.
violazione diretta di un interesse e della sfera giuridica dell’associazione sportiva quale datore di lavoro. Per tale ragione alla società del Torino Calcio non venne risarcito alcun danno (3).
Successivamente la giurisprudenza, tornò sui suoi passi, mutando il suo orientamento: con la sentenza n. 2324 del 21 ottobre 1961 (4) la Corte di Cassazione affermò infatti che il rapporto tra società e sportivo professionista dovesse considerarsi alla stregua di un rapporto di lavoro subordinato, rendendo ad esso applicabili le norme del codice civile.
Tuttavia, a conferma delle difficoltà di inquadramento della fattispecie, solamente due anni dopo, la stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 811 del
2 aprile 1963) contribuì a dar luogo ad un’ulteriore orientamento: le
(3) Trib. Torino, 15 settembre 1950, in Riv. dir. sport. 1950, p. 55 ss per il quale “I giocatori, nonostante le somme, talora ingentissime, spese per riscattarli da altre società, sono pur sempre dei prestatori d’opera, e non patrimonio dell’associazione […] Il contratto che legava la Società Calcistica ai calciatori (e naturalmente, anche all’allenatore e al direttore tecnico) era un contratto di prestazione d’opera. Esso può essere assimilato al contratto fra l’impresario teatrale e in genere di pubblici spettacoli e gli artisti
«scritturati» e rientra nella più vasta categoria dei rapporti contrattuali che implicano, da parte del prestatore d’opera l’esercizio continuativo o volontario di una determinata attività personale […] se il giocatore, una volta assunto, si impegna a fornire alla squadra di cui fa parte ogni sua energia fisica e nervosa, si assoggetta (o dovrebbe assoggettarsi) alla più rigorosa disciplina di vita, addirittura limitatrice dei più elementari atti della vita quotidiana, non per questo il giocatore diventa una res della associazione, né giuridicamente, la sua posizione si diversifica da quella di ogni altro prestatore d’opera […] le forti somme sborsate per assicurarsi, in antagonismo con le società rivali, l’esclusivo diritto di pretendere dai calciatori la loro attività di gioco, dipendono dalla appetibilità di questi eccezionali prestatori d’opera. Ma altro, essi non sono, di fronte all’associazione, che prestatori d’opera, che «professionisti»; cioè uomini liberi che per una certa mercede e per un certo tempo si impegnano a svolgere una determinata attività. La loro uccisione per la colpa di un terzo non costituisce, pertanto, una diretta violazione della sfera giuridica dell’assuntore di questa loro attività. Nessun bene dell’attrice è stato leso direttamente dalla convenuta”.
Si v. anche MANGANI, Il contratto sportivo del calciatore inquadrato nella teoria generale dei contratti, in Riv. dir. sport., 1950, p. 34 ss e XXXXXX XXXXXX di CASTELLAZZO, Rapporto fra giuocatori ed associazioni sportive nel sistema del diritto, in Riv. dir. sport., 1953 p. 3 ss i quali riportano la versione che viene confermata da Cass., 4 luglio 1953, n. 2085, in Riv. dir. sport., 1950 p. 55 ss. “il contratto che lega un’associazione sportiva ai propri calciatori è un semplice contratto di prestazione d’opera, fonte soltanto d’un diritto di credito e niente più”.
(4) Cass., 21 ottobre 1961, n. 2324, in Riv. dir. sport., 1962, p. 75, oltre a qualificare il rapporto tra calciatori ed associazioni sportive come un rapporto di lavoro subordinato, questa sentenza, nella sua motivazione, assoggetta lo stesso rapporto alla regolamentazione collettiva: «che la regolamentazione collettiva sia possibile e costituisca per di più una realtà operante è dimostrato dagli accordi stipulati di anno in anno dalla F.I.G.C. e dall’Associazione giocatori di calcio per disciplinare in maniera uniforme lo stato giuridico e il trattamento economico degli atleti ingaggiati dalle società sportive. Xxxx, è degno di nota, in proposito, che le norme contenute in tali accordi, benché sotto certi aspetti conferiscano al rapporto in questione delle caratteristiche particolari, per lo più giustificate da esigenze connesse alla natura della prestazione, si adeguarono sostanzialmente sotto molti altri aspetti, ai fondamentali principi ai quali è improntata la disciplina legale del rapporto di lavoro subordinato».
peculiarità del rapporto tra società sportiva e atleta rendevano impossibile la sua riconduzione completa all’interno della subordinazione e conseguentemente l’applicazione della disciplina dettata dal codice civile per i lavoratori comuni. Per questo si arrivò a considerare il rapporto come caratterizzato da una forte atipicità.
Si rendeva necessario, dunque, un intervento che potesse, se non risolvere la controversia, quantomeno chiarirla. In tal senso, la Cassazione, intervenuta a Sezioni Unite, con la sentenza n. 174 del 26 gennaio 1971 (caso Xxxxxx / Associazione Calcio Torino) si allinea, in linea generale, con quanto la stessa aveva statuito nella sentenza 2324/1961: confermò la natura subordinata del rapporto di lavoro sportivo aggiungendo che le peculiarità di tale rapporto venivano spiegate in termini di specialità (5).
L’incertezza e la volubilità manifestata dalla giurisprudenza nella qualificazione del rapporto di lavoro sportivo influenzò notevolmente anche la dottrina contribuendo a far emergere le più svariate correnti di pensiero.
L’indirizzo dominante, in ragione dei principi fissati dall’art. 2094 c.c. (6), faceva risalire, in linea con quanto veniva statuendo la giurisprudenza, l’attività del professionista sportivo al lavoro subordinato. (7)
Non mancavano tuttavia opinioni contrarie. Alcuni autori sottolineavano infatti la difficoltà di utilizzare in questo caso i tradizionali schemi codicistici e qualificavano, ad esempio, il rapporto tra calciatore e società
(5) Si v. ancora Xxxx., 21 ottobre 1961, n. 2324, cit., 1962, p. 75, per la quale “Ora, che il rapporto intercorrente fra il giocatore professionista e la società calcistica che lo abbia ingaggiato sia da inquadrare nello schema dei rapporti di credito e sia da configurare, precisamente, come un rapporto di lavoro subordinato, non è dubitabile ed è stato più volte affermato da questa corte. Xxxxxxxx, infatti, di proposizioni che furono già enunciate nella già ricordata decisione del 1953 e che furono poi ribadite da altra più recente decisione, la quale pose in luce come le prestazioni dei giocatori professionisti, oltre a rivestire i caratteri della continuità e della professionalità, sono altresì caratterizzate dalla collaborazione, nel quadro di una complessa organizzazione economica, tecnica e di lavoro, e dalla subordinazione al potere direttivo e gerarchico dell’ente da cui dipendono”.
(6) Art. 2094 c.c. Prestatore di lavoro subordinato. “E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
(7) Xxxxx specifico ritiene XXXXXX - XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, 2a ed., Milano, 2013, p. 115, che la qualificazione del lavoro sportivo come rapporto di lavoro subordinato, risulterebbe giustificata dal rilievo dei tratti salienti della subordinazione, risultanti dall’art. 2094 c.c., e cioè l’eterodirezione dell’atleta – lavoratore, la professionalità della prestazione e l’obbligo di collaborazione in vista del perseguimento degli obiettivi sociali.
Inoltre, sul punto GERMANO, Lavoro Sportivo, in Leggi d’Italia PA, 1992, p. 5, .fa emergere come la posizione della dottrina che sosteneva la tesi del lavoro subordinato, concludeva che si trattasse di un contratto tipico, e non atipico e che le peculiarità di questa prestazione venivano spiegate in termini di specialità.
come «contratto di ingaggio», assimilabile soltanto al lavoro autonomo. (8) Altri, invece preferivano parlare di un rapporto di natura associativa che si sviluppava nel quadro della comunità sportiva e caratterizzato dal fine comune di svolgere una attività ludica. Inoltre, vi era chi, valorizzando il carattere «paraintellettuale» delle prestazioni per non potersi prescindere nello svolgimento dell’attività sportiva anche da un notevole sforzo intellettivo, riteneva estensibile la disciplina contenuta negli art. 2222 e ss
c.c. che andava a configurare una collaborazione coordinata e continuativa, rientrante nella previsione dell’art. 409 n. 3 c.p.c. (9).
Infine, un ulteriore orientamento dottrinale vedeva, nel rapporto tra atleta e società sportiva, un rapporto atipico non inquadrabile secondo gli schemi tipici dell’ordinamento statuale e disciplinabile quindi dagli artt. 1322 e 1323 c.c. (10).
La perdurante incertezza sulla qualificazione del rapporto tra atleta e società di appartenenza e l’atteggiamento di indifferenza dimostrato dall’ordinamento statuale verso quelle che erano le esigenze proprie del mondo dello sport, bisognevole di una specifica normativa, rendevano del tutto instabile l’equilibrio su cui poggiava la regolamentazione delle discipline agonistiche di largo seguito.
Così, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso, il legislatore italiano è stato quasi costretto a disciplinare, tipizzandolo, il contratto di lavoro sportivo
(8) In tal senso rileva GRASSELLI, L’attività dei calciatori professionisti nel quadro dell’ordinamento sportivo, in Giur. it., II, 1975, p. 44 ss, come il rapporto tra calciatori e società si configuri e in concreto manifesti l’inesistenza di una subordinazione in senso tecnico secondo la rilevanza che questa assume nell’ordinamento statuale. Si può dire che il rapporto tra società e calciatori professionisti sia dotato di caratteristiche particolari, tipiche dell’ordinamento sportivo in funzione dei fini sportivi cui lo stesso rapporto tende primariamente, tra le quali possono individuarsi vincoli di soggezione che tendono a somigliare a quelli presenti nel lavoro subordinato e che collocano il rapporto stesso su un piano, per alcuni aspetti, parallelo ad esso. Rispetto a quanto trascende l’ordinamento sportivo, si colloca nella sfera dell’ordinamento statuale, da cui appunto lo stesso ordinamento sportivo trae il suo riconoscimento operativo nella sfera dell’autonomia privata. Il rapporto di cui ci si sta occupando si colloca nell’ambito delle prestazioni di lavoro autonomo.
(9) Norma che disciplina le controversie in materia di lavoro, includendo appunto anche i rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.
(10) Si x. XXXXXXX, Lineamenti del contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. sport., 1963,
p. 52 ss. ove si fa evidenzia il carattere residuale di queste norme. Vengono applicate solamente quando non si riesca ad inquadrare un contratto in una disciplina tipica. I sostenitori di tale tesi, dunque, escludono che l’atleta possa essere inquadrato sia come lavoratore subordinato che come lavoratore autonomo.
attraverso la l. 23-3-1981 n. 91 (norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti) adottata sotto la spinta dell’urgenza di porre rimedio ad una decisione giurisdizionale che aveva, di fatto, bloccato il c.d. calcio mercato. Nell’estate del 1978, infatti, un decreto (11) del Dottor Costagliola Pretore di Milano (emanato a seguito di un esposto del presidente dell’A.I.C. (12) Avv. Xxxxxx Xxxxxxx) aveva inibito – con il rischio di bloccare il regolare inizio dei campionati nazionali – lo svolgimento del calcio mercato sul presupposto che il trasferimento dell’atleta da una società all’altra, dietro il versamento di un « indennizzo », contrastasse con la legge sul collocamento del 29-4-1949 n. 264, contenente il divieto di ogni forma di intermediazione privata nella stipulazione del contratto di lavoro subordinato.
Il decreto legge 14 luglio 1978 n. 367, recante “l’interpretazione autentica in materia di disciplina giuridica dei rapporti tra enti sportivi e atleti iscritti alle Federazioni di categoria”, rappresenta, dunque, l’occasione di un intervento legislativo, visto che “da tempo era avvertita l’esigenza di dare una certezza giuridica in materia di rapporto di lavoro fra le società sportive e gli sportivi professionisti” (13).
Viene così inizialmente presentato un disegno di legge di iniziativa governativa (atto del Senato n. 400) basato – nella parte relativa al rapporto tra atleti e società – sullo schema della collaborazione continua e coordinata tipicamente riconducibile nell’alveo del lavoro autonomo.
Tuttavia, in questo periodo forte è l’influenza di dottrina e giurisprudenza propense a ricondurre la fattispecie nello schema giuridico del rapporto di lavoro subordinato. Alla Camera dei Deputati, infatti, l’impostazione giuridica originaria viene completamente ribaltata: la l. 91/1981 viene dunque costruita attorno alla fattispecie del rapporto dell’atleta
(11) Pret. Milano, 7 luglio 1978, in Foro. It, 1978, II, p. 320. Il Pretore affermò: “Il contratto avente ad oggetto il trasferimento di calciatori da una società calcistica a un’altra dietro il pagamento da parte della società cessionaria alla cedente di una somma quale indennizzo per cessione o vendita del calciatore, viola la disciplina sul collocamento della manodopera, che vieta l’intervento di mediatori privati nella fase di stipulazione del contratto di lavoro subordinato”.
(12) Associazione Italiana Calciatori.
(13) Un significativo stralcio dell’intervento del xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx, relatore del disegno di legge sulla disciplina del lavoro sportivo, in Atti Parlamentari – Senato della Repubblica, VIII Legislatura, resoconto stenografico della 142^ seduta, 7510.
professionista, ricondotto prevalentemente nell’area della subordinazione
(14).
1.2. L’attuale disciplina del lavoro sportivo: la l. 23 marzo 1981, n. 91.
E’ opinione ormai diffusa che la l. 23 marzo 1981, n. 91, nonostante sia diretta a disciplinare i rapporti tra società sportive in genere ed atleti professionisti, si presenta in realtà come un provvedimento predisposto essenzialmente per regolamentare lo sport del calcio. Proprio nel mondo del calcio si erano manifestate le più consistenti incertezze interpretative ed applicative e in un tale contesto il legislatore non poteva non avvertire l’esigenza di fissare dei chiari riferimenti normativi per evitare occasioni di interventi giudiziari che potessero portare ad ulteriori sconvolgimenti nell’assetto dell’ordinamento sportivo.
Il primo approccio dei commentatori con la nuova legge sul professionismo sportivo non fu certamente dei migliori: “legge mal fatta per le soluzioni tecnico – giuridiche adottate” era l’espressione che intendeva evidenziare la natura non armonica e non omogenea del testo normativo, nonché le gravi imprecisioni in esso ravvisabili, senza contare il ribaltamento che c’è stato nel corso del dibattito parlamentare del testo originario della legge per effetto di numerosi emendamenti, che avevano portato ad un inquadramento prevalente del rapporto sportivo negli schemi del lavoro subordinato in un contesto invece largamente ispirato all’iniziale idea base del lavoro autonomo.
In linea generale, tuttavia, da valutare in maniera positiva è la presa di coscienza da parte del legislatore statale delle peculiari esigenze dello sport: si è giunti ad una più soddisfacente valorizzazione dell’attività agonistica
(14) XXXXXXX X’XXXX – VIDIRI, La nuova disciplina del lavoro sportivo, in Riv. dir. sport., 1982, p. 3 ss. Il ribaltamento dell’impostazione di fondo operato dal Parlamento venne accolto da numerosi “addetti ai lavori” con notevoli perplessità: la sensazione era che la legge potesse provocare dei disagi nella gestione concreta dell’attività sportiva, soprattutto per la difficoltà di conciliare determinate peculiarità del settore con la normativa inderogabile del diritto del lavoro. Si riteneva che l’opzione iniziale fosse la più congrua: nel solco di una tradizione consolidata all’interno del lavoro autonomo, si sarebbero potute estendere agli sportivi alcune forme protettive del lavoro subordinato, senza compromettere i delicati meccanismi dell’apparato sportivo.
attraverso una maggiore trasparenza dell’organizzazione e della gestione dei sodalizi sportivi. Un segnale sintomatico di questo cambiamento è stata l’individuazione di limiti precisi all’autonomia dell’ordinamento sportivo
«attraverso la garanzia, nei confronti ed all’interno di esso, dei diritti dei lavoratori dello sport», restituendo a questi ultimi tramite l’abolizione del
«vincolo» (15) una effettiva possibilità di libera contrattazione (16).
(15) Il c.d. vincolo sportivo sarà trattato in maniera più approfondita nel corso del Cap. II.
(16) Si v. VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, in Giust. civ., 1993.
2. Il contratto di lavoro sportivo. I requisiti essenziali.
2.1. Le parti. Il confine tra professionismo e dilettantismo.
La legge n. 91/1981 dopo aver affermato il principio della libertà di esercizio dell’attività sportiva ad ogni livello ed in ogni forma (17), individua all’art. 2, l’ambito di applicazione della normativa in essa contenuta, in riferimento alla figura dei lavoratori sportivi. Infatti, l’art. 2 dispone che “Sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico – sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica” (18).
Questa disposizione, ai fini della distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica, ricollega lo status di «professionista» allo sportivo non solo con riferimento all’esercizio dell’attività «a titolo oneroso con carattere di continuità» ma anche all’intervento della Federazione che, tra le
(17) Art. 1 l.91/1981: “L’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero”. Secondo GERMANO, Lavoro sportivo, cit., 1992, il pr. della libertà di esercizio dell’attività sportiva funziona concretamente da limite sia nel caso in cui vi siano eventuali intromissioni dell’ordinamento sportivo che si risolvono in ostacoli all’esercizio di diritto e di fatto di tali attività da parte di chiunque, sia nei confronti dello stesso ordinamento generale che non può introdurre normative che prevedono impedimenti non consentiti. Ad es. riferita allo sportivo professionista, la libertà di esercizio dell’attività sportiva significa libertà di contrarre e libertà contrattuale.
(18) In questi termini, XXXXXXX, Il contratto di lavoro sportivo, in Contr, e impresa, 1998: “La norma consente quindi alle Federazioni di governare il discrimine tra professionismo e dilettantismo, evitando una smisurata dilatazione del primo che si sarebbe prospettata qualora il legislatore avesse correlato la qualificazione “professionistica” alla sola presenza delle caratteristiche oggettive della prestazione di lavoro (onerosità e continuità)”.
Tuttavia, si v. VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993, tale sistema ha avuto anche l’inconveniente di sottrarre alla legge n. 91/1981 i c.d. casi di professionismo di fatto. Ci si riferisce a rapporti di lavoro che meriterebbero il trattamento normativo riservato dalla suddetta legge per essere contraddistinti da analogo contenuto e per riguardare discipline con uno stesso seguito ed eguali tradizioni, ma che sono assoggettati a diversa regolamentazione in virtù della mancata qualificazione professionistica di tali discipline sportive da parte della Federazione.
altre cose, ha il compito di qualificare o meno come professionistica una determinata attività sportiva (19).
Quanto statuisce l’art. 2 circa la linea di confine tra professionista e dilettante, dunque, non ha portato ad una soluzione definitiva della questione e le perplessità che tuttora permangono a riguardo sono in parte strascico del delicato problema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro sportivo così come si era presentato precedentemente all’emanazione della l. 91/1981 (20).
2.2. La causa. L’opzione per la subordinazione.
Il problema dell’individuazione dei caratteri discriminanti tra professionismo e dilettantismo e quello relativo alla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro sportivo trovano un punto di contatto all’interno del successivo art. 3 della l. 91/1981. Il primo comma della disposizione in esame stabilisce che “La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge”. Nell’attuale impianto normativo sussiste, pertanto, una chiara opzione per la subordinazione, a tal punto da ritenere che vi sia addirittura una presunzione della stessa.
(19) Ed è proprio questo intervento della Federazione previsto dalla normativa come necessario ai fini della qualificazione del settore “professionistico” all’interno di una determinata disciplina sportiva ad essere stato oggetto di critiche da parte della dottrina.
In primo luogo, si x. XXXXXXX, L’attività sportiva come prestazione di lavoro, in Riv. It. Lav., 1983, I, p. 706 ss, dal punto di vista oggettivo, mentre la legge in astratto prevede che qualsiasi attività sportiva possa essere praticata sia in forma professionistica che dilettantistica, l’art. 2 l. 91/1981 limita la possibilità del professionismo alle discipline regolamentate dal CONI. In secondo luogo, dal punto di vista soggettivo, la dottrina prevalente ritiene che l’elencazione delle figure professionali (atleti, allenatori, direttori tecnico – sportivi, preparatori atletici) non sia tassativa propendendo per un’interpretazione estensiva dell’elencazione stessa.
(20) Così, DENTICI, Il lavoro sportivo tra professionismo e dilettantismo: profili di diritto interno e comunitario, in Europa e dir. Priv, 2009, p. 1059 ss: “Il diritto comunitario, in tal senso, ha contribuito alla disgregazione della distinzione tra professionista e dilettante attraverso la lente dell’attività economica ex art. 2 TUE. Il problema è che, se lo sfaldamento del confine tra professionismo e dilettantismo appare ormai delineato, permane ancora notevole incertezza sulle conseguenze in termini di statuto di disciplina applicabile. Tale situazione rende necessario un intervento del legislatore in modo tale da evitare casi di sfruttamento della prestazione dello sportivo, senza il riconoscimento di una controprestazione adeguata”.
Il dato letterale, che fa espresso riferimento alla sola figura dell’atleta a fronte della più dettagliata indicazione dell’art. 2, ha convinto tuttavia la dottrina prevalente a sostenere che il legislatore abbia introdotto tale presunzione di lavoro subordinato esclusivamente per l’atleta, e che invece la natura della prestazione lavorativa dei restanti soggetti sportivi debba essere accertata di volta in volta applicando i criteri forniti dal diritto comune del lavoro (artt. 2094 e 2222 c.c.) (21).
Inoltre l’incompatibilità tra la gratuità della prestazione e il contratto di lavoro subordinato emergente dalla norma, è un motivo valido per affermare che l’intera disciplina della legge non si applica nel caso in cui il lavoro sportivo non sia prestato a titolo oneroso, come accade nello sport dilettantistico.
Il secondo comma dell’art. 3 predetermina invece i requisiti che sono richiesti per qualificare la prestazione dell’atleta come autonoma: “Essa costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:
a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento;
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero 30 giorni ogni anno”.
Il discrimine tra rapporto di lavoro subordinato e autonomo così come stabilito dai primi due commi dell’art. 3, è stato oggetto di numerose critiche in dottrina. Da un lato, per quanto riguarda l’onerosità della prestazione (elemento che caratterizza il lavoro subordinato sportivo) è stato osservato come questo connotato possa contraddistinguere anche il lavoro autonomo e quindi non sia corretto affermare che questo possa ergersi a
(21) DENTICI, Il lavoro sportivo tra professionismo e dilettantismo: profili di diritto interno e comunitario, cit., 2009, p. 1059. Secondo parte della dottrina va osservato che mentre gli artt. 2094 e ss. disciplinano in via generale i rapporti di lavoro subordinato, la l. 23 marzo 1981, n. 91 regola, invece, i rapporti tra società e sportivi professionisti: in questo modo, le relazioni tra le due normative possono essere regolate in base al criterio della specialità, con la conseguenza che ogni qual volta la fattispecie da regolamentare non presenti i tratti qualificanti della normativa speciale, la fattispecie stessa non possa che ricadere nell’ambito della più ampia disciplina generale.
valore decisivo nella qualificazione del lavoro subordinato; sotto un diverso versante è stato poi sostenuto che le ipotesi di lavoro sportivo autonomo indicate dalla legge non siano da considerarsi tali fino in fondo, ma piuttosto ipotesi di lavoro sportivo subordinato che, per valutazioni di opportunità e di esigenze specifiche del settore sportivo, sono state però sottratte all’applicazione della relativa disciplina. E come corollario di quest’ultima premessa, è stato anche aggiunto che non è comunque preclusa l’indagine di altre fattispecie di vero e proprio lavoro autonomo, da accertare secondo i comuni criteri del diritto del lavoro (artt. 2094 e 2222 c.c.) (22). Quest’ultima posizione, a sua volta, offre il fianco alle critiche di chi individua nei requisiti adoperati dal legislatore una funzione giuridica di esclusiva identificazione della fattispecie di lavoro autonomo.
Nonostante, dunque, i contrasti dottrinari che l’emanazione di questa norma ha comportato, appare inequivocabile il fatto che il ricorrere di anche uno solo dei tre requisiti di cui alle lett. a), b), c) del secondo comma dell’art. 3 della l. n. 91/1981, determini la natura autonoma del contratto di lavoro.
Passando ad una valutazione specifica dei singoli criteri, va osservato come il requisito specificato nella lett. a), riferendosi alla collaborazione che si concretizza nello svolgimento dell’attività sportiva in una o più manifestazioni tra loro collegate e in un breve lasso di tempo, evochi il concetto di opus dell’obbligazione di risultato, escludendo la configurazione della subordinazione ex 2094 c.c.
Il requisito indicato nella lett. b) va invece letto unitamente all’art. 4 della l. 91/1981, il quale stabilisce che nella stipulazione del contratto in forma scritta tra società e professionista sportivo, debba essere prevista “la clausola contenente l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”, tra le quali non può non includersi anche l’obbligo di frequentare gli allenamenti e di osservarvi le indicazioni fornite dai tecnici per il raggiungimento di risultati positivi. Ne consegue che il carattere subordinato della prestazione lavorativa sportiva viene vincolato ad un dato formale (la presenza della clausola scritta e quindi il richiamo dei concetti di
(22) VIDIRI, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, in Riv. It. Dir. Lav., 2002,
p. 39 ss.
subordinazione tecnica e diligenza preparatoria) e non si ricollega ai canonici elementi caratterizzanti la subordinazione (ex 2094 c.c.). Una simile impostazione conduce inevitabilmente a degli effetti distorsivi perché la mera carenza del dato formale impedisce di qualificare come subordinato quel rapporto che nella realtà costringe l’atleta a frequentare le sedute di allenamento, mentre, al contrario, la presenza della clausola contrattuale impone una qualificazione del genere, anche se l’atleta sotto contratto non adempie nei fatti l’obbligo assunto.
Per quanto riguarda l’ultimo criterio, cioè quello indicato dalla lett. c), da segnalare è la deviazione offerta da quest’ultimo rispetto all’ottica tradizionale: se in linea generale l’occasionalità e la transitorietà della prestazione non escludono la natura subordinata della medesima, nel caso in questione invece la brevità del rapporto (così come indicata in maniera tassativa dalla norma) riveste un valore preclusivo del carattere subordinato del contratto di lavoro sportivo. In questo senso è stato evidenziato come tale criterio dia luogo ad una sorta di processo di detipizzazione della subordinazione canonizzata nella norma civilistica (art. 2094 c.c.) (23).
In relazione, infine, ai limiti previsti a livello quantitativo, affinché la prestazione lavorativa rimanga nell’ambito del lavoro autonomo, la dottrina ha dimostrato di condividere l’opinione che ritiene valutabili unicamente quelle ore in cui ha luogo l’effettiva partecipazione alla manifestazione sportiva (senza computare quindi come inizio della prestazione l’ingresso nel luogo dove si svolge la manifestazione sportiva e come termine l’uscita da detto luogo); considera la giornata lavorativa equivalente ad otto ore sulla base di una valutazione di legge avente portata generalizzata alla stregua della l. 17 aprile 1925, n. 473 (24); reputa non inutile la previsione di un
(23) Si v. ancora VIDIRI, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, cit., 2002, p. 39 ss.
(24) XXXXXXX, TOSI, DE XXXX XXXXXX, TREU, Diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro subordinato, vol. II, 8^ ed., Torino, 2013, p. 227 e ss. La l. 473/1925 rappresenta la pietra miliare della disciplina legale dell’orario di lavoro. Una disciplina volta a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore attraverso l’introduzione dei limiti di durata massima della prestazione lavorativa. Il provvedimento ha introdotto un limite massimo nell’orario lavorativo fissato in 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali (oggi l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali ex l. 196/1997). Tuttavia, la legge autorizza, quando vi sia accordo tra le parti, l’aggiunta alla giornata normale di lavoro di un periodo straordinario, che non superi le 2 ore al giorno e le 12 ore settimanali, o una durata media equivalente entro un determinato periodo.
limite riferito ad anno perché tale limite “avrà rilevanza in tutti quei casi in cui non si hanno né prestazioni saltuarie od occasionali – come quelle previste alla lett. a) del secondo comma della disposizione in esame – né prestazioni continuative che si svolgano per tutte le settimane o per tutti i mesi” (25).
La dottrina ha espresso forti critiche in ordine alla eterogeneità di queste tre ipotesi eccezionali, che, infatti, non si fondano su uno stesso elemento giustificatore. E’ stata avanzata l’ipotesi che l’elemento in comune potesse ravvisarsi nel difetto del carattere della continuità della prestazione lavorativa. Tale tesi, tuttavia, non appare convincente per due ordini di ragioni: perché l’assenza di continuità può riferirsi soltanto alle lettere a) e
b) (quando la prestazione lavorativa sia correlata ad una singola manifestazione o a più manifestazioni collegate in un breve lasso di tempo, e nel momento in cui l’atleta non sia vincolato all’obbligo di partecipare alle sedute di preparazione e allenamento) mentre l’ipotesi contemplata dalla lettera c) si caratterizza per il fatto che la prestazione lavorativa è resa entro determinati limiti temporali e quindi il carattere della continuità è comunque presente; in secondo luogo il legislatore riferisce il carattere della continuità non solo al lavoro sportivo subordinato, ma in generale al rapporto di lavoro sportivo, come risulta dalla definizione del professionismo sportivo contenuta nell’art. 2 della l.91/1981.
Va infine precisato come l’art. 3 in esame, nella parte in cui statuisce che il contratto di lavoro subordinato venga «regolato dalle norme contenute nella presente legge», non legittimi affatto la conclusione dell’inapplicabilità al lavoro sportivo di ogni norma non ricompresa nella l. 91, perché la specialità (26) del rapporto di lavoro sportivo non può impedire l’applicazione di quelle norme ordinarie che risultino compatibili con
(25) PERSIANI, Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Le nuove leggi civili e commentate, 1982, p. 567.
(26) Sulla specialità del rapporto si x. XXXXXX – XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, 2° ed., Milano, 2013, p. 131 ss. In dottrina si tende a definire il rapporto di lavoro sportivo quale rapporto speciale, ovvero quale rapporto che, pur essendo normalmente di natura subordinata, si distingue dallo schema tipico del lavoro subordinato in ragione della particolare prestazione alla cui esecuzione è chiamato lo sportivo. Tuttavia, in merito va rilevato che non sussiste in dottrina un’unità di vedute in ordine al concetto di rapporto di lavoro speciale, posta sia l’inesistenza di indicazioni normative sul concetto di specialità, sia la eterogeneità dei rapporti considerati normalmente speciali.
l’ordinamento sportivo, sicché tutto finisce per ridursi ad una doverosa opera di coordinamento delle fonti normative statali con quelle sportive. Tutto ciò è comprensibile se si va ad analizzare l’art. 4 della l. 91/1981.
2.3. L’assunzione diretta e la forma del contratto di lavoro sportivo.
L’art. 4 costituisce il punto centrale, sotto il profilo giuslavoristico, della legge 91/1981 in quanto va a delineare gli elementi caratteristici del contratto di lavoro sportivo subordinato.
In esso, infatti, è presente la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tra sportivi professionisti e società sportive caratterizzata da parecchi aspetti divergenti rispetto alla disciplina del comune rapporto di lavoro subordinato, muovendo dalla premessa che la prestazione degli sportivi professionisti presenta natura e caratteristiche proprie, che la differenziano nettamente da ogni altra restante attività umana.
“Il rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena di nullità, tra lo sportivo e la società, destinataria delle prestazioni sportive, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate”.
Il primo comma dell’art. 4 l. 91/1981 ribadisce, in primo luogo, il principio già espresso nell’art. 2, secondo il quale la prestazione lavorativa dello sportivo professionista deve necessariamente avere carattere oneroso e poi aggiunge un elemento ulteriore quando statuisce che il rapporto di lavoro sportivo si costituisce mediante assunzione diretta.
In tal modo il legislatore ha voluto ribadire l’inapplicabilità della normativa sul collocamento obbligatorio (l. 264/1949) e delle disposizioni contenute negli artt. 33 e 34 della l. 300/1970 (27), ma vieta anche ogni possibile forma
(27) XXXXXXX, XXXX, DE XXXX XXXXXX, TREU, Diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro subordinato, cit., p. 113 ss. La l. 264/1949 (c.d. legge Fanfani) era fondata su 3 pilastri, rimasti in piedi fino agli anni 1996-1997: a) monopolio pubblico: era ammesso solo l’intervento pubblico nel mercato del lavoro con l’esclusione di soggetti privati; b) gestione statale e accentrata: la gestione dell’attività veniva svolta solo dagli uffici periferici del
di mediazione nella conclusione del contratto lavorativo per impedire il diffondersi di qualsiasi speculazione nel momento in cui l’atleta versi nella necessità di trovare una occupazione. Lo sportivo potrà scegliere, dunque, di trattare direttamente o a mezzo di un suo procuratore, la stipulazione del nuovo contratto in quanto, non essendo applicabile la normativa sul collocamento, è da ritenersi lecita l’attività eventualmente prestata da agenti o procuratori degli atleti.
La necessità di tutelare in maniera effettiva gli interessi degli atleti e l’intento di evitare qualsiasi forma di sfruttamento degli stessi ha suggerito in passato la creazione, su iniziativa delle rappresentanze delle categorie interessate, di agenzie di collocamento, che potessero mettersi a disposizione di quanti ne volessero usufruire liberamente, un progetto che tuttavia tuttora risulta non attuato (28).
Il secondo comma dispone che “La società ha l’obbligo di depositare il contratto presso la federazione sportiva nazionale per l’approvazione”. L’analisi congiunta dei primi 2 comma dell’art. 4 ci permette di individuare quattro fondamentali requisiti per la stipulazione del contratto di lavoro sportivo subordinato:
1) la forma scritta;
2) la conformità al contratto tipo predisposto dalle federazioni e dai rappresentanti delle categorie cui appartengono le parti del rapporto contrattuale;
3) il deposito del contratto individuale di lavoro presso la competente federazione sportiva;
4) l’approvazione da parte di quest’ultima.
Ministero del lavoro, senza partecipazione degli enti territoriali minori (es. Regioni, Province): c) natura vincolistica: per l’assunzione di manodopera inoccupata o disoccupata era obbligatoria, salvo eccezioni, l’iscrizione dei lavoratori nelle liste di collocamento all’uopo previste. Gli artt. 33 e 34 della l. 300/1970 sono sempre norme aventi ad oggetto la disciplina del collocamento.
(28) VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993. Proprio all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 91/1981 era stato stipulato un accordo tra Associazione italiana Calciatori (AIC), Federazione nazionale e Leghe, in base al quale l’associazione calciatori, in regime di svincolo, avrebbe dovuto creare una agenzia di collocamento senza diritto di esclusiva. Tuttavia questa iniziativa non ha avuto alcun seguito e ciò ha favorito nel settore calcistico la progressiva crescita del potere dei procuratori nel trasferimento degli atleti, causa principale dell’aumento sempre più vertiginoso dei costi.
2.3.1. Forma scritta ad substantiam e ipotesi di invalidità contrattuale.
In contrasto con il pr. generale di diritto del lavoro, secondo il quale la forma (29) del contratto individuale è libera, per la costituzione del rapporto di prestazione sportiva a livello oneroso il legislatore ha imposto la forma scritta ad substantiam (30).
Uno degli aspetti più fortemente dibattuti in dottrina riguarda il caso del contratto di lavoro sportivo che, nonostante l’obbligo imposto dal legislatore, difetti di tale requisito essenziale.
La dottrina dominante (31) ritiene che, in mancanza della forma prescritta, il contratto stipulato tra lo sportivo e la società destinataria delle sue prestazioni debba ritenersi nullo.
Tuttavia, tale nullità, determinata dalla contrarietà ad una norma imperativa, non produce effetti per il periodo in cui il rapporto lavorativo ha avuto
(29) Sul requisito della forma si v. DEL BENE, Formalismo giuridico e prescrizione di forma ad substantiam nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato sportivo, in Giur. merito, 1994, p. 610 ss., secondo il quale la forma è la modalità attraverso cui l’atto umano deve necessariamente esteriorizzarsi al fine di acquistare rilevanza giuridica. In particolare, la forma del contratto è quel mezzo sociale attraverso il quale le parti manifestano il loro consenso. L’art. 1325 c.c. stabilisce che la forma sia da considerarsi come un requisito ed elemento del contratto solo «quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità». Dal dato normativo la dottrina ricava comunque la necessità di distinguere nell’ambito del concetto di forma una species costituita dalla c.d. forma vincolata o solenne. La forma vincolata per volontà del legislatore ha una funzione di tutela delle parti, assicurando una maggiore ponderatezza nei negozi di maggiore importanza.
(30) In questi termini si trovano d’accordo, VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993, p. 215 e lo stesso DEL BENE, Formalismo giuridico e prescrizione di forma ad substantiam nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato sportivo, cit., 1994 p. 615. Ciò non toglie che la forma scritta ad substantiam sia richiesta in numerosi altri settori del diritto del lavoro come ad es. nel patto di prova, nel contratto a termine, nel rapporto a tempo parziale.
(31) Tesi che dimostra di condividere anche VIDIRI, Il contratto di lavoro sportivo, in Giur. del Lav., Mass., 2001, p. 980, quando afferma: “Tesi questa che va condivisa in quanto ritenere soggetto alle normali regole codicistiche un contratto privo della forma richiesta per il perseguimento delle finalità sportive significa introdurre nell’ordinamento sportivo una duplice qualificazione del rapporto, che rende di fatto la disposizione dell’art. 4 l. 91 una norma sul punto non “imperativa” ma “disponibile”, con conseguente possibile alterazione di quell’equilibrio indispensabile per il regolare svolgimento dell’attività agonistica nel settore professionistico”.
Si v a tal riguardo Trib. Perugia, 21 maggio 1993, in Giust. civ, 1993, I, con nota di VIDIRI.
esecuzione, dovendo in materia trovare completa applicazione il disposto dell’art. 2126 c.c. (32).
Una parte minoritaria della dottrina sostiene invece che la mancanza del requisito della forma scritta impedisce non solo l’acquisizione della qualifica di professionista ma rende applicabile l’intera normativa comune
«con effetti dirompenti per l’organizzazione tecnico sportiva della società»
(33).
Nel caso specifico del contratto di lavoro sportivo tuttavia, la forma scritta, oltre a costituire una forma di tutela per il lavoratore, viene richiesta per soddisfare esigenze peculiari dell’ordinamento sportivo, per agevolare il compito delle federazioni di controllare l’operato delle singole società (34) e per garantire maggiore certezza e celerità nella risoluzione di eventuali controversie che possano insorgere tra atleti e società.
(32) L’art. 2126 c.c. sotto la rubrica “Prestazione di fatto con violazione di legge” recita: «La nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.
A tale indirizzo dottrinario, accertato come prevalente, dimostra di conformarsi anche la giurisprudenza. Si v. infatti Pret. Busto Arsizio, 12 dicembre 1984, in Giust. civ., 1985, I, p. 2085 con nota di XXXX.
(33) DALMASSO, Il contratto di lavoro professionistico sportivo alla luce della l. 23 marzo 1981, n. 91, in Giur. merito, 1982, p. 230 ss., a dimostrazione dell’impatto sconvolgente che la mancanza di forma scritta può comportare all’interno dell’organizzazione sportiva, osserva come dovrebbe trovare applicazione, in mancanza di tale requisito, anche l’art. 13 dello Stat. dei Lav., che sancisce l’obbligo per il datore di lavoro di adibire il prestatore di lavoro alla mansione (ruolo di squadra) per la quale è stato assunto (ingaggiato), il che indurrebbe in teoria il calciatore assunto come centravanti a rifiutare il ruolo ad es. di mediano impostogli per esigenze tecnico – tattiche da parte dell’allenatore. In termini più generali, lo stesso Autore afferma che la mancanza dell’atto scritto impedisce l’acquisizione della qualifica giuridica della professionalità e l’operatività di tutte le altre conseguenze che la legge collega alla stipula dell’atto stesso. Di conseguenza, al rapporto non coperto da forma scritta dovrebbero applicarsi, in presenza della subordinazione, tutte le norme escluse dalla legge n. 91/1981.
Da questo orientamento si dissocia ZOLl, Sul rapporto di lavoro professionistico, in Giust. civ. 1985, I, p. 2085, il quale sostiene che il requisito formale in questione non esclude l’acquisizione in capo allo sportivo della natura professionistica dell’attività svolta, ma osta soltanto alla validità del contratto stipulato; ciò può agevolmente essere dedotto dalla circostanza che la previsione sulla forma del contratto è contenuta in una disposizione (l’art. 4) diversa e successiva rispetto a quella (l’art. 2) che indica i requisiti necessari e sufficienti per la sussistenza del carattere professionistico dell’attività. Solo per i dilettanti può prospettarsi infatti l’applicazione dell’ordinaria normativa vigente in tema di rapporto di lavoro subordinato, sempre che, ovviamente, appaiano sussistenti gli estremi della subordinazione stessa.
(34) I criteri e le modalità sono stabiliti dal Consiglio Nazionale del CONI ex art. 5.2, lett. e) del d.lgs. n. 242 del 1999.
2.3.2. La conformità al contratto tipo.
Il requisito della forma scritta non è però sufficiente alla stipulazione del contratto di ogni atleta professionista. L’art. 4 della l. n. 91 del 1981 richiede un elemento ulteriore: il contratto individuale dell’atleta professionista deve essere stipulato sulla base di quello tipo predisposto conformemente all’accordo che viene siglato ogni tre anni fra la federazione sportiva ed i rappresentanti delle categorie interessate.
2.3.3. Accordo collettivo tra F.I.G.C. – L.N.P.A. – A.I.C.
La legge riconosce il contratto collettivo (conseguente all’accordo collettivo raggiunto da F.I.G.C., L.N.P.A., A.I.C.) come lo strumento chiave di predisposizione della concreta disciplina del rapporto di lavoro dello sportivo professionista. Nel settore dello sport professionistico infatti, il contratto collettivo si pone come momento di raccordo tra la legislazione speciale del rapporto di lavoro sportivo e la legislazione sul lavoro subordinato in generale, essendo chiamato a svolgere una valutazione di compatibilità delle norme legislative, non espressamente dichiarate applicabili o non applicabili dalla l. 91/1981, con la specialità del lavoro, e a risolvere a monte, possibili contrasti interpretativi a livello dottrinale o giurisprudenziale. Ed è, forse, proprio in tale prospettiva che la stessa l. 91/1981 riconosce come insostituibile il ruolo normativo demandato all’accordo collettivo.
Per quanto riguarda l’ambito di efficacia soggettiva riconosciuto all’accordo collettivo nel settore sportivo si è giunti alla conclusione (tenuto conto del generale richiamo fatto dall’art. 4 alle “categorie interessate”) che questo trovi piena ed automatica applicazione a tutti gli appartenenti alla categoria interessata.
Ma il riconoscimento di tale efficacia erga omnes ha fatto sorgere il dubbio che potessero configurarsi dei vizi di incostituzionalità della relativa previsione per violazione dell’art. 39 Cost. (35)
(35) Secondo ROTUNDI, La legge 23 marzo 1981 n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, in Riv. dir. sport., 1991, p. 33 ss., dubbi di legittimità costituzionale scaturiscono dalla lettura di questa parte del comma 1 dell’art. 4: infatti, ne deriva un obbligo per tutti gli sportivi di rispettare l’accordo ed uniformarsi al relativo contratto – tipo, pena l’impossibilità di esercitare la propria attività. Attraverso la legge 91/1981 è stato introdotto una sorta di contratto con valenza erga omnes il cui rispetto è imposto indistintamente a tutti gli sportivi e non solo a quelli aderenti alle organizzazioni stipulanti.
Si conforma a tale orientamento anche VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993, p. 216, il quale rincara la dose riconoscendo in un tale sistema normativo, caratterizzato dall’accordo tra federazioni e rappresentanze delle diverse categorie, un esplicito riconoscimento dell’associazionismo sindacale nel mondo dello sport, la cui azione è destinata ad estendersi con sempre maggiore intensità al di là del piano negoziale sino ad approdare, in un futuro più o meno prossimo, a forme sempre più incisive di coinvolgimento nell’intero assetto organizzativo dell’attività sportiva. Inoltre l’imposizione a ciascun sportivo professionistico del rispetto dell’accordo collettivo introduce di fatto una forma di contrattazione sindacale con efficacia erga omnes attraverso una procedura diversa da quella voluta in modo cogente dall’art. 39.4 della Costituzione. Per di più, l’assenza di un pluralismo sindacale nel mondo dello sport, riduce gli spazi di effettiva libertà dell’atleta, cui la mancata adesione all’organizzazione categoriale pone la sola alternativa di avallare politiche sindacali non affatto condivise o di rinunziare di fatto a svolgere l’attività agonistica a livello professionistico, attesa l’impossibilità di collocare utilmente le proprie prestazioni al di fuori dell’ordinamento sportivo.
Infine, da registrare è l’opinione del MAZZOTTA, Una legge per lo sport?, Foro it, 1981,
p. 297 il quale, all’indomani dell’emanazione della l. 91/1981 aveva previsto che potessero esserci delle difficoltà legate all’applicazione di tale norma: «Grossi problemi attuativi potranno sorgere in ordine all’individuazione della rappresentanza degli sportivi, autorizzata alla stipulazione degli accordi sindacali, in assenza di una regolamentazione sia pur generale degli indici di rappresentatività, e data, soprattutto, la mancanza di una tradizione sufficientemente consolidata dal sindacalismo di settore». Ma si x. XXXXXXX, Lavoro sportivo, cit. 1992, tali problemi dovrebbero essere superati nella pratica, quando si consideri che si parla di una trattativa di livello nazionale che, per essere davvero efficace, esige rappresentatività vasta e reale, e organizzazione degli interessi rappresentati. L’esperienza dell’Associazione Italiana Calciatori (AIC) appare, in questo senso, estremamente probante.
Infine, SPADAFORA, Alta Corte Giust. Sportiva, 30 luglio 2010, par. n. 2/2010, in Giur. del lav., Mass., 2010, p. 834 ritiene che si può escludere che la norma presenti profili di incostituzionalità, osservando che il fondamento dell’efficacia generale degli accordi in questione sembra potersi legittimamente rinvenire nel vincolo di appartenenza di ogni società sportiva, tramite l’affiliazione, e di ogni sportivo, tramite il tesseramento, alla federazione del settore in cui si svolge l’attività. Con tale volontaria adesione alla federazione le società e gli sportivi accettano la normativa federale, compresa quella che prevede la conformità dei contratti individuali a quelli tipo previsti dagli accordi collettivi. E’ stato pure osservato in dottrina, sotto altro profilo, come l’efficacia erga omnes del contratto collettivo si realizzi in maniera indiretta, per effetto della sottoscrizione da parte dello sportivo del contratto tipo e la conseguente accettazione della clausola di rinvio all’accordo collettivo in detto contratto contenuta. Tale meccanismo di rinvio non sarebbe contrario all’art. 39 Cost., e troverebbe avallo nella sent. 309/1997 della Corte Cost. che ha escluso il contrasto con la Costituzione, del sistema di contrattazione collettiva del pubblico impiego privatizzato, affermando che l’obbligo del pubblico dipendente a veder applicato al rapporto di lavoro il contratto collettivo di settore troverebbe fondamento nel rinvio a tale fonte contenuto, come clausola necessaria, nel contratto individuale. A ciò, potrebbe, peraltro aggiungersi che, così come avviene per le pubbliche amministrazioni, l’efficacia generalizzata dell’accordo collettivo in ambito sportivo sembra rispondere anche ad una
2.3.4. Efficacia temporale dell’accordo collettivo.
Allo stato attuale delle cose, l’Accordo Collettivo in vigore è quello che è stato stipulato a Roma il 7 agosto del 2012 (36): visto che le correnti trattative di rinnovo dell’Accordo Collettivo non sono ancora finalizzabili verso un testo di accordo definitivamente condiviso (la data limite per la conclusione delle trattative, decorsa la quale, l’Accordo Collettivo cesserà di essere efficace senza la necessità di alcuna comunicazione reciproca e senza ulteriore proroga, è stata fissata per il 30 giugno 2017) (37).
In termini generali, l’efficacia dell’Accordo Collettivo e del contratto tipo che lo recepisce è stabilita dalla legge n. 91/1981 in tre anni.
Una volta scaduto, e non prorogato, l’accordo collettivo perde efficacia e il nuovo accordo potrà modificare, non solo in senso migliorativo ma anche in peius, istituti disciplinati dal precedente, con l’unico limite della intangibilità dei c.d. diritti quesiti, ossia quei diritti che siano entrati a far parte del patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa e nell’ambito, quindi, di un rapporto o di una fase del rapporto già esaurita. Ciò equivale, in sostanza, ad affermare un divieto di retroattività in peius, ma non di retroattività in melius dell’accordo stesso, non esistendo un generale divieto di retroattività (38).
esigenza di uniformità di regolamentazione dei contratti individuali che, se pure non costituzionalmente sorretta da alcuna norma, risulta funzionale a quelle finalità di ordine e certezza che sole consentono il regolare esercizio delle attività agonistiche e, per esse, il funzionamento dell’intero sistema dello sport.
(36) Si v. DI XXXXXXXXX, Lavoro sportivo professionistico e subordinazione, in Giur. del Lav., Mass., 2013, p. 570. L’accordo collettivo in questione (valido sino al giugno 2012) ha mantenuto l’impianto delle versioni precedenti anche se alcuni punti sono stati ritoccati (la questione principalmente dibattuta nel corso della trattativa tra le parti (Lega nazionale professionisti di serie A – L.N.P.A. – e sindacato di rappresentanza dei calciatori – A.I.C.) era quella relativa all’art. 7 ed ai c.d. «fuori rosa» in base alle modifiche richieste nella complessa trattativa sfociata peraltro in uno sciopero dei calciatori di serie A proclamato per la prima giornata del massimo campionato 2011/2012 nelle date del 27-28 agosto 2011.
(37) La scrittura privata, con cui è stato prorogato l’Accordo Collettivo del 2012, è stata redatta e sottoscritta il 4 luglio 2016 dal presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie A (L.n.p.a.) Xxxxxxxx Xxxxxxx, dal presidente dell’Associazione Italiana Calciatori (AIC) Xxxxxxx Xxxxxxx e dal presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.) Xxxxx Xxxxxxxxx.
(38) Come quello che era stabilito per i contratti collettivi corporativi dall’art. 11.2 delle disposizioni preliminari al c.c. (“La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione”), spesso infatti le parti collettive si accordano per escludere dai nuovi benefici i lavoratori non più in servizio all’entrata in vigore del nuovo contratto.
Una volta raggiunto il termine di scadenza fissato, il contratto collettivo dovrebbe, come detto in precedenza, cessare di avere efficacia. A questo punto due sono le alternative:
- Intraprendere delle trattative per il rinnovo del contratto scaduto con un congruo anticipo sulla scadenza in modo tale che la procedura di rinnovo si concluda tempestivamente ed il nuovo contratto sostituisca il precedente senza soluzione di continuità;
- La procedura di rinnovo che, invece, non si esaurisca nel termine di cessazione di efficacia del vecchio contratto, determina un vuoto normativo in ordine alla disciplina dei rapporti di lavoro. In tal caso, quid iuris?
A colmare tale vuoto normativo provvede spesso la previsione di ultrattività del contratto collettivo scaduto, cioè quella clausola che consente allo stesso di continuare a produrre i suoi effetti fino a quando non intervenga una nuova regolamentazione collettiva.
In mancanza di tale clausola non risulta invocabile l’art. 2074 c.c., il quale prevede, per i contratti collettivi corporativi, la continuazione di efficacia fino alla stipulazione del nuovo contratto collettivo, con la conseguenza che il datore di lavoro non è più tenuto al rispetto del contratto scaduto. Ne deriva che, in caso di nuove assunzioni disposte nel periodo di assenza di regolamentazione collettiva del rapporto, le parti individuali (39) potranno regolare liberamente i reciproci diritti e obblighi, ed eventualmente prevedere l’applicazione del nuovo contratto collettivo, una volta che questo entrerà in vigore.
Per i lavoratori già in servizio, invece, durante il periodo di vacanza contrattuale si determina la c.d. cristallizzazione del rapporto di lavoro fino al raggiungimento di un nuovo accordo che, normalmente, ha effetti retroattivi a copertura del vuoto che nel frattempo si è creato.
(39) Salva la prassi molto diffusa di operare nel contratto individuale un rinvio c.d. materiale al contenuto del contratto collettivo scaduto.
2.3.5. Il rapporto tra accordo collettivo e contratto tipo.
Il complesso procedimento di formazione del contratto individuale chiama in campo non soltanto l’accordo collettivo, ma richiede anche la presenza di un contratto tipo il quale, predisposto conformemente all’accordo, costituisce il modello cui le parti devono attenersi nella stipulazione del contratto individuale.
Con la previsione di un contratto tipo, il legislatore ha inteso facilitare le parti del contratto individuale fornendo loro un modello cui uniformarsi, e ciò anche a garanzia del totale e corretto recepimento delle disposizioni contenute nell’accordo collettivo.
L’accordo collettivo e il contratto tipo sono atti formalmente diversi per volontà del legislatore il quale ha attribuito alle federazioni nazionali e ai rappresentanti delle categorie interessate il potere di predisporre il contratto tipo e, inoltre, ha previsto che questo sia conforme “all’accordo collettivo stipulato”, senza però nulla specificare in ordine alle parti sottoscrittrici dello stesso.
Il primo comma dell’art. 4 se da un lato attribuisce alle federazioni nazionali un ruolo fondamentale nella predisposizione del contratto tipo, dall’altro non si può dire altrettanto con riferimento alla stipulazione del contratto collettivo. Nella realtà dei fatti però accade che la stipulazione sia dell’accordo collettivo che del contratto tipo veda la partecipazione delle federazioni, ed entrambi gli atti divengano frutto di un unico processo decisionale che sfocia nella sottoscrizione “trilaterale” dell’accordo collettivo e nella predisposizione del contratto tipo che, da un lato, entra a far parte dell’accordo collettivo come parte integrante e, dall’altro, fa proprie, con richiamo spesso recettizio, le clausole dell’accordo collettivo stesso (40).
(40) XXXXXXXXX, Xxxx Xxxxx Xxxxx. Xxxxxxxx, 00 luglio 2010, par. n. 2/2010, cit., 2010, p. 834. Non sembra però che la partecipazione delle federazioni anche alla stipulazione dell’accordo collettivo snaturi la natura di quest’ultimo come accordo sindacale. Le federazioni non partecipano come sindacati ma come portatrici del comune interesse delle parti alla corretta organizzazione dell’attività sportiva e quindi nell’interesse, superiore a quello delle stesse parti coinvolte, facente capo all’ordinamento sportivo nel suo complesso. In merito al ruolo delle federazioni in sede di stipulazione degli accordi collettivi, a seguito della situazione di stallo nelle trattative sindacali seguita alla scadenza dell’accordo collettivo dei calciatori professionisti, la Figc ha richiesto all’Alta Corte di
2.3.6. Il rapporto tra contratto tipo e contratto individuale di lavoro.
Arrivati a questo punto c’è da porsi il quesito se la piena libertà di cui, negli ordinari rapporti di lavoro, si riappropriano le parti del contratto individuale una volta scaduto il contratto collettivo, valga anche nell’ambito del lavoro sportivo (dove, come visto, il contratto individuale è frutto di un complesso procedimento, configurabile a livello giuridico come una fattispecie complessa a formazione progressiva) in cui più fasi concorrono, con valore e funzioni giuridiche diverse, al perfezionamento della fattispecie stessa e alla produzione degli effetti voluti dalle parti. L’art. 4 l. 91/1981 sembra in tal senso porre un limite alla possibilità che le società sportive e i singoli sportivi possano, nelle more del rinnovo dell’accordo collettivo, stipulare nuovi contratti a forma c.d. libera o sulla base di contratti tipo unilateralmente predisposti da una delle parti che rappresentano le categorie interessate al rinnovo dell’accordo collettivo.
Anche l’Alta Corte di Giustizia Sportiva, nel parere già richiamato, afferma in termini categorici che “in nessun caso il contratto tipo può essere, in modo autonomo e indipendente, unilateralmente determinato da un solo soggetto previsto come compartecipe necessario di accordo a pluralità di soggetti”.
Ciò che appare legittimo, piuttosto, è la possibilità che venga utilizzato, per procedere a nuove assunzioni, lo schema contrattuale venuto a scadenza che contenga un rinvio materiale al contenuto dell’accordo collettivo scaduto. Questo regolerà in tal modo il nuovo rapporto individuale di lavoro (e continuerà a regolare il rapporto degli sportivi già assunti anche nel periodo di vuoto normativo) fino alla relativa scadenza o, se espressamente previsto, fino all’entrata in vigore del nuovo accordo collettivo, fatte comunque salve le clausole individuali di maggior favore. Ad essere perpetuata è la sola
Giustizia Sportiva un parere (2/2010 del 30 luglio 2010). In questo parere l’Alta Corte sostiene che nella fase di formazione degli accordi la federazione – quale organismo sovraordinato ai soggetti rappresentanti delle categorie interessate, e interventore nel procedimento di formazione degli accordi – ha la funzione di promuovere la realizzazione di intese che stabiliscano un equilibrio tra le posizioni delle parti propriamente contrattuali, nello spirito e sulla base dei principi dell’ordinamento sportivo, e di adottare tutte le iniziative necessarie per il raggiungimento dell’accordo.
efficacia delle clausole di parte normativa, e cioè di quelle che riguardano la disciplina dei rapporti individuali di lavoro ponendo diritti e obblighi per i loro soggetti; ma non anche le c.d. clausole di parte obbligatoria che non dispiegano efficacia solo nei confronti di tali parti individuali ma si rivolgono ai soggetti collettivi che hanno stipulato il contratto collettivo regolando i loro reciproci diritti e obblighi (ad esempio non potrà ritenersi incluso in un valido rinvio recettizio quanto previsto in materia di collegio arbitrale, che implica il coinvolgimento di parti collettive).
2.3.7. I contratti stipulati in modo non conforme al contratto tipo. I patti aggiunti al contratto sportivo.
Arrivati a questo punto della trattazione si rende necessario trattare uno degli aspetti più controversi della disciplina del contratto di lavoro sportivo: il contratto che sia stato redatto in forma scritta ma non sulla scorta del modello tipo approvato dalle organizzazioni collettive di categoria. In questo caso il contratto deve essere considerato efficace a tutti gli effetti?
A tal proposito diversi sono gli orientamenti emersi in dottrina e giurisprudenza.
Un filone giurisprudenziale (41) ritiene che sulla validità del contratto non incida in alcun modo la difformità del contratto tipo e che tale difformità determini degli effetti sanzionatori solamente all’interno dell’ordinamento sportivo. Le motivazioni a sostegno di tale orientamento si basano sul dato testuale del primo comma dell’art. 4 l. 91/1981 che prevede la collocazione dell’espressione «a pena di nullità» immediatamente dopo la previsione relativa all’adozione della forma scritta ad substantiam, piuttosto che all’esordio della norma ovvero successivamente alla statuizione concernente la conformità del contratto individuale rispetto al contratto tipo. Questo assunto disvelerebbe l’intenzione del legislatore di attivare il meccanismo sanzionatorio nella sola ipotesi di assenza della forma scritta e non invece in caso di mancata utilizzazione del contratto tipo collettivo. Inoltre ad una
(41) Si v. a tal riguardo Trib. Perugia, 21 maggio 1993, in Giust. Civ., 1993, I, con nota di VIDIRI. Nel caso in questione viene fatta salva la validità di un contratto di lavoro sportivo redatto in forma scritta ma non in conformità al modello tipo e nemmeno depositato presso la federazione sportiva nazionale.
forzatura del dato letterale sembra essere d’ostacolo non solo il principio secondo cui «le norme di carattere proibitivo sanzionatorio, come quella in questione, vanno lette secondo un canone di stretta interpretazione», ma anche «il collegamento sistematico del primo con il terzo comma dell’art. 4, ove è sancita la sostituzione ope legis delle clausole integranti deroghe peggiorative con quelle corrispondenti al contratto tipo». Quest’ultimo meccanismo, ricalcando la regola generale dell’art. 2077 c.c., vuole assicurare una tutela sostanziale della posizione individuale del lavoratore subordinato attraverso l’eliminazione delle pattuizioni peggiorative rispetto alla disciplina fissata dal contratto tipo senza «appuntarsi criticamente sul dato formale dell’omesso utilizzo del contenitore rappresentato da quest’ultimo».
Tuttavia tali considerazioni vengono contrastate dalla dottrina maggioritaria, la quale ritiene che la conformità del contratto individuale al contratto tipo risponde ad evidenti finalità di ordine e di certezza, indispensabili per il regolare esercizio di ogni attività agonistica, perché consacra in modo incontestabile una omogenea regolamentazione dei contratti individuali attraverso la loro conformità ad un predisposto standard negoziale (42). Il ritenere validi e pienamente operativi a tutti gli effetti i contratti di lavoro sportivo sulla base della sola forma scritta può indurre a circondare di mistero le attività negoziali maggiormente onerose per la società, sottraendole così ad ogni genere di verifica da parte degli organismi federali, con innegabile pregiudizio in termini di rigore finanziario, sicuramente necessari per un regolare e trasparente esercizio dell’attività sportiva (43).
Nonostante ciò, negli sport professionistici di maggiore seguito, è frequente il ricorso ad accordi che – contemporaneamente (o anche successivamente)
(42) XXXXXX, Xxxxx forma scritta del contratto di lavoro sportivo, in Giust. Civ., 1993, p. 2839 ss. “Sul versante della realtà fattuale il seguire l’opinione del tribunale perugino condurrebbe ad inaccettabili conseguenze”.
(43) Sempre VIDIRI, Xxxxx forma scritta del contratto di lavoro sportivo, cit., 1993, p. 2839 ss. Nonostante l’introduzione nel settore del calcio professionistico di un organismo di controllo (CO.VI.SO.C. – Commissione per la vigilanza ed il controllo delle società sportive professionistiche -), dotato di incisivi poteri, si è finora manifestata una divaricazione tra un sistema astrattamente garantistico ed un assetto organizzativo delle società non di rado marcato da zone di irregolarità. A tal proposito uno spiccato rigore nella gestione societaria è indispensabile per la forza attrattiva che la presidenza di squadre calcistiche è capace di esercitare nei confronti dei “rampanti della finanza”, per rappresentare un insostituibile veicolo promozionale e per aver costituito talvolta persino una xxx xx xxx xxxxxx xxxxxxx xx credito bancario.
al contratto federale di ingaggio, depositato in Lega – vengono stipulati tra società ed atleti attraverso la sottoscrizione di documenti che, pur nel rispetto della forma scritta, non sono redatti sulla scorta del contratto tipo predisposto. La sottrazione delle pattuizioni alle regole federali risponde a fini non encomiabili, primo tra tutti quello di sottrarre all’imposizione tributaria miglioramenti che, per la loro entità, finiscono per mutare notevolmente (ed in modo particolare per i giocatori di maggior notorietà) il trattamento economico, risultante dall’accordo iniziale (44).
Il sottrarre alla prescritta esteriorizzazione detti patti finirebbe dunque per eludere le finalità della disciplina legislativa, motivo per cui si ritiene che anche questi patti aggiuntivi debbano essere assoggettati all’articolata procedura indicata dall’art. 4 (45).
La questione in esame è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali (46), in particolare il Tribunale di Pescara nella sentenza del 16 marzo 1995 risponde al quesito se la mancata adozione del modulo federale possa ricadere nell’ambito della comminatoria di nullità ex art. 1352 c.c. (47), o se tale vizio non comporti piuttosto la nullità degli accordi in
(44) Secondo XXXXXXXXXXX, Considerazioni in tema di «contratto di lavoro sportivo professionistico»: prescrizioni di forma e di contenuto nell’art. 4 l. 23 marzo 1981, n. 91, in Rass. dir. civ., 1996, p. 449 ss., è ormai divenuta prassi consolidata, da parte delle società calcistiche, «promettere» ad un proprio giocatore cospicui guadagni a fronte dell’ottenimento di un maggiore impegno durante lo svolgimento del campionato: in tal modo, le società mirano ad assicurarsi – attraverso la prestazione di ulteriori incentivi monetari – un rendimento dell’atleta quanto più alto possibile.
(45) Si conforma in tal senso anche la Suprema Corte. Cass.,13 marzo 2014, n. 5830, (S.S. c.
A.S. Roma S.p.a.) con nota di FACCI, La nullità dei patti aggiunti al contratto sportivo, in
Corriere Giur., 2015, p. 341.
(46) Secondo il Trib. Treviso, 3 marzo 1994 (Calliman c. Soc. Pievigina Calcio) con nota di CARINGELLA, Xxxxx considerazioni in tema di forma del contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. Sport. 1994, p. 686., è da considerarsi nullo, per difetto di forma convenzionale (ex art. 1352 c.c.), il contratto di lavoro sportivo perfezionato dalle parti senza avvalersi del contratto tipo approvato dalle organizzazioni di categoria ai sensi dell’art. 4 della l. 23 marzo 1981, n. 91, in violazione della clausola dell’accordo collettivo volta a disconoscere qualsivoglia rilevanza giuridica a pattuizioni non risultanti dai contratti tipo depositati per l’approvazione presso le federazioni sportive. L’autore della nota si discosta dalla sentenza del Tribunale di Treviso e richiama invece quanto aveva statuito la sentenza del Trib. di Perugia, 21 maggio 1993.
(47) Si dimostra contrario DEL BENE, Formalismo giuridico e prescrizione di forma ad substantiam nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato sportivo, cit., 1994, p. 610 ss. il quale ritiene si debba partire dal presupposto che la conformità al contratto tipo sia un limite che attiene al contenuto del regolamento negoziale e non si traduca in un requisito di forma, a cui sia legata la validità del contratto individuale, se non in quanto, la stessa autonomia collettiva, magari proprio nell’accordo sulle condizioni generali, abbia reso obbligatorio ex art. 1352 c.c. l’adozione di un modulo o formulario in cui queste sono racchiuse.
oggetto per violazione diretta della norma imperativa (art. 4) contenuta nella legge del 1981. Ebbene, appare quantomeno superfluo il richiamo, operato dal Tribunale di Pescara, alla previsione normativa contenuta nell’art. 1352
c.c. per giustificare la nullità degli accordi «integrativi» in oggetto, atteso che a far scattare il meccanismo dell’invalidità è, per converso, la violazione diretta ed immediata della disposizione di cui all’art. 4 l. 91. Le parti della controversia in esame, avendo, infatti, integrato il contratto di lavoro attraverso la stipulazione consensuale di accordi che, pur se redatti in forma scritta, mancavano degli altri requisiti di legge (conformità al tipo e deposito), hanno evidentemente disatteso il disposto dell’art.4 l. 91/1981 prima ancora di violare l’art. 2 dell’accordo collettivo di categoria che imponeva loro di adottare il modulo federale triennalmente predisposto (48). Tutto ciò mette in luce la portata ed il ruolo che la nuova disciplina sul lavoro sportivo ha svolto nella definizione dell’assetto dei rapporti tra ordinamento giuridico statale e organizzazione dello sport, attraverso l’elaborazione di un sistema che mira a mantenere entro precisi e penetranti limiti lo svolgimento dell’attività sportiva e a disconoscere rilevanza nell’ordinamento statale ad un impegno contrattuale che non sia suscettibile di tutela nel mondo sportivo.
Tuttavia se da un lato, come già sottolineato in precedenza, sono facilmente riconoscibili gli interessi che stanno alla base di simili accordi posti a latere del contratto di lavoro sportivo, dall’altro lato non sembra essere altrettanto chiara alle parti la tutelabilità delle situazioni giuridiche che ne costituiscono oggetto, posto che tali accordi, in quanto stipulati in violazione delle norme disciplinanti la materia del lavoro sportivo, non possono che ritenersi assolutamente nulli. Ciò nonostante viene fatta salva la possibilità di considerare tali accordi quali fonti di obbligazioni naturali, cioè di doveri che rilevano solo sul piano morale e sociale senza esercitare, invece, alcuna incidenza nel mondo del diritto, in modo tale che al giocatore non venga riconosciuto alcun potere di difesa per far valere in giudizio le proprie ragioni, rappresentando la mancanza della coercibilità l’elemento
(48) Sentenza confermata dalla Cass. 04 marzo 1999, n. 1855 con nota di XXXXXX, Contratto di lavoro dello sportivo professionista, xxxxx aggiunti e forma ad substantiam, in Giust. Civ., 1999, p 1613.
caratterizzante le obbligazioni in parola. Tuttavia, la totale irrilevanza giuridica dal punto di vista dell’azione, non significa che in particolari circostanze gli obblighi di carattere morale e sociale non possano acquistare una qualche rilevanza per il diritto. L’art. 2034 c.c. statuisce che non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali e sociali. Ciò significa che se tali doveri non sono coercibili, non essendo giuridici, determinano però l’irripetibilità di quanto eventualmente prestato, legittimando quindi il calciatore a trattenere quanto spontaneamente eseguito in suo favore dalla società. Solo sotto questo profilo può attribuirsi, dunque, rilievo agli accordi in discussione che vengono stipulati tra la società e lo sportivo professionista in funzione integrativa del contratto di lavoro, dovendosene escludere la loro efficacia sotto ogni altro profilo (49).
2.3.8. Il deposito e l’approvazione del contratto ad opera della Federazione sportiva competente.
Gli ultimi due requisiti richiesti dall’art. 4.2 della l. 91/1981 per la stipulazione del contratto di lavoro sportivo subordinato riguardano: il deposito del contratto presso la competente federazione sportiva e l’approvazione dello stesso da parte di quest’ultima.
Il deposito e la successiva approvazione da parte della federazione depositaria assolvono alla funzione di controllo, sia di merito che di legittimità, del contratto individuale di lavoro. Tale approvazione, in particolare, costituisce una sorta di condicio iuris che condiziona il perfezionamento della fattispecie contrattuale e quindi la produzione degli effetti voluti dalle parti, sicché in sua mancanza è negata qualsiasi efficacia al vincolo contrattuale (50).
(49) Si v. ancora, XXXXXXXXXXX, Considerazioni in tema di «contratto di lavoro sportivo professionistico»: prescrizioni di forma e di contenuto nell’art. 4 l. 23 marzo 1981, n. 91, cit., 1996, p. 449 ss.
(50) Sono orientate in questo senso Cass, 12 ottobre 1999, n. 11462 (Soc. Perugia calcio x. Xxxxxx e altri) in Contratti, 2000, p. 68 e Alta Corte di Giustizia Sportiva, par. n. 2/2010, 30 luglio 2010 in Giur. del lav., Mass., 2010, p. 834.
Tali requisiti si ritiene non siano prescritti a pena di nullità. Una particolare impostazione, infatti, è volta a limitare la previsione espressa della nullità (art. 1418.3 c.c. “Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”. In questa circostanza il caso stabilito dalla
2.4. L’oggetto del contratto di lavoro sportivo. Le “folli” clausole dei contratti dei calciatori.
La prestazione richiesta al calciatore è una prestazione di tipo non economico, ma comunque suscettibile di valutazione economica (ex art. 1174 c.c.) e di tipo strettamente personale. È da considerarsi quindi oggettivamente e soggettivamente «infungibile», nel senso che ogni calciatore, ingaggiato da una squadra professionistica, solitamente si contraddistingue per propri peculiari fattori (struttura fisica, doti, eventuali esperienze in altre squadre professionistiche, il proprio ruolo nel gioco (51)). La prestazione del debitore (calciatore) è a tal punto inseparabile dalla sua stessa persona che qualsiasi forma di surrogazione snaturerebbe il senso dell’obbligazione e comunque comprimerebbe in modo arbitrario la libertà personale del debitore.
La prestazione calcistica, inserita nella dimensione attuale del fenomeno – calcio che si caratterizza per i mega – ingaggi dei calciatori, ma anche per gli straordinari introiti connessi al merchandising e alla cessione dei diritti di ripresa e diffusione pubblica delle partite e degli altri eventi ufficiali, ha la sua essenza nell’elemento dell’intuitus personae: l’interesse del creditore quanto a competenza, organizzazione e perizia, garantito dal calciatore – debitore, non può essere soddisfatto tramite l’intervento di terzi.
legge è l’art. 4 l.91/1981) alla sola inosservanza del requisito della forma scritta. La violazione dei precetti relativi alla conformità al contratto tipo ed al deposito presso la Federazione è stata ricondotta all’art. 1418, ma non al comma 3°, bensì al 1° (“Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente). L’eccezione contenuta nell’ultima parte del comma 1° consente di escludere la nullità del contratto nonostante la violazione della norma imperativa: nel caso di specie si è ritenuto che il legislatore abbia voluto disporre diversamente, in quanto è demandato espressamente alla federazione sportiva nazionale il potere di approvare il contratto. L’approvazione della federazione è stata ravvisata come una sorta di condicio iuris, poiché l’evento dal quale dipende la produzione degli effetti è esterno alla fattispecie costitutiva, già perfezionatasi in tutti i suoi elementi. Pertanto, secondo questa ricostruzione, la stipulazione senza l’osservanza della forma scritta determina la nullità dell’atto (ex art. 1418.3 c.c.), mentre la conformità al contratto tipo e il deposito rappresentano adempimenti funzionali al fine di ottenere l’approvazione da parte della federazione, la cui mancanza determina non la nullità, bensì l’inefficacia del contratto.
(51) NATALI, Il lavoro del calciatore professionista, in Diritto e Pratica del Lavoro, 10/2008, p. 627. Ad es. un giovane talento offensivo brasiliano non è “rimpiazzabile” da un trentacinquenne difensore tedesco poiché è chiamato a svolgere diverse mansioni e a dare un diverso contributo al gioco e alle partite della sua squadra.
L’oggetto del contratto di lavoro sportivo consiste, dunque, nella prestazione tecnica dello sportivo a fronte del corrispettivo da parte della società. Ma non solo.
Per quanto riguarda la prestazione lavorativa dello sportivo, il comma quarto dell’art. 4 l.91/1981 dispone che nel contratto individuale di lavoro debba essere menzionato espressamente l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici (tale norma trova il suo parallelo in quella contenuta nell’art. 10 dell’Accordo Collettivo tra F.I.G.C., L.N.P.A. e A.I.C., secondo cui “Il calciatore deve adempiere la propria prestazione sportiva nell’ambito dell’organizzazione predisposta dalla Società e con l’osservanza delle istruzioni tecniche e delle altre prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”(52)).
Peraltro, è la prassi concreta dei rapporti calcistici a mostrarci l’ampiezza della prestazione oggetto del contratto del calciatore professionista, la quale non si esaurisce di certo con la disputa dei match cui la società di appartenenza partecipa (53). Pare opportuno, dunque, parlare di un «fascio di obbligazioni» scaturente dalla pluralità di rapporti sussistenti fra calciatore e società (oltre al contratto strettamente calcistico, altri contratti collegati in diverso modo al primo, come in particolare quello di merchandising).
Attualmente, ed ogni giorno di più, il contratto che va a disciplinare il rapporto tra il calciatore e la Società contiene clausole sempre più curiose. A rendere più concrete le affermazioni effettuate in precedenza risulta d’aiuto la pubblicazione (54) del lavoro finale di un’inchiesta internazionale basata su più di diciotto milioni di documenti finanziari riservati, originariamente
(52) Tale articolo dopo aver richiamato gli obblighi di obbedienza e diligenza ex art. 2104 c.c., dispone in capo al calciatore anche un dovere di fedeltà (richiamo all’art. 2105 c.c.) da osservare nei confronti della Società, nonché l’obbligo per l’atleta di evitare comportamenti tali da arrecare pregiudizio all’immagine della Società stessa.
(53) Si x. XXXXXX, Natura del rapporto tra la società calcistica e il giocatore, in Riv. Dir. Sport., 1971, p. 262 ss. Il giocatore è soggetto a certi obblighi e certe limitazioni (mantenere una determinata dieta, sottoporsi a certe cure fisiche, non superare certi limiti di peso, e così via), ma entrambi sono diretti al fine di tenere un certo rendimento, quel rendimento che nella aspettativa del datore di lavoro, fanno parte e costituiscono un tutt’uno con la prestazione sicché essa si svolge più che secondo un orario di lavoro, secondo un calendario che risponde a regole fisse e prestabilite. Sotto questo singolare aspetto si può accostare la prestazione del giocatore a quella del lavoratore artista.
(54) Ad opera di un gruppo di dodici testate giornalistiche europee, che insieme formano l’European Investigative Collaborations (EIC).
consegnati da una fonte anonima al settimanale tedesco Der Spiegel, a cui è stato dato il nome di “Football Leaks” (55).
Xxxxx Xxxxxxxxx pagato per non sputare sugli avversari, lo stipendio da 57 dollari al minuto di Xxxxxxxx Xxxxxxx, il bonus di 3000 sterline anche in caso di sconfitta in favore di Xxxx Xxxxxx, «fare ogni possibile sforzo per integrarsi nella società catalana, fare propri i valori della stessa, impegnarsi soprattutto ad imparare la lingua catalana, veicolo fondamentale di integrazione» è una delle clausole del contratto del difensore Xxxxxx Xxxxxxxxx con il F.C. Barcelona (56). Sono clausole che danno conto della complessità e della continua evoluzione cui è sottoposto l’universo calcistico, nonché, come se ce ne fosse stato bisogno, rafforzano, a livello giuridico, il concetto di specialità che caratterizza il contratto di lavoro dei calciatori.
Alla “soggezione” dell’atleta fa speculare riscontro l’impegno della società a curarne l’efficienza psico – fisica, apprestando attrezzature idonee alla preparazione, ed a consentire conseguentemente la partecipazione agli allenamenti ed alle sedute di preparazione alle competizioni.
Il carattere qualificante dell’art. 4 consiste, dunque, nel rendere materia contrattuale i vincoli imposti a ciascuno dei soggetti del rapporto sportivo, la cui inosservanza legittima l’azione di risoluzione per inadempimento e di risarcimento danni. La violazione degli obblighi imposti allo sportivo infatti non solo produce effetti negativi sull’ordinamento sportivo, ma è altresì in grado di provocare conseguenze dannose (alle Società di appartenenza) rilevanti sul piano dell’ordinamento generale.
(55) Il nome dell’inchiesta riprende, perché strettamente collegata, quello del sito internet Football_leaks, che nel settembre 2015 cominciò a pubblicare una serie di documenti riservati che riguardavano le attività dei club e in particolare le operazioni finanziarie di Doyen, il ramo sportivo della Doyen Group, una società con sede a Londra che investe nel settore energetico, nelle costruzioni e nelle materie prime. I documenti pubblicati su Football_leaks riguardavano principalmente contratti, proposte e accordi per il trasferimento di giocatori, e riportavano le percentuali di guadagno di Doyen e i rapporti che la stessa società aveva con diversi importanti club spagnoli, portoghesi, francesi e olandesi.
(56) XXXXXXXXX, VERGINE, EIC, Football Leaks, le folli clausole dei contratti: el Xxxxx Xxxxxxx pagato 57 dollari al minuto, pubblicato il 06 dicembre 2016 in xxxx://xxxxxxxx.xxxxxxxxxx.xx
La duplice rilevanza dell’inadempimento comporterebbe quindi l’intervento sanzionatorio sia della giustizia sportiva sia di quella ordinaria (57).
3. Clausole facoltative e disposizioni normative non applicabili.
3.1. La clausola compromissoria.
Nei commi successivi, l’art. 4 l. 91/1981 specifica alcune clausole che possono essere inserite nel contratto individuale di lavoro.
In particolare, il comma 5 prevede che possa essere pattuita la clausola compromissoria: “Xxxxx stesso contratto potrà essere prevista una clausola compromissoria con la quale le controversie concernenti l’attuazione del contratto e insorte fra la società sportiva e lo sportivo sono deferite ad un collegio arbitrale (58). La stessa clausola dovrà contenere la nomina degli arbitri oppure stabilire il numero degli arbitri e il modo di nominarli”.
Va sul punto osservato come tale clausola, sebbene prevista teoricamente soltanto in forma facoltativa, risulti invece in concreto caratterizzata dalla obbligatorietà, visto che i contratti tipo prevedono sempre tale clausola.
Peraltro l’esigenza di agevolare la devoluzione delle controversie a collegi arbitrali, organi di giustizia sportiva, in ragione della specificità delle suddette controversie, viene comunque assicurata, pur in assenza di una espressa previsione della clausola compromissoria, dai regolamenti federali (art. 24 Statuto F.I.G.C.) (59), nei quali di regola viene imposto alle società
(57) Si v. ancora XXXXXXX, Il contratto di lavoro sportivo, cit. 1998.
(58) Disciplinati all’art. 48 Cod. di Giustizia sportiva F.I.G.C. Sono collegi costituiti sulla base degli accordi collettivi con le Associazioni rappresentative degli sportivi professionisti che hanno la competenza nella risoluzione di controversie fra sportivi professionisti e società di appartenenza
(59) XXXXXX, XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, II ed., Milano, 2015, p. 136. Il c.d. vincolo di giustizia sportiva è sancito nei regolamenti organici di tutte le federazioni sportive, in materia di status dei tesserati e degli affiliati. La dottrina talvolta confonde l’istituto della clausola compromissoria con quello del vincolo di giustizia. In effetti gli istituti in questione comportano i medesimi effetti dato che entrambi rappresentano una deroga alla giurisdizione ordinaria (consentita ex l. 280/2003). Ma, mentre la clausola compromissoria attiene esclusivamente a controversie di ordine economico, il vincolo di giustizia sportiva crea una barriera tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento statale in relazione a controversie di ogni genere, seppur entro i limiti della l. 280/2003. Un’altra differenza tra i due istituti la si coglie nel momento in cui si osserva che nella clausola compromissoria spetta alle parti decidere il numero e la composizione degli arbitri che formano il collegio, mentre gli organi di giustizia sportiva, cui sono deferite le controversie
ed ai tesserati di adire, per le controversie connesse con l’attività sportiva, gli organi a ciò preposti e nei quali viene sanzionata severamente l’inosservanza di un siffatto obbligo con l’espulsione dalla comunità sportiva.
La natura dell’arbitrato ha acceso un contrasto dottrinario tra chi ritiene che si tratti di arbitrato rituale (60) e chi insiste invece per la irritualità. A sostegno della prima tesi vi è la costatazione dell’identità testuale tra il comma 5 dell’art. 4 l. 91/1981 ed il comma 2 dell’art. 809 c.p.c.; la natura irrituale dell’arbitrato, invece, si fonda sul disposto dell’art. 4 l. 533/1973
(61).
La dottrina prevalente dimostra di essersi orientata nel senso dell’irritualità dell’arbitrato, cosa peraltro confermata espressamente dal primo comma dell’art. 21 dell’Accordo Collettivo tra F.I.G.C., L.N.P.A., A.I.C. (62).
in ambito sportivo per effetto del vincolo di giustizia, sono invece stabiliti dalle rispettive federazioni.
(60) XXXXXXX, La legge 23 marzo 1981, n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit., 1991, p. 31 ss. L’arbitrato rituale sembra meglio garantire quella neutralità dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale (proprio in virtù del ruolo fondamentale attribuito all’ordinamento sportivo dalla stessa l. 91/1981). Inoltre i sostenitori di tale tesi sostengono che i meccanismi di funzionamento della clausola compromissoria non siano diversi da quelli generali indicati dall’art. 808 c.p.c.; perciò è rimessa alle parti la scelta iniziale di adire alternativamente il collegio arbitrale o il giudice ordinario.
Secondo XXXXXX, Il contratto di lavoro sportivo, in Giur. del lav., Mass., 2001, p. 980, l’orientamento favorevole alla natura irrituale dell’arbitrato (seguito in giurisprudenza) si basa sulla ulteriore considerazione che lo svolgimento dell’attività agonistica a livello professionistico è incentrato su eventi sportivi che si susseguono in stretti spazi temporali (partite di campionato, impegni agonistici all’estero ecc.) sicché all’operatività di un tale sistema appare indispensabile uno schema di risoluzione delle controversie, improntato a libertà di forme, svincolato dalla stretta osservanza di norme processuali, e suscettibile di definitività in termini brevi.
(61) Per poter comprendere meglio le due posizioni è necessario tracciare a grandi linee le differenze tra arbitrato rituale e irrituale.
Nell’arbitrato irrituale (o libero) gli arbitri si sostituiscono alle parti per volontà delle stesse e pongono in essere un negozio che è impugnabile in presenza di vizi invalidanti una qualsiasi manifestazione della volontà (incapacità delle parti e degli arbitri; vizi di volontà). Nell’arbitrato rituale, invece, gli arbitri si sostituiscono al giudice nel pronunciare un lodo, al quale il decreto del Pretore conferisce efficacia di sentenza impugnabile unicamente a norma dell’art. 827 c.p.c. (per nullità e revocazione).
(62) Art. 21.1. Accordo Collettivo: “In conformità a quanto previsto dall’art. 4, quinto comma, della legge 23 marzo 1981, n. 91 e successive modificazioni, nonché dall’art. 3, primo comma (ultimo periodo), della l. 17 ottobre 2003 n. 280, il contratto individuale di prestazione sportiva deve contenere una clausola compromissoria in forza della quale la soluzione di tutte le controversie aventi ad oggetto l’interpretazione, l’esecuzione o la risoluzione di detto contratto ovvero comunque riconducibili alle vicende del rapporto di lavoro da esso nascente sia deferita alle risoluzioni del Collegio Arbitrale, che si pronuncerà in modo irrituale”.
Il risultato più evidente, che si è raggiunto in anni di prassi, è stato quello di deflazionare la microconflittualità tra atleti professionisti e società, nel preciso intento di evitare che venga, volta per volta, investita l’autorità giudiziaria. La clausola arbitrale, in definitiva, rappresenta indubbiamente una valida alternativa, soprattutto su un terreno di difficile ricognizione per i giudici, attesa la peculiarità del rapporto di lavoro sportivo (63).
3.2. La clausola di non concorrenza.
Al comma 6, l’art. 4 pone il divieto categorico di inserire clausole di non concorrenza o comunque limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso, nonché l’integrazione delle stesse clausole, durante lo svolgimento del rapporto.
La ratio di questa disposizione è quella di garantire la massima possibilità di impiego del lavoratore al termine dell’ingaggio, in considerazione del fatto che la vita lavorativa dello sportivo, e in particolare dell’atleta, si esaurisce in un ridotto periodo di tempo, e, d’altra parte, periodi di inattività lavorativa si traducono in una diminuzione del valore economico dell’atleta, poiché incidono sul piano della sua efficienza fisica e dell’interesse da parte delle società sportive e degli sponsor.
Il divieto, trova la sua logica, inoltre, nel raccordo con le statuizioni degli artt. 6 e 16 della stessa legge n. 91, con i quali, come vedremo più avanti nel corso della trattazione, è stato abolito il c.d. vincolo sportivo.
L’ammissione dei patti di non concorrenza, pur nel rispetto dei limiti imposti dall’art. 2125 c.c., avrebbe potuto reintrodurre forme di limitazione della libertà contrattuale dell’atleta che il legislatore ha inteso invece abolire. Lo sportivo professionista, dunque, a parte gli impegni (eventuali) con la propria squadra nazionale (64), è tenuto ad esercitare la sua attività
(63) XXXXXXX, Il lavoro sportivo tra subordinazione e autonomia: il dilemma ordinamento statale o sportivo, in Lavoro nella Giur., 2008, p. 337 ss.
(64) La convocazione in nazionale da parte dei calciatori più meritevoli e rappresentativi non dovrebbe costituire un danno per il club di appartenenza, ma anzi dovrebbe portare sicuramente un aumento di prestigio e di notorietà. Il condizionale in questione è d’obbligo però. E’ capitato spesso in passato che i calciatori incorressero in infortuni (anche molto gravi) durante gli impegni con le nazionali comportando l’impossibilità da parte del club di appartenenza di schierare il calciatore per determinati periodi di tempo. A tal proposito la
esclusivamente per la società da cui dipende (in ragione dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c.).
3.3. Le norme non applicabili al lavoro subordinato sportivo.
La particolare natura del rapporto di lavoro sportivo trova un puntuale riscontro nel comma 8 dell’art. 4 che enumera le disposizioni che si ritengono non applicabili: gli artt. 4, 5, 7, 13, 18, 33, 34 dello Statuto dei
Lavoratori; gli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 604/1966 e la legge 230/1962 (oggi sostituita dal d.lgs. n. 368/2001) (65).
Il primo problema che si pone è di carattere interpretativo e relativo alla tassatività o meno dell’elencazione. L’orientamento dottrinario prevalente ritiene tale serie di disposizioni puramente esemplificativa e non esaustiva, attribuendo ampia facoltà all’interprete di valutare caso per caso l’adattabilità o meno della normativa comune ai rapporti di lavoro sportivo, operando un collegamento ed un coordinamento tra l’ordinamento statale e quello sportivo (66).
L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. La ratio dell’inapplicabilità di tale norma in ambito sportivo consiste nel fatto che la ripresa a distanza delle manifestazioni sportive (es. mezzo televisivo) rappresenta una fonte insostituibile di approvvigionamento finanziario per i soggetti impegnati nelle manifestazioni stesse.
L’art. 5 Stat. Lav. vieta l’effettuazione da parte del datore di lavoro di accertamenti sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. In questo caso, lo sportivo è «patrimonio» della società, la quale ha interesse a tutelare la salute dei suoi dipendenti
FIFA ha approvato il c.d. Fifa Club Protection Programme, il quale riconosce un indennizzo (che varia a seconda di determinate condizioni, come ad es. la gravità dell’infortunio, il tempo di riabilitazione ecc.) alle società che subiscono il danno di non poter schierare un atleta a causa di infortuni incorsi agli stessi durante le competizioni svolte con le nazionali.
(65) Per quanto riguarda la trattazione delle ragioni dell’inapplicabilità di tale legge si rimanda al prossimo capitolo.
(66) XXXXXXX, La legge 23 marzo 1981, n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit., 1991, p. 31 ss.
attraverso accertamenti il più possibile immediati e qualificati (67); lo sportivo, da parte sua, ha il massimo interesse alla partecipazione agonistica essendo legati i suoi guadagni e le sue prospettive al profitto atletico – sportivo (68).
L’art. 7 Stat. Lav. detta una particolare procedura per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari a carico del lavoratore, nei casi di inosservanza da parte di quest’ultimo degli obblighi che la legge pone a suo carico. La ratio dell’inapplicabilità di questo articolo nei confronti delle sanzioni irrogate dalle federazioni sportive, si giustifica con l’esigenza di non gravare queste ultime di una procedura che, a causa della sua lungaggine, risulterebbe non conciliabile con la speditezza procedurale che è invece necessaria al fine di garantire l’ordinato svolgimento delle competizioni sportive.
L’inapplicabilità dell’art. 13 Stat. Lav. si fonda sull’intercambiabilità dei ruoli, specialmente nei giochi di squadra, con la conseguente impossibilità di configurare nell’attività agonistica degli atleti (da escludere allenatori o istruttori) un concetto di “mansioni”, di “categorie” e di “carriera” che caratterizza invece il normale rapporto lavorativo: la prestazione sportiva è diretta al perseguimento del migliore risultato sportivo, e a tal fine l’atleta deve operare secondo le scelte tecniche ritenute migliori dall’allenatore.
L’assoluta insensibilità dei rapporti di lavoro sportivo alle norme statali sul collocamento è ribadita dall’inapplicabilità degli artt. 33 (collocamento) e 34 (richiesta nominativa di manodopera) ai contratti dei calciatori (69).
Per quanto riguarda le modalità di interruzione del rapporto lavorativo sportivo, al fine di avere una visione completa, è necessario raccordare l’esclusione dell’art. 18 dello statuto con l’inapplicabilità degli artt. 1, 2, 3,
5, 6, 8 della l. 604/1966.
(67) Si esprime in questi termini VIDIRI, La legge 23 marzo 1981, n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit., 1991, p. 31 ss.: “Assenza di potenziali contrasti tra produttività aziendale e tutela della salute del lavoratore”.
(68) XXXXXX, XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, cit., 2015, p. 137. Per giunta il divieto di effettuazione degli accertamenti sanitari sugli atleti risulterebbe in contrasto con la normativa in materia di tutela sanitaria in ambito sportivo e con la normativa in materia di doping (ex. l. 376/2000).
(69) Concetto già evidenziato nel par. 2.3. della tesi.
Gli articoli in questione disciplinano l’istituto del licenziamento individuale e la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nei casi di dichiarazione di inefficacia del licenziamento ex art. 2 l. 604/1966.
La ratio dell’esclusione di tali norme dalla disciplina del contratto di lavoro sportivo si giustifica con l’esigenza di favorire lo scioglimento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, tutte le volte in cui la società sportiva, ovvero l’atleta, non abbiano più interesse a proseguire tale rapporto, e, invece, abbiano interesse a stipulare un nuovo ingaggio rispettivamente con altro atleta o società. La stabilizzazione del rapporto di lavoro nel tempo, che consegue alla normativa in materia di licenziamento individuale ex l. 604/1966, non si adatta, infatti, al dinamismo che caratterizza i rapporti di lavoro in ambito sportivo. Secondo la disciplina prevista dalla l. 91/1981, il contratto di lavoro sportivo a tempo indeterminato può essere sciolto per recesso unilaterale ad nutum. Ne consegue, attraverso l’estensibilità al contratto di lavoro in questione degli artt. 2118 e 2119 c.c. (70), un sistema normativo volto a garantire una maggiore mobilità degli atleti e la loro libertà contrattuale.
Le restanti disposizioni dello Statuto dei lavoratori sono applicabili, in linea generale, alla materia in esame, allorquando non si ravvisi alcuna ragione di incompatibilità con l’ordinamento sportivo.
Anche la tendenza espansiva del diritto del lavoro, accentuatasi per motivi di carattere sociale e politico, consiglia un esteso riconoscimento nell’utilizzabilità del rapporto di lavoro sportiva della normativa codicistica e delle altre leggi di carattere generale, ad esclusione soltanto di quelle disposizioni che risultano in insanabile contrasto con le finalità sottese
(70) In ipotesi di contratto a tempo indeterminato, il recesso è libero ed unicamente condizionato alla comunicazione del preavviso o al pagamento dell’indennità sostitutiva (art. 2118 c.c.).
In ipotesi di rapporto a termine ciascun contraente potrebbe recedere dal contratto prima della scadenza dello stesso termine (o senza preavviso, se il rapporto è a tempo indeterminato) in presenza di una giusta causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
Es. di giusta causa di recesso è l’esclusione costante o reiterata dalla rosa della prima squadra. Oppure la morosità della società protratta oltre determinati limiti temporali o ancora la violazione (da parte della società o del lavoratore) degli obblighi contrattualmente assunti (ipotesi previste espressamente nell’Accordo Collettivo F.I:G.C., L.N.P.A., A.I.C. agli artt. 11-12-13).
all’ordinamento sportivo e con le speciali e caratterizzanti modalità di svolgimento dell’attività agonistica degli sportivi (71).
(71) In questo senso VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993, p. 221, il quale sottolinea ulteriormente come, in una situazione che lascia comunque delle zone di incertezza, sia auspicabile l’assunzione da parte della contrattazione collettiva di un ruolo di valutazione circa la compatibilità delle norme legislative non espressamente dichiarate applicabili o inapplicabili, al fine di sottrarla all’arbitrio dell’interprete ed al fine di evitare il pericolo di orientamenti errati e contrasti di vedute sia in dottrina che in giurisprudenza.
Capitolo II: Il vincolo sportivo
1. Introduzione
La fattispecie della cessione del contratto dei calciatori rappresenta un fenomeno moderno socialmente molto rilevante che coinvolge interessi economici non disprezzabili. Fin dai tempi del dopoguerra, molti dirigenti sportivi si resero protagonisti nella spesa di cifre sempre più rilevanti per costruire le rose delle proprie squadre e a lungo andare ciò ha portato a crisi di liquidità nonché ad una crisi economica generalizzata nel mondo del calcio. Molti economisti addebitano tale crisi agli effetti della sentenza Xxxxxx, altri sostengono invece che la crisi si sia accentuata negli ultimi anni e sia strettamente collegata all’evoluzione dei rapporti tra società sportive e calciatori professionisti che ha visto questi ultimi guadagnare negli anni sempre più peso contrattuale nei confronti delle controparti, passando da un regime di assoluta soggezione alla posizione di effettivo predominio del mercato (72).
In questo capitolo, prendendo in considerazione esclusivamente i calciatori professionisti, si cercheranno di analizzare le diverse fasi storiche (con il correlato sviluppo normativo) che hanno portato alla definizione dell’odierno calciomercato, partendo dal c.d. regime vincolistico vigente in un momento anteriore all’entrata in vigore della legge sul professionismo (l.
n. 91 del 1981), passando al regime contrattuale (73) e giungendo ad un’ultima fase di liberalizzazione totale (ancora in itinere) dovuta alla riforma internazionale del sistema dei trasferimenti FIFA (74) e alle soluzioni nazionali dei problemi dei calciatori extracomunitari.
(72) In generale, su tali aspetti, XXXXXXXXXX, L’evoluzione dei rapporti tra società sportive e atleti professionisti e il suo influsso sulla crisi economica del calcio, in Riv. giur. del lavoro e della previdenza sociale, 2004, pp. 55-56.
(73) Così ancora, XXXXXXXXXX, L’evoluzione dei rapporti tra società sportive e atleti professionisti e il suo influsso sulla crisi economica del calcio, cit., p. 56, il quale definisce il regime contrattuale dapprima “impuro” (quello delineato dalla legge n. 91), e successivamente “puro” (per effetto della sentenza Xxxxxx).
(74) Il famoso Fifa Regulation Governing Status and Transfers of Football Players
disponibile on – line sul sito xxx.xxxx.xxx.
2. Le origini del calciomercato: dai cambi di residenza degli inizi del ‘900 alle spese record del “Grande Torino”.
2.1. Il calcio dei “pionieri” e il primo grande trasferimento: il
«caso Rosetta».
Uno degli aspetti più controversi e dibattuti nel corso degli anni, nonché tema di stretta attualità, è sicuramente la disciplina riguardante il trasferimento dei calciatori.
Per analizzare in maniera efficace la questione, risulta necessario monitorare l’istituto dal suo stato embrionale, così da poter successivamente comprendere la crescita e, dunque, i cambiamenti di tale fenomeno.
Nel dilettantistico ed elitario calcio dei pionieri, da collocarsi tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900, i trasferimenti dei calciatori in quanto tali erano vietati e anche negati.
Il calcio italiano delle origini, come in Inghilterra, era rigorosamente uno sport amatoriale, al quale ci si dedicava per onore, divertimento e per mantenersi in forma, ma mai per soldi. Qualsiasi forma di pagamento era infatti disapprovata. La maggioranza dei calciatori svolgeva anche un altro lavoro, chi il medico, chi l’artista, chi l’uomo d’affari, chi lo scaricatore, chi lo studente. Il dilettantismo era, dunque, uno dei dogmi principali di ogni club, e i giocatori sorpresi a ricevere un compenso venivano subito messi fuori squadra (75).
I pochi trasferimenti che si verificavano erano imputati e fatti dipendere, con grande ipocrisia, da cambi di residenza. In questo senso, un ruolo di primo piano lo rivestì il Genoa Cricket and Football Club che, oltre ad essere stato il primo club a nascere nel 1893, fu anche il più dinamico e disinvolto, al limite della spudoratezza, nei primordiali movimenti economici. E conseguentemente, fu il primo a lamentarsi dell’eccessiva mobilità di qualche socio, il primo ad industriarsi per accogliere nuovi
(75) Si occupa di tali aspetti, FOOT, 1898-2007: Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, 2007, p. 42.
giocatori o ad inventarsi rimedi per investire denaro col fine di ottenerne un vantaggio in termini di risultato sportivo (76).
A partire dagli anni Venti, il denaro iniziò a scorrere a fiumi nel mondo del calcio, grazie ai biglietti venduti per assistere alle partite, alla pubblicità, ai giornali e ai giornalisti, ai premi. Scavalcando le regole in vigore, i grandi club cominciarono così ad assumere allenatori e a pagare i giocatori, servendosi di una serie di trucchi, come per esempio far passare i tecnici come semplici consulenti. L’Italia stava lentamente raggiungendo l’Inghilterra, dove già nel 1914 vi erano più di 4000 calciatori professionisti tesserati.
Il primo vero scandalo del calcio italiano è conosciuto come il «caso Xxxxxxx». Xxxxxxxx Xxxxxxx fu uno dei più apprezzati difensori dell’eroica fase iniziale della storia calcistica e venne considerato come il primo calciatore professionista nonché protagonista del primo grande trasferimento. Vi era implicata un’enorme quantità di denaro. Un assegno di almeno 50000 lire arrivò al presidente della Pro Vercelli dalla Juventus.
La vera pietra dello scandalo fu la quantità di denaro spesa per la prima volta per un giocatore di calcio. All’epoca sperperare così tanti soldi per ciò che, fondamentalmente, era solo un gioco, veniva considerato assolutamente immorale (77).
Il trasferimento di Xxxxxxx mise in luce, dunque, il crescente potere dei grandi club, e l’inizio della lunga decadenza delle forti squadre di provincia che avevano preso d’assalto il calcio nella prima parte del secolo.
(76) Riporta alcuni esempi, DE XXXXX, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, 2015, p. 31. Di questo tipo fu, ad esempio, in occasione della finale del campionato del 1902, che avrebbe dovuto giocarsi a Milano, l’offerta recapitata ai giocatori del Milan di invertire il campo in cambio di un pacchetto pseudo turistico comprendente cena genovese con gita notturna in barca e 15 lire a testa. Nel 1910 probabilmente con la proposta di un offerta di lavoro in una delle società dei dirigenti del Genoa, furono acquisite le prestazioni del milanista Xxxxxxx Xxxxxxx, prova generale di analoga operazione che avrebbe riguardato tre anni dopo Xxxxx Xx Xxxxxx, per il quale si scrisse che il Genoa aveva pagato a Xx Xxxxxx la favolosa somma di 24 mila lire. Nell’estate del 1914 Xxxxxxx e Mattea della Pro Vercelli vennero squalificati per essersi trasferiti al Genoa in cambio di pagamenti in natura come vestiti e regali del valore di qualche migliaio di lire.
(77) Xxxxxxx si accasò alla Juventus, ma dopo soltanto tre partite della stagione ’23-’24, la Federazione stabilì che il trasferimento era stato irregolare. Alla squadra bianconera vennero tolti i punti conquistati nelle tre gare in cui Xxxxxxx era sceso in campo ed il controverso trasferimento venne formalizzato solo nella stagione successiva.
Nel 1923, per porre fine alla moda diffusa dei calciatori di trasferirsi liberamente con gravi danni tecnici ed economici per le società, fu introdotto il cartellino con il quale il giocatore diventava di proprietà del club. Da questo momento in poi tutti i trasferimenti venivano gestiti economicamente dalle società.
2.2. La Carta di Viareggio e la legalizzazione del calciomercato.
Il 2 agosto 1926 fu una data storica per il calcio italiano: con la pubblicazione della Carta di Viareggio, lo statuto della nuova Federcalcio fascista, venne di fatto legalizzato il calciomercato. La Carta attuò la prima svolta storica nel passaggio del calcio italiano verso il professionismo. Ciò fu inevitabile per il crescente numero di calciatori-operai, i quali trovavano parecchie difficoltà a conciliare l’attività lavorativa con quella sportiva. Il documento divideva infatti i calciatori in due categorie, dilettanti e non dilettanti, riconoscendo così i numerosi precedenti di calciomercato avvenuti clandestinamente fino ad allora.
La Carta metteva mano anche alle liste di trasferimento che dal 1922 imponevano ad un club di fare mercato solo entro la sua provincia: dal luglio 1926 ogni vincolo territoriale veniva a cadere permettendo l’emigrazione dei giocatori da una regione all’altra e consentendo la moltiplicazione dei trasferimenti con pagamento del cartellino alla società cedente e ingaggio al calciatore. Il tutto ancora senza una vera e propria regolamentazione.
Per quanto riguarda la presenza di calciatori stranieri all’interno delle squadre di calcio italiane (78), il 1926 rappresentò il momento in cui si sposò
(78) FOOT, 1898-2007: Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, 2007, p. 56. Il boom di giocatori provenienti dalle nuove frontiere del calcio – soprattutto Austria e Ungheria – fu arrestato rapidamente da queste nuove regole. Durante la stagione ’25-’26 nel campionato italiano c’erano più di ottanta di questi giocatori, costretti a cercare lavoro altrove, o ad inventarsi una nuova professione. Tuttavia anche nelle procedure della Carta di Viareggio si potevano trovare delle scappatoie. Una volta proibito l’acquisto dei calciatori ungheresi e austriaci, i grandi club iniziarono a rintracciare gli «italiani» tra i milioni dei loro connazionali che avevano lasciato il Paese per cercare fortuna in altre parti del mondo. L’ibrida categoria degli oriundi italiani diventò parte integrante del gergo calcistico. Per oriundi si intendevano coloro che erano nati o cresciuti in altri Paesi, ma che avevano origine italiana (un nonno era sufficiente per essere considerati tali). Fino alla fine
(su basi evidentemente ideologiche) l’autarchia permettendo di mantenere solo due giocatori stranieri per squadra fino a non permetterne il tesseramento a partire dal 1928 (79).
2.3. Gli anni del dopoguerra e il “Grande Torino”.
Dal dopoguerra il volume economico del calcio crebbe fortemente. Da ciò non si deve però automaticamente dedurre che i maggiori beneficiari di questa crescita siano stati soprattutto calciatori e allenatori. Per quanto riguarda le società, se le maggiori dovevano far registrare con continuità grandi sbilanci nelle campagne acquisti, le piccole riuscivano con le plusvalenze a sostenere spese che con i soli incassi non avrebbero potuto reggere. Infine, è da considerare che una fetta del giro d’affari mosso dai trasferimenti finiva nelle tasche di intermediari e quindi non necessariamente tornava in circolo. Pian piano, dunque, il calcio cominciò a figurare come il parente benestante di una famiglia povera quale restava in definitiva il Paese (80).
Si inserisce in questi anni il caso del Grande Torino, assoluto protagonista non solo per la forza di una squadra ripetutamente vincente, ma anche per il massiccio ricorso al calciomercato in anni in cui la Federcalcio provava – senza riuscirci – ad arginare le crescenti spese dei club. In quegli anni il Torino rappresentò un modello quasi scientifico di ricorso al calciomercato e fu la dimostrazione lampante che per puntare a vincere nel calcio servono, da sempre, spese e investimenti. Condizioni fondamentali e decisive (anche se non sempre sufficienti) per il successo (81).
In definitiva, si può affermare che in quegli anni i tentativi di governare e circoscrivere le spese del calcio venivano ampiamente bypassate dalle
degli anni Quaranta e in alcune fasi successive, la storia degli stranieri nel calcio italiano fu scritta dagli oriundi.
(79) Effettua un parallelismo con la situazione odierna, ARMANINI, Carta di Viareggio, 90 anni fa nasceva il professionismo nel calcio italiano, in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx, 1 luglio 2016, il quale evidenzia come 90 anni dopo il mondo del calcio italiano sembra proporzionalmente lo stesso. Più business, un movimento più internazionale, ma problemi identici.
(80) Così, DE XXXXX, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, Soveria Mannelli, 2015, p. 36.
(81) XXXXXXXX, Il Grande Torino, un mito nato grazie a spese record e colpi di mercato, in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx, 12 aprile 2016.
società: alla fine degli anni ’40, infatti, cominciò a diventare prassi comune e generalizzata il disaccordo estivo su ingaggi e reingaggi.
Un caso emblematico vide come protagonista il presidente del Bologna Dall’Ara che all’epoca era tra i più attenti a contenere le spese nei limiti delle entrate. Al suo giocatore Xxxx che pretendeva 10 milioni, ne chiese provocatoriamente, a sua volta, 80 per lasciarlo libero, tale essendo il rapporto tra trasferimento e ingaggio, fortemente influenzato dall’istituto del vincolo sportivo. Insomma quanto valeva secondo il presidente del Bologna, Xxxx? Non più di 20, 30 milioni e dunque avrebbe dovuto accontentarsi di 2-3 milioni.
3. Il vincolo sportivo.
3.1. L’origine storica.
La tematica del vincolo tra calciatori e società ha costituito, per lungo tempo, all’interno del diritto sportivo, uno dei problemi più affascinanti e dibattuti soprattutto per l’enorme difficoltà di ricondurre un istituto così tipico ed originale del mondo dello sport a categorie giuridiche proprie dell’ordinamento generale e conseguentemente di individuare la natura giuridica alla stregua della normativa statale. E’ evidente, del resto, che, per quanto attiene al calcio professionistico di più larga diffusione, siano notevoli le implicazioni economiche connesse ad una simile problematica.
Il trasferimento del giocatore di calcio, prima delle novità introdotte dalla l.
n. 91 del 1981 veniva inteso come l’avvicendarsi del nuovo al vecchio club, nel lato attivo, del c.d. «vincolo sportivo» gravante sul giocatore (82), quell’istituto che attribuiva ad una società sportiva il diritto di utilizzazione esclusiva delle prestazioni di un atleta, cui corrispondeva l’obbligo dell’atleta ad un’ampia ed indiscriminata prestazione negativa, consistente nel non svolgere attività sportiva in favore di altra società sportiva (83).
Fin dal primo apparire delle associazioni sportive, si istituì un legame fra queste ed i giocatori, a tal punto da definirle vere e proprie associazioni di giocatori (84).
Il legame che si instaurava così fra il singolo giocatore e l’associazione (dei giocatori) non era altro che un comune rapporto associativo.
(82) Si x. XXXXXXX, La «cessione» degli atleti. Regole sui trasferimenti e diritto della concorrenza: il caso del calcio, in AIDA, 2003, pp. 73 ss., spec. p. 76, ove viene data una definizione di vincolo sportivo in una logica di restrizione del mercato delle prestazioni sportive: “Il vincolo sportivo, originariamente forgiato quale accordo restrittivo della concorrenza fra associazioni sportive, diretto a limitare - con lo strumento dell’esclusiva a tempo indeterminato - la reciproca competizione nell’accesso alla risorsa delle prestazioni atletiche, aveva l’obiettivo fra l’altro di ostacolare la libera migrazione dei giocatori verso i club capaci delle offerte economiche più allettanti, in danno dei piccoli club presso i quali i giocatori si erano magari formati, per frustrarne poi, con il passaggio ad altro club, le aspettative di adeguata remunerazione dei costi formativi sostenuti”.
(83) Si x. XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, in Riv. dir. sport., p. 288 ss.
(84) Sono gli stessi giocatori a dar luogo alle associazioni sportive, per questo si parla di associazioni di giocatori.
In origine, infatti, le pratiche sportive si realizzavano e diffondevano mediante forme associative tra atleti e sodalizi sportivi, nelle quali emergeva la comunanza di scopi e la condivisione di poteri e funzioni. Man mano che la pratica sportiva procedeva verso forme organizzative sempre più complesse e le associazioni sportive si univano a formare le Federazioni, il rapporto tra atleta ed ente di appartenenza iniziò a modificarsi, pur rispondendo sempre alla medesima logica associativa. Infatti, nella maggior parte dei casi le Federazioni sportive nacquero come associazioni di secondo grado (associazioni di associazioni) escludendo, cioè, la possibilità che il singolo sportivo si iscrivesse alla Federazione senza la contemporanea iscrizione ad una delle associazioni sportive che facevano parte della Federazione stessa.
La struttura originaria delle Federazioni poteva raffigurarsi come una specie di piramide che aveva alla base i singoli sportivi, al centro le associazioni formate da questi ultimi e al vertice la Federazione stessa (85). Entro questa struttura, il vincolo non era altro che il rapporto associativo che intercorreva fra il singolo giocatore e la propria associazione, mentre il tesseramento era l’atto che istituiva il rapporto fra il singolo e la Federazione.
La nascita del professionismo ha portato ad una sostanziale ricomposizione della base associativa, nella quale ora è possibile distinguere la componente che si occupa delle funzioni organizzative e gestionali da quella dedita alla pratica sportiva vera e propria, che non partecipa ai risultati economici dell’attività della associazione sportiva. Nacque, pertanto, l’esigenza di assicurare agli atleti un compenso economico che comportò la nascita di un terzo rapporto fra società sportiva e giocatore di contenuto essenzialmente economico, consistendo il professionismo, per definizione, nella prestazione di attività sportiva contro un compenso pecuniario.
Questo terzo rapporto va tenuto distinto dal vincolo che, in tal senso, è da considerare come il suo presupposto.
Il giocatore è coinvolto, dunque, in una triplice serie di rapporti:
- mediante il «tesseramento» è iscritto alla Federazione;
(85) XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss.
- mediante il «vincolo» assume un legame tendenzialmente a tempo indeterminato con una società sportiva;
- infine, con il «contratto di ingaggio», si stabilisce il corrispettivo che annualmente la società sportiva è tenuta a versare al giocatore in cambio dell’attività da questi prestata in favore di quella.
La creazione, nel professionismo, di nuovi rapporti fra le persone fisiche e le società sportive (soprattutto di carattere economico), ha portato a considerare la Federazione non più come espressione degli iscritti – persone fisiche, bensì come espressione solamente delle società sportive (86) con la conseguenza che il vincolo del giocatore con la propria società sportiva non aveva più niente a che vedere con l’originario rapporto associativo: era solo il residuo storico di una struttura dell’organizzazione sportiva che non esisteva più laddove lo sport venisse esercitato in forme professionistiche.
(86) Si v. ancora XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss., il quale afferma: “Al posto dei giocatori, come base sociale delle associazioni sportive, sono subentrati coloro che sono interessati alla vita dell’associazione stessa, ma che non sono più atleti che svolgono attività sportiva. La cosa è tanto più evidente considerando che le maggiori società calcistiche si sono trasformate in società per azioni: è chiaro che, in queste, «base sociale» sono i titolari delle azioni e non i giocatori in quanto tali, per cui è ancor più facilmente percepibile che l’ingaggio sportivo abbia natura di contratto di scambio”.
3.2. Il presupposto del vincolo: il tesseramento.
Allorché taluno intenda partecipare alle competizioni organizzate dalla F.I.G.C., deve necessariamente entrare a far parte di essa (87). L’atto che comporta l’acquisto in capo alle persone fisiche della qualifica di soggetto dell’ordinamento sportivo è detto «tesseramento» (88). Esso si compie con l’iscrizione del soggetto ad una associazione o società sportiva, che a sua volta provvede all’iscrizione dello stesso presso la competente federazione sportiva nazionale cui è affiliata (nel caso dei calciatori, la F.I.G.C. appunto). Il giocatore è quindi tesserato dalla F.I.G.C. per l’associazione sportiva nelle file della cui squadra milita: i soggetti necessari, affinché vi sia un valido tesseramento, sono, dunque, l’associazione sportiva, la
F.I.G.C. ed il giocatore (89).
L’atleta deve manifestare la volontà di entrare a far parte della F.I.G.C. firmando apposito modulo, detto «cartellino», a pena di inammissibilità della domanda stessa. A sua volta, l’associazione sportiva deve manifestare la sua volontà timbrando il modulo stesso (90). Da un punto di vista sostanziale, l’atto di tesseramento veniva considerato in passato come un
(87) Così esordisce, XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, in Rass. di dir. civ., 1984, p. 1062 ss.
(88) L’importanza e la centralità del tema della qualificazione giuridica del tesseramento viene sottolineata da XXXXXXX, La natura giuridica del vincolo sportivo, in Riv. dir. sport., 1987, p. 3 ss, il quale ritiene che un approccio corretto al tema coinvolga numerose problematiche fondamentali del diritto sportivo, quali quella della natura giuridica delle Federazioni sportive, dei limiti della Giustizia sportiva rispetto alla Giustizia ordinaria, fino al problema teorico principale, ossia quello dei rapporti fra ordinamento generale ed ordinamento sportivo.
(89) Nella F.I.G.C. il tesseramento dei giocatori può avvenire solo tramite una società sportiva (art. 39 N.O.I.F.) non essendo previsto – come invece accade in altre federazioni – l’affiliazione diretta del singolo alla Federazione.
(90) Il regolamento organico F.I.G.C. vigente prima che fosse abolito il vincolo sportivo, disciplinava il tesseramento all’art. 44 in questi termini: «I giocatori sono tesserati per la
F.I.G.C. su richiesta sottoscritta dagli stessi ed inoltrata tramite le rispettive società […]. La richiesta di tesseramento deve essere redatta su appositi moduli forniti dalla F.I.G.C. […]. I moduli compilati in ogni parte prescritta, firmati dal calciatore e corredati di timbro sociale con l’indirizzo, devono essere inviati alle leghe […]. Non possono essere tesserati calciatori di età inferiore ad anni otto […]. Il tesseramento è concesso normalmente ai calciatori residenti in Italia, che non siano mai stati tesserati per federazione estera […]. Non è consentito il contemporaneo tesseramento per più società. Agli effetti del tesseramento, in caso di più richieste, è considerata valida quella depositata per prima. Ai calciatori che, nella stessa stagione sportiva, sottoscrivono richiesta di tesseramento per più di una società, si applicano le sanzioni previste dal regolamento di disciplina».
Oggi l’atto del tesseramento è disciplinato agli artt. da 36 a 42 delle N.O.I.F.
atto pluriqualificato (91), sia perché da quello derivava la limitazione alla libertà contrattuale (in altri termini: l’atto da cui discende l’effetto della limitazione), sia perché comportava (e comporta tuttora) la sottoposizione del singolo ai doveri a lui imposti entrando a far parte dell’ordinamento sportivo (la Federazione) e conseguentemente alla Giustizia sportiva.
Con questo atto formale quindi il singolo acquista lo status di atleta e cioè diventa titolare di un fascio di rapporti giuridici che creano reciproci diritti ed obblighi nei confronti degli altri atleti, dell’associazione sportiva, della Federazione Nazionale e in generale di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento (92).
Circa la natura giuridica del tesseramento, in dottrina sono state avanzate numerose ipotesi che hanno dato luogo ad ampi dibattiti.
Secondo alcuni, a riguardo, non vi sono dubbi sul fatto che l’atto di tesseramento debba considerarsi il frutto di un negozio associativo disciplinato dallo Statuto e dall’eventuale regolamento dell’associazione (93). Per i sostenitori di tale tesi (c.d. privatistica) il tesseramento va inteso, dunque, come un atto di natura negoziale che lega contemporaneamente l’atleta alla società sportiva affiliata (94) e alla Federazione sportiva. La natura contrattuale del tesseramento presuppone che i soggetti che lo
(91) XXXXXXX, La natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1987, p. 3 ss, per pluriqualificazione intende il fenomeno che si verifica sia quando da un medesimo fatto discende una pluralità di effetti (cioè quando uno stesso comportamento sia oggetto della qualificazione di più norme facenti parte dello stesso sistema), sia quando le norme che qualificano quell’atto o quel fatto appartengono a sistemi giuridici diversi.
(92) Per questo motivo si dice che coloro che entrano a far parte della Federazione possono essere considerati «centri di imputazione delle situazioni giuridiche soggettive sportive».
(93) Cass. Sez. Unite, 6 marzo 1983, n. 1532, in Riv. dir. sport., 1987, p. 20 ha affermato il carattere privatistico del rapporto che si instaura fra una società sportiva e un soggetto che presti la sua attività a favore di essa, a nulla valendo il fatto che entrambi siano affiliati o tesserati con una Federazione sportiva facente parte del C.O.N.I.
(94) In tema di affiliazione si x. XXXXXX – XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, 2a ed., Milano, 2013, p. 60 ss. in cui si afferma che “Le associazioni/ società sportive divengono soggetti dell’ordinamento sportivo mediante l’affiliazione. L’affiliazione consiste nell’atto di riconoscimento a fini sportivi di una associazione/ società che ha, per suo scopo statutario, l’esercizio di una attività sportiva che rientra tra quelle riconosciute dal CONI […] Le relative disposizioni sono generalmente contenute nei regolamenti federali usualmente denominati Regolamenti Organici, che disciplinano gli organi della federazione e gli associati (affiliati e tesserati), mentre la F.I.G.C. denomina siffatto regolamento Norme organizzative interne federali (N.O.I.F.) […] L’affiliazione ha efficacia limitata ad un anno, pertanto l’associazione/ società che intenda proseguire la sua attività oltre l’annata sportiva per la quale l’affiliazione è stata concessa deve provvedere ogni anno a presentare domanda di riaffiliazione, entro i termini perentori prescritti dai regolamenti federali, pena la cessazione di appartenenza alla federazione di riferimento”.
pongono in essere siano, o quanto meno operino nella veste di soggetti privati (95).
A questa tesi si contrappongono coloro i quali ritengono che il tesseramento dell’atleta per la Federazione non sia altro che un atto amministrativo di ammissione all’ordinamento sportivo, mediante il quale il soggetto viene sottoposto alla potestà esercitata dalla Federazione sportiva (tesi c.d. pubblicistica). Chi sostiene la natura amministrativa dell’atto in questione, lo ritiene possibile in quanto compiuto in forza di regolamenti, quelli sportivi, con natura di fonti regolamentari, emanati cioè da soggetti dotati di potestà regolamentare (le Federazioni), potestà attribuita loro in quanto organi in senso proprio dell’Ente Pubblico C.O.N.I.
L’ingresso del singolo nella Federazione sarebbe quindi il frutto di un provvedimento autoritativo, con il quale si assume il soggetto privato nell’organizzazione sportiva e lo si rende in tal modo partecipe delle facoltà che solo in questo possono essere esercitate.
La dottrina dominante ritiene comunemente che sia da escludere la definizione di tesseramento come «atto amministrativo di ammissione», per la dubbia natura delle Federazioni e per la certa natura non normativa dei regolamenti interni delle federazioni stesse. In questa prospettiva qualifica il tesseramento come atto negoziale (96) e sostiene che il rapporto che va ad
(95) XXXXXXX, La natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1987, p. 3 ss circa la presupposta veste privata dei soggetti che pongono in essere il tesseramento afferma: “se ciò è ovvio per l’atleta e per le associazioni sportive, lo è meno per le Federazioni sportive che in questo caso vanno considerate come associazioni complesse (associazioni di secondo grado); quindi enti di natura associativa ancorché inseriti nell’organizzazione pubblicistica creata dallo Stato con la legge C.O.N.I.; di conseguenza i regolamenti federali vanno considerati in quest’ottica meri regolamenti interni, espressione dell’autonomia negoziale riconosciuta ai privati nei rapporti associativi in base all’art. 36 c.c.”.
(96) Va controcorrente XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984 p. 1062 ss il quale, per quanto concerne il tesseramento, sostiene con forza che non si sia in presenza di un contratto e nemmeno di due negozi giuridici unilaterali collegati: “Il giocatore, con il tesseramento, entra a far parte della F.I.G.C.; diviene soggetto di tutti i diritti e gli obblighi previsti dai regolamenti federali. L’assunzione di tali diritti ed obblighi è effetto del tesseramento: ma il giocatore, all’atto del tesseramento, non manifesta la volontà di entrare a far parte della F.I.G.C.: vi è quindi la volontà dell’atto, non la volontà degli effetti, è un atto giuridico in senso stretto, e non un negozio”.
Al contrario MORO, Natura e limiti del vincolo sportivo, in Riv. dir. econ. sport, 2005, p. 8 ss, sostiene addirittura che il tesseramento costituisca fonte di un “autentico rapporto contrattuale”. Tale rapporto viene comunemente identificato in un contratto associativo, in particolare, in un contratto aperto a formazione progressiva. La qualificazione del tesseramento nei termini anzidetti implica la configurazione dell’ente (federazione, società
instaurarsi tra Federazioni e privati debba essere considerato un rapporto di tipo privatistico, fondato su una manifestazione di autonomia negoziale.
3.3. La qualificazione giuridica del vincolo.
Una volta passati in rassegna l’origine storica e ciò che rappresenta il presupposto del vincolo sportivo, è inevitabile, arrivati a questo punto, procedere con la disamina delle diverse ipotesi (le più significative) che si sono manifestate in dottrina circa la qualificazione giuridica del vincolo.
Secondo alcuni, il vincolo assunto dal giocatore professionista in forza del tesseramento e il rapporto di lavoro successivamente instaurato tra giocatore e società stessa dovevano essere considerati come strettamente collegati (97). In particolare, un’opinione dottrinale, facendo perno sulla natura subordinata del rapporto di lavoro sportivo, configurava il vincolo del calciatore verso l’associazione di appartenenza come un patto di non concorrenza (98). Nella fattispecie, il vincolo riguardava innanzitutto le associazioni sportive, e colpiva il giocatore di riflesso. Con detto accordo di non concorrenza le associazioni sportive infatti si obbligavano reciprocamente a non stipulare alcun contratto con atleti tesserati per un’ altra associazione sportiva (99).
o associazione sportiva) come una struttura aperta (c.d. principio della porta aperta) diretta a soddisfare lo stesso interesse di un numero indeterminato di persone.
(97) In questi precisi termini ad es. si x. XXXXXXXXX, Il vincolo tra atleti e società, in Riv. dir. sport., 1966, p. 128 ss: “Il tesseramento e il vincolo non vanno considerati rapporti distinti (dal rapporto di lavoro), ma si inseriscono nel rapporto principale e lo caratterizzano. Non mi sembra pertanto possibile operare una distinzione così netta come alcuni hanno fatto tra il rapporto di lavoro ed il c.d. vincolo. A mio parere, vi è un rapporto unitario, sia pure complesso, in cui si inseriscono vari elementi, che confluiscono tutti in una struttura unica e fondamentale che è caratteristica del rapporto di lavoro sportivo del professionista, il quale può essere definito come una prestazione di lavoro subordinato di atleta tesserato e vincolato”
(98) Si x. XXXXXXX-MANESCALCHI, Profili giuridici del fenomeno sportivo con speciale riguardo alla natura giuridica del rapporto tra associazioni di calcio e calciatori, in Foro pad., 1951, p. 49 ss.
(99) Si x. XXXXXXX X’XXXX, Riflessioni sulla natura giuridica del vincolo sportivo, in Diritto e Giurisprudenza, 1979, p. 1 ss, il quale si schiera, invece, esplicitamente a favore di una assoluta autonomia dei due rapporti: “Una volta chiarita l’assoluta autonomia dei due rapporti, il c.d. vincolo sportivo presenta un’ambivalenza ricostruttiva tale da poter essere contemporaneamente considerato in un’ottica privatistica e in una prospettiva pubblicistica. Sotto il primo profilo, l’istituto qui esaminato riguarda innanzitutto le società sportive, mentre nel giocatore nasce quasi di riflesso quale effetto secondario cui egli si
«sottopone» compiendo l’atto volontario del tesseramento: esso funzionerebbe in sostanza come un accordo consortile mediante il quale i due clubs sportivi limitano tra di loro la
Altri autori individuavano, invece, nel vincolo un elemento accessorio del contratto di lavoro, che sarebbe andato ad incidere solamente nella fase terminale del contratto ed il cui risultato pratico avrebbe comportato l’esclusione della possibilità di recedere ad nutum da parte del lavoratore, ipotesi peraltro garantitagli dall’art. 2118 c.c.
In tal senso, coloro i quali facevano rientrare l’attività del giocatore di calcio nel novero delle prestazioni para – intellettuali, qualificavano il sistema del vincolo come un divieto di recesso unilaterale, conformemente a quanto previsto dall’ordinamento statuale per il prestatore d’opera intellettuale in funzione della speciale natura della prestazione.
Infine, l’ennesimo orientamento formatosi è arrivato a considerare il vincolo come un diritto reale avente efficacia erga omnes perché un suo inadempimento non porterebbe ad un risarcimento dei danni, bensì all’invalidità del nuovo vincolo assunto dal giocatore. Secondo quanto stabiliva l’art. 44 del Regolamento Organico F.I.G.C., un giocatore che era tesserato per un’associazione sportiva e per la quale era conseguentemente vincolato, non poteva tesserarsi per un’altra associazione sportiva, con conseguente assunzione del vincolo, per tutta la durata del primo tesseramento. Nel caso in cui un giocatore avesse presentato la richiesta di un nuovo tesseramento, perdurante l’originario, questa sarebbe stata respinta e, per giunta, gli sarebbero state applicate le sanzioni previste dal regolamento di disciplina (100).
Gli orientamenti dottrinali richiamati fino ad ora sono stati oggetto di una critica generalizzata in quanto hanno trascurato di considerare l’esistenza di un’autonomia strutturale – funzionale del vincolo e del rapporto di lavoro (101), cosa che, peraltro, evidenziavano con chiarezza gli stessi regolamenti
possibilità di concorrenza in materia di ingaggio dei calciatori. Alla stregua del secondo angolo prospettico, invece, il vincolo, pur nella sua atipicità, integra gli estremi di un rapporto somigliante, entro certi limiti, con quello di «cittadinanza»”.
(100) E’ contrario a questo orientamento XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984 p. 1062 ss in quanto sostiene come non sia il vincolo ad essere un diritto reale con efficacia erga omnes, piuttosto l’efficacia erga omnes consegua al divieto autoritativo del doppio tesseramento.
(101) Si v. ancora BIANCHI D’URSO, Riflessioni sulla natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1979, p. 1 ss, il quale evidenzia come la distinzione non sempre veniva colta sufficientemente dalla giurisprudenza. Soltanto alcune decisioni facevano specifico riferimento ad «un ulteriore e diverso rapporto tra calciatore ed associazione necessario presupposto perché si possa creare il rapporto di lavoro che ha generalmente durata
federali, che disciplinavano in maniera distinta le norme sul tesseramento (cioè il sorgere del vincolo) e quelle riguardanti il contenuto del contratto di lavoro (102).
Si va dunque nella direzione di un’assoluta autonomia funzionale tra vincolo sportivo ed eventuale contratto di lavoro, risultando automatico in tal senso, assegnare alla fattispecie in questione la natura di contratto di associazione. In questo modo, il vincolo si giustifica prescindendo dal rapporto lavorativo tra società ed atleta, che può mancare, e si fonda invece, sul tesseramento, che, all’opposto, non può mai difettare (103).
3.4. La disciplina del vincolo nei Regolamenti organici della
F.I.G.C. precedenti alla l. 91/1981.
Una volta tesserato, il giocatore entra a far parte della F.I.G.C. diventando soggetto di tutti i diritti e gli obblighi previsti dai Regolamenti Federali. L’obbligo più gravoso per i calciatori professionisti, nella fase antecedente all’emanazione della l. n. 91/1981, era il c.d. «vincolo» a favore dell’associazione sportiva per la quale era tesserato.
Essendo il calcio un gioco di squadra, le competizioni organizzate dalla
F.I.G.C. mirano a stabilire quale sia la squadra migliore. Per raggiungere tale fine, è necessario, dunque, che i giocatori svolgano attività sportiva a favore di una sola associazione sportiva, giocando nelle file della sua squadra. Lo strumento utilizzato dalla F.I.G.C. per arrivare a rendere possibile tutto questo era appunto il vincolo sportivo.
annuale e del quale variano al rinnovamento, di regola, le condizioni soprattutto in relazione al rendimento ed alla fama del giocatore» (così App. Torino, 24 aprile 1956, in Foro pad. 1956, p. 735). Altre sentenze, invece, hanno omesso completamente ogni valutazione differenziata dei due istituti (in particolare, la famosa sentenza della Cassazione a seguito del disastro aereo di Superga. V. supra, cap. I, par. 1).
(102) Le norme sul tesseramento risultavano inserite nel regolamento organico (art. 28 ss), le norme riguardanti il contenuto del contratto di lavoro trovavano prevalente collocazione nel regolamento del settore professionisti (titolo VII, art. 32 ss). Si ricordi che siamo in una fase ancora precedente all’emanazione della l. 91/1981 che ha portato ad una graduale abolizione del vincolo sportivo.
(103) Come peraltro anticipato, x. xxxxx, xxx. 0.0 xx xxxxxx xxxxxxxx x x xxxxxxxx xx xxx, xx x. XXXXXX – XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, 2a ed., Milano, 2013, p. 60 ss, spec. p. 88: “L’analisi del vincolo sportivo in prospettiva storica suggerisce spunti che avallano la configurazione di esso quale espressione del rapporto associativo tra atleta e organizzazione di appartenenza”.
L’art. 41 del Regolamento Organico F.I.G.C. costituiva la norma cardine in quanto prevedeva, per i calciatori professionisti, il sorgere del vincolo a tempo indeterminato (salvo diversa pattuizione scritta) attraverso il tesseramento dell’atleta.
La ratio (104) del vincolo sportivo è evidente debba rinvenirsi su un piano strettamente tecnico – sportivo. I club calcistici, soprattutto quelli meno potenti da un punto di vista finanziario, si sono resi conto che tutti gli sforzi (anche economici) impiegati per la crescita e il lancio di giovani calciatori, sarebbero potuti diventare vani qualora l’atleta fosse stato libero di trasferirsi presso altre società (con disponibilità economica superiore da disporre in termini di ingaggio). Per questo motivo chiesero ed ottennero l’imposizione di un vincolo di appartenenza «a vita» sui propri giocatori.
Come già accennato in precedenza, gli effetti dell’instaurazione del vincolo fra una società ed un giocatore possono essere sintetizzati nelle seguenti proposizioni:
a) la società sportiva, da un lato, ha il diritto di utilizzare le prestazioni del giocatore; dall’altro, ha il potere di inibire a quest’ultimo di prestare la propria attività a favore di un’altra compagine;
b) il giocatore, invece, in primo luogo, ha il dovere di fornire le proprie prestazioni alla società per cui è vincolato (obbligo di esclusiva del giocatore a favore dell’associazione sportiva per la quale è tesserato); in secondo luogo, ha il dovere di non prestare la propria attività per un’altra società, senza il consenso di quella per cui è vincolato (obbligazione negativa, di non fare) (105).
(104) XXXXXXX, La natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1987, p. 3 ss, spec. p. 13, individua:
“Gli scopi fondamentali del vincolo sportivo sono:
a) in primo luogo quello di rispondere alle necessità organizzative dell’agonismo federale, impossibili a realizzarsi senza vincoli di appartenenza del singolo atleta (a una società o alla Federazione stessa);
b) quello di assicurare all’atleta cicli di addestramento, garantendogli quindi l’optimum della forma;
c) quello di tutelare l’interesse della società, centro di imputazione dei risultati sportivi da questo, a conservare l’affiliazione del suo atleta per garantire alla società i risultati sportivi;
d) la tutela economica della società che ha allenato l’atleta, nel caso in cui questi voglia cambiare società, per rimborsarla delle spese più o meno cospicue sostenute per il suo addestramento.”
(105) Ai quali si debbono aggiungere secondo XXXXXXX, La natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1987, p. 3 ss, spec. p. 16, l’obbligo di una condotta conforme ai principi di
I doveri che derivano al giocatore dal vincolo sportivo sono, dunque, essenzialmente due: uno a contenuto positivo (prestare la propria attività alla società titolare del vincolo); l’altro a contenuto negativo (non giocare per altre società).
Il primo di questi, quello positivo, resta subordinato alla volontà del giocatore: se quest’ultimo decide, infatti, di non giocare più, il vincolo perde automaticamente efficacia senza che la società possa avanzare alcuna pretesa in contrario (106).
Quanto al secondo obbligo, quello negativo, il meccanismo giuridico che impedisce effettivamente al calciatore di prestare la propria attività in favore di un’altra società deve ricercarsi esclusivamente all’interno dell’organizzazione dello sport. La violazione del dovere in questione ad opera del tesserato viene repressa in maniera indiretta andando a colpire con delle sanzioni (ad es. perdita della gara) la società sportiva che intenda utilizzare il giocatore vincolato per altro sodalizio.
Le norme federali disciplinano minuziosamente il vincolo; secondo la categoria alla quale il giocatore appartiene, mutando solo la sua durata (107). Il fatto che per i calciatori professionisti sia stato stabilito un vincolo a tempo indeterminato costituiva dunque una forte limitazione della libertà
lealtà e probità sportiva; l’obbligo di astenersi da qualsiasi attività commissiva od omissiva che anche indirettamente si manifesti contraria agli obblighi sportivi e alla rettitudine sportiva; ma soprattutto l’obbligo dell’osservanza delle norme statutarie e regolamentari e l’obbligo di adire per le controversie sorte tra gli affiliati, le quali abbiano attinenza con l’attività sportiva, esclusivamente gli organi Federali (questi ultimi due obblighi costituiscono il c.d. «vincolo di giustizia»).
(106) A titolo esemplificativo, XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema
«Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss., citò il caso del calciatore Xxxx Xxxxxx del Monza, il quale decise di non accettare il trasferimento al Cesena smettendo di giocare. La pretesa, avanzata dalla società cedente nei confronti del calciatore, di vedersi risarciti del danno subito dalla perdita del vincolo non venne accolta.
(107) Prendendo in considerazione la normativa federale, opera una classificazione XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984 p. 1062 ss, il quale ribadendo che il vincolo sportivo è un istituto proprio del giocatore di calcio, a qualunque categoria appartenga, certifica che i giocatori, secondo l’età, il vincolo, lo status sportivo, si dividono in cinque categorie: dilettanti, professionisti, giovani, giovani di serie, giocatori tesserati per l’attività ricreativa. Il dilettante è vincolato alla società a tempo indeterminato (art. 38 del regolamento organico), il calciatore giovane è vincolato per la sola durata della stagione sportiva (art. 36), i giovani di serie assumono un particolare vincolo, atto a permettere alle società di addestrarli e prepararli all’impiego nei campionati, fino al termine della stagione che ha inizio nell’anno in cui compiono, anagraficamente il 18° anno di età (art. 37), i giocatori tesserati per l’attività ricreativa sono vincolati, infine, limitatamente per la durata della manifestazione (art. 40).
individuale, causata più o meno direttamente anche da ragioni di natura economica.
I giocatori, di fatto, non avevano alcuna forza contrattuale e divenivano una sorta di proprietà esclusiva della società stessa, la quale ne poteva disporre a piacimento, liberandolo solo alle condizioni da lei dettate secondo la procedura c.d. di svincolo (108).
Le ipotesi di svincolo risultavano elencate nell’art. 45 del Regolamento Organico (integrate dagli artt. 30-31 del Reg. professionisti). Le più rilevanti erano:
- la rinuncia al vincolo da parte della società;
- l’accordo del giocatore vincolato con la società;
- l’inattività involontaria del giocatore (109);
- l’inattività della società sportiva (110);
- la persistente morosità della società (111);
- il riscatto del vincolo (112).
(108) Così, XXXXXXXXXX, L’evoluzione dei rapporti tra società sportive e atleti professionisti e il suo influsso sulla crisi economica del calcio, cit., p. 56, “La società proprietaria del cartellino dell’atleta poteva valutare arbitrariamente il valore dello stesso e decideva se e quando cederlo al prezzo che lei riteneva più congruo. Al calciatore non restava altra via che negoziare egli stesso con la società un prezzo per il riscatto del vincolo, a meno che questo non fosse stato concesso gratuitamente per iniziativa della società. Nella prassi, però, la lista di svincolo gratuita era concessa solo ai calciatori che avevano dato tanto alla società in termini di prestazioni e risultati agonistici, e venivano in questo modo ricompensati con una concessione che sapeva tanto di premio alla carriera”.
(109) Si x. XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 295. Per evitare l’inattività bastava che il giocatore prendesse parte ad almeno quattro gare ufficiali. Le condizioni affinché si verificasse la cessazione del vincolo per inattività non erano delle più agevoli: la dichiarazione di inattività doveva essere fatta al termine della stagione, lo svincolo avveniva decorsi dodici mesi dalla domanda, durante tutto questo periodo il giocatore non aveva diritto ad alcun compenso.
(110) Si realizza questa ipotesi quando la società, per una qualsiasi ragione (rinuncia, ritiro, esclusione, radiazione), non prende parte al campionato di competenza.
(111) Ossia, quando non siano state corrisposte al giocatore almeno 2 mensilità consecutive ed il giocatore abbia provveduto a costituire in mora la società. Lo svincolo si produce al termine della stagione, inizialmente il giocatore era tenuto a fornire ininterrottamente le sue prestazioni anche in periodo di inadempimento da parte della società, successivamente viene concessa al giocatore la possibilità sospendere le prestazioni stesse ed ugualmente maturare il diritto allo svincolo.
(112) I presupposti affinché si potesse riscattare il vincolo erano 2: che il giocatore non avesse ricevuto una proposta di contratto di ingaggio al minimo stabilito dalla Federazione; oppure che non si fosse accordato con la società per un contratto. In questa seconda ipotesi, la cessazione del vincolo era sottoposta alla condizione che il giocatore avesse un’età superiore ai 23 anni e che versasse alla società una somma pari al compenso globale annuo da lui richiesto, moltiplicato per un coefficiente decrescente in base all’età del giocatore.
La normativa dell’epoca quindi non prevedeva alcuna possibilità per il calciatore di recedere dal contratto: le uniche due ipotesi in cui poteva verificarsi tale possibilità (inattività e riscatto) erano subordinate a presupposti talmente gravosi da essere praticamente irrealizzabili.
Poiché il rapporto individuato quale “vincolo di appartenenza” attribuiva alla società sportiva il diritto di utilizzare a tempo indeterminato l’attività dell’atleta, nello stesso tempo le conferiva il potere di trasferire ad altra società il cartellino stesso (113).
Il calciatore vincolato ad una società poteva passare ad un’altra squadra soltanto per volere o quanto meno con il consenso del club di appartenenza: l’eventuale trasferimento attuato su iniziativa unilaterale dell’atleta sarebbe risultato del tutto nullo, verificandosi di conseguenza la totale preclusione per il giocatore di prendere parte a gare sportive (114).
Il trasferimento poteva essere a titolo definitivo, in comproprietà o in prestito; e poteva avvenire solo in determinati periodi e rispettando le minuziose disposizioni previste dai regolamenti. Tutti gli accordi di trasferimento dovevano essere redatti su moduli forniti dalle rispettive Leghe, e la loro efficacia era sottoposta alla condicio iuris della ratifica da parte dell’autorità federale. Questa ratifica aveva soprattutto lo scopo di verificare – oltre i presupposti legali del trasferimento – anche la solvibilità della società cessionaria, ed era atto assolutamente libero e insindacabile delle autorità competenti.
Un punto estremamente qualificante della disciplina dei trasferimenti riguardava l’eventualità che venisse richiesto o meno, per la validità dell’accordo, il consenso del giocatore ceduto. Nel settore professionisti, a partire dalla stagione 1978/1979, è stato stabilito che l’accordo per il trasferimento (che sia a titolo definitivo, in compartecipazione o in prestito), dovesse essere sottoscritto anche dal giocatore trasferito. Nel caso in cui
(113) Per giunta, XXXXXXXX, La Libertà contrattuale dell’atleta professionista, in Riv. dir. sport, 1990, p. 11 ss, prospettava (seguendo un’autorevole dottrina) l’esistenza di una sorta di rapporto di «sudditanza».
(114) Si x. XXXXXXX, La legge 23 marzo 1981 n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit. 1991, p. 53. Il vincolo consisteva in una subordinazione spinta al limite della libertà personale, nel divieto di recesso ad nutum e nel meccanismo della «cessione dei giocatori», secondo il quale il giocatore doveva, in linea di massima, acconsentire al suo trasferimento ad altra società purché di categoria non inferiore ed a condizioni economiche convenienti.
mancasse la contestuale sottoscrizione (c.d. firma contestuale), il giocatore poteva rifiutare il trasferimento e questo rifiuto avrebbe reso nullo l’accordo intervenuto fra le società.
Quindi, nella F.I.G.C., il trasferimento del vincolo è l’effetto di un atto plurilaterale, che si fonda sul consenso della società cedente, di quella cessionaria e del giocatore ceduto e sulla successiva ratifica degli Organi Federali. Ma se è vero che la società non può cedere il vincolo se il tesserato non vi acconsente, è ugualmente vero che quest’ultimo non può comunque liberarsi del vincolo senza il consenso della società.
3.5. Abolizione o mantenimento del vincolo? Le posizioni contrastanti di F.I.G.C. e A.I.C. alla fine degli anni ‘70.
A causa delle notevoli implicazioni economiche connesse alla problematica del vincolo sportivo e all’avvertita esigenza di calmierare e secondo alcuni moralizzare il c.d. mercato dei calciatori, sul finire degli anni ’70, scoppiò un aspro dibattito tra la F.I.G.C. e la A.I.C.
In ragione delle diverse esigenze di cui erano portatrici, le due associazioni assunsero posizioni contrastanti così schematizzabili.
F.I.G.C.
La Federazione calcistica era propensa a mantenere in vigore l’istituto del vincolo sportivo manifestando, comunque, la sua disponibilità per eventuali rivisitazioni. A sostegno della propria posizione, la F.I.G.C. sosteneva che l’eventuale abolizione del vincolo avrebbe portato a delle conseguenze assolutamente negative per l’intero mondo del calcio (115).
Innanzitutto si sarebbe verificato sicuramente un congruo ridimensionamento delle società come imprese produttrici di spettacoli: il giocatore era considerato un patrimonio sociale, l’abolizione del vincolo avrebbe comportato la perdita di una considerevole voce attiva nel bilancio
(115) Per approfondire le ragioni a sostegno della tesi della F.I.G.C. si x. XXXXXXX X’XXXX, Riflessioni sulla natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1979, p. 1 ss.
delle società, venendo a mancare l’unica possibilità di sopravvivenza delle squadre che non potevano contare su un grande pubblico.
Il rapporto di forza esistente tra società «ricche» e società «povere», verificandosi la collocazione dei calciatori di maggior prestigio sempre nei clubs a più elevato potenziale economico, sarebbe potuto aumentare a dismisura.
Inoltre, l’abolizione del vincolo, avrebbe potuto disincentivare o annullare del tutto la funzione di reclutamento, addestramento ed istruzione dei giovani calciatori svolta dalle società sportive creando, in definitiva, situazioni di privilegio a favore dei giocatori più abili.
A.I.C.
Dal canto suo, l’A.I.C. contestava fermamente la legittimità del vincolo, auspicandone l’abolizione (116).
Ne sottolineava l’assurdità e lo scandalo prodotto dal c.d. calciomercato, che veniva considerato la causa di una vorticosa e insultante circolazione di miliardi.
Il tesserato era ridotto ad una mera «cosa» da comprare e vendere e inoltre tutto ciò aveva dato avvio alla proliferazione e all’aumento di potere in mano di figure più o meno discutibili come i mediatori, i talent scouts e consimili (117).
(116) A riguardo, in questi precisi termini PASQUALIN nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del
C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss.: “Una riforma del vincolo non è ulteriormente dilazionabile. Essa si inserisce nella prospettiva di una necessaria, progressiva e accurata valutazione di ogni ingerenza della F.I.G.C. sul giocatore professionista. Se la Federazione è l’associazione dei datori di lavoro del giocatore; se essa è, nel suo complesso, una sorte di controparte dei tesserati; se, infine, questi ultimi non hanno alcun potere di indirizzo e controllo del governo federale, ne discende necessariamente che ogni potere della Federazione su di loro deve essere quantomeno attentamente rivisto. Restringendo il discorso al vincolo, la sua futura eliminazione è necessaria!”.
(117) Si v. ancora PASQUALIN nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema «Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss.: “il calcio oggi è diventato in parte un grosso spettacolo, e vere e proprie imprese di spettacolo sono ormai le società sportive. Ma allora è opportuno che anche i rapporti fra società si ispirino a quelli che intercorrono fra l’impresa e i protagonisti dello spettacolo. E’ la stessa logica di mercato che impone di eliminare le distorsioni che il vincolo provoca. [..] il vincolo non sussiste più nella stragrande maggioranza delle nazioni europee e del
L’A.I.C. utilizzò dunque tutta una serie di considerazioni di natura storico- organizzativa per dimostrare come il vincolo fosse il residuo storico di un’epoca in cui il calciatore era membro e non controparte delle società sportive.
Da un punto di vista strettamente giuridico, invece, muovendo dal presupposto che la relazione atleta – società debba annoverarsi tra i rapporti di lavoro subordinato, l’A.I.C. ritenne di identificare il vincolo come un divieto di recesso del calciatore.
Al calciatore veniva impedito di stipulare un contratto di ingaggio con un altro sodalizio sportivo senza il consenso del club di appartenenza, divieto che contrastava, secondo il sindacato dei calciatori, con l’art. 4.2 Cost. (“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), nonché con l’art. 2118 c.c. (possibilità per i lavoratori di recedere, previo preavviso, da un contratto di lavoro a tempo indeterminato).
Inoltre, l’A.I.C. sosteneva che la facoltà della società di appartenenza di trasferire il vincolo ad un’altra società senza l’assenso del calciatore andava a configurare un ipotesi di illegittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro. Infine, il fatto che l’esistenza del vincolo permettesse ad una società di mantenere nell’inattività quasi assoluta un atleta, magari fino al termine della sua vita, comportava una grave limitazione della libertà del calciatore (118).
Sudamerica, vale a dire laddove il calcio professionistico è fenomeno di grande rilevanza. […] infine la libera circolazione dei tesserati nella Comunità Economica Europea non è compatibile con il vincolo”.
(118) Secondo BIANCHI D’URSO, Riflessioni sulla natura giuridica del vincolo sportivo, cit., 1979, p. 1 ss., se le ragioni addotte dalla F.I.G.C., pur rilevando sotto profili diversi, non offrono alcun decisivo contributo all’analisi del giurista, le argomentazioni prospettate dalla A.I.C. denunziano vistosi errori di prospettiva: “Come non sussiste alcun intimo ed istituzionale collegamento tra la relazione calciatore – club sportivo ed il vincolo, trattandosi di fattispecie entrambe dotate di una propria autonomia; così è opinabile l’equiparazione proposta tra l’istituto in esame ed il divieto di recesso da un rapporto di lavoro. Con riguardo al quale va chiarito che non bisogna confondere il potere di recesso del lavoratore con la facoltà di stipulare altro contratto di lavoro nello stesso ramo di attività: quest’ultima e non il primo rimane congruamente limitata dalla presenza del particolare vincolo sportivo, che può soltanto impedire di svolgere la medesima attività calcistica presso un diverso club aderente alla F.I.G.C. ma non certo vietare all’atleta di risolvere il contratto con la precedente società di appartenenza e di praticare lo sport calcistico in un ambito differente ovvero di dedicarsi ad altra attività lavorativa. Né d’altronde, può tacersi che la recente previsione della firma contestuale del calciatore,
In definitiva, l’abolizione del vincolo sportivo, secondo l’A.I.C. avrebbe comportato l’ulteriore effetto positivo di condurre ad un miglioramento nella disposizione psicologica del pubblico nei confronti del calcio: l’uomo comune non è certo edificato né dal giro vorticoso dei milioni che si accompagna alla cessione del vincolo, né da quella che viene comunemente chiamata la vendita dei calciatori, con brutale avvicinamento di questi ultimi a merce da trattare, appunto, nel calcio – mercato (119).
3.6. L’intervento del legislatore: la l. n. 91/1981 e l’abolizione del vincolo.
Alla condizione estremamente gravosa per il giocatore rappresentata dall’istituto del vincolo sportivo (contro la quale si era schierata gran parte della dottrina) ha inteso porre rimedio il legislatore con la legge sul professionismo n. 91 del 1981.
L’abolizione del vincolo sportivo venne ufficialmente sancita dall’art. 16.1 delle Disposizioni transitorie e finali alla legge: “Le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, individuate come vincolo sportivo nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità e parametri stabiliti dalle federazioni sportive nazionali e approvati dal C.O.N.I., in relazione all’età degli atleti, alla durata ed al contenuto patrimoniale del rapporto con le società”.
L’importanza della statuizione normativa si coglie non solo e non tanto nella sua funzione a graduare nel tempo il regime di svincolo, quanto anche sul piano definitorio (120) dell’istituto, concepito quale limitazione alla libertà
all’atto della cessione, vale a svuotare ogni critica fondata sulla mancanza di consenso del giocatore e che in ogni caso, di fronte ad una ipotesi di trasferimento del vincolo da una società all’altra, è sicuramente fuori luogo appellarsi allo ius variandi, il cui esercizio attiene invece alla modifica delle mansioni nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro e presso il medesimo datore”.
(119) In questi precisi termini, XXXXXXXXX nel suo intervento dal titolo Il vincolo sportivo, Atti del 1° Convegno di diritto sportivo organizzato con il patrocinio del C.O.N.I. sul tema
«Giustizia sportiva e giustizia ordinaria» tenutosi a Roma il 23 novembre 1979, cit., p. 288 ss.
(120) Così ROTUNDI, La legge 23 marzo 1981 n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit. 1991, p. 53 “E’ questa la prima volta che una norma di legge contempla questo istituto, proprio nel momento stesso in cui lo abolisce”.
contrattuale dell’atleta, derivandone la sua esclusiva inerenza al rapporto di lavoro.
Tuttavia, la dottrina, nel commentare l’articolo in questione, ritenne che la definizione di vincolo contenuta in questa norma, non fosse del tutto convincente. In particolare, si riteneva che la norma abrogasse una limitazione, posta dalle norme federali, alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, erroneamente qualificata dal legislatore come vincolo, in quanto ne rappresentava semplicemente un effetto.
Se da un lato infatti, al giocatore che fosse in scadenza di contratto non veniva più preclusa la possibilità di stipulare un nuovo contratto con altra associazione sportiva, dall’altro, il giocatore non era libero di stipularne uno nuovo, durante la vigenza dello stesso: la sua libertà contrattuale, quindi, rimaneva limitata (121).
In tal senso, si dovrebbe considerare legittima una clausola che limitasse la libertà professionale dello sportivo durante la vigenza del contratto stesso: di fatto questa clausola non si rinviene nei contratti dei professionisti, perché la loro libertà professionale è limitata all’atto del tesseramento, con l’assunzione del vincolo. Poiché solo l’atleta regolarmente tesserato può svolgere attività sportiva, e solo a favore dell’associazione per la quale è tesserato, e solo con essa può stipulare un contratto di lavoro, la sua libertà di svolgere attività sportiva è limitata, e così di riflesso la sua libertà contrattuale.
In conclusione, la dottrina dominante è arrivata ad affermare che il legislatore non ha abolito il vincolo. Ha semplicemente equiparato la durata del vincolo a quella del contratto di lavoro del professionista (che è al massimo di 5 anni secondo quanto statuisce l’art.5 l. n. 91/1981).
Durante la vigenza del contratto, il giocatore non può svolgere attività sportiva per un’altra associazione, e quindi non può stipulare con essa alcun contratto. Alla scadenza del contratto, invece, è libero di svolgere attività sportiva per l’associazione sportiva che preferisca, ed è libero di stipulare con essa un contratto di lavoro, senza alcuna limitazione alla sua libertà contrattuale. A questo si riduce la pretesa abolizione del vincolo.
(121) In questi termini, XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984 p. 1077.
Cap. III: La cessione del contratto dei calciatori
1. L’art. 16 della l. n. 91/1981 apre una fase transitoria (1981- 1986).
Le pressioni dell’Associazione Italiana Calciatori, volte a tutelare la libertà contrattuale dei calciatori professionisti fortemente compromessa dalla vigenza del vincolo sportivo, hanno portato alla tanto attesa legge sul professionismo sportivo (l. n. 91/1981).
La legge in questione ha provveduto, quantomeno da un punto di vista formale, a rimuovere l’anacronistico vincolo (122), secondo un sistema che riconosce piena autonomia alle modalità e ai parametri stabiliti dalle federazioni nazionali e approvati dal C.O.N.I., in relazione all’età degli atleti, alla durata, e al contenuto patrimoniale del loro rapporto con le società (art. 16 l. n. 91/1981).
Con l’abolizione del suddetto vincolo si è, pertanto, delineato un nuovo sistema di relazioni tra società e atleti (c.d. impuro) (123).
Gli articoli 4, 5, 6 della citata legge, infatti, pur consentendo al calciatore, assoggettato ora ad un contratto di lavoro a tempo determinato, la possibilità di svincolarsi liberamente alla scadenza del contratto (di durata massima prefissata pari a non oltre 5 anni), riconoscevano ancora alle società titolari delle prestazioni dell’atleta, la facoltà di esigere dalla società acquirente un’indennità di trasferimento calcolata oggettivamente, nonostante il contratto fosse già scaduto (124).
L’art. 16 l. n. 91/1981, come abbiamo avuto modo di vedere, conduce all’abolizione del vincolo in maniera graduale nell’arco di cinque anni dalla sua entrata in vigore. Questo rilievo certifica dunque l’apertura di una fase transitoria per quanto riguarda i trasferimenti dei calciatori. Si distinguono, a riguardo, le modalità di trasferimento stabilite per gli atleti professionisti
(122) Anche se da un punto di vista sostanziale si è avuto modo di comprendere che la pretesa abolizione sia avvenuta a livello parziale. V. supra, cap. II, par. 3.6.
(123) Definito in questa materia da XXXXXXXXXX, L’evoluzione dei rapporti tra società sportive e atleti professionisti e il suo influsso sulla crisi economica del calcio, cit., p. 56
(124) Secondo parametri oggettivi stabiliti da disposizioni federali che tenevano conto dell’età dell’atleta e delle altre condizioni contrattuali del vecchio rapporto di lavoro (quindi l’indennità di trasferimento non era più a totale discrezione della società).
non più vincolati (cioè svincolati), da quelli che restano in vigore per gli atleti professionisti ancora vincolati (125).
1.1. Il trasferimento dei giocatori “ancora” vincolati.
Il trasferimento dei calciatori in questione poteva avvenire a titolo definitivo, a titolo temporaneo o in compartecipazione.
Il trasferimento a titolo definitivo era determinato dalla presenza:
- di un accordo di trasferimento tra l’associazione sportiva, per la quale il giocatore era tesserato, ed un’altra associazione, per la quale il giocatore sarà tesserato;
- di una richiesta di tesseramento, sottoscritta dalle due associazioni e dal giocatore, con la quale si chiedeva che il giocatore venisse tesserato non più per l’originaria associazione, ma per la nuova.
L’oggetto del suddetto accordo di trasferimento non era la persona del giocatore e nemmeno il tesseramento per l’associazione sportiva, bensì il vincolo sportivo (126).
L’accordo per il trasferimento del giocatore doveva essere sottoscritto, oltre che dalle associazioni sportive interessate, anche dal giocatore (127). Se al giorno d’oggi questo rappresenta un elemento che si deve dare per scontato, in passato il trasferimento poteva avvenire anche senza che vi fosse il nulla osta dell’atleta.
(125) Art. 53 del Regolamento Organico F.I.G.C. statuiva: “I calciatori professionisti possono essere trasferiti da una società ad un’altra, anche di diversa lega, nei periodi annualmente stabiliti dal consiglio federale, entro la stagione sportiva al cui termine per ciascuno di essi decadranno le limitazioni alla libertà contrattuale, individuate come vincolo sportivo, in base alla graduale abolizione prevista dal presente regolamento in attuazione dell’art. 16 della legge n. 91/1981”.
(126) Così stabiliva l’art. 54 del Regolamento Organico F.I.G.C.: “I giocatori si potevano considerare sciolti dal vincolo, con conseguente decadenza dal tesseramento, in caso di rinunzia dell’associazione sportiva o di accordo tra questa e il giocatore”.
In questo senso si v. anche XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984
p. 1062 ss. il quale conveniva che se la rinunzia della società aveva per oggetto il vincolo, e lo stesso si può dire per l’accordo tra società e giocatore, allora anche l’accordo tra società e società (per il trasferimento del giocatore) avrebbe dovuto avere come oggetto il vincolo.
(127) Il giocatore poteva dunque rifiutare il trasferimento con lettera raccomandata, rimanendo così vincolato e tesserato per l’associazione cedente.
Nella maggior parte dei casi accadeva che l’associazione cedente e quella cessionaria stipulassero l’accordo di trasferimento, e solo in un momento successivo lo comunicassero al giocatore, il quale poteva accettarlo o meno. L’assenso del giocatore, espresso o tacito (mancato rifiuto), andava configurato quindi come una condizione sospensiva di efficacia dell’accordo di trasferimento tra le due associazioni sportive. Il giocatore si limitava, dunque, a rimuovere un impedimento al trasferimento: era un atto autorizzativo privato da non considerarsi come espressione del debitore quale parte di un negozio unitario plurilaterale.
A questo punto, prima che potesse operare la variazione del tesseramento, interveniva la F.I.G.C. che aveva il compito di controllare che l’accordo di trasferimento e la richiesta di tesseramento fossero conformi alle prescrizioni dei regolamenti federali: nel caso in cui avesse rilevato delle difformità la variazione del tesseramento non avrebbe potuto operare e si sarebbero potute applicare delle sanzioni alle associazioni sportive ed al giocatore.
Fino al termine della stagione 1985-1986 in cui le limitazioni alla libertà contrattuale (vincolo sportivo) sarebbero state abolite, il calciatore professionista poteva essere trasferito anche a titolo temporaneo.
Il giocatore, previo assenso, veniva tesserato e vincolato alla nuova associazione per un’annata sportiva, al termine della quale, senza alcuna manifestazione di volontà delle associazioni, il calciatore tornava ad essere tesserato e vincolato per l’originaria associazione.
Nell’ambito del trasferimento in questione si concludevano, dunque, due contratti, uno per il trasferimento e l’altro per il ritrasferimento del vincolo. Infine, per quanto concerne il trasferimento in compartecipazione, accadeva che trascorsi uno o due anni (in base a quanto veniva pattuito) dal trasferimento del calciatore alla nuova associazione, la nuova o l’originaria associazione aveva l’obbligo o la facoltà di pagare la somma stabilita nell’accordo di trasferimento, continuando così ad avere tesserato il
giocatore (società cessionaria), o riavendo tesserato il giocatore (società cedente) (128).
In mancanza di un accordo tra le due società subentrava il sistema della c.d. offerta in busta chiusa per stabilire definitivamente a chi dovesse andare il giocatore (129). Nel caso in cui entrambe le società non avessero avanzato alcuna offerta in busta chiusa, il calciatore veniva automaticamente svincolato ed il suo tesseramento per l’associazione sportiva decadeva: era dunque libero di tesserarsi per qualsiasi altra associazione.
In questo caso, l’oggetto del trasferimento consisteva in una quota del vincolo. Dopo un anno o due, però, la contitolarità del vincolo, secondo la normativa federale, doveva cessare, tornando così alla titolarità solitaria dello stesso.
(128) Per una panoramica completa delle modalità di trasferimento dei calciatori antecedenti alla l. n. 91/1981 si x. XXXXXXXXX, Il trasferimento del giocatore di calcio, cit., 1984 p. 1062 ss.
(129) Per l’acquisizione totale del giocatore, le due associazioni erano tenute ad inviare alla Lega nazionale un’offerta in busta chiusa: il giocatore veniva assegnato all’associazione che avesse presentato l’offerta migliore. In questo modo vi era il trasferimento di una sola quota del vincolo: si trattava di un trasferimento forzoso, in quanto l’associazione venditrice non aveva l’intenzione di vendere la sua quota, bensì di acquistare la quota dell’altra. Inoltre, nel caso in cui le due società non avessero effettuato alcuna offerta in busta per l’acquisizione totale e definitiva del calciatore stesso, il calciatore appartenente a titolo di compartecipazione alle due società, veniva svincolato d’autorità, con conseguente decadenza del tesseramento (norma transitoria successiva all’art. 54 del Regolamento Organico F.I.G.C.).
2. L’abolizione del vincolo e la cessione del contratto ex art. 5 l. n. 91/1981.
2.1. Il termine.
Alla mancanza di una ricostruzione unitaria del trasferimento del giocatore, essendo lo stesso legato alle vicende del vincolo e con esso alle sue molteplici forme di trasferimento, ha posto rimedio la l. n. 91/1981 grazie alla quale si è giunti ad un’unica costruzione che segue le vicende del solo contratto di lavoro e con esso della sua sola forma di trasferimento, la cessione.
L’art. 5 della l. n. 91/1981, intitolato “La cessione del contratto”, si è posto in una prospettiva, del tutto differente rispetto al passato, di salvaguardia dei diritti di libertà e personalità individuali nei confronti del lavoratore sportivo professionista.
La scelta del legislatore di configurare il trasferimento del giocatore non più vincolato, come una cessione del contratto sembra la più plausibile (130), dato che, una volta abolito il vincolo, non vi è più alcun bene trasferibile diverso dal contratto (non il vincolo, perché abolito; non il tesseramento in quanto indice dello status del giocatore all’interno della federazione; non la persona del giocatore perché soggetto e non oggetto di diritti).
La disciplina contenuta nel disposto dell’art. 5 contempla, in primo luogo la possibilità per le parti contraenti di apporre un termine risolutivo al contratto di lavoro subordinato, fissando un limite temporale di cinque anni dalla data di inizio del rapporto.
In seconda battuta, l’articolo in questione, offre l’ulteriore opportunità di una successione del contratto a termine fra gli stessi soggetti.
Riproducendo una formula familiare al codice civile del 1942 (131), l’art.5 sancisce, dunque, la possibilità di apporre un termine non superiore a cinque
(130) STINCARDINI, La cessione del contratto: dalla disciplina codicistica alle peculiari ipotesi d’applicazione in ambito calcistico, in Riv. dir. econ. sport, 2008, p. 129 ss.
(131) Ci si riferisce all’art. 4 della l. 18 aprile 1962, n. 230 (“E’ consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti amministrativi e tecnici, i quali possono, comunque recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione dell’art. 2118 c.c.”) e all’art. 2125, comma 2, c.c. (“La
anni, alla durata del rapporto, con l’effetto di ritenere, almeno teoricamente, ipotizzabili sia il contratto a termine che il contratto a tempo indeterminato. Il legislatore affida al contratto a termine la funzione primaria di regolare i rapporti tra calciatori e società sportive.
Contrariamente a quanto accadeva in altre epoche storiche, nelle quali costituiva una garanzia principalmente nei confronti del prestatore di lavoro, in questo caso, il termine, mira a salvaguardare, secondo ottiche differenti, entrambe le parti del rapporto, ancorandosi nuovamente questa caratteristica forma di tutela alle peculiarità del settore calcistico (132).
Nell’ottica del calciatore, la disposizione concorre alla soppressione del vincolo sportivo, posto che alla scadenza del termine riemerge la libertà negoziale nella stipulazione di un nuovo contratto di lavoro (133).
Dal lato opposto, la previsione di un termine soddisfa le esigenze di programmazione dei sodalizi sportivi, perché consente di preventivare l’affidamento sulle prestazioni dell’atleta soprattutto dal punto di vista degli emolumenti da corrispondere al calciatore e degli sforzi economico – organizzativi che le società sportive devono compiere al fine di affinare le qualità professionali del giocatore.
L’analisi combinata dell’art. 5 con il successivo art. 16 ha condotto parte della dottrina a considerare il vincolo, sostanzialmente collegato al termine, come una specifica limitazione del rapporto di lavoro e non come un quid autonomo operante in una sfera diversa. Considerando il vincolo da questo diverso punto di vista si potrebbe affermare che nemmeno la l. n.91/1981 è riuscita ad abolirlo.
durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”).
(132) XXXXXXX X’XXXX, VIDIRI, La nuova disciplina del lavoro sportivo, cit., 1982, p. 22.
(133) In termini critici, si esprime invece, VIDIRI, La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato, cit., 1993, p. 223 secondo il quale il contenuto dell’art. 5 condurrebbe ad un “larvato ripristino del vincolo”. Infatti, il termine massimo di durata appare eccessivo se messo in correlazione alla durata complessiva dell’attività agonistica dell’atleta, ma tale inconveniente è destinato a rimanere, nella maggior parte dei casi, solo teorico, in ragione soprattutto della convenienza della società a non vincolarsi per lungo termine nei riguardi di atleti, che possono deludere le aspettative o per loro demeriti o per una evoluzione tecnica della disciplina sportiva che richiede doti differenti da quelle in loro possesso. Gli stessi sportivi, dal canto loro, possono preferire contratti di non lunga durata, in alcuni casi, per la convinzione di migliorare in futuro le proprie prestazioni agonistiche e di ricevere quindi dai nuovi clubs trattamenti economici più vantaggiosi, ed in altri casi per sfruttare l’opportunità di ritrovare in nuovi ambienti maggiori stimoli con risultati positivi sul loro complessivo rendimento agonistico.
L’accoglimento di una tale impostazione può comportare l’esposizione ai rischi che derivano dall’applicazione suppletiva della disciplina degli ordinari rapporti di lavoro non dichiarata dalla legge espressamente inapplicabile.
Ad es. potrebbe trovare applicazione l’art. 2119 c.c. con il rischio di permettere alle parti (ed in particolare al calciatore) l’esercizio del recesso ante tempus al cospetto di una qualsiasi giusta causa (134), allargando le maglie dello svincolo rigidamente tipizzate nella pregressa regolamentazione sportiva (135). Tale conseguenza è ipotizzabile a meno che non si voglia ritenere consacrata nel primo comma dell’art. 5 una sorta di irrecedibilità connessa alla durata del contratto, anche se appare una via difficilmente percorribile vista la carenza di conferme testuali e soprattutto la decisa smentita dell’ordinamento giuridico che non ha mai concepito la stabilità del posto di lavoro quale sinonimo di irrecedibilità assoluta (136).
2.2. La forma ed i moduli predisposti.
Il secondo comma dell’art. 5 ha espressamente previsto la cessione demandando alle federazioni sportive nazionali il potere di fissarne le modalità e ponendo la sola condizione del consenso dell’altra parte.
Dal combinato disposto della legge statale (art. 5 l. n. 91/1981) e delle normative federali (art. 95, 102, 103 N.O.I.F.) emerge come il contratto di cessione in ambito calcistico debba essere attuato attraverso l’adozione ed il
(134) Si dimostra favorevole a questa ipotesi VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 224.: “Analogamente a quanto accade in altri campi, è consentita la riduzione di un termine maggiore nell’ambito del quinquennio, e può ancora una volta ribadirsi, nonostante qualche dubbio prospettato al riguardo, la possibilità di risolvere, ai sensi dell’art. 2119 c.c., ante tempus il contratto per giusta causa e pure in presenza di norme federali che ricollegano il recesso dal contratto al ricorrere di tassative condizioni”.
(135) V. Cap. II, par. 3.4.
(136)In tal senso ROTUNDI, La legge 23 marzo 1981 n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, cit., 1991, p. 53 ritiene che ipotizzare una vasta gamma di possibilità di recesso, non classificabili, innescherebbe forti tensioni nei rapporti contrattuali con riflessi immediati sull’organizzazione societaria e sulla regolarità stessa dei campionati, con effetti deleteri quali quelli scaturenti dal recesso anticipato di atleti di prestigioso livello.
completamento degli appositi moduli, predisposti in via unilaterale dalle Leghe professionistiche (137):
- il primo modulo, denominato Variazione di tesseramento, è un documento trilaterale perché contiene l’accordo di tutti e tre i soggetti interessati al negozio: la società cedente, la società cessionaria e il calciatore ceduto;
- il secondo modulo, denominato Documento di variazione di tesseramento ha invece natura bilaterale in quanto vi partecipano solo le due società sportive, cedente e cessionaria; il contratto prevede l’ammontare del corrispettivo della cessione, nonché le modalità, i termini e le condizioni di pagamento del corrispettivo medesimo;
- il terzo documento infine, anch’esso bilaterale, è costituito dal contratto di prestazione sportiva tra la società cessionaria ed il calciatore professionista.
La mancanza anche di uno solo dei tre moduli determina l’inefficacia del contratto di cessione tanto per l’ordinamento statale quanto per quello sportivo.
I moduli contrattuali, che per loro natura hanno forma scritta, devono essere depositati a pena di inefficacia presso la Lega competente (entro 5 giorni dalla stipulazione e comunque non oltre il termine previsto per i trasferimenti o le cessioni di contratto) che, effettuati i necessari controlli, emana il visto di esecutività (138).
In caso di decisione positiva può operare la variazione di tesseramento, nel caso in cui, invece, la Lega competente dovesse negare la validità del trasferimento è possibile proporre reclamo all’organo di giustizia federale di riferimento, la Commissione Tesseramenti. In quest’ultima ipotesi restano
(137) L’art. 95, 1 comma delle N.O.I.F. sotto la rubrica “Norme generali sul trasferimento e sulle cessioni di contratto”, stabilisce: “L’accordo di trasferimento di un calciatore o la cessione del contratto di un calciatore “professionista” devono essere redatti per iscritto, a pena di nullità, mediante l’utilizzazione di moduli speciali all’uopo predisposti dalle Leghe”.
(138) Si v. l’art. 95, 13 comma, delle N.O.I.F. “Le Leghe, fermo quanto previsto dalle norme in materia di controlli sulla gestione in materia economica – finanziaria delle società professionistiche e dopo gli accertamenti di competenza, ed i Comitati, concedono o meno esecutività all’accordo di trasferimento o di cessione del contratto; trattengono gli originali di propria pertinenza; ne rimettono le copie alle società contraenti e curano le variazioni di trasferimento. Avverso il procedimento delle Leghe o dei Comitati è ammesso reclamo alla Commissione Tesseramenti entro 20 giorni dal ricevimento della comunicazione relativa”.
sospesi, per tutta la durata della controversia stessa, gli effetti degli atti posti in essere ai fini del trasferimento.
Nel frattempo, la società cedente è tenuta all’adempimento di tutte le obbligazioni di natura economica in favore del giocatore, con diritto di eventuale rivalsa nei confronti della società cessionaria allorché venga concessa l’esecutività dell’accordo di cessione.
Qualora le parti stipulassero delle pattuizioni che non dovessero risultare all’interno dei moduli contrattuali depositati in Lega, queste sarebbero nulle ed inefficaci e comporterebbero l’applicazione di sanzioni disciplinari ed economiche.
Si manifesta in tal senso un meccanismo piuttosto rigido volto a non consentire percorsi alternativi per operare il trasferimento di un giocatore: l’unico documento idoneo alla variazione di tesseramento del calciatore per la cessione del contratto infatti è quello redatto e depositato conformemente alla disciplina della normativa federale.
Le N.O.I.F. stabiliscono inoltre dei casi in cui si possono porre dei limiti ai trasferimenti dei calciatori. Ad es. è consentito che un giocatore nel corso di una stagione sportiva possa trasferirsi al massimo tre volte, ma scendere in campo in gare ufficiali di prima squadra soltanto per due società diverse; inoltre le parti non possono subordinare l’efficacia degli accordi stessi all’esito di esami medici e/o al rilascio di permessi di lavoro.
All’art. 102 delle N.O.I.F. viene ribadito che affinché possa essere stipulata la cessione del contratto di un calciatore professionista è necessario che vi sia il consenso di quest’ultimo, effettuato per iscritto. La cessione può avvenire a titolo definitivo o temporaneo soltanto nei periodi stabiliti annualmente dal Consiglio Federale.
Il rapporto conseguente alla cessione del contratto a titolo definitivo inoltre può avere una scadenza diversa da quella del rapporto costituito con il contratto ceduto.
2.3. Le cessioni temporanee di contratto: ipotesi di prestito.
La cessione a titolo temporaneo è specificamente disciplinata dall’art. 103 delle N.O.I.F. e comporta il passaggio del giocatore dalla società cedente a quella cessionaria soltanto per una stagione sportiva, al termine della quale il giocatore ceduto ritorna alla società originaria, salvo il rinnovo dell’accordo di cessione per la stagione successiva. Nella prassi tale modalità di cessione di un calciatore viene denominata «prestito».
Il c.d. prestito con diritto di riscatto.
La normativa federale prevede che nell’ambito di un contratto di cessione temporanea possa essere pattuito un diritto di opzione in favore (nella prassi
c.d. diritto di riscatto) della società cessionaria, per trasformare tale cessione da temporanea in definitiva (139). Questa ipotesi è però subordinata al verificarsi di tre condizioni:
- il diritto di opzione (con il relativo corrispettivo) deve risultare nello stesso contratto di cessione temporanea e deve essere accettato espressamente dal calciatore, a pena di nullità;
- il contratto ceduto non deve avere una scadenza antecedente al termine della prima stagione successiva a quella in cui può essere esercitato il diritto di opzione;
- il contratto stipulato a seguito dell’esercizio del diritto di opzione dalla società cessionaria con il calciatore deve avere una durata almeno biennale.
Nello stesso accordo di trasferimento temporaneo che rechi il diritto di opzione in favore della cessionaria, a sua volta, può essere pattuito, dietro corrispettivo, un diritto c.d. di controopzione in favore della cedente da
(139) La redazione di xxxxxxxxxxxxx.xxx ha chiesto all’Avv. ed agente Fifa Xxxx-Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx di spiegare ai lettori cosa si intendesse per prestito con diritto di riscatto e cosa per prestito con obbligo di riscatto. Si v. a tal proposito XXXXXXXXXX, Casi Destro e Santon, differenze tra prestito con diritto o con obbligo di riscatto, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xxx
esercitarsi eventualmente a seguito dell’esercizio del diritto di opzione da parte della cessionaria (140).
Una specifica disposizione è stata poi dettata per disciplinare il caso specifico della cessione temporanea di un giocatore che sia stato già oggetto di altro contratto di cessione temporanea nella stessa stagione sportiva. Tale ipotesi è realizzabile a condizione che nel secondo contratto di trasferimento temporaneo risulti anche il consenso della società cedente originaria. Laddove siano state inserite nel primo contratto di cessione temporanea clausole contenenti i diritti di opzione e di contro opzione, queste si intendono automaticamente risolte (141).
Il c.d. prestito con obbligo di riscatto.
Nelle ultime sessioni di calciomercato si è registrato l’avvento di una nuova variante relativa al trasferimento a titolo temporaneo del calciatore: il c.d. prestito con obbligo di riscatto.
Questa nuova modalità di trasferimento consiste nell’acquisto di un calciatore, con la formula del prestito (generalmente oneroso, ma non necessariamente), per un periodo temporale di uno o al massimo due anni, per poi essere obbligatoriamente riscattato alla fine di tale periodo.
Inizialmente, a livello giuridico, il prestito con obbligo di riscatto non aveva alcuna valenza perché non era contemplato da nessun regolamento, legge o normativa vigente della F.I.G.C. o della F.I.F.A. e proprio per questo motivo, talvolta veniva disatteso dalle società, vuoi per la crisi economica che ha colpito molti club, vuoi per lo scarso rendimento del giocatore o per il cambio della guida tecnica (142).
(140) XXXXXXXXXX, Xxxx e Xxxxxx insegnano, tutti i segreti dei trasferimenti in prestito con diritto di riscatto, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xxx
(141) Si v. il recente trasferimento del calciatore Xxxxx Xxxxxxx. Il giocatore, il cui cartellino è di proprietà dell’Olympique de Marseille, è stato ceduto in prestito al Genoa CFC per la stagione calcistica 2016-1017. Nella sessione di mercato invernale della medesima stagione calcistica, affinché potesse essere girato a sua volta in prestito alla società A.C. Xxxxx si è dovuto attendere il nulla osta della società proprietaria del suo cartellino, l’Olympique del Marseille appunto.
(142) DI XXXXXX, Il vocabolario del calciomercato: con il prestito tante opzioni, ma non l’obbligo di riscatto, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xxx
L’obbligatorietà del riscatto poteva costituire l’oggetto di un gentlemen agreement, ossia un accordo che si basa sulla fiducia tra le due parti, una sorta di parola d’onore da rispettare, ma che in sostanza non forniva e non fornisce nessuna reale garanzia.
In secondo luogo, tale formula poteva essere prevista in una scrittura privata redatta dalle parti con la quale si dimostrava effettivamente l’esistenza di un obbligo di riscatto (anche se comunque non aveva alcuna rilevanza ufficiale per la F.I.G.C.).
Recentemente, è stata regolamentata la possibilità che un contratto potesse essere ceduto con la formula in questione, potendo ora essere regolarmente depositato in Lega. Si tratta di una novità normativa introdotta nell’art. 103 delle N.O.I.F. con il comma 3-bis (143).
Vantaggi e rischi delle formule in questione.
Il mercato dei calciatori si dimostra sempre più in continua evoluzione. Formule come quella in questione costituiscono la nuova frontiera del calciomercato. Il prestito con obbligo di riscatto, ai fini pratici, è una formula che serve a pagare il più tardi possibile (consente alla società acquirente di non mettere a bilancio la spesa per il giocatore, tranne il suo stipendio), con le società che hanno una specie di paracadute temporale: alla fine, comunque, consiste in un acquisto definitivo (144). La società acquirente
(143) Art. 103, comma 3-bis: “Negli accordi di cessione temporanea di contratto si può convenire l’obbligo di trasformare la cessione temporanea in definitiva, al verificarsi di condizioni sportive specificatamente definite e sempreché: a) l’obbligo di riscatto risulti nell’accordo di cessione temporanea, con l’indicazione del corrispettivo convenuto tra le parti; b) il contratto ceduto scada almeno nella stagione successiva a quella in cui va esercitato l’obbligo di riscatto; c) la società cessionaria stipuli con un calciatore un contratto che scada almeno nella stagione successiva a quella in cui va esercitato l’obbligo di riscatto. L’obbligo di riscatto, a pena di nullità, deve essere sottoscritto dal calciatore”.
(144) CAPUANO, In via d’estinzione le plusvalenze, ecco come i club si sono ingegnati per aggirare le norme: prestiti lunghi, vincolati e il riacquisto, in xxx.xxxxxxxx.xx pubblicato il 30 gennaio 2015. Il prestito con obbligo di riscatto è una semplice forma di dilazione del pagamento, perché i bilanci attuali delle società sono già al limite e non possono caricarsi di ulteriori pesi. Benvenuti nel calciomercato 2.0, quello dell’epoca della crisi, dove un bomber 17enne può valere subito una plusvalenza importante e magari un domani essere riacquistato al doppio. Un controsenso? No, perché i bilanci hanno fame di denaro contante e la crescita dei giovani talenti non offre sufficienti garanzie. Quindi meglio continuare a dividere il rischio con qualcun altro provando a garantirsi una via preferenziale in caso di esplosione definitiva.
ha il vantaggio di rimandare ‘al futuro’ l’effettivo pagamento ma di beneficiare fin da subito della prestazione.
Il prestito con diritto di opzione (o di riscatto) presenta un vantaggio ulteriore: in primo luogo, consente di avere la possibilità di valutare se la prestazione del calciatore è soddisfacente (talvolta pagando il prestito a titolo oneroso, nella maggior parte dei casi con un esborso non molto elevato), successivamente la società potrà decidere se pagare il riscatto e diventare così proprietaria del cartellino del calciatore oppure non esercitare l’opzione senza pagare ulteriori somme e rinunciando alla proprietà.
Natura giuridica del prestito con diritto/obbligo di riscatto.
Essendo nate e consumate esclusivamente in ambito sportivo, la cessione temporanea di un calciatore con diritto/obbligo di riscatto non trova giustificazione nel normale diritto privato. Tuttavia, all’interno del codice civile possono essere individuati degli istituti riconducibili alle formule in questione.
In primo luogo, mi sembra opportuno operare una distinzione circa l’eventuale onerosità del prestito. La cessione di un calciatore in prestito può avvenire gratuitamente nel momento in cui la società cedente non chiede nulla alla cessionaria per poter beneficiare delle prestazioni del giocatore, seppur per un limitato periodo di tempo (c.d. prestito “secco”). Può essere altresì onerosa: la cessionaria talvolta dovrà far fronte alla richiesta della cedente di erogare un piccolo esborso economico.
Tale distinzione è fondamentale nel tentativo di dare una qualificazione giuridica alle formule in questione.
Per quanto riguarda la cessione temporanea di un calciatore con un diritto di opzione in favore della cessionaria, le alternative da seguire sono (a mio avviso) due:
- qualora il calciatore al termine del periodo di prestito (oneroso) venisse riscattato dalla società cessionaria, l’istituto cui tale cessione potrebbe essere ricondotta è quello della vendita con riserva di proprietà (c.d. vendita a rate. Artt. 1523 e ss. c.c.).
Nella vendita a rate, le parti stabiliscono che il prezzo debba essere pagato frazionatamente entro un certo tempo e, per converso, che la proprietà passi al compratore solo quando sarà pagata l’ultima rata, o frazione, del prezzo medesimo. L’effetto reale della vendita è perciò sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento integrale. Gli altri effetti della vendita (la “consegna” del calciatore, l’utilizzo e il godimento delle sue prestazioni da parte del compratore) si verificano immediatamente in conseguenza della conclusione del contratto.
Sul piano economico, la vendita con riserva di proprietà è una vendita a credito, garantita dalla proprietà del bene (calciatore): la società cedente concede un beneficio finanziario alla cessionaria, in quanto gli permette di pagare con una dilazione rateizzata; nel contempo la riserva di proprietà assolve una funzione empirica di garanzia reale a favore della società cedente, la quale, se non viene pagata, può riprendersi il calciatore, del quale ha conservato la proprietà.
Oltre alla vendita a rate, anche altre figure “particolari” di vendite mobiliari presenti nel codice civile possono essere utilizzate come termine di paragone. La vendita con riserva di gradimento, costituisce, nella sostanza, un’opzione: infatti, vincolato è solo il venditore (società cedente), ed il contratto si perfeziona, obbligando pure il compratore, soltanto quando costui comunica al venditore che la cosa è di suo gradimento (quindi nel momento in cui comunica la volontà di avvalersi del diritto di riscatto).
Infine, la vendita a prova è una tipologia di vendita sottoposta alla condizione sospensiva che la cosa (il calciatore in questo caso) abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso cui era destinata. Anche quest’ultima ipotesi non sembra così lontana dalla fattispecie “sportiva” presa in considerazione.
- Al contrario, qualora al termine del periodo di prestito (sempre oneroso) il calciatore non venisse riscattato, la cessione temporanea potrebbe rientrare nell’alveo dei contratti di locazione, più propriamente in quelli di affitto (artt. 1615 e ss.).
L’art. 1615 c.c., in tema di gestione e godimento della cosa nell’ambito di un contratto di affitto, recita: “Quando la locazione ha per oggetto il
godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile, l’affittuario deve curarne la gestione in conformità della gestione economica della cosa e dell’interesse della produzione. A lui spettano i frutti e le altre utilità della cosa”.
Durante il periodo di prestito la società cessionaria beneficia delle prestazioni del calciatore, ma per poterne beneficiare deve fare in modo che questi possa rendere al meglio soddisfacendo tutte le eventuali necessità del calciatore. E’ un accostamento quello preso in esame che all’apparenza può sembrare forzato, ma che, facendo gli opportuni e cauti adattamenti alla specificità della materia sportiva, non appare del tutto improbabile.
Per quanto riguarda infine la cessione temporanea di un calciatore con un obbligo di riscatto in capo alla società cessionaria, le cose si semplificano nettamente. La cessione temporanea in questione non è altro che un vero e proprio acquisto definitivo (semplice compravendita) che conferisce il vantaggio (per la società cessionaria) di poter beneficiare fin da subito delle prestazioni del calciatore ma di ritardare il pagamento secondo quanto stabilito nel contratto di cessione dalle parti (o gran parte di questo se il prestito è oneroso, anche in tal caso si rientra nella fattispecie di una vendita a rate).
2.4. L’accordo di partecipazione: la c.d. comproprietà.
La normativa della F.I.G.C. in relazione alla cessione del contratto disciplinava all’art. 102 bis delle N.O.I.F. un istituto che non trovava corrispondenti in nessun’altra normativa federale a livello internazionale: l’accordo di partecipazione.
Contestualmente alla stipula di un contratto di cessione definitiva, le parti potevano convenire tra loro che la società cedente acquistasse il diritto di partecipare al 50 % a quelli che venivano definiti “gli effetti patrimoniali conseguenti alla titolarità del contratto”, in altri termini, i diritti sorti in favore della cessionaria nei confronti del calciatore ceduto per effetto del contratto di cessione.
Nella prassi l’accordo di partecipazione prendeva il nome di compartecipazione o comproprietà, dato che il cartellino del calciatore era per metà di ciascuna società.
La motivazione che spingeva le due parti ad utilizzare un simile contratto, che è stato abrogato a partire dal 27 maggio 2014, consisteva nella distribuzione tra le stesse del rischio della mancata valorizzazione di un giocatore che al momento non rientrava nei piani societari della società cedente, la quale tuttavia voleva conservare la possibilità di riacquistare il cartellino nella sua interezza nella stagione successiva. La stessa società cedente poteva inoltre beneficiare eventualmente dell’aumento di valore del calciatore in relazione all’impiego che l’altra società ne faceva. In tal modo, al giocatore veniva consentita la possibilità di esprimersi sul terreno di gioco con potenziale continuità e allo stesso tempo di accrescere così il proprio valore sportivo, che si traduceva in valore economico.
Il contratto di lavoro sportivo stipulato tra la società cessionaria e il calciatore a seguito del contratto di cessione doveva avere la durata almeno biennale.
L’accordo di partecipazione, dal canto suo, aveva durata di un anno e doveva essere risolto, nelle forme e nei modi previsti nell’apposito modulo, nei termini di tempo fissati annualmente dal Consiglio Federale, ma veniva fatta salva la possibilità di risoluzione consensuale anticipata ove il calciatore avesse consentito.
Al termine della stagione sportiva accadeva spesso che le due società non trovassero un’intesa sulla risoluzione della situazione di compartecipazione oppure che precedentemente, all’atto della stipula dell’accordo, non si fossero accordate sull’inserimento di un’apposita clausola di riscatto.
In entrambi i casi, l’identificazione della società che sarebbe dovuta restare la titolare del contratto nella sua interezza avveniva tramite il deposito presso la Lega competente di due offerte in busta chiusa: la squadra che avesse inserito nella busta l’offerta di valore superiore si sarebbe accaparrata l’intero cartellino. L’accordo di partecipazione poteva essere anche rinnovato a condizione che il contratto economico tra società e calciatore avesse una scadenza successiva alla scadenza del rinnovo dell’accordo di partecipazione (art. 102 – bis, 5° comma).
Per quanto riguarda gli oneri di forma, previsti a pena di nullità, per la valida stipulazione dell’accordo di partecipazione, le N.O.I.F. prevedevano la redazione per iscritto su degli appositi moduli predisposti dalle leghe; la sottoscrizione delle società interessate e del calciatore con l’indicazione delle condizioni economiche nell’ipotesi in cui l’accordo di partecipazione venisse definito in favore della società cedente; il deposito dello stesso accordo presso la Lega o le leghe competenti entro 5 giorni dalla sottoscrizione, insieme al contratto di cessione.
Infine, circa la natura giuridica ricavabile dalle disposizioni passate in rassegna, si può affermare che l’accordo di partecipazione consisteva in un contratto trilaterale, necessariamente a tempo determinato e che presupponeva, quale condicio iuris, la cessione del contratto di prestazione sportiva (145).
(145) XXXXXX, XXXXXXX, Lezioni di diritto sportivo, 2a ed., Milano, 2013, x. 00 xx.
0.0. Le clausole “particolari”.
La c.d. clausola di “recompra” Che cos’è?
L’odierno calciomercato è caratterizzato dalla presenza di clausole dal contenuto sempre più disparato che contribuiscono a rendere maggiormente complessi i trasferimenti e più in generale le dinamiche contrattuali del mondo del calcio (146). Un caso emblematico riguarda la c.d. clausola di
«recompra». E’ un istituto tipico dell’ordinamento calcistico spagnolo che consiste nel riconoscimento alla società che trasferisce un calciatore di un diritto potestativo, ossia del potere di operare il mutamento della situazione giuridica di un altro soggetto.
E’ assimilabile ad una opzione che consente alla società cedente di tesserare nuovamente l’atleta a titolo definitivo a fronte del pagamento di un corrispettivo, spesso predeterminato, solitamente superiore a quello di vendita.
Molto frequentemente, tale diritto può essere esercitato in un periodo limitato nel tempo (ad es. entro la fine di una determinata stagione).
Il caso Xxxxxx Xxxxxx.
E’ necessario fin d’ora premettere che i contratti di trasferimento dei calciatori (soprattutto quelli internazionali) sono molto complessi e lasciano ampia libertà negoziale, ogni clausola può essere plasmata dalle parti a loro piacimento (per questo è difficile compiere delle valutazioni senza conoscere, nel dettaglio il testo contrattuale).
Il caso che recentemente ha avuto la maggior risonanza a livello mediatico è stato sicuramente quello riguardante il calciatore spagnolo Xxxxxx Xxxxxx.
(146) L’avv. XXXXXXXX in un’intervista rilasciata al quotidiano Tuttosport il 10 luglio del 2014, interpellato sul punto, ha posto il monito: “Attenzione a scrivere bene le clausole perché i contratti internazionali sono molto liberi. E’ fondamentale curare i dettagli!”.
Nel comunicato ufficiale emesso a Torino il 19 luglio del 2014, la Juventus Football club s.p.a. comunicava “di aver raggiunto l’accordo con la società spagnola Real Madrid Club de Fùtbol per l’acquisizione a titolo definitivo del diritto alle prestazioni sportive del calciatore Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxx a fronte di un corrispettivo di € 20 milioni pagabili in 3 esercizi”. L’accordo prevedeva inoltre “un diritto di opzione per il Real Madrid, esercitabile o al termine della stagione 2015/16 o al termine della stagione 2016/17, per il riacquisto a titolo definitivo del diritto alle prestazioni sportive del calciatore Xxxxxx Xxxxxx a predeterminati valori, fino ad un massimo di € 30 milioni, in funzione del numero di partite che il calciatore avrà disputato con la Juventus nella stagione di esercizio del diritto”. Infine “Juventus ha sottoscritto con lo stesso calciatore un contratto di prestazione sportiva quinquennale” (147).
Ratio della clausola: quali sono i vantaggi?
Il primo vantaggio è sicuramente di carattere tecnico: una squadra ha un giocatore talentuoso in rosa che per motivi diversi (è giovane, non ha la maturità giusta per acquisire i gradi di titolare, il suo ruolo è occupato attualmente da un “top player”) non riesce a ritagliarsi lo spazio adeguato (148). La società e il giovane calciatore hanno tutto l’interesse ad operare una
(147) MEDICI, Rapporti Juventus-Real Madrid, come funziona la clausola di recompra di Morata, in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx. Il portale portoghese Football Leaks ha svelato i dettagli del contratto tra Juventus e Real Madrid per il trasferimento del calciatore al club bianconero avvenuto nell’estate del 2014: “La clausola di recompra consentiva al Real Madrid di riportare il giocatore in Spagna ad una cifra già pattuita entro il 2017. Se Morata dovesse giocare più del 50 % delle gare ufficiali con la Juve, il Real la prossima estate per riaverlo dovrà pagare 30 milioni di euro. Una cifra che potrebbe essere inferiore se il giocatore dovesse giocare di meno: 25 milioni se Morata giocherà fra il 25-50 % delle gare, 20 milioni se dovesse scendere in campo in meno del 25% delle partite. Inoltre la Juventus si impegna a non cedere Morata ad un altro club prima del 2017, pena una clausola di 80 milioni di euro da corrispondere al Real”.
(148) Alla domanda su chi fosse la parte a trarre maggiormente vantaggio dall’apposizione di una simile clausola nell’ambito del trasferimento di un calciatore, l’avv. XXXXXXXX risponde: “La possibilità di tesserare nuovamente il calciatore ad un prezzo predeterminato, ove questo non sia abnorme, rappresenta una clausola favorevole al club cedente e sfavorevole al club cessionario, in quanto configura un obbligo di accettazione dell’offerta di trasferimento, per quest’ultimo, e, contestualmente un diritto potestativo di vincolare nuovamente l’atleta per il primo. E’, pertanto, necessario che il testo della clausola venga predisposto con la massima attenzione, per disciplinare adeguatamente il caso in cui, prima della scadenza del termine per la «recompra», il club cessionario intenda trasferire il calciatore ad altro club o risolvere consensualmente il contratto con quest’ultimo. Qualora invece la clausola venga impostata come una sorta di diritto di
cessione. Allo stesso tempo però il club, confidando nelle capacità del calciatore, si riserva di inserire nel contratto di cessione la clausola di recompra. In tal modo, qualora volesse, in futuro potrebbe riprendersi il calciatore che nel frattempo ha maturato un’importante esperienza altrove.
Il secondo vantaggio si ha in termini economici. Per chiarire ciò si torni al caso del calciatore Morata. Il Real Madrid avendolo cresciuto nella sua cantera, non lo ha pagato nulla. Il ragazzo è talentuoso ma non trova spazio. La società Juventus offre €20 milioni e un posto da titolare per il calciatore. Il Real Madrid incassa il denaro e ascrive una grande plusvalenza al bilancio. La società spagnola è altresì consapevole che il calciatore di cui si tratta diventerà molto probabilmente un campione. Da questa convinzione scaturisce la volontà del Real Madrid di inserire nel contratto di trasferimento del calciatore la clausola di recompra: pagando la somma di € 30 milioni alla Juventus il calciatore tornerebbe alla casa madre. Da una simile operazione tutte e 3 le parti possono ottenere un discreto vantaggio:
- La società cedente 🡪 riportare a casa un calciatore ad una cifra prestabilita e contenuta nei termini entro un limitato lasso di tempo (il valore del calciatore dopo un’eventuale positiva esperienza vissuta altrove potrebbe essere molto più elevato rispetto alla cifra prestabilita al momento della cessione).
- Il calciatore oggetto della cessione 🡪 se tutto dovesse andare secondo le previsioni, avrebbe un importante occasione per dimostrare le proprie qualità e quindi accrescere la propria esperienza e fama internazionale (149);
- La società cessionaria 🡪 aver beneficiato per un determinato periodo delle prestazioni sportive del calciatore (che magari ha contribuito al
prelazione, la stessa costituisce sicuramente un vantaggio per il club cedente, consistente nel privilegio di essere preferito a terzi, nell’ipotesi di trasferimento del calciatore, a parità di condizioni, ma non determina particolari pregiudizi per la cessionaria, non contemplando alcun obbligo qualora quest’ultima intenda trattenere l’atleta”.
(149) Per chiudere il caso Xxxxxx Xxxxxx, il Real Madrid esercitava infine il diritto di
«recompra». La Juventus comunicava quindi il raggiungimento dell’accordo con il club spagnolo per la cessione definitiva del calciatore: “A seguito dell’esercizio da parte della società Real Madrid Club de Fùtbol del diritto di opzione per il riacquisto del diritto alle prestazioni sportive del calciatore Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxx, la Juventus Football Club
s.p.a. comunica di aver perfezionato la cessione a titolo definitivo del calciatore stesso per un corrispettivo di € 30 milioni pagabili in due esercizi, al netto di quanto ancora dovuto da Juventus per l’acquisto del medesimo calciatore (€ 10,7 milioni). Tale operazione genera un effetto economico positivo di circa € 16 milioni nel’esercizio 2016/2017 e un incasso netto di circa € 19,3 milioni nel xxxxx xxxxx xxxxxxxx 0000/0000 e 2017/2018”.
raggiungimento di importanti obiettivi, cosa che al giorno d’oggi può portare una società a guadagnare molti soldi). Inoltre in caso di esercizio della recompra da parte della cedente ad una somma superiore a quella stanziata dalla cessionaria per l’acquisto del calciatore, quest’ultima ascriverebbe a bilancio una plusvalenza (150).
Natura giuridica della clausola:
È necessario fin d’ora premettere che il c.d. diritto di recompra per un giocatore non è contemplato né a livello federale né a livello di normativa statale (151). Sarà necessario quindi andare a verificare se vi siano degli istituti già esistenti cui la suddetta clausola possa essere ricondotta e soprattutto in che termini.
In relazione alla normativa sportiva…
• È assimilabile all’istituto della comproprietà (art. 102 bis N.O.I.F., articolo abrogato dal 27 maggio 2014)?
Viene negata l’ipotesi che la «recompra» possa essere considerata come un surrogato alla formula della comproprietà. La società cedente infatti non ha alcun diritto di partecipazione agli effetti economici del tesseramento dato che la cessione avviene a titolo definitivo (nella comproprietà invece partecipava per il 50%). Inoltre, la clausola di recompra consente alla società cedente di riaggiudicarsi l’atleta a fronte di un corrispettivo predeterminato, cosa che invece nella comproprietà non è prevista come modalità di risoluzione dell’accordo di compartecipazione (accordo tra club od offerta in busta chiusa) (152).
(150) Xxx vantaggi inerenti alla clausola di recompra si v. Recompra che passione, ecco perché conviene (quasi) sempre, in xxx.xxxxxx-xxxxxx.xx pubblicato il 30 giugno 2015.
(151) Qualche società ha provato a chiederne l’introduzione all’ufficio tesseramenti della Lega calcio, ma la modifica alle norme ufficiali è esclusiva competenza della F.I.G.C. xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
(152) Maggiormente assimilabile alla comproprietà appare l’accordo in forza del quale alla società cedente viene riconosciuto il diritto di beneficiare di una percentuale sui futuri trasferimenti dell’atleta. E’ il caso recente del trasferimento del calciatore Xxxxxxxx Xxxxxxxx. Il calciatore è stato trasferito alla Fiorentina dall’Empoli in prestito oneroso (1 milione di €) fino a giugno del 2018 con un riscatto obbligatorio fissato a 8 milioni per una spesa complessiva di 9 milioni. Da questa operazione però trarrà benefici anche la
• La clausola di recompra sembra avvicinarsi maggiormente alla c.d. controopzione prevista dall’art. 103 delle N.O.I.F. ovvero alla facoltà del club che cede un atleta a titolo temporaneo con diritto di opzione, di “annullare” l’esercizio dell’opzione da parte della società cessionaria a fronte del pagamento, in favore di quest’ultima, di una somma predeterminata. Es. la società x cede in prestito con diritto di riscatto e controriscatto Tizio alla società y. La società y riscatta Tizio e la stagione successiva la società x controriscatta lo stesso Xxxxx.
Come detto, si avvicina ma non la ricalca del tutto per un motivo molto semplice: si parla di controopzione nell’ambito di trasferimenti a titolo temporaneo. La recompra, pur volendo ammettere abbia lo stesso principio di fondo della controopzione, accede invece ad un trasferimento a titolo definitivo del calciatore.
In relazione alla normativa codicistica…
• Per quanto riguarda la normativa codicistica, la cessione del contratto di un calciatore caratterizzata dalla presenza della clausola in esame sembra richiamare quanto il codice civile prevede in tema di vendita con patto di riscatto (1500-1509 c.c.) (153). La suddetta vendita è sottoposta ad una condizione risolutiva potestativa: il venditore si riserva il diritto di riavere la cosa venduta mediante la restituzione del prezzo e i rimborsi stabiliti dalla legge. Anche in ambito calcistico la cessione di un calciatore che preveda la clausola di recompra, è un trasferimento sottoposto ad una condizione risolutiva potestativa (la società cedente comunicando alla cessionaria la volontà di avvalersi della recompra e versando la somma pattuita entro il termine stabilito, pone fine al rapporto tra la società cessionaria ed il calciatore). Esercizio del riscatto: E’ un diritto che spetta al venditore (diritto potestativo). La vendita produce i suoi effetti ma questi si eliminano se il venditore dichiara di volere riscattare la cosa venduta e gli restituisce il
precedente società proprietaria del cartellino del calciatore: il Milan, infatti, nel 2018 ricaverà 1,35 milioni dal trasferimento. Nel 2015 quando Xxxxxxxx passò all’Empoli, il Milan ottenne il 30 % della futura rivendita (non sul totale ma sull’eccedenza dei 4,5 milioni pagati dai toscani ai rossoneri).
(153) Si v. XXXXXXXX, XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato, 19^ed., Milano, 2009, p. 670-671.
prezzo e le spese fatte per la vendita. E’ sufficiente la mera dichiarazione del venditore accompagnata dal pagamento per far rientrare la cosa nel patrimonio del venditore: non occorre un nuovo contratto di vendita in senso inverso.
Effetto retroattivo: La condizione ha effetto retroattivo: il riscatto, dunque, ha effetto rispetto ad eventuali subacquirenti, i quali sono tenuti a rilasciare le cose (1504 c.c.). La recompra non ha effetto retroattivo. Si andrebbe contro la realtà ritenendo non eseguite le prestazioni di lavoro che, invece, sono state eseguite. E, perciò, ad es., il calciatore non sarà privato della retribuzione dovutagli per le prestazioni medesime.
• Diversa infine è la c.d. xxxxxxxxxx, anche se spesso accompagna la clausola di recompra.
Ciascuno è, di regola, libero di contrattare con chi crede. Tuttavia talvolta o la legge o un patto volontariamente stipulato possono attribuire ad un soggetto un diritto di prelazione, ossia il diritto di essere preferito ad ogni altro, a parità di condizioni, nel caso in cui la persona soggetta alla prelazione dovesse decidersi a stipulare un determinato contratto. Il soggetto passivo della prelazione, qualora decida di vendere, è obbligato, prima di stipulare con un terzo, ad offrire al titolare della prelazione di perfezionare il contratto alle stesse condizioni pattuite con il terzo (154).
(154) Il contratto di cessione di Morata dal Real Madrid alla Juventus, a tal proposito prevedeva: “La Juventus sarà libera da recompra a partire dal 16 luglio 2017. Se dovesse cedere il giocatore prima di tale scadenza, il Real Madrid avrebbe diritto ad € 80 milioni di risarcimento. Dal 16 luglio 2017 e fino alla fine del rapporto tra Xxxxxx e la Juventus, il Real Madrid si riserva il diritto di prelazione sul giocatore: dovrà essere informato di qualunque offerta ricevuta da terzi dalla Juventus e dal giocatore ed avrà 72 h di tempo per eventualmente pareggiarla”.
La clausola di risoluzione del contratto
Una delle clausole di cui si sente parlare sempre più spesso in relazione al contratto che un calciatore stipula con la società che va ad acquisire il suo cartellino è la c.d. clausola di risoluzione. Tale clausola viene comunemente utilizzata per designare uno specifico patto che consente al tesserato (atleta, allenatore ecc.) di sciogliersi anticipatamente dal contratto che lo lega alla società mediante il pagamento di una somma di danaro predeterminata.
L’origine
La clausola rescissoria trova origine in Spagna e precisamente nell’articolo 16 del Real Decreto 1006/1985 che recita: “La extincìon del contrato por voluntad del deportista profesional, sin causa imputable al club, darà a èste derecho, en su caso, a una indemnizaciòn […]” (L’estinzione del contratto per volontà dello sportivo professionista, senza una causa imputabile al club, darà a quest’ultimo diritto eventualmente ad un indennizzo). Si parla di «rescindir» anche nella famosa sentenza Xxxxxx (155) (“todo jugador puede celebrar un contrato con un nuevo club cuando el contrato que lo vincula a su club haya expirado, haya sido rescindido o expire dentro de los seis meses siguientes”) (156). L’inciso “haya sido rescindido” deve essere tradotto in italiano con “è stato risolto”. Perché non è possibile tradurlo in italiano con il concetto di rescissione?
Terminologia giuridica e giornalistica: rescissione o risoluzione?
Con riferimento alla suddetta clausola è doveroso fare chiarezza circa l’aspetto terminologico: le cronache sportive e soprattutto calcistiche
(155) La sentenza Xxxxxx fu un provvedimento adottato il 16 dicembre 1995 dalla Corte di Giustizia Europea per regolamentare il trasferimento dei calciatori nelle federazioni appartenenti all’Ue.
(156) “Tutti i calciatori possono stipulare un contratto con una nuova società nel momento in cui il contratto che lo vincola con la società attuale è scaduto, è stato risolto o scadrà entro i successivi 6 mesi”.
testimoniano sempre più frequentemente l’inserimento nei contratti dei giocatori delle cosiddette “clausole rescissorie” (157).
Nell’ordinamento italiano (artt. 1447-1452 c.c.), la rescissione è prevista esclusivamente per contratti conclusi in circostanze eccezionali, quali lo stato di pericolo o lo stato di bisogno, casistiche che non sono certamente applicabili al caso di specie. In una prospettiva strettamente giuridica a cosa si dovrebbe ricondurre allora la clausola risolutoria/rescissoria?
Ci sono diverse teorie a riguardo.
• Una forma assimilabile a tale clausola può individuarsi nella clausola penale (art. 1382 c.c.). Le parti (società calcistica e calciatore) con detta clausola possono stabilire ex ante quanto il debitore (calciatore) dovrà pagare, a titolo di penale, ove dovesse rendersi inadempiente. L’inadempienza, nel caso in questione, consiste nel fatto che il calciatore non porterà a termine l’incarico di giocare per il tempo originariamente previsto all’interno del contratto. La clausola penale pertanto mira a liquidare in via preventiva e forfettaria il danno derivante dall’inadempimento di quella che è un’obbligazione civile (il comportamento del giocatore che decide di risolvere il contratto). A conferma di quanto affermato si consideri che la prestazione dedotta nella clausola penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno: ecco perché la società in questione non ha l’onere di provare il pregiudizio subito e non può nemmeno pretendere il risarcimento del danno ulteriore se non è stato così stabilito espressamente. Specularmente il giocatore che intende recedere non è ammesso a provare che il danno effettivo sia inferiore all’ammontare della penale, fatta salva la possibilità di una sua richiesta di riduzione. La suddetta clausola è dunque uno strumento giuridico che permette la risoluzione
(157) XXXXXXXXXX, Rescissione e clausola rescissoria: uso improprio della terminologia giuridica, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx tratta le problematiche relative alla terminologia della clausola: “E’ di fine 2015 la notizia che il Barcellona comunica di aver rescisso il contratto del calciatore Xxxxx Xxxxxxxxx. Il sito ufficiale del club infatti si esprime in questi termini:
«el FC Barcelona ha comunicado que ha decidido rescindir el contrato que habìa firmado con el jugador Xxxxx Xxxxxxxxx». Il quotidiano britannico Daily Mail sul medesimo caso invece «Barcelona have terminated the contract of Xxxxx Xxxxxxxxx». Come si può notare la termination inglese non crea particolari problemi dato che risolve praticamente tutte le casistiche di scioglimento dei contratti, la rescisìon spagnola e la rescissione italiana non si possono invece liquidare altrettanto rapidamente.
del contratto, liberando il calciatore dal “cappio” della società a cui questi appartiene (158).
• È stato ipotizzato che detta clausola più che ad una penale (con cui le parti convengono, per il caso di inadempimento, il pagamento di una somma predeterminata a titolo risarcitorio), la clausola risolutoria sia riconducibile ad una multa penitenziale (art. 1373.3 c.c.) (159). La somma di danaro pattuita dalle parti configura il corrispettivo del recesso che una parte deve versare all’altra qualora intenda sciogliersi dal rapporto. In concreto il prezzo del recesso viene versato non dal tesserato ma da una parte terza, ossia la nuova società che intende ingaggiare l’atleta: questo rilievo non incide comunque né sull’essenza né sulla struttura del patto.
• Altri, infine, ritengono vi siano gli estremi per la configurazione di una situazione intermedia tra l’istituto della clausola risolutiva espressa unilaterale e quello del recesso convenzionale in cui l’entità della somma pattuita fa da spartiacque fra i due istituti. Nel primo caso si parla di una clausola penale (artt. 1382-1384 c.c.), nel secondo di una multa penitenziale (art. 1373.3 c.c.).
Ciò che risulta certo resta il fatto che parlare di rescissione e di clausola rescissoria è del tutto improprio e, a dispetto della diffusione di questi termini in ambito sportivo, non possiamo trascurare il fatto che, nel nostro codice civile, non vi sia traccia dell’istituto in esame con questo significato
(160).
(158) A sostegno della tesi che la clausola risolutoria sia da considerare una clausola penale si x. XXXXXXX, La c.d. “clausola rescissoria” e il caso del matador Xxxxxx, in xxxxxxxxxxx.xxxxxxxx.xx, il quale ribadisce l’assunto che collegare l’ipotesi di risoluzione del contratto che lega il giocatore alla società di appartenenza al concetto di rescissione sia nel modo più assoluto “un’invenzione giornalistica”.
(159) Il 3° c. dell’art. 1373 c.c. così recita: “Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita”.
(160) Così si esprime con riferimento alla clausola rescissoria, DINI, La clausola rescissoria non è prevista nel nostro ordinamento, in xxxxxxxxxxxxxxx.xxx “In Italia non esiste, è un istituto che non è disciplinato, la si chiama impropriamente rescissoria, perché nell’ordinamento italiano, civilistico, la rescissione è la possibilità di risolvere un contratto
Funzionamento e ratio della clausola di risoluzione.
Negli ultimi anni risulta evidente constatare come le società sportive, dalla sentenza Xxxxxx in avanti, stiano gradualmente perdendo il loro potere contrattuale in sede negoziale. Non è più sufficiente, allo stato attuale delle cose, sottoscrivere un contratto di prestazioni sportive per garantirsi le prestazioni di un proprio calciatore fino alla scadenza del contratto. La possibilità di perderlo a parametro zero, l’incombenza del seppur poco utilizzato art. 17 Regolamento Status F.I.F.A. (161) ed il recente quanto “prepotente” (economicamente parlando) avvento del “mercato cinese”, hanno spinto le società di calcio italiane, per rendere ancora più stabile il rapporto contrattuale con i propri tesserati, ad utilizzare uno strumento poco utilizzato nel nostro campionato, quale appunto la clausola di risoluzione.
In che termini la clausola consente alle società di riacquisire parte del potere negoziale disperso?
Con tale clausola le società, oltre a predeterminare un prezzo di vendita hanno l’opportunità di sottoscrivere un contratto di prestazioni sportive ad un ingaggio ridotto rispetto alle richieste economiche del calciatore, con la “promessa” di vendita futura ad un costo concordato mediante l’attivazione della clausola di risoluzione. Tale previsione contrattuale consente, in deroga al principio di stabilità contrattuale di cui agli art. 13-17
in caso di anomalia e quando l’equilibrio è spostato o c’è un caso di bisogno, ma non è il nostro caso”.
(161) L'articolo 17 del Regolamento della FIFA per lo status e il trasferimento di giocatori è intitolato "Conseguenze di un contratto senza giusta causa", ed è il quinto articolo del IV capitolo, "Manutenzione di stabilità contrattuale tra Professionisti e club". Esso delinea le disposizioni che si applicano se il contratto viene risolto senza giusta causa, e l'obbligo per la parte in torto al pagamento di un compenso. In particolare, si afferma che ogni giocatore che ha firmato un contratto prima dei 28 anni si può svincolare tre anni dopo che l'accordo è stato firmato. Se il calciatore invece ha 28 o più anni, il tempo limite è ridotto a due anni. L'articolo 17 è stato introdotto nel dicembre 2004, con effetti a partire dal gennaio 2005. Un calciatore che intende avvalersi di questo articolo ha tre obblighi da rispettare: a) comunicare alla società la propria intenzione di risolvere il contratto entro quindici giorni dall'ultima partita giocata con la maglia del club; b) divieto di trasferimento in una squadra dello stesso campionato nei dodici mesi successivi; c) il pagamento di un indennizzo alla vecchia società di appartenenza, in base ad alcuni criteri oggettivi come l'ingaggio e il tempo rimanente alla scadenza del contratto (fino a un massimo di 5 anni).
Regolamento Status F.I.F.A.(162), la possibilità di acquistare un calciatore, dietro il pagamento di una somma predeterminata.
Dire che un giocatore è sotto contratto significa che l’atleta professionista ha stipulato un contratto di lavoro subordinato sportivo a favore di una squadra di club. In virtù del contratto, come abbiamo visto nel corso della trattazione, l’atleta si obbliga a svolgere la sua prestazione lavorativa (scende in campo o comunque è a disposizione per scendere in campo, si allena ecc.) ed in cambio riceverà uno stipendio, per la durata del contratto (1 o più stagioni). Al termine, essendo stato, a seguito della famosa sentenza Xxxxxx, abolito il c.d. vincolo di tesseramento, il calciatore sarà libero di stipulare un nuovo contratto con altri club. Durante la durata del contratto, al contrario, non può liberamente farlo. E’ possibile che ci sia la cessione del contratto del calciatore, ma è necessario l’accordo di tutti: società cedente, società acquirente e contraente ceduto (atleta). A meno che il calciatore non si avvalga appunto della facoltà di recesso unilaterale (clausola risolutiva). Questa è una clausola, inserita nel contratto, che attribuisce ad una delle parti (il calciatore) “la facoltà di recedere dal contratto”, ossia di farne cessare gli effetti. Nel calcio essa viene prevista in genere in cambio di un corrispettivo di solito ben maggiore rispetto al valore di “mercato” del giocatore stesso. Versando questa somma il giocatore non ha bisogno quindi del consenso della società con la quale ha un contratto in essere per smettere di svolgere la propria attività in favore quest’ultima e iniziare a svolgerla per altra società con la quale, nel frattempo, è d’accordo per stipulare un nuovo contratto.
Nulla vieta però che le due squadre trovino un accordo differente. Pagando la somma prevista non c’è bisogno del consenso della squadra che ha il giocatore sotto contratto e quindi è il massimo che può essere pagato per ottenere il giocatore; ma quest’ultima può accontentarsi di meno danaro (per tanti motivi) e ritenere che in fondo può cederlo facendo uno sconto (163).
(162) XXXXXXXX, Il recesso ante tempus, in Riv. dir. ec. sport., 2016, p. 55 ss. Al tema della contractual stability è stato dedicato il capitolo IV del Regolamento in questione. In particolare l’art. 13 postula in maniera esplicita il rispetto del principio pacta sunt servanda: alla stregua di ogni altro contratto, infatti, quello fra il calciatore professionista ed il club può cessare alla sua scadenza o previo accordo reciproco fra le parti.
(163) Si v. XXXXXXX, Come funziona la clausola rescissoria ?, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xxx
La possibilità di inserire o meno tale clausola non è disciplinata né tanto meno prevista dalla normativa e dai moduli predisposti dalla F.I.G.C (164).
Da un punto di vista strettamente formale, infine, qualora le parti volessero avvalersi di tale istituto, dovranno compilare un apposito allegato che, ai fini della validità dello stesso, andrà obbligatoriamente depositato unitamente al contratto di lavoro sottoscritto tra il club ed il giocatore.
(164) DINI, La clausola rescissoria non è prevista nel nostro ordinamento, in xxxxxxxxxxxxxxx.xxx ribadisce: “La clausola risolutoria non è prevista nel nostro ordinamento ma si utilizza perché c’è nel Regolamento F.I.F.A., a cui tutti gli ordinamenti calcistici del mondo, e le società devono rifare. Quindi si va avanti con una prassi che prevede la stipula di un contratto per le prestazioni sportive, affiancata da un accordo che deve essere depositato, il quale prevede la possibilità per il calciatore di liberarsi. Le modalità di funzionamento di questa clausola possono essere nella disponibilità delle parti. Spesso e volentieri si dice, che la clausola rescissoria limita la libera circolazione dei calciatori, ma io sono dell’avviso che quando si tratta in questi termini e si mettono sul piatto anche delle condizioni estremamente difficili che si possano realizzare per il proprio trasferimento, a fronte di questo il calciatore poi ottiene un trattamento economico ben diverso. Direi che quando siamo a discutere della libera disponibilità delle parti, le parti dispongono dei loro diritti e questo è quello che avviene. Nella definizione della clausola si può stabilire il periodo, il mercato di destinazione e questo limita l’efficacia della clausola ma la limita liberamente”.
3. Le dispute dottrinali circa la qualificazione giuridica da attribuire al trasferimento dei calciatori
3.1. Le correnti dottrinarie precedenti alla l. n. 91/1981.
Il fenomeno della cessione dei calciatori è stato a lungo al centro di accese dispute dottrinali su quale fosse la disciplina giuridica entro cui inquadrare la fattispecie in questione.
Fin dal principio è stata scartata l’ipotesi che la c.d. cessione del giocatore potesse trattarsi di un contratto di vendita o che, per analogia, ci si potesse riferire alle norme che disciplinano tale istituto. La persona del giocatore non può essere, infatti, considerata oggetto di tale contratto (165). E’ un soggetto, mai un oggetto di diritti, per questo motivo la parola «vendita» comunemente ed universalmente adoperata, è quanto mai impropria a caratterizzare l’aspetto giuridico del fatto (166).
Se si considerasse l’oggetto del negozio, anziché la persona del giocatore, il credito della società alle prestazioni di esso, ci si troverebbe di fronte ad una cessione di credito inquadrata nello schema del contratto di vendita (167). In questo caso il negozio sarebbe disciplinato sia dalle norme della cessione del credito (art. 1260 e ss c.c.), sia da quelle della vendita compatibili con la cessione. Anche questa corrente dottrinaria è stata però contraddetta dall’assunto che nell’ambito della cessione di un calciatore ad essere trasferito non è il solo credito (le prestazioni dello sportivo) che la società
(165) Così XXXXXXX, Tesseramento e cessione giocatori secondo il trattamento giuridico delle nuove Carte Federali del calcio, in nota a App. Lecce, 31 gennaio 1959, n. 1047, in Riv. dir. sport, 1960, p. 280 ss. “Osta in particolare a tale tentativo sistematico il fatto che il codice prevede e disciplina i negozi di vendita (o alienazione) di cose (mobili e immobili) proprie od altrui, presenti e future, e il trasferimento dei diritti, non certamente quello di cessione di persona fisica o più correttamente, delle prestazioni materiali e intellettuali di cui essa è capace”.
(166) XXXXXXXX, Profilo giuridico della c.d. compravendita – o cessione – di giocatore di calcio, in Riv. dir. sport., 1954, p. 3 ss.
(167) In argomento si v., Trib. Milano, 10 marzo 1955, in Foro pad., 1955, p. 494, il quale ha ritenuto che con il trasferimento di un calciatore si verificasse “il trasferimento di un diritto di obbligazione di un soggetto ad un altro soggetto” e che doveva quindi parlarsi “non di cessione di contratto ma di cessione di un diritto di credito”.
(168) DE XXXXXXXX, Le cessioni delle prestazioni di giocatori di calcio, in Foro pad., 1964, p. 1068.