COLLEGIO DI NAPOLI
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) MARINARI Presidente
(NA) CONTE Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) MAIMERI Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) XXXXX DI TORREPADULA Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) GUIZZI Membro designato da Associazione rappresentativa dei clienti
Relatore XXXXXX XXXXXXXX
Nella seduta del 21/04/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
La controversia sottoposta alla cognizione del Collegio concerne il tema della corretta applicazione del regime delle commissioni da parte dell’intermediario in relazione ad un contratto di factoring. Questi, in sintesi, i fatti oggetto del procedimento.
In data 20 febbraio 2012 la società attuale ricorrente stipulava con l’intermediario odierno resistente un “contratto di finanziamento” per € 216.993,26, a fronte di cessione pro solvendo di un credito vantato nei confronti di un Comune per un importo di € 454.912,49 (successivamente incrementato nel suo valore a seguito della maturazione di ulteriori accessori e dell’emissione del lodo arbitrale di condanna).
A seguito di accordi, in data 23 luglio 2014 le parti decidevano di definire la “vertenza” con il Comune debitore accettando un pagamento a stralcio di € 550.000,00, da effettuarsi entro il termine improrogabile del 31 agosto 2014, oltre il quale l’accordo “era da considerarsi inefficace”.
Il Comune, in data 8 agosto 2014, provvedeva al pagamento di un acconto di € 50.000,00 in favore dell’intermediario (cessionario del credito); gli ordinativi di pagamento dei residui
€ 500.000,00, invece, venivano emessi dal Comune solo in data 1 ottobre 2014. Il resistente ne accettava comunque il pagamento.
Con bonifici del 6 ottobre 2014 l’intermediario versava quindi alla ricorrente l’importo complessivo di € 242.326,33 sicché – sostiene la ricorrente - “il costo complessivo dell’operazione di finanziamento di € 216.993,26 è stato di € 90.680,41 per il periodo dal 20.01.2012 al 1.10.2014, comprensivo di […] € 25.000,00 per spese legali e consulenza per recupero credito e di […] € 16.915,47 per commissioni di Plus Factoring”.
Con reclami del 6 e 9 ottobre 2014 la ricorrente si è rivolta all’intermediario dolendosi:
a) dell’accettazione del pagamento a stralcio da parte dell’ente comunale, ancorché in violazione del pattuito termine essenziale del 31 agosto 2014;
b) dell’addebito di € 25.000,00 (fattura n. 345) a titolo di spese legali e consulenza recupero credito, “in quanto le attività legali sono espressamente comprese nelle commissioni pari al 2,3% già riconosciute all’atto della cessione del credito”;
c) dell’addebito di € 16.925,47 (fattura n.346) a titolo di “commissioni di Plus Factoring” pari allo 0,30% mese a partire dal 180° giorno “in quanto, al di là della loro legittimità, la [convenuta] nelle varie rendicontazioni trimestrali ha sempre omesso di indicare il maggior aggravio”, e ne ha richiesto l’importo solo alla fine del rapporto, in spregio alle regole di trasparenza.
Insoddisfatta del riscontro ottenuto dall’intermediario, la ricorrente ha reiterato innanzi all’ABF le medesime doglianze, affinché il Collegio possa “valutare l’applicazione della normativa vigente” da parte della convenuta, con particolare riguardo al costo complessivo dell’operazione.
L’intermediario ha resistito depositando controdeduzioni con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il resistente ha precisato, innanzitutto, in punto di fatto di essersi resa cessionario con clausola pro solvendo, in virtù di contratto autenticato in data 20 gennaio 2012, del credito di € 454.912,49 per capitale e interessi moratori, vantato dalla società ricorrente nei confronti di un Comune e nascente dal lodo arbitrale n. 865/2011 (spedito in forma esecutiva il 10 febbraio 2011). Nel negozio di cessione era specificato che, nelle more, il credito era lievitato a € 570.741,66.
Contestualmente, sempre in data 20 gennaio 2012, le parti sottoscrivevano una scrittura privata integrativa contenente le condizioni particolari di factoring applicabili al rapporto nascente dal negozio notarile di cui sopra.
In ottemperanza a quanto pattuito (art. 3 della scrittura integrativa), con due bonifici del 24 gennaio 2012 l’intermediario provvedeva ad erogare alla ricorrente l’importo di € 216.993,26 (pari al 50% del valore nominale del credito, al netto della commissione del 2,3%) a titolo di anticipazione in favore della società cedente.
Con riferimento alle doglianze della ricorrente, in merito alla commissione di “Plus Factoring”, il resistente sostiene che la debenza della stessa, quale commissione periodica aggiuntiva da calcolarsi sui crediti non pagati, risulta chiaramente dal tenore delle pattuizioni contrattuali di cui agli artt. 5 e 7. In conformità a quanto ivi previsto, la commissione è stata quantificata, dunque, nella percentuale dello 0,30% sulla somma anticipata di € 216.993,26, con decorrenza dal 19 luglio 2012 (180° giorno successivo alla stipula del negozio di cessione), per un importo di € 16.925,47 documentato dalla fattura
n. 346 del 6 ottobre 2014. Ha precisato che “solamente per mero errore materiale” tale importo non è stato indicato nelle fatture e nell’estratto conto emessi dall’intermediario, ritenendo che tale omissione in fase di rendicontazione non possa certo comportare la perdita di un diritto contrattualmente previsto, né tantomeno determinare l’insorgere di alcuna responsabilità in capo alla convenuta.
Quanto alle spese e competenze legali (fattura n. 345 di € 25.000,00), il resistente ha innanzitutto precisato che “la debenza di tale importo da parte della società cedente è stata espressamente pattuita” in un incontro avvenuto presso la sede operativa
dell’intermediario con il responsabile delegato della società ricorrente alla fine del mese di settembre 2014 (dunque nell’imminenza del pagamento da parte del Comune della somma di € 499.996,50, avvenuto il successivo 3 ottobre). Ha in ogni caso riferito che, anche a prescindere da una specifica pattuizione sul punto, tali spese sono senz’altro dovute dalla cedente ai sensi dell’art. 1267 c.c. Non può, infatti, affermarsi – come vorrebbe la ricorrente - che tali spese siano comprese nella commissione del 2,3% pattuita all’art.4 del contratto di factoring, attesa la diversa natura di tale commissione. Trattasi, infatti, della componente tipica di prezzo pagata dal cedente a fronte del complesso delle sole attività contabili e amministrative connesse con la gestione dei crediti ceduti. L’applicabilità della disciplina civilistica in tema di cessione del credito al rapporto de quo, d’altra parte, è stata espressamente richiamata in entrambi i negozi stipulati tra le parti (art. 6 del contratto notarile e art. 11 della scrittura integrativa), così come la natura pro solvendo della cessione (artt. 2 e 7 dei predetti documenti), da cui discende l’obbligo del cedente di rimborsare al cessionario le spese legali.
Ha inoltre precisato che l’ammontare delle spese legali è stato notevolmente contenuto,
considerato che le stesse sono risultate di gran lunga superiori all’importo addebitato con la fattura n. 345, alla luce dell’attività processuale effettivamente svolta nell’ambito degli innumerevoli giudizi intrapresi nei confronti dell’Amministrazione Comunale debitrice (ha all’uopo elencato e descritto i diversi procedimenti intrapresi contro il debitore e il proprio tesoriere, sia dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, sia dinanzi al giudice amministrativo). Ha soggiunto, peraltro, che la proposizione della maggior parte dei suddetti procedimenti giudiziari “si è resa necessaria principalmente a causa delle erronee e/o equivoche informazioni” rese dalla ricorrente sulla pendenza o meno del giudizio di impugnazione avverso il lodo arbitrale n. 865/2011 e che, se adeguatamente rappresentate, avrebbero reso più agevole e fruttuoso il recupero del credito, limitando i ripetuti esborsi (in particolare, con riferimento al giudizio di xxxxxxxxxxxx dinanzi al TAR, conclusosi con esito negativo stante il mancato passaggio in giudicato del lodo a causa della pendenza - non dichiarata dalla cedente – del giudizio di impugnativa dinanzi alla Corte d’Appello).
In merito, infine, alla doglianza circa l’incasso della somma oltre il termine concordato, ha
osservato che a seguito della stipula del negozio di cessione, sia pure pro solvendo, il cessionario “diviene titolare esclusivo del credito […] e, quindi, del potere di compiere ogni atto dispositivo – ivi compreso quello di concludere transazioni con il debitore ceduto – a prescindere da qualunque determinazione da parte del cedente”. Nel caso di specie, inoltre, l’efficacia e l’opponibilità della cessione del credito in favore della resistente e nei confronti del Comune “è stata definitivamente affermata” dal Consiglio di Stato. Il trasferimento della titolarità del credito in capo alla cessionaria, dunque, legittimava senz’altro la resistente ad accettare in pagamento qualunque importo dal debitore ceduto, senza bisogno di alcun intervento o autorizzazione della cedente, ormai spogliatasi del relativo diritto. Ciò premesso, ha comunque riferito che nel caso di specie il pagamento della somma complessiva di € 549.996,50 è avvenuto proprio in esecuzione degli accordi intervenuti tra le parti e l’ente comunale. A quest’ultimo, infatti, con nota del 1° ottobre 2014, l’intermediario manifestava l’espressa volontà di accettare la predetta somma a saldo, stralcio e transazione del credito, purché il relativo pagamento avvenisse al momento della relativa ricezione; ciò sulla base di quanto espressamente indicato all’intermediario dalla società ricorrente con e-mail del 30 settembre precedente. Il versamento della somma a saldo avveniva, dunque, in data 3 ottobre 2014; anzi, era la stessa società ricorrente ad informare la cessionaria dell’imminente pagamento, invitando quest’ultima a girare il saldo residuo in suo favore, una volta contabilizzato l’incasso. In definitiva, la ricorrente ha espressamente acconsentito – per quanto ciò possa valere – all’incasso della somma in questione.
DIRITTO
Come detto, la società ricorrente si duole essenzialmente del fatto che l’intermediario avrebbe applicato (i) commissioni non dovute e (ii) chiesto indebitamente il rimborso delle spese legali sostenute per il recupero del credito ceduto, spese che sarebbero invece già coperte dal corrispettivo contrattualmente pattuito.
La prima doglianza, relativa al supposto carattere indebito della commissione “plus factoring” si presenta priva di fondamento. Nel caso di specie è documentalmente attestato come le parti abbiano espressamente pattuito che sulla somma anticipata si sarebbe dovuta conteggiare, oltre quella base del 2,3%, una commissione aggiuntiva dello 0,30% a partire dal centottantesimo giorno successivo alla stipula del negozio di cessione; la commissione risulta dunque legittimamente applicata, ed anche correttamente calcolata. Né d’altra parte sembra potersi andare in contrario avviso per il solo fatto che l’intermediario ne abbia, erroneamente, omesso la rendicontazione, cogliendo nel segno il rilievo del resistente per cui tale errore, pur se si è tradotto in un deficit di trasparenza sull’andamento del rapporto e sul costo finale dell’anticipazione, non può di per sé bastare a far decadere l’intermediario dall’esercizio di un diritto che ha precisa e chiara fonte nel contratto, e della cui esistenza d’altronde non è immaginabile che la società non si fosse avveduta.
Fondata appare, invece, la seconda doglianza avanzata dalla società, là dove
lamenta il carattere indebito della richiesta di rimborso delle spese legali sostenute dal cessionario per il recupero del credito.
Sotto questo profilo osserva il Collegio, per un verso, che essendo la funzione del factoring proprio quella di esternalizzare, affidandole al factor, le fasi della gestione e del recupero del credito è coerente, in via di principio, che il corrispettivo pattuito per il servizio, quando determinato in una misura percentuale pari all’ammontare del credito ceduto, vada a remunerare il servizio nel suo insieme, e dunque sia determinato, salva diversa contraria ed espressa pattuizione, già tenendo conto anche delle eventuali spese sostenute per lo svolgimento di tale attività.
D’altra parte a queste considerazioni di ordine generale deve aggiungersi che nel caso di specie l’interpretazione delle clausole del contratto depone chiaramente nel senso che le spese per le attività legali di eventuale recupero del credito erano assorbite nella commissione c.d. base. Dirimente appare, sotto questo profilo, la pattuizione dell’art. 4 della scrittura integrativa se letta (come del resto impongono i generali principi di ermeneutica contrattuale) in connessione con il disposto dell’art. 8 della medesima: la circostanza, infatti, che le parti abbiano espressamente pattuito - a fronte dell’attribuzione al factor non solo della gestione amministrativa del credito ceduto, ma anche del potere di procedere al suo incasso e di promuovere le azioni giudiziarie necessarie per il recupero - che «la commissione del 2,3% sul valore nominale del credito (..) è da intendersi quale importo spettante al cessionario per la gestione del credito e per tutte le attività connesse», non lascia adito a dubbi sul fatto che in tale ambito fossero, per espressa volontà delle parti, ricomprese anche quelle giudiziarie strumentali all’incasso del medesimo.
Quanto precede sembra obiettivamente assorbente. Né a diversa conclusione si può
giungere evocando – come vorrebbe il resistente – la disposizione dettata dall’art. 1267
c.c. Il richiamo alla norma del codice civile – che prevede che quando il cedente abbia garantito la solvenza, il cedente oltre a rispondere nei limiti di quanto ricevuto deve anche rimborsare al cessionario le spese sostenute per escutere il debitore ceduto – non è, all’evidenza, pertinente nel caso di specie.
Gli è che il naturale ambito di operatività della disposizione è rappresentato dal fatto che il
cessionario debba attivare la garanzia in conseguenza dell’insolvenza del debitore ceduto, ossia dal caso in cui quest’ultimo non paghi. Solo in questa evenienza si giustifica, infatti, che il cedente debba tenere indenne il cessionario delle spese sostenute per le attività volte all’escussione, appunto perché in caso di insolvenza queste sono inutilmente sopportate; l’applicazione della disposizione non troverebbe, invece, alcuna giustificazione nell’ipotesi in cui il debitore ceduto, sia pure a seguito di un azione giudiziaria di recupero, paghi, appunto perché in questo caso il cessionario soddisfa attraverso l’incasso del credito un interesse esclusivamente proprio (come del resto nota, seppure ad altro fine, il resistente, il cessionario è il titolare del credito, sicché le attività per il recupero, in caso di incasso del credito, sono svolte nell’interesse proprio).
P.Q.M.
In parziale accoglimento del ricorso, il Collegio dichiara la ricorrente non tenuta al pagamento delle spese legali richieste dall’intermediario.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario corrisponda alla Banca d’Italia la somma di € 200,00 quale contributo alle spese della procedura e al ricorrente la somma di € 20,00 quale rimborso della somma versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1