Jobs Act: la forma nella risoluzione del rapporto di lavoro
Articolo pubblicato sul numero 44|2015 del 16/11/2015
Jobs Act: la forma nella risoluzione del rapporto di lavoro
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Analizziamo di seguito le norme che regolamentano le diverse forme di estinzione del rapporto di lavoro e le modalità operative e procedurali ad esse collegate, anche alla luce delle nuove disposizione introdotte dal Jobs Act
La risoluzione del contratto di lavoro trova la sua disciplina legale nelle norme codicistiche, in quelle speciali di settore e nella disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti; prima però di focalizzare l’attenzione sugli aspetti relativi alla forma nelle diverse ipotesi di risoluzione del rapporto, appare utile fornire dei brevi cenni sulle caratteristiche dell’istituto in argomento.
Lavoro : Rapporto di lavoro : Recesso Lavoro : Rapporto di lavoro : Dimissioni Lavoro : Rapporto di lavoro : Licenziamento Cod.Civ. art. 1324
Cod.Civ. art. 1372
Cod.Civ. art. 2118
X.Xxxx. sent. n. 18731 del 6 agosto 2013
X.Xxxx. sent. n. 20685 del 14 ottobre 2015
X.Xxxx. sent. n. 617 del 1 febbraio 1989
X.Xxxx. SS.UU. sent. n. 6527 del 24 aprile 2003
Legge n. 92 del 2012, art. 4
D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 26
Cause di risoluzione del rapporto
Tra le cause principali di estinzione del rapporto di lavoro si rinvengono innanzitutto il licenziamento e le dimissioni: il primo è una manifestazione della libertà morale, mentre il secondo è espressione di un interesse patrimoniale del datore di lavoro e dunque della libertà di iniziativa economica; l’estinzione del rapporto di lavoro può anche avvenire per esplicito accordo delle parti, per mutuo consenso (art. 1372, c. 1, c.c.) che dà luogo alla c.d. risoluzione consensuale del contratto.
Sotto il profilo giuridico – a parte l’ultima ipotesi – la risoluzione del rapporto di lavoro costituisce un atto unilaterale (art. 1324 c.c.), in quanto espressione della volontà di una sola delle parti del contratto, e recettizio, in quanto diretto a produrre effetti nella sfera giuridica dell’altra.
Nei contratti di durata, quali il rapporto di lavoro, il recesso volontario ha lo scopo di disporre la risoluzione del vincolo contrattuale per volontà unilaterale di una parte e, quindi, ha la funzione tipica di delimitare nel tempo, mediante la fissazione di un termine, l’efficacia del contratto e di
perseguire l’interesse, ritenuto meritevole di tutela, alla sua risoluzione unilaterale.
L’art. 2118 c.c. prevede, infatti, che ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’unico obbligo di dare preavviso nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, secondo gli usi o l’equità.
In caso contrario il recedente è tenuto a corrispondere all’altra parte un’indennità di natura risarcitoria, detta indennità di mancato preavviso, corrispondente all’importo delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso.
Accanto al recesso ordinario con preavviso ed in conformità ai principi generali, in presenza di anomalie funzionali del rapporto, come l’inadempimento di un’obbligazione sinallagmatica, al recesso ordinario si sostituisce il recesso straordinario, intimato senza preavviso e dunque con effetto immediato.
Al riguardo, il codice civile prevede che il recesso di entrambi i contraenti dal contratto di lavoro possa essere immediato qualora si verifichi una causa che non consenta, ai sensi dell’art. 2119 x.x., xx xxxxxxxxxxxx, xxxxx xxxxxxxxxxx, xxx xxxxxxxx; in presenza di tale condizione, definita giusta causa, il contraente interessato potrà recedere immediatamente dal contratto di lavoro.
Il licenziamento
L’art. 2 co. 1 della Lgge n. 604/1966, sancisce l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenziamento a pena di inefficacia del recesso.
Il licenziamento, dunque, è un negozio unilaterale recettizio a forma vincolata che si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione di volontà del recedente giunge a conoscenza del destinatario, acquistando così l’idoneità alla produzione dell’effetto voluto.
Invero, la giurisprudenza ha costantemente affermato che il licenziamento che non rivesta la forma scritta ex art. 2 cit. è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, il quale deve essere considerato ancora giuridicamente in atto, con la conseguenza che persiste l'obbligo retributivo a carico del datore di lavoro fino a quando non venga comunicato per iscritto il provvedimento di risoluzione o di estinzione del rapporto (Cass. n. 4498/1999).
Tuttavia, è stato precisato che il requisito della forma scritta del licenziamento viene richiesto ad substantiam (Cass. Sez. Unite n. 5394/1982) resta temperato da un orientamento giurisprudenziale meno restrittivo in ordine alle caratteristiche fattuali della forma scritta del recesso datoriale, secondo cui non sussiste per il datore di lavoro alcun onere di adoperare formule sacramentali potendo comunicare al lavoratore la volontà di licenziare anche in forma indiretta, purché chiara.
Al riguardo è stato ritenuto che la consegna al lavoratore dell'atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto contenga in sé la in equivoca manifestazione della volontà di far cessare il rapporto stesso, con la conseguenza che dalla data di tale consegna decorre il termine per impugnare il licenziamento (Cass. n. 6900/1995).
La forma scritta per l’intimazione del recesso da parte del datore di lavoro è dunque richiesta ad substantiam e, pertanto, il licenziamento individuale intimato senza l’osservanza della forma scritta
è nullo e quindi non produttivo di effetti giuridici; al riguardo, sotto il profilo oggettivo, va ricordato che la Legge n. 108/1990 ha ampliato l’ambito di applicazione della forma scritta del licenziamento a tutti i datori di lavoro, sia imprenditori che non, e a prescindere dall’elemento dimensionale dell’azienda.
Da punto di vista soggettivo, invece l’obbligo della forma scritta riguarda anche i licenziamenti dei dirigenti. Rimangono esclusi dall’applicazione della norma i licenziamenti dei lavoratori domestici, di quelli in possesso dei requisiti pensionistici e in prova.
La sanzione per il difetto di forma scritta è l’inefficacia del licenziamento (art. 2, co. 3, Legge n. 604/1966).
Il nuovo art. 18 della Legge n. 300/1970 ha esteso a tutti i datori di lavoro la disciplina speciale dettata per questa inefficacia dai commi 1-3 del medesimo come novellato dal co. 42 della Legge n. 92/2012; pertanto, si applica l’art.18 anche ai datori di lavoro prima invece esclusi dal suo campo di applicazione nel caso di ingiustificatezza del licenziamento, e cioè a quelli che non possiedono i requisiti dimensionali previsti al comma 8 di tale norma.
Motivazioni del licenziamento
Ai sensi dell’art. 2 co. 2 della citata Legge n. 604/1966, come modificato dall’art. 1 co. 37 della Legge n. 92 del 28.06.2012, la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.
La giurisprudenza ha più stabilmente precisato che il licenziamento è da qualificare come “atto unilaterale recettizio” e che la comunicazione del licenziamento è sottoposta alla disciplina dettata dagli artt. 1334 e 1335 del c.c. la quale stabilisce chiaramente che gli atti unilaterali producono effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati.
In relazione alle modalità di comunicazione del licenziamento, numerosi dubbi sono sorti in merito alla concreta possibilità del datore di lavoro di avvalersi dei vari mezzi che l’ordinamento, ma anche la tecnologia, mette a disposizione quali strumenti per effettuare l'intimazione del licenziamento (si pensi per esempio alla posta elettronica o agli sms).
Al riguardo, la tesi prevalente è nel senso che ciò che occorre garantire, attraverso la prescrizione formale, è essenzialmente la certezza della manifestazione di volontà e la ricezione della stessa da parte del destinatario.
Sotto tale profilo non può essere considerato valido il licenziamento nella forma orale.
Al riguardo, la giurisprudenza (Cass. n. 77/2011), ha affermato che il lavoratore licenziato senza l'osservanza dell'onere della forma scritta, imposto dall'art. 2 della Legge n. 604/1966, può far valere la nullità del licenziamento che non interrompe la continuità del rapporto di lavoro; la mancata esecuzione della prestazione lavorativa, imputabile al datore di lavoro, genera il diritto al risarcimento del danno normalmente pari alle retribuzioni perse.
Il licenziamento intimato oralmente è dunque radicalmente inefficace per inosservanza dell’onere della forma scritta imposto dall’art. 2 della Legge n. 604/1966, novellato dall’art. 2 della Legge 11
maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (Cass. n. 15106/2012).
In sostanza, il licenziamento comunicato solo oralmente non produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le parti, sicché il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva riassunzione.
Licenziamento illegittimo
Va tuttavia ricordato che il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento illegittimo è stato di recente modificato dal legislatore con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015, in materia di “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della legge n. 183 del 2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto un nuovo regime di tutela a favore dei lavoratori illegittimamente licenziati.
La nuova disciplina, che si applica ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto, pur non introducendo alcuna novità per tale forma di recesso, stabilisce che in caso di licenziamento intimato in forma orale, il lavoratore continua ad avere diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e a poter sostituire la reintegra con un’indennità pari a quindici mensilità e, naturalmente al risarcimento del danno.
Per ciò che concerne l’indennità che il datore di lavoro è tenuto a versare al lavoratore a titolo di risarcimento del danno, in caso di licenziamento verbale, il legislatore ha innovato il sistema della base di calcolo che non fa riferimento alla retribuzione globale ai sensi del co. 2 dell’art. 18, ma deve essere commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività.
Mentre per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità, andrà determinata usando come base di calcolo non l’ultima retribuzione globale di fatto, bensì l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Licenziamento e notifica
Il licenziamento intimato all’esito del procedimento di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966 oppure all’esito di un procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della Legge n. 300/1970, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.
La legge fa salvo, in ogni caso, l’effetto sospensivo disposto dalle norme del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
La comunicazione del licenziamento può essere spedita all’indirizzo comunicato dal lavoratore, e qualora si abbia una variazione di domicilio che l’interessato ometta di comunicare, la comunicazione del licenziamento recapitata all’indirizzo originariamente indicato è comunque valida ai fini e per gli effetti dell’art. 1335 c.c.
In alternativa il datore di lavoro può consegnare direttamente nelle mani del lavoratore la lettera di licenziamento e, in tale ipotesi, il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento da parte del lavoratore non toglie che la comunicazione del medesimo sia regolarmente avvenuta (Cass., n. 12571/1999).
Va ricordato, al riguardo, che secondo la giurisprudenza maggioritaria l’atto di accettazione del lavoratore della lettera di licenziamento non equivale ad acquiescenza (Cass. n. 18731/2013), mentre l’utilizzo di forme dell’atto di licenziamento che siano lesive della dignità e dell’onore del lavoratore non sono consentite e danno luogo al risarcimento del danno (Cass. 2010, n. 6845/2010).
Secondo un altro indirizzo può considerarsi valido un licenziamento intimato con una lettera non sottoscritta, ma recante nell’intestazione ed in calce la denominazione dell’impresa ed il nome del titolare, trasmessa con raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riguardo al contenuto e non alla forma (Cass. n. 7044/2010).
Nel caso in cui il destinatario di una raccomandata non dovesse riceverla (per assenza nel luogo di destinazione del destinatario stesso o di altro soggetto abilitato a riceverla o per rifiuto di ricevere la raccomandata) si produce comunque l’effetto di conoscenza del destinatario; in questo caso varrà - ai fini della prova - la data di rilascio dell’avviso di giacenza presso l’ufficio postale e, pertanto, il licenziamento si perfezionerà in tale data e non alla fine della compiuta giacenza (30 giorni) presso l’ufficio postale (Cass. n.1188/2014; Cass. Sez. Unite n. 6527/2003).
Invero, qualora la comunicazione del provvedimento di licenziamento venga effettuata dall’azienda al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale.
Quindi per legge, se il destinatario rifiuta di ricevere la raccomandata, la stessa viene posta in giacenza presso l’Ufficio Postale competente e, sempre per legge, dopo il periodo di deposito di 10 giorni (la c.d. “compiuta giacenza”) la raccomandata si presume conosciuta da parte del soggetto che la deve ricevere.
Il tutto, naturalmente, se l’indirizzo del destinatario è corretto e se il medesimo risulta residente o domiciliato a tale indirizzo.
L’operatività del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza, infatti, quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione.
D’altra parte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1335 c. c., è sufficiente osservare che tale disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza ivi prevista soltanto mediante la prova, da parte
del destinatario, di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto.
La prova richiesta dalla legge per poter vincere la presunzione legale, deve necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non potendo cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (Cass. 25824/2013).
Secondo un ulteriore indirizzo, è da considerarsi equivalente alla forma scritta anche il telegramma, dettato per telefono, del quale sia chiara la provenienza dell’autore della dichiarazione, sicché è applicabile estensivamente la regola relativa al telegramma consegnato o fatto consegnare all’ufficio postale dal mittente (Cass., n. 12256/2000).
L’avvenuta e regolare notifica è importante principalmente sotto il profilo processuale poiché il licenziamento, a pena di decadenza, deve essere impugnato entro 60 giorni che iniziano a decorrere dal giorno in cui il lavoratore ha ricevuto la lettera di comunicazione o, meglio, da quando detta comunicazione è pervenuta all’indirizzo del lavoratore; viene sempre fatta salva la dimostrazione, da parte di quest’ultimo, che egli senza sua colpa è stato impossibilitato ad avere conoscenza della lettera di licenziamento.
Al riguardo, giova ricordare che è necessario che la spedizione della contestazione deve essere effettuata entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, anche se tale missiva venga ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine: così, per esempio, il lavoratore ben potrebbe portare la raccomandata all’ufficio posta il 59° giorno, anche se l’azienda la riceve il 70° giorno.
Le dimissioni
Alla libertà del lavoratore di sciogliere il rapporto contrattuale si è tradizionalmente accompagnata la libertà di forma sia per le dimissioni che per il mutuo consenso.
Poteva così avvenire che sia il primo (dimissioni) che il secondo (mutuo consenso) fossero utilizzati dal datore di lavoro per mascherare il licenziamento orale.
Nel 2007 il legislatore era intervenuto con la Legge n. 188, per proteggere il lavoratore dalle c.d. "dimissioni in bianco", ma la forma scritta e le modalità di certificazione della data, ottenibili peraltro solo attraverso una macchinosa procedura telematica, non impedivano la simulazione della risoluzione per mutuo consenso; la riforma introdotta con la Legge n. 92/2012, senza prescrivere la forma scritta, sottopone sia il recesso che la risoluzione consensuale a procedure di convalida o, alternativamente, di conferma e perviene, con disposizione del tutto innovativa, a rafforzare la tutela del lavoratore fino a consentirgli la facoltà di revoca delle dimissioni e, anche in contrasto con le norme generali dei contratti, della risoluzione consensuale. Tutto ciò in un contesto di regole che prevedono termini brevi e scanditi da una rigida successione di atti, nell'intento di evitare incertezze circa gli effetti dei comportamenti tenuti.
Per unanime orientamento, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto; stante tale natura, a mente dell’art. 1334 c.c., una volta comunicate al datore, le dimissioni producono il cd. effetto risolutorio,
indipendentemente dalla loro accettazione da parte del destinatario (Cass. n. 9575/2011).
Le dimissioni non richiedono, per produrre l’effetto risolutivo del rapporto, l’accettazione del datore di lavoro, ma soltanto la comunicazione al medesimo e il rispetto dei requisiti di forma introdotti dalla Legge n. 92/2012.
In quanto atto tra vivi avente contenuto patrimoniale, la dichiarazione di recesso dal rapporto del prestatore di lavoro soggiace, ai sensi dell’art. 1324 c.c., alle norme che regolano i contratti, comprese quelle in tema di annullabilità per vizi della volontà (Xxxxxxxx, S., Dimissioni e risoluzione consensuale, in Xxxxxxx, F., diretto da, Diritto del lavoro, vol. III, Torino, 2007).
Attesa, tuttavia, la posizione di debolezza del lavoratore nell’ambito del rapporto contrattuale, tale volontà deve essere accertata in modo rigoroso; al riguardo, il legislatore, nel 2012, ha previsto una disciplina organica della materia, applicabile oggi alla totalità dei lavoratori: il lavoratore può rassegnare le proprie dimissioni presentando una lettera che necessariamente non deve contenere le motivazioni poste a fondamento della sua decisione.
In linea generale, la giurisprudenza ha più volte affermato che per le dimissioni non esistono vincoli di forma, salvo diversa previsione dei contratti collettivi o individuali, in tal caso, quest’ultima si presume voluta per la validità dell’atto di dimissioni, a norma dell’art. 1352 c.c., applicabile anche agli atti unilaterali, con la conseguenza che le dimissioni potrebbero essere comunicate anche in forma orale ovvero, secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario, anche per fatti concludenti (Cass. n. 617/1989).
Con l’entrata in vigore della riforma del 2012 in materia di convalida delle dimissioni (Xxxxx n. 92/2012, art. 4, co. 17 - 23-bis), tale conclusione non può più essere considerata valida.
Al riguardo, ad una parte della dottrina, sebbene l’ordinamento giuridico non ponesse vincoli di forma in materia di dimissioni, è apparso tuttavia utile, se non necessario, che la manifestazione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro da parte del prestatore di lavoro trovi espressione in un atto piuttosto che in un semplice comportamento concludente, non potendo ritenersi valida e applicabile in materia di diritto del lavoro la clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), ossia la previsione della attribuzione al comportamento di una delle parti del rapporto contrattuale di un significato implicito con effetti definitivi sulla continuità dello stesso.
Ciò in quanto, secondo tale indirizzo le dimissioni costituirebbero nella materia che ci occupa un atto a forma vincolata nel quale deve risultare sempre chiara e incontrovertibile la volontà del prestatore di lavoro di porre termine al rapporto di lavoro (X. XXXXXXXX, Diritto del lavoro, 2012).
Appare evidente che, il requisito della forma in tale ambito acquista una connotazione del tutto nuova non fosse altro che per garantire anche l’adeguata tracciabilità documentale dell’intero processo di formazione della volontà di recesso da parte del prestatore di lavoro (DAL BON, XXXXXXXX, XXXXXXX, Cessazioni del rapporto di lavoro, 2014).
Un altro aspetto da considerare riguarda l’istituto della revoca.
Nel termine di sette giorni dall’invito del datore di lavoro alla convalida, il lavoratore può revocare sia le dimissioni che la risoluzione consensuale, una facoltà, quest'ultima, che la nuova norma
attribuisce al lavoratore in deroga alla disciplina generale dei contratti che non l'ammette fra le cause estintive dei negozi bilaterali.
In questo caso la legge prescrive, per la comunicazione della revoca, l’obbligo della forma scritta.
La risoluzione consensuale
La recente giurisprudenza è dell’avviso che affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che la valutazione del significato e della portata del complesso dei predetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità in assenza di vizi logici o errori di diritto (Cass. n. 20685/2015).
Nel caso specifico, il datore di lavoro aveva inviato al lavoratore una missiva con cui comunicava allo stesso la cessazione anticipata del rapporto e quest’ultimo apponeva la sua firma per ricevuta e conoscenza; al riguardo, i giudici di legittimità ritenevano che il solo fatto di avere sottoscritto tale lettera di cessazione anticipata, predisposta unilateralmente dal datore di lavoro, non consentiva di desumere una chiara ed inequivoca volontà del lavoratore di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.
In questo caso si poteva affermare che non è previsto alcun vincolo di forma, quindi l’accordo risolutivo può essere raggiunto oralmente o per fatti concludenti. Diverse dalla risoluzione consensuale, quale accordo individuale direttamente estintivo del rapporto, sono le c.d. clausole di risoluzione automatica, spesso inserite nei contratti collettivi, che prevedono la futura cessazione del rapporto al verificarsi di un determinato evento, senza necessità di recesso e di preavviso, sulla cui legittimità dottrina e giurisprudenza sono ancora divise.
Le dimissioni in bianco
Il D.Lgs. n. 151/2015, in attuazione della delega contenuta nell’art.1, co, 6, lett. g, della Legge n. 183/214, al fine di dare un colpo decisivo alla pratica delle dimissioni in bianco che ha finora colpito, in particolare, le donne lavoratrici, ha introdotto, all'art. 26, ulteriori norme mirate alla eliminazione della pratica cosiddetta delle dimissioni in bianco, con l'obiettivo di introdurre, modalità semplificate per effettuare le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali attraverso il sito istituzionale. Nessun'altra forma di effettuazione di dimissioni sarà più valida.
Su questo versante il legislatore ha proceduto per tappe.
Un primo intervento, in tema di forma diretto a condizionare l’efficacia delle dimissioni, era stato introdotto dalla Legge n. 53/2000, con lo scopo di tutelare i lavoratori (madre e padre) durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento; per tale tipologia di lavoratori, l’efficacia dell’atto delle dimissioni veniva subordinata dalla citata legge n. 53 alla convalida da parte del servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro.
L’esigenza di contrastare il ripugnante fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco aveva successivamente indotto il legislatore ad introdurre una disciplina specifica delle dimissioni con la
Legge n. 188/2007, la quale prescriveva un vincolo di forma ad substantiam condizionante l’efficacia risolutiva dell’atto di recesso del lavoratore.
La normativa del 2007 sanciva che l’atto di dimissioni, pena la sua nullità, doveva essere reso avvalendosi di appositi moduli predisposti e resi disponibili gratuitamente da uffici specificati (Direzioni Territoriali del Lavoro - allora Direzioni Provinciali del Lavoro, dagli uffici comunali, dai centri per l'impiego ovvero telematicamente sul sito del Ministero del lavoro).
L’obiettivo era quello di garantire che l’atto proveniente dal lavoratore fosse genuino, cioè espressione della sua libera volontà e che lo stesso avesse una data certa, non antecedente di quindici giorni il momento della presentazione delle dimissioni al datore di lavoro.
Tele disciplina condusse a diverse problematiche applicative che qui non è il caso di approfondire che indusse il legislatore ad abrogarla con il D.L. n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008.
In merito, il legislatore è nuovamente intervenuto con la legge n. 92/2012 (cd. “Riforma Fornero), introducendo specifici vincoli di forma che però non hanno toccato l’atto di dimissioni, che rimane un atto a forma libera, quanto piuttosto incidono sulla possibilità dell’atto di dimissioni di dispiegare i propri effetti.
Da ultimo, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia, tramite l’adozione di una Legge delega (la n. 183/2014) con la quale si dava mandato al Governo di emanare uno o più decreti legislativi destinati a prevedere modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso o della lavoratrice o del lavoratore.
Una delle conseguenze pratiche a seguito della promulgazione della Legge Fornero e poi del recente decreto Jobs Act riguarda dunque l’abrogazione del principio generale della libertà della forma, secondo cui era possibile valutare l’idoneità ad estinguere il rapporto di lavoro di comportamenti o fatti concludenti posti in essere dal lavoratore, astrattamente incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto contrattuale.
Allo stato attuale, a seguito dell’entrata in vigore delle predette normative, l’efficacia delle dimissioni è subordinata al rispetto di precisi oneri formali.
La nuova disciplina, tuttavia, secondo parte della dottrina, non altera la natura dell’atto di dimissioni che rimane un atto a forma libera che non necessita della indicazione di un motivo quale condizione di validità. I nuovi vincoli di forma sono infatti qualificati dalla norma come requisiti condizionanti l’efficacia dell’atto.
Il legislatore, al riguardo, ha opportunamente equiparato, sul piano dei requisiti di forma, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto; l’efficacia dell’atto di dimissioni (e dell’accordo di risoluzione consensuale) è dunque subordinata dalla legge al procedimento della convalida.
In base alle nuove regole, dunque, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (e le dimissioni in generale) devono avvenire, a pena di inefficacia, unicamente con modalità telematiche su appositi
moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro attraverso il proprio sito istituzionale e trasmessi al datore titolare del rapporto e alla Direzione Territoriale del lavoro competente con le modalità individuate che saranno individuate con il decreto del Ministro del lavoro – da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151.
Nell’emanando provvedimento si dovranno indicare i dati di identificazione del rapporto di lavoro da cui si intende recedere o che si intende risolvere e i dati di identificazione del datore di lavoro e del lavoratore, nonché le modalità di trasmissione e gli standard tecnici atti a definire la data certa di trasmissione.
Una volta che sarà stato emanato il decreto con le specifiche tecniche, il lavoratore potrà agire direttamente oppure potrà rivolgersi, per l’invio delle proprie dimissioni, anche ai patronati, alle organizzazioni sindacali, agli enti bilaterali, nonché alle commissioni di certificazione.
Nella fase transitoria - e cioè fino all’emanazione del citato decreto - resta valida la procedura di cui alla legge Fornero, che ai fini dell’efficacia delle dimissioni prevede che il lavoratore debba alternativamente procedere alla convalida presso la DTL o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, o ancora le sedi individuate dai CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
L’alternativa a tale procedura sta nella sottoscrizione del lavoratore di una dichiarazione apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro.
E’ importante dunque da parte del datore provvedere alla notifica al lavoratore della c.d. lettera di invito alla convalida, cioè di un invito scritto a presentarsi presso la Direzione territoriale del lavoro o presso il centro per l'impiego per la convalida, ovvero ad apporre l’apposita sottoscrizione.
La comunicazione contenente l'avviso si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o altro domicilio dallo stesso formalmente comunicato, o consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.