Edizione di martedì 14 giugno 2022
Edizione di martedì 14 giugno 2022
Obbligazioni e contratti
Il valore della prenotazione nei contratti a distanza conclusi con mezzi elettronici
di Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Obbligazioni e contratti
Misure protettive chieste da una società di costruzioni e rapporti con i creditori bancari
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Avvocato
Impugnazioni
I presupposti del ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Procedimenti cautelari e monitori
Gli effetti del decreto ingiuntivo nei confronti del debitore fallito, successivamente tornato in bonis
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Obbligazioni e contratti
Condizione sospensiva e abuso della personalità giuridica
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Comunione – Condominio - Locazione
Il bene comune può essere impiegato da ciascun condomino ma entro i limiti sanciti dall’art. 1102 c.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Dottore in giurisprudenza
Diritto successorio e donazioni
Obbligo per il chiamato all’eredità di compiere l’inventario entro tre mesi dal giorno di apertura della successione
di Xxxxxxx Xx Xxxx, Notaio
Diritto e reati societari
Decade automaticamente il sindaco che non partecipa all’assemblea senza addure giustificato motivo
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Dottoressa in legge e Assistente didattico presso l’Università degli
Studi di Bologna
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Prosecuzione del giudizio di impugnazione di un lodo arbitrale e sopravvenienza del fallimento
di Xxxxxx Xxxxxxx, Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona
Diritto Bancario
Art. 1957 c.c. e contratto autonomo di garanzia: oscillazioni giurisprudenziali
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Soft Skills
La sostenibilità diventa billable
di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx - Senior partner Marketude
Il valore della prenotazione nei contratti a distanza conclusi con mezzi elettronici
di Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Sintesi
Nel procedimento di conclusione di un contratto d’albergo a distanza per mezzo di una piattaforma di intermediazione occorre valutare se, cliccando il pulsante di “prenotazione” on line, il consumatore si stia effettivamente impegnando a pagare il professionista. A tal fine è indispensabile che tale pulsante riporti una dicitura facilmente leggibile che chiarisca inequivocabilmente il sorgere del vincolo al pagamento. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza (C?249/21, 7 aprile del 2022) su un contenzioso avviato da un albergo contro un consumatore per un contratto concluso secondo il diritto tedesco attraverso xxxxxxx.xxx.
Il fatto
La sentenza riporta che Xxxxxxxx-2, società proprietaria dell’hotel Xxxxxxxx Xxxxx, sito in una cittadina tedesca, offriva all’epoca della vicenda esaminata le proprie camere anche sulla piattaforma online xxxxxxx.xxx.
Un consumatore interessato ad un soggiorno presso l’hotel Xxxxxxxx Xxxxx visualizzava l’annuncio su xxxxxxx.xxx con tutte le informazioni relative al soggiorno e al periodo prescelto e cliccava sul pulsante “prenoto”, inserendo i suoi dati e quelli dei suoi accompagnatori. Il consumatore cliccava infine sul pulsante “completa la prenotazione”. Il giorno previsto per il soggiorno tuttavia, non si presentava presso l’hotel.
La Xxxxxxxx-2, conformemente alle sue condizioni generali, addebitava al consumatore le spese di cancellazione, fissando un termine di cinque giorni lavorativi per il pagamento di tale importo. In mancanza del pagamento da parte del consumatore la Società adiva il Tribunale di Bottrop (Germania), al fine di recuperare l’importo. Il Tribunale decideva di sospendere il
giudizio e adire la Corte di Giustizia UE, per chiedere se, “in relazione alla dicitura «completa la prenotazione» riportata sul pulsante di prenotazione del sito Internet xxx.xxxxxxx.xxx, possa ritenersi adempiuto l’obbligo” previsto dalla normativa tedesca “che recepisce … l’art. 8, par. 2, co.2, della direttiva 2011/83” sui diritti dei consumatori e se dunque attraverso la mera prenotazione su xxxxxxx.xxx si potesse ritenere concluso validamente il contratto d’albergo.
La direttiva 2001/83/UE e i contratti a distanza
La direttiva 2011/83/UE, sui diritti dei consumatori, ha come scopo un elevato livello di tutela dei consumatori, assicurando la loro informazione e la loro sicurezza nelle transazioni con i professionisti. Una tutela da bilanciare, come enunciato dal considerando 4 di tale direttiva, con un’adeguata tutela anche della competitività delle imprese, rispettando le libertà dell’imprenditore sancita all’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
E’ alla luce di tale obiettivo che l’art. 8, par. 2, della direttiva 2011/83/UE impone al professionista un certo numero di requisiti formali per i contratti a distanza conclusi “con mezzi elettronici”, in presenza dei quali sorge validamente l’obbligo del consumatore di pagare il professionista.
In particolare, il professionista deve comunicare al consumatore in modo chiaro ed evidente, direttamente prima che il consumatore inoltri il suo ordine, le informazioni di cui all’articolo 6, paragrafo 1, lettere a), e), o) e p) della Direttiva, ovvero:
“a) le caratteristiche principali dei beni o servizi, nella misura adeguata al supporto e ai beni o servizi;
“e) il prezzo totale dei beni o dei servizi comprensivo delle imposte” o delle modalità di calcolo del prezzo compreso di tutte le spese accessorie aggiuntive
“o) la durata del contratto, se applicabile, o, se il contratto è a tempo indeterminato o è un contratto a rinnovo automatico, le condizioni per recedere dal contratto;”
p) se applicabile, la durata minima degli obblighi del consumatore a norma del contratto;”
Il co.2 del par. 2 dell’art. 8 della Direttiva impone poi che il professionista debba garantire, al momento dell’inoltro dell’ordine, che il consumatore ben comprenda che la prenotazione implica l’obbligo di pagare. Dispone infatti “nel caso in cui l’attivazione di un pulsante o di una funzione analoga sia necessaria per inoltrare l’ordine, il pulsante o la funzione analoga devono riportare in modo facilmente leggibile soltanto le parole «ordine con obbligo di pagare» o una formulazione corrispondente inequivocabile indicante che il fatto di inoltrare l’ordine implica l’obbligo, per il consumatore, di pagare il professionista.” In caso contrario, il consumatore non è vincolato dal contratto o dall’ordine.
La questione posta ai giudici europei
Con il rinvio alla Corte europea il giudice tedesco richiedeva se
“una formulazione presente sul pulsante di inoltro dell’ordine o su una funzione analoga, come la formulazione «conferma la prenotazione», «corrisponda» alla dicitura «ordine con obbligo di pagare»” ai sensi della citata direttiva e se
“occorre basarsi sulla sola dicitura riportata su tale pulsante o su tale funzione analoga oppure se occorra anche prendere in considerazione le circostanze che accompagnano il processo di inoltro di un ordine.”(X. Xxxxx. Sent. 7 aprile 2022, par. 19)
Il momento e il significato della prenotazione
Secondo la Corte di Giustizia UE risulta chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 8, par. 2, co.2, seconda frase, della Direttiva 2011/83, in combinato disposto con il termine
«espressamente» di cui all’art. 8, par. 2, co.2, prima frase, di quest’ultima, “che è il pulsante o la funzione analoga che deve contenere la formulazione di cui a tale disposizione” Ne consegue che “solo la dicitura riportata su tale pulsante o su tale funzione analoga deve essere presa in considerazione per determinare se il professionista abbia adempiuto l’obbligo ad esso incombente di garantire che, al momento di inoltrare l’ordine, il consumatore riconosca espressamente che l’ordine implica l’obbligo di pagare.”
Ciò anche alla luce del Considerando 39 della direttiva che afferma l’importanza di “garantire che, in tali situazioni, il consumatore possa determinare il momento in cui si assume l’obbligo di pagare il professionista e che è opportuno pertanto attirare in modo specifico l’attenzione del consumatore, mediante una formulazione inequivocabile, sul fatto che l’inoltro di un ordine comporta l’obbligo di pagare il professionista.”
Pertanto, i professionisti sono liberi di ricorrere a qualsiasi dicitura di loro scelta, purché risulti chiaramente e inequivocabilmente che il consumatore è vincolato all’obbligo di pagare non appena attivi il pulsante di inoltro di un ordine o la funzione analoga.
Pertanto, la sentenza offre certamente un eccellente strumento interpretativo per l’individuazione del momento rilevante ai fini della conclusione del contratto di ospitalità in struttura ricettiva tramite prenotazione alberghiera effettuata online cliccando sul pulsante “prenoto”. Altrettanto utili sono le indicazioni in merito alle modalità attraverso le quali al concetto di “prenotazione” può essere associato il vincolo di pagamento del corrispettivo al professionista. Non viene trattato invece il tema nascente dallo sdoppiamento della figura del “professionista”, nei casi in cui il ruolo della piattaforma xxxxxxx.xxx, destinataria dell’obbligo di corretta informazione al consumatore, non coincida con quella dell’albergatore, il contraente verso cui nasce (o meno) l’obbligo di pagamento in capo al consumatore.
Conclusioni
Al Giudice del rinvio spetta ora verificare se il termine “prenotazione” utilizzato dalla piattaforma xxxxxxx.xxx “sia, in lingua tedesca, tanto nel linguaggio corrente quanto nella mente del consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, necessariamente e sistematicamente associato al sorgere di un obbligo di pagare”.
Misure protettive chieste da una società di costruzioni e rapporti con i creditori bancari
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Avvocato
Tribunale di Pescara, 5 maggio 2022, Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Parole chiave
Composizione negoziata – Misure protettive – Conferma
Xxxxxxx: “Nell’ambito della composizione negoziata della crisi d’impresa, le misure protettive chieste dall’imprenditore indebitato vanno confermate dal tribunale quando sussiste il rischio che altrimenti i creditori avviino iniziative giudiziarie atte a pregiudicare il buon esito delle trattative”.
Disposizioni applicate
Art. 5 d.l. n. 118/2021 (accesso alla composizione negoziata e suo funzionamento), art. 6 d.l. n. 118/2021 (misure protettive), art. 7 d.l. n. 118/2021 (procedimento relativo alle misure protettive e cautelari)
CASO
Una società immobiliare versa in difficili condizioni finanziarie e presenta al giudice competente (Tribunale di Pescara) ricorso per la conferma delle misure protettive già chieste con la domanda di composizione negoziata depositata presso la Camera di commercio di Pescara. La parte ricorrente chiede che il giudice vieti ai creditori di acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore e di avviare azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore. Inoltre la società ricorrente chiede che il Tribunale di Pescara vieti ai creditori di provocare la risoluzione dei contratti di mutuo pendenti. La richiesta viene formulata per un periodo di 120 giorni.
Si costituiscono in giudizio alcuni creditori e l’esperto rende il suo parere. Emerge che l’eventuale esito negativo delle trattative e il mancato raggiungimento di un accordo con gli istituti finanziari esporrà la società debitrice a un inevitabile rientro rispetto alle anticipazioni ricevute e alle garanzie rilasciate, posto che si tratta di istituti che vantano ingenti crediti di natura finanziaria in parte assistiti da garanzia ipotecaria. I creditori manifestano la volontà di partecipare alle trattative.
SOLUZIONE
Il Tribunale di Pescara rileva che sono soddisfatti tutti i presupposti per la conferma delle misure protettive. Pur essendo apprezzabile la volontà delle banche di partecipare alle trattative in corso, vi è il rischio che le banche possano proseguire con condotte ostili all’imprenditore risolvendo i mutui o i fidi oppure iscrivendo ulteriori garanzie sui beni ovvero iniziando azioni esecutive o cautelari sul patrimonio della società debitrice. In conclusione il Tribunale di Pescara conferma le misure di protezione nei confronti di tutti i creditori, stabilendo il permanere dell’efficacia di tali misure sino a 120 giorni dalla pubblicazione del suo provvedimento. Il giudice pescarese avverte i creditori che non possono unilateralmente rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza di applicazione delle misure protettive.
QUESTIONI
Il d.l. 24 agosto 2021, n. 118 contiene “misure urgenti in materia di crisi d’impresa”. Il testo normativo, che è poi stato convertito in legge (l. 21 ottobre 2021, n. 147), disciplina l’istituto della composizione negoziata della crisi d’impresa, affidata a un esperto nominato dalla camera di commercio. L’art. 2 comma 1 d.l. n. 118/2021 prevede che “l’imprenditore commerciale o agricolo che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico- finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza può chiedere al segretario generale della camera di commercio … la nomina di un esperto indipendente quando risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”. Poi l’art. 5 comma 5 d.l. n. 118/2021 stabilisce che “l’esperto … convoca senza indugio l’imprenditore per valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento”.
Nell’ambito di questo procedimento “l’imprenditore può chiedere … l’applicazione di misure protettive del patrimonio” (art. 6 comma 1 d.l. n. 118/2021). La legge prevede altresì che “quando l’imprenditore formula la richiesta … con ricorso presentato al tribunale competente ai sensi dell’articolo 9 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, lo stesso giorno della pubblicazione dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto, chiede la conferma o la modifica delle misure protettive” (art. 7 comma 1 d.l. n. 118/2021). Dal canto suo “il tribunale … procede … ai provvedimenti di conferma, revoca o modifica delle misure protettive” (art. 7 comma 4 d.l. n. 118/2021).
Questo complesso di disposizioni mira ad assicurare una soluzione veloce ed equilibrata della crisi d’impresa, affidata a trattative stragiudiziali, con un intervento minimale dell’autorità giudiziaria. Al fine di facilitare il buon esito delle trattative, gli articoli esaminati consentono – fra l’altro – di ottenere dal giudice una sospensione delle azioni giudiziarie pendenti. Sennonché l’autorità giudiziaria non ha l’obbligo di confermare le misure protettive richieste dal debitore. La circostanza risulta chiara già dal fatto che l’art. 7 comma 4 d.l. n. 118/2021 attribuisce poteri diversificati al giudice: egli può sì “confermare” le misure, ma anche “modificarle” o addirittura “revocarle”.
Per decidere positivamente in merito alla conferma delle misure protettive richieste, bisogna che siano soddisfatti i presupposti di legge per la procedura di composizione negoziata della crisi d’impresa. Il Tribunale di Pescara procede ad un accurato esame delle condizioni per la conferma delle misure richieste. In primo luogo accerta di essere il tribunale competente. A questo riguardo l’art. 7 d.l. n. 118 richiama l’art. 9 l.fall., cosicché è competente il “tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa”.
Il Tribunale di Pescara verifica poi che sussistano prospettive di risanamento. A questo riguardo è stato presentato un piano finanziario di risanamento che espone le iniziative industriali che la società intende adottare. Si tratta di articolate iniziative, quali:
la gestione del patrimonio immobiliare disponibile (mediante la prosecuzione dei contratti di locazione in corso e l’esecuzione dei contratti preliminari di vendita pendenti);
il completamento delle finiture degli appartamenti; il completamento delle infrastrutture viarie.
Criterio decisivo per la conferma delle misure protettive è la circostanza che la società presenta un attivo nettamente superiore rispetto al passivo. Ne consegue che la valorizzazione del patrimonio esistente è sufficiente per il pagamento dei debiti sociali. Al contrario, le singole iniziative giudiziarie dei creditori potrebbero pregiudicare il risanamento.
In conclusione, il Tribunale di Pescara conferma le misure protettive richieste, concedendo il termine massimo di 120 giorni. Viene concesso questo termine lungo per l’elevato numero di creditori coinvolti e per la complessità delle trattative da intraprendersi con il ceto creditizio, non facilitate dalle numerose iscrizioni ipotecarie esistenti sul patrimonio della società debitrice.
Impugnazioni
I presupposti del ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Cass. sez. III, 09 maggio 2022, n. 14552, Pres. Spirito – Rel. Pellecchia
Agricoltura – Prelazione (diritto di)- Revocazione (giudizio di) – Fondamento.
(artt. 366, 391 bis co. 2, 395 c.p.c., art. 8, l. 26 maggio 1965, n. 590, art. 7, l. 14 agosto 1971, n.
817)
Massima:” Il combinato disposto dell’art. 391 bis e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione.
Il ricorso per revocazione, è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c.; ne consegue che il mancato rispetto di tali requisiti espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione
L’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4), deve presentare i caratteri dell’evidenza ed obiettività, così da non richiedere lo sviluppo di argomentazioni induttive o indagini, e deve riguardare atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio”.
CASO
[1] La questione trae origine dalla domanda di riscatto agrario proposta da un imprenditore agricolo contro una Soc. Semplice Agricola a cui i terreni erano stati venduti. L’attore esercitava la domanda di riscatto, sia come affittuario coltivatore del fondo che come comproprietario dei terreni confinanti. Per ragioni non meglio specificate nel provvedimento in commento, la causa veniva trasferita alla Sezione Specializzata Agraria ed il Tribunale,
ritenendo non adeguatamente provata la sussistenza del contratto di affitto agrario, rigettava la domanda.
[2] La Corte d’Appello riformava la decisione impugnata, accogliendo la domanda di riscatto agrario esercitata dal retraente nella sua qualità di proprietario confinante.
[3] A séguito del ricorso di legittimità proposto dalla parte soccombente, la Suprema Corte confermava la decisione d’appello, ritenendo:
a) infondato il primo motivo di gravame, poiché parte ricorrente non aveva specificatamente contestato i fatti costitutivi del diritto di riscatto agrario del proprietario confinante;
b) inammissibili gli altri motivi di ricorso – in applicazione dell’art. 360 bisp.c. – poiché la Corte d’appello aveva deciso in conformità ad un orientamento consolidato e non offrendo il ricorso elementi idonei per un ripensamento di detto principio.
[4] Avverso tale ordinanza, la Soc. Semplice Xxxxxxxx proponeva ricorso per revocazione, ex artt. 391 bis e 395 x.x.x., x. 0, x.x.x., xxxx xx assumeva che la Suprema Corte sarebbe incorsa in un errore di fatto revocatorio consistente:
a) nell’aver mal interpretato le difese svolte dalla medesima società semplice, risolvendole nella prospettazione di una tesi contraria rispetto all’orientamento consolidato della Cassazione;
b) nell’avere ritenuto non sussistenti le contestazioni necessarie per contrastare il riscatto agrario del proprietario confinante.
In altre parole, se la Corte avesse avuto l’esatta percezione della realtà emergente dagli atti processuali, avrebbe valutato che la riscattata, proprio in conformità all’orientamento della Corte di legittimità aveva specificatamente contestato i requisiti costitutivi del riscatto agrario in qualità di proprietario confinante e, conseguentemente, avrebbe accolto il ricorso.
SOLUZIONE
La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile, perché non identifica un errore di fatto, ma, semplicemente, un errore di diritto.
QUESTIONI
Sul punto, la Cassazione osserva che l’istanza di revocazione, proponibile ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. implica, ai fini della sua ammissibilità, la deduzione di un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4. (in dottrina cfr. Xxxx, in Commentario Breve al Codice di Procedura Civile, Padova, 2002, 1172). Esso consiste in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia indotto il giudice
a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulta escluso, invece, in modo incontestabile dagli atti e documenti di causa (Cass. 27 dicembre 2021, n. 41683; Cass. 10 giugno 2021, n. 16439; Cass. 26-maggio 2021, n. 14678). Inoltre, tale fatto non deve aver configurato un punto controverso, su cui il giudice si sia già pronunciato (Xxxx. 29 ottobre 2010, n. 22171).
L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (Xxxx. 29 ottobre 2010, n. 22171, cit.).
Nel caso di specie, ciò che viene denunciato è la valutazione operata, dapprima, dai giudici di merito e, successivamente, dai giudici di legittimità, circa il contenuto delle difese della Società Semplice Agricola, contenuto che, secondo la ricorrente, sarebbe stato travisato.
La ricorrente, però, non allega alcun “errore di fatto” rilevante ai fini di una domanda di revocazione, ma ripropone le medesime censure già svolte in appello e avanti la Corte di Cassazione, lamentando la mancata valutazione delle contestazioni mosse al retratto agrario del proprietario confinante.
E’ evidente, quindi, come, nel caso in esame, non sussista alcun errore revocatorio.
Poiché la revocazione è un mezzo di impugnazione a critica vincolata, è inammissibile anche la seconda censura proposta, che riguarda l’inammissibilità del ricorso per cassazione quando il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità e l’esame dei motivi non offra elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa. Tale censura non rientra, in alcun modo, tra i motivi di cui all’art. 395 c.p.c. (Cass. 15 giugno 2017, n. 14937, Cass. 17 febbraio 2017, n. 4237)
Il ricorso per revocazione, infatti, è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c. Il mancato rispetto di tali requisiti porta inevitabilmente ad una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione.
Va ribadito, infine, che non sono ammessi, come causa di revocazione della sentenza di cassazione, l’errore di diritto, sostanziale o processuale e l’errore di giudizio o di valutazione.
L’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4), deve presentare i caratteri dell’evidenza ed obiettività, così da non richiedere lo sviluppo di argomentazioni induttive o indagini, e deve riguardare atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio (Cass. 5 marzo 2015, n. 4456).
Quanto al riscatto agrario, va, però, ricordato che non spetta al riscattato dimostrare l’inesistenza dei presupposti del diritto di prelazione violato. I requisiti (indicati dall’art. 8, l. 26 maggio 1965, n. 590, richiamato dall’art. 7, l. 14 agosto 1971, n. 817) affinché possa trovare accoglimento una domanda di riscatto agrario costituiscono condizioni dell’azione e devono essere accertati dal giudice d’ufficio.
Il proprietario del fondo confinante che intenda esercitare il retratto, deve dimostrare (secondo il principio generale di cui all’art. 2697 c. c.) il possesso di tutti, nessuno escluso, i requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dalla legge: la qualifica di coltivatore diretto; la coltivazione biennale del fondo agricolo confinante; il possesso della forza lavorativa adeguata e il non aver effettuato vendita di fondi rustici nel biennio antecedente. Inoltre, è onere del retraente dimostrare che il fondo oggetto di retratto, in aggiunta a quello (confinante) di proprietà, non supera il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia, cioè non deve essere inferiore ad 1/3 di quella occorrente per le necessità della nuova azienda. (Tedioli, Il proprietario confinante ed il titolo che lo legittima all’esercizio della prelazione agraria, in Consulenza Agricola, 2022, 4, 21).
Si tratta di accertamenti che devono avere riguardo, sotto il profilo dell’oggetto della prova a carico del retraente, sia il momento di conclusione della vendita, sia il momento in cui la dichiarazione del retraente giunge a conoscenza del retrattato (tra le tante, Tribunale Alessandria 29 settembre 2020, n. 539). A nulla rileva il difetto di espressa contestazione di controparte (Tribunale Cosenza, 13 ottobre 2021, n. 1956).
Procedimenti cautelari e monitori
Gli effetti del decreto ingiuntivo nei confronti del debitore fallito, successivamente tornato in bonis
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2022, n. 8110 – Pres. Vivaldi – Rel. Fanticini
Decreto ingiuntivo – Fallimento del debitore – Caducazione del decreto ingiuntivo – Insussistenza – Interruzione del giudizio di opposizione – Mancata tempestiva riassunzione – Estinzione del processo – Definitività del decreto ingiuntivo – Effetti nei confronti del debitore tornato in bonis
Xxxxxxx: “Il fallimento del debitore dichiarato nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non determina l’inesistenza o l’inefficacia assoluta del provvedimento monitorio, ma solo la sua inefficacia relativa nei confronti della curatela fallimentare, sicché la mancata riassunzione del processo interrotto per effetto della dichiarazione di fallimento consente al decreto ingiuntivo di divenire definitivo e di assumere, così, natura di titolo esecutivo nei confronti del debitore tornato in bonis, legittimando l’intervento nel processo esecutivo intrapreso nei suoi confronti dopo la chiusura del fallimento e la partecipazione alla distribuzione del ricavato.”
CASO
Due istituti di credito ottenevano altrettanti decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi nei confronti di una società che, nelle more dei relativi giudizi di opposizione, veniva dichiarata fallita.
Le domande di ammissione al passivo proposte dalle banche erano respinte, stante l’inopponibilità alla curatela dei decreti ingiuntivi, in quanto non definitivi alla data del fallimento.
Dopo la chiusura della procedura concorsuale, contro la società tornata in bonis veniva promossa un’espropriazione immobiliare, nel cui ambito i medesimi istituti di credito
svolgevano intervento in forza degli stessi decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi conseguiti prima della dichiarazione di fallimento, grazie ai quali avevano pure proceduto – sempre in epoca anteriore al fallimento – all’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni successivamente pignorati.
Venduti questi ultimi, il professionista delegato predisponeva il progetto di distribuzione, in cui era previsto il soddisfacimento dei crediti azionati dalle banche, con il rispettivo privilegio ipotecario.
Respinte le contestazioni mosse dagli altri creditori, il piano di riparto veniva approvato con ordinanza fatta oggetto di opposizione, con la quale si chiedeva di escludere dalla distribuzione del ricavato i crediti delle banche per inesistenza del titolo esecutivo, accertandosi, altresì, l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte sui beni pignorati.
La sentenza del Tribunale di Foggia che aveva respinto l’opposizione veniva impugnata con ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, affermando che la dichiarazione di fallimento del debitore non determina la caducazione del decreto ingiuntivo, ma la sua inopponibilità alla curatela, ai soli fini della partecipazione al concorso e che, nel contempo, la mancata tempestiva riassunzione del giudizio di opposizione interrottosi ai sensi dell’art. 43 l.fall. ne determina l’estinzione, con conseguente definitività del provvedimento monitorio, che, dunque, può spiegare xxxxxxx i propri effetti nei confronti del debitore tornato in bonis.
QUESTIONI
[1] Nella vicenda portata all’attenzione dei giudici di legittimità, si discuteva dell’efficacia di due decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi che non erano ancora divenuti definitivi allorquando, durante la pendenza dei relativi giudizi di opposizione, la società debitrice era stata dichiarata fallita e che erano stati successivamente impiegati al fine di svolgere intervento nell’espropriazione immobiliare promossa contro di essa, una volta tornata in bonis.
Le ricorrenti, che avevano promosso l’espropriazione forzata e avevano visto soccombere i loro crediti nel progetto di distribuzione predisposto all’esito della vendita dei beni pignorati, essendosi ivi accordata la prevalenza a quelli portati da detti decreti ingiuntivi, in ragione delle ipoteche giudiziali iscritte in forza di essi, sostenevano, da un lato, che il fallimento dichiarato nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo aveva determinato l’inefficacia – se non addirittura l’inesistenza – dei provvedimenti monitori e delle ipoteche iscritte in base a essi e, dall’altro lato, che la mancata ammissione al passivo dei crediti azionati dalle banche aveva esplicato effetti anche al di fuori della procedura concorsuale, rendendo tamquam non esset i due decreti ingiuntivi.
Con la sentenza che si annota, queste tesi sono state respinte, dal momento che la dichiarazione di fallimento determina non già la caducazione del decreto ingiuntivo (e dell’ipoteca iscritta sulla scorta della provvisoria esecutività eventualmente accordata), ma, ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., l’interruzione del giudizio di opposizione pendente, con facoltà del fallito di riassumerlo onde evitare che, una volta tornato in bonis, possa essergli opposta la definitività del provvedimento monitorio determinatasi ai sensi dell’art. 653 c.p.c.
Posto che, tra gli effetti della chiusura del fallimento, non è compresa la liberazione del fallito dalle obbligazioni non soddisfatte nel corso della procedura fallimentare (visto che, a termini dell’art. 120 l.fall., i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore tornato in bonis anche per la parte non soddisfatta dei loro crediti), è pacifico in giurisprudenza che i provvedimenti assunti in sede di verifica dello stato passivo, ai fini dell’ammissione dei crediti ivi dedotti, esplicano efficacia meramente endofallimentare, giacché gli accertamenti svolti a tale scopo hanno per oggetto il diritto al concorso e sono condotti secondo regole proprie, che prevedono un peculiare regime di opponibilità degli atti alla massa dei creditori.
In altre parole, l’accertamento posto in essere in sede fallimentare non ha effetto sugli ordinari giudizi di cognizione coltivati dal creditore e dal debitore con riguardo al singolo rapporto obbligatorio tra loro intercorso, che non possono, dunque, risultare vanificati dagli esiti della verifica dello stato passivo o delle impugnazioni che si svolgono in ambito fallimentare, come espressamente affermato dall’art. 96 l.fall., il cui ultimo comma stabilisce che il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi contemplati dall’art. 99 l.fall. producono effetti soltanto ai fini del concorso.
Di conseguenza, va escluso che la mancata ammissione al passivo fallimentare di un credito portato da un decreto ingiuntivo non definitivo – e, come tale, inopponibile alla curatela – produca l’effetto di determinare il riconoscimento dell’insussistenza del credito anche al di fuori della sede concorsuale.
Da questo punto di vista, sono noti i principi che presidiano i rapporti tra decreto ingiuntivo e fallimento: poiché il provvedimento monitorio acquista efficacia di giudicato (formale e sostanziale) solo quando il giudice, dopo averne controllato la rituale notificazione, lo dichiara esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. (consistendo tale funzione – diversa dalla verifica affidata al cancelliere dagli artt. 124 e 153 disp. att. c.p.c. – in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio, che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione, come tale non surrogabile da parte del giudice delegato in sede fallimentare, nell’ambito dell’accertamento del passivo), quello non munito del decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c. prima della dichiarazione di fallimento non è passato in giudicato e non è, quindi, opponibile al fallimento, anche se sia stato dichiarato provvisoriamente esecutivo, giacché non può nemmeno essere equiparato, ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 96, comma 2, n. 3), l.fall., alla sentenza non ancora passata in giudicato, visto che – diversamente dal decreto ingiuntivo – essa viene pronunciata nel contraddittorio delle parti (in questo senso, tra le altre, Cass. civ., sez. VI, 3 settembre 2018, n. 21583; Cass. civ., sez. VI, 27 maggio 2014, n. 11811).
Nel contempo, si è precisato che, qualora l’estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non possa essere dichiarata con ordinanza resa a norma dell’art. 653 c.p.c. (per esempio, per intervenuta interruzione del processo e sua mancata tempestiva riassunzione), la parte che ha ottenuto il provvedimento monitorio è legittimata a fare valere la suddetta estinzione mediante istanza di declaratoria di esecutorietà dell’ingiunzione rivolta, ai sensi dell’art. 654, comma 1, c.p.c., allo stesso giudice che ha emesso l’ingiunzione (si veda Cass. civ., sez. I, 26 febbraio 2019, n. 5657), mentre quando l’ordinanza di estinzione sia stata pronunciata ai sensi dell’art. 653 c.p.c., è sufficiente che sia vanamente decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso di essa al fine di ritenere il decreto ingiuntivo definitivo e inoppugnabile, anche nei confronti della curatela (Cass. civ., sez. VI, 29 febbraio 2016, n. 3987).
Tornando alla fattispecie esaminata nella sentenza che si annota, i giudici di legittimità hanno osservato che il sopravvenuto fallimento del debitore che abbia proposto opposizione a decreto ingiuntivo determina l’automatica interruzione del relativo giudizio ex art. 43 l.fall., ma non la caducazione del provvedimento monitorio o la sua definitiva privazione di efficacia, né la sua sopravvenuta inesistenza giuridica (che, secondo la giurisprudenza, riguarda solo i limitati ed eccezionali casi di provvedimenti aventi contenuto decisorio erroneamente emessi da un giudice carente di potere o dal contenuto abnorme, che li renda irriconoscibili come atti processuali, perché privi dei requisiti indefettibili di un provvedimento giurisdizionale).
In definitiva, l’inefficacia dei decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi ma non definitivi riguarda solo la procedura concorsuale che ha interessato il debitore destinatario dell’ingiunzione, nei cui confronti non possono né essere avviate o proseguite azioni esecutive individuali in forza di detti titoli esecutivi, né svolgersi, ai fini del concorso, giudizi di accertamento di suoi debiti al di fuori delle modalità prescritte dalla legge fallimentare.
Nessuna disposizione, tuttavia, impedisce l’accertamento, al di fuori della procedura concorsuale, di un credito nei confronti del fallito onde farlo valere contro di lui, una volta tornato in bonis: in caso di avvio o di prosecuzione del relativo giudizio, dunque, il provvedimento così ottenuto sarà senz’altro inopponibile alla curatela e alla massa dei creditori, ma sarà destinato ad assumere efficacia se e quando il fallito sarà tornato in bonis.
Con specifico riguardo al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo pendente al momento della dichiarazione di fallimento del debitore opponente, la necessità per il creditore di insinuare al passivo il credito per essere soddisfatto nell’ambito della procedura concorsuale non incide sulla facoltà – sia per il creditore opposto, sia per il debitore opponente – di riassumere il processo interrotto, vuoi per fare conseguire al decreto ingiuntivo l’esecutività di cui non sia stato munito in precedenza ovvero per ottenere una pronuncia sul merito opponibile al debitore tornato in bonis, vuoi per impedire che all’estinzione del giudizio di opposizione per mancata riassunzione del processo consegua la definitività del provvedimento monitorio ai sensi dell’art. 653 c.p.c.
Pertanto, il fallimento del debitore opponente, pur impedendo al decreto ingiuntivo opposto di
spiegare effetti nei confronti della curatela fallimentare ai fini concorsuali, non determina la caducazione del provvedimento monitorio, né travolge gli atti che siano stati fino a quel momento compiuti (ivi compresa l’iscrizione di ipoteca cui si sia proceduto in forza della sua provvisoria esecutività) e comporta l’interruzione del giudizio di opposizione pendente, che, se non tempestivamente riassunto, si estingue, legittimando la produzione nei confronti del debitore opponente – una volta tornato in bonis – degli effetti conseguenti alla definitività del decreto ingiuntivo prodottasi in virtù di quanto stabilito dall’art. 653 c.p.c.
Di conseguenza, nel caso di specie, i crediti delle due banche erano stati correttamente ammessi alla partecipazione alla distribuzione del ricavato della vendita dei beni pignorati con il rango di privilegiati, in forza delle ipoteche giudiziali che li assistevano, costituendo i decreti ingiuntivi divenuti definitivi per effetto dell’estinzione dei giudizi di opposizione non tempestivamente riassunti dal debitore opponente poi fallito titoli esecutivi legittimanti l’intervento ai sensi dell’art. 499 c.p.c.
Condizione sospensiva e abuso della personalità giuridica
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., sez. III, 3 novembre 2021, n. 31319 – Pres. Graziosi – Rel. Guizzi
Parole chiave: Contratto – Condizione – Negozio di accertamento – Clausola che subordina l’esigibilità della prestazione alla mancata conclusione di un nuovo contratto – Condizione meramente potestativa – Configurabilità – Conseguenze
Xxxxxxx: “Qualora le parti di un contratto di locazione stipulino un negozio di accertamento per eliminare la res dubia relativa ai crediti da esso nascenti, la clausola di tale negozio che ne subordini l’esigibilità alla condizione sospensiva di carattere negativo che un nuovo contratto di locazione – con cui la locatrice abbia concesso il godimento della res locata ad altro conduttore di cui sia socia di maggioranza – non giunga a buon fine, è meramente potestativa, poiché dà luogo a una ipotesi di abuso della personalità giuridica e deve, pertanto, ritenersi nulla ai sensi dell’art. 1355 c.c.”
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1321, 1353, 1355
CASO
Nel 2003, due società concludevano un contratto di locazione avente per oggetto un’unità immobiliare facente parte di un edificio multipiano destinato ad autosilo.
Nel corso degli anni, le parti dapprima convenivano la modifica delle pattuizioni contrattuali (stabilendo, tra l’altro, l’obbligo della conduttrice di pagare una penale in caso di risoluzione anticipata della locazione); quindi, nel 2008 e nel 2009, concludevano in rapida successione due nuovi contratti di locazione riguardanti sempre la stessa unità immobiliare (inserendo in entrambi analoghe clausole penali), nessuno dei quali giungeva alla naturale scadenza, a causa del recesso anticipato della conduttrice.
A seguire, le medesime parti costituivano una società (partecipata al 75% dalla originaria
locatrice e al 25% dall’originaria conduttrice), che, nel 2010, assumeva in locazione il parcheggio multipiano: nel nuovo contratto di locazione, le socie della nuova conduttrice prevedevano anche la rinuncia alle reciproche pretese creditorie aventi titolo nei rapporti tra le stesse intercorsi, a condizione che arrivasse a naturale scadenza la nuova locazione.
Questa, tuttavia, si risolveva anticipatamente per morosità, poiché la locatrice, che deteneva la partecipazione di maggioranza nella società conduttrice, si era opposta all’aumento del suo capitale (al quale, invece, la socia di minoranza si era dichiarata favorevole) volto a ripianare le perdite e a consentire così il pagamento dei canoni scaduti.
Sul presupposto della conseguente inefficacia della rinuncia ai crediti contenuta nel contratto di locazione concluso nel 2010, la proprietaria del parcheggio multipiano agiva in via monitoria per il pagamento di quanto dovutole dall’originaria conduttrice e otteneva l’emissione di un decreto ingiuntivo, avverso il quale veniva interposta opposizione, accolta dal Tribunale di Treviso.
La Corte d’Appello di Venezia, tuttavia, ribaltava la decisione, sicché, avverso la pronuncia di secondo grado, veniva proposto ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che la clausola volta a subordinare l’esigibilità dei crediti della società locatrice nei confronti dell’originaria conduttrice alla sorte del nuovo contratto di locazione concluso nel 2010 configurasse una condizione sospensiva meramente potestativa (come tale, nulla), visto che il suo avveramento era sostanzialmente rimesso alla volontà della medesima locatrice, detenendo essa la maggioranza del capitale della società che aveva assunto in locazione il parcheggio multipiano con detto contratto; da questo punto di vista, l’apparente alterità soggettiva della conduttrice costituiva una mera fictio iuris e, come tale, integrava un abuso della personalità giuridica.
QUESTIONI
[1] Secondo la Corte di Cassazione deve reputarsi nulla, in quanto meramente potestativa, la condizione sospensiva il cui avveramento è rimesso – di fatto – alla volontà di una società partecipata, in via maggioritaria, da una delle parti del negozio condizionato.
È questo il principio affermato con la sentenza che si annota, all’esito di un articolato percorso motivazionale che ha riconsiderato la complessa vicenda negoziale sottesa alla controversia insorta.
In primo luogo, i giudici di legittimità hanno proceduto alla qualificazione giuridica dell’accordo concluso dalla originaria locatrice e dall’originaria conduttrice e contenuto nel nuovo contratto di locazione stipulato nel 2010, ravvisando in esso un negozio di accertamento, che ha la funzione di fissare il contenuto e l’essenza di un rapporto precedente,
eliminandone gli elementi di incertezza, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione o diversa interpretazione, senza che venga a costituire fonte autonoma degli effetti giuridici scaturenti da detto rapporto, ovvero di diritti; il negozio di accertamento, infatti, è volto a rendere definitive e immutabili, per l’avvenire, situazioni effettuali in stato di obiettiva incertezza, vincolando i soggetti che se ne avvalgono ad attribuire al preesistente rapporto gli effetti che risultano dall’accertamento e precludendo ogni pretesa, ragione o azione in contrasto con esso.
Nel caso di specie, peraltro, le parti avevano subordinato l’effetto preclusivo proprio del negozio di accertamento (inteso come fissazione del contenuto dei rapporti giuridici precedentemente intercorsi, con particolare riguardo ai crediti nascenti da essi in capo alla società locatrice), a una condizione, che i giudici di legittimità hanno qualificato come sospensiva: più precisamente, l’esigibilità del credito della locatrice era da intendersi sospensivamente condizionato all’evento – futuro e incerto – rappresentato dalla circostanza che il nuovo rapporto locatizio instaurato nel 2010 non giungesse a buon fine, ovvero terminasse prima della scadenza contrattualmente prevista.
Una volta stabilito che la clausola che subordinava l’esigibilità dei crediti configurava una condizione sospensiva, il comportamento addebitato alla parte interessata al suo avveramento (per tale dovendosi intendere la società locatrice, che avrebbe così potuto chiedere il pagamento delle penali), consistito nel rifiuto opposto all’aumento del capitale della società conduttrice (che ha impedito a quest’ultima di adempiere l’obbligo di pagamento dei canoni, determinando la conclusione anticipata della locazione), si sarebbe dovuto intendere volto non già a impedire, ma a favorire l’avveramento della condizione negativa, sicché non poteva configurarsi la fattispecie contemplata dall’art. 1359 c.c., ossia la finzione di avveramento ivi prevista.
A tale scopo, peraltro, si richiede non semplicemente un comportamento contrario a buona fede, bensì una vera e propria condotta illecita, non ravvisabile nel caso di specie.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale sostiene pure che l’art. 1359 c.c., secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, non è applicabile quando la parte tenuta in via condizionata a una determinata prestazione abbia anch’essa interesse al verificarsi della condizione: ai fini dell’operatività della fictio di avveramento di cui all’art. 1359 c.c., l’esistenza di un interesse contrario all’avveramento non va valutata in termini astratti o facendo riferimento al solo momento della conclusione del contratto, ma valorizzando il dato dell’effettivo interesse delle parti all’epoca in cui si è verificato il fatto o il comportamento che ha reso impossibile l’avveramento della condizione, spettando comunque alla parte interessata la dimostrazione del fatto che l’altra abbia tenuto un comportamento idoneo a impedire l’avveramento della condizione – rendendosi, in questo modo, inadempiente agli obblighi generali di buona fede e correttezza – e che il mancato avveramento le sia imputabile a titolo di dolo o colpa (in questi termini, da ultimo, Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2021, n. 31728).
Xxxxx restando ciò, la condizione sospensiva apposta all’accordo contenuto nel nuovo contratto di locazione stipulato nel 2010 doveva reputarsi nulla ai sensi dell’art. 1355 c.c., in quanto meramente potestativa.
Infatti, condizionare sospensivamente l’efficacia del negozio di accertamento al fatto che la nuova locazione stipulata con la società partecipata, in misura maggioritaria, dalla proprietaria dell’immobile significava rimettere la sorte del negozio al totale arbitrio di quest’ultima, di fatto abilitata a influire su di essa in ogni momento e a proprio piacimento, data la posizione non solo di locatrice, ma anche di socia di maggioranza della conduttrice.
La clausola condizionale è meramente potestativa quando l’atto dispositivo del diritto venga fatto dipendere da un fatto volontario, il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità o di convenienza.
D’altra parte, il riferimento che l’art. 1355 c.c. opera alla nullità dell’atto di alienazione di un diritto deve intendersi non già come richiamo limitato alla fattispecie del trasferimento del diritto di proprietà (o di un altro diritto reale), ma esteso a quella più generale dell’atto dispositivo del diritto, di cui l’alienazione rappresenta la figura paradigmatica, comprendente – dunque – anche il negozio di accertamento che, lungi dal presentare efficacia meramente ricognitiva, costituisca pure atto dispositivo della sfera giuridica delle parti, ponendosi come atto di volontà che assume la funzione di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo e con assunzione di un obbligo di non porre più in discussione l’assetto dato alla res dubia.
Quanto, invece, alla circostanza per cui l’avveramento della condizione sospensiva risultava rimessa alla volontà di un soggetto (la società conduttrice) formalmente diverso da quello (la società proprietaria e locatrice dell’immobile) che ne avrebbe potuto beneficiare, divenendo legittimata a esigere i crediti oggetto della rinuncia contenuta nel negozio di accertamento, i giudici di legittimità l’hanno considerata poco più che una fictio iuris, dal momento che la detenzione della larga maggioranza delle quote della società conduttrice rappresentava – in relazione alla gestione del contratto di locazione alla cui sorte era collegata l’efficacia del negozio di accertamento concluso dai due soci – una classica ipotesi di tirannia del socio di maggioranza, integrante una fattispecie di abuso della personalità giuridica.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, quando il socio di controllo di una società di capitali si serva della struttura societaria come schermo, al fine di gestire i propri affari, incorre in un tale abuso, ravvisabile allorché alla forma societaria corrisponda una gestione in tutto o in parte individuale, con conseguente configurabilità di una responsabilità civile e penale, avuto riguardo al ruolo da lui svolto, sanzionabile con la disapplicazione dello schermo societario e la conseguente inconfigurabilità di una autonoma persona giuridica.
Nel caso esaminato nella sentenza che si annota, la sussistenza di un’ipotesi di tirannia del socio di maggioranza ha indotto i giudici di legittimità a ricondurre direttamente in capo a tale
socio la riferibilità della condizione costituita dal mancato raggiungimento del buon fine della nuova locazione, a reputarla, come tale, meramente potestativa e, in definitiva, nulla.
Comunione – Condominio - Locazione
Il bene comune può essere impiegato da ciascun condomino ma entro i limiti sanciti dall’art. 1102 c.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Dottore in giurisprudenza
Cassazione civile, sez. II, ordinanza 8.02.2022 n. 3890. Presidente R. M. Xx Xxxxxxxx – Estensore X. Xxxxx
Massima: “In tema di condominio negli edifici, ai sensi dell’articolo 1102 c.c., è consentita al condomino la più ampia utilizzazione di un bene comune, ai fini della sistemazione di impianti diretti a soddisfare le esigenze di servizi indispensabili per il godimento di una propria unità immobiliare insistente nell’edificio condominiale, purché sia rispettata la proprietà esclusiva degli altri condomini e non sia violata la rispettiva sfera di facoltà e di diritti (Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da un condomino, ritenendo incensurabile la sentenza impugnata con la quale il giudice d’appello aveva integralmente riformato la decisione del Tribunale il quale, a sua volta, aveva dichiarato, seppur in presenza di una delibera assembleare autorizzativa, l’illegittimità dell’allacciamento alla colonna condominiale della presa d’acqua e del relativo contatore realizzato dal xxxxx causa del condomino convenuto in favore del proprio locale insistente nel medesimo edificio e conseguentemente aveva condannato questi ultimi alla rimozione)“.
CASO
La vicenda processuale in commento riguarda una controversia insorta tra alcuni condomini in virtù dell’allacciamento della presa d’acqua e del relativo contatore alla colonna condominiale ubicata nell’androne dello stabile ad opera di uno di essi.
Il condomino Xxxxx, proprietario di una unità immobiliare insistente nel condominio, ha citato a comparire dinanzi al Tribunale di Palermo il condomino Caio, proprietario di un locale ubicato al piano terra dell’edificio.
Nello specifico Xxxxx esponeva che l’assemblea condominiale aveva concesso al dante causa di
Caio la mera facoltà di allacciare la presa dell’acqua del suo locale ed il relativo contatore alla colonna condominiale situata nell’androne del palazzo, ma con il preciso limite consistente nel fatto che tale concessione era comunque avvenuta a titolo di mera cortesia e sotto condizione di immediata rimozione dell’allacciamento, in ipotesi di vendita del suddetto locale.
L’attore esponeva, inoltre, che il convenuto non ha effettuato l’anzidetta rimozione nonostante si fosse verificata la condizione di cui sopra nonché fosse stato più volte invitato a rimuovere l’allacciamento.
Xxxxx ha chiesto al Tribunale adìto di dichiarare l’illegittimità dell’allacciamento e di condannare il convenuto alla rimozione.
Caio si è costituito in primo grado e ha chiesto di essere autorizzato a chiamare in causa Xxxxxxxxx, xxxxx causa del convenuto, nonché il rigetto della domanda attorea.
Anche Xxxxxxxxx si è costituito in giudizio e ha dedotto che l’allacciamento contestato risaliva a parecchi anni prima e di essersi limitato solo di recente a collocare un autonomo contatore sulla colonna condominiale.
Xxxxxxxxx ha chiesto di poter chiamare in causa anche il condominio medesimo, che però non si è costituito, rimanendo contumace.
All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Palermo ha accolto la domanda attorea, dichiarando l’illegittimità dell’allacciamento alla colonna condominiale della presa d’acqua e del relativo contatore del locale di proprietà del convenuto e conseguentemente ha condannato Xxxx e Xxxxxxxxx alla rimozione.
Xxxx ha appellato la decisione del giudice di prime cure. Si è costituito anche Sempronio.
Il condomino Xxxxx ha resistito in secondo grado per la conferma della decisione del Tribunale. Invece, ancóra una volta non si è costituito il condominio.
La Corte d’Appello di Palermo ha accolto il gravame proposto da Xxxx e, in riforma dell’appellata statuizione del giudice di primo grado, ha rigettato le domande esperite in prime cure da Xxxxx, condannando quest’ultimo a rimborsare a Xxxx e Xxxxxxxxx le spese del doppio grado.
In particolare, la corte del capoluogo siciliano ha evidenziato che dalle dichiarazioni testimoniali ha potuto desumere che il locale al piano terra è sempre stato munito di allacciamento idrico e che i contatori sono tutti collocati nell’androne condominiale.
Xxxxx, attore in primo grado, ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza sulla scorta di tre motivi.
Xxxx ha depositato controricorso chiedendo alla Suprema Corte di dichiarare inammissibile o comunque di rigettare il ricorso proposto da Xxxxx con il favore delle spese.
Sempronio e il condominio non hanno svolto difese.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 3890 dell’8 febbraio 2022, ha rigettato il ricorso, ritenendo i primi due motivi infondati e in conseguenza di tale conclusione non ha accolto neppure il terzo che essendo relativo alla liquidazione delle spese processuali risultava strettamente legato all’accoglimento dei primi due. Pertanto, la Corte ha condannato il ricorrente a rimborsare al controricorrente (il condomino Caio) le spese del giudizio di legittimità, rilevando, inoltre, la sussistenza in relazione al caso di specie, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’articolo 13, comma 1-bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, se dovuto.
QUESTIONI
Come si è avuto modo di anticipare, la controversia oggetto della sentenza in commento riguarda l’utilizzo, illegittimo a giudizio di Xxxxx, dell’allacciamento della presa d’acqua e del relativo contatore alla colonna condominiale ubicata nell’androne dello stabile ad opera di altro condomino, proprietario di un locale insistente al piano terra del medesimo edificio.
Nonostante il Tribunale di Palermo avesse inizialmente accolto le istanze di Xxxxx, la Corte d’Xxxxxxx ha mutato radicalmente la decisione del giudice di prime cure, pertanto tale condomino ha proposto ricorso per Cassazione.
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto che, in base al contenuto di alcune delibere assembleari, delle dichiarazioni rilasciate da alcuni testimoni nei precedenti gradi di giudizio e in virtù di alcuni contratti di fornitura d’acqua, in realtà il locale de quo non era inizialmente dotato di fornitura idrica ovvero allorquando era di proprietà di Xxxxxxxxx. Da ciò l’errore in cui sarebbe incorsa la corte di merito; poichè secondo il punto di vista del ricorrente la corte avrebbe del tutto omesso l’esame di tali risultanze documentali e testimoniali, senza indicare quali dichiarazioni testimoniali ha reputato attendibili e quali no, omettendo, altresì, di indicare gli elementi sulla scorta dei quali ha ritenuto che il locale situato al piano terra fosse provvisto dell’allacciamento idrico.
Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto che la corte d’appello sarebbe incorsa in errore, allorché ha affermato che fosse Xxxxx il soggetto sul quale incombeva l’onere di provare che Xxxxxxxxx e Xxxx avrebbero realizzato un nuovo allaccio idrico e che, sebbene quest’ultimo
non si considerasse soggetto a tale onere probatorio, avrebbe comunque dato prova della realizzazione ex novo dell’allacciamento idrico nei precedenti giudizi di merito.
Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione o falsa applicazione dell’articolo 92 c.p.c. relativo alla condanna al rimborso alle spese del “doppio grado” sostenute dalle controparti.
I giudici del Supremo Xxxxxxxx hanno ritenuto che i primi due motivi di ricorso fossero strettamente connessi tra di loro, perciò hanno svolto una disamina contestuale degli stessi.
Preliminarmente gli Ermellini hanno circoscritto il campo di indagine evidenziando che tanto nel giudizio di merito quanto in sede di legittimità non si disquisisca circa la contestazione della qualità di condomino di Caio, mentre, invece, il busillis della questione riguarda la possibilità del proprietario della porzione condominiale ubicata al piano terra ed ora di proprietà di Caio, di allacciarsi o meno alla colonna idrica dell’edificio condominiale.
Dunque, secondo i giudici di legittimità, la fattispecie in esame verte sul terreno dell’utilizzazione della cosa comune ai sensi dell’articolo 1102 c.c., riguardo i limiti dettatati dalla norma.
Tornando all’esame dei motivi di ricorso, più precisamente al primo motivo, ossia il fatto che Xxxxxxxxx non abbia fornito alcuna prova del possesso ventennale della servitù di acquedotto e che in merito a ciò la corte territoriale non avrebbe in nessun modo motivato la propria decisione, gli ermellini hanno rammentato quello che ormai è un noto e più che consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale il riscontro dell’alterazione della cosa comune ovvero dell’impedimento per gli altri comunisti-condomini a farne pari uso secondo il loro diritto, è rimesso all’accertamento del giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente per omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti[1].
Infatti, il principio insito nell’articolo 1102 c.c. prevede che il condomino, nell’uso della cosa comune non deve alterarne la destinazione ovvero impedire agli altri comunisti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; l’alterazione o la modificazione della destinazione del bene comune si ricollega all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo uso, pertanto, l’utilizzazione anche particolare della cosa comune da parte del condomino è consentita quando la stessa non alteri l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri comproprietari e non determini pregiudizievoli invadenze nell’ambito dei coesistenti diritti di costoro.
In relazione al caso oggetto della sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno escluso che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato in virtù di quanto statuito nella sentenza n. 8053/2014 delle Sezioni Unite della Cassazione[2] possa sussistere rispetto alle motivazioni cui la corte del capoluogo siciliano ha ancorato il proprio dictum.
Per quanto, invece, riguarda il secondo motivo di impugnazione – asserita omessa erronea valutazione delle risultanze probatorie costituite e precostituite – gli ermellini hanno evidenziato che il mancato esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, nel caso in cui il fatto storico, rilevante al fine del decidere, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice del merito, anche se la sentenza da questi pronunciata non abbia poi dato conto di tutte le risultanze probatorie[3].
D’altra parte i giudici del Supremo Collegio hanno elogiato l’iter motivazionale che sorregge il
dictum della Corte siciliana, considerato ineccepibile sul piano della correttezza giuridica.
L’orientamento preponderante della Cassazione sostiene ormai da tempo che «al singolo condomino è consentita l’esecuzione di un’opera implicante un maggior suo godimento della cosa comune soltanto se la realizzazione di essa non impedisca – e nella specie gli ermellini non hanno riscontrato alcun impedimento – agli altri condomini il compimento di opere, già previste o ragionevolmente prevedibili in base alla destinazione attuale della cosa comune ed alle prospettive offerte dalla sua natura, le quali permettano ai medesimi lo stesso od altro miglior uso di tale cosa, a vantaggio delle loro proprietà esclusive»[4].
Inoltre, è altrettanto noto e consolidato il principio per cui ai sensi dell’articolo 1102 c.c., è consentita al condomino la più ampia utilizzazione del bene comune, ai fini della collocazione di impianti diretti a soddisfare le esigenze di servizi indispensabili per il godimento di una propria unità immobiliare, purchè sia rispettata la proprietà esclusiva degli altri condomini e non sia violata la rispettiva sfera di facoltà e diritti (Cass. n. 2697/1982).
All’esito delle considerazioni logico-giuridiche sopra riportate, gli Ermellini hanno concluso per l’infondatezza e, pertanto, il rigetto del primo e del secondo motivo.
Conseguentemente non hanno neppure accolto il terzo motivo, ossia quello inerente le spese del “doppio grado” di giudizio, in quanto strettamente dipendente dall’accoglimento dei primi due.
Invero, a tal proposito, hanno evidenziato la regola atta all’individuazione del soccombente e alla conseguente pronuncia sulle spese in base alla quale tale operazione si compie applicando il principio di causalità, con la conseguenza che la parte tenuta a rimborsare alle altre le spese che sono state da queste anticipate nel processo è quella che, con il proprio comportamento tenuto fuori dal processo stesso, ovvero col dare corso al giudizio «o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, abbia dato causa al processo o al suo protrarsi»[5].
Pertanto, nel caso oggetto della sentenza in commento, in forza del principio sopra richiamato, che di pari passo con il principio della soccombenza regola il riparto delle spese di lite, il rimborso delle spese sostenute in giudizio dal terzo chiamato in causa (Sempronio) in garanzia dal convenuto è stato posto dai giudici della Cassazione a carico della parte attrice (Xxxxx), nel rispetto dell’orientamento giurisprudenziale in base al quale «qualora la chiamata in causa si
sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall’attore stesso e queste siano ritenute infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda», mentre «il rimborso rimane invece a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo, qualora – non è ciò che si è verificato nel caso di specie – l’iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa»[6].
[1] Cass. civ., sez. II, sentenza 19 gennaio 2005, n. 1072.
[2] In tale pronuncia i giudici delle Sezioni Unite hanno espressamente escluso il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
[3] Addirittura secondo Cass. n. 27415/2018 e Cass. n. 11892/2016, «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legale da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione».
[4] Cass. civ., sez. II, sentenza 5 aprile 1982, n. 2087.
[5] Cass. civ., sez. III, sentenza 30 marzo 2010, n. 7625; Cass. civ., sez. III, sentenza 27 novembre 2006, n. 25141; Cass. civ., sez. III, sentenza 15 ottobre 2004, n. 20335.
[6] Cass. civ., sez. III, ordinanza 6 dicembre 2019, n. 31889; Cass. civ., sez. II, ordinanza 17 settembre 2019, n. 23123; Cass. civ., sez. II, sentenza 25 settembre 2019, n. 23948.
Diritto successorio e donazioni
Obbligo per il chiamato all’eredità di compiere l’inventario entro tre mesi dal giorno di apertura della successione
di Xxxxxxx Xx Xxxx, Notaio
Cassazione civile, sez. VI, 23 novembre 2021, n. 36080 – XXXXX Xxxxxxx – Presidente – XXXXXXXX Xxxxxxx Xxxxxxxxx – Relatore
Chiamata all’eredità – Rinuncia e accettazione di eredità – Inventario di eredità
Xxxxxxx: “Il chiamato all’eredità che è nel possesso dei beni ereditari non può rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori ereditari se non compie l’inventario entro tre mesi dal giorno di apertura della successione o dal giorno del ricevimento della notizia del decesso del de cuius”
CASO
L’Agenzia delle Entrate richiedeva a P.F., M.D., M.G. e M.S., nella loro qualità di eredi di M.A., il pagamento dei debiti tributari del de cuius. Il ricorso proposto dagli eredi avverso tale atto impositivo veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Latina, sul rilievo che la rinuncia all’eredità operata dagli eredi dopo la notifica dell’avviso di accertamento aveva, ai sensi dell’art. 521 c.c., efficacia retroattiva. L’ufficio dell’Agenzia delle entrate a sua volta proponeva appello, lamentando l’omessa redazione dell’inventario dei beni caduti in successione. L’appello veniva però respinto dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, con sentenza del 24 maggio 2019, ritenendo che “in merito alla doglianza dell’Ufficio, circa l’omessa redazione dell’inventario dei beni caduti in successione, ex art. 485 c.c., che avrebbe determinato la perdita del diritto di rinunciare all’eredità, si osserva che non è dato sapere se gli eredi rinunciatari si trovano nel possesso dei beni ereditari” e, dunque, se questi fossero tenuti alla redazione dell’inventario dei beni ereditari per non incorrere nell’acquisto automatico di cui al citato art. 485 c.c.. Avverso tale sentenza
l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
SOLUZIONE
Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia delle entrate denunciava, in relazione all’art. 360 c.p.c., comm 1, n.4, la nullità per motivazione apparente della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 132 c.p.c., per non avere la Commissione tributaria regionale adeguatamente esposto le ragioni in fatto e in diritto della decisione.
Con il secondo motivo, in via subordinata, l’Agenzia denunciava, in relazione all’art. 360 c.p.c., comm 1, n.3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 485 c.c. e 2697 c.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale ritenuto non sussistente il possesso dei beni ereditari, a fronte invece di una pacifica circostanza per cui i chiamati all’eredità hanno il domicilio nello stesso immobile in cui lo aveva il de cuius, e di conseguenza per aver ritenuto che i chiamati non avessero perso il diritto di rinunciare all’eredità ex art. 485 c.c.
Il giudice di legittimità accoglie il primo motivo ritenendolo fondato, con assorbimento del secondo, argomentando come segue.
In primo luogo, richiamando una sua precedente pronuncia, la Suprema corte ritiene che se il chiamato si trovi nel possesso di beni ereditari e non compie l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità non può rinunciare all’eredità, ai sensi dell’art. 519 c.c., in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, dovendo il chiamato, allo scadere dei termini stabiliti per l’inventario, essere considerato erede puro e semplice.
In secondo luogo, la considerazione per cui “non è dato sapere se gli eredi rinunciatari si trovano nel possesso dei beni ereditari” pare essere, per la Suprema corte, una considerazione apodittica e priva di riferimenti alla situazione concreta (considerate le specifiche deduzioni portate dall’Ufficio in ordine all’accertata domiciliazione degli eredi nell’immobile in cui aveva il domicilio lo stesso de cuius) e, in quanto tale, idonea a rendere la sentenza censurabile per vizio di motivazione apparente. Tutto ciò in conformità a due orientamenti giurisprudenziali precedenti (Cass. n. 9097/2017 e Cass. n. 13977/2019) secondo cui “ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza quando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento o indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” ovvero “quando la sentenza non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie ipotetiche”.
La Corte pertanto accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo, cassa la
sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
QUESTIONI
Al di là delle questioni di carattere puramente procedimentale che tale pronuncia solleva (in primis quella della necessaria motivazione in fatto e in diritto della decisione impugnata) la vicenda in esame ha importanti risvolti pratici, soprattutto per quanto concerne la rinuncia all’eredità, tracciando una importante linea di demarcazione tra possessore e non possessore dei beni, sottolineando le conseguenze della mancata redazione dell’inventario sulla facoltà di rinunciare validamente all’eredità e, all’inverso, sul suo acquisto automatico.
La qualità di erede, come è sancito dall’art. 459 c.c., non si acquista in automatico, ma solo previa accettazione dell’eredità, che può essere pura e semplice – così determinando il subentro dell’erede in tutti i rapporti attivi e passivi del de cuius – ovvero beneficiata.
L’accettazione con beneficio di inventario, che consente all’erede di non subire le eventuali conseguenze negative della confusione delle due masse patrimoniali, si attua attraverso il compimento di due diverse formalità (aperto il dibattito in ordine alla natura di fattispecie a formazione progressiva, perfezionata solo al compimento di entrambe): oltre alla dichiarazione di accettazione, l’art. 484 del codice civile richiede la redazione di un inventario, con le forme previste dal codice di procedura civile.
Se, di regola, l’acquisto dell’eredità presuppone un necessario atto di accettazione, non mancano ipotesi eccezionali di acquisto senza accettazione.
Rileva a tal proposito la posizione del chiamato che si trovi nel possesso (termine utilizzato in modo improprio dal legislatore, considerato che secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti – ex multis Cass. N. 4707/1994 – il requisito si ritiene integrato anche in costanza di situazioni di detenzione, ritenendosi sufficiente una qualsiasi relazione materiale con uno o più beni ereditari) dei beni ereditari. Onde evitare che il chiamato all’eredità distolga i beni ereditari di cui è in possesso dalla massa ereditaria, in frode degli altri chiamati e dei creditori ereditari, questi viene considerato erede puro e semplice (con confusione della sua personale massa patrimoniale a quella del de cuius e responsabilità ultra vires per i debiti ereditari) qualora non provveda alla redazione del loro inventario entro uno stretto termine trimestrale.
In altri termini, l’art. 485 richiede che il chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari effettui l’inventario nel termine di tre mesi dalla morte del de cuius, o in alternativa consegua automaticamente la qualifica di erede puro e semplice.
La norma stessa non si pronuncia, però, sul tema opposto, e cioè se la redazione dell’inventario sia necessaria anche per i chiamati che vogliano semplicemente rinunciare all’eredità.
La dottrina maggioritaria (X. XXXXXX e X. XXXXXXX, Le successioni, Parte Generale. In Tratt. Dir. Civ. It. Diretto da Xxxxxxxx, Torino, 1977, p. 303; X. XXXXXXX, La rinunzia all’eredità, in Tratt. dir. succ. don. a cura di Xxxxxxxx, I, Milano, 2009, p. 1596; X. XXXXXXXXXX, Delle successioni in generale, artt. 456-535, in Comm. x.x. x xxxx xx Xx Xxxxxxx, Xxxx, 0000, p. 456; X. XXXXXXXX, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, p. 162, .A. PARADISO, L’inventario come presupposto della rinuncia all’eredità, in Xxxxxxxxxxxx.xx, 7/3/2018) e parte della giurisprudenza secolo hanno affermato che l’inventario è occorrente solo in ipotesi di accettazione, e che non occorre quindi in caso di rinunzia da parte del chiamato possessore, osservando che l’art. 519 c.c. non pone particolari regole per la rinuncia dell’erede che si trovi nel possesso dei beni ereditari.
In tal senso Cassazione, sez. II, 30 ottobre 1991, n. 11634 «Palesemente erronea, inoltre, per quanto specificamente concerne la posizione della Z., è l’affermazione del ricorrente secondo cui gli effetti giuridici della rinunzia all’eredità sarebbero subordinati al successivo compimento dell’inventario “nel termine prescritto”. Ed invero tale formalità, peraltro logicamente e giuridicamente incompatibile con l’essenza e le finalità proprie del negozio di dismissione del diritto di eredità, non è prevista dalla norma di cui all’art. 519 cod. civ., a termini della quale uniche condizioni per la validità e l’efficacia (rispetto ai terzi) della rinunzia all’eredità, sono la sua forma solenne (dichiarazione resa davanti ad un notaio od al cancelliere della pretura del mandamento in cui si è aperta la successione) e la sua inserzione nel registro delle successioni».
Sempre in tal senso Cass. civ., sez. II, 19 marzo 1998, n. 2911; Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2012, n. 8021; Cass. civ., sez. II, 17 ottobre 2016, n. 20960.
Contra, invece, si pongono alcune sentenze, che hanno avuto grande eco in dottrina, sollevando molte voci di dissenso.
In Cass. civ., sez. II, 22 giugno 1995, n. 7076, si afferma «a norma dell’art. 485 C.C., il chiamato alla eredità, che a qualsiasi titolo si trovi nel possesso di beni ereditari, ha l’onere di fare, entro un certo termine (alquanto breve), l’inventario, in mancanza del quale lo stesso perde, non solo la facoltà di accettare l’eredità col beneficio di inventario (ai sensi dell’art. 484 C.C.), ma anche di rinunciare ex art. 519 C.C. in maniera efficace nei confronti dei ereditari del de cuius, dovendo, allo scadere del termine stabilito per l’inventario, essere considerato ope legis erede puro e semplice».
Nella successiva Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2003, n. 4845 si legge «L’interpretazione che il giudice di merito ha dato della disposizione dall’art. 485, 2 comma, c.c. – nel senso che la indicata previsione di accettazione dell’eredità ex lege costituisce fattispecie destinata ad operare non solo nel caso in cui l’erede voglia procedere all’accettazione con beneficio di inventario, ma anche quando lo stesso intenda rinunciare puramente e semplicemente – deve ritenersi del tutto corretta. L’accettazione della eredità, che la legge impone al chiamato nel possesso di beni ereditari, il quale non provveda a redigere l’inventario nel termine dell’art. 485 c.c., costituisce previsione di generale applicabilità in caso di delazione ereditaria ed essa trova la sua ratio nella esigenza di tutela dei terzi, sia per evitare ad essi il pregiudizio di sottrazioni ed occultamenti dei beni ereditari da parte del chiamato; sia per realizzare la certezza della situazione giuridica successoria, evitando che gli stessi terzi possano ritenere, nel vedere il chiamato in possesso da un certo tempo di beni della
eredità, che questa sia stata accettata puramente e semplicemente».
Nella recente Cass. civ., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 5862 la Corte ha confermato la decisione dei giudici d’Xxxxxxx che avevano ritenuto inefficace la rinuncia del chiamato nel possesso dei beni ereditari (la quale peraltro, non si comprende quando sia stata effettuata), non essendo stato redatto l’inventario entro il medesimo termine:
Il primo orientamento menzionato, in realtà, è stato recentemente accolto anche in diverse pronunce di merito.
Trib. Bari, sez. lav., 10 settembre 2020, n. 2387, richiama espressamente Cass. n. 11634/1991 e afferma che ai fini della rinuncia da parte del chiamato nel possesso dei beni non è necessario effettuare l’inventario (vengono richiamate addirittura le risalenti Cass. nn. 1965/1949, 1319/1958 e 2067/1964).
In particolare per il Tribunale di Bari, gli orientamenti di segno opposto espressi dalla Cassazione andrebbero interpretati nel senso che la rinuncia effettuata dal chiamato possessore dopo i tre mesi sia inefficace, non tanto perché la rinunzia ha come condizione preliminare la redazione dell’inventario, ma perché il chiamato era già divenuto erede puro e semplice ope legis per effetto del possesso ultratrimestrale dei beni ereditari.
Simmetricamente, Trib. Milano, sez. X, 18 febbraio 2020, n. 1552 ha affermato che la rinuncia impedisce e previene l’applicazione della disposizione di cui all’art. 485 c.c., e che la famigerata pronuncia di Xxxx. n. 4845/2003 tratterebbe un caso di rinuncia tardiva.
A ben vedere, però, nel precedente del 2003 la rinuncia era stata tempestiva, mentre è in Cass.
n. 7076/1995 che la rinuncia è stata effettuata oltre i 3 mesi. La rinuncia era tardiva altresì nel caso di Cass. civ., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 5862.
Anche nel caso in oggetto, da quel che è dato desumere, la rinuncia avvenne dopo la notifica dell’avviso di accertamento e quindi molto probabilmente dopo il decorso del termine dei tre mesi.
Si deve quindi rimarcare una importante distinzione: altro è dire che il chiamato possessore, decorso il termine di tre mesi dall’apertura della successione non avendo fatto l’inventario, non può più rinunciare, essendo divenuto erede puro e semplice ope legis – altro è dire che, per il chiamato possessore la rinuncia all’eredità nei primi tre mesi dalla morte del de cuius prevede come requisito di validità la redazione dell’inventario.
La prima affermazione è certamente vera, come sottolineato anche dalla citata giurisprudenza di merito. La seconda affermazione è invece quantomeno discutibile, sia sotto il profilo teorico (non sussistono norme di legge che impongano tale condotta, e le norme che impongono condotte o esprimono divieti dovrebbero essere interpretate restrittivamente, non analogicamente) che per i suoi effetti pratici: come segnalato dalla dottrina (X.XXXXXXXXX, Il
possesso dei beni ereditari e la rinuncia all’eredità, in Xxxxxxxxxxxx.xx, 29/5/2017, Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 406-2017/C, La rinunzia all’eredità da parte del chiamato possessore, a cura di M.T. LIGOZZI ) si pongono a carico del chiamato possessore rinunziante dei costi molto elevati per la redazione di un inventario che non giova né al rinunziante stesso, né ai creditori del defunto (perché la rinuncia sia valida il rinunciante non deve certamente essersi appropriato dei beni ereditari).
In conclusione, il primo orientamento sembra ancora oggi condivisibile: appare superflua la redazione dell’inventario qualora il chiamato intenda rinunciare all’eredità.
D’altro canto, la sussistenza di un orientamento di Cassazione ormai piuttosto costante di segno opposto induce a suggerire, sul piano pratico, la massima cautela, in specie nel caso in cui l’eredità sia passiva e la rinuncia sia diretta ad evitare conseguenze pregiudizievoli per il patrimonio personale del chiamato.
Diritto e reati societari
Decade automaticamente il sindaco che non partecipa all’assemblea senza addure giustificato motivo
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Dottoressa in legge e Assistente didattico presso l’Università degli
Studi di Bologna
Corte d’Appello di Napoli, Sezione Specializzata in materia di Impresa, Sentenza n. 973 dell’11 marzo 2022
Parole chiave: sindaco – decadenza – decadenza automatica – decadenza sanzionatoria – decadenza ordinaria – delibera assembleare – natura dichiarativa – natura costitutiva – giustificato motivo – assenza – assemblea – adunanze del consiglio di amministrazione
Xxxxxxx: “La decadenza dei sindaci di una società di capitali opera automaticamente con la conseguenza che la delibera assembleare, con la quale ne venga riconosciuto il verificarsi, ha efficacia dichiarativa ed opera ex tunc, cioè dal momento in cui si è realizzata la causa di decadenza”.
Disposizioni applicate: articoli 2405, 1175 e 1375 c.c.
Il caso in esame prende le mosse dall’impugnazione della delibera assembleare di una società per azioni, con la quale è stata dichiara la decadenza del presidente del collegio sindacale ai sensi dell’art. 2405 c.c. per essere stato costui assente a due adunanze consecutive del consiglio di amministrazione senza giustificazione, nonché ad un’assemblea dei soci (facendo pervenire in questo caso giustificazioni solo generiche).
L’ex presidente del collegio sindacale ha citato in giudizio la società innanzi al Tribunale di Napoli, deducendo l’illegittimità della delibera assembleare alla luce (i) della non veridicità del fatto di essere stato assente a due adunanze consecutive del consiglio di amministrazione [circostanza che effettivamente è stata confermata in giudizio], (ii) del fatto di aver comunicato prontamente il proprio impedimento a presenziare all’assemblea dei soci (indicando di avere “pregressi ed improrogabili impegni”) e (iii) del fatto di non essere stato convocato in
assemblea per rappresentare le proprie ragioni in osservanza dei principi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c..
L’attore ha peraltro rappresentato il fatto che la sua assenza all’adunanza assembleare sarebbe stata comunque giustificata in quanto determinata dalla necessità di partecipare alle assemblee di altre società.
In primo grado, il Tribunale di Napoli ha rigettato le domande dell’ex presidente del collegio sindacale, osservando che l’impedimento addotto rispetto alla partecipazione dell’assemblea societaria, ossia la necessità di partecipare alle assemblee di altre società in qualità di sindaco, non poteva considerarsi di natura oggettiva “appartenendo piuttosto ad una scelta dell’attore quella di svolgere il suo compito di sindaco in più società ed alla quale non può riconoscersi un significato così preminente da condizionare lo svolgimento della società dallo stesso vigilata”.
Impugnata la sentenza del Tribunale innanzi alla Corte d’Appello di Napoli, quest’ultima ha comunque confermato la sentenza impugnata, integrandone però la motivazione.
In particolare, la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato l’appello, osservando che:
è ormai consolidato l’orientamento che afferma l’operatività automatica della decadenza sia laddove si verifichino cause di decadenza ordinaria ai sensi dell’art. 2399 c.c., sia laddove si verifichino cause di decadenza sanzionatoria ai sensi degli artt. 2404 e 2405 c.c. (in tal senso, Cass. 2009/1982; Cass. 1676/1957; Cass. 1943/1956; Cass. 11554/2008);
è comunque quanto meno necessario un provvedimento formale che riconosca il verificarsi della decadenza perché possa farsi luogo alle relative conseguenze, quali la sostituzione del sindaco decaduto e l’iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dalla carica;
la relativa delibera ha pertanto efficacia dichiarativa che opera ex tunc, cioè dal momento del verificarsi della causa di decadenza (in tal senso, cfr. anche Trib. Milano del 15 marzo 1956; Trib, Genova del 19 luglio 1993);
il sindaco che non partecipi alle riunioni è tenuto a giustificare preventivamente la propria assenza, sicché, in mancanza di tale giustificazione, può considerarsi maturata la decadenza. Ciò non esclude, comunque, che, sempre in base ai principi di correttezza e buona fede, il sindaco possa provvedervi anche successivamente qualora l’impedimento sia stato di portata tale da escludere anche la possibilità di comunicare la ragione dello stesso.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto che l’ex presidente del collegio sindacale non avesse giustificato la propria assenza all’assemblea – non risultando sufficiente la missiva con cui ha comunicato alla società di essere impossibilitato a partecipare all’assemblea “per impegni presi precedentemente come già comunicatovi nella riunione del Consiglio di Amministrazione” – e fosse pertanto decaduto automaticamente dalla carica.
Peraltro, anche laddove si ritenesse che la decadenza richieda comunque una valutazione delle ragioni che hanno determinato l’assenza – pur se fornite, come avvenuto nel caso di specie, successivamente – rimane comunque il fatto che l’assenza dell’ex sindaco non è affatto giustificata dalla motivazione, da questi addotta, di non aver potuto partecipare per la necessità di presenziare alle assemblee di altre società, posto che, in ogni caso, “sarebbe stato suo onere organizzare la propria attività in maniera tale da non arrecare pregiudizio o ritardo all’attività delle società per le quali svolgeva l’incarico di sindaco”.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Prosecuzione del giudizio di impugnazione di un lodo arbitrale e sopravvenienza del fallimento
di Xxxxxx Xxxxxxx, Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona
Cass. ord., Sez. I, 16 maggio 2022, n. 15612 – Pres. Campanile, Est. Reggiani
Parole chiave
Arbitrato – impugnazione del lodo – competenza – rapporti pendenti – amministrazione straordinaria – fallimento – dichiarazione di insolvenza.
Massima: “Nel caso in cui il fallimento, la dichiarazione di insolvenza o l’ammissione all’amministrazione straordinaria sopravvengano nel corso del giudizio di impugnazione di un lodo arbitrale avente ad oggetto l’accertamento di un credito, è fatto onere al curatore o al commissario di perseguirlo fino al suo naturale epilogo, trattandosi di un’ipotesi di deroga al principio generale xxxxxxx all’art. 52 L.F. e alla vis actractiva della procedura concorsuale”.
Riferimenti normativi
Art. 43 L.F. – Art. 52 L.F. – Art. 83-bis L.F. – Art. 96, co. 2 n. 3 L. F. – Art. 53 D.Lgs. n. 270/1999
CASO
La vicenda risolta dal provvedimento in esame prende avvio con l’instaurazione di un giudizio arbitrale da parte della Società Alfa, in virtù di una clausola compromissoria sottoscritta nel 2007. La Società Alfa s.p.a. chiedeva la condanna del Comune Beta al risarcimento del danno cagionato da plurimi inadempimento alla convenzione stipulata tra il Comune e la Società mista Gamma s.r.l. (società detenuta per il 51% dal Comune Beta e di cui la Società Alfa era parte, quale componente del raggruppamento di imprese, divenuto socio privato). La convenzione aveva ad oggetto l’affidamento a Gamma s.r.l. della gestione di tutte le entrate comunali, tributarie e patrimoniali. A questa, si affiancava un’analoga convenzione stipulata
tra Gamma s.r.l. e Xxxx s.p.a. con la quale Gamma s.r.l. conferiva a Alfa s.p.a. mandato con rappresentanza per lo svolgimento –con organizzazione propria- di tutti i servizi già affidati dal Comune Beta.
Il Comune Beta si costituiva nel giudizio arbitrale eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda, e formulando domande riconvenzionali.
Gamma s.r.l., sviluppava deduzioni analoghe alla Alfa s.p.a., diversificando l’importo del risarcimento richiesto.
Il collegio arbitrale, all’esito dell’istruttoria, rigettava tutte le domande del Comune, accogliendo le domande risarcitorie di Alfa s.p.a. e Gamma s.r.l., nei limiti di cui in motivazione.
Il Comune impugnava il lodo davanti alla Corte di Appello di Roma. Nel corso del giudizio, la Alfa s.p.a. e la Gamma s.r.l. sono state ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria.
Il giudizio è stato, così, interrotto e poi riassunto.
Nel contraddittorio tra le parti, l’impugnazione è stata dichiarata inammissibile. Avverso tale sentenza il Comune ha proposto ricorso per Cassazione, articolato in nove motivi.
Le intimate non si sono difese con controricorso, nonostante la ritualità dell’atto introduttivo.
SOLUZIONE
Le soluzioni offerte dalla Corte nel provvedimento in commento alle numerose questioni sottoposte al suo esame sono così riassumibili.
In via preliminare, la Corte ha ribadito che l’ammissione all’amministrazione straordinaria non incide sulla procedibilità del giudizio. Quale conseguenza, il commissario può appellare nelle forme ordinarie (ai sensi dell’art. 96 L.F. assimilabile al giudizio di impugnazione del loro).
Una prima questione ha poi riguardato il rapporto tra giudizio ordinario e giudizio contabile, rapporto connotato da una netta indipendenza tra i giudizi.
Un secondo blocco di motivi che gravitavano intorno all’asserita violazione del contraddittorio è stato risolto dalla Corte evidenziando la differenza tra omissione dell’esame ed esame con esito errato. La violazione dell’art. 112 c.p.c. presuppone l’omissione dell’esame della questione in ordine alla quale si lamenta l’omessa pronuncia Nel caso in cui, invece, tale questione sia stata affrontata solo in rito o in modo non condiviso dalla parte non si configura un’ipotesi di violazione ex art. 112 c.p.c.
Un terzo blocco di motivi è stato risolto dalla Corte argomentando circa quale sia l’oggetto dell’accertamento delle diverse fasi che compongono il giudizio di impugnazione del lodo, nello specifico la fase rescindente e la fase rescissoria.
A queste si aggiungono ulteriori considerazioni della Corte circa la contraddittorietà che caratterizza l’impugnazione per nullità ex art. 829 co. 1 n. 11 c.p.c.. La Corte ha ritenuto opportuno ricordare che la contraddittorietà cui fa riferimento la norma fa riferimento ad una contraddizione tra le parti del dispositivo (tra motivazione e dispositivo). La contraddizione interna meramente circoscritta alla motivazione non è un vizio a sé ma rileva solo nel caso in cui una simile contraddizione possa impedire la ricostruzione dell’iter logico giuridico sottostante alla decisione.
QUESTIONI
Il caso sottoposto al vaglio della Corte le ha consentito di tornare sul controverso rapporto tra giudizio arbitrale e apertura di una procedura di crisi d’impresa offrendole l’opportunità di fornire alcune precisazioni.
La prima sezione della Corte di Cassazione ha, in via preliminare, ribadito che l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria delle intimate non incide sulla procedibilità del giudizio. Sul punto, la Corte ricorda che la sentenza con cui in primo grado viene accertata o esclusa l’esistenza di un credito nei confronti di un imprenditore insolvente che venga posto
–successivamente alla pubblicazione della sentenza- in amministrazione straordinaria è opponibile alla procedura concorsuale. Ciò implica che il commissario (o, in caso di rigetto, il creditore che voglia ottenere la riforma) è tenuto ad appellarla nelle forme ordinarie.
L’art. 96, co. 2 n. 3 L.F. offre una deroga al principio generale xxxxxxx dall’art. 52 L.F. e alla vis actractiva della procedura concorsuale e prevede che il curatore (o il commissario) possa proporre o proseguire il giudizio di impugnazione avverso la sentenza che sia stata pronunciata prima della dichiarazione di fallimento o di insolvenza che non sia ancora passata in giudicato e che accerti l’esistenza di un credito nei confronti del fallito/insolvente. Tale deroga è applicabile anche all’amministrazione straordinaria in virtù di quanto previsto dall’art. 53 D.Lgs. 270/1999 (in senso conforme, Cass. ord. 27 luglio 2015, n. 15796).
Secondo la ricostruzione offerta dalla Corte, alle stesse conclusioni si deve giungere nel caso in cui il fallimento, la dichiarazione di insolvenza o l’ammissione all’amministrazione straordinaria sopravvengano nel corso del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale, in considerazione del fatto che si tratta di un vero e proprio giudizio di appello, riferitosi a quello svoltosi dinanzi agli arbitri, che deve proseguire davanti al giudice naturale dell’impugnazione (sul punto si veda Xxxx. 28 agosto 1998, n. 8495).
Una volta esposte queste questioni preliminari, la Corte è passata al vaglio dei motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso il Comune ha dedotto il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, rispetto alla giurisdizione della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 1), c.p.c., in relazione agli artt. 103, co. 2, Cost., 37 c.p.c., 13 e 44 r.d. n. 1214 del 1934, per non avere la Corte d’appello rilevato che la cognizione della controversia appartenesse alla Corte dei conti, che ha una giurisdizione generale in materia di contabilità pubblica, trattandosi, nella specie, di rapporti debito-credito tra l’ente impositore e l’esattore, da considerarsi agente contabile dell’ente stesso. È stato evidenziato, inoltre, che la Corte dei conti si è già pronunciata sull’azione di responsabilità erariale promossa dal Comune contro le società intimate, fondata sull’inadempimento alle stesse convenzioni oggetto del presente giudizio, adottando una statuizione di condanna al risarcimento di un consistente danno erariale (sentenza n. 601 del 2012, appellata), così prospettando anche il rischio della violazione del divieto del ne bis in idem.
La prima sezione ha ritenuto che non fosse necessario rimettere la questione alle Sezioni Unite dal momento che i precedenti sul punto non creano margine di dubbio.
La Corte rileva, infatti, che secondo una giurisprudenza da tempo consolidata e salvo ipotesi eccezionali espressamente disciplinate, non è previsto un vero e proprio riparto di giurisdizione tra giudice contabile e giudice originario, essendo le due giurisdizioni reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali.
Le differenze tra le due azioni, sotto il profilo funzionale e strutturale, sono significative. Basti in questa sede ricordare che un’azione è promossa dal procuratore contabile ed ha carattere obbligatorio mentre l’altra è promossa dalla parte danneggiata a sua discrezione; un’azione ha finalità essenzialmente sanzionatoria (e non implica il ristoro completo del pregiudizio subìto) mentre l’altra ha lo scopo ripristinatorio; un’azione non è esercitabile contro gli eredi del responsabile del danno mentre l’altra sì.
Così ricostruite le differenze, in assenza di una norma che attribuisca la giurisdizione esclusiva, in tutte le ipotesi in cui è configurabile un danno erariale e, al contempo, un danno civile, le azioni possono tranquillamente coesistere, anche se riguardano il medesimo fatto materiale, perché il rapporto si pone in termini di alternatività e non di esclusività. Non è questa un’ipotesi di riparto di giurisdizione tra giudice contabile e giudice ordinario, ma di rapporto tra giudizi.
Secondo la ricostruzione offerta dalla Corte, le azioni possono essere esercitate davanti ad entrambi i giudici, sino a quando, anche attraverso una sola di esse, non venga integralmente conseguito il bene della vita richiesto, operando così la preclusione all’esercizio (o alla prosecuzione) dell’altra azione per mancanza di interesse ad agire (sul punto la Corte richiama Xxxx. Sez. Un. 7 gennaio 2014, n. 63; ord. Sez. Un. 24 marzo 2015, n. 5848; Sez. Un. 28
novembre 2013, n. 26582 e Sez. Un. 18 dicembre 2014, n. 26659).
In particolare, sembra opportuno ricordare il richiamo alla sent. della Suprema Corte del 14 luglio 2015, n. 14632, in cui la stessa ha affermato che ove sia proposto per gli stessi fatti un
giudizio civile risarcitorio dopo il giudizio contabile di responsabilità, non sussiste violazione del principio di ne bis in idem, dal momento che vi è una tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra i due giudizi, operando una semplice “interferenza” tra i due giudizi che sono reciprocamente indipendenti nei profili istituzionali anche quando investono lo stesso fatto materiale. Il giudizio civile volto ad ottenere la liquidazione del danno patito dall’amministrazione può essere instaurato e definito, anche quando il giudizio di responsabilità amministrativo-contabile innanzi alla Corte dei conti sia già giunto in decisione, se quest’ultimo non si è concluso con una pronuncia di condanna al ristoro integrale del pregiudizio. Il solo limite è il divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, che impone di tener conto –con effetto decurtante- di quanto già liquidato in sede contabile.
Così ricostruito il rapporto tra i giudizi, la Corte ha respinto il primo motivo di ricorso. Il secondo motivo di ricorso contiene plurime censure.
La prima riguarda la violazione dell’art. 829 co. 1 n. 9 c.p.c. per non aver la Corte d’Appello riscontrato la violazione del principio del contraddittorio operata dagli arbitri, quando hanno negato al Comune il termine richiesto per il deposito di note a seguito dei chiarimenti forniti dal CTU.
Questa censura è stata ritenuta infondata dalla Corte che ha ribadito che sia noto che in tema di giudizio arbitrale, la violazione del contraddittorio sia questione che deve essere esaminata non sotto il profilo formale ma nell’ambito di una ricerca volta all’accertamento di una effettiva lesione della possibilità di dedurre e contraddire, onde verificare se l’atto abbia raggiunto in ogni caso lo scopo di instaurare un regolare contraddittorio e se l’inosservanza non abbia causato un pregiudizio alla parte, con la conseguenza che la nullità del lodo e del procedimento devono essere dichiarate solo nel caso in cui nell’impugnazione, alla denuncia del vizio idoneo a determinarle, segua l’indicazione dello specifico pregiudizio che esso abbia arrecato al diritto di difesa (si veda, da ultima, Cass. ord. 7 settembre 2020, n. 18600).
Nello specifico, la Corte d’appello ha ritenuto trattarsi di una censura meramente formale, in assenza di alcuna indicazione circa le argomentazioni che la parte avrebbe esposto se avesse ottenuto la concessione del termine.
Parte ricorrente ha dedotto di avere illustrato la denunciata violazione del diritto di difesa, poiché –se concesso il termine- avrebbe potuto far valere (anche con idonea ed approfondita allegazione tecnica) le gravi incongruenze e discordanze dell’elaborato peritale rispetto agli effettivi dati relativi alle entrate tributarie, come evincibile dalla documentazione depositata nel giudizio di impugnazione.
Tuttavia, è evidente che le allegazioni della parte ricorrente sono estremamente generiche e non emerge quale concreta attività difensiva la parte non ha potuto compiere senza avere la concessione del menzionato termine.
Dall’esame della sequenza procedimentale non emerge alcuna irregolarità lesiva del diritto di difesa. Inoltre, parte ricorrente non ha chiarito perché non ha presentato tali deduzioni nel termine assegnato per repliche e quali concrete deduzioni e allegazioni non ha potuto compiere a causa della mancata concessione del termine richiesto.
La seconda censura mossa dal Comune nel secondo motivo di ricorso riguarda la statuizione sull’eccepita violazione del contraddittorio per un altro motivo, ritenendola adottata in violazione dell’art. 112 c.p.c., essendosi la Corte di merito sottratta al dovere di pronunciarsi sulle questioni prospettate e preferendo una pronuncia di inammissibilità.
Anche questa censura è stata ritenuta inammissibile dalla Corte.
Come noto, infatti, nel giudizio di legittimità devono essere mantenute distinte l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda dall’ipotesi in cui si censuri la risposta offerta dal giudice a tale domanda, ove può prospettarsi la violazione di una norma di diritto sostanziale o un vizio di motivazione, giacché in quest’ultimo caso, ma non nel primo, il giudice del merito ha preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’ha risolta, sia pure in modo giuridicamente errato ovvero senza giustificare, o non giustificando adeguatamente, la decisione resa (sul punto Cass. ord. 7 maggio 2018, n. 10862; Cass. ord. 12 gennaio 2016, n. 329).
È integrata la violazione dell’art. 112 c.p.c. quando nella decisione impugnata non risulta per nulla affrontata la questione in ordine alla quale si lamenta l’omessa pronuncia e non quando tale questione sia stata affrontata solo in rito o in modo non condiviso dalla parte.
Nel caso in esame, la Corte rileva che la parte ricorrente ha lamentato una statuizione in rito, ritenuta elusiva del merito, che tuttavia vi è stata; e quindi la censura –come formulata- non è ammissibile.
In linea con la medesima ricostruzione, la Corte ha ritenuto inammissibile anche il quarto motivo di ricorso con il quale il Comune, unitamente alla violazione dell’art. 112 c.p.c., aveva prospettato anche la violazione di legge ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.. La censura riguardava l’asserita elusione delle questioni di merito sollevate con il primo motivo di impugnazione, con una pronuncia di inammissibilità non condivisa da parte ricorrente.
Il motivo risulta, agli occhi della Corte, inammissibile dal momento che non vi è stata omissione di pronuncia ma una pronuncia espressa, anche se solo in rito.
Con il terzo motivo di ricorso, la parte ricorrente aveva dedotto la nullità del lodo per non avere gli arbitri rilevato la contrarietà a norme imperative e all’ordine pubblico della procedura di scelta del contraente del socio privato della società mista (partecipata per la quota del 51% dal Comune ricorrente) incaricata anche della riscossione delle entrate fiscali e patrimoniali del Comune, mediante affidamento diretto.
Parte ricorrente ha dedotto nello specifico che, una volta avviata la procedura ad evidenza pubblica di appalto concorso per la selezione del socio privato, essendo intervenuta una sola offerta (irregolare) il Comune, in violazione delle norme che disciplinano tale procedura, ha designato socio lo stesso raggruppamento temporaneo di imprese che aveva presentato la menzionata offerta irregolare, procedendo a trattativa privata.
Tale violazione, secondo parte ricorrente, ha inficiato non solo la costituzione della società ma anche la convenzione da quest’ultima stipulata con il Comune, imponendo al collegio arbitrale di rilevare la nullità.
Sul punto, la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso ricordando che le Sezioni Unite hanno già avuto modo di chiarire che qualora la P.A. intenda dar vita ad una società mista a partecipazione pubblico-privata, la violazione delle regole da seguire nel procedimento di scelta del socio privato non è tale da incidere sull’esistenza giuridica della società ormai iscritta nel R.I. (sul punto si vedano Cass. Sez. Un. 20 maggio 2010 n. 12339; Sez. Un. 30 dicembre 2011 n. 30167).
Nonostante in più occasioni abbia affermato che i principi di diritto interno e di diritto comunitario impongono -anche per la scelta dei soci di minoranza- il preventivo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica se si vuole che la società sia affidataria di pubblici servizi (in tal senso si veda Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, Sez. Riunite, Parere n. 318 del 2011; Cons. Stato, Sez. V, n. 7214 del 30/09/2010; Cons. Stato, Sez. II, n. 456 del 18/04/2007; Cons. Stato, Sez. V, n. 192 del 1998), il giudice amministrativo ha ritenuto legittima l’aggiudicazione mediante trattativa privata dopo l’indizione di procedura concorsuale ristretta (ai sensi del d.lgs. n. 157/1995) che sia andata deserta, come consentito dall’art. 7 del d. lgs. n. 157/1995, a condizioni che non vengano mutate le condizioni iniziali della gara (Cons. Stato, Sez. V, n. 5535 del 10/08/2010; Cons. Stato, Sez. V, n. 3490 del 03/06/2010).
Parimenti, la Corte ha ritenuto inammissibile anche il quinto motivo di ricorso con il quale la parte ricorrente aveva dedotto che la Corte di merito avesse omesso di esaminare la documentazione versata in atti dal Comune, unitamente alla comparsa del nuovo difensore in corso di causa, ritenendo erroneamente trattarsi di produzione tardiva, mentre era documentazione già acquisita durante il giudizio arbitrale, o sopravvenuta alla notifica dell’atto di impugnazione del lodo da parte del Comune.
Sul punto, è noto che il giudizio di impugnazione arbitrale si compone di due fasi, la prima rescindente, finalizzata all’accertamento di eventuali nullità del lodo e che si conclude con l’annullamento del medesimo; la seconda rescissoria, che fa seguito all’annullamento e nel corso della quale il giudice ordinario procede alla ricostruzione del fatto sulla base delle prove dedotte.
Nella prima fase non è consentito alla Corte d’Appello procedere ad accertamenti di fatto, dovendo essa limitarsi all’accertamento delle eventuali nullità in cui siano incorsi gli arbitri, pronunciabili soltanto per determinati errori in procedendo nonché per inosservanza delle
regole di diritto nei limiti previsti dal medesimo art. 829 c.p.c.
È nella fase rescissoria che è attribuita al giudice dell’impugnazione la facoltà di riesame del merito delle domande, nei limiti del petitum e delle causae petendi dedotte dinanzi agli arbitri. Quale conseguenza, non sono consentite né domande nuove rispetto a quelle proposte agli arbitri, né censure diverse da quelle tipiche individuate dall’art. 829 c.p.c. (si veda sul punto Cass. 8 ottobre 2010 n. 20880).
Nel formulare il motivo di ricorso, la parte ricorrente non ha prospettato un vizio della decisione arbitrale tale da giustificare la fase rescindente del giudizio, ma ha investito direttamente il giudice dell’impugnazione della fase rescissoria dello stesso.
Anche il sesto motivo di ricorso contiene due censure ritenute entrambe inammissibili dalla Corte.
La parte ricorrente aveva dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 co. 1, n. 11 c.p.c., nonché dell’art. 1189 e 1460 c.c., ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., oltre alla nullità della sentenza ex art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione con cui il Comune lamentava l’intrinseca contraddittorietà del lodo. Ciò xxxxxx aveva ritenuto sussistenti gli inadempienti ascritti alle società intimate per poi imputare le relative responsabilità all’ente.
Relativamente alla prima censura, la Corte ha rilevato che la contraddittorietà cui fa riferimento l’art. 829 co. 1 n. 11 c.p.c. al fine di consentire l’impugnazione per nullità, non corrisponde a quella di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. (nel testo anteriore a quello vigente) ma va intesa nel senso che il contrasto deve emergere fra le diverse componenti del dispositivo (pertanto, tra la motivazione e il dispositivo), mentre la contraddizione interna tra le diverse parti della motivazione non rileva come vizio in quanto tale, ma solo nel caso in cui impedisca la ricostruzione dell’iter logico e giuridico sottostante alla decisione per totale assenza di una motivazione riconducibile al suo modello funzionale (sul punto si veda da ultimo Cass. ord. 12 gennaio 2021 n. 291).
Nel caso sottoposto al vaglio della Corte, il collegio arbitrale non ha adottato alcuna decisione contenente disposizioni contraddittorie, posto che ha affermato che condotte inadempienti della società Gamma s.r.l. erano le conseguenze a precedenti violazioni contrattuali del Comune.
La critica della decisione offerta dal ricorrente si limita ad essere una non-condivisione nel merito della decisione, traducendosi in una diversa ricostruzione della vicenda in fatto. In quanto tale, è inammissibile.
Per quanto concerne, invece, la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., la censura riguarda l’asserita elusione delle questioni di merito sollevate con il motivo di impugnazione, con una pronuncia di inammissibilità non condivisa dalla parte ricorrente.
Nuovamente, la Corte ha ritenuto inammissibile un motivo di ricorso così formulato dal momento che non censura una vera e propria omissione di statuizione su una domanda formulata, ma una pronuncia espressa, seppur solo in rito
Con il settimo motivo di ricorso la parte ricorrente aveva dedotto la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., con riferimento all’art. 113 co. 15-bis D.lgs. n. 267/2000, c.d. TUEL, (successivamente abrogato dall’art. 12 co. 1 lett. a
D.P.R. n. 168/2010 ma applicabile ratione temporis), nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. , per avere la Corte d’appello ritenuto erroneamente non applicabile la disposizione in esame che avrebbe comportato la cessazione delle convenzioni nel 2006, dal momento che il socio privato era stato scelto con procedura di evidenza pubblica.
Anche questo motivo di ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte riprendendo quanto già espresso circa le due diverse fasi che compongono il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale.
Il giudizio di impugnazione si compone di due fasi: una prima fase, c.d. rescindente, finalizzata all’accertamento di eventuali nullità del lodo e che si conclude con l’annullamento del medesimo; a questa fase ne fa seguito una seconda, c.d. rescissoria, nel corso della quale il giudice ordinario procede alla ricostruzione del fatto sulla base delle prove dedotte.
Nel corso della fase rescindente la Corte d’Appello non può procedere ad accertamenti di fatto, dovendo limitarsi all’accertamento delle eventuali nullità in cui siano incorsi gli arbitri, che sono pronunciabili solo per determinati errori in procedendo, nonché per inosservanza delle regole di diritto nei limiti previsti dall’art. 828 c.p.c.
La Corte rileva che dalle conclusioni rese nel giudizio arbitrale e dalla narrazione dei fatti di causa non emerge che sia stata rivolta una simile domanda agli arbitri. Aspetto che troverebbe conferma nel fatto che nel motivo di ricorso non è lamentato un vizio proprio della fase rescindente nel giudizio di impugnazione.
Infine, anche l’ottavo motivo di ricorso è ritenuto dalla Corte inammissibile.
La parte ricorrente aveva dedotto la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c., in relazione all’art. 829 co. 1 n. 11 c.p.c., e all’art. 1372 c.c., nonché l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1 n. 4 c.p.c. , per avere la Corte d’appello ritenuto erroneamente inammissibile il motivo di impugnazione con il quale il Comune aveva censurato per contraddittorietà la condanna al risarcimento del danno all’immagine e del danno da perdita di chances subìto da Alfa s.p.a., (nonostante sia stata accertata l’autonoma individualità giuridica di tale società Gamma s.r.l.).
La Corte ha rilevato come nella parte censurata del lodo il collegio arbitrale abbia ritenuto che l’esecuzione dei servizi appaltati alla Alfa s.p.a., socio d’opera della Gamma s.r.l., esercitante la
sua attività in forma di mandato con rappresentanza conferitogli da Gamma s.r.l., con l’assenza determinante del Comune, socio di maggioranza della stessa Gamma s.r.l., “implica un rapporto debito/credito diretto di Alfa s.p.a. nei confronti del Comune”.
Pertanto, è chiaro ed evidente che la motivazione della decisione arbitrale è descritta dalla stessa ricorrente come esistente e corrispondente a quanto riportato in dispositivo. Il motivo di impugnazione esclude un sindacato sulla contraddittorietà o completezza della motivazione e, conseguentemente, è inammissibile.
Con riferimento, da ultimo, alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., ciò che è censurato è l’asserita elusione delle questioni di merito sollevate con il motivo di impugnazione, con una pronuncia di inammissibilità non condivisa dalla parte ricorrente.
Al pari di quanto detto in precedenza, la Corte ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso formulato in questi termini poiché non censura una vera e propria omissione di statuizione su una domanda formulata, ma una pronuncia espressa, sia pure solo in rito.
Così argomentato circa i motivi dedotti, la Corte ha respinto il ricorso.
Diritto Bancario
Art. 1957 c.c. e contratto autonomo di garanzia: oscillazioni giurisprudenziali
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Una recente ordinanza della Cassazione del 23 maggio 2022 n. 16636 si è soffermata sulle oscillazioni giurisprudenziali relative all’applicabilità della disciplina dell’art. 1957 c.c. al contratto di garanzia contenente una clausola di pagamento «a prima richiesta e senza eccezioni».
Come noto, secondo le Sezioni Unite n. 3947/2010 al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si applica la norma dell’art. 1957 c.c., sull’onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un’obbligazione di garanzia autonoma.
In argomento, l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità ha espresso posizioni diversamente articolate, stabilendo che la deroga all’art. 1957 c.c. non può ritenersi implicita nell’inserimento, nella fideiussione, di una clausola di “pagamento a prima richiesta” o di altra equivalente, sia perché detta norma è espressione di un’esigenza di protezione del garante, che prescinde dall’esistenza di un vincolo di accessorietà tra l’obbligazione di garanzia e quella del debitore principale e può essere considerata meritevole di tutela anche nelle ipotesi in cui tale collegamento sia assente; sia perché, comunque, la presenza di una clausola siffatta non assume rilievo decisivo ai fini della qualificazione di un negozio come “contratto autonomo di garanzia” o come “fideiussione”, potendo tali espressioni riferirsi tanto a forme di garanzia svincolate dal rapporto garantito (e quindi autonome) quanto a garanzie, come quelle fideiussorie, caratterizzate da un vincolo di accessorietà, più o meno accentuato, nei riguardi dell’obbligazione garantita, sia infine a clausole, il cui inserimento nel contratto di garanzia è finalizzato, nella comune intenzione dei contraenti (non all’esclusione, ma) a una deroga
parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957 c.c. (ad esempio, limitata alla previsione che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l’estinzione della garanzia), esonerando il creditore dall’onere di proporre azione giudiziaria. Ne consegue che, non essendo la clausola di pagamento “a prima richiesta” di per sé incompatibile con l’applicazione dell’art. 1957 c.c., spetta al giudice di merito accertare, di volta in volta, la volontà in concreto manifestata dalle parti con la stipulazione della detta clausola (cfr. Cass. n. 16825/2016 e Cass. n. 5598/2020).
Sulla scia dei rilievi che precedono si colloca un’altra pronuncia della Cassazione, secondo cui in tema di contratto autonomo di garanzia, ove le parti abbiano convenuto che il pagamento debba avvenire “a prima richiesta”, l’eventuale rinvio pattizio alla previsione della clausola di decadenza di cui all’art. 1957, comma 1, c.c., deve intendersi riferito – giusta l’applicazione del criterio ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c. – esclusivamente al termine semestrale indicato dalla predetta disposizione; pertanto, deve ritenersi sufficiente ad evitare la decadenza la semplice proposizione di una richiesta stragiudiziale di pagamento, non essendo necessario che il termine sia osservato mediante la proposizione di una domanda giudiziale, secondo la tradizionale esegesi della norma, atteso che, diversamente interpretando, vi sarebbe contraddizione tra le due clausole contrattuali, non potendosi considerare “a prima richiesta” l’adempimento subordinato all’esercizio di un’azione in giudizio (Cass. n. 22346/2017; Cass. n. 13078/2008).
Più di recente, Cass. n. 5598/2020 ha escluso che la clausola di pagamento «a prima richiesta» sia incompatibile con l’applicazione dell’art. 1957 c.c.
Nell’ordinanza in commento, la Cassazione ha rigettato il ricorso prendendo atto che la Corte di appello ha deciso la causa, nel merito, attribuendo rilievo dirimente alla radicale inapplicabilità della disciplina dell’art. 1957 c.c. al contratto contenente una clausola di pagamento «a prima richiesta e senza eccezioni».
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