Scuola Internazionale di dottorato
Scuola Internazionale di dottorato
Formazione della persona e del mercato del mercato del lavoro
XXVI Ciclo
Il ruolo strategico della bilateralità nel sostegno al reddito, tra legislazione e contrattazione
collettiva
Tutor scientifico: Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
Dott. ssa Xxxxx Xxxxxx
Candidato: Xxxx Xxxxxxxxx
INDICE
Premessa: stato dell’arte e obiettivi della ricerca…………………... | 1 |
CAPITOLO I
GLI ENTI BILATERALI TRA LEGISLAZIONE E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
1. Natura e derivazione degli enti bilaterali …………………………. | 5 |
2. Tra legislazione e contrattazione collettiva ……………………….. | 9 |
3. Il nuovo ruolo degli enti bilaterali nella legge 30 e nel d. lgs n. 276…………………………………………………………………. | 15 |
4. Adesione all’ente: obbligo o onere? La tormentata vicenda dell’art. 10 della Legge Biagi……………………………………………… 5. Interesse pubblico generale ed interesse privato collettivo degli enti bilaterali…………………………………………………………… | 25 30 |
CAPITOLO II
I SISTEMI BILATERALI DI SETTORE
1. La bilateralità in edilizia …………………………………............ | 33 |
2. La bilateralità in agricoltura……………………………………… | 41 |
3. La bilateralità nel terziario……………………………………….. | 49 |
4. La bilateralità in artigianato ……………………………………... | 57 |
CAPITOLO III BILATERALITÀ E SOSTEGNO AL REDDITO
1. Premessa: iniquità e parzialità degli ammortizzatori sociali……………………………………………………... | 68 |
2. Gli enti bilaterali e il sostegno al reddito …………………. | 71 |
3. Gli interventi antecedenti al 2005 ………………………... | 74 |
4. La legge n.80/2005 ………………………………………... | 76 |
5. L’art. 19, legge n.2/2009………………………………….. 6. Il ruolo dell’accordo collettivo…………………………….. 7. Alcune riflessioni sull’art. 19……………………………… 8. La legge n. 33/2009 tra bilateralità e trattamenti in deroga.. 9. La legge n. 92/2012: i nuovi fondi di solidarietà bilaterale.. | 78 82 84 89 93 |
Conclusioni… 113
Literature review 117
Premessa: stato dell’arte e obiettivi della ricerca
Il tema della ricerca portata avanti in questo elaborato riguarda l’analisi e l’approfondimento del fenomeno della bilateralità in Italia. In particolare, si intende realizzare una indagine ricognitiva delle modalità di articolazione degli enti bilaterali e, soprattutto, degli strumenti da essi predisposti a sostegno del lavoratore nelle ipotesi di sospensione o mancanza di lavoro a lui non imputabili. Dunque, ricostruendo il quadro legislativo entro cui si colloca l’azione della bilateralità sul mercato del lavoro, ed esaminando come essa si pone nel contesto socio-economico italiano, l’elaborato si prefigge l’obiettivo di verificare quali possano essere le tendenze e le future direttrici lungo le quali potrebbero dispiegarsi gli effetti dell’azione della bilateralità nei vari comparti produttivi, in ambito di sostegno al reddito.
A tale scopo appare necessario, tuttavia, specificare che oggetto privilegiato della ricerca sono gli organismi, costituiti e regolati dall’autonomia collettiva, che presentano essenzialmente tre caratteristiche: sono composti e gestiti pariteticamente da rappresentanti delle parti sociali che stipulano i contratti che li istituiscono; erogano ai lavoratori ed alle imprese prestazioni e servizi finanziati dai contributi a carico dei singoli datori di lavoro e, in misura diversa, dei lavoratori; sono soggetti giuridici autonomi rispetto alle stesse parti sociali che li costituiscono. Gli enti bilaterali, dunque, sono proprio quegli strumenti posti in essere dall’autonomia collettiva per gestire congiuntamente quanto definito tra le parti sociali in conseguenza del principio della bilateralità; ed essi, in quanto organismi paritetici istituiti per accordo tra le parti, rappresentano un importante strumento di partecipazione sociale, svolgendo, assieme alla contrattazione collettiva, un’azione diretta a soddisfare interessi esplicitamente condivisi, pur essendo costituiti da soggetti che si pongono normalmente come controparti nel sistema delle relazioni industriali.
La costituzione degli enti bilaterali ha interessato principalmente aree e settori produttivi tradizionalmente connotati da una forte frammentazione produttiva, da instabilità dell’impiego (e dunque del reddito e degli istituti contrattuali ad esso correlati), da elevata presenza di lavoro atipico e irregolare, dalla conseguente debolezza associativa e negoziale del sindacato nei luoghi di lavoro. Non è dunque un caso che l’esperienza della bilateralità abbia riguardato settori come quelli dell’edilizia, artigianato, agricoltura, commercio e turismo. Qui, e non altrove, appariva infatti necessario creare e istituzionalizzare per via contrattuale un articolato assetto di relazioni industriali territoriali, capace di surrogare efficacemente istituti e procedure della negoziazione collettiva altrimenti impraticabili o agibili soltanto a condizioni di elevata incertezza dei diritti e di conflittualità sociale permanente.
Mediante la legge n. 30 e il decreto legislativo n. 276 del 2003, la bilateralità ha potuto beneficiare di un pieno riconoscimento e un forte sostegno da parte del legislatore, che ha inteso ampliare il ventaglio di funzioni assolvibili dagli stessi enti bilaterali. La molteplicità delle prestazioni erogate a lavoratori ed imprese, di carattere individuale e collettivo, fa emergere le peculiarità di questi organismi che, pur promanando da una comune matrice sindacale e privata, si occupano di materie di carattere ormai vicino alla dimensione pubblica e tendono ad ampliare sempre più i campi di intervento; ed è in questa ottica che nel primo capitolo del presente lavoro si cercherà di delineare e identificare il ruolo e i nuovi spazi di operatività riconosciuta agli organismi paritetici, guardando al dibattito sorto in merito alla prospettata “istituzionalizzazione” dell’attività riconosciuta in capo agli enti bilaterali, quale conseguenza del conferimento di funzioni pubbliche o parapubbliche operata dal decreto legislativo n. 276/2003.
Successivamente, l’attenzione si sposterà sulla ricostruzione delle forme storiche della bilateralità nei diversi comparti produttivi, partendo, in ordine cronologico, da quello più antico e radicato, vale a
dire l’edilizia, per poi passare alla disamina dell’evoluzione nel tempo e delle funzioni via via attribuite alla bilateralità nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato e del terziario.
Infine, sarà dato ampio risalto al ruolo strategico che la bilateralità ha ricoperto in materia di sostegno al lavoratore in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa: da un welfare negoziale “fai da te” integrativo e spesso sostitutivo di quello pubblico - quando esistente - fino alle logiche di cofinanziamento sperimentate a partire dal 2005, per arrivare alla previsione dei nuovi fondi di solidarietà bilaterali della legge 92 del 2012: inequivocabile segnale di un definitivo e pieno riconoscimento della funzione “sociale” della bilateralità nel sostegno al reddito, al di là della sua rappresentatività sindacale, e l’interesse pubblico generale o meno che la bilateralità può soddisfare.
CAPITOLO PRIMO
GLI ENTI BILATERALI TRA LEGISLAZIONE E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Sommario. 1. Natura e derivazione degli enti bilaterali – 2. Tra legislazione e contrattazione collettiva – 3. Il nuovo ruolo degli enti bilaterali nella legge 30 e nel d. lgs. n. 276/03 – 4. Adesione all’ente: obbligo o onere? La tormentata vicenda dell’art. 10 della Legge Biagi – 5. Interesse pubblico generale e interesse privato collettivo degli enti bilaterali
1.1 Natura e derivazione degli enti bilaterali
La bilateralità è un metodo delle relazioni industriali attraverso il quale le parti sociali decidono di affrontare e risolvere particolari questioni oggetto di confronto – e, in alcuni casi, di conflitto – individuando sedi, strumenti e istituti che vengono gestiti congiuntamente e pariteticamente dai rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali e dei lavoratori al di fuori del paradigma della contrattazione collettiva.
Gli enti bilaterali, dunque, sono proprio quegli strumenti posti in essere per gestire congiuntamente quanto definito tra le parti sociali in conseguenza del principio della bilateralità.
In quanto organismi paritetici istituiti per accordo tra le parti, essi sono un importante strumento di partecipazione sociale, svolgendo, assieme alla contrattazione collettiva, un’azione diretta a soddisfare interessi esplicitamente condivisi, pur essendo costituiti da soggetti che si pongono normalmente come controparti nel sistema delle relazioni industriali.
Inizialmente le funzioni prevalenti di tali organismi erano di tipo assicurativo, retributivo e sindacale. Gli enti bilaterali nascono, infatti per sviluppare attività di tipo assicurativo, verso i lavoratori e verso le imprese, con il compito di colmare e di gestire in chiave mutualistica istituti contrattuali i cui costi non sono sopportabili dalle singole imprese e comunque non sono sostenuti dai sistemi di welfare.
L’avvio di questa esperienza ha origine nel settore edilizio per poi estendersi al settore agricolo e a tutti quei comparti produttivi caratterizzati dalla presenza di piccole e piccolissime imprese, come nel caso dell’artigianato, del commercio e del turismo. A favorire lo sviluppo di iniziative fondate sulla bilateralità era l’assenza di adeguati ammortizzatori sociali in caso di perdita del posto di lavoro e nel passaggio tra un’occupazione ad un’altra. Dunque, la previsione di organismi che assumessero una funzione di garanzia verso le imprese e i lavoratori per le obbligazioni di tipo contrattuale, determinate nella sfera di governo privato del rapporto di lavoro, ha contribuito ad un processo di irrobustimento del sistema delle imprese.
Successivamente la legge n. 30/2003 e, in seguito, il d. lgs. n. 276/2003 hanno mirato ad ampliare il ventaglio di funzioni che tali enti possono svolgere, includendovi: a) la promozione di un’occupazione regolare e di qualità; b) l’intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro; c) la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità d’attuazione
della formazione professionale d’azienda; d) la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti svantaggiati; e) la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l’integrazione del reddito; f) la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità e congruità contributiva; g) lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; h) ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento.
Di conseguenza si può desumere che gli enti bilaterali possono essere considerati delle sedi stabili e specializzate di confronto fra le parti sociali, ispirate a principi di stampo partecipativo, che rispondono alle esigenze: a) di rendere effettivi i diritti retributivi di welfare; b) di integrare il welfare pubblico (previdenza, disoccupazione, sanità, ecc.); c) di surrogare istituti e procedure della rappresentanza e della negoziazione collettiva in settori sindacalmente deboli; d) di dare piena applicazione ai C.C.N.L.; e) di favorire la lotta al sommerso.
La molteplicità delle prestazioni erogate a lavoratori ed imprese, di carattere individuale e collettivo, fa emergere le peculiarità di questi organismi che, pur promanando da una comune matrice sindacale e privata, si occupano di materie di carattere ormai vicino alla dimensione pubblica e tendono ad ampliare sempre più i campi di intervento.
Presupposto per l’affermarsi della bilateralità è il “superamento della dimensione conflittuale negoziale”. E’ necessario, quindi, che vi sia un clima disteso e collaborativo tra le parti sociali affinché gli enti bilaterali possano rappresentare un importante strumento di partecipazione sociale e democratica, attraverso l’attenuazione del conflitto tra le organizzazioni sindacali e quelle datoriali.
Nel tentativo di darne una collocazione ben precisa nel più ampio quadro delle relazioni industriali, gli enti bilaterali possono essere considerati un “sottosistema delle stesse relazioni industriali”; allo stesso modo possono essere considerati “il momento dinamico della contrattazione collettiva”. Al riguardo
molto interessante è il pensiero di X. Xxx che assimila la funzione regolativa del sindacato e della contrattazione collettiva alla funzione legislativa del Parlamento e l’attività di gestione degli enti bilaterali all’attività di governo.
Gli enti bilaterali sono posti in essere sotto forma di associazioni non riconosciute o enti di fatto dotati di autonomia e titolarità nei rapporti giuridici. Oltre a quella di associazione non riconosciuta, essi possono assumere altre vesti giuridiche (società a responsabilità limitata o consorzi); hanno un presidente che li rappresenta legalmente, sono dotati di organi deliberativi, amministrativi, e di controllo composti in via paritetica da esponenti delle associazioni datoriali e di quelle dei lavoratori, e generalmente la durata delle cariche è triennale e rinnovabile.
La costituzione degli enti bilaterali, ad opera delle parti sociali, ha interessato principalmente aree e settori produttivi tradizionalmente connotati da una forte frammentazione produttiva, da instabilità dell’impiego (e dunque del reddito e degli istituti contrattuali ad esso correlati), da elevata presenza di lavoro atipico e irregolare, dalla conseguente debolezza associativa e negoziale del sindacato nei luoghi di lavoro. Non è dunque un caso che l’esperienza della bilateralità abbia riguardato settori come quelli dell’edilizia, artigianato, agricoltura, commercio e turismo. Qui, e non altrove, appariva infatti necessario creare e istituzionalizzare per via contrattuale un articolato assetto di relazioni industriali territoriali, capace di surrogare efficacemente istituti e procedure della negoziazione collettiva altrimenti impraticabili o agibili soltanto a condizioni di elevata incertezza dei diritti e di conflittualità sociale permanente. Si prenda, a titolo esemplificativo, il caso del comparto dell’artigianato, in cui il punto di forza del sistema bilaterale è rappresentato dal fondo di sostegno al reddito. Questo strumento ha permesso di intervenire su uno dei problemi fondamentali delle imprese produttive di piccola dimensione. La trasformazione del mercato e una produzione, per le aziende collegate alla subfornitura, che si svolge secondo il
modello “just in time”, ha determinato, modificando le precedenti modalità produttive delle imprese, una forte esigenza di flessibilità che si traduce nella necessità di avere il massimo di potenzialità e di qualità di prodotto con tempi di consegna sempre più stretti, in presenza anche di momenti di inattività. Senza la possibilità di programmare la produzione, la flessibilità non si può ottenere attraverso l’assunzione di lavoratori a termine in imprese di tali dimensioni. L’elemento decisivo è stato, quindi, l’inserimento dell’ammortizzatore sociale, attraverso il sistema della bilateralità, che ha consentito all’impresa di mantenere un alto numero di dipendenti in forze, per poter coprire le punte di attività, garantendo altresì un reddito ai lavoratori nei momenti di vuoto produttivo.
1.2: Tra legislazione e contrattazione collettiva
Nel sistema italiano della bilateralità vi sono enti istituiti dalla contrattazione collettiva ed enti istituiti dalla legge, con una netta distinzione, quindi, fra prestazioni erogate e funzioni svolte dagli enti bilaterali la cui origine è esclusivamente nella contrattazione collettiva, e prestazioni e funzioni degli enti la cui origine è nella legge. In alcuni casi si tratta di enti bilaterali del tutto autonomi rispetto a quelli costituiti per iniziativa esclusiva della contrattazione collettiva; in altri casi tali enti di origini legale possono essere costituiti nell’ambito di enti bilaterali già costituiti. Le prestazioni di origine legale non potrebbero essere erogate senza che la legge attribuisca espressamente la competenza agli enti bilaterali. Le prestazioni di origine contrattuale, invece, essendo originate direttamente ed autonomamente dalla contrattazione collettiva, variano nel genere e nelle modalità di erogazione in base
alle scelte operate dai diversi contratti collettivi che l’istituiscono ovvero dai propri diversi statuti costitutivi.
Sicurezza
Una delle materie in cui la bilateralità è chiamata a svolgere funzioni di rilievo con specifiche prestazioni da garantire e che sono attribuite dalla legge è senza dubbio quella della sicurezza sul lavoro. In tale ambito gli enti sono denominati “organismi paritetici”, ed ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. ee) del d. lgs. n. 81/08, essi sono le sedi privilegiate per la programmazione di attività formative, elaborazione e raccolta di buone prassi nella prevenzione degli infortuni, sviluppo di azioni di ogni genere inerenti la salute e sicurezza sul lavoro, assistenza alle imprese negli adempimenti legali e ogni altra attività assegnata a tali organismi dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento in materia di sicurezza sul lavoro.
Il sostegno legislativo alle funzioni esercitate dagli organismi paritetici dimostra la strategica importanza del ruolo affidato a tali organismi per l’attività di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Infatti, se dapprima la funzione prevalente di tali organismi era solo orientare e promuovere iniziative formative a favore dei lavoratori; ora gli organismi paritetici assolvono una funzione di supporto delle imprese per individuare soluzioni tecniche e organizzative finalizzate a migliorare la prevenzione infortunistica (art. 51, co. 3). Il marcato accento che il legislatore pone sul rapporto tra bilateralità e sicurezza nei luoghi di lavoro è confermato, inoltre, nell’aver attivato due specifici canali di finanziamento delle attività di tali organismi paritetici. Ferma restando la competenza di origine contrattuale di molti enti bilaterali nel finanziare la formazione per la sicurezza, il d. lgs. n. 81/08 istituisce presso l’Inail un Fondo finalizzato anche a sostenere le attività degli organismi paritetici. Poiché le altre attività finanziabili riguardano la formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro delle piccole imprese e medie
imprese, nulla esclude che l’attività formativa promossa dagli organismi paritetici sia finanziata con il predetto fondo. Il secondo canale di finanziamento è quello previsto dall’art. 51, co. 3-bis, che permette di ricorrere anche ai Fondi interprofessionali oppure al Fondo per i lavoratori in somministrazione per finanziare attività formativa in materia di sicurezza.
Di rilievo è, inoltre, la previsione contenuta nell’art. 51, co. 2 del Testo Unico 81/08, che affida agli organismi paritetici anche la funzione di «prima istanza di riferimento in merito a controversie sorte sull’applicazione dei diritti di rappresentanza, informazione e formazione».
Analoga importanza riveste la funzione affidata agli organismi bilaterali, consistente nell’attribuire attestati alle imprese circa l’attuazione di modelli efficaci di organizzazione e gestione della sicurezza sul lavoro. In tal modo si rafforza il ruolo degli enti bilaterali in materia di sicurezza, pur conservando dubbi riguardo alla effettiva capacità tecnica degli enti di effettuare l’attestazione tecnica. Tuttavia, preme sottolineare che tale asseverazione non ha valore certificatorio ed esimente della responsabilità delle imprese atteso che gli organi di vigilanza possono tenere conto della valutazione dell’ente paritetico, senza esserne obbligati.
Formazione
Sebbene alcuni precedenti possano già rinvenirsi nei protocolli pubblici degli anni ’80 (la nascita di Chirone 2000 in ambito Intersind è datata 1987), appare incontestabile che il 1993 abbia rappresentato l’anno di svolta da cui prese definitivamente avvio l’esperienza italiana degli organismi bilaterali per la formazione. E’ infatti con l’articolo 9, legge n. 236/93 che il legislatore istituì i primi organismi paritetici la cui funzione principale era di effettuare indagini ed analisi sui fabbisogni formativi. Sebbene proprio in materia di formazione, gli enti bilaterali hanno svolto da sempre una funzione di rilievo per scelta della contrattazione
collettiva, pur senza rivoluzionare il quadro normativo delle politiche formative, con la legge n. 236/93, per la prima volta, la formazione si rivolgeva anche ai lavoratori occupati mediante l’istituzione di Fondi paritetici appositamente costituiti sicché era naturale coinvolgere proprio e parti sociali nella gestione delle politche formative.
Mediante questa legge, il legislatore introduce il canale di finanziamento delle attività formative, istituendo il contributo obbligatorio pari allo 0,30% della retribuzione di ciascun dipendente posto a carico delle imprese iscritte alla gestione assicurativa contro la disoccupazione involontaria.
Un ulteriore passaggio regolativo si ha con l’articolo 17 della legge
n. 196/97, in cui si prevede che il contributo dello 0,30% debba
«confluire in uno o più Fondi nazionali, articolati regionalmente e territorialmente, aventi configurazione giuridica di tipo privatistico e gestiti con partecipazione delle parti sociali».
Tuttavia la concreta attuazione si ha con l’articolo 118 della legge
n. 388/2000, col quale si istituiscono i «Fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua» la cui costituzione può avvenire solo mediante accordi interconfederali stipulati da sindacati e associazioni di imprese maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Preme precisare, però, che la legge ha indicato la fonte contrattuale istituiva dei Fondi riferendosi solo agli accordi interconfederali; in tal modo gli stessi Fondi sono naturalmente costituiti per macro- settori produttivi, quelli tipicamente disciplinati dal livello interconfederale di contrattazione collettiva (industria, agricoltura, terziario, artigianato) ferma restando la libertà contrattuale di articolare l’organizzazione dei Fondi su base regionale e territoriale.
Come citato in precedenza, a questi fondi affluiscono i contributi dovuti dai datori di lavoro che aderiscono ai Fondi medesimi, secondo la legislazione in materia di assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, cioè utilizzando il c.d. 0,30%. Ne
discende che i datori di lavoro che aderiscono volontariamente al Fondo obbligano l’Inps a versarne il corrispondente importo.
Intorno alle modalità di finanziamento dei suddetti fondi si è generata una differenza di opinione circa la natura giuridica di questi enti bilaterali. Secondo il legislatore – al pari degli organismi paritetici per la sicurezza sul lavoro – siamo in presenza di enti istituiti dalla legge, ma costituiti dalla contrattazione collettiva ed aventi natura giuridica privatistica. All’opposto, ad avviso della Corte Costituzionale, il finanziamento dei fondi interprofessionali ha natura giuridica pubblicistica in quanto la percentuale dello 0,30% della retribuzione lorda costituisce contributo di natura previdenziale e perciò pubblicistico. Questa è infatti la tesi sostenuta nella sentenza n. 51 del 13 gennaio 2005 dai Giudici delle Leggi, secondo i quali, i predetti fondi «gestiscono i contributi dovuti dai datori di lavoro ad essi aderenti, ai sensi della legislazione in materia di assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione», in tal senso il meccanismo di contribuzione dei fondi viene definito come «contribuzione obbligatoria ad utilizzo facoltativo».
Complessivamente, pur accettando la tesi della Corte Costituzionale, la natura giuridica pubblicistica sembra attenere al finanziamento e non alla costituzione dell’ente: infatti resta ferma la natura giuridica privatistica dell’atto di adesione al fondo interprofessionale, in quanto atto di autonomia privata: non a caso il datore di lavoro è obbligato a versare il contributo dello 0,30%, ma sceglie liberamente a chi versarlo.
Ben diversa è invece la disciplina che fa riferimento ai Fondi bilaterali ex art. 12, d. lgs. n. 276/03. Si tratta, infatti, di fondi costituiti, «anche nell’ente bilaterale», col contratto collettivo nazionale delle imprese di somministrazione di lavoro che può acquisire la soggettività giuridica di associazione non riconosciuta, ovvero la personalità giuridica. Tale fondo è destinato soprattutto a interventi volti a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale in favore dei lavoratori in
somministrazione, ed è finanziato obbligatoriamente con un contributo pari al 4% della retribuzione corrisposta ai lavoratori in somministrazione (sia a tempo determinato che a tempo indeterminato). Tuttavia l’obbligo legale di contribuzione dei predetti fondi lascia immutata la sua origine contrattuale perché la costituzione del fondo resta comunque dipendente dalla volontà privata collettiva.
Previdenza
Modificando l’originaria disciplina del d. lgs. n. 124/93, l’articolo 3, d. lgs. n. 252/05 stabilisce che «i contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; accordi anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro» possono istituire forme pensionistiche complementari. Tali forme di previdenza possono assumere la configurazione giuridica di associazioni non riconosciute oppure di fondazioni finalizzate alla gestione di un Fondo finanziato mediante destinazione del Tfr dei lavoratori che vi aderiscano.
Tali fondi, spesso, non vengono considerati nell’ambito della bilateralità, sebbene fra le prestazioni di alcuni enti bilaterali di origine contrattuale vi è anche la previdenza integrativa. Eppure l’art. 5 del d. lgs. n. 252/05, nel disciplinare la partecipazione negli organi di amministrazione e di controllo dei Fondi, stabilisce che
«la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche complementari deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro». Non a caso, i contratti collettivi costitutivi dei Fondi di previdenza stabiliscono che gli organi di “governo” dei
fondi siano costituiti pariteticamente, al pari degli organi di governo degli altri enti bilaterali.
Relativamente a questo ambito, ossia quello della previdenza, la differenza principale rispetto agli altri enti bilaterali riguarda le modalità di finanziamento che, a differenza dei fondi interprofessionali per i quali la scelta se versare ad un fondo o direttamente all’Inps dipende dal datore di lavoro, per i fondi di previdenza complementare coinvolge esclusivamente la volontà individuale dei lavoratori e non delle imprese. Come si è già detto, talvolta, l’obbligo di contribuzione è previsto dalla legge a carico delle imprese (si pensi al fondo per la formazione dei lavoratori in somministrazione), altre volte è obbligatorio per vincolo derivante dall’applicazione del contratto collettivo. Nel caso dei fondi previdenziali previsti dalla legge, invece, è la norma legale a stabilire che i lavoratori hanno il diritto di scegliere se destinare il Tfr ai fondi bilaterali di previdenza complementare costituiti dalla contrattazione collettiva (i c.d. fondi chiusi), oppure ad altre forme di previdenza (i c.d. fondi aperti), pur godendo dei trattamenti economici e normativi previsti dal contratto collettivo.
1.3 Il nuovo ruolo degli enti bilaterali nella legge n. 30 e nel d. lgs. 276 del 2003
L’istituto della bilateralità, all’interno della legge delega n. 30/2003 e del relativo decreto legislativo n. 276/2003, è stato oggetto di una significativa e profonda rivisitazione, che ha portato ad una valorizzazione e trasformazione radicale dell’istituto stesso.
Le molteplici e in parte inedite competenze che, nell’ambito del disegno di riforma, il legislatore ha attribuito agli enti bilaterali,
hanno suscitato grande curiosità e interesse nei riguardi di questi organismi, già operanti nel sistema italiano delle relazioni industriali.
Con i due provvedimenti normativi citati, sembrano infatti porsi le basi per lo sviluppo di una nuova fase dei rapporti fra lo stato e le parti sociali, suscettibile di trasformare sensibilmente – se assecondato da queste ultime – il sistema delle relazioni industriali del nostro Paese.
Riportando fedelmente l’art. 2 comma 1 lettera h) del d. lgs n. 276/03 gli enti bilaterali sono «organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità, l'intermediazione nell'incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l'integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento».
Un primo aspetto di tutta evidenza è la volontà del legislatore di incentivare e ampliare le funzioni ed il ruolo degli organismi bilaterali, da un lato attraverso la valorizzazione di alcune funzioni “classiche” da essi esercitate, e dall’altro attraverso la previsione e l’implementazione di nuove competenze che si sviluppano su tre direttrici fondamentali: la regolazione del mercato del lavoro, la programmazione e la gestione di attività formative e la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità contributiva.
Un secondo aspetto da rilevare afferisce all’inedita fonte normativa dalla quale questi organismi scaturiscono o possono
costituirsi; infatti scorre una netta differenza tra gli enti bilaterali formatisi prima della legge 30/2003 e quelli successivi alla stessa normativa. I primi sono enti istituiti negozialmente, attraverso la contrattazione collettiva, a cui le parti sociali attribuiscono funzioni e risorse negoziali, (salvo fruire di incentivi pubblici basandosi su una legislazione di tipo premiale volta a favorire la piena regolarizzazione normativa, contrattuale e contributiva, in settori particolarmente esposti al rischio di pratiche elusive); i secondi sono soggetti a cui la legge affida un insieme di funzioni pubbliche o parapubbliche che hanno fatto subito “gridare” all’istituzionalizzazione ad opera di parte della dottrina.
Le molteplici e in parte inedite competenze che, nell’ambito del suddetto impianto normativo, sono state attribuite agli enti bilaterali, hanno suscitato grande curiosità e interesse nei riguardi di questi organismi; le valutazioni della dottrina sono molto differenziate: tra chi intravede pericoli di “deriva istituzional- corporativa” e di snaturamento delle tradizionali funzioni di rappresentanza sindacale e chi, viceversa, considera la bilateralità “la nuova frontiera” dell’azione sindacale, ovvero una delle possibili strade da percorrere per rispondere con particolare efficacia alle nuove esigenze che si rinvengono in un mercato del lavoro sempre più frantumato e flessibile.
Le prime riserve si sono sollevate su quanto previsto dall’art. 2, comma 2, lettera h), del decreto legislativo n. 276/2003, secondo il quale la costituzione degli enti bilaterali può avvenire ad iniziativa di “una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”. Dietro questa previsione si celerebbe, secondo taluni, l’intento di superare i veti dei sindacati contrari alla costituzione di enti bilaterali che esercitino i nuovi compiti, perché basterebbe almeno una associazione dei datori e una associazione dei lavoratori – entrambe rappresentative – “che ci stanno”. Il risultato sarebbe quello di favorire accordi in via separata, e non unitaria.
A parere di un’ altra parte della dottrina questo timore appare ingiustificato, poiché è difficile immaginare che i sindacati siano realmente intenzionati a procedere alla stipulazione di accordi in via separata o siano interessati ad attivare e finanziare enti bilaterali che esercitino i nuovi compiti senza un’adeguata garanzia della loro efficacia. A nessuno gioverebbe la costituzione di un ente paritetico, senza la partecipazione del sindacato maggiormente rappresentativo, e quindi di un soggetto con un peso specifico ridotto.
Una seconda critica alle innovazioni apportate in tema di enti bilaterali dalla riforma del mercato del lavoro del 2003 concerne l’inopportunità di assegnare ad essi alcune funzioni pubbliche o parapubbliche. Infatti, l’opinione di una certa parte della dottrina è che la certificazione dei contratti di lavoro e l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro sono funzioni pubbliche o parapubbliche che, se vengono esercitate dal sindacato, ne snaturano l’identità e ne determinano l’attrazione nel sistema politico-amministrativo dello Stato; con la conseguenza che gli enti bilaterali risulterebbero per così dire “istituzionalizzati”.
Una posizione più radicale al riguardo sembra assumere X. Xxxxxxxxxx, il quale sostiene che gli enti bilaterali sono strumenti gestionali delle iniziative concordate negozialmente dalle parti, che possono amministrare risorse stanziate dalla contrattazione collettiva, e come limite estremo possono gestire risorse aggiuntive messe a disposizione da parte del sistema pubblico. Tuttavia, a parere del medesimo, gli organismi in questione non dovrebbero mai assumere funzioni pubbliche o parapubbliche “a meno di non vedere snaturata la loro natura giuridica, la loro funzione e il loro ruolo diventando, per effetto di tali deviazioni, o un accessorio burocratico della macchina pubblica o, forse in alternativa, una sorta di confuso supersindacato o neocorporazione dotato di risorse e poteri tali da condizionare fino ad asservirle le stesse organizzazioni rappresentative degli interessi che hanno dato vita all’ente bilaterale stesso”.
Contrapposto a questa parte della dottrina, vi è un altro orientamento che, con un punto di vista diametralmente opposto, giudica positivamente l’assegnazione di funzioni pubbliche e parapubbliche agli enti bilaterali. Secondo quest’impostazione i timori di derive neo-istituzionalistiche sono smentiti, o comunque ridimensionati, dal fatto che le competenze attribuite alla bilateralità non sono, in realtà, funzioni pubbliche, e che le organizzazioni che costituiscono gli enti bilaterali sono mosse, e continueranno ad essere mosse, da un interesse non pubblico, bensì collettivo. Tale opinione è avvalorata, secondo alcuni giuristi, dalla circostanza che tali enti non risultano, almeno fino ad ora, mai abilitati e né hanno mai chiesto di svolgere i predetti compiti e funzioni.
Intermediazione
Entrando nel dettaglio, gli enti bilaterali sono inclusi fra i soggetti pubblici e privati che possono esercitare intermediazione di manodopera in base alle disposizioni previste dal decreto legislativo n. 276/2003.
Dalla lettura della definizione di “intermediazione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro” contenuta nell’articolo 2, comma 1, lettera b) dello stesso decreto si comprende che le attività in questione riguardano sostanzialmente i servizi per l’impiego, che già la normativa precedente aveva attribuito a soggetti privati autorizzati in concorrenza con il sistema pubblico gestito dalle Regioni e dalle Province.
Nello specifico il comma 3 dell’art. 6 stabilisce che gli enti bilaterali devono rispettare una serie di requisiti per assolvere a tale funzione: disponibilità di uffici idonei allo svolgimento dell’attività in questione, personale dotato di adeguate competenze professionali e l’assenza in capo ai loro dirigenti con poteri di rappresentanza di condanne penali per una serie di delitti, compresi quelli in materia di infortuni e sicurezza sul lavoro e
previdenza sociale. Si richiede, inoltre, l’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro.
L’attribuzione di questa funzione agli enti bilaterali, a differenza di quelle in materia di sicurezza o formazione continua, non avviene in via esclusiva dal momento che tale attività non può essere svolta solo dagli enti bilaterali, ma anche da imprese private (il riferimento è alle imprese di somministrazione di manodopera ex art. 4, d. lgs. n. 276/03). Proprio questa coesistenza fra enti bilaterali e imprese private nell’attività di intermediazione ha ingenerato in una parte della dottrina dubbi sull’opportunità di consentire che anche gli enti bilaterali (e in generale l’autonomia collettiva) possano svolgere attività di collocamento di manodopera.
Infatti alcuni studiosi, sostenendo l’inopportunità dell’assegnazione di tali funzioni da parte del legislatore, ritengono che gli stessi enti bilaterali, godendo di un obiettivo vantaggio competitivo, potrebbero rappresentare “un formidabile concorrente” per le agenzie private e per i centri pubblici dell’impiego, assumendo una funzione monopolistica o quanto meno fortemente oligopolistica nella gestione del mercato del lavoro. Secondo quest’impostazione, vi è il rischio che gli enti bilaterali possano svolgere una funzione per così dire “leonina”, poiché dotati di una forza particolare, in quanto rappresentano gli interessi sia di chi cerca sia di chi offre lavoro, essendo costituiti da sindacati e imprese. Dunque uno degli argomenti addotti riguarda la condizione di tendenziale monopolio che si produrrebbe nel mercato del lavoro a vantaggio di un soggetto intermediario di diretta derivazione imprenditorial- sindacale qual è l’ente bilaterale. Ne discende che si potrebbe configurare un possibile condizionamento della libertà sindacale dei lavoratori – come anche delle imprese – i quali, per fruire dei servizi di collocamento offerti dall’ente bilaterale, potrebbero essere indotti all’iscrizione ad uno dei sindacati costituenti l’ente, secondo il modello delle clausole contrattuali di closed shop, ritenute illegittime nel sistema giuridico italiano.
All’opposto, chi ha mostrato il suo favore alla legittimazione dell’ente bilaterale nell’attività di intermediazione, ha messo in evidenza che proprio la natura sindacale bilaterale dell’ente potrebbe garantire quel “controllo sociale” del mercato del lavoro, meno condizionato dalle – pur legittime – esigenze di un’impresa di profitto autorizzata a svolgere attività di collocamento privato.
In definitiva, la questione si presenta esclusivamente sul piano della opportunità politico-sindacale che l’ente bilaterale svolga quest’attività, per lungo tempo affidata all’amministrazione statale e poi privatizzata. Si tratta, allora, di spostare l’attenzione su un altro profilo del problema, vale a dire sulla natura dell’interesse che viene ad essere soddisfatto dalle attività degli enti bilaterali e dalla correlativa natura giuridica dei soggetti deputati alle relative funzioni: soggetti pubblici o privati.
La certificazione
Una seconda importante novità contenuta nella legge n. 30/03 e nel relativo decreto attuativo è l’attribuzione in capo agli enti bilaterali della funzione di “certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità contributiva”.
Occorre precisare che l’istituto della certificazione assolve principalmente a due distinte funzioni: esatta qualificazione dei contratti di lavoro e consulenza e assistenza alle parti in relazione alla stipulazione del contratto ed alle modifiche successive. Questa procedura volontaria, posta in essere su richiesta scritta comune delle parti, ha l’obiettivo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro, tenendo conto anche delle numerose peculiarità che caratterizzano le nuove tipologie contrattuali in materia di lavoro.
Dunque anche presso gli enti bilaterali possono essere istituite le Commissioni di Certificazione oltre che presso le Direzioni provinciali del lavoro, Province, Università pubbliche e private (registrate presso uno speciale albo detenuto dal Ministero del
lavoro) nonché presso i Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.
Dalla lettura dell’articolo 81 del decreto n. 276 si rileva che la nuova funzione di certificazione e di assistenza effettiva alle parti contrattuali, riconosciuta agli enti bilaterali, possa essere assolta tanto nella fase iniziale, in sede di costituzione del rapporto di lavoro, che in un momento successivo e può riguardare qualsiasi aspetto (la qualificazione giuridica, il contenuto del programma negoziale, la disponibilità o meno dei diritti).
Nell’ambito del medesimo impianto normativo, con l’articolo 77, comma 1, il legislatore stabilisce, inoltre, che le parti, ove intendano presentare l’istanza di avvio della nuova procedura di certificazione alle commissioni istituite a iniziativa degli enti bilaterali, possono rivolgersi unicamente alle commissioni costituite dalle rispettive associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro. Il che significa che il lavoratore che si rivolgerà all’ente bilaterale per essere “collocato” sul mercato, nel caso voglia certificare il proprio contratto dovrà necessariamente rivolgersi alle commissioni di certificazione istituite presso altre sedi, a meno che non decida di aderire all’associazione sindacale che ha contribuito a costituire quell’ente bilaterale; e quindi, è agevole dedurre che mentre l’attività di intermediazione può essere svolta nei confronti di qualsiasi soggetto, senza che il medesimo debba essere iscritto al sindacato che ha costituito l’ente, per tutte le funzioni di certificazione il decreto legislativo n. 276/2003 espressamente stabilisce che le parti dovranno «rivolgersi alle commissioni costituite dalle rispettive associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro». Dunque, secondo il legislatore, possono svolgere l’attività di certificazione «gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento ovvero al livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale». La ratio della norma è da ricercare nella volontà da parte del legislatore di affidare agli enti bilaterali la funzione certificativa per il sol fatto di essere organismi bilaterali in
cui convivono le parti e perciò si contemperano i reciproci interessi. Tuttavia, il carattere paritetico degli stessi enti non li rende – a giudizio di taluni studiosi – più adeguati a svolgere la funzione di controllo della legittimità dei contratti e rapporti di lavoro, così come accade, ad esempio, nell’ambito della sicurezza sul lavoro, in cui è richiesta una certa competenza dei componenti degli organismi paritetici, e comunque l’attestazione non risulta vincolante per gli organi di vigilanza. Al contrario, nel caso della certificazione, l’atto certificato è vincolante per le autorità amministrative di controllo, sicchè si presuppone che la volontà delle parti collettive manifestata attraverso gli enti bilaterali sia superiore al controllo pubblico effettuato dai competenti organi amministrativi: riemerge in tutta la sua pienezza il delicato rapporto fra interesse privato perseguito da soggetti privati e interesse pubblico perseguito da soggetti pubblici.
A seguito dell’attribuzione in capo agli enti bilaterali sia delle attività di intermediazione sul mercato del lavoro, sia di quelle di certificazione, a parere di alcuni autori, si potrebbe configurare, all’interno degli stessi enti, il rischio di un “conflitto d’interessi”. Infatti, secondo questa tesi, vi sarebbe la possibilità che il datore di lavoro si decida a ricorrere agli enti bilaterali per ottenere servizi di mediazione, non tanto per le loro maggiori competenze, quanto per assicurarsi una certificazione “adeguata”; ciò sarebbe avvalorato dall’eventualità che gli stessi enti, per ottenere l’incarico di mediazione, possano rendersi disponibile ad atteggiamenti “meno rigidi” in sede certificatoria.
Infine, gli enti bilaterali sono competenti a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’articolo 2113 del Codice Civile (art. 82, d. lgs.
n. 276/03). In tal caso, le conclusioni possono essere diverse, poiché la natura dell’ente, cioè l’essere composto da imprese e sindacati, potrebbe essere l’equivalente delle sedi di conciliazione sindacale previste dall’articolo 2113. Infatti, senza richiamare l’istituto della certificazione, gli enti bilaterali potrebbero svolgere
la funzione conciliativa ex articolo 2113 c.c. e art. 410 c.p.c. solo su espressa delega di funzione da parte dei contratti collettivi.
Regolarità contributiva
Carattere innovativo riveste altresì la disposizione del d. lgs. n. 276 che, riprendendo la normativa settoriale prevista nell’edilizia, stabilisce l’obbligo per il committente o il responsabile dei lavori, di chiedere alle imprese esecutrici un certificato di regolarità contributiva, che può essere rilasciato, oltre che dall’Inps e dall’Inail, anche dalle Casse edili e dagli enti bilaterali.
Invero, fin dalla metà degli anni Novanta, gli stessi enti bilaterali sono stati coinvolti dalla legislazione nelle politiche di contrato al lavoro irregolare. Già l’articolo 3, comma 8, d. lgs. n. 494/1996 aveva introdotto, infatti, l’obbligo a carico dei committenti di appalti pubblici e del responsabile dei lavori in edilizia di richiedere alle imprese appaltatrici un certificato di regolarità contributiva rilasciato – oltre che dall’Inps e dall’Inail – dalle Casse edili, previa stipula di una convenzione fra Casse e i medesimi istituti pubblici. L’articolo 2, del D.L. n. 210/02 (convertito con modifiche nella legge n. 266/02) ha esteso l’obbligo del documento unico di regolarità contributiva anche agli appalti privati, sempre nel settore edile, pena la revoca della concessione. La disposizione è stata poi confermata nel Codice dei contratti pubblici, all’articolo 118, comma 6-bis, d. lgs. n. 163/2006, in base al quale, «ai fini di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso ed irregolare del settore dell’edilizia, le Casse edili, sulla base di accordi stipulati a livello regionale con Inps e Inail, rilasciano il documento unico di regolarità contributiva…».
Inoltre, l’articolo 1, comma 1176, legge n. 296/06 ha disposto con con decreto del Ministro del Lavoro (d. m. 24 ottobre 2007) si definiscano le modalità di rilascio del Durc.
L’aspetto di maggior interesse è che il predetto d. m. ha previsto, in via sperimentale, che gli enti bilaterali di cui all’articolo 2, comma
1, lettera h), costituiti da una o più associazioni dei datori o dei prestatori di lavoro stipulanti il contratto collettivo nazionale che siano, per ciascuna parte, comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possono rilasciare il Durc previa stipula di una apposita convenzione con Inps e Inail, approvata dal Ministero del Lavoro. Il coinvolgimento degli enti bilaterali di tutti i settori produttivi (e non solo delle Casse edili) si spiega anche attraverso l’articolo 1, comma 553, legge n. 266/05 che ha disposto che il Durc è necessario per consentire alle imprese di accedere a benefici e sovvenzioni di origine comunitaria, si pensi, a titolo esemplificativo, ai Fondi strutturali comunitari.
In definitiva, questo coinvolgimento di tutti gli enti bilaterali, e non solo delle Casse edili, rappresenta un importante sostegno legislativo al sistema della bilateralità in quanto affida agli enti la funzione di accertamento degli adempimenti di rilievo pubblicistico (come, per esempio, il corretto versamento dei contributi previdenziali). Ciò che rende diversa questa funzione da quelle viste in materia di previdenza, formazione continua o sicurezza sul lavoro, è che si tratta di attività di controllo e certificazione delle imprese associate all’ente bilaterale; controllo effettuato in alternativa a quello svolto da organi pubblici (Inps, Inail).
1.4 Adesione all’ente: obbligo o onere? La tormentata vicenda dell’art. 10 della Legge Biagi
Nell’ambito del fenomeno della bilateralità, una questione di grande complessità e delicatezza – emersa con l’articolo 10 della legge n. 30/2003 – concerne il rispetto del principio di libertà sindacale negativa (cioè la libertà da parte del singolo lavoratore o
datore di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale) e dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di cui rispettivamente ai commi 1 e 4 dell’art. 39 della Costituzione.
In testuale modifica dell’art. 3 del d.l. n. 71 del 1993, l’art. 10 dispone che “ per le imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accorsi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, il riconoscimento di benefici normativi e contributivi è subordinato all’integrale rispetto degli accordi e contratti citati”. La formula appena indicata “integrale rispetto degli accordi e contratti citati” in sostituzione di quella prevista dalla l. n. 151 del 1993 relativa a “integrale rispetto degli istituti economici e normativi stabiliti dai contratti collettivi di lavoro” costituisce chiaramente un elemento di discontinuità rispetto alla normativa precedente e alla giurisprudenza di merito; infatti l’art. 10 della legge n. 30, la cui introduzione secondo alcuni si giustificherebbe con il tentativo di garantire da parte del legislatore il sostegno finanziario degli enti bilaterali, prevede che la “fiscalizzazione degli oneri contributivi e fiscali” sia subordinata non solo al rispetto delle clausole economiche e normative dei contratti collettivi ma anche al rispetto delle clausole obbligatorie e con esse di quelle che attengono all’adesione agli enti bilaterali. Per una migliore comprensione, occorre precisare che che la parte economica del contratto collettivo è quella che contiene la regolamentazione in via diretta dei trattamenti economici, la parte normativa è quella che contiene il complesso delle situazioni di diritto che regolano il rapporto e la parte obbligatoria è quella che concerne l’insieme di clausole che vincolano i soggetti stipulanti
Dunque, la norma, stabilendo l’estensione generalizzata del contratto collettivo alle aziende e ai lavoratori, ivi inclusa la parte
c.d. obbligatoria, ha incontrato alcune obiezioni costituzionali di fondo. La prima, più evidente, riguarda la questione della efficacia erga omnes ovvero l’applicazione generalizzata dei contratti
collettivi; la seconda, meno scontata, riguarda il principio di libertà sindacale sancito dal primo comma dell’art. 39 Cost.
Tale profilo innovativo contenuto nell’art. 10 ha suscitato in dottrina pareri discordanti fra quanti come X. Xxxxxxxxxx hanno commentato che «l’esercizio di autorità ed obbligatorietà erga omnes è un dono avvelenato per la libertà e l’autonomia sindacale», e fra quanti sostengono che quello dell’iscrizione all’ente e il versamento delle relative quote associative è un onere e non un obbligo senza che per questo ne scaturisca una meccanica affiliazione associativa, coi conseguenti vincoli di carattere organizzativo ed economico.
Contrapposta a tale filone interpretativo vi è quella parte della dottrina che, invece, guarda con favore e apprezza la ratio della disposizione legislativa. In tal senso si riporta un importante contributo di X. Xxx, il quale afferma che «è da dubitare che le clausole contrattuali relative agli enti bilaterali rientrino nella cosiddetta parte obbligatoria e non siano invece riconducibili alla parte normativa. La mancata adesione ed in particolare il mancato versamento dei contributi agli enti bilaterali si traducono infatti in minori prestazioni, e dunque, se non altrimenti garantite, in uno svantaggio economico per il lavoratore. A prescindere dalla natura retributiva o previdenziale e assistenziale delle prestazioni erogate dalle forme della bilateralità si tratta pur sempre di trattamenti che vengono ad incidere sul contenuto delle situazioni di diritto che regolano il rapporto di lavoro. Le prestazioni in esame, seppur condizionate al verificarsi di determinate situazioni pregiudizievoli, non diventano eventuali tantomeno facoltative. Eventuale è il fatto che le origina ma non il diritto a ricevere il trattamento conseguente».
Dunque, quello dell’adesione agli enti bilaterali è un obbligo, un dovere-libero o soltanto un tenue onere?
A sbrogliare la complicata situazione è intervenuto il Ministero del Lavoro che, con una vera e propria retromarcia, quasi contra legem, nella circolare n. 4/2004 ha dato una interpretazione
restrittiva della normativa in questione, sì da escludere che il rispetto delle clausole contrattuali concernenti gli enti bilaterali, considerate meramente obbligatorie, sia condizione necessaria per godere dei benefici normativi e contributivi. Secondo tale orientamento il riconoscimento di benefici è infatti subordinato “alla integrale applicazione della sola parte economica e normativa degli accordi e contratti collettivi, e non anche della parte obbligatoria di questi ultimi, pena il contrasto con il principio costituzionale di libertà sindacale negativa”.
Viene in questo modo meno, per le cose trattate, uno dei principali elementi di discontinuità emersi fra il quadro normativo configurato dalla legge n. 30/2003 e la legislazione di sostegno precedente. Alla luce della interpretazione “chiarificatrice” data dal Ministero del Lavoro non è configurabile un obbligo di adesione agli organismi bilaterali, bensì un onere – per quanto vigoroso – ad adempiere alle prestazioni da essi gestite, preservando un cruciale spazio, seppur residuale, di libertà associativa per coloro che optino per la non adesione al proprio ente di riferimento. Tornano dunque a prospettarsi soluzioni diverse a seconda delle caratteristiche delle prestazioni erogate: nel caso della mutualizzazione di istituti economici e normativi contrattuali ne dovrebbe discendere una copertura settoriale di carattere universalistico e quindi erga omnes. Nei casi in cui si tratta invece di prestazioni integrative, il loro godimento (sia per le imprese che per i lavoratori) deriverà dall’iscrizione all’ente e dal versamento delle relative quote associative.
In verità tale quadro normativo ricalca fedelmente quello tracciato soltanto due anni prima dalla Corte di Cassazione che con la sentenza del 10 maggio 2001, n. 6530 sosteneva che doveva riconoscersi natura retributiva solo alle prestazioni che gli enti bilaterali dovessero corrispondere in sostituzione di precisi obblighi del datore di lavoro, mentre le altre, di carattere meramente eventuale e connesse al verificarsi di determinate situazioni pregiudizievoli, hanno natura previdenziale e assistenziale, con
l’effetto che nei confronti degli enti bilaterali diversi dalle Casse Edili, che erogano prestazioni non connesse a clausole normative contrattuali, non vi è l’obbligo di versamento della contribuzione, rientrando le clausole collettive che xxxxxxxxx detto obbligo nella parte obbligatoria del contratto collettivo.
In sostanza, la lettura della sentenza n. 6530/01 induce a propendere per la non obbligatorietà della contribuzione all’ente bilaterale sulla base del dato letterale della norma: il D.L. n. 71/93 esigeva l’applicazione dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi e non – a suo dire – di tutto il contratto collettivo.
Di fronte alla pronuncia della Cassazione, non si spiega, a parere di chi scrive, la ragione per la quale il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 4/2004, abbia riproposto la stessa interpretazione fornita dalla Cassazione, pur in presenza di un dato normativo ormai modificato. Secondo il Ministero del Lavoro, infatti, per fruire dei benefici di legge non vi sarebbe l’obbligo di versare il contributo agli enti bilaterali, perché tali enti sono istituiti da clausole obbligatorie dei contratti collettivi, che vincolano solo le parti collettive firmatarie e non le singole imprese.
Nella stessa direzione si colloca la successiva circolare ministeriale
n. 43 del 15 dicembre 2010 in cui si riafferma la salvaguardia della libertà sindacale negativa di adesione alla bilateralità, sancito dall’articolo 39 della Costituzione. Inoltre, lo stesso Xxxxxxxxx ha approfittato per affermare che se i contratti collettivi dispongono il riconoscimento a vantaggio dei lavoratori dei trattamenti garantiti dagli enti bilaterali o come servizio erogato dall’ente o come equivalente economico erogato dall’impresa, allora la disposizione diventa di natura normativa e perciò vincolante per ogni impresa che applica quel contratto collettivo.
In buona sostanza, la circolare ministeriale presenta contenuti profondamente innovativi, poiché – nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda attraverso il meccanismo bilaterale la concessione di tutele aggiuntive per i lavoratori – viene sancito il
riconoscimento al prestatore di lavoro di un vero e proprio diritto contrattuale a ricevere analoghe prestazioni di tutela.
Sicchè in questo caso l’obbligatorietà della tutela va riferita alla parte economica-normativa del contratto collettivo, avendo efficacia sul contenuto delle situazioni di diritto che regolano il rapporto individuale di lavoro tra il datore e ciascuno dei propri dipendenti. Di conseguenza, se un contratto di lavoro riconosce una determinata prestazione – ad esempio, un trattamento di sostegno al reddito erogato dall’ente bilaterale – come un diritto contrattuale del singolo lavoratore, l’iscrizione al sistema bilaterale rappresenta semplicemente una modalità per il datore di lavoro di adempiere al corrispondente obbligo. Nel caso specifico in cui il datore di lavoro non si iscriva all’ente bilaterale, ciascun lavoratore matura, quindi per espressa previsione del contratto collettivo, un diritto contrattuale di natura retributiva – alla stregua di una retribuzione aggiuntiva o integrativa – che si sostanzierà nel riconoscimento di una somma di denaro o di una prestazione equivalenti a quella erogata dal sistema bilaterale di riferimento, sempre nei limiti degli importi stabiliti dal contratto collettivo.
1.5 Interesse pubblico generale e interesse privato collettivo degli enti bilaterali
Alla luce di quanto esposto in precedenza, occorre definire attraverso le funzioni della bilateralità qual è l’interesse perseguito dal sistema giuridico che tende in maniera crescente ad intrecciare il piano pubblicistico con quello privatistico. E’ infatti proprio la genuina natura privatistica degli enti bilaterali a generare dubbi riguardo alle funzioni che la legge attribuisce agli stessi enti.
Non è qui in discussione il fatto che gli enti bilaterali possano svolgere funzioni pubbliche, anche perché si tratta di una tendenza non nuova appartenente al codice genetico degli enti bilaterali. Il punto è che una funzione è qualificabile come “pubblica” quando risponde ad un interesse pubblico generale, senza per questo precludere la possibilità che questa funzione possa essere attribuita a soggetti privati (si pensi alla sanità, all’istruzione, alla prevideza etc.). Tuttavia, il problema sorge nel momento in cui sfuma la differenza tra interesse pubblico e interesse privato collettivo cui viene attribuita la funzione d’interesse pubblico. E in tal senso appare quasi condivisibile la diffidenza nell’attribuire agli enti bilaterali funzioni ispettive e di controllo, perché essa richiede una terzietà del soggetto controllante che non è propria dell’ente bilaterale, in quanto derivazione dell’autonomia privata collettiva. In questa ottica, il problema non riguarda tanto la capacità di realizzare efficacemente la funzione nell’interesse pubblico generale quanto la salvaguardia dell’interesse privato collettivo che potrebbe essere pregiudicato da un sostanziale – per quanto moderato – processo di istituzionalizzazione: se l’interesse privato collettivo si carica sulle spalle l’interesse pubblico, potrebbe esserne schiacciato.
Strettamente collegato a tale aspetto è il rapporto fra l’esercizio della funzione contrattuale e esercizio della funzione assistenziale svolta dalle parti sociali. Per stabilire se lo sviluppo del sistema della bilateralità trasformi oppure no la natura ed il ruolo del sindacato occorre delineare il rapporto fra le due funzioni. Nella relazioni governativa di accompagnamento al d. lgs. n. 276/03 gli enti bilaterali furono definiti come «sedi negoziali privilegiate», che indusse la maggioranza della dottrina a ritenere che l’ente bilaterale avrebbe assolto a funzioni ulteriori rispetto a quelle assistenziali sino ad allora assegnatagli dalla contrattazione collettiva. Non è stato così per la nozione legale ex art. 2 del medesimo decreto la quale definisce gli enti bilaterali come sedi privilegiate per svolgere funzioni che non sono negoziali. Per
impedire lo snaturamento del sindacato e quindi degli enti bilaterali, è necessario, dunque, tenere ben distinta la funzione di servizio degli enti bilaterali dall’attività negoziale di rappresentanza degli interessi, pur nella reciproca integrazione.
In conclusione, il sistema giuridico del lavoro italiano ha sostenuto in modo più efficace la bilateralità quando ha individuato una funzione specifica e ha istituito un ente con specifiche attribuzioni (sicurezza sul lavoro, previdenza, formazione); la scelta di ampliare le funzioni assolvibili dagli enti potrebbe essere apparsa anziché un sostegno alla bilateralità, una forzatura dell’autonomia privata collettiva, la quale, peraltro, ha reagito non attuando quasi nessuna delle inedite funzioni previste dal d. lgs. n. 276/03.
Tutto ciò potrebbe indurre a pensare che l’origine e la istituzione degli enti bilaterali rimane marcatamente di natura privatistica, ed ogni qualvolta il legislatore tenti di munire di una veste giuridica tali organismi, questi ultimi si “chiudono a riccio” dall’invadenza della legge.
CAPITOLO SECONDO
I SISTEMI BILATERALI DI SETTORE
Sommario. 1. La bilateralità in edilizia – 2. La bilateralità in agricoltura – 3. La bilateralità nel teziario – 4. La bilateralità nell’artigianato
2.1 La bilateralità in edilizia
Quello dell’edilizia rappresenta uno dei settori in cui la bilateralità ha avuto maggiore sviluppo per organizzazione strutturale e ampiezza delle funzioni. Si tratta di un comparto produttivo caratterizzato da una fortissima dispersione produttiva, da un sistema di organizzazione del lavoro estremamente frammentato, da una fisiologica instabilità occupazionale, ma soprattutto dall’esigenza di contrastare forme di elusione della normativa legale e contrattuale sul rapporto di lavoro in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In questo scenario si inserisce il sistema della bilateralità di settore, tramite il quale le parti sociali soddisfano gli interessi di cui sono portatrici, seppur diversi fra loro, perseguendo degli obiettivi comuni, con una modalità di composizione delle divergenze diversa dal conflitto.
Le origini storiche del sistema della bilateralità in edilizia affondano le proprie radici in esperienze maturate a livello provinciale e poi
diffusesi sul territorio, fino alla generalizzazione del modello realizzata dalla contrattazione collettiva nazionale in momenti diversi. L’impronta territoriale, derivante dalla loro nascita “dal basso”, e che ha rappresentato il punto di forza del sistema, ancora oggi ne costituisce un elemento caratterizzante. Ciò è dimostrato dall’attuale assetto del sistema stesso, composto da organismi paritetici di categoria articolati su tre linee di intervento, per ognuna delle quali vi è un ben definito apparato di organismi paritetici, che si articolano dal livello nazionale a quello territoriale.
Il primo ambito di operatività è quello che potrebbe definirsi “storico”, da cui hanno tratto origine gli istituti bilaterali denominati Casse edili, che nascono per gestire accantonamenti e prestazioni di tipo retributivo, previdenziale e assistenziale a favore dei lavoratori e che, nel tempo, hanno esteso il loro intervento ad altre materie. L’origine delle Casse edili derivano, infatti, dall’esigenza di soddisfare gli interessi individuali dei lavoratori che, colpiti dalla discontinuità e dalla mobilità lavorativa, avevano bisogno di sistemi di gestione mutualistica di alcuni elementi della retribuzione, nonché di talune misure previdenziali.
La seconda linea d’intervento è rappresentata dal sistema formativo nel settore edile, di cui fanno parte il Formedil a livello nazionale, i Formedil regionali e le Scuole edili a livello provinciale.
La terza, invece, riguarda il sistema nazionale per la prevenzione infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro di cui fanno parte i Comitati paritetici territoriali e la Commissione nazionale per la prevenzione infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro.
Le casse edili
La nascita delle Casse edili risale al 1919 con un accordo stipulato tra il Collegio dei capomastri e l’Associazione mutuo miglioramento fra muratori, badilanti, manovali e garzoni di Milano, con cui fu creata la “Cassa per i sussidi di disoccupazione involontaria per gli operai edili”. Si trattava di un organismo paritetico tanto nel sistema di gestione quanto in quello di riscossione dei contributi, ripartiti in maniera sostanzialmente identica fra lavoratori e datori.
Tuttavia bisogna aspettare fino al 1950 perché la contrattazione collettiva nazionale di categoria menzionasse per la prima volta l’istituto della Cassa edile, qualificandolo come ente per l’accantonamento dei ratei di ferie, festività e gratifica natalizia, in alternativa all’istituto bancario presso il quale le somme da erogare ai lavoratori potevano essere depositate.
Nel 1983, invece, a distanza di più di trenta anni da quando la contrattazione nazionale di categoria ha cominciato a disciplinare l’istituto, è stata costituita la Commissione nazionale paritetica per le Casse edili (Cnce), a cui è stata attribuita la funzione principale di indirizzo, controllo e coordinamento delle Casse a livello provinciale.
Le funzioni attribuite alle Casse edili fin dalla loro origine sono state di tipo mutualistico, ed attengono alla gestione ed erogazione di provvidenze di carattere retributivo, come nel caso del trattamento economico per ferie e gratifica natalizia, il premio annuo per l’anzianità professionale edile (Ape), il premio per anzianità professionale edile straordinaria (Apes); assistenziale, come nel caso dell’integrazione al trattamento economico nei casi di malattia e infortunio o di prestazioni sanitarie integrative (rimborso per spese odontoiatriche, ricovero ospedaliero, protesi ortopediche, cure termali, acquisto occhiali da vista ecc.). A queste nel tempo si sono aggiunte erogazioni economiche o di beni, di diversa natura, come nel caso di indumenti e calzature da lavoro, provvidenze a favore di figli e familiari (borse di studio per i figli, soggiorni estivi, ecc.), premi di nuzialità e natalità e il rimborso di spese funerarie.
Attualmente, i compiti affidati dallo statuto alle Casse edili sono la gestione degli accantonamenti previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro; le prestazioni di previdenza e di assistenza a favore degli iscritti alla Cassa e ogni altro compito congiuntamente affidato dalla Associazioni nazionali di categoria e nell’ambito delle direttive di queste, congiuntamente dalle organizzazioni provinciali ad esse aderenti.
Dunque le funzioni svolte dalle Casse edili in materia di riscossione dei contributi finalizzati a prestazioni previdenziali e assistenziali costituiscono uno dei pilastri del sistema della bilateralità nel settore edile, ma un aspetto interessante è che, da un’analisi approfondita della loro evoluzione, emerge come nel tempo gli obiettivi perseguiti dalle Casse edili per il soddisfacimento di questi interessi si siano tradotti in politiche utili a soddisfarne altri, che andavano oltre quelli delle parti sociali, saldandosi con quelli più generali emergenti nel sistema sociale. In questo ambito, il Ccnl Ance del 2004 costituisce un momento di svolta molto importante per aver attribuito alle Casse edili due funzioni nate per il soddisfacimento di interessi collettivi, che nel tempo hanno consentito di far fronte a esigenze che attengono alle fasi di affidamento ed espletamento dei lavori edili, coincidendo con interessi di carattere generale.
La prima funzione è quella di certificazione della regolarità contributiva delle imprese mediante il conferimento alle Casse del potere di emettere il Documento unico di regolarità contributiva (Durc) delle imprese, alle condizioni stabilite dal contratto stesso e senza alcun potere discrezionale in materia.
Allo stesso modo rilevante è la funzione di accertamento della congruità contributiva delle imprese, strumento essenziale per la promozione del lavoro regolare e per la lotta al lavoro sommerso. La contrattazione collettiva, dunque, affida alla Cassa edile la verifica della congruità contributiva con riferimento allo specifico lavoro oggetto del contratto e l’emissione, in caso di esito positivo, della relativa certificazione o, viceversa, di un documento attestante l’irregolarità, che può essere sanata dall’impresa oppure denunciata.
La funzione formativa
Una delle funzioni assunte dal sistema della bilateralità nel settore edile riguarda la gestione e l’erogazione della formazione professionale, che nel tempo ha condotto alla creazione di un sistema paritetico di categoria strutturato su tre livelli.
Il primo è costituito dal Formedil, organismo paritetico nazionale per l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle Scuole edili, che sono, invece, le agenzie formative di settore su cui si basa il sistema nazionale. Il livello intermedio è composto dai Formedil regionali, articolazioni del Formedil nazionale, che associano le Scuole edili territoriali di una singola Regione. L’attuale configurazione del sistema paritetico sulla formazione professionale è frutto di assestamenti progressivi che sono stati realizzati dalla contrattazione collettiva integrativa e nazionale, sulla base delle diverse esigenze del settore che sono maturate nel tempo.
Il nucleo iniziale di questo sistema è rappresentato dalle Scuole edili, costituite dalla contrattazione collettiva a partire dall’immediato dopoguerra, e prontamente generalizzate dalla contrattazione collettiva. Tuttavia l’elemento caratterizzante l’evoluzione del sistema è la diversa concezione che, nel tempo, ha assunto la formazione professionale, in ragione dell’evoluzione degli assetti organizzativi e produttivi, dei cicli economici, dell’andamento del mercato del lavoro e delle riforme legislative in materia. Basti pensare che in origine la contrattazione collettiva, anziché menzionare la formazione professionale, adottava il termine “istruzione” professionale, che esprimeva il modo con cui nel settore avveniva l’acquisizione di competenze da parte dei lavoratori, ovvero mediante lo svolgimento concreto sul posto di lavoro delle mansioni; inoltre, negli anni successivi, i mutamenti dei modelli organizzativi hanno portato ad una sempre minore necessità di specializzazione da parte delle maestranze, con conseguente possibilità di attingere a manodopera generica senza necessità di particolare formazione.
Ponendo l’accento sull’evoluzione storica del fenomeno, negli anni Cinquanta, nonostante la forte spinta da parte del sindacato nazionale a
diffondere le Scuole edili, esse non si propagavano sul territorio, soprattutto al Sud, originando così un dualismo che rifletteva il diverso approccio alla leva formativa nelle realtà locali: nelle zone più dinamiche il sistema era orientato al raccordo fra mercato del lavoro ed esigenze produttive, in quelle più arretrate erano celate sotto le vesti di misure di tipo assistenziale. Il passaggio verso una più moderna concezione della formazione avviene a partite dagli anni Settanta, nel momento in cui comincia a scarseggiare la manodopera soprattutto giovanile, e la crisi economica crea esuberi di lavoro che devono essere ricollocati. I riflessi di questi mutamenti si rinvengono nella contrattazione collettiva, che inizia a disciplinare diversi aspetti della formazione professionale, a rendere le Scuole edili i soggetti erogatori della formazione per gli apprendisti, a considerare la formazione professionale strumento di ingresso e rientro nel mercato del lavoro, con un conseguente mutamento dei beneficiari delle iniziative di formazione e i contenuti dei moduli formativi.
La diffusione sul territorio delle Scuole edili e, soprattutto il decentramento contrattuale in materia di funzionamento, promossa dalla contrattazione nazionale, ha determinato l’esigenza di un organismo di coordinamento, che il contratto nazionale del 1963 ha individuato nella Commissione nazionale paritetica. Tuttavia la sua nascita è avvenuta molti anni più tardi, con l’accordo del 1980 che ha istituito la suddetta Commissione – denominata Formedil – e ne ha definito lo statuto.
Per quanto attiene la tipologia degli interventi in materia di formazione, la tendenza della contrattazione collettiva è stata quella di ampliare nel tempo i destinatari delle attività di formazione, rimodulandole di conseguenza. Se originariamente i fruitori delle attività erano i lavoratori edili e, successivamente, i giovani che si ambiva collocare, negli anni tra i destinatari sono stati indicati i migranti, in ragione della loro presenza nel settore, le donne, per incentivarne l’occupazione e gli espulsi dal mercato del lavoro.
Ma la funzione che nel tempo ha maggiormente assunto il sistema formativo è quello di divenire strumento di politica attiva del lavoro. La
formazione continua diviene, quindi, un aspetto cruciale nel settore, come dimostra il fatto che l’ultimo contratto collettivo ha portato a compimento il processo di certificazione della formazione professionale, già presente nel contratto collettivo precedente con cui si affida al Formedil il compito di diffondere il Libretto personale di formazione edile. L’obiettivo che si vuole raggiungere con il sistema della certificazione formativa è la predisposizione di un repertorio Nazionale delle Competenze, a cui le singole Scuole edili devono far riferimento, per quanto riguarda le acquisizioni formative da prevedere al termine di ciascun corso e da certificare nel Libretto personale, in un quadro di necessaria e progressiva omogeneizzazione dell’offerta formativa del sistema Formedil.
La prevenzione infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro
La tutela della salute e sicurezza sul lavoro è un aspetto di cruciale importanza nel settore edile, in ragione della pericolosità di alcuni aspetti dei processi di lavorazione. Per soddisfare l’esigenza di migliorare i livelli di protezione nel settore, le parti sociali hanno creato un sistema nazionale per la prevenzione infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro costituito dalla Commissione nazionale paritetica per la prevenzione infortuni e dai Comitati paritetici territoriali per la prevenzione infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro.
Alla Commissione nazionale competono funzioni di indirizzo, controllo e coordinamento dei Comitati paritetici territoriali (Cpt). Questi ultimi
– sono 98 su tutto il territorio nazionale – rappresentano lo strumento privilegiato per il perseguimento dei fini istituzionali previsti dal proprio statuto e dai contratti ed accordi collettivi stipulati fra le organizzazioni sindacali a livello nazionale e territoriali firmatarie del Ccnl di riferimento: l’obiettivo comune delle parti sociali da realizzare mediante il sistema dei Cpt è la prevenzione degli infortuni e il miglioramento dell’ambiente di lavoro e la gestione degli aspetti a ciò connessi.
Una prima funzione attribuita ai Cpt è di tipo promozionale, relativamente alle misure e alle iniziative utili alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, tra cui rientrano l’indicazione della attività formative utili, azioni di sensibilizzazione in materia di prevenzione dei rischi e l’esercizio di ogni opportuno intervento nei luoghi di lavoro per favorire l’attuazione della normativa in materia, avvalendosi allo scopo di tecnici professionalmente qualificati.
Una seconda tipologia di funzioni attribuite ai Cpt è di natura istituzionale. Essi assolvono, infatti, compiti di conciliazione delle controversie in materia di salute e sicurezza, istituiscono e conservano l’elenco dei nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, certificano la formazione dei coordinatori per la sicurezza sulla base della documentazione fornita dalle Scuole edili.
I Cpt, inoltre, sono indicati come gli organismi paritetici in materia di tutela della salute e sicurezza di cui all’articolo 51 del d. lgs. n. 81 del 2008.
Infine, l’ultimo rinnovo contrattuale dell’aprile 2010 ha ulteriormente ampliato le funzioni dei Cpt, attribuendogli le funzioni di supporto e consulenza alle imprese ed ai lavoratori, che le ultime riforme legislative in materia di tutela della salute e sicurezza hanno demandato ad organismi paritetici, tra cui l’attività di formazione ed informazione degli addetti per specifiche responsabilità e specifici rischi e l’assistenza alle imprese ed ai lavoratori per trasferire tecnologie e buone prassi nelle procedure organizzative.
2.2 La bilateralità in agricoltura
In agricoltura, per lungo tempo, la bilateralità è stata presente in misura molto limitata. Dalla fine degli anni Ottanta è iniziato un percorso di progressivo potenziamento degli enti bilaterali; tale processo è ancora in corso, sia nel senso che molti enti, seppur previsti, non sono ancora stato concretamente istituiti, sia nel senso che la disciplina degli enti prevista dalla contrattazione collettiva non sembra aver ancora raggiunto un assetto stabile.
Preliminarmente, è necessario delimitare il campo di indagine: in agricoltura, infatti, possono essere attualmente individuati almeno tre sistemi di bilateralità. Tale situazione deriva innanzitutto dalla elevata complessità della contrattazione collettiva in questo settore, basti pensare che in agricoltura è ancora presente la divaricazione tra impiegati ed operai, destinatari di due diversi contratti collettivi.
Il sistema di enti bilaterali maggiormente sviluppato è quello previsto e disciplinato dalla contrattazione collettiva per gli operai agricoli e floro-vivaisti. Si tratta del contratto collettivo dell’agricoltura per antonomasia, quello di più risalente tradizione e con la maggior platea di destinatari (circa 650 000 lavoratori)1. Questo sistema prevede attualmente i seguenti enti bilaterali: le casse extra-legem, la cui principale funzione è l’erogazione di trattamenti integrativi delle prestazioni di malattia ed infortunio; il Fondo Integrativo Sanitario Lavoratori Agricoli e Florovivaisti (Fislaf); gli enti per la formazione professionale (Agriform e centri di formazione agricola provinciali). A conferma della rilevanza del sistema di bilateralità previsto dalla contrattazione collettiva per gli operai agricoli e florovivaisti si rileva che: il sistema di formazione che fa capo ad Agriform riguarda anche i quadri e gli impiegati agricoli; il Ccnl del verde pubblico e privato prevede la possibilità, per i datori di lavoro, di adempiere all’obbligo di corrispondere i trattamenti economici integrativi in caso di malattia o
1 La contrattazione collettiva per gli operai agricoli e florovivaisti si svolge tra Confagricoltura, Coldiretti e Cia da una parte, Flai-Cgil, Fai-Cisl e Uila-Uil dall’altra.
infortunio sul lavoro tramite le casse extra-legem del ccnl operai agricoli, previa apposita convenzione; lo stesso Ccnl prevede anche l’impegno delle parti di apprestare forme sanitarie integrative attraverso la stipula di un’apposita convenzione con il Fislaf (ovvero, in subordine, mediante la costituzione di un apposito Fondo); infine, anche le prestazioni integrative per malattia ed infortunio, previste dal Ccnl per le attività di contoterzismo, sono erogate dal Fondo integrativo nazionale Fislaf, sulla base di un’apposita convenzione.
Un secondo sistema di bilateralità fa capo all’associazionismo cooperativo. Si tratta delle casse extra-legem e del Fondo nazionale di assistenza sanitaria, Filcoop, previsti dal Ccnl per i dipendenti di cooperative e consorzi agricoli.
Infine un terzo sistema di enti bilaterali può essere individuato nei vari enti preposti specificatamente all’erogazione di trattamenti sanitari integrativi. Tali enti sono previsti dal Ccnl per i dipendenti dei consorzi di bonifica (Fis), dal Ccnl per i dipendenti dalle organizzazioni degli allevatori (Fida), e dal Ccnl per gli addetti ai lavori di sistemazione idraulico-forestale (Fimif).
Concentrando, quindi, l’attenzione sulla bilateralità prevista e disciplinata dalla contrattazione collettiva degli operai agricoli e florovivaisti, occorre ribadire come, fino alla fine degli anni Ottanta, il fenomeno avesse dimensioni contenute. Questo dato riveste di per sé un certo interesse. Nel settore in esame, infatti, sono da sempre presenti alcune caratteristiche strutturali fondanti delle esperienze di bilateralità, quali, in particolare: una grande frammentazione del tessuto produttivo (con imprese di dimensioni molto ridotte e numerosi occupati precari); un sistema di relazioni sindacali e di contrattazione collettiva basato sui rapporti tra le parti sociali a livello territoriale. Nonostante il sostrato favorevole, la bilateralità si è espressa in piccole dosi. Essenzialmente – almeno fino alla fine degli anni Ottanta – si è trattato di forme di “piccola mutualità”:. attraverso le casse extra-legem, le parti sociali, a partire dagli anni Cinquanta, hanno cercato di garantire trattamenti integrativi delle prestazioni di malattia e infortunio.
Lo scarso sviluppo di forme bilaterali volte all’erogazione di prestazioni assistenziali può essere spiegato in primo luogo con l’importanza assunta, in agricoltura, dall’istituto della indennità di disoccupazione agricola, che ha rappresentato nel corso del tempo la vera mutualità e la vera forma di distribuzione del reddito in agricoltura. I lavoratori del settore erano all’inizio sforniti di una forma di tutela contro la disoccupazione; ciò in quanto, a motivo della prevalente stagionalità della produzione, per essi la disoccupazione non si presentava come un evento aleatorio, come un rischio vero e proprio tutelabile mediante l’assicurazione sociale, ma come un evento di certa verificazione, tanto che è stato coniato, per essi, il termine di “sottoccupazione”2. In qualche misura, dunque, l’assenza di robusti enti bilaterali incaricati di funzioni mutualistiche, pur a fronte di un mercato del lavoro caratterizzato da elevata precarietà, trovava un contrappeso nella protezione sociale pubblica, all’interno della quale, peraltro, le parti sociali giocavano un ruolo di grande rilievo.
Non sembra azzardato, poi, considerare lo scarso sviluppo della bilateralità, anche alla luce di un aspetto assolutamente centrale ai fini della comprensione della complessiva situazione della contrattazione collettiva, e, di conseguenza, delle relazioni industriali, in agricoltura. Si tratta della grave sofferenza che, da sempre, affligge la contrattazione collettiva agricola, in sé per sé considerata. La principale caratteristica della contrattazione collettiva agricola è stata, infatti, quella di una notevole mancanza di effettività, ovvero di uno scarso allineamento della realtà di fatto alle previsioni in essa contenute.
Collegata alla mancanza di effettività è poi quella sorta di “residualità” che la contrattazione collettiva ha tradizionalmente rivestito nel settore in parola: la contrattazione in agricoltura, in effetti, veniva ad essere soltanto uno degli strumenti, e probabilmente neppure quello principale, per difendere e migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei propri organizzati. L’azione sindacale, in un settore afflitto da cronico eccesso di offerta di lavoro e presenza di lavori precari, è stata
0 X. Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx nella rivista Agenzia Flai-Cgil, 1998, 8, 1.
rivolta principalmente a ricercare modalità per aumentare le occasioni di lavoro rispetto a quelle spontaneamente offerte dal mercato, e per migliorare i diritti previdenziali dei singoli lavoratori, mentre le rivendicazioni di carattere contrattuale passavano in secondo piano.
In definitiva, il mancato sviluppo di forme di bilateralità, pur a fronte di caratteristiche del sistema produttivo ed occupazionale che in altri settori hanno favorito la costituzione di enti bilaterali, sembra possa essere in parte spiegato con le caratteristiche peculiari della contrattazione collettiva e delle stesse relazioni contrattuali che sono per lungo tempo scadute ad un ruolo di mera finzione.
Tornando alla ricostruzione storica del fenomeno, fino alla fine degli anni Ottanta, come detto, in agricoltura era presente un’unica tipologia di ente bilaterale vero e proprio, la cassa extra-legem. Erano poi presenti organismi bilaterali di studio, analisi e formulazione di proposte su varie tematiche, in primis quelle relative al mercato del lavoro.
Dalla fine degli anni Ottanta la contrattazione nazionale inizia ad occuparsi più incisivamente della bilateralità, dettando le linee tendenziali dello sviluppo del fenomeno. Nel corso degli anni Novanta, la contrattazione collettiva per gli operai agricoli è stata interessata da un cambiamento incisivo degli assetti contrattuali che ha affidato alla contrattazione di secondo livello (provinciale) un ruolo per così dire “paritario” rispetto a quello del Ccnl, per quanto attiene alla definizione di materia centrali, quali l’inquadramento e la retribuzione. Si può affermare che, prima degli anni Novanta, la contrattazione collettiva abbia attraversato due fasi. In una prima fase, che può essere individuata nell’arco di anni dal 1949 al 1976, la contrattazione provinciale era l’asse portante di tutto il sistema contrattuale agricolo, mentre il contratto nazionale aveva il compito di generalizzare i livelli di tutela più alti raggiunti nei territori, attraverso la definizione di normative-quadro. Nella seconda fase, dal 1977 al 1995, si è affermato invece un sistema analogo a quello dell’industria, con il contratto nazionale chiamato a fornire una tutela di base uguale per tutti, e il livello territoriale ad integrare tale tutela.
E’ in questo scenario che si è inserito il Ccnl del 1987, che prevedeva la costituzione del già menzionato Xxxxxx, avente il compito di erogare prestazioni sanitarie integrative. A parte questo nuovo ente, lo stesso Xxxx sanciva l’impegno a costituire organismi paritetici con compiti di studio e analisi del settore.
Bisogna aspettare altri dieci anni, invece, per assistere alla nascita dell’ente bilaterale di settore per la formazione. E’ del 1998, infatti, il Ccnl che prevedeva, a parte le casse extra-legem, l’ente per la formazione Agriform (oltre alla Commissione paritetica per le pari opportunità e quella per la salute e sicurezza sul lavoro.
Occorre arrivare, però, all’ultimo rinnovo contrattuale per vedere compiuta l’opera di razionalizzazione degli enti ed organismi bilaterali avviata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Il Ccnl del 25 maggio 2010, in attuazione del Protocollo d’intesa sugli assetti contrattuali del 22.9.2009, stabilisce, perl’appunto, di articolare il sistema delle relazioni sindacali in due organismi soltanto: l’ente bilaterale agricolo nazionale e le casse extra-legem provinciali o gli enti bilaterali territoriali, a seconda delle varie realtà esistenti. Al costituendo ente bilaterale agricolo nazionale, in sostanza, vengono affidate tutte le funzioni di livello nazionale oggi riconosciute ai vari enti (Agriform, Fislaf). Restano autonomi, e non vengono assorbiti nel nuovo ente, il Fondo per la formazione continua (Foragri) e il Fondo di previdenza complementare. Per quanto riguarda il finanziamento dell’ente bilaterale nazionale, il Ccnl prevede una contribuzione a carico dei datori di lavoro pari a 51,65 euro annui per ogni operaio a tempo indeterminato, e di 0,34 euro al giorno per operaio a tempo determinato.
In definitiva, il processo di potenziamento della bilateralità in agricoltura è dunque ancora lontano dal potersi dire concluso, o anche semplicemente assestato. La situazione varia significativamente da territorio a territorio, e sovente, risulta anche difforme rispetto alle prescrizioni della contrattazione nazionale, la quale punta ad una decisa opera di razionalizzazione del sistema. In effetti, emerge – oltre ad una certa anarchia del secondo livello di contrattazione – la difficoltà di
gestire più enti e o organismi bilaterali, probabile causa, questa, della dinamica piuttosto fiacca mostrata complessivamente dalle articolazioni provinciali nel recepire le indicazioni del Ccnl. Alla luce di ciò, appare opportuno ribadire che la bilateralità in agricoltura è ancora lontana dall’affermarsi, nel senso che, spesso, soprattutto a livello territoriale, si preferisce ricorrere, piuttosto che alla costituzione di veri e propri enti bilaterali, alla istituzione di meno impegnativi organismi paritetici.
Le casse extra-legem e il Fislaf
Previste già a partire dagli anni Cinquanta, le casse extra-legem sono state tradizionalmente oggetto di disciplina esclusivamente da parte della contrattazione provinciale, mentre il contratto collettivo nazionale si è limitato a dettare una scarna disciplina delle prestazioni erogate da tali casse. Solo di recente, come citato prima, in sede di contrattazione nazionale è stato assunto l’impegno a formulare uno statuto tipo di tali enti, e si è auspicato che essi assumano un ruolo centrale, nell’ambito della progettata razionalizzazione di tutti gli enti bilaterali che dovrebbe condurre ad un solo ente nazionale e ad una rete di enti bilaterali territoriali costituiti, in primis dalle casse extra-legem. E’ dunque, ancora oggi, la contrattazione di secondo livello ad intervenire sull’argomento. E da un esame della contrattazione territoriale si rileva che in molte realtà la cassa extra-legem non è stata istituita o è stata inattiva per lungo tempo.
Soprattutto, l’esame della contrattazione provinciale evidenza l’estrema varietà delle prestazioni affidate alle casse extra-legem: si va dall’incentivo alla ricollocazione dei lavoratori agricoli per le aziende che assumono lavoratori con più di 34 anni; all’estensione delle prestazioni agli apprendisti; al pagamento anche dei tre giorni di carenza previsti dalla tutela legale per malattia; all’aiuto economico alle lavoratrici madri; dal contributo al rientro della salma nel Paese d’origine, all’integrazione dell’indennità di disoccupazione; all’indennità per morte e all’indennità per il lavoratore licenziato dopo
180 di malattia. In alcune Province viene aumentata la percentuale delle integrazioni erogate dalla cassa. In altre ancora le competenze della cassa vengono estese, nel senso che ad essa vengono demandati i compiti di supporto in materia di tutela e sicurezza sul lavoro, o il finanziamento di corsi in materia di salute e sicurezza.
Il Fislaf è, invece, il Fondo integrativo sanitario per lavoratori agricoli e florovivaisti. Costituito con il Ccnl del 1987, esso ha come scopo l’erogazione di prestazioni sanitarie integrative. La relativa contribuzione grava esclusivamente sul datore di lavoro. I contributi sono riscossi dall’Inps unitamente alla contribuzione obbligatoria.
Quanto alle prestazioni erogate, il regolamento del Fondo prevede attualmente: il rimborso delle spese sanitarie effettivamente sostenute dall’iscritto per se stesso e per i propri familiari in caso di intervento chirurgico effettuato in Istituto di cura pubblico o privato, entro massimali predefiniti; prestazioni indennitarie per il caso di morte o invalidità permanente dell’operaio agricolo iscritto; il pagamento delle spese relative a prestazioni di alta specializzazione. Hanno diritto alle prestazioni anche i familiari dell’iscritto, fintanto che tale iscrizione rimane in essere. D’altro canto, il Fondo è aperto all’adesione di tutti coloro che operano nell’ambito del lavoro agricolo, la cui richiesta di iscrizione sia accolta, in via convenzionale, con delibera del Comitato di gestione del Fondo.
Infine, come accennato precedentemente, in base all’ultimo rinnovo del Ccnl del 2010, le competenze del Fislaf saranno accorpate nel nuovo ente bilaterale nazionale per l’agricoltura.
Agriform
Previsto per la prima volta dal Ccnl del 1998, Agriform è un’associazione non riconosciuta costituita nel 1999 da Coldiretti, Confagricoltura e Cia da una parte e le organizzazioni sindacali Flai- Cgil, Fisba-Cisl, Uila-Uil e Confederdia (Confederazione italiana dirigenti quadri e impiegati dell’agricoltura) dall’altra. In base allo statuto, l’ente è incaricato di: analizzare, promuovere e organizzare la
domanda di formazione dei lavoratori, progettando le tipologie dei corsi e definendo le modalità di fruizione degli stessi; individuare e proporre modelli di base di formazione teorica per i lavoratori apprendisti; promuovere il raccordo e la collaborazione con le strutture della pubblica istruzione e formazione, al fine di stimolare una maggiore integrazione tra il mondo del lavoro e dell’istruzione, anche mediante esperienze di tirocini teorico-pratici; promuovere, infine, quelle attività formative che si collegano con l’ingresso nella vita attiva o con la riconversione a nuove attività o modalità di lavoro.
Occorre sottolineare che il Ccnl del 2002 ha delineato un sistema di formazione interprofessionale per la formazione continua con l’istituzione, accanto ad Agriform, del Fondo interprofessionale per la formazione continua e dei centri di formazione agricola. Questi ultimi erano stati concepiti come strutture di ambito territoriale variabile (regionale, interregionale, provinciale o di bacino) finalizzate a svolgere un ruolo di trait d’union tra le istituzioni formative e il mondo delle imprese. Ai centri di formazione ed agli osservatori avrebbe dovuto fare riferimento Agriform per le attività di rilevamento e monitoraggio dei fabbisogni formativi, mentre il Fondo interprofessionale per la formazione continua avrebbe dovuto far riferimento principalmente ad Agriform per le attività di studio e ricerca, e ai neo-centri di formazione agricola per quanto riguarda il rapporto con le specificità territoriali. Da un esame analitico della contrattazione territoriale di riferimento, emerge che solo in pochissimi casi (es. Cpl Latina) si è provveduto a costituire il centro di formazione agricola. Ad ogni modo, come già getto in precedenza, l’ultimo Ccnl degli operai agricoli del 25 maggio 2010 prevede che Agriform continui ad operare fino a quando le relative funzioni saranno assorbite dall’ente bilaterale agricolo nazionale, mentre i centri di formazione agricola saranno assorbiti dalle casse extra-legem e dagli enti bilaterali provinciali, nell’ottica di semplificazione e razionalizzazione degli enti bilaterali intorno ad un unico ente nazionale e un unico ente di livello provinciale.
2.3 La bilateralità nel terziario
Pur avendo una storia recente, il cui punto di inizio può essere collocato nei primi anni Novanta, la bilateralità nel settore terziario sembra aver raggiunto una consistenza ed una solidità notevoli.
L’analisi che segue si soffermerà sulle forme di bilateralità previste e disciplinate dal Ccnl Terziario, distribuzione e Servizi stipulato dalle OO. SS. di categoria con Confcommercio. Si tratta del contratto più importante, innanzitutto in termini di base occupazionale (il contratto riguarda più di due milioni di addetti). Inoltre, con specifico riferimento alla tematica in oggetto, si tratta del contratto che regola il sistema di bilateralità più esteso. Tale sistema comprende (oltre agli enti bilaterali di derivazione legislativa)3: un ente bilaterale nazionale (Ebinter); circa cento enti bilaterali territoriali, a dimensione provinciale; un Fondo di assistenza sanitaria integrativa (Est); due enti per i lavoratori con qualifica di quadro, precisamente la cassa di assistenza sanitaria Quas e l’istituzione per la formazione Quadrifor.
Al di là del contratto Confcommercio, comunque, la bilateralità si è diffusa in tutti i contratti riferibili al settore in esame. Al riguardo si possono menzionare, tra gli altri: l’ente bilaterale nazionale del turismo (Ebnt), al quale fanno capo enti territoriali presenti in tutte le Regioni, e il Fondo di assistenza sanitaria per il turismo (Fast), tutti previsti dal Ccnl turismo sottoscritto da Federalberghi (Confcommercio), Fipe, Fiavet, Faita, Feddereti; l’ente bilaterale industria turistica (Ebit), cui fanno capo sette enti territoriali, e il Fondo di assitenza sanitaria integrativa (Fontur), previsti dal Ccnl sottoscritto da Federturismo (Confindustria) e Aica; l’ente bilaterale nazionale Ebntur, cui fanno capo 15 enti territoriali regionali, e l’ente di assistenza sanitaria
3 Il riferimento è al Fondo di previdenza complementare Fon.Te e al Fondo Paritetico Interprofessionale per la formazione For.Te
integrativa Aster, disciplinati dai Ccnl del turismo e del terziario stipulati da Confesercenti; il Fondo di assistenza sanitaria integrativa Coopersalute, di cui al Ccnl imprese della distribuzione cooperativa; l’ente bilaterale nazionale Ebipro e la Cassa di assistenza sanitaria supplementare Cadiprof, costituiti in base al Ccnl per i dipendenti degli studi professionali (sottoscritto da Confprofessioni, Confedertecnica e Cipa); l’Ebinvip (cui fanno capo tre enti di livello regionale) e il Fondo di assistenza sanitaria Fasiv, previsti dal Ccnl per gli addetti alle imprese di vigilanza privata; l’Ebinprof e la Cassa portieri di cui al Ccnl per i dipendenti da proprietari di fabbricati (Confedelizia); l’ente bilaterale Ebinas per i destinatari del Ccnl imprese di pulizia (Confcommercio), ed infine Ebincolf e Cassa colf previsti dal Ccnl per la disciplina del rapporto di lavoro domestico (Fidaldo, Domina).
Tornando al contratto della distribuzione e servizi, la bilateralità inizia ad essere promossa con forza da parte della contrattazione nazionale a partire dal Ccnl Terziario del 1994. Nella premessa, infatti, le parti stipulanti convenivano sulla realizzazione di un “più avanzato sistema di relazioni sindacali e di gestione degli accordi”, che fosse in grado, in particolare, di valorizzare al meglio le specificità delle varie realtà produttive del settore. A tal fine, le parti concordavano il potenziamento degli organismi bilaterali, tra i quali, in particolare, l’Osservatorio nazionale e, soprattutto, assumevano l’impegno a promuovere la costituzione dell’ente bilaterale nazionale e degli enti bilaterali territoriali entro il 31.12.1995. In tal modo, le parti volevano generalizzare alcune esperienze di enti bilaterali territoriali già costituiti in precedenza (per esempio a Cuneo e a Treviso), e dare vita all’ente bilaterale nazionale, del quale però il contratto non si occupava ex professo: il Ccnl del 1994, infatti, disciplinava l’ente territoriale, mentre per quello nazionale si limitava a sancire l’impegno delle parti a costituirlo.
All’ente territoriale, il Ccnl in parola assegnava varie funzioni. Oltre a promuovere l’istituzione di un osservatorio territoriale chiamato a svolgere a livello locale le medesime funzioni dell’Osservatorio nazionale, all’ente bilaterale si attribuivano compiti in materia di
formazione e qualificazione professionale, ma soprattutto in materia di contratti flessibili. Relativamente a quest’ultimo punto, gli enti bilaterali territoriali, attraverso specifiche commissioni paritetiche all’uopo costituite, si attribuivano funzioni di controllo del ricorso ai contratti flessibili citati (contratto a termine e contratto di apprendistato) e, in particolare, di autorizzazione alla fruizione delle deroghe previste dalla normativa contrattuale di secondo livello.
Successivamente, con l’accordo interconfederale del 1996, Confcommercio, Filcams, Fisascat e Uiltucs diedero applicazione al d. lgs. 626/1994, in materia di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Per quanto qui rileva, fu prevista la costituzione di un apposito Organismo paritetico nazionale per la sicurezza sul lavoro, all’interno dell’ente bilaterale nazionale del terziario, e di organismi paritetici provinciali. Agli organismi paritetici provinciali si riconosceva, tra l’altro, la funzione di assumere interpretazioni univoche su tematiche in materia di sicurezza che avrebbero costituito pareri ufficiali e sarebbero stati trasmessi all’organismo nazionale e ad enti e istituzioni pubbliche. Inoltre, l’organismo paritetico provinciale era individuato quale “prima istanza obbligatoria di risoluzione”, in tutti i casi di insorgenza di controversie individuali singole o plurime relative all’applicazione delle norme riguardanti la materia dell’igiene, salute e sicurezza sul lavoro.
Il Ccnl del 1999, complessivamente, ha potenziato ulteriormente le funzioni e il ruolo attribuito agli enti bilaterali. Innanzitutto è stata introdotta una specifica disciplina per l’ente bilaterale nazionale per il terziario, che aveva visto la luce nel 1995 a seguito del Ccnl del 1994. A tale ente venivano affidate funzioni attinenti alla promozione degli enti bilaterali territoriali e al coordinamento delle loro attività con le previsioni dei contratti collettivi nazionali, compiti di studio e ricerca sul settore, e in materia di formazione e riqualificazione professionale, funzioni in tema di mercato del lavoro (promuovere ed attivare le iniziative necessarie al fine di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; seguire lo sviluppo del lavoro interinale). Per quanto riguarda gli enti territoriali, venivano ampliate le funzioni già previste in tema di
contratti flessibili. Così si sancì l’obbligo per le aziende che intendessero assumere con contratto di apprendistato di presentare – prime dell’inoltro della domanda di autorizzazione all’Ispettorato del lavoro – una specifica domanda alla commissione paritetica presso l’ente bilaterale, chiamata ad esprimere il proprio parere di conformità in rapporto alle norme previste dal Ccnl in materia di apprendistato e ai programmi di formazione indicati dall’azienda.
Agli enti bilaterali territoriali, si riconosceva, inoltre, la funzione di enti promotori delle convenzioni per la realizzazione dei tirocini formativi ai sensi dell’art. 18, L. n. 196/1997.
Di assoluto rilievo per le cose trattate è la disposizione del Ccnl in esame relativa alla natura della contribuzione agli enti bilaterali: secondo l’art. 16-bis le parti si davano atto che, nel computo degli aumenti dei minimi salariali disposti con il Ccnl , si era tenuto conto dell’obbligatorietà del contributo dello 0,10% su paga base e contingenza a carico delle aziende. Conseguentemente, con decorrenza
1 gennaio 2000, l’azienda che ometta il versamento delle suddette quote è tenuta a corrispondere al lavoratore un elemento distinto della retribuzione di importo pari allo 0,10% di paga base e contingenza. Con la formula usata, le parti riconoscevano quindi che il contributo all’ente bilaterale rientrava nel minimo retributivo vincolante per tutti i datori di lavoro, anche quelli non tenuti ad applicare il Ccnl. Questa disposizione contrattuale riveste notevole importanza alla luce del successivo dispositivo ministeriale contenuto nella circolare n. 43 del 15 dicembre 2010, relativamente all’obbligatorietà del versamento della quota di adesione all’ente bilaterale.
Il Ccnl del 2004 potenziò ulteriormente il ruolo di controllo dell’ente bilaterale sul mercato del lavoro, in particolare per quanto attiene al ricorso ai contratti di lavoro flessibile, ponendosi nel solco dell’intervento legislativo del 2003 che, per l’appunto, aveva inteso dare risalto e stimolo al fenomeno della bilateralità promuovendone le funzioni in tema di mercato del lavoro. Ciò innanzitutto in relazione al ricorso al contratto di apprendistato. Si prevedeva infatti che il datore di lavoro che volesse procedere all’assunzione di apprendisti, avrebbe
dovuto ottenere “il parere di conformità” da parte dell’apposita commissione dell’ente bilaterale territoriale competente, chiamata a valutare, appunto, la conformità alle norme del Ccnl dei contenuti del piano formativo, la congruità del rapporto numerico tra apprendisti e lavoratori qualificati, l’ammissibilità del livello contrattuale di inquadramento e il rispetto della percentuale di conferma. Decorsi 15 giorni dall’inoltro della domanda da parte del datore di lavoro alla commissione dell’ente territoriale, questa si sarebbe intesa come accolta. Al riguardo, il Ministero del Lavoro si espresse nel senso che le clausole della contrattazione collettiva, che subordinassero la stipula del contratto di apprendistato al parere di conformità dell’ente bilaterale, potevano essere considerate come una tutela aggiuntiva per il lavoratore e quindi vincolanti per i datori di lavoro iscritti alle associazioni stipulanti il Ccnl, mentre gli altri datori di lavoro, non iscritti, potevano limitarsi a recepire le clausole relative alla disciplina dei profili formativi, senza recepire anche quelle relative al parere preventivo di conformità4.
Giungendo alla configurazione attuale,vi è da dire che restano invariate le previsioni relative a compiti e funzioni dell’ente bilaterale nazionale e degli enti bilaterali territoriali, e vengono confermati gli obblighi di comunicazione all’ente bilaterale da parte dei datori di lavoro in materia di contratti flessibili (contratto di apprendistato, a tempo determinato, somministrazione a tempo determinato, lavoro ripartito), e di relativi poteri di controllo e segnalazione da parte dell’ente bilaterale territoriale stesso. Tra le novità, si segnala innanzitutto l’inserimento di una dichiarazione a verbale con la quale le parti, in sostanza, affermano la natura normativa dell’obbligo di contribuzione al Fondo di assistenza sanitaria integrativa EST e, di conseguenza, la sua natura vincolante per tutti i datori di lavoro, anche quelli che non applichino il Ccnl.
In secondo luogo, le parti stipulanti hanno raggiunto uno specifico accordo (10 dicembre 2009) sulla governance e sui criteri di
4 Circolare del Ministero del Lavoro n. 30 del 2005 e, in precedenza, circolare n. 40 del 2004.
funzionamento degli enti, organismi, istituti e Fondi bilaterali previsti dal Ccnl terziario distribuzione e servizi. L’accordo sembra nascere, in buona sostanza, dalla consapevolezza della necessità, a circa venti anni di distanza dalla nascita del sistema della bilateralità, ormai evolutosi in un’ampia varietà di enti ed organismi, con molteplici funzioni, di condividere alcune linee direttrici fondamentali, quali la specializzazione e razionalizzazione del sistema della bilateralità (concentrando gli sforzi verso gli obiettivi prioritari e ottimizzando la gestione) e l’eliminazione delle attività non caratteristiche e improprie così come delle duplicazioni.
Ebinter
L’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario è un organismo paritetico costituito nel 1995 dalle organizzazioni sindacali nazionali dei datori di lavoro e dei lavoratori (Confcommercio e Filcams-Cgil, Fiscascat-Cisl, Uiltucs-Uil) sulla base di quanto stabilito dal Ccnl del 1994.
L’ente ha natura giuridica di associazione non riconosciuta ai sensi dell’art. 36 e seguenti del codice civile, non persegue finalità di lucro ed ha carattere assistenziale e mutualistico.
All’ente nazionale sono affidate una varietà di funzioni, in tema di formazione, in tema di supervisione e coordinamento degli enti bilaterali territoriali, di istituzione e gestione dell’Osservatorio Nazionale e di coordinamento degli Osservatori territoriali, di incontro tra domanda e offerta di lavoro e di pari opportunità per le donne, di sostegno al reddito, di monitoraggio della somministrazione a tempo determinato, di raccolta degli accordi realizzati a livello territoriale o aziendale.
Quanto al finanziamento, in via ordinaria, l’ente è finanziato mediante l’attribuzione in misura percentuale del contributo complessivo riscosso dagli enti bilaterali territoriali e, in via straordinaria, dai contributi
eventualmente concessi da terzi pubblici o privati, ovvero con lasciti, donazioni e liberalità.
Tuttavia il fulcro del sistema di bilateralità nel terziario è rappresentato dagli enti bilaterali territoriali, che sono presenti in ciascuna Provincia italiana, salvo pochissime eccezioni (tra cui Potenza ed Isernia).
Riguardo al finanziamento e, in generale, alla disciplina del funzionamento degli enti territoriali, assume rilievo anche la contrattazione di secondo livello. Innanzitutto, la maggior parte degli accordi provinciali dà attuazione alle previsione del Ccnl in tema di costituzione dei vari organismi in seno all’ente bilaterale, quali l’Organismo paritetico provinciale destinato ad assolvere ai compiti previsti dalla disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro, la commissione paritetica per la certificazione dei contratti di cui al d. lgs. 276/2003, collegio arbitrale, commissione di conciliazione, ecc. Da segnalare in questo senso il Fondo di sostegno al reddito costituito all’interno dell’Ente Bilaterale di Livorno, chiamato ad erogare prestazioni a favore dei lavoratori e prestazioni a favore delle imprese. A favore dei primi si tratta di prestazioni sanitarie ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dal Fondo sanitario integrativo EST. A favore delle seconde si tratta di rimborso delle spese sostenute per la formazione dei lavoratori. Degna di rilievo è, altresì, l’esperienza del Contratto Provinciale di Messina del 30.09.2008, che valorizza la banca dati dei lavoratori del commercio, già prevista con accordo integrativo del 10.12.2007, stabilendo che i datori di lavoro, nel caso di nuove assunzioni, debbano attingere all’albo costituito presso l’ente bilaterale per almeno il 35% della forza lavoro da assumere.
La bilateralità oggi nel terziario
In definitiva, dopo essere nato in alcune realtà territoriali, il fenomeno della bilateralità è stato recepito dalla contrattazione collettiva nazionale del terziario che ha fatto della sua promozione e diffusione uno degli scopi principali. In effetti, negli enti bilaterali le parti hanno
trovato la sede opportuna per la gestione di profili delicati attinenti, in primo luogo, ai contratti di lavoro flessibili. Tali tipologie contrattuali sono importanti per le aziende del settore, chiamate a fronteggiare un mercato che esprime domande di norma mutevoli: gli enti bilaterali sono stati assurti, fin dall’inizio, a “supervisori” della corretta applicazione delle normative di tutela a favore dei lavoratori in caso di utilizzo dei contratti flessibili, con un ruolo tanto più incisivo in relazione alla fruizione, da parte delle aziende, di deroghe ai limiti stringenti fissati in generale.
Al netto dei contratti flessibili, la bilateralità è stata assunta come terreno elettivo per lo sviluppo delle politiche formative e del welfare contrattuale. A queste funzioni, se ne sono aggiunte altre nel corso del tempo, come per esempio, quelle in tema di conciliazione delle controversie di lavoro, fino allo sviluppo recente del tema del sostegno al reddito.
In generale, sembra di poter sostenere che lo sviluppo della bilateralità sia avvenuto in modo piuttosto lineare: le competenze degli enti sono state ampliate nel corso del tempo, senza ripensamenti o tentennamenti, rispondendo anche agli stimoli offerti dal legislatore (comincia ad affacciarsi anche l’affidamento agli enti territoriali, da parte della contrattazione di secondo livello, di compiti in tema di incontro tra domanda e offerta di lavoro; il riferimento è alle esperienze di istituzione e gestione di banche dati sul mercato del lavoro).
Anche la contrattazione di secondo livello sembra procedere in modo lineare, nel senso di confermare l’attribuzione agli enti territoriali delle funzioni previste dalla contrattazione nazionale, sebbene non manchino previsioni ulteriori che però non paiono mettere in crisi il sistema complessivo delineato dal centro.
Tutto ciò sembra testimoniare un certo grado di maturità delle relazioni sindacali che trova conferma anche nella tendenziale applicazione del principio per cui le decisioni all’interno degli enti bilaterali vengono assunte a maggioranza e non all’unanimità.
2.4 La bilateralità nell’artigianato
La prospettiva con cui analizzare il sistema della bilateralità nell’artigianato deve tener conto della caratteristica del comparto, composto da piccole e piccolissime imprese che operano in settori economici diversi e con ruoli differenti, per le quali l’apporto umano, inteso anche come patrimonio di professionalità detenuto dai dipendenti, è molto forte e la discontinuità lavorativa un elemento ricorrente, cui si aggiunge una disciplina legale e di protezione sociale che lo differenzia fortemente dal settore industriale.
I riflessi di queste condizioni strutturali sul sistema di relazioni industriali si sono tradotti in un assetto della contrattazione collettiva articolato e variegato a livello territoriale e categoriale. Da un lato, il settore si è dotato di contratti collettivi di categoria nei diversi settori economici in cui le imprese operano, per evitare che la regolamentazione ad esse applicabili fosse quella della normativa contrattuale dell’industria, non sostenibile economicamente dalle piccole aziende. Dall’altro lato, la contrattazione territoriale ha avuto uno sviluppo molto importante, perché era l’unica in grado di corrispondere alle esigenze che a livello locale si presentavano diversificate e non trovavano soddisfazione in una disciplina unica nazionale.
Una caratteristica del settore artigiano, che si è sviluppata nel tempo, e che ha trovato definitiva consacrazione nell’accordo interconfederale del 2004, è l’articolazione intercategoriale sia a livello nazionale che territoriale degli accordi. Da siffatto quadro scaturisce un sistema della bilateralità, che si contraddistingue per l’intercategorialità delle strutture paritetiche, cui si associano i diversi organismi bilaterali, come sarà illustrato nel prosieguo dell’elaborato.
Il primo accordo interconfederale che ha gettato le basi per la sua costruzione risale al 21 dicembre 1983. In quell’occasione le parti sociali hanno espresso la volontà di generalizzare sul territorio
nazionale l’esperienza della bilateralità che si era diffusa a livello locale, perseguendo il comune interesse di avviare “la costituzione ed il più ampio sviluppo degli enti bilaterali a livello territoriale, privilegiando il livello provinciale”. Mutando l’assetto già ampiamente diffuso e consolidato nel settore edile, il comparto artigiano ha optato inizialmente per un assetto provinciale degli enti bilaterali, ma già nel successivo accordo nel 1987 sarà rivista questa scelta e si prediligerà un’articolazione a livello regionale, che oggi costituisce la struttura portante del sistema. L’accordo, tra l’altro, sancisce alcuni principi istitutivi degli enti bilaterali territoriali. Oltre al livello provinciale di cui si è detto e la gestione e la gestione mista ed a composizione paritetica degli organi, si definisce il criterio di ripartizione della contribuzione, che deve essere a carico dei datori di lavoro e, in misura più limitata, dei lavoratori. Si può sostenere, dunque, che se nel 1983 viene gettato il seme per la diffusione delle esperienze di bilateralità sul territorio nazionale, con l’accordo interconfederale del 27 febbraio 1987 le parti sociali puntano decisamente alla creazione di un sistema articolato della bilateralità artigiana mediante la creazione di un organismo nazionale, l’Ebna, costituito in applicazione degli accordi interconfederali del 3 agosto e 3 dicembre del 1992.
Gli accordi del ’92 pongono in essere un processo di istituzionalizzazione di tutto il sistema della bilateralità nel comparto artigiano, che si realizza rendendo obbligatoria per le parti contraenti l’adesione agli enti bilaterali, in quanto parte integrante della struttura contrattuale prevista dall’accordo stesso. L’opera di istituzionalizzazione del sistema investe anche i vari Fondi promossi dalla contrattazione interconfederale e di categoria, mediante la contrattualizzazione delle prestazioni da questi garantite; essi divengono cioè gli strumenti economico-finanziari per l’adempimento degli obblighi previsti dalla contrattazione collettiva. Dopo l’istituzionalizzazione del sistema degli enti bilaterali nel comparto, negli anni Novanta si sono susseguiti diversi accordi che, come si vedrà in seguito, hanno ampliato le funzioni attribuite allo stesso ente bilaterale Ebna.
La contrattualizzazione delle prestazioni e i sistemi di rappresentanza sindacale
Uno dei processi più importanti che ha riguardato l’evoluzione del sistema della bilateralità nel comparto artigiano è la progressiva attuazione del principio di contrattualizzazione delle prestazioni erogate dagli enti bilaterali, per rafforzarne il ruolo. In base a questo principio, le prestazioni degli enti bilaterali vengono qualificate dal contratto collettivo come diritti soggettivi dei lavoratori, i quali possono pertanto esigerle direttamente dal datore di lavoro nel caso in cui quest’ultimo non sia iscritto al sistema degli enti bilaterali che, di conseguenza, non erogano prestazioni a favore dei suoi dipendenti. In tal modo si promuove l’adesione al sistema della bilateralità, eliminando gli elementi di convenienza economica che potrebbero derivare dalla mancata iscrizione agli enti bilaterali da parte dei datori di lavoro.
La funzione di tipo mutualistico è attribuita agli enti bilaterali fin dall’origine. Con l’accordo interconfederale del 21 dicembre 1983, sottoscritto tra Cgil- Cisl-Uil e le Confederazioni delle Imprese Artigiane (Cgia-Cna-Claai-Casa) agli enti bilaterali viene affidato il compito di intervenire con criteri di mutualizzazione per l’erogazione delle principali prestazioni integrative contrattualmente dovute ai lavoratori, quali la malattia, la maternità, l’infortunio ecc. La funzione di promozione della mutualizzazione delle prestazioni previste dai Ccnl a favore dei dipendenti delle imprese artigiane associate alle Confederazioni Confartigianato, Cna, Casa, Claai e loro organizzazioni aderenti viene ribadita con l’accordo del 1987. Il passaggio verso la definitiva contrattualizzazione delle prestazioni contrattuali è portato a compimento con l’accordo interconfederale del 23 luglio 2009. Per dare ancora maggior consistenza a questo processo, con l’atto di indirizzo del 30 giugno 2010, è stato previsto, a carico delle imprese non iscritte agli enti bilaterali, l’obbligo di corrispondere ai lavoratori un elemento retributivo aggiuntivo, rendendo così maggiormente onerosa la mancata adesione al sistema della bilateralità.
Un secondo aspetto di assoluto interesse concernente il sistema bilaterale del comparto artigiano è rappresentato da una delle funzioni che fin dall’origine è stata attribuita agli stessi enti bilaterali, relativa ai sistemi di rappresentanza sindacale e al loro funzionamento. Si tratta di una delle funzioni più rilevanti, in quanto ha consentito il diffondersi della rappresentanza sindacale in un settore caratterizzato da piccole e piccolissime imprese in cui, quindi la normativa di promozione della libertà e dell’associazionismo sindacale, a cominciare dalla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 Statuto dei lavoratori), poteva avere scarsa effettività. Il primo tassello di questo processo risale all’accordo del 1983, quando le parti sociali, rispetto all’obbligo gravante sulle imprese di accantonare un contributo di due ore lavorative per dipendente a favore del delegato d’impresa, optano per la sua utilizzazione in forma mutualistica tramite l’ente Bilaterale o, in sua assenza, tramite le organizzazioni territoriali delle parti stipulanti. In conformità alla logica intercategoriale che ha animato la costituzione degli enti bilaterali, l’accordo del 1988 ha previsto la istituzione della figura del rappresentante di bacino, ovvero un rappresentante sindacale riconosciuto dalle OO. SS. stipulanti l’accordo stesso, la cui indicazione spetta ai lavoratori dipendenti delle imprese artigiane di un determinato bacino territoriale appartenenti a settori economici diversi. Il bacino territoriale diviene così l’ambito entro cui istituire sedi permanenti d’incontro e confronto tra le rispettive rappresentanze delle parti, cui viene affidato anche il compito di risolvere eventuali controversie individuali e collettive, che non abbiano trovato in precedenza composizione. Per le esigenze economiche derivanti dalle attività del Delegato di bacino viene prevista la costituzione di un Fondo regionale gestito dalle organizzazioni datoriali e controllato dalle organizzazioni sindacali, alimentato dalla contribuzione delle imprese; in caso di mancato funzionamento del meccanismo di prelievo attraverso l’Inps, e di costituzione e funzionamento dell’ente bilaterale, l’accordo demanda alle parti sociali in sede regionale la possibilità di definire modalità equivalenti e sostitutive rispetto a quanto previsto dall’accordo stesso. Vale la pena sottolineare che, sul
punti, l’accordo ha modificato le previsioni del 1983 relativamente agli accantonamenti a favore dei rappresentanti sindacali.
Un ruolo fondamentale nel sistema di relazioni sindacali è svolto dagli enti bilaterali regionali, cui spetta la raccolta delle quote di adesione sindacale, che, in un tessuto imprenditoriale composto da piccole e piccolissime imprese, costituisce una leva importante di istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale. A tal fine le parti sociali hanno previsto la possibilità di rendere attivabili deleghe a favore delle organizzazioni sindacali utilizzando la rete degli enti bilaterali territoriali per la raccolta delle deleghe stesse. Questo meccanismo, già previsto in passato, è stato migliorato dall’accordo del 23 luglio 2009, in base al quale le quote di adesione sindacale (ivi comprese quelle delle imprese) sono voci specifiche della contribuzione complessiva spettante agli enti bilaterali regionali.
Le funzioni in materia di formazione professionale
La funzione formativa è stata attribuita agli enti bilaterali già a partire dall’accordo del 1983, con cui è stata affidata loro l’impostazione e la gestione dei corsi di formazione professionale e manageriale, d’intesa con gli enti locali competenti, ribadita poi con l’accordo del 1987. L’accordo interconfederale del 1987, infatti, ha istituito le commissioni bilaterali con funzioni in materia di contratti di formazione e lavoro, a livello provinciale e territoriali ovvero – laddove ciò non fosse possibile – regionale tra Confederazioni artigiane e XX.XX. firmatarie dell’accordo stesso; a queste commissioni spettava il rilascio della dichiarazione di conformità dei progetti presentati dalle imprese artigiane alle norme legali (art. 3 della l. n. 863/1984) e contrattuali in materia di Contratti di formazione e lavoro, sulla base di criteri di omogeneità individuati dalle Commissioni stesse.
Le politiche formative sono state successivamente oggetto dell’accordo interconfederale del 2 febbraio 1993, mirato al “potenziamento della cultura e degli strumenti della bilateralità” per raggiungere le diverse
finalità indicate nell’accordo stesso, riguardanti la collaborazione con le istituzioni competenti in materia di lavoro a livello nazionale e territoriale, la creazione di un sistema di formazione continua dei lavoratori e la promozione e la progettazione congiunta di azioni formative necessarie alla qualificazione professionale dei lavoratori, alla realizzazione degli obiettivi di qualità dell’impresa e al governo del mercato del lavoro.
Per promuovere la formazione, viene prevista l’istituzione di un Fondo nazionale per la formazione, che è parte dell’ente bilaterale nazionale per le imprese artigiane. Al Fondo vengono affidati diversi compiti tra cui quello di stabilire rapporti permanenti di confronto con le Istituzioni e gli enti competenti nelle materie della formazione professionale, sviluppare ricerche sui fabbisogni formativi delle aziende, progettare standards formativi e modelli formativi tipo da sperimentare sul territorio nazionale, progettare interventi formativi per il perfezionamento e l’acquisizione di nuove professionalità ed altri rivolti alle fasce deboli, o per promuovere le pari opportunità, nonché promuovere azioni di orientamento professionale; a questi compiti se ne aggiungono altri legati ala sperimentazione di tecnologie o metodi didattici innovativi e attività formative a livello territoriale, diffusione di buone prassi sul territorio nazionale. Al Fondo compete poi il coordinamento delle attività dei Fondi bilaterali regionali esistenti sul terreno della formazione professionale, e stabilire convenzioni con Fondi bilaterali regionali e/o enti terzi per la realizzazione di attività formative.
La costituzione effettiva di questo Fondo avviene con l’accordo interconfederale del 6 giugno 2001, in occasione dell’entrata in vigore della legge n. 388 del 2000, con cui si istituisce il Fondo paritetico interprofessionale nazionale per la formazione continua delle imprese artigiane, denominato Fondartigianato. Al detto Fondo vengono attribuite le funzioni di indirizzo, coordinamento, monitoraggio e verifica per lo sviluppo della formazione continua sull’intero territorio nazionale, nonché l’individuazione di politiche di qualità nella formazione professionale continua; gli viene poi assegnata la
promozione delle pari opportunità, la promozione e il finanziamento per la sperimentazione di modelli formativi di riqualificazione per i lavoratori a rischio di esclusione dal mercato del lavoro, dei programmi di formazione professionale continua in tema di sicurezza del lavoro e di azioni individuali di formazione continua.
Con l’accordo interconfederale del 18 aprile 2007, le parti sociali intervengono nuovamente in materia di formazione continua, in ragione delle novità apportate dall’accordo del 25 marzo 2006 tra Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Coordinamento delle Regioni e parti sociali per un sistema integrato di formazione continua. L’accordo del comparto artigiano interviene sugli organi e sulle funzioni di Fondartigianato, per migliorarne l’efficienze e l’efficacia; viene decisa l’istituzione di un Comitato di direzione, a cui vengono affidate funzioni di programmazione e controllo dell’attività, di condivisione degli indirizzi strategici ed operativi approvati dall’Assemblea e dal Consiglio di Amministrazione e dalla loro traduzione in piani operativi. Viene inoltre disposta la costituzione di tre organismi di carattere consultivo: la Consulta delle parti sociali, la Consulta delle articolazioni regionali, la Consulta delle categorie. Anche nella gestione del suddetto Fondo emerge la rappresentanza delle diverse anime del sistema della bilateralità nel settore artigiano, quella territoriale e quella categoriale, già sottolineata anche in Ebna.
La ridefinizione del sistema della formazione delineato dall’accordo presenta una strutturazione per processi, suddivisi per attività nazionali e regionali. Le attività nazionali riguardano le risorse, la verifica e il controllo sui progetti formativi, il monitoraggio sull’attuazione degli interventi e dei risultati conseguiti. Le attività regionali hanno ad oggetto le risorse regionali, il finanziamento delle attività delle articolazioni regionali, il monitoraggio, le modalità di sottoscrizione e presentazione dei piani e dei progetti, la programmazione delle attività, le procedure per la presentazione dei progetti, il cofinanziamento, i tempi di valutazione e approvazione dei progetti e le risorse non utilizzate.
Le funzioni in materia di politiche attive del lavoro
La funzione degli enti bilaterali quale organo di gestione di forme di ammortizzatori sociali comincia a delinearsi già nel 1983, ma è soprattutto negli anni successivi che assume un ruolo di particolare rilievo. L’accordo interconfederale del 1983 conteneva una norma di natura promozionale, con cui si affermava che “in caso di crisi strutturali di settore e/o di aree territoriali, o di calamità naturali dalle quali possano conseguire riduzioni di orario di lavoro, le organizzazioni firmatarie si impegnano a promuovere ai livelli territoriali interessati incontri tra le parti sociali per la ricerca di possibili soluzioni, da confrontare eventualmente con le istituzioni pubbliche ed enti interessati per un loro coinvolgimento”.
L’accordo interconfederale del 1987 dà concretezza a questa previsione, con la costituzione di commissioni bilaterali regionali o territoriali con funzioni in materia di processi di qualificazione e assorbimento dei lavoratori in eccedenza (Cig e mobilità) presso le imprese artigiane.
Esse costituiscono lo strumento per realizzare le forme di poltica attiva del lavoro previste dall’accordo, che si sostanziano in misure ed interventi per promuovere l’occupazione nel settore di lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, fondate su incentivi economici per la loro assunzione, concessi in base ad uno specifico progetto formativo di specializzazione, riqualificazione e formazione lavoro concordato tra le parti firmatarie dell’accordo stesso; alle Commissioni paritetiche regionali o territoriali vengono attribuite funzioni analoghe a quelle previste per la commissioni in materia di Cfl per quanto concerne la valutazione dei progetti formativi delle imprese ed, inoltre, viene accordato loro il compito di definire la destinazione delle assunzioni agevolate verso settori e profili professionali particolarmente qualificati, nonché verso spazi occupazionali presenti sul mercato del lavoro locale, di individuare i fabbisogni professionali delle imprese e dei settori artigiani.
Successivamente, nel 1988 viene prevista la costituzione di Fondi intercategoriali a livello regionale aventi come finalità la salvaguardia
del patrimonio di professionalità di lavoro dipendente e imprenditoriale nel settore artigiano. L’aspetto interessante di questo Fondo è che provvede alla costruzione di un sistema di ammortizzatori sociali rivolti non solo ai lavoratori del settore, ma anche alle stesse imprese, con l’obiettivo ultimo, appunto, di preservare il patrimonio di professionalità e competenze di tutti coloro che vi operano. Gli interventi a favore dei lavoratori sono rappresentati da misure di sostegno al reddito. A favore delle imprese, invece, l’accordo prevede una serie di interventi tra cui, a titolo esemplificativo, vengono indicate misure per il ripristino del ciclo produttivo, la riallocazione o riorganizzazione dell’attività produttiva dovuta a fattori e soggetti esterni per la modifica dei processi sia tecnologici che di prodotto e servizi reali alle imprese quali attività formative, diffusione di tecnologie, ecc.
Dal punto di vista operativo- gestionale, il Fondo si è strutturato fin dall’origine con un’articolazione territoriale, poiché è presso gli enti bilaterali regionali che si provvede ad accantonare le contribuzioni. A questi Fondi viene attribuito il compito di erogare provvidenze per il sostegno al reddito dei lavoratori delle imprese interessate da sospensioni temporanee delle attività causate da eventi di forza maggiore indipendenti dalla volontà dell’imprenditore, prestazioni per gli stessi imprenditori artigiani e per il sostegno all’impresa. Organo operativo di ogni Fondo è una Commissione permanente paritetica, cui compete esaminare le domande di intervento, valutando la conformità degli eventi denunciati e dei loro effetti alle finalità per cui il Fondo è costituito.
Un secondo aspetto di rilievo è che, in un’ ottica di solidarietà settoriale, l’accordo del 1988 dispone la costituzione di un Fondo nazionale di disoccupazione alimentato con un prelievo sulle somme accantonate a livello regionale, con l’obiettivo di creare una misura di compensazione finanziaria fra le diverse realtà territoriali. Il Fondo, istituito nel 1997, e denominato Fondo Nazionale di Sostegno al Reddito, mantiene la suddivisione in due capitoli separati, uno destinato
alle imprese, l’altro ai lavoratori, e viene gestito pariteticamente dalle parti a livello nazionale.
In seguito, l’accordo interconfederale del 2002, nell’indicare i principi base per una riforma degli ammortizzatori sociali nell’artigianato, individua negli enti bilaterali il soggetto chiave nella gestione ed erogazione di un nuovo istituto di tipo indennitario nei casi di disoccupazione. Quest’ultimo dovrebbe avere natura pubblicistica ed essere integrato con risorse contrattuali, proprio ad opera degli enti bilaterali, anche in ragione della connessione dello stesso con le politiche formative gestite, anch’esse, dal sistema della bilateralità.
Questa proposta di riforma viene affinata nell’accordo del 2004, con cui viene generalizzato un modello già esistente nel settore. Le parti dispongono che, ai fini della sua erogazione, concorrano contestualmente risorse pubbliche e private per il sostegno al reddito dei lavoratori dell’artigianato, a fronte di sospensioni o riduzioni dell’attività lavorativa per periodi di breve o media durata. Il modello è fondato sulla corresponsione della indennità di disoccupazione anche in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa e sull’integrazione di tale indennità pubblica con risorse contrattuali, ad opera del sistema degli enti bilaterali.
Un aspetto degno di nota è la corrispondenza di questo meccanismo indennitario alle esigenze tipiche del settore. Al fine di garantire un funzionamento rapido e trasparente del sistema, viene prevista l’erogazione dell’indennità, ed è questo forse il profilo di maggior innovatività, a tutti i lavoratori, anche in mancanza dei requisiti previsti dal d. lgs. n. 297/2002, anche, quindi, in presenza del superamento di eventuali limiti di reddito e senza periodi di carenza in costanza di rapporto di lavoro, in ragione della forte discontinuità occupazionale che caratterizza il settore. Analogamente, la stessa logica è alla base della previsione che stabilisce che il diritto all’intera prestazione viene mantenuto anche a seguito di interruzione del rapporto di lavoro.
Questa caratteristica, peculiare del settore artigiano, sarà fatta propria dal legislatore ed estesa a tutti i settori dalla più ampia previsione
legislativa contenuta nell’articolo 19 della legge n. 2 del 2009, oggetto di un analitico e puntuale approfondimento nel capitolo successivo.
CAPITOLO TERZO BILATERALITA’ E SOSTEGNO AL REDDITO
Sommario. 1. Iniquità e parzialità degli ammortizzatori sociali italiani–
2.Enti bilaterali e e sostegno al reddito – 3. Gli interventi antecedenti al 2005
– 4. La legge n. 80/2005 – 5. L’art. 19, legge n. 2/2009 – 6. Il ruolo dell’accordo collettivo (segue) – 7. Alcune riflessioni sull’art. 19 – 8. La legge
n. 33/2009 tra bilateralità e trattamenti “in deroga” – 9. La legge n. 92/2012: i nuovi fondi di solidarietà bilaterale
3.1 Iniquità e parzialità degli ammortizzatori sociali italiani
Il tema degli ammortizzatori sociali in Italia e della necessità di una loro riforma strutturale è al centro del dibattito politico e accademico da almeno un decennio, ed è legato, ineluttabilmente, a quello inerente alla riforma della protezione sociale nel suo complesso.
Fra le storiche lacune del modello di welfare italiano, vi è certamente stata, e persiste tuttora, quella che riguarda il sostegno dei redditi in caso di perdita del lavoro.
Quello italiano è un sistema di tutele che è stato definito da più parti disorganico, disomogeneo e settorializzato, correlato al tipo di contratto di lavoro dei beneficiari, al settore produttivo di appartenenza, alle caratteristiche dimensionali dell’azienda, all’anzianità anagrafica e
a quella contributiva, alle caratteristiche occupazionali del territorio e, da ultimo, alla relativa discrezionalità politico-amministrativa con cui – dal 2004 – si è fatto ricorso alla c.d. cassa integrazione “in deroga”, di cui gli utilizzatori beneficiano senza aver sostenuto alcun onere contributivo.
A fronte del quadro appena descritto, va sottolineato che l’Italia – a confronto degli altri stati europei – è il paese che ha promulgato il maggior numero di leggi e disposizioni che a vario titolo disciplinano l’assicurazione in caso di disoccupazione, per non parlare dell’innumerevole serie di delibere e circolari miranti a regolamentare la materia, e che complicano in misura ulteriore lo stesso contesto giuridico.
Da qui ne scaturisce un vero e proprio “labirinto”, in cui i rischi connessi alla disoccupazione risultano ripartiti in modo molto differenziato e iniquo, colpendo in particolare i giovani con rapporti di lavoro precari o temporanei, con un ulteriore elemento di disparità, relativo all’età e al ciclo di vita.
Come è stato efficacemente sintetizzato, si può dire che “le difese e i sostegni diventano sempre più fragili quanto più ci si allontana dalla sfera delle imprese di medio-grandi dimensioni o da aree territoriali con cronici problemi di disoccupazione. Per tutto il resto, nelle micro- imprese industriali o nelle imprese non industriali ma ad eccezione dell’edilizia e di alcune realtà dell’indotto della grande industria, la protezione dai rischi di disoccupazione è governata dalla logica dell’emergenza”.
E’ consolidato, inoltre, che fra i paesi europei l’Italia si distingua per la scarsa copertura e generosità del suo sistema di protezione sociale in materia di disoccupazione ed esclusione sociale. È infatti minore la copertura riguardo ai soggetti tutelati, è mediamente più basso il tasso di rimpiazzo fra livello dell’indennità e quello dell’ultima retribuzione, ed è inferiore la spesa complessiva destinata alle politiche del lavoro. Gli odierni ammortizzatori sociali coprono in Italia il 28,5% dei disoccupati, dunque meno di tre su dieci (Ministero del Lavoro, 2011), contro il 36% del Regno Unito, il 42% della Francia, il 66%
dell’Austria, il 70% di Germania, Svezia e Finlandia, l’80% del Belgio (European commission, 2011).
Dunque, dall’analisi di queste cifre emerge che più del 70% dei disoccupati italiani non gode di alcun sostegno. In questa percentuale vanno inclusi i lavoratori delle piccole aziende che non hanno maturato i requisiti minimi necessari (soprattutto giovani), i disoccupati che hanno esaurito tutti i termini di tempo previsti dai vari regimi (anziani e disoccupati di lunga durata), i collaboratori parasubordinati, i giovani in cerca di prima occupazione, i lavoratori che svolgono attività nell’economia sommersa (specie al Sud).
A determinare questo esito concorre gravemente la definizione di criteri di eleggibilità eccessivamente restrittivi per un mercato del lavoro come quello italiano.
Da un’approfondita analisi dei livelli di contribuzione stabiliti per la tutela contro la disoccupazione, e della spesa pubblica destinata alle politiche del lavoro, e nella fattispecie agli ammortizzatori sociali, emerge un quadro non molto dissimile da quello precedentemente illustrato: in entrambi i casi l’Italia si colloca fra i paesi che destinano meno risorse.
Nel primo caso – quello inerente alla contribuzione – l’incidenza sulla retribuzione lorda è nettamente inferiore alla media dei paesi europei più avanzati, nei quali l’aliquota raggiunge livelli di quattro o cinque volte superiori a quelli previsti in Italia per l’indennità ordinaria di disoccupazione.
Quanto alla voce politiche del lavoro, l’Italia destina in totale l’1,3% del Pil, contro una media Ocse dell’1,7%, che sale però nettamente nei paesi dell’Europa centro-settentrionale: 2,6% in Svezia, 2,7% in Francia, 3% in Finlandia, 3,5% in Germania, Belgio, Olanda e addirittura 4,5% in Danimarca.
Agli ammortizzatori sociali italiani sono destinati lo 0,7% del Pil nazionale contro una media Ocse superiore all’1%. Parimenti inadeguata e irrisoria è la spesa italiana per i servizi all’impiego: 0,045% contro una media Ocse dello 0,145% (dati Ocse 2011).
Rispetto alle gravi e persino incostituzionali disparità del sistema legislativo italiano in tema di ammortizzatori sociali, le parti sociali attraverso la contrattazione collettiva, hanno saputo duttilmente ed egregiamente adempiere ad una “meritevole opera di tappabuchi”. Le parti sociali infatti intervengono, integrando e talvolta rimpiazzando le politiche e le risorse pubbliche finalizzate al conseguimento di un sistema più inclusivo ed equo di protezione sociale; e fra gli strumenti di “welfare contrattuale” che più originalmente concorrono a surrogare la carenza di strumenti universalistici per la tutela del reddito, si può annoverare senza dubbio l’esperienza della bilateralità.
3.2. Enti bilaterali e sostegno al reddito
Delineato l’articolato contesto nel quale si inserisce la tematica in esame, occorre chiarire che quando si parla di bilateralità e misure di sostegno del reddito, ci si trova di fronte ad un panorama estremamente composito sotto molteplici profili, rinvenibili non solo nell’articolata configurazione assunta dalla bilateralità nei settori in cui si è sviluppata, ma anche nella variegata tipologia di organismi bilaterali presenti oggi nel sistema, e, infine, nella complessità delle prestazioni da questi erogate a tutela del reddito in ipotesi di mancanza di lavoro.
Una prima difficoltà nell’approcciare questa tematica è data dalla molteplicità degli organismi bilaterali coinvolti nel sistema, soprattutto a seguito degli interventi legislativi più recenti.
Ed invero, accanto agli enti bilaterali che possono essere definiti “tradizionali”, occorre ricordare i Fondi di solidarietà per il sostegno al reddito, costituiti ai sensi dell’art. 2, comma 28, della legge n. 662/1996, che hanno svolto un ruolo significativo nell’ambito dei processi di ristrutturazione aziendale e di situazioni di crisi in alcuni
settori esclusi dal sistema degli ammortizzatori sociali (quali il credito, le poste, le ferrovie dello Stato, il trasporto aereo), soprattutto per la gestione degli esuberi del personale.
E ancora, un ruolo importante in materia di interventi a sostegno del reddito è oggi riconosciuto ai Fondi per la formazione dei lavoratori somministrati (ex art. 12 d. lgs. n. 276/2003) ed ai Fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua (costituiti ex art. 118, legge n. 388/2000). A questi ultimi il legislatore più recente riconosce, accanto al tradizionale compito di provvedere al finanziamento dei piani formativi aziendali, settoriali, territoriali ed individuali, un coinvolgimento attivo nel sostegno all’occupazione: basti ricordare quanto previsto dalla legge 2/2009, che ricomprende gli stessi tra i soggetti abilitati all’erogazione della prestazione integrativa per il sostegno del reddito in ipotesi di sospensioni del lavoro; oltre ad ammettere un concorso finanziario da parte di tali fondi nei casi di proroga dei trattamenti di cassa integrazione e mobilità in deroga. Trattasi di previsioni importanti, soprattutto per quei settori, quali il terziario e l’artigianato, che contano importanti Fondi interprofessionali, gestori di significative risorse finanziarie (quali For. Te., che associa Confcommercio, Xxx, Ania e Confetera; For. Ter che associa Confesercenti; Fondo Artigianato Formazione – Fondo per la formazione continua nelle imprese artigiane).
Sotto questo aspetto, occorre chiarire, tuttavia, che gli organismi bilaterali fin qui richiamati rispondono a diversi modelli “partecipativi”: a) i Fondi interprofessionali, istituiti ex lege presso l’INPS, sono ad adesione obbligatoria, fermo restando che è riconosciuta al datore di lavoro la facoltà di scegliere se versare il contributo dello 0,30% al fondo bilaterale ovvero all’Inps; b) relativamente ai fondi di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 276/2003, l’adesione/contribuzione agli stessi è obbligatoria5; le risorse accumulate presso tali fondi possono essere destinate al finanziamento
5 Si rammenta che tutte le imprese di somministrazione sono tenute per legge al versamento di un contributo al fondo bilaterale, nella misura del 4%)
di “specifiche misure di carattere previdenziale” per i lavoratori somministrati a tempo determinato, nonché dell’integrazione del reddito dei lavoratori somministrati assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori. L’esperienza della bilateralità ha attivato in tale area, negli ultimi anni, importanti misure di tutela del reddito: si pensi all’assegno una tantum di 700 euro lordi riconosciuto da Ebitemp ai lavoratori a tempo determinato, disoccupati da 45 giorni, con almeno sei mesi di lavoro negli ultimi dodici; o, ancora, nell’azione pilota introdotta con l’accordo del 13 maggio 2009, ove, nel tentativo di integrare politiche di sostegno del reddito e politiche attive del lavoro, è stata prevista l’erogazione di un contributo una tantum di 1300 euro, erogato dall’Inps ai lavoratori a termine privi di altre misure di sostegno al reddito, cofinanziato in maniera paritaria dagli enti bilaterali di categoria – Ebitemp, Formatemp ed Ebiref – e il Ministero del Welfare. Di contro, per gli enti bilaterali “tradizionali”l’adesione/contribuzione ad essi è,come noto, di tipo volontario: il vincolo della contribuzione deriva, cioè, dall’applicazione del contratto collettivo, che rimane una scelta libera per l’impresa, sulla quale grava non un obbligo ma, piuttosto, un onere contributivo, in vista di un beneficio (per cui il mancato adempimento del versamento non comporta alcuna sanzione, se non la mancata realizzazione dell’effetto giuridico favorevole, ossia il godimento delle prestazioni erogate).
Infine, un’ulteriore difficoltà che si rinviene nell’approcciare la tematica in oggetto è rinvenibile nella complessità del sistema di tutele nel quale si inseriscono i trattamenti di sostegno al reddito erogati dagli enti bilaterali, nelle ipotesi di carenza reddituale derivante dalla sospensione ovvero dalla estinzione del rapporto di lavorativo. A seguito di interventi legislativi recenti, tali prestazioni – erogate in ipotesi di sospensione “qualificate” dell’attività lavorativa – hanno assunto una configurazione del tutto peculiare e, per certi versi, anomala rispetto all’assetto regolativo preesistente: è questo il caso, in particolare, delle misure introdotte (dapprima dall’art. 13, comma 7 e 8 della legge n.80/2005, poi abrogati) dall’art. 19, legge n. 2/2009 che,
come si vedrà in seguito, risultano caratterizzate da un significativo tratto di “atipicità”, tanto da rendere non agevole la loro collocazione sistematica nell’ambito delle tradizionali misure di sostegno al reddito.
3.3. Gli interventi antecedenti al 2005
Delineato dunque il quadro complessivo nel quale la tematica in esame è destinata ad impattare, è ora necessario focalizzare l’attenzione sul ruolo svolto dagli enti bilaterali a tutela del reddito nei settori sprovvisti della cassa integrazione e della mobilità.
E’ d’obbligo, innanzitutto, richiamare il ruolo svolto dalle Casse edili, organismi tipici del settore delle costruzioni (le cui origini risalgono al 1919), che hanno svolto un ruolo di forte sollecitazione per la regolamentazione legislativa della materia. Per le esigenze del caso, occorre ricordare il contratto collettivo nazionale del 1968 (generalizzando un intervento già riconosciuto in molte province del Paese: l’esperienza della bilateralità e delle casse edili è per genesi e struttura fortemente incardinata al tessuto provinciale), ad istituire una indennità complementare di disoccupazione, per i lavoratori licenziati da imprese edili, di importo pari al 60% della retribuzione lorda. La contrattazione collettiva si è poi fatta carico di migliorare i trattamenti di cassa integrazione guadagni (estesa a questo settore dalla legge n. 77/1963), elevando l’integrazione salariale per le ore di lavoro perdute.
Relativamente ai settori del commercio, turismo e servizi, la bilateralità ha tradizionalmente prestato una maggiore attenzione verso l’area della formazione, mentre la previsione di misure di sostegno al reddito è limitata ad alcune realtà territoriali (si pensi alle esperienze di settore in Xxxxxx Xxxxxxx e in Lombardia). Nel settore del turismo,
invece, si segnala l’istituzione del Fondo per il sostegno al reddito dei lavoratori nei periodi di sospensione dell’attività dovuta a ristrutturazione o riconversione aziendale, ma anche le misure di sostegno previste in alcune realtà regionali (quali, ad esempio, quelle erogate dall’ente bilaterale Turismo del Lazio).
Da ultimo, il richiamo va, naturalmente, all’esperienza della bilateralità artigiana, meno antica rispetto a quella edile, ma estremamente radicata nel settore. Per quanto riguarda specificamente l’oggetto di questo intervento, è l’accordo interconfederale del 21 luglio 1988 che prevede l’istituzione di Fondi intercategoriali a livello regionale per il sostegno del reddito, finalizzati ad “erogare provvidenze per il sostegno del reddito dei lavoratori delle imprese interessate da sospensioni temporanee delle attività causate da aventi di forza maggiore, indipendenti dalla volontà dell’imprenditore”. Tali fondi, istituiti su iniziativa delle parti sociali ed operanti a livello regionale, hanno svolto un’importante funzione sia sostituiva (ad es. in caso di calamità naturali) che integrativa del reddito, garantendo ai lavoratori licenziati e – soprattutto – ai lavoratori sospesi per crisi congiunturali o difficoltà dovute a causa di forza maggiore, un articolato apparato di prestazioni (di natura integrativa, aggiuntiva o, ancora, sostituiva di quelle legali), di importo e durata diversificata nelle varie realtà territoriali, con differenziazioni anche correlate alle causali di intervento ed alle situazioni di crisi di volta in volta emergenti per le diverse categorie contrattuali. Non sono mancate poi, in tale settore, interessanti sperimentazioni di interventi di sostegno al reddito compartecipati dalle Regioni e dagli enti bilaterali, anche a favore dei dipendenti sospesi dal lavoro in imprese a questi non aderenti.
L’esperienza della bilateralità nell’artigianato è stata poi oggetto di una significativa legislazione promozionale, che ha interessato proprio l’ambito privilegiato di intervento degli enti bilaterali in questo settore, quale è quello dell’integrazione del reddito. Il richiamo va alla particolare disciplina dei contratti di solidarietà, contenuta nell’art. 5, comma 8, legge n. 236/1993, ove, con riferimento alle imprese
artigiane, si è prevista la concessione di un contributo pubblico – corrisposto per un periodo massimo di due anni e pari alla metà del monte retributivo non dovuto dalle imprese a seguito della riduzione dell’orario di lavoro – a condizione che i lavoratori con orario ridotto percepiscano, da parte dell’ente bilaterale, una prestazione di importo non inferiore alla metà della quota del contributo pubblico. Per la prima volta, dunque, il legislatore ha configurato gli enti bilaterali come “gestori di un ammortizzatore sociale in partnership con lo Stato”; ciò secondo uno schema – ovvero la condizionalità dell’intervento pubblico rispetto alla sussistenza di quello privato/collettivo – in qualche misura prodromico rispetto a quanto previsto, a distanza di diversi anni, dall’art. 3, comma 8, legge n.80/2005 (di conversione del d.l. n. 35/2005).
3.4. La legge n. 80/2005
Proprio l’art. 13 della legge n. 80 del 2005 assume uno specifico rilievo con riguardo al ruolo riconosciuto agli enti bilaterali nel sostegno al reddito. Tra le molteplici innovazioni in essa contenute, di rilievo sono le previsioni contenute nei commi 7 ed 8 (abrogati nel 2009), applicabili ai lavoratori dipendenti da aziende non destinatarie di trattamenti di integrazione salariale: il comma 7, come noto, riconosceva il trattamento di disoccupazione ordinaria a requisiti normali ai lavoratori sospesi, nei casi in cui la sospensione fosse stata conseguenza di situazioni aziendali dovute ad eventi transitori ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato (a condizione che sussistessero i relativi requisiti assicurativi e contributivi); il comma 8 riconosceva l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti ai
dipendenti del settore artigiano, anch’essi sospesi per le medesime situazioni aziendali, ma subordinatamente ad un intervento integrativo pari al 20% da parte degli enti bilaterali oppure alla somministrazione di attività formative per almeno 20 ore. Il tutto, nei limiti di determinati vincoli di spesa e con un tetto annuo di giornate indennizzabili pari a 65.
La legge n. 80/2005 ha fornito una vesta legale ad una prassi amministrativa invero già diffusa nel sistema di protezione sociale. L’ente previdenziale infatti, nei periodi di sospensione lavorativa per mancanza di lavoro derivante da “necessità dell’industria”, già da molti anni aveva riconosciuto l’indennità di disoccupazione ordinaria anche ai lavoratori dipendenti da aziende non destinatarie di trattamenti di integrazione salariale; più di recente – seppure non senza incertezze interpretative – era stata altresì riconosciuta, limitatamente alle sole imprese del settore artigianato, l’indennizzabilità di sospensione di tali attività lavorative, non retribuite, anche con lì’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti.
In definitiva la portata innovativa dei commi 7 ed 8 dell’art. 13 è individuabile e rinvenibile sotto almeno tre profili. Innanzitutto, rileva la previsione della durata massima degli interventi di sussidio nei casi di sospensione dell’attività lavorativa (65 giorni); si tratta, peraltro, di un limite non rigido, essendo stata ammessa l’indennizzabilità anche di ulteriori giornate di sospensione sulla base di intese stipulate in sede istituzionale territoriale tra le parti sociali. In secondo luogo, l’accesso ai trattamenti non risultava condizionato alla sottoscrizione di un accordo sindacale; l’articolo 4, comma 2, del d.m. 1 febbrario 2006, contenente le modalità applicative delle norme in esame, prevedeva anzi che i lavoratori interessati dalla sospensione dell’attività lavorativa potessero essere dispensati dal presentare la dichiarazione di immediata disponibilità al centro per l’impiego, qualora il periodo di sospensione fosse stato concordato con verbale di accordo raggiunto con le OO. SS.
In ultimo, il comma 8 riconosceva e valorizzava il ruolo della bilateralità; la sua ampia diffusione nel settore dell’artigianato consentiva infatti al legislatore di introdurre un meccanismo di tipo
integrativo/vincolante, riconoscendo allo svolgimento di un’attività formativa un ruolo “paritario” rispetto all’integrazione economica a carico dell’ente: elemento, quest’ultimo venuto meno a seguito delle previsioni introdotte dall’art. 19 della legge n. 2/2009.
3.5. L’art. 19, legge n. 2/2009
La portata innovativa della norma da ultimo richiamata è di tutta evidenza: essa generalizza un sistema analogo a quello contenuto nel comma 8 dell’art. 13, legge n. 80/2005, prevedendo, per i dipendenti da imprese non destinatarie di interventi di cassa integrazione guadagni, la corresponsione del trattamento di disoccupazione in casi di sospensioni “qualificate” del lavoro, ma solo in presenza di una prestazione integrativa a carico dell’ente bilaterale (non è più prevista l’attività formativa). Ciò secondo un modello, introdotto in via permanente, che opera analogamente a quello della cassa integrazione, a protezione delle aree di lavoratori rimaste escluse dal limitato campo di applicazione di quest’ultima. In questo modello, però, le misure di sostegno operano entro il limite delle risorse disponibili, annualmente stanziate dal legislatore.
Nel dettaglio, l’art. 19, comma 1, lett. a), b) e c) della legge n.2/2009, prevede la corresponsione, ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali, dell’indennità ordinaria non agricola con requisiti normali o ridotti, per un massimo di 90 giornate annue (in luogo delle precedenti 65), qualora sussista un intervento integrativo pari al 20% a carico degli enti bilaterali; la misura è stata estesa, in via sperimentale per il triennio 2009-2011, agli apprendisti con almeno tre mesi di servizio presso l’azienda interessata, sospesi o licenziati.
Relativamente ai requisiti soggettivi di accesso ai trattamenti in esame, la legge richiede il possesso degli ordinai requisiti contributivi ed assicurativi necessari per accedere all’indennità di disoccupazione a requisiti normali o a requisiti ridotti.
Ulteriore condizione per fruire dei trattamenti è data dal verificarsi di “crisi aziendali o occupazionali”; la causale della sospensione qui richiamata, pur nella sua ampiezza, sembra rivestire carattere maggiormente selettivo rispetto alla formulazione utilizzata nella legge
n. 80/2005, in cui si faceva riferimento alle “situazioni aziendali dovute ad eventi transitori, ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato”. Senza volere entrare in un puntuale esame della causali legittimanti l’intervento previdenziale, è evidente che le ipotesi di sospensione lavorativa “qualificate” individuate dalla norma in esame richiamano alcune di quelle legittimanti l’intervento della cassa integrazione guadagni, anche nella sua versione “in deroga”. In questo modo, anche le misure di sostegno al reddito in parola, al pari della sospensione del rapporto di lavoro per contrazione temporanea dell’attività, affiancano alla funzione di tutela del reddito dei prestatori per l’evento mancanza di lavoro, quella di ausilio all’impresa che versa in situazioni di difficoltà economica. E sono tutte, occorre ribadirlo, ipotesi di sospensione lavorativa che, per il loro particolare rilievo economico e sociale, risultano meritevoli di intervento da parte dello Stato, realizzato attraverso un consistente intervento finanziario pubblico che opera in via esclusiva (come avviene per i trattamenti in deroga), ora aggiuntiva rispetto a quello privato/collettivo. Ed infatti, ulteriore condizione richiesta ai fini dell’accesso al trattamento in esame è la sussistenza di un intervento integrativo “pari almeno alla misura del 20% dell’indennità stessa a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva” (compresi i Fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito dei lavoratori somministrati, di cui all’art. 12, d. lgs. n. 276/2003).
Il trattamento complessivo riconosciuto al lavoratore sospeso è pari, inoltre, all’indennità di disoccupazione con requisiti normali ovvero ridotti, a seconda dei requisiti contributivi e assicurativi in suo
possesso; importo equiparato, limitatamente al triennio 2010-2012, a quello dei trattamenti in deroga (cig e mobilità), con un evidente, consistente aggravio dei costi, a carico del Fondo nazionale per l’occupazione, soprattutto in caso di trattamento di disoccupazione con requisiti ridotti.
L’erogazione dell’indennità avviene poi sulla base di apposite Convenzioni Inps-Enti bilaterali, ai sensi dell’art. 19, comma 4, legge
n. 2/2009. Infatti, con Mess. n. 16070 del 29 luglio 2009 l’Inps ha reso noto un modello di convenzione, nel quale è stata evidenziata la scelta dell’Istituto di corrispondere, in un’unica soluzione, la prestazione nell’intera misura dovuta, pari all’80% della retribuzione, comprensiva anche della quota integrativa a carico dell’ente bilaterale. Trattasi naturalmente di uno dei modelli possibili, non imposto dal legislatore, che meglio è parso rispondere al principio di semplificazione dei rapporti tra la pubblica amministrazione ed il cittadino; nella realtà, peraltro, si sono riscontrati casi in cui, in base ad accordi intercorsi tra la singola Sede Regionale Inps e l’ente bilaterale, quest’ultimo effettua il pagamento della quota integrativa a proprio carico direttamente al dipendente, senza passare, dunque, per il tramite dell’Istituto.
Quanto esposto fin qui rileva per evidenziare il carattere anomalo delle prestazioni in esame rispetto al sistema tipico delle misure di sostegno del reddito. Ed invero, a fronte della formale estensione dei tradizionali trattamenti di disoccupazione ad ipotesi di mera sospensione dell’attività lavorativa, è indubbio che nel nuovo contesto questi assumono una configurazione del tutto peculiare, data non solo dal loro carattere misto pubblico/privato, ma anche dal costituire gli stessi una sintesi di modelli previdenziali già noti nell’ordinamento; se, infatti, dei trattamenti di disoccupazione “tipici” sono richiamati i requisiti soggettivi di accesso, delle integrazioni salariali “tipiche” vengono riproposte, a ben vedere, sia le causali di intervento (sospensione per crisi aziendale o occupazionale), sia (seppure limitatamente al 2009-2012) la misura dell’indennità. A ciò si aggiunga che al finanziamento delle prestazioni partecipa in misura significativa la finanza pubblica, nei limiti delle risorse stanziate dallo Stato.
In conclusione, per i temi trattati preme evidenziare come il riconoscimento della quota “pubblica” in via subordinata rispetto all’esistenza dell’intervento “privato”, offerto dalla bilateralità, risulta espressione di quel modello di “welfare mix” che, da alcuni anni, va sempre più caratterizzando il sistema di protezione sociale in Italia.
Si tratta, invero, di una opzione di welfare misto che non si pone in linea di continuità con le altre soluzioni fino ad oggi seguite dal legislatore; a ben vedere, infatti, il legislatore non affida agli enti bilaterali la possibilità di offrire un trattamento integrativo/aggiuntivo a quello legale – trattamento che per alcune tipologie di lavoratori (quali gli apprendisti) riveste il carattere della esclusività – dal momento che l’intervento della bilateralità risulta la condizione legittimante lo stesso godimento anche del trattamento pubblico. Una siffatta modalità di estensione delle tutele ai lavoratori dipendenti da imprese di piccole dimensioni, escluse dal campo di intervento della cassa integrazione, riflette invero una scelta di politica del diritto che può destare talune perplessità. Essa segna infatti un ripensamento rispetto alle scelte effettuate solo pochi anni prima, quando la tutela in caso di sospensioni “qualificate” dell’attività lavorativa era stata riconosciuta – con la sola esclusione dell’artigianato – a prescindere dall’intervento integrativo a carico dell’autonomia collettiva: di modo che, al verificarsi, delle condizioni previste dal già richiamato art. 13, comma 7, legge n. 80/2005, al lavoratore – al pari di quanto avviene per le integrazioni salariali “ordinarie” – era riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo alla prestazione. Diritto che potrebbe risultare quantomeno affievolito, in ragione non solo di stringenti vincoli di bilancio, ma anche della sussistenza, a monte, di assetti protettivi rimessi all’autonomia collettiva, ancora scarsamente diffusi e, laddove esistenti, dotati di una limitata portata applicativa.
3.6. Il ruolo dell’accordo collettivo (segue)
In coerenza con le logiche sottese all’esperienza della bilateralità, lo strumento dell’accordo collettivo è considerato dalla legge presupposto e vera fonte di disciplina delle modalità di ricorso alle prestazioni in esame.
Ed infatti, una volta soddisfatti i requisiti di accesso richiesti, il ricorso ai trattamenti di sostegno al reddito è subordinato alla sottoscrizione di un apposito accordo sindacale, “secondo modalità e procedure stabilite da accordi interconfederali stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale istitutive degli enti bilaterali”; a tali accordi la legge demanda il compito di definire le risorse minime “a valere sul territorio nazionale” (“nonché i criteri di gestione e rendicontazione”: art. 19, comma 7, legge n. 2/2009).
Xxxxxx, se si analizza la disciplina contenuta nella legge n. 2/2009 e nel d.m. n. 46441/2009, appare rinvenibile, il riferimento ad (almeno) due livelli di contrattazione: il primo (macro) interconfederale, da intendersi prevalentemente di livello nazionale; il secondo (micro) di livello aziendale. Ciò secondo un disegno legislativo, che con tutta evidenza, riflette il modello della bilateralità tipico dell’artigianato.
Soffermando l’attenzione sul livello macro, la legge fa riferimento agli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; la bilateralità abilitata a fondare il diritto alla prestazione di disoccupazione in caso di sospensione del rapporto di lavoro è, dunque, una bilateralità “qualificata”, a garanzia della efficacia dello strumento, qualificata dalla particolare rappresentatività dei soggetti che la fondano. In buona sostanza, il ruolo prioritario riconosciuto alla contrattazione nazionale investe il finanziamento delle prestazioni integrative. Al riguardo, l’art. 19 stabilisce che “il sistema degli enti bilaterali eroga la quota integrativa…fino a concorrenza delle risorse
disponibili”. Ma quali sono le risorse disponibili e chi le determina? Trattasi di un punto nevralgico dell’intera disciplina, dal momento che l’utilizzo della suddetta prestazione integrativa comporta una spesa superiore alle risorse disponibili, rendendo probabilmente necessario un aumento dei contributi che l’ente bilaterale riscuote normalmente.
Il compito di definire le risorse minime a valere sul territorio nazionale (oltre a quello di stabilire i criteri di gestione e di rendicontazione) viene dunque demandato dalla legge ai contratti e agli accordi interconfederali collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Più specificamente, poi, l’art. 9, comma 2, del d.m. n. 46441/2009 affida agli stessi il compito di determinare “la dotazione minima, per ogni lavoratore e per ogni settore o categoria produttiva, della contribuzione a carico di imprese e di lavoratori per far fronte alla quota integrativa dell’ente bilaterale”, specificandosi che “dette indicazioni nazionali valgono per i territori che non abbiano già provveduto a determinare risorse con specifica contrattazione collettiva”. Appare evidente, in tal caso, la ratio sottesa alla norma in oggetto: le risorse pubbliche mobilitate dal sistema sono in ingenti e necessitano di essere utilizzate in nome di una solidarietà quanto più ampia possibile, con un ruolo di coordinamento e di indirizzo che, per consentire la massima omogeneità e trasparenza del sistema, dovrà ragionevolmente provenire dal livello nazionale della bilateralità.
Tornando all’assetto contrattuale rinvenibile nelle disposizioni del 2009 in esame, il predetto d.m. prevede, sul piano micro, che l’accesso ai trattamenti integrativi sia subordinato alla sottoscrizione di un ulteriore accordo sindacale, di livello aziendale, nel quale devono essere specificati la tipologia degli interventi necessari, i motivi, i nominativi dei lavoratori interessati, e la durata di corresponsione dell’intervento. Relativamente al campo di applicazione soggettivo di tale accordo, deve ritenersi, innanzitutto, che lo stesso produce l’effetto della sospensione dei rapporti di lavoro nei confronti dei lavoratori che hanno conferito specifico mandato ai rappresentanti ai rappresentanti sindacali stipulanti; diversamente, la sospensione, si produrrà in seguito
alla sottoscrizione di accordi con i singoli lavoratori, anche manifestata tacitamente (peraltro, è evidente che i lavoratori hanno tutta la convenienza ad accettare il trattamento, per evitare il verificarsi delle condizioni che potrebbero legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per riduzione di personale).
3.7. Alcune riflessioni sull’art. 19
La portata innovativa delle disposizioni contenute nell’art. 19, comma 1, D.L. legge n.185/2008, come modificato dalla legge di conversione n. 2/2009, ha avuto il positivo effetto di rianimare il dibattito politico-giuridico sul rapporto tra bilateralità e sostegno al reddito mai stato così vivace fin dall’epoca della legge n. 30/2003.
In realtà non solo la dottrina, ma anche le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro si sono espresse sulla opportunità di tali disposizioni con punti di vista differenti ed esprimendo giudizi spesso discordanti tra di loro.
Tralasciando momentaneamente quest’ultimo aspetto, va detto che, nella sostanza, le novità prima richiamate sembrano muovere nella giusta direzione. Uno è in particolare il profilo che si lascia apprezzare positivamente dalle parti sociali e della dottrina: la generalizzazione del modello che prevede la possibilità della corresponsione del trattamento di disoccupazione anche in casi di sospensione del lavoro, e l’estensione di tale beneficio a tutte quelle categorie di lavoratori prima scoperti dall’ombrello degli ammortizzatori sociali.
Un secondo profilo positivo è rinvenibile nella previsione – ai sensi dell’art. 19, c. 1, legge n. 2/2009 – che statuisce che gli ammortizzatori sociali in deroga possono essere utilizzati solo dopo l’esaurimento dei
90 giorni di prestazione; in questo modo il legislatore ha inteso dare un criterio di coerenza al ricorso al sistema degli ammortizzatori sociali, stabilendo che l’utilizzo delle risorse della bilateralità avvenga prioritariamente rispetto alle risorse integralmente fondate sulla fiscalità generale.
Spostando l’attenzione sul secondo periodo del comma 7 dell’art. 19 del decreto, il legislatore dispone che “i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono le risorse minime a valere sul territorio nazionale”. La formula così come enunciata fornisce due importanti indicazioni. In primo luogo che la bilateralità, abilitata a fondare il diritto alla prestazione di disoccupazione in caso di sospensione del rapporto di lavoro, è una bilateralità qualificata – a garanzia dell’efficacia dello strumento – dalla particolare rappresentatività dei soggetti che la fondano. In secondo luogo, che questa bilateralità – per essere abilitata alla importante funzione di sostegno in simbiosi con le risorse pubbliche – deve avere un respiro nazionale. Quest’ultima è una statuizione molto importante, apprezzata positivamente in dottrina, considerando che il sistema della protezione sociale implica la mobilitazione di risorse pubbliche che sono espressione di una solidarietà che opera a livello nazionale e non può, dunque, non riflettersi anche nelle logiche di gestione della prestazione integrativa.
Indugiando sulla lettura del comma 7 dell’articolo 19 della detta legge, emerge il primo profilo di segno negativo, che ha destato perplessità e riserve in una parte della dottrina. Si tratta della disposizione che prevede che “il sistema degli enti bilaterali eroghi la quota integrativa […] fino a concorrenza delle risorse disponibili”.
Non è chiaro cosa precisamente si voglia dire, essendo due i possibili significati di questa proposizione; cioè che l’ente bilaterale non sarà costretto ad elevare i contributi che attualmente riscuote, per finanziare le prestazioni, nel caso in cui queste dovessero essere richieste in misura superiore alle risorse raccolte, ovvero che il
trattamento possa essere erogato anche in mancanza di risorse nell’ente bilaterale.
Se il significato fosse il primo, allora i criteri di accesso al beneficio dell’indennità di disoccupazione risponderebbero alla barbara logica del “chi tardi arriva male alloggia”. Se il significato fosse il secondo, si configurerebbero seri problemi applicativi della suddetta norma, in quanto “verrebbe meno il carattere necessariamente misto della prestazione, desumibile invece dalla formula utilizzata per descrivere la prestazione (l’indennità di disoccupazione viene contemplata subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno alla misura del 20% a carico degli enti bilaterali) ed il sistema ne riceverebbe una forte impronta di ambiguità”. Non bisogna dimenticare, infatti, che la ragione per la quale si iniziò a valorizzare la bilateralità – soprattutto nel settore artigiano - risiedeva nella attrattività di un modello che, implicando la sopportazione di un costo da parte dell’ente bilaterale, dava garanzie di un utilizzo responsabile della risorsa pubblica collegata a quel costo. Se è questa la ragione per la quale quel modello viene utilizzato, si dovrebbe desumere che il vero trattamento integrativo non è quello dell’ente bilaterale, bensì quello della risorsa pubblica gestita dall’INPS e che questa, quindi, intanto debba essere erogata, in quanto l’ente bilaterale abbia deciso di sopportare la spesa.
Ma il vero punto di rottura, ovvero il casus belli che ha diviso gli studiosi della materia e le parti sociali, portandole ad assumere posizioni profondamente diverse, riguarda la legittimità delle norme del decreto che subordinano la concessione dell’indennità di disoccupazione all’intervento integrativo (almeno pari al 20%) a carico di un ente bilaterale.
Le perplessità e le critiche sollevate al riguardo sono state tanto dure quanto severe, e tali da indurre una componente delle parti sociali (Cgil) a dubitare della effettiva costituzionalità delle predette norme. Vale la pena sottolineare, infatti, che il sindacato italiano maggiormente rappresentativo si è sempre opposto – fin dal novembre 2008 – a tale previsione legislativa, il cui contenuto, a detta dello stesso sindacato, presenta evidenti profili di incostituzionalità fortemente lesivi della
libertà sindacale dei lavoratori. Di seguito si riporta un importante passo di uno dei numerosi commenti che la Cgil ha formulato a riguardo: “permane la natura condizionale del ricorso ad uno strumento di fonte privata (l’ente bilaterale) per fruire di un ammortizzatore pubblico (l’indennità di disoccupazione), il che conferma il giudizio di illegittimità costituzionale che demmo fin dal novembre 2008”6.
Xxxxx stesso parere sembra essere F. Liso7, il quale, sostenendo che il tentativo del legislatore mirante a promuovere il ruolo della bilateralità in tema di ammortizzatori sociali sia realizzato con mezzi inadeguati, conferma i forti dubbi di illegittimità costituzionale dell’intervento legislativo di cui sopra. “La legge n. 2 per come è stata formulata, rischia di essere considerata incostituzionale. Perché? Sembra che il legislatore abbia costruito una prestazione a carattere generale e che ne abbia poi subordinato l’erogazione ad un intervento dell’ente bilaterale. Se così fosse, dovremmo sostenere che – da sprovveduto – il legislatore ha compiuto quell’operazione che un elettricista si guarderebbe bene dal compiere: quella di mettere in contatto i poli opposti di un filo elettrico con la conseguenza di un pericoloso cortocircuito. In questo caso, grande come una casa, si accenderebbe la luce rossa dell’articolo 3, comma 1, della Costituzione, che pone il principio di eguaglianza”.
A giudizio dello stesso X. Xxxx, la possibilità del singolo di poter esercitare il diritto che la legge gli riconosce viene rimessa ad un meccanismo che costituisce espressione dell’autonomia collettiva la quale potrebbe anche non attivarsi per obiettive difficoltà del settore e, nel caso in cui si attivi, non ha un’efficacia generalizzata; per cui è chiaro che si troverebbero in situazione di svantaggio i lavoratori dipendenti di un datore di lavoro che, non essendo vincolato, si astenga
6 “Commento alle proposte di emendamenti governativi sugli ammortizzatori sociali”
consultabile al sito xxx.xxxx.xx
7 In tal senso si veda X. XXXX, Xxxxx note sull’articolo 19 del recente decreto legge 185 intervenuto sulla materia degli ammortizzatori sociali, Working Paper ADAPT, n. 68/2008)
dal versare i contributi all’ente bilaterale. Sarebbe chiaramente irragionevole, infatti, privare il lavoratore di una prestazione, già definita nella sua identità e quindi suscettibile di essere corrisposta autonomamente, per il solo fatto che manca un’altra prestazione, caratterizzata dall’essere solo aggiuntiva e dall’essere a carico di un terzo “estraneo”.
A fugare ogni dubbio sulla controversa aderenza al dettame costituzionale dell’art. 19 nel suo complesso, è intervenuta, tuttavia, una importantissima sentenza della Consulta (n. 108 del 22 maggio 2013), in cui viene sancita la legittimità della norma in esame. In particolare, il Giudice delle Leggi pare sposare una nuova chiave di lettura del rapporto Stato-bilateralità. Infatti secondo la Consulta, la norma censurata è “diretta a stimolare le parti sociali a introdurre misure di sostegno a favore della categoria dei lavoratori dipendenti”, e in questa ottica l’intervento pubblico non rappresenta che un incentivo per le associazioni datoriali e sindacali, affinchè esse sviluppino avanzate forme di sostegno al reddito in favore degli apprendisti licenziati o sospesi; in tal senso lo Stato si limita a contribuire – seppur in misura consistente – al completamento del sistema di tutela per tale categoria di lavoratori. Allo stesso modo, il carattere strettamente sperimentale e transitorio della norma, unitamente allo stanziamento di fondi ben determinati e limitati fanno propendere per una misura di natura premiale e limitata nel tempo, e non certo stabile e diretta a configurare un diritto soggettivo in capo ai datori di lavoro. In definitiva, ad avviso del legislatore, i veri ammortizzatori sociali pubblici sono rappresentati dalle integrazioni salariali e dall’indennità di mobilità in deroga, mentre quello previsto per gli apprendisti (art. 19 co. 1 lett. c D.L. n.185/2008) è costituito dall’intervento dell’ente bilaterale, col sussidio dell’aiuto pubblico. Viene capovolto dunque il quadro normativo di riferimento: non è più il trattamento pubblico di sostegno al reddito ad essere integrato, ma è esso stesso ad integrare la prestazione erogata dall’ente bilaterale, quest’ultima considerata ormai la prestazione principale di disoccupazione per gli apprendisti.
3.8. La legge n. 33/2009 tra bilateralità e trattamenti “in deroga”
Come visto in precedenza, la questione più delicata – riguardo alla legge n. 2/2009 – è stata quella del rapporto tra le misure bilaterali di sostegno al reddito in caso di sospensione lavorativa ed il diritto a fruire degli ammortizzatori in deroga, avendo la legge, in un primo momento, subordinato l’accesso ai secondi all’esaurimento del periodo di tutela dei primi.
Il testo è stato modificato, in un secondo momento, dal legislatore. Questi è intervenuto, probabilmente, per fugare i dubbi di legittimità costituzionale da alcuni prospettati sulla formulazione originaria della norma, che subordinava il diritto del singolo – diritto, peraltro, già riconosciuto al lavoratore dal legislatore del 2005 – ad un meccanismo che, in quanto espressione di autonomia collettiva, finiva per penalizzare, in un periodo di profonda crisi produttiva, i lavoratori di settori in cui non erano operativi gli enti bilaterali. Così, a distanza di pochi mesi, il legislatore si è affrettato a precisare che “nelle ipotesi in cui manchi l’intervento integrativo dell’ente bilaterale [….] i lavoratori accedono direttamente ai trattamenti in deroga alla normativa vigente” (art. 7 ter, comma 9, legge n. 33/2009, che modifica l’art. 19, comma 1 bis, legge n. 2/2009).
Si tratta indubbiamente di una scelta condivisibile: questi ultimi risultano finanziati prevalentemente con stanziamenti pubblici, ricadenti sulla fiscalità generale, ed appare quindi corretto che siano usati all’esito del ricorso a tutte le possibili misure ordinarie di sostegno al reddito. La nuova formulazione ha prodotto, così, due conseguenze: in primo luogo è stata eliminata la possibilità – prevista dal testo previgente fino alla data di entrata in vigore del decreto di attuazione – di concedere gli interventi ex art. 19, comma 1, lett. a) e b) (indennità
di disoccupazione ordinaria e con requisiti ridotti in caso di sospensione dell’attività lavorativa) anche in assenza dell’intervento integrativo degli enti bilaterali. In secondo luogo, come si è sostenuto in precedenza, è venuto meno l’obbligo del previo esperimento della sospensione per le imprese che, nel 2009, avessero voluto richiedere interventi di integrazione salariale in deroga. Quindi, laddove non vi sia stato intervento degli enti bilaterali, è ammesso il diretto ricorso al provvedimento in deroga, in forza del quale i lavoratori possono fruire dell’integrazione salariale (ovvero, in caso di licenziamento, di mobilità).
La nuova formulazione cui il legislatore è pervenuto non appare, tuttavia, esente da profili di criticità.
Innanzitutto, l’erogazione del trattamento pubblico rimane ancora condizionato al godimento del trattamento integrativo da parte degli enti bilaterali; unica novità è che, in mancanza di quest’ultimo, si può accedere direttamente ai trattamenti “in deroga”. L’attuale previsione rischia però di penalizzare i datori di lavoro che aderiscono alla bilateralità, e che sopportano un costo contrattuale per tutelare i propri dipendenti nelle ipotesi delle sospensioni “qualificate”, mentre i datori di lavoro non aderenti possono accedere direttamente ai trattamenti in deroga. Se ciò è vero, occorre considerare però che, laddove non si ricorra preventivamente alla prestazione mista per sospensione lavorativa, la copertura garantita dal trattamento in deroga – in tal caso, il riferimento è alla concessione delle integrazioni salariali – dovrebbe essere, comunque, di durata complessiva più limitata (presumibilmente 90 giorni).
Inoltre, il superamento della prospettata disparità di trattamento tra lavoratori in ragione della dipendenza da datori di lavoro vincolati/non vincolati dal contratto collettivo istitutivo dell’ente, non risulta affatto al sicuro, restando comunque subordinata alle scelte operate dall’autonomia collettiva e dai competenti organi amministrativi, relativamente al ricorso ai trattamenti in deroga. Più precisamente, mentre l’accesso alle prestazioni per le sospensioni “qualificate” rientra nella gestione dell’ente bilaterale (ed è, quindi, disciplinato sulla base
degli accordi di diverso livello e tipologia sottoscritti dalle parti sociali istitutive dell’ente), l’accesso ai trattamenti in deroga rientra direttamente all’interno di un’attività consensuale della Regione con le parti sociali, sulla base di accordi-quadro, e senza alcun legame “istituzionale”, quindi – se non per alcune, isolate, esperienze regionali
– con il sistema della bilateralità.
Essendo la definizione del sistema quasi interamente rimesso all’autonomia collettiva, che è in se espressione di interessi di parte, è evidente che il meccanismo della deroga, se non attentamente gestito, può risultare esposto al prevalere di logiche particolaristiche, potendo il suo utilizzo prestarsi – anche in ragione della limitatezza delle risorse di fatto utilizzabili – a scelte discrezionali ed arbitrarie.
Alla luce di quanto esposto fin qui, occorre evidenziare che le misure fin qui analizzate, oltre ad essere caratterizzate da sensibili differenziazioni nei livelli di tutela, scontano il non ancora maturo sviluppo, nei settori produttivi interessati, dell’esperienza della bilateralità. Pur non mancando, in alcune Regioni del Nord, esempi importanti di collaborazione sinergica pubblica e privato-collettiva, resta ancora molto da fare. E non potrebbe essere diversamente. Basti ricordare che l’erogazione dei trattamenti fin qui esaminati è subordinata non solo all’esistenza di un accordo sindacale (sia in caso di sospensione e intervento degli enti bilaterali, sia per il ricorso ai trattamenti in deroga) che individua le aree di intervento, ma anche alla limitata disponibilità delle risorse dal momento che si opera sempre entro determinati limiti di spesa. Tant’è che per i casi di sospensione le indennità sono corrisposte dall’Inps sulla base del criterio cronologico: di modo che, in considerazione della data di presentazione delle domande, quando stanno per finire le risorse l’Istituto sospende l’autorizzazione ad ogni altra prestazione (art. 14, d.m. n. 46441/2009). Ciò basta ad evidenziare la fragilità della posizione giuridica del beneficiario del trattamento previdenziale, certamente non inquadrabile quale vera situazione di diritto soggettivo; e analoga conclusione deve trarsi, altresì, con riguardo ai trattamenti “in deroga”, erogati solo
all’esito di un procedimento amministrativo, secondo uno schema concessorio destinato ad operare nei limiti delle risorse disponibili.
La bilateralità, dunque, resta intrinsecamente connaturata da una logica collaborativa e cogestionale delle parti sociali, sulla base di regole fissate dalla contrattazione collettiva. Il tentativo di implementarne la diffusione attraverso un modello imposto ex lege, ispirato da un assetto organizzativo e protettivo – qual è per esempio quello sviluppato nell’artigianato – sconosciuto agli altri settori produttivi, si è rivelato, in fine dei contri, fallimentare: a ciò ha contribuito non solo il limitato sviluppo della bilateralità in tali settori ma anche, come noto, il netto atteggiamento di chiusura di una parte del mondo sindacale verso più ampie operazioni di coinvolgimento istituzionale degli enti bilaterali, in funzioni che questi non avverte come proprie. A fronte di ciò, sembra pacifico che il sistema protettivo delineato nel 2009, in un clima di “emergenza” occupazionale i cui confini temporali appaiono sempre più dilatati, continua a lasciare aperti ampi spazi di iniquità e differenziazione, con inevitabili vuoti di tutela che investono, laddove non sia presente il ruolo “integrativo” degli enti bilaterali, anche l’intervento di sostegno pubblico. Vuoti di tutela che non possono ritenersi compensati dal ricorso ai trattamenti in deroga, poiché questi ultimi rappresentano interventi per l’appunto “in deroga” rispetto a quelli ordinari e, quindi, naturalmente destinati, a regime, ad essere superati.
3.9. La legge n. 92/2012: i nuovi fondi di solidarietà bilaterale
3.9.1. Premessa: la riforma degli ammortizzatori sociali in Italia
Al volgere del 2008, a pochi mesi dal conclamarsi della crisi, non si ravvisavano ancora le giuste condizioni, i tempi e le risorse per progettare una riforma organica del sistema di ammortizzatori sociali, che avrebbe dispiegato i suoi effetti nel medio-lungo periodo. La situazione di emergenza imponeva interventi urgenti e immediati per contrastare e mitigare gli effetti economici e sociali della crisi. In questo quadro, come si è detto nei precedenti paragrafi, il Governo ha scelto di approvare dei decreti legge, poi convertiti in legge, con l’obiettivo di ampliare l’ambito di applicazione dei trattamenti esistenti di integrazione salariale e di sostituzione del reddito a favore delle categorie di lavoratori normalmente escluse da tali tutele, attraverso l’ampliamento del ricorso agli ammortizzatori in deroga e l’utilizzo dell’indennità di disoccupazione per sospensione dal lavoro con il co- finanziamento degli enti bilaterali.
Nel quadro appena descritto si inserisce la legge del 28 giugno 2012,
n. 92, di riforma del mercato del lavoro che, tra le sue finalità, dichiara di disporre “misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico”; in particolare, poi, con riferimento agli ammortizzatori sociali e alle politiche attive, specifica che intende realizzare un sistema “più efficiente, coerente ed equo” con l’obiettivo di tendere all’universalizzazione degli strumenti di tutela del reddito e al rafforzamento delle persone attraverso misure di politica attiva. La riforma si prefigge, quindi, di porre rimedio alle attuali criticità dei sistemi degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive,
rappresentate da un livello insufficiente di efficienza, coerenza ed equità, oltre che dalla mancanza di universalità delle politiche passive. Nell’affrontare tali carenze, il legislatore non ha, tuttavia, rivoluzionato il sistema degli ammortizzatori sociali, confermando in realtà l’attuale impianto basato su due pilastri: uno diretto alla tutela del reddito in costanza di rapporto di lavoro – in caso di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa – e il secondo destinato alla tutela del reddito in caso di disoccupazione.
Più nel dettaglio, nell’ambito della tutela del reddito in costanza di rapporto di lavoro è confermato, in generale, il sistema dalle casse integrazioni guadagni. Mentre la cassa integrazione guadagni ordinaria non subisce nessun intervento da parte della riforma del mercato del lavoro, la cassa integrazione guadagni straordinaria vede alcuni significativi aggiustamenti e correttivi consistenti in particolare nell’ampliamento del campo di applicazione.
Al contrario, l’area della tutela del reddito in caso di disoccupazione subisce una profonda rivisitazione, tanto per la eliminazione dell’indennità di mobilità – che tuttavia sarà in vigore fino a tutto il 2016 – quanto per la introduzione della nuova assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), nell’ambito della quale l’impianto della nuova indennità di disoccupazione è sostanzialmente identico a quello della indennità di disoccupazione previgente.
Infine, la riforma, nel suo complesso, è completata dalla previsione dei nuovi fondi di solidarietà bilaterali e dal fondo di solidarietà residuale, rivolti ai lavoratori in sospensione o riduzione dell’attività lavorativa in aziende non rientranti nel campo di applicazione delle casse integrazioni guadagni. Tale sistema è volto a superare la difformità di trattamento tra lavoratori dipendenti di aziende appartenenti a differenti settori di attività o con diversa dimensione e realizzare l’universalità di queste tipologie di tutele. Proprio l’introduzione di tali nuovi fondi, cui è strettamente collegato il graduale superamento della Cassa Integrazione in Deroga, rappresenta l’oggetto privilegiato dell’approfondimento contenuto nei paragrafi successivi.
3.9.2 I fondi di solidarietà
L’istituzione dei Fondi di solidarietà bilaterali, per il sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro per i settori non coperti da Cig/Cigs, rappresenta uno dei principali interventi, accanto alle tutele in caso di perdita del lavoro (Assicurazione Sociale per l’Impiego – AspI) ed alle prescrizioni volte a promuovere l’esodo, in caso di eccedenza di personale, dei lavoratori prossimi al pensionamento, in cui si articola la disciplina dei nuovi ammortizzatori sociali posta dalla legge 28 giugno 2012, n.92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, in vigore dal 18 luglio 2012. Tutto ciò è volto ad un riordino generale del sistema, tramite anche il superamento dei c.d. “ammortizzatori sociali in deroga” (a carico della fiscalità generale), che a fronte della perdurante crisi economica hanno finito per rappresentare l’unico strumento attivabile nell’immediato. D’altra parte la riforma, in ragione del protrarsi della recessione e dell’emergenza occupazionale ed al contempo garantire una graduale transizione verso il nuovo regime, mantiene per gli anni 2013/2016 l’attuale sistema di ammortizzatori in deroga, seppur con risorse decrescenti.
Entrando nel dettaglio, per i settori privi di cassa integrazione al fine di assicurare ai lavoratori, in una prospettiva tendenzialmente universalistica, una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria, si prospettano sostanzialmente due modelli:
- un modello obbligatorio, per le imprese che occupano mediamente più di 15 dipendenti, incentrato su Fondi di solidarietà, promossi dalla contrattazione collettiva, recepiti con decreto, operanti presso l’Inps e gestiti da un comitato amministratore composto, in prevalenza, da esperti designati dalle parti sociali (per i settori non coperti da accordi collettivi è