RIDUZIONE NELL'USO DELLE P.IVA E DEI CONTRATTI A TERMINE: COSA CAMBIA PER LE AZIENDE DOPO LA RIFORMA?
RIDUZIONE NELL'USO DELLE P.IVA E DEI CONTRATTI A TERMINE: COSA CAMBIA PER LE AZIENDE DOPO LA RIFORMA?
La c.d. Riforma Fornero, per contrastare l’uso improprio delle partite iva ed evitare la eccessiva reiterazione di contratti a termine, ha introdotto importanti limitazioni.
Prima tra tutte, nell’ambito della crociata contro l’uso distorto di contratti di lavoro autonomo, l’introduzione di una doppia presunzione relativa (salvo quindi prova contraria dell'azienda) che riconduce il rapporto del lavoratore autonomo con partita iva alla collaborazione coordinata e continuativa, e, in mancanza di un progetto, nell’alveo della subordinazione a tempo indeterminato. Essendo alquanto improbabile che in un rapporto nato come autonomo sia previsto un progetto ben definito, la trasformazione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato appare in realtà quasi automatica.
La legge specifica poi tre presupposti fondanti la presunzione relativa: la durata della collaborazione tra le parti deve essere superiore ad otto mesi negli ultimi due anni (tale modifica è contenuta nel c.d. Decreto sviluppo: nella Riforma Fornero era previsto un anno); il corrispettivo, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione d’interessi, deve costituire più dell’ 80% di quanto complessivamente percepito dal collaboratore, sempre negli ultimi due anni (anche qui come da modifiche del Decreto sviluppo); il collaboratore deve disporre di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi della committente.
È sufficiente che sussistano almeno due di tali presupposti e la presunzione si applicherà (tranne specifiche esclusioni) ai contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della Riforma Fornero (18 luglio 2012), mentre per i contratti sorti precedentemente opererà solo quando saranno trascorsi 12 mesi da tale data.
Nell’ambito, invece, delle novità in materia di lavoro a tempo determinato, la citata Riforma permette ai datori di lavoro di stipulare contratti a termine acausali (ossia senza dover indicare le ragioni della assunzione) nell’ipotesi di primo rapporto con uno specifico lavoratore, con durata non superiore a 12 mesi e per lo svolgimento di qualsiasi mansione. Ciò può avvenire anche nel caso di prima missione nell’ambito di somministrazione di lavoro a tempo determinato. La circolare ministeriale del 18 luglio 2012 ha poi precisato che l’assunzione con contratto a termine acausale non deve essere preceduta da un qualsiasi altro contratto di natura subordinata, e che il periodo di 12 mesi non può essere frazionato in più contratti e non può essere prorogato neppure se la proroga rimane all’interno dei 12 mesi.
Nel caso di prosecuzione “di fatto” del rapporto dopo la scadenza del termine, si ampliano i termini dei c.d. periodi “cuscinetto”: 30 giorni (anziché 20) se il primo contratto a termine aveva durata inferiore ai 6 mesi e 50 giorni (anziché 30) se pari o superiore ai 6 mesi. Il datore di lavoro che intenda proseguire il rapporto oltre il termine stabilito ha però l’onere di comunicare al centro per l’impiego, prima della scadenza del termine, la durata di tale prosecuzione. Tale previsione appare di difficile comprensione, se si considera che le cause che possono condurre alla prosecuzione del rapporto oltre il termine sono le più varie e non sempre preventivabili (come ad esempio un improvviso malfunzionamento dei macchinari).
Sono stati estesi in modo rilevante anche i termini entro i quali l’ulteriore assunzione a termine del medesimo lavoratore non può avvenire, portandoli da 10 o 20, rispettivamente, a 60 o 90 giorni (sempre tenuto conto che il contratto iniziale avesse una durata inferiore o superiore a 6 mesi), anche se la contrattazione collettiva può prevederne la riduzione.
Ai fini del rispetto del limite complessivo di 36 mesi previsto per la durata dei contratti a termine tra le medesime parti si tiene altresì conto degli eventuali periodi di lavoro in somministrazione aventi ad oggetto mansioni equivalenti; recentemente, l’interpello n. 32 del 19 ottobre 2012 ha però chiarito che il datore di lavoro, esauriti i 36 mesi, possa comunque impiegare il medesimo lavoratore ricorrendo alla somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Nonostante l’apparente “liberalizzazione”, i contratti a termine appaiono in realtà penalizzati da un incremento contributivo, che li fa divenire più onerosi per le aziende: dal 1° gennaio 2013 è infatti prevista, salvo
specifiche eccezioni, una aliquota aggiuntiva pari all’1,4% per finanziare l’ASPI (che sarà restituita, nel limite delle ultime sei mensilità, nel caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato).
Xxxxxxxx Xxxxxxxx Scuola Internazionale di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro ADAPT – CQIA
Università degli Studi di Bergamo