DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA Cattedra di Diritto dei Consumatori
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Cattedra di Diritto dei Consumatori
L’ABUSO DELLO STATUS DI CONTRAENTE DEBOLE
RELATORE
Chiar.ma Prof.ssa
Maria Pia Pignalosa CANDIDATO
Bartolomeo Pizzoli
Matr. 132633
CORRELATORE
Chiar.mo Prof.
Antonio Catricalà
ANNO ACCADEMICO 2018/2019
INDICE
Prefazione
Capitolo I
LA RATIO DELLA TUTELA E GLI STRUMENTI GIURIDICI A GARANZIA DEL CONTRAENTE DEBOLE
1. La nozione di contraente debole.
1.1 Le origini.
1.2 Il problema dell’abuso dell’autonomia contrattuale nei contratti asimmetrici.
1.3 La valorizzazione dei principi costituzionali.
2. il consumatore e l’investitore.
2.1 Le origini della disciplina consumeristica.
2.2 La normativa consumeristica nazionale.
2.3 L’investitore.
2.4 L’investitore/consumatore, differenze normative.
3. Gli strumenti giuridici a tutela del contraente debole.
3.1 Gli obblighi informativi.
3.2 La nullità di protezione.
3.3 Il diritto di recesso.
Capitolo II
ABUSO DEL DIRITTO, BUONA FEDE ED EXCEPTIO DOLI GENERALIS
1. Abuso del diritto – Cenni storici.
1.1 Teorie dell’abuso dopo la sentenza “Renault”.
1.2 Abuso del diritto e buona fede.
1.3 Exceptio doli generalis.
Capitolo III
L’ABUSO DEL CONSUMATORE, IL PROBLEMA DELL’ ECCESSO DI TUTELA
1. La giurisprudenza sulla “vacanza rovinata”.
2. Abuso del principio dell’interpretatio contra stipulatorem.
3. Abuso del diritto di recesso previsto dall’art. 30 TUF.
4. Nullità di protezione - l’art 23 TUF.
4.1 Differenza tra TUF e TUB - l’inapplicabilità del contratto monofirma.
4.2 L’abuso di nullità selettiva.
4.3 Gli orientamenti giurisprudenziali contrari all’ utilizzo opportunistico della nullità selettiva.
* * * * * *
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Prefazione
In un sistema economico in cui appare certa la presenza di soggetti attivi ritenuti diversi per estrazione, per capacita tecnica, per conoscenza o per soggezione economica, il legislatore non poteva trascurare interventi correttivi che riequilibrassero le posizioni giuridiche soggettive delle parti, mediante il conferimento di nuovi e diversi “poteri” a favore della parte ritenuta meno dotata, cioè più debole.
Sennonché, non sempre, la parte che si presume debole nei rapporti di mercato ha la necessità di essere protetta e spesso può accadere che, nell’ applicazione pratica, i diritti concessi dal legislatore alla parte debole possano essere fonte di distorsioni e abusi.
Dopo un’introduzione sintetica dei temi e delle problematiche, illustreremo alcune decisioni che stanno segnando un passaggio “esiziale” nella materia dei rapporti asimmetrici. Per concludere con le sollecitazioni prodotte dalle recenti ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite che testimoniano l’incessante ricerca di armonia tra gli orientamenti giurisprudenziali e le interpretazioni dottrinarie, in un tema dove è ancora impossibile delineare gli sviluppi definitivi.
CAPITOLO 1
LE PARTI DEBOLI
LA RATIO DELLA TUTELA E GLI STRUMENTI GIURIDICI A TUTELA DEL CONTRAENTE DEBOLE
Sommario: 1. La nozione di contraente debole. – 1.1 Le origini. – 1.2 Il problema dell’abuso dell’autonomia contrattuale nei contratti asimmetrici. –
1.3 La valorizzazione dei principi Costituzionali. – 2. Il consumatore e l’investitore. – 2.1 Le origini sella disciplina consumeristica. – 2.2 La normativa consumeristica nazionale. – 2.3 L’investitore. – 2.4 L’investitore/consumatore, differenze normative. – 3. Gli strumenti giuridici a tutela del contraente debole. – 3.1 Gli obblighi informativi. – 3.2 La nullità di protezione. – 3.3 Il diritto di recesso.
1 LA NOZIONE DI CONTRAENTE DEBOLE
1.1 LE ORIGINI
Nelle codificazioni ottocentesche, influenzate dalla visione liberale dell’epoca, l’autonomia privata1 espressa nel negozio giuridico veniva considerata come lo strumento per la regolamentazione del mercato.
Le parti contrattuali erano libere di autodeterminarsi, così che, limitando gli interventi dello stato, il mercato avrebbe potuto raggiungere il massimo livello di efficienza2. Presupposto necessario per la corretta attuazione di questo principio era considerare le parti in una posizione di piena parità.
1 Cfr., in particolare sulla concezione ottocentesca dell’autonomia privata, G. STOLFI, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 120 e ss.
2 Cfr., A. TROMBETTA, Freedom of contracts: ascesa e caduta di un principio, in Riv. dir. civ., Milano, 1984, p. 172.
Anche il codice civile del 1942, se si esclude la disciplina sui “contratti per adesione” o per i “contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari”3, è costruito sull’idea che le parti operino nel mercato in condizioni equivalenti.
Il codice civile per “parte contrattuale” non intende la posizione soggettiva di un singolo individuo, ma il centro oggettivo di imputazione degli interessi, tralasciando ogni apprezzamento sulla reale condizione del contraente.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, anche in considerazione della evoluzione delle imprese e dell’incremento della “contrattazione di massa”, si è avvertita l’esigenza di rivalutare la concezione di parte intesa come “centro di interessi” per fare spazio a valutazioni sul reale status del soggetto.
Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione richiede al legislatore di adoperarsi per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ne discende che il legislatore può intervenire qualora l’autoregolamentazione dei rapporti privati possa portare ad un abuso di un soggetto forte a svantaggio del suo interlocutore4.
3 In base al primo comma dell’art. 1341 c.c. le condizioni generali di contratto sono efficaci se, al momento della conclusione del contratto, queste erano conosciute o conoscibili dall’aderente. Inoltre le clausole che comportano “limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospendere l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria” devono essere specificamente approvate con una sottoscrizione autonoma. L’art. 1342 “Contratto concluso mediante moduli o formulari” dispone che “le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse, anche se non sono state cancellate”. Per maggiori approfondimenti v. A. CATRICALA’. M.P. PIGNALOSA, Manuale del diritto dei consumatori, Roma, 2013, p. 88 ss.
4 Sulla compatibilità dell’art. 3 Cost. con il principio della libertà contrattuale vedi A. LISERRE, Tutele costituzionali dell’autonomia privata. Profili preliminari, Milano, 1971¸ p. 55 ss.
1.1 IL PROBLEMA DELL’ABUSO DELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE NEI RAPPORTI ASIMMETRICI
In passato il contratto e l’autonomia contrattuale garantivano la libera concorrenza e il regolare svolgimento del mercato56.
Era comune l’idea che dove vi fosse un accordo non ci potesse essere spazio per uno squilibrio. Attraverso la contrattazione la parte riusciva a infondere i suoi interessi nel regolamento contrattuale.
Il contratto era considerato scevro da squilibri poiché era il frutto della negoziazione e dell’accettazione, che garantivano la corretta espressione degli interessi delle parti. Gli interessi delle parti si confrontavano nella fase della contrattazione, per poi bilanciarsi e trovarsi in un perfetto equilibrio.
Come sostenuto da Thomas Hobbes “Ciò a cui le parti sono in grado di arrivare da sole, là dove dotate di forza contrattuale approssimativamente uguale, non può che essere a sua volta verosimilmente uguale ossia equo e quindi ragionevolmente giusto”7.
L’idea che collega la contrattazione e l’accordo, manifestati nel contratto, all’equilibrio dei suoi effetti è stata nel tempo superata.
L’illogicità dell’assunto è stata individuata nel presupposto errato che le volontà siano sempre correttamente costruite. Ciò avviene, si è detto, solo quando le parti hanno le stesse possibilità di incidere e di modellare il regolamento contrattuale: solo così gli opposti interessi possono trovare il loro punto di equilibrio.
5 I mercati perfettamente concorrenziali garantiscono la corretta ripartizione delle risorse e l’appagamento della comunità. Su come sia fondamentale l’inserimento nell’ordinamento di strumenti a tutela del consumatore Cfr. M. ASTONE, Il consumatore medio nel diritto interno e comunitario, Milano, 2009, p 112. Sulla fiducia nel mercato garantita dalle regole a tutela del consumatore Cfr., F. BOCCHINI, Nozione normativa di consumatore e modelli economici. Studi in onore di Schlesinger, Milano, 2004, p. 2374.
6 Come le interazioni tra parti con differenti forze contrattuali alterano la concorrenza e il regolare svolgimento del mercato e come il compito dello stato deve essere quello di migliorare la posizione della parte debole Cfr. M. ARAGIUSTO, Dinamiche e regole della concorrenza, Padova, 2006, p. 176.
7 Citazione contenuta in B. BARRY, Theories of Justice, Trad. it. di G. RIGAMONTI, Milano, 1996, p. 71 ss.
I contratti tra parti dotati di forze opposte subiscono un’imperfezione già nella loro formazione. Questi non nascono da un incontro di volontà simmetriche, ma dall’incontro di un potere, esercitato dalla parte forte, contro l’inevitabile soggezione, della parte debole.
I contratti, nei mercati contemporanei, sono contraddistinti da situazioni di squilibrio, che possono derivare da asimmetrie informative, riscontrabili tra contraenti che operano regolarmente nel mercato e soggetti inesperti; oppure asimmetrie di potere contrattuale, dove i soggetti sono dotati di differente forza economica o sociale e situazioni di dipendenza economica, in cui un contrente non abbia sufficienti possibilità di scelta all’interno del mercato.
In queste condizioni la parte debole non può che subire l’abuso di chi si trova nella posizione di vantaggio, che consisterà nella imposizione delle sue volontà, così da riuscire a trasformare il contratto nello strumento per convertire il potere, prima solamente potenziale, in effettivo e concreto.
Lo squilibrio potrà concretizzarsi in uno sbilanciamento degli effetti del contratto, sia in considerazione del prezzo dei beni o dei servizi forniti, “squilibrio economico”, sia in quello che viene definito, “squilibrio normativo”, ossia l’insieme delle clausole che attribuiscono facoltà di natura giuridica ad una sola delle parti, come: il diritto di recesso, le limitazioni di responsabilità o di rischi, le deroghe alla competenza delle autorità giudiziarie.
Il problema che si doveva risolvere consisteva, dunque, nel prevenire l’abuso della forza contrattuale. La soluzione non poteva essere individuata nella introduzione di limitazioni assolute alle interazioni tra parti eterogenee, che avrebbe portato alla immobilizzazione del mercato, ma nella regolamentazione del concreto esercizio dell’autonomia della parte forte, al fine di evitare che questa annichilisse le volontà della parte debole8.
8 Cfr. F. CASUCCI, Il diritto privato dell’unione europea, Napoli, 2007, p. 293. Su come la tutela del contraente debole vada oltre i vantaggi individuali, garantendo i valori solidaristici dello stato e il traffico commerciale.
Gli strumenti utilizzati dal legislatore per contrastare lo squilibrio e proteggere la parte non qualificata sono molteplici e differenti per ogni settore9: il diritto di recesso; lo sviluppo del “formalismo informativo” che garantisce alla parte disinformata di essere edotta su dati rilevanti; una nuova tipologia di nullità a protezione della parte debole.
Tali istituti, indipendentemente dalle differenti discipline in cui sono inseriti, hanno l’intento di riposizionare i contraenti in una condizione di parità, in modo che possano, attraverso scelte libere e razionali, conseguire i propri interessi10.
1.2 LA VALORIZZAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI
Il codice civile del 1942, come evidenziato dalla Corte Costituzionale11, non ha gli istituti idonei, o, comunque, non ne ha a sufficienza12, per regolamentare il fenomeno13 del disequilibrio contrattuale, poiché concede assoluta preminenza al concetto di autonomia14 senza prevedere adeguate norme di protezione. La Costituzione, invece, invita il legislatore a regolamentare gli istituti a tutela della parte debole.
9 Cfr. V. ROPPO, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., Milano, 2001, p. 788. Secondo cui non c’è asimmetria contrattuale solamente nel rapporto tra il professionista e il consumatore, ma anche in altri binomi, come banche e clienti, intermediari finanziari e investitori.
10 Cfr. AA. VV., Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, (a cura di) E. NAVARETTA, Milano, 2007. p. 264.
11 Corte Costituzionale, 30 giugno 1994, n. 268, in il caso.it.
12 Il codice civile prescrive controlli sulla liceità, sanzionando ciò che è contrario “alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume” e controlli interni vigilando sulla meritevolezza degli interessi per poter produrre il contratto effetti riconosciuti dall’ordinamento.
13 Cfr. CIMBALI, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, Torino, 1974, p. 3 ss.
14 Cfr. A. CATAUDELLA, I contratti. Parte generale, Torino, 1994, p. 19, su come le parti siano libere di autodeterminarsi perché l’ordinamento non è in grado di prevedere e regolare tutti i rapporti tra privati.
Gli articoli 41, comma primo15, e 216 della Costituzione sono a presidio della libertà negoziale e letti insieme al primo comma dell’articolo 317, a tutela l’uguaglianza formale, sembrerebbero contraddire l’inserimento nel sistema di una disciplina volta a tutelare la parte debole. Disciplina che allo stesso tempo dovrebbe ridurre la libertà economica della parte forte a favore alla parte debole.
Questi principi però, non possono non essere bilanciati con altre prescrizioni della stessa Costituzione, che, invece, pongono dei limiti all’iniziativa economica. Questa non può svolgersi per l’art. 41, secondo comma, “in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” ed ancora nel terzo comma “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La norma pone, quindi, come limite alla libera iniziativa economica, oltre la sicurezza, la libertà e la dignità umana, l’utilità sociale che, come sostiene G. Oppo18, non può che condizionare tutto il mercato e, per tutelarne la concorrenza, le regole del contratto. Si tratta, dunque, di regole che dovranno risolvere le situazioni di squilibrio poiché contrastano con il fine sociale.
Queste previsioni risulterebbero violate in un sistema che permette l’imposizione, utilizzando lo strumento del contratto, delle volontà del professionista, senza prevedere strumenti correttivi a favore della parte debole.
In linea con quanto affermato è anche il dettato dell’art. 3 Cost., lo Stato si deve impegnare al fine di eliminare le diseguaglianze di fatto, dovendo tutelare, qualora vi sia bisogno, in modo diverso situazioni differenti, per
15 “L'iniziativa economica privata è libera”.
16 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
17 “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”.
18 G. OPPO, I contratti d’impresa tra codice civile e legislazione speciale, in Riv. dir. civ.,
Padova, 2004, p. 874.
raggiungere un’equivalenza sostanziale19, impegnandosi a controllare l’autonomia privata laddove possa portare discriminazioni arbitrarie.
Possiamo, alla luce di queste interpretazioni, concludere che, il principio per cui, la tutela del mercato e dell’equilibrio contrattuale siano completamente dipendenti dell’autonomia privata20, se non del tutto superato, sia almeno da adattare alle nuove esigenze. Ma l’autonomia contrattuale non ha perso centralità come sembrerebbe, anzi ne esce valorizzata.
Se per autonomia contrattuale e libertà economica si intende la possibilità di potersi autodeterminare con l’utilizzo del contratto, in considerazione esclusivamente dei propri interessi e dei propri bisogni, non si può non prendere atto che la parte debole non è in grado di incidere sul regolamento contrattuale.
Le normative di protezione non limitano l’autonomia privata, ma, qualora vi sia uno squilibrio tra le parti, le danno una nuova opportunità di esprimersi, poiché consentono alla parte debole di raggiungere, attraverso il contratto, le sue volontà prima limitate dalla forza contrattuale del professionista.
2. IL CONSUMATORE E L’INVESTITORE
2.1 LE ORIGINI DELLA NORMATIVA CONSUMERISTICA
Nei primi anni del novecento, i prodotti di prima necessità costituivano quasi la totalità della domanda di beni. La popolazione non disponeva dei mezzi per richiedere livelli minimi di qualità e controllo del prodotto tanto che il venditore non si trovava mai a rispondere della propria negligenza.
Solo negli anni ‘60 nascono i primi movimenti indirizzati a rafforzare la protezione legale del consumatore. Tra i paesi industrializzati la prima
19 Cfr. E. GIANFRANCESCO, Libertà d’impresa e libertà professionale nell’esperienza costituzionale italiana, in Giur. Cost., 2005, p. 2215.
20 Cfr. F. GALGANO, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, 2005, Roma, p. 509.
esperienza si rinviene negli Stati Uniti, con il consumerism21. In queste nuove forme associative i consumatori raggiungono i primi risultati su questioni dibattute come: il diritto all’informazione, la sicurezza del prodotto, la composizione degli ingredienti alimentari.
In Europa, il trattato di Roma del 1957 non conteneva alcun riferimento al consumatore e solo con la “Carta europea di protezione dei consumatori” approvata con la risoluzione n. 543/1973 si rinviene una prima fonte legislativa. Tra i diritti fondamentali riconosciuti dai paesi firmatari rientravano:
“- il diritto alla protezione e all’assistenza, soprattutto giuridica e amministrativa;
- il diritto al risarcimento del danno provocato da un prodotto difettoso o da informazioni errate su di esso;
- il diritto all’ informazione e all’educazione;
- il diritto alla rappresentanza”22.
La carta europea può essere considerata come il punto di inizio di un articolato percorso per lo sviluppo del concetto di consumatore in Europa, le cui tappe23 consistono: nella Risoluzione dei Diritti dei Consumatori del 1975, nell’Atto Unico Europeo, firmato nel 1986, che incaricò la Commissione di proporre una normativa di protezione per diversi settori tra cui rientrava quello del consumo, il Trattato di Maastricht (1992) ed il trattato di Amsterdam (1997) che all’art. 153 include la protezione del consumatore tra gli obiettivi della politica comunitaria. Il riferimento alla tutela consumeristica è oggi contenuto all’art. 169 del trattato sul funzionamento dell’unione europea, secondo il quale “al fine di garantire gli interessi e tutelare i consumatori, l’Ue contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori, nonché a promuoverne il diritto
21 Per maggiori approfondimenti vedi G. ALPA, voce Consumatore: III, Diritto comparato e straniero, in Enc. giu. Treccani, vol. VIII, Roma, 1988.
22 G. ALPA, il diritto dei consumatori, Bari, 2002, p. 36.
23 Per un’analisi dettagliata si veda E. GUERINONI, I contratti del consumatore principi e regole, Torino, 2011, p. 25 ss.
all’informazione, educazione e organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi”.
2.2 LA NORMATIVA CONSUMERISTICA NAZIONALE
Prima del Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, “Codice del Consumo”, le fonti legislative che avevano lo scopo di rafforzare la posizione della parte debole del contratto erano di origine comunitaria e inserite in normative di settore. Questo insieme di disposizioni è confluito, a seguito di un lavoro di riorganizzazione e armonizzazione24, nel Codice del consumo25.
Il Codice del Consumo riconosce come “consumatore” la parte debole e gli contrappone il “professionista”, soggetto la cui capacità d’agire può essere limitata in considerazione della sua forza contrattuale.
L’art. 3 definisce il consumatore come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” e come professionista “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”.
Il codice, nell’individuare la nozione di consumatore, richiede che si tratti di una persona fisica e che agisca nel mercato per assolvere un’esigenza di natura personale.
Il consumatore non è considerabile uno status immanente, condizione che richiede l’immutabilità e la continuità della posizione in cui viene a trovarsi un singolo quale parte di un determinato gruppo26. Ne discende che un soggetto potrà essere qualificato come consumatore solo in relazione al contratto posto in essere, dovrà quindi essere il giudice a verificare, caso per
24 Finalità confermata dal legislatore nell’art.1 cod. cons.
25 Sull’ atipicità del Codice del Consumo rispetto alle codificazioni tradizionali, vedi G. DE NOVA, La disciplina della vendita dei beni di consumo nel “Codice” del consumo. Milano, 2006, p. 392.
26 In questo senso G. RECINTO, LORENZO MEZZASOMA, STEFANO CHERTI, Diritti e tutele dei consumatori, Napoli, 2014, p. 17.
caso, se il contratto abbia come causa la realizzazione di un bisogno non professionale.
La nozione di professionista include sia le persone fisiche che le persone giuridiche. La dottrina interpreta estensivamente la nozione di professionista, facendovi rientrare sia gli enti privi di personalità giuridica sia la Pubblica Amministrazione sia i prestatori d’opera intellettuale.
Bisogna, dunque, verificare e soppesare l’attività lavorativa effettivamente svolta, per attribuire ad un soggetto la qualifica di professionista. Questa deve essere esercitata “professionalmente”, quindi in maniera continuativa, stabile e non occasionale. Caratteristiche che, insieme all’organizzazione dei mezzi necessari, rendono l’attività idonea a fornire al consumatore una prestazione avente per oggetto beni o servizi27.
Va segnalato che il codice equipara la figura del professionista all’intermediario ossia la persona che agisce in sua rappresentanza28.
2.3 L’INVESTITORE
Tra le discipline di settore che hanno il fine di perequare i rapporti asimmetrici rientrano le norme a tutela dell’investitore. Il D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, regola la disciplina dell’intermediazione finanziaria.
Per assolvere la ratio di tutelare la soggezione della parte debole e garantire l’integrità dei mercati, la disciplina impone particolari oneri a carico degli intermediari e/o promotori finanziari.
Per intraprendere l’esercizio professionale questi ultimi devono ricevere un’apposita autorizzazione, essere iscritti in specifici albi e rispettare le norme precettive di comportamento. Il tutto sotto la vigilanza di autorità pubblicistiche, officiate dal potere di comminare sanzioni amministrative.
27 In questi termini S. KIRSHEN, in Commentario al Codice del Consumo, (a cura di) G. ALPA e L. ROSSI CARLEO, Napoli, 2005, p. 70.
28 Sull’interpretazione della figura dell’intermediario cfr. A. CATRICALA’, M.P. PIGNALOSA,
Manuale del diritto dei consumatori, Roma, 2013, p. 32.
La disciplina del T.U.F non individua, come fa il codice del consumo, una definizione del soggetto debole di riferimento. Essa nasce per la regolamentazione del mercato finanziario e l’intero impianto normativo è plasmato con riguardo ad interessi pubblicistici29. Perciò i soggetti che agiscono in confronto agli intermediari sono presi in considerazione solo di riflesso. Potranno essere considerati di volta in volta: gli “investitori istituzionali”, gli “investitori non professionali”30 ed il “pubblico”, ma la tutela a loro concessa sarà sempre indiretta. Tuttavia possono essere rinvenute esplicite norme di protezione a favore del risparmiatore/investitore, come negli artt. 21-25 e 30-32 del T.U.F.
In sintesi (salvo quanto si dirà più approfonditamente nella prosecuzione della trattazione) possiamo dire che l’art. 21 richiede all’intermediario abilitato di comportarsi con “correttezza”, “trasparenza” e “diligenza” intendendosi per diligenza quella che si richiede a chi svolge istituzionalmente e professionalmente una determinata attività31. Ancora, si richiede: “di utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti, di acquisire le informazioni necessarie dai clienti, di organizzare la propria attività con sistemi e procedure di controllo interno idonee ad assicurare l’efficace svolgimento dei servizi e delle attività.”; l’art. 23, a pena di nullità, prescrive obbligazioni di forma scritta a garanzia del contrente debole, obbligando l’intermediario alla consegna di un esemplare del contratto; l’art. 30, che disciplina “l’offerta fuori sede”, ossia “la promozione e il collocamento di strumenti finanziari in luogo diverso dalla
29 G. ALPA, Commentario al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, (a cura di) F. CAPRIGLIONE, Padova, 1998, p. 233, specifica che: “Si tratta dunque di una disciplina che, secondo le tradizionali partizioni, afferisce al diritto pubblico dell’economia, ma contiene anche regole che si possono ascrivere al diritto privato”.
30 G. ALPA, op. ult. cit., p. 233, afferma che: “Non sono mai nominati i consumatori (o i risparmiatori), anche se nei programmi comunitari e negli indirizzi emergenti dal diritto comunitario la distinzione tra risparmiatore e consumatore è ormai superata in quanto il risparmiatore non professionale è considerato come “consumatore” di prodotti e servizi finanziari”.
31 La giurisprudenza ha sviluppato il concetto di “buon banchiere”. Cfr.: Cass. 15 aprile 1992,
n. 4571; Trib. Milano 18 febbraio 1991, n. 1374.
sede legale o dalle dipendenze di chi ha emesso il titolo che si colloca o chi è incaricato delle promozione o del collocamento”, prevede la facoltà di recesso da parte dell’investitore nei sette giorni dall’acquisto e la nullità del contratto che non manifesti detta facoltà.
2.4 IL CONSUMATORE E L’INVESTITORE, DIFFERENZE NORMATIVE
Il presupposto logico, che consente di ricercare punti in comune tra la disciplina del consumatore e quella dell’investitore32, è la comune ratio sottesa alle due discipline.
L’assimilazione delle due figure è molto dibattuta, e non solo in Italia33, anche perché, come evidenziato, non tutte le norme del T.U.F. sono contraddistinte dall’intento di tutelare la parte debole.
Già da un esame approssimativo della normativa viene in evidenza una diversa formulazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario finanziario secondo la qualità soggettiva dell’altra parte.
Comunque, sia l’investitore che il consumatore sono trattati come soggetti disinformati di fronte al professionista e la disinformazione è l’elemento strutturale che rende entrambi i soggetti deboli. Le discipline hanno, perciò, l’intento di porre rimedio ai vari momenti del contratto alterati dalla diversa forza contrattuale.
Anche se inespressa, sembra esserci, dunque, un’assimilazione tra consumatore e risparmiatore. I giuristi ne cominciarono a discutere negli anni
32 Cfr., AA.VV, La tutela del consumatore di servizi finanziari, (a cura di) R. RUOZI, Milano, 1990, passim; G. ALPA, L’informazione del risparmiatore, in Banca, Borsa, tit. cred., 1987, Milano, p. 476 ss.
33 La dottrina tedesca nega che possano essere sovrapponibili le figure dell’investitore e quella del consumatore, poiché mentre l’investitore ha come intento quello di massimizzare il profitto attraverso un’operazione finanziaria, il consumatore acquista beni per il soddisfacimento di bisogni personali o familiari. Cfr. A. SCHUTZE, Handbuch des Kapitalanlagerechts, Monaco, 2007, p. 103 ss.
‘8034 e, da allora, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno individuato nella intermediazione finanziaria un settore di mercato in cui, attraverso norme imperative, devono essere ripristinate alcune regole della contrattazione: pienezza del consenso, principio di autodeterminazione, uguaglianza sostanziale delle parti.
Due sono state le considerazioni decisive:
a) il rapporto che viene ad instaurarsi con l’intermediario finanziario è standardizzato35;
b) il dominio del contraente professionale è indiscutibile36.
Anche il legislatore ha inteso ampliare la nozione di consumatore comprendendovi l’investitore risparmiatore che, agendo per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, si rivolge ad un intermediario per la realizzazione di operazioni finanziarie. Detto intento è stato attuato con l’inserimento dell’art. 32 bis nel T.U.F. che ha riconosciuto agli investitori la possibilità di tutelare i propri interessi collettivi attraverso le associazioni dei consumatori, 137 Cod. Cons.37 e l’inserimento di
34 Cfr. V. ALLEGRI, Nuove esigenza di trasparenza nel rapporto banca-impresa nell’ottica di tutela del contraente debole, in Banca, borsa, tit. cred., 1987, p. 38 ss.; AA.VV., La tutela dei consumatori di servizi finanziari, (a cura di) R. RUOZI, Milano, 1990, passim; G. ALPA¸ L’informazione del risparmiatore, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, p. 476 ss.; P.L. CARBONE, La trasparenza bancaria e la tutela del consumatore, in Corr. Giur., 1992, p. 478 ss.; F. GALGANO, I rapporti di scambio nella società postindustriale, in Vita Notar., 1992, p. 52 ss;
M. BUSNELLI, (a cura di) M. BESSONE, La vendita porta a porta di valori mobiliari, Milano, 1992, p. 33; M. GORGONI, Contratti negoziati fuori dai locali commerciali, in Enc. Giur., Roma, 1994, p. 66.
35 G. CAVALLI, Contratti bancari su modulo e problemi di tutela del contraente debole, Torino, 1976, p. 122.
36 M. CAVAZZUTTI, Conflitti di interessi e informazioni asimmetriche nell’intermediazione finanziaria, in Banca impresa società, 1989, p. 357 ss.; R. CLARIZIA, Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Riv. it. leasing, 1992, p. 213; R. COSTI, Informazione e contratto finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 719 ss..; A.A. DOLMETTA, Per l’equilibrio della trasparenza delle operazioni bancarie: chiose critiche alla legge n. 154/1992, in Banca borsa, tit. cred, 1992, p. 375; F. MARTORANO, Trasparenza e parità di trattamento nelle operazioni bancarie, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, p. 697; P. RESCIGNO, Trasparenza bancaria e diritto comune dei contratti, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, p. 297 ss..; P. SCHLESINGER, Problemi relativi alla c.d. trasparenza bancaria, in Corr. Giur., 1989, p. 229 ss.
37 Cfr., R. MAISANO, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie, Milano, 1993, p. 112; G. ALPA, La “trasparenza” del contratto nel settore bancario, finanziario, e assicurativo, in Giur. It., 1992, p. 409; F. LUZZI, (a cura di) G. CASTALDI, La nuova legge bancaria, il T.u.f delle leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e le disposizioni di
un’apposita sezione, la IV bis (contenente gli articoli 67 bis a 67 decies) dedicata alla “commercializzazione a distanza dei servizi finanziari ai consumatori”38.
Il Consiglio di Stato nell’Adunanza della Prima Sezione del (3.12.2008, n. 399939), chiamato a fornire un parere sulla ripartizione di competenze relativamente alla disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa nel settore finanziario tra l’AGCM (Autorità garante della competenza e del Mercato) e la CONSOB, ha sostenuto che l’investitore non professionale è una specie del genere consumatore, in quanto destinatario finale di un prodotto standardizzato seppur finanziario: cioè un consumatore di servizi finanziari. Tuttavia si è ribadito che all’investitore debba applicarsi la disciplina del T.U.F. e non quella del Codice del Consumo.
La differenza sostanziale tra le due normative è che nella seconda vale una presunzione assoluta di debolezza del consumatore, mentre nella prima le norme poste a tutela dell’investitore (informazione, contenuto e forma del contratto, diritto di recesso) sono rivolte al cliente identificato come la persona sia fisica, che giuridica, purchè cliente al dettaglio, cioè diverso dal “cliente professionale”, inteso come colui che ha “l’esperienza, le conoscenze e le competenze necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume” (All.n. 3 Reg. Consob 16190/2007).
Nelle operazioni finanziarie l’intermediario ha, dunque, l’obbligo di acquisire informazioni sul cliente40 per modulare il contenuto degli obblighi
attuazione, 2000, Roma, p. 1788 ss; M. PELLEGRINI, Controversie in materia bancaria e finanziaria, Padova, 2007, p. 3.
38 Sul motivo di tale collocazione disciplinare Cfr., F. CAPRIGLIONE, Intermediari finanziari investitori mercati. Il recupero della MiFiD. Profili sistematici, Padova, 2008, p. 169 ss..; A. BLANDINI, Il Codice del Consumo e i servizi finanziari: riflessioni sulla posizione del consumatore, in Riv. dir. priv., 2007, p. 19; M. BESSONE, Servizi di investimento e disciplina del contratto. Il principio di separazione patrimoniale; “sana e prudente” gestione del portafoglio, conflitti di interessi, in Giur. Mer., 2002, p. 1411.
39 In ilcaso.it.
40 Il Reg. Consob 11522 del 1.7.1998 all’art. 28 comma 1, lett. a), imponeva espressamente agli intermediari di chiedere all’investitore notizie sulla sua esperienza in materia di
di comportamento e, pertanto, la mancata acquisizione delle informazioni gli impedirà di adempiere correttamente la sua prestazione.
Al contrario, il consumatore non può mai essere una persona giuridica e, nella disciplina del Codice del Consumo, non è riservato alcuno spazio alla rilevanza delle sue condizioni soggettive.
Si è sostenuto, infine, che il risparmiatore sia un consumatore “anomalo” perché, seppure apparentemente è un soggetto che non determinerà l’esaurimento materiale del bene acquistato (rectius la sua “consumazione”) perché il prodotto acquistato è destinato, per sua natura, ad essere successivamente rivenduto, acquista un bene intangibile ed immateriale che non può direttamente ed attraverso la sua esperienza o capacità empirica, valutare e soppesare nel suo valore intrinseco e di quello che genererà la sua liquidazione o la sua cessione41. Come definito da alcuni studiosi, per l’investitore lo scambio si attua tra un bene presente e un bene futuro “la cui esistenza e consistenza sfugge in larga misura al controllo del soggetto che attende la futura prestazione”42.
Mentre il consumatore agisce per scopi connessi al soddisfacimento diretto di bisogni o interessi personali, il risparmiatore acquista beni in base alle informazioni che gli vengono fornite quasi esclusivamente dalla controparte professionale e le “metabolizza” a seconda del suo personale profilo di cliente (esperienza, capacità conoscitiva, propensione al rischio ecc.). A tali sfuggenti profili va aggiunto che oggetto delle negoziazioni sono capitali provenienti normalmente dal risparmio, ancor più spesso vocato alla copertura di eventuali incertezze future, così che, in caso di errori di valutazione: “non si tratta di subire ingiusti squilibri contrattuali, come nel caso del semplice consumatore, bensi di subire la perdita di tutto o buona
investimenti finanziari, sulla sua situazione finanziaria, sui suoi obiettivi di investimento e sulla sua propensione al rischio (know your customer rule).
41 G. CARRIERO, MiFID, attività assicurativa, autorità di vigilanza, in Diritto della Banca e del merc. fin., 2008, p. 431.
42 R. COSTI, Informazione e contratto nel mercato nel mercato finanziario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 720
parte del proprio patrimonio e quindi compromettere la stessa complessiva qualità della vita”43.
La tutela richiesta dalla massa dei risparmiatori ed i vasti interessi connessi agli investimenti hanno indotto una rilevante riflessione dottrinaria e, soprattutto, giurisprudenziale.44
3. GLI STRUMENTI GIURIDICI A TUTELA DEL CONTRAENTE DEBOLE
Nella realtà sociale e giuridica esistono pertanto diverse forme di asimmetria legate alla posizione soggettiva della parte del contraente o, in generale, dell’individuo.
In questo capitolo si tenterà di analizzare parte dei rimedi che il nostro ordinamento impiega per riequilibrare l’asimmetria tra il professionista e la parte debole.
3.1 OBBLIGHI INFORMATIVI
Il codice civile non impone obblighi informativi a carico delle parti ad esclusione dell’obbligo di informazione circa una eventuale causa di invalidità del contratto45 e nell’ambito della più generale buona fede nel corso delle trattative46.
Diversi e più rigorosi sono gli obblighi informativi nelle numerose discipline di settore che regolano i rapporti asimmetrici.
43 Così G. PIAZZA, La responsabilità della banca per acquisizione e collocamento di prodotti finanziari “inadeguati” al profilo del risparmiatore, in Corr. Giur., 2005, p. 1028.
44 Sul punto si veda amplius infra.
45 Art. 1338 cc. “La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver confidato senza sua colpa, nella validità del contratto”.
46 Art. 1337 cc. “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede”.
Il legislatore prescrive obblighi informativi a carico del contraente qualificato per perequare le posizioni delle parti e prevenire lo squilibrio negoziale.
Esse sono caratterizzate ed accomunate dalla funzione di fornire alla parte debole un sufficiente grado di conoscenza riguardo sia le clausole attinenti più propriamente al regolamento contrattuale sia ad eventuali fattori esterni che potrebbero influire sul negozio giuridico47. L’intento di siffatte normative è di consentire la costruzione di un contratto fondato su scelte logiche, basate sulla disponibilità di dati “obiettivi e comparabili”48.
Su tale fronte un particolare rilievo assume la cosiddetta “forma informativa”49.
La “forma informativa” definisce una nuova funzione dei vincoli di forma del contratto50, contrapposta al principio generale di libertà ricavabile dall’art. 1325 c.c. I vincoli di forma possono essere articolati in maniera differente a seconda dei settori di riferimento ed a seconda delle qualità delle parti e della natura dell’affare51. Gli obblighi informativi possono essere assolti, sia mediante inserzione nel documento contrattuale, sia mediante richiami a documenti esterni. In questo ultimo caso taluni hanno elaborato il concetto di “smembramento” del contratto52 per evidenziare che una serie di obblighi informativi, vincolanti e cogenti, possono ricavarsi da atti prodromici,
47 Cfr. I. MARINELLI, La tutela del contraente debole. Rimedi Contrattuali, Napoli, 2007 p. 293.
48 Cfr., I. MARINELLI , op. ult. cit., p. 293.
49 Cfr., G. DE NOVA, Tipico e atipico nei contratti della navigazione, dei trasporti e del turismo, Napoli, 1995, p. 720.
50 Cfr., A. DI MAJO, La correttezza nella attività di intermediazione immobiliare, in Banca borsa e tit. di credito, p. 296; E. GUERINONI, I contratti del Consumatore, Principi e Regole, Torino, 2011, pag. 292: “Sulla base della rilevanza che il legislatore attribuisce all’informazione ed alla forma nell’ambito del rapporto contrattuale, muta il ruolo stesso dello strumento “contratto” che viene sempre più considerato come un insieme di informazioni che le parti si scambiano per determinare e regolare il proprio rapporto.”
51 Cfr. V. ROPPO, L’informazione precontrattuale: spunti di diritto italiano e prospettive di diritto europeo, in Riv. dir. priv., 2004, Roma, p. 753 ss.
52 Definizione contenuta in R. LENER, Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato”, Milano, 1996, p. 19.
collaterali e, comunque, esterni al contratto, nel quale però vengono richiamati e nel quale si trasfondono.
Rientra nel concetto di forma anche la prescrizione di un lessico che comporti effettiva chiarezza e comprensibilità delle clausole. Il legislatore non ritiene sufficiente l’imposizione di obblighi formali per ripristinare l’equilibrio, ma richiede che questi, insieme alle clausole che compongono il contratto, siano redatti in linea con il criterio della trasparenza, quindi, in maniera chiara e comprensibile.
La locuzione contenente le parole “chiaro” e “comprensibile”, di cui troviamo un riferimento nel codice del consumo53, è stata sottoposta a critica da una parte della dottrina e considerata una inutile ripetizione di un medesimo concetto54.
Altri autori hanno, invece, ritenuto che i due aggettivi indicassero diverse e distinte modalità di redazione del testo contrattuale, partendo dalla considerazione che “le modalità di presentazione del contenuto del contratto si dividono nelle presentazioni relative alla forma e quelle relative al contenuto”55. Questa dottrina rinvia alla forma esteriore del contratto, comprensiva anche dello stile tipografico, il concetto di chiarezza, cioè la modalità di scritturazione ed organizzazione del testo che deve essere redatto in modo tale da facilitare la lettura del soggetto meno dotato; mentre rinvia al contenuto la comprensibilità concettuale del documento. Comprensibilità che implica, da parte del professionista, di adeguare i contenuti alle capacità di intendimento della parte destinataria.
L’emersione di un difetto di trasparenza ha indotto la giurisprudenza di merito a sanzionare il contraente professionale che aveva utilizzato clausole
53 Art. 35 comma 1 del Codice del Consumo: “Nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono sempre essere redatte in modo chiaro e comprensibile.
In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore.”
54 Cfr., V. RIZZO, Trasparenza e “contratti del consumatore” (la novella al codice civile), Napoli, 1997, p. 45.
55 Così E. GUERINONI, I contratti del consumatore, principi e regole, Torino, 2011, p 322.
in modo tanto oscuro da impedire al consumatore di comprendere la portata giuridica di esse56.
In conclusione si può affermare che la “forma” nella sua più ampia accezione non rappresenta un semplice “vestimentum”, ma è la modalità tecnica utile ed indispensabile per informare e permettere di verificare se sia stato effettivamente rispettato il precetto informativo e svolgere la funzione di contrastare l’opacità formale di schemi contrattuali precostituiti, attuando quella attenuazione delle asimmetrie informative tra i soggetti, auspicata in più occasioni dal legislatore.
Quello che può sembrare un limite all’autonomia privata, in considerazione della imposizione di una forma rigida che, secondo alcuni, sarebbe in contrasto con il discusso principio della libertà, desumibile dal tenore letterale dell’art. 1325 c.c., può, invece, assurgere a garanzia di tutela, soprattutto per il soggetto che aderisce ad un contratto precostituito.
3.2 LA NULLITA’ DI PROTEZIONE
In linea ai principi che ispirano i vincoli di forma imposti dal “neoformalismo”, che mirano a rimediare all’asimmetria prima del perfezionamento del contratto, gli istituti della nullità di protezione e del diritto di recesso sono costruiti per riequilibrare anche gli assetti del contratto già perfezionato.
La nullità di protezione, nome che deriva dalla rubrica dell’art. 36 del Codice del Consumo, è una nullità funzionale che per assolvere il compito di proteggere la parte debole si discosta, sotto taluni profili, dalla disciplina civilistica della nullità.
56 Sent. Trib. di Roma 21. Gennaio 2000, n. 1361, in ilcaso.it. : “L’azione di cui all’art. 1469 sexies infatti è prevista per inibire "l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività̀ ai sensi del presente capo", senza alcuna limitazione: incluso quindi il difetto di chiarezza e comprensibilità̀ (anticamera, secondo l’id quod plerumque accidit, di applicazioni vessatorie). Il precetto di cui all’art. 1469 quater, primo comma, non può esser letto separatamente dalla disciplina complessiva, ne tan.to meno sterilizzato al rango di lex imperfecta.”
Questa forma di invalidità è sempre più diffusa e, seppure modellata in maniera parzialmente differente a seconda delle discipline di riferimento, appare quantomeno sempre protesa verso l’obiettivo di riequilibrare il rapporto asimmetrico tra professionista e parte debole.
Per assolvere questa funzione la disciplina in parola opera in maniera innovativa rispetto alla nullità prevista dagli articoli 1418 c.c. e ss., nel senso di collegare, in taluni casi esplicitamente, la rilevabilità d’ufficio ad interessi apparentemente di parte. Creando così uno “ius novum” estraneo al sistema civilistico adottato dal legislatore del 1942.
La rilevabilità di ufficio a favore di una sola delle parti in materia di nullità appare addirittura contraddittoria se si considera che la nullità del contratto non può che invadere l’intero rapporto ed incidere sugli interessi di tutte le parti cui, conseguentemente, dovrebbe spettare il diritto di farla valere. Inoltre non vi è chi non veda la distonia tra una eccezione di parte (cioè rimessa alla volontà di) ed un contemporaneo rilievo di ufficio, chiaramente proiettato a tutela di ben altro interesse e fondato su una diversa matrice teleologica. Ci si domanda come possa essere conciliata l’eccezione di parte con quella d’ufficio in ragione del potere dispositivo di uno ed il dovere dell’ufficio, dell’altro, di rilevare una nullità del negozio che, se non debitamente giudicata (negativamente), potrebbe comportare la validazione, per mano giudiziaria, di un contratto che il diritto non riconosce, in concreto, esistente.
La nullità di protezione si discosta anche dalla disciplina della nullità parziale ex art. 1419 c.c. 57. Qui la parziale sopravvivenza del contratto, liberato dalle clausole nulle, è rimessa ad un giudizio riguardante l’essenzialità della clausola o della parte del contratto. Diversamente, gli effetti solamente “parziali” della nullità di protezione prescindono da qualsiasi analisi sulla essenzialità della clausola. La nullità di protezione ha
57 Art. 1419 cc. “La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”.
l’effetto di censurare le clausole ritenute abusive mantenendo per legge il contratto valido per il resto. Il principio comune ai due istituti, ossia la conservazione del contratto, è adattato, nelle normative di settore, alla funzione di riportare il contratto “nei binari di un rapporto equilibrato di diritti e di obblighi”58.
È chiaro quindi lo iato tra la normativa nazionale e quello che è senz’altro un innesto di sorgente estranea, derivante dalla trasfusione di istituti provenienti dall’esperienza degli ordinamenti europei.
La nullità di protezione si presenta, dunque, come uno strumento a legittimazione relativa, rimessa alla determinazione della sola parte debole, ma, allo stesso tempo, estesa alla rilevabilità di ufficio per un contenuto che si giustifica solo se ispirato a finalità non individualistiche59. Si deve così ritenere che il singolo soggetto protetto altro non è se non uno “strumento” nel più ampio campo della politica giuridico-economica del legislatore, tesa alla salvaguardia di principi sovraindividuali quali i giusti equilibri economici tra soggetti eterogenei.
Come accennato, le norme protettive della parte debole si rinvengono, tra l’altro, in svariate discipline di per sé non perfettamente sovrapponibili. La necessità di ricondurre la materia ad una nozione unitaria, soprattutto per la tendenza ad appartenere alla legislazione speciale, ha molto impegnato gli operatori del diritto.
Solo per offrire uno spunto di riflessione si possono brevemente segnalare le nullità funzionali previste dall’art 127 T.U.B. e l’art. 23 T.U.F. caratterizzate per il profilo funzionale-strutturale. Ma nell’art. 23 T.U.F., a differenza dell’art. 36 C.D.C., non è presente il binomio: “eccezione di parte/ rilevabilità d’ufficio”.
58 Così R. ALESSI, La disciplina generale del contratto, Torino, 2017, p. 494.
59 “La nullità di protezione da nullità asimmetrica in quanto consegnata alla diponibilità di una sola delle parti, diviene nullità a gestione asimmetrica, vale a dire rimedio che il giudice applica d’ufficio ma che deve maneggiare avendo presente e di mira posizioni ed interessi di una sola delle parti.” R. ALESSI, Disciplina generale del contratto, Torino, 2017, pag. 495.
Non è ultroneo rilevare come tali discontinuità, apparentemente solo marginali, abbiano sollevato, invece, complesse problematiche circa la loro applicabilità, soprattutto per la delicatezza della materia trattata e l’effetto che divergenti decisioni avrebbero ed hanno determinato in importati settori del modo economico. Non si deve dimenticare che le normative in argomento hanno interessato soprattutto il sistema della intermediazione mobiliare, chiaramente molto sensibile agli aspetti relativi ai rapporti con la clientela, ritenuta, proprio per tali norme, la parte debole.
Le problematiche sono confluite in numerosi casi giudiziari e le diverse soluzioni adottate dalla giurisdizione di merito e dalla giurisdizione di legittimità, hanno condotto più volte il problema all’esame delle Sezioni Unite della Cassazione. Le soluzioni adottate dal supremo collegio in funzione nomofilattica hanno richiesto, non senza difficoltà, la necessità di una riorganizzazione concettuale complessiva delle nullità sotto il profilo del diritto sostanziale, in una più aggiornata ottica che tenesse in considerazione anche le nuove codificazioni sul tema60.
60 Stralci Sentenza Sezioni Unite, 12 dicembre 2014, n. 26242 in questionegiustizia.it . “Sebbene non si rinvengano disposizioni normative che espressamente escludono la rilevabilità d’ufficio di casi di nullità, non pochi autori hanno sostenuto che le nuove fattispecie di nullità cosiddette protettive, poste al confine tra le due categorie della nullità dell’annullabilità, sarebbero incompatibili con la rilevabilità d’ufficio e porrebbero un limite di carattere sostanziale ad una tale rilevabilità. E la scelta legislativa di rendere una delle parti arbitra della sorte del contratto andrebbe prima facie a porsi in insanabile contrasto logico con l’attribuzione al giudice del potere di sostituirsi ad essa nella valutazione circa la caducazione o la conservazione del vincolo. Ammettere una soluzione diversa creerebbe, dunque, un insanabile antinomia: da un lato, frustrerebbe la ratio della nullità relativa di riservare alla parte protetta la scelta tra conservazione e invalidazione del contratto, dall’altro, porrebbe seri essere problemi in relazione al principio della disponibilità delle prove. Sarebbe quindi insuperabile la difficoltà di contemperare la ferma preclusione per il giudice di acquisire d’ufficio fatti rilevanti per la dichiarazione di nullità con le nuove nullità di atti che non sono di per sé invalidi, ma (esemplificando) solo se non negoziati, se hanno l’effetto di restringere la concorrenza, se attribuiscono il controllo di una concentrazione o se sfruttano una dipendenza economica. La tesi che esclude la compatibilità tra poteri ufficiosi e la disciplina delle nullità protettive, pur nella sua indiscutibile suggestione, non è, peraltro, immune da alcune fragilità argomentative, tanto da essere efficacemente contrastata da altra dottrina, favorevole ad estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 1421 codice civile anche a quelle nuove invalidità sancite per la violazione di norme poste a tutela dei soggetti ritenuti dalla legge economicamente più deboli, di fronte a situazioni di squilibrio contrattuale, sulla scorta del piano quanto efficace rilievo che la legittimazione ad agire ristretta ai soli soggetti indicati dalla norma non si riverbera ipso facto in una consequenziale esclusione del potere di rilievo officioso delle nullità in questione ex articolo
1421 codice civile. Si è detto “indiscutibile” lo scopo della nullità relativa volto anche alla protezione di un interesse generale tipico della società di massa, cosicché la legittimazione ristretta non comporterebbe alcuna riqualificazione in termini soltanto privatistici e personalistici dell’interesse pubblicistico tutelato dalla norma attraverso la previsione delle invalidità. Il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (articolo 41 costituzione) e l’uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli (articolo 3 costituzione: si pensi alla disciplina antitrust, alle norme sulla subfornitura che sanzionano con la nullità contratti stipulati con abuso di dipendenza economica, alle disposizioni sui ritardi di pagamento delle transazioni commerciali, che stabiliscono la nullità di ogni accordo sulla data del pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore ex decreto legislativo 231 del 2002), poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale, ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese. La pretesa contraddizione fra la legittimazione riservata e rilevabilità d’ufficio risulta soltanto apparente, se l’analisi resta circoscritta al profilo della rilevazione della causa di nullità. Non può, infatti, tralasciarsi di considerare che il legislatore contemporaneo codifica fattispecie di nullità nelle quali convivono la legittimazione riservata e la rilevabilità d’ufficio (ex aliis, quelle di cui agli articoli 36, terzo comma 134 primo comma, Codice del Consumo; quella prevista dall’articolo 127, secondo comma, decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; E la nullità di cui all’articolo 7 decreto legislativo 9 ottobre 2002, numero 281). E il potere del giudice, in questi ambiti, rafforza l’intensità della tutela accordata alla parte che, in ragione della propria posizione di strutturale minor difesa, potrebbe non essere in grado di cogliere le opportunità di tutela ad essa accordata. Va pertanto rivista è precisata in parte qua l’affermazione, contenuta nella sentenza 14828/2012, secondo la quale dovrebbe ritenersi vietato al giudice l’indagine in ordine a una nullità protettiva. Tale affermata esclusione, che ha prestato il fianco alle critiche di chi, in dottrina, lamenta che sostenere l’inammissibilità del rilievo ufficioso di una nullità speciale, in difetto di una espressa disposizione legislativa in tal senso, condurrebbe a conseguenze incongrue (come ad esempio nel caso del preliminare di un acquisto di immobili da costruire nullo perché carente della fideiussione previste dalla legge a pena di nullità, ex art. 2, primo comma, decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122) merita peraltro una ulteriore precisazione. Difatti, la quaestio nullitatis, intesa nella sua più generale portata, si presta a differenti valutazioni a seconda che di essa ci si limiti alla semplice rilevazione, ovvero si proceda alla sua dichiarazione a seguito di accertamento giudiziale (senza affrontare, al momento, la questione della idoneità all’effetto di giudicato) limitando l’indagine alla sola rilevazione d’ufficio, la stessa sentenza del 2012 non manca di osservare come la giurisprudenza comunitaria sia univocamente orientata nel senso della sua necessità… D’altronde, non va dimenticato che queste Sezioni Unite non erano state illo tempore chiamate a pronunciarsi su di una generale reimpostazione del sistema delle nullità speciali…(…. In buona sostanza, in termini di dovere, l’accertamento officioso del giudice circa il carattere eventualmente abusivo delle clausole contenute in siffatti contratti, sia pure con il limite, ostativo alla disapplicazione, dell’opposizione del suo consumatore)…… Nullità che non a torto è stata definita, all’esito del sopravvento del diritto europeo, ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrato sull’assetto di interessi concreti, con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi e di valori fondamentali, che trascendono quelli del singolo…. La rilevabilità ufficiosa pertanto, sembra costituire il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate di protezione virtuale. Il potere del giudice di rilevare tout court appare essenziale al perseguimento di interessi pur sempre generali sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (consumatori, risparmiatori, investitori), interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti – quali il corretto funzionamento del mercato, ex articolo 41 Cost., e l’uguaglianza non solo formale tra contraenti in posizione asimmetrica, Con l’unico limite di riservare il rilievo ufficioso delle
Già a ridosso delle prime codificazioni in materia, con le sentenze citate in nota61si era consolidato un rilevante distinguo tra norme di comportamento e norme di validità del contratto, considerando solo le ultime come presupposto per la declaratoria di nullità e le prime come eventuale motivo di risoluzione62. Ma la sollecitazione ermeneutica che l’applicazione di norme elaborate in esperienze comunitarie (già adombrate nella sentenza Rordorf) più ancorate a principi di tutela generale afferenti a “valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale, piuttosto che per i singoli”, hanno sospinto la riflessione giuridica ancora più in avanti, fino a tentare una rimodulazione, anche in ottica più propriamente processualistica, del tema della rilevabilità d’ufficio in combinato con la dislocazione degli oneri probatori e degli effetti sul giudicato 63. Come si vedrà, però, in prosieguo, le
nullità di protezione al solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l’azione di nullità, in tal modo evitando che la controparte possa, se vi abbia interesse, sollecitare i poteri ufficiosi del giudice per un interesse suo proprio, destinato a rimanere fuori dall’orbita della tutela.”
61Cass civ, Sez I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Altalex.com.; Caass.civ, Sez un, 19 dicembre 2007, n. 26724 in ilcaso.it.
62 Cass. Sez un, 19 dicembre 2007, n. 26724 in ilcaso.it.“…L’ordinanza di rimessione chiama ora le SSUU a valutare se tali affermazioni, e l’impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di una esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonché alle tendenze legislative emerse in questo ed altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza
n. 19024/05. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituita dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norma di validità del contratto: la violazione delle prime tanto nella fase prenegoziale quanto nella fase attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quantomeno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.”
63 Ibidem,: “All’esito della ricognizione che precede, possono affermarsi i seguenti principi: La nullità deve essere sempre oggetto di rilevazione/indicazione da parte del giudice;
La nullità può essere sempre oggetto di dichiarazione/accertamento da parte del giudice;
L’espresso accertamento contenuto nella motivazione della sentenza sarà idoneo a produrre, anche in assenza di un’istanza di parte (domanda di accertamento incidentale) l’effetto del giudicato sulla nullità del contratto in mancanza di impugnazione sul punto;
La mancanza di qualsivoglia rilevazione/dichiarazione della nullità in sentenza è idonea, in linea generale ma non in via assoluta, e non senza eccezioni – come di qui a breve si dirà - a costituire giudicato implicito sulla validità del contratto: - I rapporti tra nullità negoziale ed impugnative contrattuali vanno così sintetizzati:
1) Il giudice ha l’obbligo di rilevare sempre una causa di nullità negoziale;
perplessità interpretative permangono ed i temi sono ancora soggetti a progressiva evoluzione.
3.3 IL DIRITTO DI RECESSO
Il principio della vincolatività del contratto ex art 1372 c.c., non consente agli stipulanti di liberarsi dagli obblighi contrattuali se non nei casi previsti dalla legge.
La facoltà, concessa ad una o ad entrambe le parti, di sciogliere il vincolo contrattuale64, attraverso un atto unilaterale e recettizio, viene disciplinata dal codice civile all’art. 1373 sotto la rubrica: “Recesso Unilaterale”.
Sia le prescrizioni di forma per l’esercizio di tale diritto, sia l’opponibilità di tale diritto ai terzi, dipendono, salva diversa pattuizione, dal contratto a cui il recesso è collegato.
2) Il giudice, dopo averla rilevata, ha la facoltà di dichiararenel provvedimento decisorio sul merito la nullità del negozio ( salvo i casi di nullità speciali o di protezione rilevati ed indicati dalla parte interessata senza che questa manifesti interessa alla dichiarazione), e rigettare la domanda – di adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione -, specificandoin motivazione che la ratio dedicendi della pronuncia di rigetto è costituita dalla nullità del negozio, con una decisione che ha attitudine a divenire cosa giudicata in ordine alla nullità negoziale;
3) Il giudice deve rigettare la domanda di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento senza rilevare ne dichiarare l’eventuale nullità, se fonda la decisione sulla base della individuata ragione più liquida: non essendo stato esaminato, neanche incidenter tantum, il tema della validità del negozio, non vi è alcuna questione circa (e non si forma alcun giudicato sul) la nullità;
4) Il giudice dichiara la nullità del negozio nel dispositivo della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, all’esito della eventuale domanda di accertamento (principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetti di giudicato in assenza di impugnazione;
5) Il giudice dichiara la nullità del negozio nella motivazione della sentenza, dopo aver indicato come tema di prova la relativa questione, in mancanza di domanda di accertamento 8 principale o incidentale) proposta da una delle parti, con effetto di giudicato in assenza di impugnazione;
6) In appello e in Cassazione, in Caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice ha sembpre facoltà di rilevare d’ufficio la nullità.”
64 Per maggiori approfondimenti sulla distinzione tra recesso e condizione risolutiva meramente potestativa, G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, p. 1985.
Il recesso dovrà, dunque, rispettare i vincoli di forma del contratto da recedere e sarà opponibile ai terzi se rispettati i regimi di opponibilità prescritti per il contratto principale.
Il legislatore nelle normative di settore utilizza lo strumento del recesso per riequilibrare ex post65 i rapporti asimmetrici. Questa facoltà concessa alla parte debole ex lege differisce dalle altre tipologie di recesso non pattizio disciplinate dal codice. A differenza della disciplina codicistica, che ha come fondamento la presunzione della parità tra le parti, il diritto di recesso in materia non è subordinato all’esistenza di una giusta causa o a particolari oneri di preavviso, né è condizionato al pagamento di una penale a favore del professionista.
Il recesso è generalmente riconosciuto al contraente debole nei casi in cui il legislatore presuma che il contratto non derivi da un consenso consapevole e maturo, come avviene sovente nelle contrattazioni a distanza o nelle contrattazioni particolarmente “rapide”. Ovvero, in considerazione della natura e dell’importanza del contratto concluso, il legislatore può maggiormente avvertire la necessità di tutelare la parte non professionista garantendole un nuovo spazio deliberativo66.
Con la previsione del diritto di recesso si concede un “diritto al ripensamento”67, cioè la possibilità di compiere una nuova e opposta valutazione riguardo l’interesse che aveva spinto alla conclusione del contratto consentendo, senza alcun onere, la liberazione dal vincolo contrattuale.
L’insieme delle norme di settore che disciplinano il diritto di recesso non offre la visione di una normativa uniforme. Esaminando le singole
65 Così B. COLOSIMO, in Codice del Consumo, Commentario, (a cura di) G. VETTORI, Padova, 2007, p. 528 “lo ius poenitendi è uno strumento che, in ottica funzionale, mira al riequilibrio ex post delle posizione soggettive, in una dimensione volta al recupero del significato fondante del concetto di autonomia contrattuale”
66 Cfr., M.C. CHERUBINI, Tutela del “contraente debole” nella formazione del consenso,
2005, Torino, p. 75
67 Cfr., M.C. CHERUBINI, Sul c.d. diritto di ripensamento, in Riv. dir. civ., Roma, 1999, p. 695 ss.
previsioni si constata come ognuna di esse abbia le proprie particolarità, che non consentono all’interprete una ricostruzione unitaria dell’istituto e, quindi, un collegamento agli istituti radicati nel nostro sistema.
Per fornire degli esempi, la disciplina consumeristica nell’art. 64, comma 1 (ma un’identica previsione si trova anche in altre normative), consente alla parte la facoltà di liberarsi non solo da un contratto perfezionato, ma anche da una proposta sottoscritta ed anticipatamente già eseguita in buona fede. In tale ipotesi la norma altera la disciplina del recesso ed invade lo spazio dell’istituto della revoca della proposta68.
Un’altra difformità interna alle discipline di settore riguarda la sospensione dell’efficacia del contratto69. In alcuni casi l’efficacia del contratto, in pendenza del termine per l’esercizio della parte debole del diritto di recesso, viene sospeso, in altri il contratto produrrà, non appena concluso, i suoi effetti ed il recesso avrà come conseguenza lo scioglimento, solo per il futuro, dei vincoli contrattuali fino a quel momento efficaci.
Si è sottolineato come il diritto di recesso sia esercitabile senza oneri di allegazione dei motivi70. Come rilevato dalla Corte di Giustizia “prescinde da qualsiasi presupposto giustificativo”71, questo consente alla parte debole di utilizzare l’istituto per difendersi da numerose evenienze, che possono riguardare non solo il contratto in sé, come una nuova valutazione riguardo l’opportunità dell’operazione, ma anche probabili eventi esterni72. La discrezionalità con cui il diritto di recesso può essere esercitato dalla parte debole è una costante rinvenibile in tutte le discipline di settore. Ad avviso di
68 D. VALENTINO, Recesso e vendite aggressive, Napoli, 1996, p. 204. Su come questa prescrizione debba essere interpretata nel senso che il consumatore non deve pagare un indennizzo in caso di esecuzione in buona fede del professionista in deroga all’art. 1328 c.c., “se l’accettante ne ha intrapreso in buona fede l’esecuzione prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto”.
69 Ad esempio l’art. 30, comma 6, d.lgs. n 58 del 1998 prescrive la sospensione dell’efficacia del contratto al contrario gli artt. 64-67 cod. cons. nulla prevedono in tale senso.
70 Art.64 cod. cons. “il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza specificare il motivo”.
71 Corte di giustizia. CE aprile 1999, causa C-423/97.
72 Così E. GUERINONI, I contratti del consumatore, principi e regole, Torino, 2011, p. 420.
molti interpreti questa però deve essere bilanciata (per non sconfinare nell’abuso del diritto) con i principi che impongono alla parte di mantenere un comportamento contrattuale conforme ai principi della buona fede.
Nonostante sia diffusa l’opinione che il diritto di recesso possa essere utilizzato dal consumatore/parte debole anche per “semplice capriccio”73, ci si sta sempre più chiedendo quando la parte controinteressata possa contestarne l’esercizio, soprattutto nel momento in cui la parte debole abbia già parzialmente usufruito dell’oggetto della obbligazione del professionista. Il recesso esercitato per “semplice capriccio” dalla parte che, anche se presunta debole, non aveva la necessità di essere tutelata dai pericoli che il legislatore considera in via presuntiva74 non può che portare il giudice ad una valutazione contraria a quello che sembra, a prima vista, un diritto
incondizionato.
Possiamo ricordare, a titolo esemplificativo, un caso sottoposto alla CGCE (oggi CGUE, Corte Giustizia Unione Europea) in cui un consumatore, eccependo il mancato adempimento degli obblighi informativi a cui era tenuto il venditore, recedeva dopo 11 mesi da un contratto concluso a distanza. In sede di rinvio si è discusso sulla possibilità di riconoscere al professionista un indennizzo in considerazione dell’uso prolungato del bene in questione da parte del consumatore. La Corte ha affermato che: “L’art. 6, n. 1 secondo periodo, e 2, della direttiva CE del parlamento europeo e del Consiglio 20 maggio 1997, 97/7/CE, riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, (…) non osta a che venga imposto al consumatore il pagamento di un’indennità per l’uso di tale bene nel caso in cui egli abbia fatto uso del detto bene in un modo incompatibile con i principi del diritto civile, quali la buona fede o l’arricchimento senza giusta causa”75.
73 Così G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, p. 70; M.C. CHERUBINI, Sul c.d. diritto di ripensamento, in Riv. dir. civ., Roma, 1999, p. 698.
74 M. ATELLI, Il problema della sindacabilità della decisione di esercizio dello jus poenitendi attribuito “ex lege” dal consumatore, in Riv. dir. priv, Torino, 2001, p. 359.ss.
75 Cfr., CGCE Sez. I, 3 settembre2009, nella causa C-489\07, Pia Messner c. Firma Stefan Kruger, in ilcaso.it. ).
L’esercizio del diritto di recesso deve essere conforme ai principi della buona fede e non può essere esercitato incondizionatamente76 .
Il diritto di recesso ad nutum, dunque, costituisce l’altro frangente in cui affiora e si annida la possibilità di abuso. L’esperienza giurisprudenziale mostra l’ampiezza del fenomeno e lo sforzo ermeneutico ancora in divenire che impegna tutti gli operatori del diritto.
76 Al contrario il Trib. Roma, sez. III, 3. Maggio2010, in ilcaso.itha aderito alla tesi per cui “ il diritto di recesso riconosciuto al consumatore quale manifestazione di un pentimento ha carattere incondizionato e discrezionale…e non è sottoposto al limite dell’abuso del diritto” e nonostante abbia riconosciuto che il divieto di abuso del diritto è “espressione del più generale dovere di buona fede, quale obbligo di salvaguardare gli interessi della controparte” conclude affermando che il diritto di recesso non deve “ trovare alcun ostacolo anche nel caso in cui fosse dimostrata la (…) pretesa malafede nell’esercitarlo”.
CAPITOLO II
ABUSO DEL DIRITTO, BUONA FEDE ED EXCEPTIO DOLI GENERALIS
Sommario: 1. Abuso del diritto - Cenni storici 2. Teorie sull’abuso dopo la sentenza “Renault” 3. Abuso del diritto e buona fede 4. Exceptio doli generalis.
1. ABUSO DEL DIRITTO – CENNI STORICI.
Dopo aver analizzato la disciplina del contraente debole, in questo capitolo si tenterà di illustrare, senza pretese di completezza, la ratio e le diverse riflessioni che la dottrina e la giurisprudenza hanno sviluppato attorno al concetto di “abuso di diritto”.
La centralità del principio qui iure suo utitur neminem leadit iniziò, in Europa, a perdere centralità alla fine dell’Ottocento.
Il concetto di abuso del diritto trova le prime espressioni teoriche successivamente alla Rivoluzione Francese77, come frutto del confronto tra le ideologie liberali e le ideologie sociali/cattoliche.
L’ideologia liberale, che guida i codici liberali di diritto privato caratteristici dell’era contemporanea, esalta il diritto soggettivo come libertà individuale contrapposta allo stato78. L’individuo, insieme “alla forza creatrice della sua volontà”, viene messo in risalto ed è posto al centro del
77 Il concetto di abuso era ignoto ai giureconsulti romani Cfr., G. GROSSO, Abuso del diritto
a) diritto romano, in Enc. dir., 1958, p. 161.
78 Cfr., G. SOLARI, L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato, Milano, 1911, p. 333 ss. Su come i concetti di individualismo e giusnaturalismo ispirino i codici liberali vedi
R. DE STEFANO, Il problema del potere, Milano, 1962, p. 126 ss.
nuovo ordine come “realtà in sé”79. Il concetto di abuso del diritto, inteso come strumento di controllo del potere sull’autonomia privata, veniva logicamente rifiutato.
La considerazione secondo cui alcuni comportamenti, seppur ritenuti universalmente riprovevoli, non potessero essere sanzionabili, poiché perfettamente conformi al testo della norma, spinse i giuristi dell’epoca a ricercare una soluzione che, oltrepassando il limite del rapporto formale tra testo normativo ed utilizzazione concreta del suo esercizio, sottoponesse l’esercizio del diritto ad un ulteriore controllo.
Si discuteva, dunque, sulla possibilità di inserire nell’ordinamento un “correttivo” che impedisse al titolare di un diritto soggettivo di porre in essere atti che potessero essere fonte di sperequazioni tra le parti e, dunque, non meritevoli di tutela per l’ordinamento. Si avvertiva, per la prima volta, la necessità di inserire “un meccanismo di autocorrezione del diritto”80.
A farsi spazio furono le dottrine derivanti dalla cultura cattolica e dalla ideologia socialista81, che respingevano la possibilità di poter esercitare il diritto soggettivo con modalità che prescindessero dai valori di cui le rispettive culture erano portatrici82. Il punto in comune tra i due orientamenti era quello di marcare un limite extra-giuridico83 all’esercizio del diritto, uno,
79 “Il soggetto del codice napoleonico è l’individuo come realtà in sé. Il perenne dissidio fra l’individuo e il gruppo sociale si pone a modo d’una antitesi di termini eterogenei e incomparabili. L’individuo è contrapposto alla società; la parte del tutto. La filosofia del codice napoleonico è la filosofia della parte.” In questo senso v., N. IRTI, Dal diritto civile al diritto agrario (momenti di storia giuridica francese), Milano, 1962, p. 2.
80 In questo senso vedi, M. ATIENZA e J. RUIZ MANERO, Ilìcitos atìpicos. Sobre el abuso del derecho, el fraude de la ley y la desviacion de poder, Madrid, 2000, p. 67 (trad. italiana, Illeciti atipici: l’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, a cura di M. TARUFFO, Bologna, 2004).
81 Cfr., per maggiori approfondimenti sul tema dei diversi criteri storicamente utilizzati per verificare il possibile abuso del diritto, S. PATTI, Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv, 1987,
p. 2.
82 Il diritto soggettivo non è “illimitato potere di volontà” ma “potere concesso al privato per il perseguimento di uno scopo legittimo e serio”, così G. SOLARI, L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato, cit., p. 1.
83 Cfr., G. MERUZZI, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Padova, 2006, p. 348.
quello cattolico, per porre un limite immutabile, l’altro, quello socialista, per adottare un “correttivo” adattabile alle esigenze dei tempi.
Mentre l’ideologia cattolica apprezzava la discrezionalità dei privati nell’esercizio dei propri diritti soggettivi in un’ottica di doveri morali, in particolare “doveri che incombono a ciascun soggetto verso Dio, verso sé stesso, verso il prossimo”84; l’ideologia socialista “…dà al peccato (cioè all’abuso) il travestimento laico della riprovazione della coscienza collettiva”85, attribuendo al diritto una destinazione sociale conforme alla coscienza comune.
Le prime applicazioni di questo principio nella giurisprudenza si ebbero in tema di proprietà86, dove la dottrina manifestò opinioni discordanti: una parte si manteneva ferma sul punto per cui l’esercizio di un diritto dovesse rimanere insindacabile qualora non avesse superato i confini formali previsti dalla legge, valorizzando il principio della certezza del diritto. Altri affermavano, al contrario, l’incapacità della legalità formale di appagare l’istanza di giustizia che derivava dall’uso distorto e prevaricatorio del diritto. In ogni caso una definizione condivisa sul concetto di “abuso” appariva un orizzonte molto lontano, tanto che ha potuto trovare qualche squarcio di luce solo nel secolo successivo.
La teoria dell’abuso del diritto in Italia è ormai da tempo al centro di un acceso dibattito87.
84 P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, p. 222.
85 P.RESCIGNO, Op. ult. cit., p. 228.
86 Cfr., A. DE VITA, La proprietà nell’esperienza giuridica contemporanea, Milano, 1969, p. 175 ss.
87 Cfr., M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1993, p. 105 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, passim; U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958,
p. 37 ss.
2. LE TEORIE DELL’ABUSO DOPO LA SENTENZA “RENAULT”
Sicuramente l’accostamento dei lemmi “abuso” e “diritto” può risultare a prima vista contraddittorio.
Il riconoscimento di un diritto soggettivo, che possiamo definire come “una pretesa garantita dall’ordinamento giuridico”88, è il frutto di un’analisi del legislatore riguardo al valore dell’interesse sotteso alla norma. Il legislatore, ritenuto il “bene della vita” meritevole di tutela, concede al soggetto titolare protezione giuridica.
Quando ci si riferisce all’abuso di diritto si vuole invece intendere che proprio l’esercizio di quella “facoltà”, derivante da un giudizio di valore e garantita da una norma giuridica, possa essere fonte di responsabilità da parte del soggetto che la esercita.
La definizione che ne dà la giurisprudenza può essere sintetizzata, ancora dopo dieci anni dalla sua pubblicazione, nella formula adottata nel c.d. caso Renault in cui il supremo collegio ha svolto una articolata disamina dei casi in cui si è affrontato il problema dell’abuso di diritto e dei principi che di volta in volta sono stati posti a suo fondamento: “…si ha abuso del diritto quanto il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di doveri formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti” 89.
88 Cfr., R. GUASTINI, Diritti, in R. GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino, 1996, pp. 147-156; C.M. BIANCA, Diritto civile, Milano, 1999, p. 12.
89 Secondo Cass. civ., sez III, 18 settembre 2009, 20106, in DeJure.: “ (…) Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell’abuso del diritto all’esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.).(…) Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di
contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass.11.6.2008n.15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico. L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. (…) La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto – ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale – sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. (…) la Corte di merito [abbia] errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall’animus nocendi; 2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l’assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo più conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l’insussistenza dell’abuso; 3) che, una volta che l’ordinamento abbia apprestato un dato istituto, spetta all’autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la possibilità di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico – in particolare contrattuale – in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali delle parti – soggetti deboli e soggetti economicamente “forti” -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante. La Corte di merito ha affermato che l’abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere, ovvero in termini di “neutralità”; nel senso cioè che, una volta che l’ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti le modalità del suo concreto esercizio. Ma il problema non è questo. Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di “conflittualità”. Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati. Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell’esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.)
Emerge, con ogni evidenza, che una domanda di giustizia possa essere appagata solo se, in assenza di una norma specifica, essa rifletta un’“etica” dell’azione nella fase di applicazione del diritto soggettivo. In verità il giudicante del caso Renault spiega come il riferimento a quei generici principi etici invocati dai giuristi degli anni trenta sia evoluto in un diverso fondamento radicato nella Carta Costituzionale, in particolare riferito alla solidarietà di cui all’art. 2 Cost. Tuttavia il tema dell’abuso è però spesso sovrapposto ai principi di buona fede che hanno certamente fondamento in disposizioni positive. Sennonché l’utilizzazione “di termini valoriali” rispetto ai fini astrattamente sottesi alla norma, unitamente alla considerazione che il legislatore del 1942 si era posto il problema dell’abuso, prospettando una norma che lo prevedesse specificatamente, ma che poi non era stata adottata, dovrebbe far ritenere che vi fosse un intento diametralmente opposto, sicché i richiami a concetti come “dovere” o “correttezza” o riferimenti a “criteri extragiuridici” (utilizzati nel corpo narrativo della sentenza: se non vi è un dovere “formale” esso non può che essere morale), non possono non far pensare ad una qualche forma di moralizzazione dei fini e conseguentemente della norma che detti fini sottende.
Il “dovere” inteso in senso generale, cioè non iscritto in un comando specifico, è necessariamente orientato da principi morali, seppure trasfusi nella norma costituzionale o tratti da essa o tratti dall’ordinamento in generale. L’esperienza comune porta a considerare come la “morale”, in genere, sia soggetta ad un immanente relativismo, storico, culturale e, non ultimo, politico. Fondare un processo critico del diritto soggettivo su un fondamento morale o meglio moralizzante, conduce inevitabilmente ad un corrispondente relativismo giudiziario ed alla certezza di conseguire l’assoluta incertezza del diritto. Di qui il dibattito tra coloro che temono la possibilità che nell’esercizio del potere discrezionale concesso alla giustizia affluiscano valori attinti al di fuori della norma istitutiva del diritto fatto valere, aprendo la strada ad una giurisprudenza “creativa” che indaghi sulla moralità dei fini, e coloro che invece ritengono preminente la necessita di
calare il testo legislativo nel “contesto”, appunto, culturale, storico, politico e reinterpretare le finalità conseguite dalle parti anche in relazione a tutti quei principi condivisi dalla comunità in senso etico o ricavabili da altre fonti legislative che abbiano già assorbito nuovi orientamenti generati dalla evoluzione dei rapporti sociali, economici e culturali.
Le critiche rivolte ad un orientamento proteso verso una contestualizzazione della norma e la resistenza a riservare al giudicante il potere di interpretarla fino al suo sostanziale annullamento o ad una sua metamorfosi in vista dei fini individuati dall’interprete, ha portato ad affermare: “…l’inammissibilità logica prima ancora che giuridica di una condotta che, pur essendo conforme allo schema normativo debba essere considerata illegittima e quindi improduttiva degli effetti in astratto riconducibili a quello schema”90.
E tuttavia la necessità di adeguare il diritto alle nuove esigenze della società, soprattutto con l’innesto di normative esogene, come abbiamo visto, ha sospinto la riflessione dottrinale sempre più verso la configurazione di nuove interpretazioni applicative di norme positive, necessarie per arginarne la portata e mantenerne l’effetto nel perimetro dei principi condivisi dall’ordinamento. Si è affermato, quindi, che il tema dell’abuso scaturisce dalla interazione tra principi, regole e caso concreto91. In particolare si è evidenziato che nel caso concreto possono rinvenirsi cortocircuiti tra i principi che hanno dato causa alla istituzione della norma e l’uso che di detta norma ne è stato fatto dal singolo soggetto, indipendentemente dal contenuto testuale: il testo (della norma) nel contesto (sociale). Si è sostenuto che la norma astratta può non rappresentare isolatamente il principio che vorrebbe rappresentare, ed ancora più in profondità, nella riflessione filosofica, si è affermato che talune “idee e convinzioni morali affioranti nella società, non (sono, ndr) ancora accolte dal diritto positivo” riportando come esempio
90 M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2010, p. 147 ss.
91 N. LIPARI, Ancora sull’abuso del diritto - Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Questione Giustizia, 2016, p. 34.
proprio “…il controverso principio del divieto di abuso del diritto, che emerge non tanto da questa o quella norma del sistema, quanto dalla auscultazione, cui il giurista è chiamato, di esigenze etico-politiche manifestatesi in una determinata società, in contrasto con convinzioni che vanno declinando”92.
Il fenomeno della: “giurisdizionalizzazione del diritto…intesa come spostamento del punto focale dell’analisi dall’origine all’uso delle norme in funzione di quella che è stata definita la legalità del caso”93 ha prodotto un ampio dibattito contrastato da coloro i quali hanno invece indicato, come gia detto, “creativa” la giurisprudenza sull’abuso94.
Contro coloro i quali hanno invocato, come in altri ordinamenti (spagnolo, svizzero, tedesco), la espressa previsione di un comportamento ritenuto abusivo dei propri diritti, si è opposta la impossibilità di prevedere in astratto una fattispecie tipica dell’abuso, in quanto comportamento naturalmente sfuggente e non prevedibile, affermando, al contempo, la inutilità di una siffatta norma, posto che l’ordinamento ed in particolare la Costituzione sono pervasi da principi cui nel caso concreto ci si deve conformare95 .
92 Cosi N. BOBBIO, Principi generali del diritto, in Nuovissimo Digesto Italiano, 1966, p. 891.
93 N. LIPARI, Ancora sull’abuso del diritto - Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, cit., p. 35.
94 C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015 p. 87 ss., il quale parla di “giurisprudenza creativa e dottrina remissiva” ed assume che “valori come solidarietà, eguaglianza in senso sostanziale, funzione sociale, tutela della persona si rivelano veri e propri specchi deformanti degli istituti sobri, e quasi ingenui nella loro pretesa coerenza, del diritto civile”; L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione di giustizia, 2016, p. 321 afferma che “Ciò che viene valutato, compreso e soppesato da tale ponderazione o bilanciamento non è affatto il principio, bensì i singolari ed specifici connotati del caso sottoposto a giudizio”.
95 N. LIPARI, Ancora sull’abuso del diritto - Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, cit., p. 36, “…Mi rendo perfettamente conto del fatto che la nostra cultura giuridica, condizionata dai modelli del positivismo, non ha ancora seriamente metabolizzato il processo di costituzionalizzazione del diritto, che sposta il profilo dell’antigiuridicità sul piano della contraddittorietà non a regole ma a principi. Se si esce dai paradigmi di stanpo positivistico un tale atteggiamento non deve scandalizzare, posto che, come è stato giustamente osservato, determinare l’indeterminato è una caratteristica della funzione giudiziale. Né mi pare si possa dire che è infondato l’argomento secondo il quale i principi valgono più delle regole, in quanto dietro tutte le regole c’è sempre un principio. Se i principi
La giurisprudenza, nel frattempo e con più arresti sul punto, ha argomentato l’abuso sotto diverse formulazioni astratte, quali: il difetto di interesse da parte del titolare o addirittura l’interesse di nuocere; la modalità anomala o scorretta dell’esercizio secondo paradigmi riconducibili alla buona fede oggettiva; il bilanciamento degli interessi fra quelli propri del titolare e quelli dei soggetti incisi dall’esercizio dell’atto; la deviazione del potere rispetto al fine istituzionale in funzione del quale sarebbe stato conferito.
In particolare la sentenza Renault, si è soffermata a criticare le motivazioni adottate dalla corte di merito evidenziando che in taluni casi il titolare del diritto può graduare l’esecuzione in diverse modalità e tempistiche ed è dunque dovere del giudice verificare se tra tali modalità possono ravvisarsi intenti che travalichino il perimetro costruito dalla norma per conseguire l’interesse protetto, il tutto senza che lo schema formale della norma possa considerarsi violato. La corte ha così fissato il pricipio secondo il quale l’abuso e la buona fede: “… debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali – funzione sociale ex art. 42 Cost. e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall’ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizi”.
Entrando più nel tema che qui interessa si osserva che la giurisprudenza si è pronunciata in concreto su molteplici aspetti soprattutto della normativa di protezione, ravvisandovi spazi aperti all’abuso, quali: il
sono ricavabili dal testo costituzionale, essi debbono necessariamente prevalere sulle regole della legge ordinaria”.
recesso nel collocamento delle negoziazioni fuori sede; la domanda di nullità selettiva per violazione della forma contrattuale conferita al contraente debole ed, in conseguenza, la possibilità di eccepire l’exceptio doli da parte del professionista o l’accoglimento della domanda riconvenzionale o dell’eccezione di compensazione tra quanto guadagnato dall’investitore ed il capitale restituito per effetto della pronunciata nullità, temi questi di cui si tratterà partitamente nel capitolo successivo.
Certo è che gli spunti tratti dalla giurisprudenza, se da un lato hanno certamente innalzato il tono della discussione e della conseguente riflessione sui variegati aspetti della normativa di protezione, sotto altro profilo non sono però riusciti a sfociate in una definizione esaustiva, almeno sul piano teorico, dell’abuso di diritto per come ancora viene da più parti evocato. Rimane infatti immutata la perplessità dinanzi al concetto di abuso se non si risolve il problema teoretico della convivenza di due opposti concettuali.
Secondo la dottrina96 , in particolare:
i) la norma comprende la fattispecie astratta ed il “contegno” che l’avente diritto deve tenere perché possa essere ricompreso nel perimetro applicativo legale (A comprende B ed è uguale a C);
ii) non è possibile, sul piano logico, ritenere che un comportamento in sé stesso possa essere abusivo del diritto se corrispondente alla norma istitutrice (C=AB);
iii) un comportamento estraneo alla norma determinerebbe la esclusione dal perimetro legale e la inesistenza, per il diritto, del comportamento in questione, ricadendo nei fatti innominati potenzialmente dannosi (D diverso da AB);
iv) se nell’esercitare un diritto si sia determinato un danno e cioè un illecito, non si può concludere che esista un “diritto” a compiere un “illecito”, bensì che esiste e coesiste un diritto terzo, di pari dignità, la cui prevalenza è demandata al giudice del caso concreto (AB/E);
96 M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2010, p. 147 ss.
v) non vi è un vuoto normativo, cui deve riparare il giudice, tra il legittimo esercizio conforme alla regola che lo ha istituito e l’emersione di un danno da illecito cagionato proprio nell’esercizio di detto diritto, perché una siffatta fattispecie è positivamente prevista dall’art 1440 c.c. in materia di dolo incidente.
In base a tale ultima conclusione si può affermare che la categoria dell’abuso del diritto non deve essere qualificata come derivante dal contrastante significato dei lemmi che lo compongono, né che sia il frutto della c.d. creatività del “giudice”, ma l’applicazione, da valutare caso per caso, di coesistenti diritti, il cui contemperamento deriva certamente dalla disamina delle condotte, ma nello stretto alveo delle rispettive posizioni giuridiche soggettive, secondo un processo di valutazione della prevalenza di diritti coesistenti. Merita ricordare lo sforzo ermeneutico condotto dall’autore dal quale sono stati tratti gli spunti riflessivi qui esposti ripotando una sua frase emblematica: “La condotta è abusiva perché illecita, e non illecita perché abusiva. Essa, ledendo un (ipotetico) diritto della controparte, rifluisce sotto la specie dei fatti dolosi o colposi che cagionano un danno ingiusto”97.
3. ABUSO DEL DIRITTO E BUONA FEDE
Seguendo il percorso logico dell’autore appena citato, una condotta estranea alla norma ed ai principi ad essa sottesi che determinasse la lesione di un diritto altrui non merita particolari osservazioni. Trattasi di comportamento generativo di meri fatti e, se lesivi, illeciti tout court rendendo pacifica la definizione di abuso. Altro tema di riflessione induce invece il valore del comportamento in qualche modo previsto dalla norma nel suo stesso esercizio. Dal comportamento può infatti emergere l’intento. La giurisprudenza ha fatto spesso ricorso a tale principio per la graduazione
97 M. ORLANDI, Contro l’abuso del diritto, cit., p.147 ss.
dell’eventuale danno dall’esercizio del diritto. Tale è il comportamento secondo buona fede.
Ma il dovere di mantenere una condotta secondo buona fede rimane proprio la questione che risulta più incerta in tema di “abuso del diritto” 98.
Alla domanda se sia “la violazione della buona fede ad atteggiarsi quale giustificazione della qualificazione di una condotta come abusiva” o, al contrario, se sia “la sussistenza di un abuso a legittimare l’affermazione che si sia in presenza di una violazione delle regole di correttezza e di buona fede contrattuali”99, la risposta non è univoca.
Da una certa prospettiva c’è chi individua tra le possibili espressioni confliggenti con l’obbligo di buona fede, l’abuso del diritto, il quale si differenzierebbe dalle altre condotte, poiché si manifesta come eccesso del diritto o meglio come eccesso rispetto alla funzione (quando si va oltre il motivo per cui il diritto è attribuito) o al contenuto (quando si esorbita dai limiti di contenuto)100.
Altri ritengono, al contrario, che la buona fede sia utilizzata nel principio dell’abuso del diritto come criterio valutativo delle condotte dei soggetti. Nei rapporti contrattuali, il principio dell’abuso del diritto, moderando le volontà in conflitto tra le parti, si porrebbe come garanzia del buon funzionamento del mercato e la buona fede servirebbe a discernere, di volta in volta, l’abuso delle libertà contrattuali contrapposte, risolvendo il conflitto tra pretese contrattuali astrattamente tutelabili101.
A favore della tesi per cui i principi della buona fede e dell’abuso del diritto si troverebbero in un rapporto di continenza l’uno con l’altro, rientrano anche coloro i quali ritengono che le norme del codice civile concernenti la
98 Cfr., L. CRUCIANI, Clausole generali e principi elastici in Europa: il caso della buona fede e dell’abuso del diritto, in Riv. crit. Dir. priv., 2001, p. 473 ss., il quale ritiene che i concetti siano ancora poco chiari e da definire.
99 Cfr., C. A. NIGRO, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione della nozione di buona fede), in Giustizia civile, 2010, p. 2549.
100 In questo senso, M.R. MORELLI, In margine ad un’ipotesi di collegamento tra “buona fede obiettiva” ed “abuso del diritto”, in Giustizia Civ., 1975, p. 1705.
101 In questo senso, F. DI MARZIO, Abuso di dipendenza economica e clausole abusive, in Riv. dir. comm., 2006, p. 821.
buona fede e la correttezza costituiscono delle possibili varianti del più generale principio dell’abuso, che avrebbe la funzione di sanzionare le condotte contrattuali non comprese da tali norme102. L’abuso viene definito come un comportamento che viola un astratto principio di buona fede implicito e necessario in ogni negozio giuridico.
In termini antitetici a chi ragioni di continenza nel rapporto tra abuso e buona fede, vi sono le teorie che attribuiscono ai due principi piani di applicazione autonomi e distinti.
Il presupposto logico/giuridico da cui muovono queste teorie è l’idea che sia poco proficuo disquisire sul rapporto tra buona fede ed abuso del diritto in termini di continenza o di inclusione. Questa impostazione porterebbe ad un risultato in cui è difficile fissare quale dei due sia la species e quale sia il genus e ad una interscambiabilità e sovrapposizione ormai frequente anche in giurisprudenza, che non darebbe conto della peculiarità e delle caratteristiche dei due principi, confondendoli e lasciando spazio alla possibilità che nell’ambito del giudizio possa rifluire un intento “correttivo” del contratto103.
Alcuni studiosi inquadrano, dunque, l’abuso del diritto, nella materia extra-contrattuale, non ammettendo una sua applicazione in ambito contrattuale dove opererebbe la buona fede. Nell’abuso del diritto, per questa impostazione, sono rilevanti le ragioni e le finalità perseguite e l’emersione di una volontà tesa ad arrecare danno ad altri104.
È vero che, sia l’abuso del diritto, sia la buona fede, sono principi utilizzati come strumenti di controllo degli atti di autonomia privata, ma che tuttavia mantengono una loro distinzione, poiché la buona fede è una regola di controllo relativa alle modalità di esercizio espressamente prevista
102 Cfr., F. PROSPERI, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, in Dir. e prat. Trib., 2012, p. 750.
103 Cfr., C. RESTIVO, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, in Riv. crit. Dir. priv., 2010, p. 342.
104 Così, F. DI CIOMMO, Recesso dal contratto di apertura di credito e abuso del diritto, in
Contratti, 2000, p. 1115 ss.
dall’ordinamento nella sua esecuzione concreta (art.1375 c.c.), mentre nell’abuso del diritto il controllo concernerebbe, semmai, l’aspetto teleologico, ossia relativo all’accertamento di una deviazione di scopo rispetto a quello astrattamente attribuito105.
4. ECCEPTIO DOLI GENERALIS
L’exceptio doli generalis costituisce lo strumento attraverso il quale si interviene sull’esercizio scorretto di una facoltà individuale configurante abuso del diritto e del principio di buona fede contrattuale.
L’istituto rinviene le sue origini nel diritto romano che distingueva tra exceptio doli specialis, cioè il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio e l’exceptio doli generalis, ossia il dolo attuale commesso al momento in cui viene intentata l’azione nel processo.
Nei successivi sistemi di tradizione romanistica come il nostro e quello francese (al contrario di quello tedesco), almeno secondo le affermazioni di principio, era una eccezione disconosciuta. Nell’ultimo secolo, invece, l’eccezione sembra aver superato le antiche diffidenze che lo consideravano uno strumento atto a sovvertire la norma codificata106 e si registra la propensione della dottrina ad ammettere l’opponibilità dell’exceptio (o della replicatio) doli, anche alle fattispecie non testualmente previste dalla legge107.
105 In questo senso G. D’AMICO, Recesso ad nutum, Buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, p. 17; Cfr., C. RESTIVO. Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, cit. p. 345; Cfr., C. SCOGNAMIGLIO, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2010, p. 145.
106 G.L. PELLIZZI, in Novissimo Dig. It., 1960, p. 1075, sostiene che l’eccezione di dolo sarebbe “quasi un cavallo di Troia entro la sicurezza del sistema”; senza, però escludere la sussistenza di speciali ipotesi in cui l’exceptio doli generali possa dirsi specificamente ammessa dal legislatore e sena infine trascurare “quei casi di originaria exceptio doli (ritenzione, compensazione, exceptio, inadimpleti, contractus, ecc.) che si sono ormai inseriti nella logia del sistema assumendovi nome e fisionomia autonomi”.
107 Cfr., F.GALGANO, Degli effetti del contratto, in Commentario del Codice civile, (a cura di) A, SCIALOJA, G. BRANCA , Roma, 1993, p. 101, che ricordando che per le fonti romane
In giurisprudenza è ritenuta ammissibile alla stregua del principio di solidarietà che impone a ciascun contraente di esercitare i propri diritti, selezionando, fra più modalità possibili, quella meno incisiva della sfera giuridica altrui.
E’, infatti, ormai pacifico il suo inserimento nelle strategie difensive per rimediare alle azioni ingiuste o in mala fede, essa, infatti, secondo la Cassazione “sanziona il dolo commesso nel momento stesso in cui l’azione viene proposta in giudizio; tale eccezione si offre come rimedio di carattere generale volto alla reiezione della domanda proposta in contrasto con i principi di correttezza e buona fede, e così ogniqualvolta sia accertato l’esercizio fraudolento o sleale di diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento. Occorre distinguere l’exceptio doli generalis seu praesentis dall’exceptio doli specialis seu praeterit: con quest’ultima è sanzionato il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio, allorché siano posti in essere raggiri diretti a indurre un soggetto a concludere un negozio che non avrebbe concluso o che avrebbe concluso a condizioni diverse. Peraltro, quando dal dolo dipenda la conclusione di un negozio a condizioni più svantaggiose, il deceptus è ammesso a proporre una domanda diretta al risarcimento dei danni a titolo di dolo incidentale (art. 1440 c.c.) con cui è fatta valere una responsabilità precontrattuale”108.
In tema di rapporti obbligatori, si possono richiamare alcuni esempi in cui l’eccezione è stata ritenuta ammissibile, come: l’opponibilità dell’eccezione di dolo da parte del soggetto assuntore di una garanzia personale autonoma nei confronti del creditore, per paralizzare l’escussione
l’exceptio doli fosse “rimedio generale suscettibile di sventare ogni forma di abuso di diritto” coglie la tendenza odierna a restituirgli l’originaria portata generale. Una delle applicazioni legislative si rinviene dell’art. 1993, comma 2, c.c. secondo il quale il debitore, nonostante l’autonomia del rapporto cartolare, può opporre al possessore del titolo di credito le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori se, acquistando il titolo, questi abbia agito intenzionalmente in danno del debitore.
108 Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Riv. dir. civ., 2008, II, p. 223.
della garanzia manifestamente fraudolenta109; il sindacato in ordine all’abusività della domanda giudiziale di risoluzione per inadempimento del contratto a prestazioni corrispettive proposta dal creditore che abbia a disposizione altri rimedi110; il divieto di agire per frazioni di debito111; il diritto di recesso da un rapporto di durata, come esercizio inaspettato da valutare sotto il profilo della buona fede nell’esecuzione del contratto112.
Secondo la dottrina il ricorso allo strumento dell’exceptio doli generalis costituisce un’alternativa ai consueti rimedi risarcitori, permettendo il rigetto della pretesa altrui anche se fondata sullo strictum jus e ciò in virtù di una lamentata scorrettezza nella proposizione della domanda o dell’eccezione113.
Nello stesso senso è stato considerato l’esercizio contraddittorio di una situazione giuridica soggettiva, cioè il venire contra factum proprium
109 Cass., 17 gennaio 2008, n. 903, in Rep. Foro It., 2008, p. 125.; Cass., 16 novembre 2007,
n. 23786, in Giust. civ., 2007, I, p. 100, in tema di polizza fideiussoria; Cass. 17 marzo 2006,
n. 5997, in Foro It., 2007, I, p. 1582 sul contratto autonomo di garanzia; Cass., 18 novembre 1992, n. 12341, in Giust. civ., 1993, I, p. 2765, stesso argomento; Cass., sez.un, 1 novembre 1987, n. 7341, in Giur. It, 1988, I, p. 27.
110 Cass., 31 maggio 2010, n. 13208, in Obbl. e contr., 2011, p. 263, con nota di F. TRUBIANI, Un’ipotesi di utilizzo “scorretto” della risoluzione: un nuovo caso di abuso del diritto?, in un caso di uno sfratto per morosità intimato al conduttore di un complesso termale- alberghiero, in cui il locatore essendo a sua volta debitore del conduttore, in virtù di un diverso rapporto ancora pendente in giudizio, ha preferito pagare la somma dovuta, invece di detrarne l’importo dai canoni ed intimare lo sfratto al conduttore. La Corte ha rilevato: “l’apprezzamento della slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per inadempimento pur avendo altre vie per tutelare i propri interessi non possa non ripercuotersi sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso, che dell’abuso del creditore della prestazione costituisce l’interfaccia”.
111 Cass. sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Foro It., 2008, I, p. 1514, con nota A. PALMIERI-R. PARDOLESI, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile.
112 Cass., 22 novembre 2000, n. 15066, in I Contratti, 2001, p. 791; Cass, 21 maggio 1997,
n. 4538, in Foro It., 1997, I, p. 467, sulla censurabilità dell’improvviso ed inatteso recesso della banca da un rapporto di apertura di credito; Cass., 18 settembre 2009, 20106, in I Contratti, 2009, p. 1009, con nota C. ROMEO, Recesso ad nutum ed abuso del diritto.
113 G.L. PELLIZZI, in Noviss. dig. it., VI, 1960, p. 1077, definisce la exceptio doli come “la giuridica possibilità d’opporsi a un’altrui pretesa (o eccezione) che sarebbe in astratto fondata, ma costituisce in concreto una manifestazione di esercizio del diritto ripugnante alla comune coscienza”.; F. GALGANO, Degli effetti del contratto, in Commentario del Codice civile, cit., p. 100, afferma: “rimedio diverso dall’azione di danni e quello che va sotto il nome dell’exceptio doli (e della replicatio) doli generalis, invocabile quando l’altrui pretesa(o eccezione ) si manifesti in quanto contraria ai principi della buona fede o della correttezza, come doloso esercizio di un diritto: esso è diretto a provocare la reiezione dell’altrui pretesa o eccezione”.
nulli conceditur, cioè il divieto di esercitare un diritto ponendosi in contraddizione con il proprio precedente contegno114.
Il rimedio opera, dunque, nelle situazioni di tensione tra la titolarità formale di un diritto e la soluzione ex fide bona del caso concreto. Ciò da una parte denota l’attenzione per rimedi diversi da quello risarcitorio, dall’altro, però, alimenta il mai sopito dibattito sul rapporto tra certezza del diritto e giustizia.
Nel nostro ordinamento l’eccezione si fonda sulle “clausole generali” di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., ma si può affermare che la discussione sull’abuso del diritto si è arricchita di una ulteriore norma (rispetto ai doveri di correttezza e del “giusto processo” ex art. 111 Cost) e cioè dell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE firmata il 26.2.2001, c.d. Carta di Nizza, che ha riconosciuto un’efficacia diretta della regola che vieta situazioni abuso.
E’ vero, dunque, che l’odierna cultura giuridica ha maturato, sia la consapevolezza che l’accettazione della necessità di mantenere l’ordinamento positivo aperto ad un costante “rapporto dialettico col suo ambiente”115 , sfruttando quelle sue stesse componenti attraverso le quali esso “entra in continua e diretta comunicazione colla realtà sociale e insieme a questi si muta e si rinnova”116, ma, ciononostante, non si può negare che l’eccezione di dolo rimanga uno strumento non semplice da utilizzare e da gestire considerando l’impatto “potenzialmente scardinante di un suo innesto non attentamente ponderato su di una data disciplina” e conseguentemente l’incertezza giuridica che ne deriverebbe. Pertanto “la sua estensione a nuove ipotesi resta una scelta tutt’altro che scontata e la sua applicazione un’operazione tutt’altro che meccanica, richiedendo una precisa
114 F. ASTONE, Venire contra factum proprium, Napoli, 2006, p. 124.
115 L. MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 5 ss.
116 T. ASCARELLI, Certezza ed equità nella giurisprudenza germanica, in Ann. dir. comp, 1930, III, p. 572.
delimitazione del suo ambito di incidenza e uno scrupoloso controllo di coerenza sistematica”117.
E, ciò, soprattutto riguardo alla possibilità di opporre l’eccezione di dolo alle prescrizioni di forma, perché, come illustrava Natalino Irti118: “le forme pongono, in linea di principio, sempre e soltanto un problema strutturale (deve il legislatore dispensarci da questo, e consentire o prescrivere l’esercizio di quell’esame (teleologico). Troppi errori e travisamenti e guasti logici provengono dall’applicazione di un metodo finalistico, che sostituisce, alla secca e rigorosa domanda di struttura (“che cosa è ?”), la vaga e mutevole domanda di scopo (“a che cosa serve?”). La forma dettata dal legislatore, non è uno tra i mezzi idonei a raggiungere lo scopo e perciò fungibile e surrogabile: è l’unico ed esclusivo mezzo, sicché mancando essa, manca e fallisce lo scopo”.
Il problema verrà affrontato nel terzo capitolo, riguardo al vincolo di forma previsto dall’art. 23 TUF e all’ammissibilità dell’exceptio doli da opporre quando la sanzione di nullità per vizio di forma venga utilizzata in maniera selettiva.
Il pensiero prevalente, sembra, infatti, quello di attribuire rilevanza alle finalità della prescrizione di forma119 .
Nel caso della forma ad substantiam prevista dall’art. 23 TUF, questa finalità è, certamente e solamente, quella della protezione del contraente debole.
Si tratta, quindi, di una nullità concepita come rimedio verso un possibile pregiudizio sia ex ante, cioè come disincentivo dall’approfittarsi dell’asimmetria delle posizioni contrattuali, sia ex post, come impedimento alla realizzazione o come cancellazione della condotta scorretta120.
117 Così D. SEMEGHINI, Forma ad substantiam ed exceptio doli nei servizi di investimento, Milano, 2010, p. 49.
118 N. IRTI, in Idola libertatis, Milano, 1985, p. 32.
119 M. GIORGIANNI, Forma degli atti, in Enc. Dir., XII, 1968, p. 999.
120 P.M. PUTTI, L’invalidità nei contratti del consumatore, in Trattato, III, 2003, p. 504, che, in riferimento al vincolo di forma nei contratti bancari, sostiene che “la nullità comminata per la violazione della prescrizione formale sanziona non tanto una deficienza dell’atto o la
Nei casi, pertanto, in cui la parte debole del contratto selezioni arbitrariamente gli investimenti effettuati invocandone la nullità approfitterebbe scorrettamente della tutela garantitagli e ciò potrebbe essere contrastato con il ricorso all’exceptio doli generalis.
Il problema, come vedremo, è stato affrontato in maniera sempre diversa sia dalla giurisprudenza di merito che da quella di legittimità ed è ora all’esame della Sezioni Unite della Suprema Corte.
sua contrarietà intrinseca all’ordinamento, ma piuttosto il comportamento scorretto della parte “forte” del rapporto”.
CAPITOLO III
L’ABUSO DEL CONTRAENTE DEBOLE - IL PROBLEMA DELL’ ECCESSO DI TUTELA
Sommario: 1. La giurisprudenza sulla “vacanza rovinata” - 2. Abuso del principio dell’interpretatio contra stipulatorem - 3. Abuso del diritto di recesso previsto dall’art. 30 TUF - 4. Nullità di protezione - l’art 23 TUF –
4.1. Differenza tra TUF e TUB - l’inapplicabilità del contratto monofirma al TUB – 4.2. L’abuso di nullità selettiva – 4.3. Gli orientamenti giurisprudenziali contrari all’utilizzo opportunistico della nullità selettiva.
1. LA GIURISPRUDENZA SULLA “VACANZA ROVINATA”
La normativa a protezione della parte debole ha aperto un varco alle iniziative giudiziarie tese ad un contro bilanciamento delle posizioni di forza rimodellate proprio in seguito agli interventi legislativi a favore della parte cosiddetta debole nel rapporto contrattuale. Nell’ambito del vasto panorama dell’abuso del diritto si è aggiunta, quindi, una casistica specifica prodotta da norme di protezione esposte a manipolazioni ed abusi. Il campo di osservazione si è allargato toccando problematiche legate al tema del danno morale, come nel caso della c.d. “vacanza rovinata”, e molto di più in materia di intermediazione mobiliare.
In questo capitolo si tenterà di rappresentare almeno una parte delle problematiche emerse mediante un rinvio ragionato alle sentenze, ma con una premessa di incompiutezza determinata proprio dal fatto che talune questioni sono ancora al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alle quali i giudici delle sezioni semplici hanno rinviato le complesse e articolate questioni sollevate dalle parti in causa.
Con il d. lgs. n. 62 del 2018 è stata recepita la Direttiva UE n. 2015/2302 relativa ai pacchetti turistici ed ai servizi turistici collegati ed è stato modificato il Codice del Turismo (D.lgs. n. 70 del 2011). Lo scopo
della Direttiva era quello di aggiornare la normativa in materia, per agevolare il corretto funzionamento del mercato interno e favorire il conseguimento di un più elevato e uniforme livello di tutela dei consumatori europei.
Il settore del turismo ha trovato riconoscimento nel diritto europeo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2007. L’art. 195 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) stabilisce che “l'Unione completa l'azione degli Stati membri nel settore del turismo, in particolare promuovendo la competitività delle imprese dell'Unione in tale settore”.
Dopo il riconoscimento di una specifica competenza dell’Unione Europea nel settore del turismo, è stata messa in evidenza l’esigenza di modernizzare le regole sui pacchetti turistici in considerazione del fatto che, dopo la direttiva 90/314/CEE (sui pacchetti “tutto compreso”), il mercato del turismo era profondamente cambiato in considerazione dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che avevano modificato la relazione tra l’industria del turismo e la sua clientela.
Nella causa Club Tour C-400/00121, la Corte di Giustizia aveva stabilito che la tutela prevista dalla Direttiva 90/314/CEE era applicabile anche ai viaggi “personalizzati” offerti dalle agenzie di viaggio. Il problema si era posto però sull’estensione di tale tutela anche alle vendite online non sussistendo sull’argomento un’espressa previsione normativa. Inoltre, poiché la direttiva del 1990 lasciava un’ampia discrezionalità ai legislatori nazionali, si era creata una disparità di condizioni per gli operatori turistici nei diversi Stati membri.
La direttiva (UE) 2015/2302 è stata quindi adottata proprio al fine di garantire l’uniformità del mercato interno dell’Unione.
Il soggetto tutelato dalla nuova Direttiva è il “viaggiatore”, cioè “chiunque intenda concludere un contratto o è autorizzato a viaggiare in base ad un contratto concluso nell’ambito di applicazione della [presente]
121 Corte di Giustizia, sez III, 30 aprile 2002, C-400/00, in il foro italiano, 2002, p. 330 ss.
direttiva”. Quindi, può essere qualificato viaggiatore chiunque stipuli un contratto indipendentemente dalle qualità soggettive o dalle finalità del viaggio.
La normativa a tutela del “viaggiatore” ricalca quella prevista per tutti i contratti c.d. asimmetrici, infatti, l’organizzatore del viaggio è obbligato a fornire, prima della conclusione del contratto, informazioni chiare e comprensibili sui principali obblighi e diritti derivanti dal contratto ed una copia di questo deve essere consegnata al viaggiatore. Viene disciplinata anche la possibilità da parte dell’organizzatore di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali a condizione che:
a) l’organizzatore si sia riservato tale diritto;
b) la modifica sia di scarsa importanza;
c) l’organizzatore dia notizia della modifica al viaggiatore in modo chiaro, comprensibile ed evidente.
E’, inoltre, prevista la facoltà per il viaggiatore di recedere, gratuitamente e senza alcuna penale, prima della partenza, nel caso in cui nel paese di destinazione o nelle immediate vicinanze si siano verificate circostanze eccezionali ed inevitabili che incidano sostanzialmente sull’esecuzione del viaggio, con il diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati, ma senza un indennizzo supplementare.
Già il codice del turismo del 2011 aveva individuato il danno da vacanza rovinata nel caso di inadempimento o inesatta esecuzione delle prestazioni oggetto del pacchetto turistico. Era previsto che, qualora l’inadempimento “non sia di scarsa importanza ai sensi dell’art. 1455 del codice civile, il turista può chiedere, oltre e indipendentemente dalla risoluzione del contratto, un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta”.
In giurisprudenza il danno non patrimoniale da “vacanza rovinata” è stato definito come il “disagio psico-fisico conseguente alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata”, e, secondo un orientamento giurisprudenziale, “la raggiunta prova
dell’inadempimento esaurisce in sé la prova anche del verificarsi del danno, atteso che gli stati psichici interiori del turista, per un verso, non possono formare oggetto di prova diretta e, per altro verso, sono desumibili dalla mancata realizzazione della “finalità turistica” (che qualifica il contratto) e dalla concreta regolamentazione contrattuale delle diverse attività e dei diversi servizi, in ragione della loro essenzialità alla realizzazione dello scopo vacanziero”122.
Precedentemente, con la sentenza n. 5189123 , la Corte di Cassazione aveva riconosciuto risarcibile il danno ex art. 2059 c.c. in quanto previsto dalla legge124 oltre che “costantemente predicato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”125.
122 Cass., 11 maggio 2012, n. 7256, in Ilcaso.it.
123 Cass., 4 marzo 2010, n. 5189, in Personaedanno.it, aveva precisato che “con il contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico -tutto compreso- sottoscritto dall’utente sulla base di una articolata proposta contrattuale, spesso basata su un depliant illustrativo, l’organizzatore o il venditore assumono specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera, livello dei servizi etc., che vanno “esattamente” adempiuti; pertanto ove la prestazione, non sia esattamente realizzata, sulla base di un criterio medio di diligenza ex. art.1176 c.c., comma 1 (da valutarsi in sede di fase di merito), si configura responsabilità contrattuale, tranne nel caso in cui organizzatore e venditore non forniscano adeguata prova di un inadempimento ad esso non imputabile”.
124 In realtà, i giudici di merito italiani in Trib. Torino, 8 novembre 1996, in Personaedanno.it, avevano già più volte aggirato l’ostacolo dell’art. 2059 c.c., facendo rientrare tra i casi previsti dalla legge, la Convenzione Internazionale di Bruxelles (CCV) del 1970, che all’art. 13 dispone che “organizzatore di viaggi risponde di qualunque pregiudizio causato al viaggiatore a motivo dell’inadempimento totale o parziale dei suoi obblighi di organizzazione”. Tale espressione ripresa dalla legge n. 1084 del 1977, che ha reso esecutiva in Italia la su citata convenzione, individua bene quel fenomeno normativo che l’art. 2059 c.c. richiede per consentire il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale. Un diverso indirizzo giurisprudenziale ha collegato tale tipo di danno a quello esistenziale. Altri giudici hanno preferito collocarlo nell’alveo della più ampia figura del danno biologico. Non erano mancate tuttavia pronunce che sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c., hanno continuato ad escludere la possibilità del riconoscimento di tale tipo di danno Trib. Venezia, 24 settembre 2000, n. 2169, in confconsumatori.it, che ha stabilito “in tema di contratto di viaggio turistico, in caso di inadempimento dell’organizzazione non può accogliersi la domanda giudiziale di risarcimento dei danni non patrimoniali c.d. da vacanza rovinata, atteso che la limitazione della responsabilità alle sole conseguenze penali degli illeciti aquilani non appare superabile allo stato della legislazione”.
125 Un Giudice d’Appello austriaco sottoponeva alla suddetta Corte di Giustizia tale quesito
– se l’art. 5 della direttiva del Consiglio 314/90, concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti tutto compreso, dovesse essere interpretato nel senso che è, in linea di principio, dovuto l’indennizzo a fronte di domande di risarcimento di danni morali. - La Corte di Giustizia, Sez.VI, 12.03.2002, nella causa C-168/00, in personaedanno.it decideva in favore della soluzione affermativa. Tale sentenza è stata accolta con un certo entusiasmo. Il fatto che si riduca sempre più il tempo in cui si può andare in vacanza, rende il momento delle ferie un
La sentenza n. 7256/2012 ha affrontato un ulteriore aspetto, cioè, se, qualora il contratto sia stato eseguito inesattamente, la lesione del diritto alla vacanza contrattualmente pattuita debba essere o meno grave, nel senso che ai fini del risarcimento l’offesa di tale interesse debba superare una soglia minima di tollerabilità.
I giudici hanno ritenuto che i limiti discendano dall’art. 2 della Costituzione, infatti, nella sentenza si legge “in riferimento ai diritti inviolabili della persona, la necessità della gravità della lesione dell’interesse, che per essere risarcibile deve superare una soglia minima di tollerabilità, trova fondamento nel dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost. che impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza (Sez. Un. n. 26972 del 2008), e, quindi in riferimento al rapporto tra singolo individuo e singoli, ma indifferenziati, individui componenti la società civile”.
Per quanto riguarda il diritto alla vacanza contrattualmente pattuita è stato stabilito che “la necessità della gravità della lesione dell’interesse e il superamento di una soglia minima di tollerabilità, trova fondamento nella sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, che (secondo gli orientamenti attuali di dottrina e giurisprudenza, es. Sez. Un 15 novembre 2007, n. 23726) accompagna il contratto in ogni sua fase; regola specificativa – nel contesto del rapporto obbligatorio tra soggetti determinati – degli inderogabili doveri di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., e la cui violazione può essere indice rivelatore dell’abuso del diritto”. La sentenza continua affermando che “la richiesta di risarcimento di danni non patrimoniali per disagi e fastidi da qualificarsi minimi, avuto presente
tempo in cui si anelano carichi di speranze, che qualora vengano deluse provocano il così detto “emotional stress”.
La Corte di Giustizia Europea con la sentenza n. 168 del 12.03. 2002, in Diritto.it, aveva affermato che l’art. 5 della Direttiva n. 90/314/CEE doveva essere intrepretato nel senso che “in linea di principio il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio tutto compreso”.
la causa in concreto del contratto, contrasterebbe con i principi di correttezza e buona fede e di contemperamento dei contrapposti interessi contrattualmente pattuiti, e costituirebbe un abuso, in danno del debitore, della tutela concordata al consumatore/creditore. In mancanza di delimitazioni normative, spetta al giudice del merito, salvo il controllo di legittimità, in ordine alla logicità della motivazione, individuare il superamento o meno di tale soglia, avuto riguardo alla causa in concreto
– costituita dalla “finalità turistica”, che qualifica il contratto “determinando l’essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero” (Cass. 24 luglio 2007, n. 16315) emergente dal complessivo assetto contrattuale, e considerando l’autonoma valutabilità dell’interesse allo svago e riposo rispetto al danno patrimoniale subito, atteso che il primo, a seconda del peso della prestazione contrattuale non adempiuta, può ben superare il secondo e non può appiattirsi su questo”126.
Con la sentenza in esame i Giudici di legittimità sembrano aver preso posizione su due questioni.
In primo luogo il turista deve essere considerato un soggetto debole nei rapporti con l’organizzatore, sul presupposto che è inesperto e non possiede i mezzi per porre autonomamente rimedio a situazioni impreviste.
Sulla base di questa presuntiva condizione, la Corte ha accolto domande di risarcimento del danno sulla sola deduzione dell’inadempimento (non di scarsa importanza) del professionista. Si è affermato che qualora l’organizzatore non adempia ad una obbligazione prevista nel contratto, il turista potrà agire per richiedere il risarcimento del danno morale da vacanza rovinata, il cui ammontare sarà calcolato in considerazione dell’occasione perduta e del mancato raggiungimento dello scopo ricreativo proprio del contratto.
126 Il principio è stato recentemente ribadito dalla Cassazione con l’ordinanza n. 6830 del 16 marzo 2017, in altalex.com.
Ma la tutela concessa al contraente debole non deve però considerarsi, nonostante la funzione protettiva, un diritto incondizionato.
Su questo aspetto si è concentrata la seconda questione analizzata dalla Corte che, in assenza di una previsione normativa sui limiti del diritto ad agire per il risarcimento della parte debole, individua nell’abuso del diritto lo strumento per sindacarne l’esercizio illegittimo.
La chiave di lettura del comportamento fornita dall’art. 2 della Costituzione127 consente di calibrare il giudizio su quello che è stato definito “indice dell’abuso del diritto”128. Tale impostazione è la base da cui i giudici sono partiti per perequare il diritto del turista con quello del professionista. Si è affermato che ogni rapporto giuridico deve essere conforme ai doveri di solidarietà sociale i quali, nel caso in questione, si manifestano con il dovere del turista di sopportare minime alterazioni del programma di viaggio che in realtà non ostacolano la finalità ricreativa, e quindi, non inficiano la causa del negozio, ma ne rendono, semmai, meno godibile il risultato.
E’, dunque, sulla base del principio di tollerabilità e della sua graduazione, rimesso caso per caso al prudente apprezzamento del giudice del merito, che si delinea il perimetro entro il quale si radicano le pronunce in tema di danno morale da vacanza rovinata o di abuso del diritto.
2. ABUSO DEL PRINCIPIO DELL’ INTERPRETATIO CONTRA
PROFERENTEM
Tra i casi in cui il contraente debole si è trovato nella condizione di poter esercitare in modo abusivo le tutele che il legislatore ha adottato a suo favore vi rientra anche quella attinente alla interpretazione delle clausole con più significati non convergenti.
127 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
128 Vedi amplius cap. 2.
L’articolo 35, comma 2, del Codice del Consumo, prescrive che “In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore”.
È evidente come la regola ermeneutica stabilita dall’art 35, se applicata per il perseguimento di risultati difformi rispetto alla ratio della disciplina, potrebbe portare al paradosso di un abuso degli strumenti a tutela129.
La disposizione è applicabile nell’ipotesi in cui “nei contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto” siano oggettivamente possibili due o più interpretazioni della clausola.
Ci si è domandati se “l’interpretazione più favorevole al consumatore” debba operare indistintamente oppure a seguito di una valutazione soggettiva, con la conclusione di dover escludere l’applicazione dell’istituto della interpretatio contra stipulatorem quando il consumatore sia apparso ragionevolmente consapevole del significato da assegnare a una determinata clausola, anche se oggettivamente dubbia130.
Gli orientamenti giurisprudenziali esaminati sembrano ribadire la configurazione dell’abuso del diritto come l’esercizio finalizzato al conseguimento di risultati difformi rispetto alla ratio della disciplina. Ora partendo dal presupposto che l’art. 35, comma 2, come tutta la disciplina consumeristica, sia concepito con lo scopo di proteggere il consumatore, si può affermare che nell’ipotesi in cui il consumatore avesse compreso e consapevolmente accettato il significato della clausola che il professionista intendeva dare, una successiva richiesta di interpretare nuovamente la clausola in maniera a sé più favorevole non potrebbe che considerarsi abusiva.
129 Per approfondimenti sul tema dell’interpretazione dei contratti del consumatore Cfr., M. D’AURIA, L’interpretazione del contratto nel diritto privato europeo, Milano, 2012, p. 24;
B. SIRGIOVANNI, Interpretazione del contratto non negoziato con il consumatore, in Rass. dir. civ., 2006, p. 718 ss; S. MARTUCELLLI, l’interpretazione dei contratti del consumatore, Milano, 2000, passim.
130 Cfr., A. GENTILI, Senso e consenso, storia, teoria e tecnica dell’interpretazione dei contratti, Torino, 2015 p. 607.
Diversamente non si potrebbe configurare alcun abuso nel caso in cui si ritenesse che la ratio della norma fosse quella di garantire anche o soprattutto l’interesse generale dell’efficienza del mercato131.
3. ABUSO DEL DIRITTO DI RECESSO PREVISTO DALL’ART. 30 T.U.F.
Nel mercato degli strumenti finanziari è data la possibilità di collocare presso il pubblico retail titoli azionari od obbligazioni fuori dalle sedi istituzionali degli intermediari. Si tratta di negoziazioni che offrono profili di particolare delicatezza in relazione alla natura dell’oggetto. I titoli rappresentativi dei valori scambiati, infatti, offrono poche informazioni sulle proprie caratteristiche e, comunque, di tale complessità che risultano difficilmente comprensibili anche per un utente esperto. Inoltre, il mercato finanziario è soggetto a repentini mutamenti che incidono sul valore dei beni. Si pensi ai casi di default in cui sono incorse importanti società e addirittura stati. La forma dei contratti conclusi fuori sede è, quindi, strutturata proprio per offrire un’ulteriore protezione all’investitore rispetto ai contratti stipulati presso gli uffici o le agenzie bancarie, perché oltre agli aspetti relativi alla difficoltà della materia si aggiunge la sollecitazione all’acquisto ad personam che non sussiste, o è comunque meno preminente, nei casi in cui il risparmiatore si reca in sede con la già maturata decisione di effettuare un investimento finanziario.
Su tali presupposti la normativa in esame ha previsto la facoltà di recesso dell’investitore dall’acquisto effettuato fuori sede e la nullità del contratto che non prevede l’informativa su detta facoltà.
131 Su come sia fondamentale l’inserimento nell’ordinamento di strumenti a tutela del consumatore Cfr. M. ASTONE, Il consumatore medio nel diritto interno e comunitario, Milano, 2009, p 112. Sulla fiducia nel mercato garantita dalle regole a tutela del consumatore Cfr., F. BOCCHINI, Nozione normativa di consumatore e modelli economici. Studi in onore di Schlesinger, Milano, 2004, p. 2374.
L’art. 30 del TUF recita: “1. Per offerta fuori sede si intendono la promozione e il collocamento presso il pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell'emittente, del proponente l'investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) di servizi di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio.
2. Non costituisce offerta fuori sede quella effettuata nei confronti di
investitori professionali, come definiti con regolamento della CONSOB, sentita la Banca d'Italia.
3. L'offerta fuori sede di strumenti finanziari può essere effettuata: a) dai soggetti autorizzati allo svolgimento del servizio previsto dall'articolo 1, comma 5, lettera c); b) dalle società di gestione del risparmio e dalle SICAV, limitatamente alle quote e alle azioni di OICR.
4. Le imprese di investimento, le banche, gli intermediari finanziari iscritti nell'elenco previsto dall'articolo 107 del T.U. bancario e le società di gestione del risparmio possono effettuare l'offerta fuori sede dei propri servizi d'investimento. Ove l'offerta abbia per oggetto servizi prestati da altri intermediari, le imprese di investimento e le banche devono essere autorizzate allo svolgimento del servizio previsto dall'articolo 1, comma 5), lettera c).
5.Le imprese di investimento possono procedere all'offerta fuori sede di prodotti diversi dagli strumenti finanziari e dai servizi d'investimento, le cui caratteristiche sono stabilite con regolamento dalla CONSOB, sentita la Banca d'Italia.
6. L'efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede ovvero collocati a distanza ai sensi dell'articolo 32 è sospesa per la durata di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione da parte dell'investitore. Entro detto termine l'investitore può comunicare il proprio recesso senza spese né corrispettivo al promotore finanziario o al soggetto abilitato; tale facoltà è indicata nei moduli o formulari consegnati all'investitore. La medesima
disciplina si applica alle proposte contrattuali effettuate fuori sede ovvero a distanza ai sensi dell'articolo 32.
7. L'omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente.
8. Il comma 6 non si applica alle offerte pubbliche di vendita o di sottoscrizione di azioni con diritto di voto o di altri strumenti finanziari che permettano di acquisire o sottoscrivere tali azioni, purché le azioni o gli strumenti finanziari siano negoziati in mercati regolamentati italiani o di paesi dell'Unione Europea.
9. Il presente articolo si applica anche ai prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari e dai prodotti indicati nell'articolo 100, comma 1, lettera f)”.
Attraverso la sospensione, per l’investitore, dell’efficacia della vendita per sette giorni, quando l’acquisto è avvenuto fuori sede, il legislatore ha inteso correggere le eventuali distorsioni negoziali derivanti dal rischio, per il risparmiatore, di assumere iniziative e prendere decisioni poco meditate, assicurando, quindi, un corretto equilibrio fra le posizioni dei due contraenti. Il risparmiatore, nel periodo di sospensione, ha la facoltà di recedere dall’acquisto e la mancata indicazione di questo suo jus poenitendi nel contratto quadro comporta la sanzione della nullità (relativa)132.
Sul tema sia la giurisprudenza, che gli interventi legislativi erano, in una prima fase, orientati sostanzialmente su due tesi contrapposte: una teoria che, fondandosi sul dato letterale, dava una interpretazione restrittiva della norma e limitava lo jus poenitendi al collocamento di strumenti finanziari ed alla gestione di portafogli individuali133 ed una teoria estensiva che
132 Cfr., M. FOSCHINI, Il diritto del mercato finanziario, Milano, 2008, p. 33, il quale evidenzia la funzione di garanzia per l’investitore della clausola, in quanto gli consente di valutare con “tranquillità” la convenienza dell’operazione conclusa.
133 Cfr., F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2012, p. 178; L. DI BRINA, Contratti del risparmiatore. Negoziazione fuori dei locali commerciali. Collocamento e offerte fuori sede., in I contratti dei risparmiatori, (a cura di) F. CAPRIGLIONE, Milano, 2013, p.365.; Cass. n. 2065, 14. Febbraio.2012, in Banca, borsa, tit.
considerava la locuzione “collocamento presso il pubblico” una formula da interpretarsi in senso ampio e, dunque, comprensiva di tutti i servizi di investimento134.
Prima dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sul punto, la giurisprudenza che aderiva alla tesi “restrittiva” aveva ritenuto che l’art. 30 del T.U.F. non fosse applicabile alle mere operazioni di negoziazione, effettuate in attuazione di un contratto per la prestazione di servizi di investimento, in quanto tali operazioni non potevano rientrare nel concetto di “collocamento” che doveva essere inteso in senso tecnico, riferibile cioè solo all’offerta di strumenti finanziari a condizioni standardizzate emessi a condizioni di tempo e prezzo predeterminati e, quindi, all’offerta rivolta al pubblico in genere oppure a talune categorie di investitori nell’ambito di una operazione destinata ad una moltitudine indistinta di soggetti.
Il Tribunale di Biella con la sentenza 17 luglio 2008135, ad esempio, aveva ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 30 e la conseguente nullità per l’omissione dell’avviso relativo al recesso non poteva applicarsi alla semplice negoziazione fuori sede (così come alla ricezione e trasmissione ordini). In questo modo, infatti, la tutela dell’investitore avrebbe consentito a quest’ultimo di approfittare delle dinamiche del mercato trattenendo i risultati delle sole operazioni ritenute convenienti e scaricando sull’intermediario le operazioni in perdita, in considerazione del fatto che mentre nel collocamento il prezzo rimane bloccato durante il periodo di sospensione dell’efficacia del
cred., II, 2013, p. 137 con nota di F. ACCETTELLA, Ancora sui contratti di collocamento di strumenti finanziari conclusi fuori sede ex art. 30 comma 6°, Tuf ; M. LOBUONO, La responsabilità degli intermediari finanziari, Napoli, 1999, p. 248, parla di un “sovrappiù di tutela": l’effetto sorpresa non si configurerebbe quando l’offerta sia stata effettuata nei confronti di clienti professionali, in quanto non esposti al rischio di decisioni affrettate ed indotte dalle iniziative dell’altro contraente.
134 In giurisprudenza: Trib. Bari, 26 febbraio 2007, Trib. Milano 4 aprile 2007, Trib Milano
17 aprile 2007, Trib. Bologna 17 aprile 2007, in Banca, borsa e tit. cred., 2008, II, p. 758 ss. In dottrina: G. LIACE, Diritto di recesso, contratti collegati e tutela del consumatore: la vicenda 4you, in Banca &Banchieri, n. 2\2012, p. 254.; R.F.SCHIAVELLI, Il contratto di collocamento, in I contratti del mercato finanziario (a cura di) GABRIELLI-LENER, Torino, 2004, II, p. 1025 ss.
135 In ilcaso.it. In senso conforme: Trib. Torino, 18 settembre 2007, Trib. Termini Imerese, 6 dicembre 2012, App. Brescia, 20 giugno 2007, in ilcaso.it.
contratto, nelle operazioni di negoziazione il prezzo è soggetto alle fluttuazioni del mercato anche in pendenza del termine per l’esercizio del potere di recesso, con il conseguente indebito vantaggio a favore dell’investitore, in contrasto con l’elemento di primaria importanza causale dell’alea che contraddistingue le negoziazioni finanziarie136.
La tesi restrittiva faceva, dunque, perno su esigenze di tutela della certezza e della speditezza degli scambi, per evitare l’incertezza delle operazioni in quanto rimesse ad una valutazione discrezionale dell’investitore in ordine all’eventuale recesso137.
La teoria estensiva si fondava, invece, sulla considerazione che il risparmiatore deve essere tutelato perché parte debole dei rapporti contrattuali.
Secondo alcuni, infatti, la ratio dell’art. 30, comma 6, è quella della necessità di dare un’adeguata tutela al cliente dell’intermediario, che, in caso di offerta fuori sede, è potenzialmente esposto al c.d. “effetto sorpresa”138.
Alcuni hanno ritenuto che la soluzione, per ovviare a quella mancanza di capacità che ha il contraente debole preso alla sprovvista, possa essere
136 In tal senso Cass. Civ., Ordinanza 21 giugno 2012, n. 10376,, in Foro It. 2012, p. 3043. 137 Cfr., F.BRUNO e A.ROZZI, Incompatibilità ed inapplicabilità del diritto di recesso ex art. 30 comma 6 T.u.f. rispetto al servizio di negoziazione, in Corriere Giur, 2013, 3, p. 368, che affermano “tale interpretazione dell’art. 30, comma 6 trova ulteriore conforto: (i) nella considerazione del disposto del comma 6 dell’articolo in questione, che esclude la configurabilità dell’offerta fuori sede (pur nella sussistenza delle condizioni indicate nel comma 1) quando questa sia stata effettuata nei confronti di clienti professionali, cosi confermando l’intento di tutela dell’investitore dal rischio di assumere iniziative poco meditate, non essendo all’evenienza ravvisabile detto rischio nel caso di offerta ad operatore di peculiare competenza, in quanto tale non esposto al rischio di decisioni affrettate ed indotte dalle subite iniziative dell’altro contraente; (ii) nell’esigenza di privilegiare una interpretazione che tenga conto degli effetti eccezionali della disposizione (l’efficacia dell’accordo è infatti sospesa ex lege per la durata di sette giorni termine entro il quale l’investitore può esercitare il diritto di recesso) e dei riflessi che la stessa è potenzialmente idonea a determinare”.
138 Cfr. U. BRECCIA, La contrattazione su valori mobiliari ed il controllo della contrattazione sorprendente, in La vendita “porta a porta di valori mobiliari, a cura di Bessone e Busnelli, Milano, 1992, p. 19, il quale ritiene che il fattore sorpresa appare come “un momento problematico…che costringe l’interprete a prendere coscienza della complessità del diritto contemporaneo”. Rileva l’effetto sorpresa nella contrattazione bancaria A. DOLMETTA, Trasparenza dei prodotti bancari, Regole, Bologna, 2013, p. 98, nota 41.
rinvenuta nell’art. 1337 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. In seguito ai contrasti giurisprudenziali la Suprema Corte con l’ordinanza n. 10376/2012139 ha rimesso al Primo Presidente della Corte, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, la questione concernente l’ambito di applicazione del diritto di ripensamento in tema di contratti conclusi fuori
sede.
Sostanzialmente, basandosi sulla ratio legis sopra delineata, si è ritenuto che l’esigenza di tutela della parte debole suggerisca di affermare che: “il diritto di recesso accordato dal sesto comma dell’art. 30, d.lgs 58 del 1988 e la previsione di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo settimo comma, trovano espressione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia avvenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario a favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio di investimento diverso ove occorra la stessa esigenza di tutela”.
Così si sono espresse le Sezioni Unite140che hanno, dunque, considerato la locuzione “collocamento presso il pubblico” una formula che deve essere interpretata in senso ampio e cioè comprensiva di tutti i servizi di investimento141.
139 Cass., 21 giugno 2012, n. 10376, in ilcaso.it
140 Cass., 3 giugno 2013, n. 13905, in ilcaso.it.
141 Le Sezioni Unite si sono distaccate dall’opposta lettura adottata dalla sentenza della Prima Sezione, 14 febbraio 2012, n. 2065, in ilcaso.it, che aveva stabilito che “Il diritto di recesso previsto a favore dell’investitore per i contratti conclusi fuori sede e la connessa sanzione di nullità del contratto per la mancata comunicazione all’investitore del diritto di recesso medesimo non si applica al contratto per la prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari” e dalla sentenza22 marzo12, n. 4564, in ilcaso.it che sosteneva che “In materia di servizi di investimento, l’art. 1, 5° comma, testo unico delle disposizioni in materia d’intermediazione finanziaria ne chiarisce la natura di singole specie, rientranti in un unico genere, che fruiscono di una disciplina tra loro comune, ma talvolta differenziata in relazione al particolare tipo di servizio, onde, in applicazione del criterio di interpretazione letterale, laddove l’art. 30 6° comma, stesso testo unico, si riferisce ai contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestone di portafogli individuali, intende dettare una disciplina
Inoltre, prosegue la sentenza: “(…) si intende, poi, che la disciplina del recesso di cui si sta parlando non può che riguardare i singoli rapporti negoziali in base ai quali, di volta in volta, l’investitore si trovi a sottoscrivere uno strumento finanziario offertogli dall’intermediario fuori sede, e non la stipulazione del c.d. contratto-quadro, che di per sé non implica l’acquisto di strumenti finanziari ed è perciò estranea alla nozione di “collocamento”, sia pur latamente intesa”.
La conseguenza è che gli ordini di acquisto, se raccolti fuori sede, sono sempre nulli se il risparmiatore non viene avvertito della facoltà di poter recedere entro sette giorni.
Sennonché la sentenza affronta anche il problema dei possibili “comportamenti opportunistici da parte dell’investitore” derivanti dal fatto che “durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto le condizioni di mercato potrebbero mutare”, con la conseguenza che l’investitore potrebbe decidere di far valere la nullità sancita dal comma 7 in quanto indotto a ciò “dalle oscillazioni di valore”142.
Nonostante si fosse potuto considerare irrilevante il problema dell’“opportunismo” dell’investitore, in considerazione del fatto che quando sia stata statuita una causa di nullità è insindacabile lo scopo o il motivo per cui essa sia fatta valere, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione ritenendo che “il rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona fede, che deve presidiare qualsiasi rapporto contrattuale”143.
peculiare, come tale limitata a siffatte tipologie di contratti con esclusione degli altri elencati nel citato art. 1, ivi compresa la negoziazione di titoli.”
142 Problema approfondito dalla dottrina: Cfr., M. MAGGIOLO, Servizi ed attività d’investimento, in Tratt. CICU-MESSINEO-MENGONI, Padova, 2012, p. 312 e ss. nota 337, D. MAFFEIS, Investimenti fuori sede e difetto di indicazione della facoltà di recesso, in Riv. Dir. Banc. 15, 2013, p.3, A. DOLMETTA-U. MINNECI-U. MALVAGNA, Lo ius poenitendi tra sorpresa e buona fede a proposito di Cass. SS. UU. n. 1390572013, in Riv. Dir. Banc., 16, 2013, p. 4.
143 Il riferimento delle Sezioni Unite alla buona fede è innovativo rispetto alle precedenti pronunce di legittimità, che facevano riferimento alla frode nell’esercizio dell’azione, per
In conclusione l’orientamento portato dalla sentenza citata conduceva a ritenere che non fosse possibile dare immediata esecuzione all’ordine raccolto fuori sede dal promotore con la conseguenza che le oscillazioni di prezzo tra la data dell’ordine e la sua concreta esecuzione sarebbero rimaste a carico dell’intermediario.
Si è però ritenuto, da parte degli intermediari, che una siffatta metodologia di scambio avrebbe ostacolato la fluidità del mercato; altri invece hanno sostenuto che tale interpretazione dell’art. 30 avrebbe offerto al cliente la possibilità di riflettere liberamente sull’effettiva opportunità di acquistare un titolo che nell’arco di sette giorni esibisca sensibili oscillazioni di prezzo ritenendo di valorizzare il principio della salvaguardia dell’integrità del mercato inteso come “conformazione di un mercato non rischioso che a sua volta è condizione essenziale sia per un’effettiva tutela del risparmio, sia per la salvaguardia del sistema economico nel suo complesso”144.
Dopo il deposito della sentenza delle Sezioni unite l’art. 30 Tuf è stato modificato con l’art. 56-quater d.l. 21 giugno 2013 n. 60 (c.d. decreto del fare), convertito con la l. 9 agosto 2013 n. 98 che dispone: “All’articolo 30, comma 6 del decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, dopo il secondo periodo è aggiunto il seguente: “Ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’art 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a
classificare l’esercizio del diritto di recesso come non corretto: Cfr. Cass., 20 marzo 2009, n. 6896, in Foro It. Rep. 2009, voce “Contratto in genere”; Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Banca Borsa e tit. cred, 2007, II, p. 69. In dottrina critici: A. BULGARELLI, 1,2,3, stella: per le Sezioni Unite il diritto di recesso spetta all’investitore per ogni vendita fuori sede, in dirittoegiustizia.it, il quale ha rilevato che “dovrebbe essere considerato insindacabile il fine e il motivo che hanno determinato il contraente a far valere una causa di nullità. Pare evidente infatti che ove egli decida di esercitare, anche a distanza di tempo (art. 1422 c.c.), l’azione di nullità sarà perché ne avrà motivo e convenienza. E la convenienza non può essere mai identificata con l’abuso e la frode”.; A. GUARNIERI, Il diritto di recesso ed i contratti di vendita di strumenti finanziari fuori sede: commento a Cass. SS.UU. n. 13905\13, in diritto.it.
144 G. LA ROCCA, L’offerta fuori sede di strumenti finanziari in cassazione e l’art. 56 quater del D.L. del fare, ottobre 2013, in il caso.it.
decorrere dal 1° settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’art. 1, comma 5 lettera a)”.
Con il c.d. Decreto del Fare il legislatore ha confermato che, dal 1° settembre 2013, il diritto di ripensamento si applica indistintamente ai servizi di collocamento, di gestione individuale e di negoziazione.
Con la sentenza n. 7776/2014145 la Cassazione ha ulteriormente ritenuto che l’intervento effettuato dal D.L. n. 69 del 2013 non può ritenersi norma di interpretazione autentica e non ha l’effetto di sanare eventuali nullità dei contratti di investimento laddove gli stessi, stipulati prima del 1° settembre 2013, fossero risultati privi della clausola sullo jus poenitendi.
Infine, con la sentenza n. 1368/2015146 la prima sezione civile della Cassazione, nel ribadire l’interpretazione data dalla Sezioni Unite all’art. 30 T.U.F., ha affermato che, anche se si tratta di nullità di protezione, deve essere rilevata d’ufficio, perché posta a protezione di valori generali che trascendono quelli del singolo, quali ad esempio il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza dei contraenti (art. 3 Cost).
I principi fissati dalla Sentenza delle Sezioni Unite e dalla sentenza n. 7776/2014, citata, sono stati ribaditi recentemente anche dalla sentenza Cass. n. 25996/2018147.
Si può sostenere in conclusione che sulla questione dell’eventuale abuso del diritto di recesso da parte dell’investitore il campo sia stato sgombrato dall’intervento giurisprudenziale e da quello legislativo e che, quindi, contro la scorrettezza della parte che approfitta di detto diritto l’altra possa solo ricorrere all’exceptio doli.
145 Cass., 3 aprile 2014, n. 7776, in ilcaso.it
146 Cass., 26 gennaio 2015, n. 1368, in ilcaso.it
147 Cass., 17 ottobre 2018, n. 25996, in dirittobancario.it.
4. LA NULLITA’ DI PROTEZIONE – L’ ART 23 T.U.F.
Nel primo capitolo, in cui si è trattato in via generale delle cosiddette nullità di protezione, si è accennato ad alcune specifiche norme che, per marginali deviazioni rispetto ad altre, ispirate al medesimo obiettivo di conferire alla parte debole gli strumenti più idonei per riequilibrare i “pesi” con la parte forte del contratto, hanno determinato un rilevante dibattito che ha coinvolto i più svariati aspetti della materia.
Tra questi spicca certamente il dibattito sulla corretta applicazione dell’art. 23 T.U.F., afferente ai servizi di investimento.
Le questioni trattate, di qui a poco, fanno comprendere come, tra gli spazi e le angolature interpretative che offre l’istituto, possano annidarsi forme di abuso, soprattutto per la diversa posizione soggettiva in cui vengono collocate le parti del contratto per gli effetti scaturenti dai rigidi vincoli di forma, in particolare sotto l’aspetto della proporzionalità dei rapporti di forza e della sanabilità degli atti, rimessa alla sola discrezione della parte debole. Si nota con chiarezza, cosi come illustrato nel precedente capitolo intorno ai poteri connessi al diritto di recesso, che i profili e le ipotesi di abuso connessi alla normativa di protezione, in una sorta di “contrappasso” giuridico, siano proprio gli ambiti più ricorrenti in cui la giurisprudenza si sia impegnata per arginare il fenomeno dell’abuso.
L’art. 23 T.U.F., 1° comma, afferma che: “I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, sono redatti per iscritto, in conformità a quanto previsto dagli atti delegati della direttiva n. 2014-65 UE, e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca di Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma, assicurando nei confronti dei clienti al dettaglio appropriato livello di garanzia. Nei casi di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo”.
La sanzione a cui l’art. 23 T.U.F., comma 3°, ricollega la mancata osservanza della forma scritta è una nullità eccepibile solo dal cliente, quindi relativa, ed è la medesima nullità rinvenibile nei contratti asimmetrici per consentire al contraente debole di essere “arbitro delle sorti della fattispecie”148. L’istituto sembra evocare la nullità pendente o sospesa di origine tedesca (c.d. Schwebende Unwirksamkeit) e fa della nullità di protezione una terza forma di invalidità che si aggiunge alla nullità e all’annullabilità tradizionali.
Questa eccezione di nullità nei contratti asimmetrici ha registrato, negli ultimi anni, una diffusione esponenziale che ha richiamato l’attenzione degli interpreti e della giurisprudenza149.
Come già detto, paradigmatico sull’argomento, è considerato l’art. 36 del codice del consumo, rubricato “nullità di protezione”, seppure l’art. 23 T.U.F., più risalente, può essere considerato un antesignano della specie avendo anticipato di oltre un lustro la prescrizione contenuta nel citato art. 36.
L’elemento fondamentale nella ricostruzione del modus operandi della nullità di protezione, di cui all’art. 23, è senza dubbio il momento dell’eventuale sanatoria che deve corrispondere ad una volontà effettiva e ponderata del contraente debole150. È necessario, quindi, che un eventuale atto
148 In questi termini si è espressa la Corte di Giustizia con la sentenza Pannon del 4 giugno 2009, C-243/08, in jucivile.it, che ha interpretato l’art. 6 n.1 della Direttiva 93\13\CEE (sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori) nel senso che una clausola abusiva non vincola il consumatore anche se questi non abbia in precedenza impugnato utilmente detta clausola, infatti, il giudice nazionale adito ha l’obbligo di esaminare d’ufficio la questione dal momento in cui dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari, ma “nell’esecuzione di tale obbligo il giudice nazionale non deve tuttavia, in forza della direttiva, disapplicare la clausola in esame qualora il convenuto, dopo essere stato avvisato da detto giudice non intenda invocarne la natura abusiva e non vincolante”.
149 Sez un., 12 dicembre 2014, n. 2642, cit.
150 La Cass. civ., sez. I, 9 febbraio 2018, n. 3254, in ilcaso.it, ha pronunciato il seguente principio di diritto: “In tema d’intermediazione finanziaria, la parte che abbia modificato in sede di memoria ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. n. 5 del 2003 la propria domanda di nullità dell’acquisto degli strumenti finanziari in quella di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in conseguenza delle difese proposte dal convenuto, di ogni genere e tipo, non incorre in una inammissibile mutatio libelli ove la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in lire o sia ad essa collegata, perché in tal modo, non si determina né la compromissione delle potenzialità difensive della controparte né il sostanziale allungamento dei tempi processuali di definizione della lite”.
confermativo sia posto in essere con la consapevolezza del vizio che si va a sanare e con la reale intenzione di arrivare a tale esito.
In linea con detti principi, fino al 2017, la giurisprudenza della Suprema Corte aveva ritenuto che la volontà contrattuale del risparmiatore e della Banca dovessero essere consacrate in un documento unico sottoscritto da entrambe le parti 151.
Ad esempio secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità152 poiché l’art. 23 del D. lgs. n. 5 del 2003 prevede la forma scritta ad substantiam, il documento deve essere l’estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto tale volontà. In applicazione di questo principio, il contratto quadro, recante la firma del solo cliente, era considerato nullo in quanto privo di un elemento essenziale, quale la sottoscrizione ed in ragione dell’inammissibilità della successiva possibilità di convalidarlo in quanto, appunto, nullo.
Si è ritenuto che neanche l’attestazione del cliente che: “un esemplare del presente contratto sottoscritto dalla banca ci è stato consegnato” fosse sufficiente a provare l’effettiva sottoscrizione del documento ad opera dell’intermediario, né che fosse ammissibile dare prova della sottoscrizione attraverso testimoni (non ricorrendo il caso di perdita incolpevole ex art. 2724, n. 3, c.c.), o attraverso presunzioni ex art. 2729 c.c. o a mezzo di giuramento ex art. 2739 c.c. Infine si è escluso il principio secondo cui la produzione in giudizio della scrittura da parte del contraente che non aveva apposto la propria firma potesse costituire un equivalente della sottoscrizione,
151 Cfr., Cass., 14 marzo 2017, n. 6559, in ilcaso.it; Cass., 3 gennaio 2017, n. 36 in ilcaso.it;
Cass., 19 maggio 2016, n.10331 in ilcaso.it; Cass., 27 aprile 2016, n. 8396, in ilcaso.it; Cass.,
11 aprile 2016, n. 7068 in ilcaso.it; Cass., 24 marzo 2016, n. 5919; Cass., 19 febbraio 2014
n. 3889, in ilcaso.it.
152 Cass, 24 marzo 2016, n 5919, citata nel testo della sentenza Cass., 16 gennaio 2018, n.
898, in ilcaso.it.
in quanto in tal modo il contratto si sarebbe perfezionato solo ex nunc e non
ex tunc153.
Va aggiunto che la normativa in questione si completa con il Regolamento Consob n. 16190/2007 il quale, all’art. 37, prevede che “Gli intermediari forniscono ai clienti al dettaglio i propri servizi di investimento, diversi dalla consulenza in materia di investimenti, sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata al cliente”154.
Con l’ordinanza. 10447/2017155 la Prima sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso la questione che riguarda la forma dei contratti finanziari al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sul punto se costituisse: “questione di massima di particolare importanza se, a norma dell’art. 23 d. lgs 58\1998, il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario”.
L’ordinanza avanzava una perplessità di fondo sul ruolo del formalismo negoziale nei contratti del mercato finanziario e in genere nei contratti stipulati tra parti con diversa forza negoziale.
Secondo l’ordinanza la prescrizione di forma non risponderebbe tanto alla finalità di rendere il contenuto dell’accordo adeguatamente ponderato e di assicurare rilevanza sociale al regolamento negoziale, ma risponderebbe esclusivamente allo scopo di informare la parte debole. Lo scopo del legislatore del T.U.F. di documentare le condizioni contrattuali avrebbe, dunque, come fine unico, quello di rendere edotto il cliente delle clausole predisposte dall’intermediario.
153 Cass. 24 marzo 2016, n. 5919, citata nel testo ed in ilcaso.it.
154 In questi termini si esprimeva già il Regolamento Intermediari n. 11522 del 1998 secondo cui “Gli intermediari autorizzati non possono fornire i propri servizi se non sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata all’investitore”. Il regolamento citato si allinea a quanto previsto dal Testo Unico Finanziario, dando visibilità alla prassi vigente nel settore, e consolidata dalla legislazione successiva (MIFID), secondo la quale i servizi di investimento vengono erogati sulla base di un accordo scritto al quale seguono poi singoli ordini esecutivi.
155 Cass civ, I sez,27 aprile 2017, n. 10447, in ilcaso.it.
La forma prescritta dall’art. 23 T.U.F. e le norme che presidiano il mercato dei contratti asimmetrici in genere non sarebbero, quindi, una forma di struttura, ma una forma di funzione.
È pertanto in questa particolare logica che doveva essere apprezzata ed eventualmente reinterpretata la consistenza dell’obbligo di documentazione conducendo l’interprete a considerare sufficiente la consegna al cliente del prospetto redatto dalla banca, contrariamente alla necessità che l’intera operazione negoziale fosse documentata con la sottoscrizione di entrambe le parti.
L’ordinanza si chiedeva, in sintesi, se l’accordo quadro potesse consistere in un semplice documento firmato solo dal cliente in considerazione del fatto che la sottoscrizione dell’intermediario non fosse indispensabile in quanto parte che aveva predisposto il modulo156.
Dal tenore dell’ordinanza di rinvio affiorarono i primi cenni sulla possibilità di un “abuso del diritto” da parte del risparmiatore. Secondo il testo del provvedimento, infatti, l’irrilevanza della firma della banca sarebbe derivata anche dalla necessità di “evitare una lettura dell’art. 23 affatto disfunzionale ed inefficiente per il mercato finanziario, anche ai fini di un facile uso opportunistico dello strumento formale”.
L’ordinanza prosegue aggiungendo che: “…qualora il contratto sia, dapprima, a lungo e fruttuosamente eseguito con vantaggio per il cliente, il quale, a fonte di una perdita marginale successiva, si risolva ad impugnarlo per nullità, in ragione della mancata sottoscrizione della banca, senza che a quel punto ove si segua la tesi della natura ad substantiam della
156 In dottrina, M. MAGGIOLO, Servizi ed attività di investimento, in Tratt. Di diritto commerciale CICU-MESSINEO- MENGONI, Milano 2012, p. 463, qualifica il contratto quadro come negozio che si conclude per condizioni generali e pertanto la firma del predisponente non è necessaria essendo sufficiente che questi invii al cliente il testo contenente le clausole generali ed individuali che ha predisposto per ritenere soddisfatto il requisito di forma di cui all’art. 23 T.U.F. Di segno contrario RopPO, Sui contratti del mercato finanziario prima e dopo la MIFID, in Economia e diritto del terziario, 2009, p. 497, SpaGLIANTISI, Il neoformalismo contrattuale dopo il d. lgs. N. 141\20, n. 79\11 e la dir. 2011/83/UE, una nozione (già) vieille renouvelée, in NLCC, 2012, 2, p. 325 ss.
sottoscrizione dell’intermediario medesimo - possa rilevare l’avvenuta proficua esecuzione del contratto, ove pure protratta per molti anni con reciproca soddisfazione delle parti. Si offrirebbe, così, tutela a quel contraente che, maliziosamente abusando di una posizione di vantaggio conferita dalla legge ad altri fini, deducesse la nullità del contrato pur eseguito senza contestazioni da entrambe le parti.”
L’ordinanza conclude affermando che la facoltà attribuita all’investitore di far valere la nullità del contratto quadro solo per alcuni acquisti, come aveva sostenuto la Cassazione157, e cioè l’uso selettivo della nullità, comporterebbe senz’altro “l’uso abusivo del diritto”158 o “la condotta contraria a buona fede, secolare portato di civiltà giuridica ex art. 1375 c.c.”. La pronuncia delle Sezioni Unite159 che ne è seguita ha segnato, accogliendone le deduzioni, un mutamento radicale rispetto all’orientamento precedente su tale argomento, facendo una netta distinzione tra le nullità strutturali e le nullità funzionali160, nonché tra le nullità assolute e quelle relative. Così la sentenza: “…Il requisito della forma scritta del contratto- quadro relativo ai servizi di investimento disposto dall’art. 23 del d. lgs.
24.2.98 n. 58, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga
157 Cass. 27 aprile 2016, n. 8395, in ilcaso.it
158 Uso abusivo del diritto “stigmatizzato” secondo l’ordinanza da Cass., 13 settembre 2016,
n. 17968, in iurisprudentia.it, sulle assenze dal lavoro; Cass., 5 aprile 2016, n. 6533, in ilcaso.it, sull’iscrizione di ipoteca; Cass.,21 ottobre 2015, n. 21318, in altalex.com, sull’azione risarcitoria extracontrattuale; Cass.,12 giugno 2015, n.12263, in dirittobancario.it sul contratto di fideiussione e mancato tempestivo adempimento imputabile,; Cass.,15 ottobre 2012, n. 17642, in mgiudiziario.it sempre in tema di fideiussione,
159 Cass. civ, Sez.un, 16 gennaio 2018, n.898, In ilcaso.it
160 Nella sentenza rinvenibile in ilcaso.it si legge che non tutte le prescrizioni di forma sono uguali: “Se la forma ad substantiam, nella sua solennità propria degli scambi immobiliari tipici dell’economia fondiaria, funge, nell’ambito dei rapporti paritari, da criterio di imputazione della dichiarazione, oltre che servire a favorire - a tutela di entrambi i contraenti - i beni della chiarezza nei contenuti, della ponderazione per l’impegno assunto e della serietà dell’accordo, nonché a distinguere le mere trattative dell’atto definitivo, occorre poi pur riflettere sul fatto che, invece laddove le parti non si trovino su di un piano di parità perché si ravvisa una “parte debole” del rapporto, a scongiurare il rischio dell’insufficienza di riflessione o dell’approfitta mento ad opera dell’altro contraente, interviene, allora, la forma, o formalità “di protezione”: il cui fine precipuo è proprio quello di proteggere lo specifico interesse del contraente “debole” a comprendere ed essere puntualmente e compiutamente informato su tutti gli aspetti della vicenda contrattuale”.
consegnata una copia al cliente ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti”.
In sostanza, secondo tale ultimo orientamento giurisprudenziale, il formalismo negoziale (o neoformalismo), a cui si è assistito con riferimento ai contratti caratterizzati da asimmetrie informative, sarebbe finalizzato solo alla tutela della parte “debole”, sicché la nullità che deriva dalla violazione dei precetti formali deve perseguire esclusivamente finalità protettive (nullità di funzione e non di struttura).
Da questo presupposto ha origine il ragionamento della Corte per sostenere che la firma dell’intermediario non sia necessaria. La nullità potrà essere eccepita solo qualora la funzione della norma di proteggere l’investitore non venga raggiunta. In questo caso, ragionano i giudici, poiché lo scopo della norma è quello di fornire al contraente debole le informazioni necessarie, la sua firma, che attesta il ricevimento del documento, è da sola sufficiente per dimostrare che egli ha compreso il contenuto del testo contrattuale. Agire per ottenere la declaratoria della nullità del contratto quadro per la sola assenza della firma dell’intermediario deve considerarsi, quindi, un comportamento opportunistico. La sottoscrizione dell’intermediario è, dunque, un requisito formale non utile ed eccedente la ratio della norma. Una diversa lettura, secondo la Corte, renderebbe “sproporzionata” la stessa previsione della nullità per difetto di forma.
In considerazione della finalità e della specificità della disciplina dell’art. 23, le Sezioni Unite hanno conclusivamente ritenuto “assorbito l’elemento strutturale della sottoscrizione di quella parte, l’intermediario, che reso certo il raggiungimento dello scopo normativo con la sottoscrizione del cliente sul modulo contrattuale predisposto dall’intermediario e la consegna dell’esemplare della scrittura in oggetto non verrebbe a svolgere alcuna funzione”. Secondo la Corte, dunque, se si dovesse ravvisare la nullità del contratto-quadro per mancanza della sottoscrizione da parte
dell’intermediario si rischierebbe di addivenire a decisioni contrarie al principio di proporzionalità. La nullità, infatti, può essere fatta valere solo dall’investitore e si palesa quale sanzione per l’intermediario che però sarebbe sproporzionata rispetto alla funzione cui la forma è preordinata secondo l’art. 23 TUF.
Secondo la giurisprudenza di legittimità161, inoltre, le nullità previste dal T.U.F. sono state qualificate come relative e si è statuito che “ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta ed immeditata non un interesse generale, ma anzitutto l’interesse particolare, l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche”.
Si è voluto quindi evitare che gli investitori possano tendere ad approfittare della normativa appena descritta per farne un uso abusivo, pretendendo di venire contra factum proprium.
La questione era già stata trattata non senza contrasti nelle giurisdizioni di merito.
La Corte di Appello di Milano con la sentenza 16 dicembre 2008162 aveva affermato che “la domanda di nullità postula l’esistenza di un interesse ad agire ed è perciò evidente che la tutela di tale interesse, necessariamente selettivo, non può di per sé reputarsi contraria a buona fede, sicché inappropriato appare il richiamo ad alcuni interventi giurisprudenziali in tema di exceptio doli, i quali attengono alla ipotesi contrapposta (ed estranea alla fattispecie ) dell’abuso di clausole negoziali (particolarmente in uso nel contratto autonomo di garanzia) che... possono atteggiarsi come contrarie al canone di buona fede”. Il Tribunale di Prato con la sentenza 2 agosto 2013163 aveva ritenuto infondata l’eccezione di abuso processuale
161 Cass. civ, Sez.un, 16 gennaio 2018, n. 898, cit.
162 In Giur. annotata dir. ind., 2008, 1, p. 1214.
163 In ilcaso.it
dell’investitore per esercizio selettivo dell’azione di nullità sotto due profili: “Il primo è che è proprio l’investitore, cioè il soggetto che assume una qualifica professionale, ad aver dato per primo causa alla nullità non avendo stipulato per iscritto il contratto di intermediazione finanziaria, ma espletando servizi di intermediazione in via di fatto. Il secondo è che l’invocazione di effetti restitutori limitati- riferibili alla mancanza del contratto quadro- è conseguenza dell’applicazione del principio della domanda (art. 99 cpc) e di quello di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 cpc). Anche in tale caso andare a sindacare il comportamento della parte che a fronte di una domanda di nullità invochi solo limitati effetti restitutori non corrisponde all’impianto della normativa processuale generale, quanto meno in assenza di parametri specifici che spetta al legislatore fornire e sono pertanto insuscettibili di essere inquadrati nell’ambito di una concretizzazione in via giurisprudenziale, che, oltretutto, sarebbe inevitabilmente foriera di disarmonie applicative.”.
Il Tribunale di Torino con la sentenza del 7 marzo 2011164, pur riconoscendo ancora il diritto dell’investitore di far valere la nullità del contratto “monofirma”, ne sanzionava l’uso in “forma distorta” per trarne conseguenze “selettive” (cioè per chiedere la restituzione dei soli investimenti risultati svantaggiosi, mantenendo i restanti investimenti che pure costituiscono attuazione del medesimo contratto quadro), ravvisando un abuso del diritto alla domanda che urta contro i principi del giusto processo e della correttezza e rende inammissibile tanto la domanda di nullità quanto la conseguenziale domanda restitutoria diretta a selezionare solo alcuni degli effetti suoi propri165.
164 In ilcaso.it
165 Così si espresso il giudice torinese: “Ciò posto, peraltro, nel nostro ordinamento è stata più volte affermata la presenza anche a livello costituzionale di un canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza che concorre sia ad integrare il contenuto negoziale sia ad individuare un limite estremo di conformazione dell’autonomia privata (sotto forma di controllo del contenuto dell’equilibrio e della congruità causale del contratto), nonché come limite dell’ammissibilità dell’azione e del processo; in quest’ultima ipotesi, in particolare, sarebbe ravvisabile una exceptio doli generalis diretta a colpire un dolus presens, che
inciderebbe non sulla sussistenza della nullità o sull’esistenza giuridica del contratto, ma sul piano degli effetti conseguenti a tale nullità. Osserva il Collegio che in concreto la previsione di una nullità relativa si presta ad essere sfruttata abusivamente da parte dell’investitore all’interno del processo (…) Si è correttamente parlato di “uso selettivo” dell’azione di nullità, la quale è azione che presenta indubbie agevolazioni sul piano probatorio (e per tale motivo è stata prescelta quale sanzione poste a tutela della parte ritenuta debole nel contratto di investimento), utilizzata in concreto quale scorciatoia per ottenere più agevolmente quanto in realtà ottenibile con l’azione risarcitoria prevista dall’ultimo comma dell’art. 23 Tuf in relazione alle omesse informazioni specifiche dovute per singole operazioni (…). Una simile selezione, quindi, non è giustificata dalla natura unitaria della fattispecie contrattuale in esame posto che come si è visto i singoli contratti di investimento costituiscono la mera modalità attuativa dei vari ordini espressi nell’ambito dell’unico rapporto di mandato, né appare consequenziale alla ratio sottesa alla prescrizione di forma scritta, ma eccede gli scopi protettivi della disciplina. Ritenere legittimo l’uso selettivo delle conseguenze dell’invalidità corrisponderebbe piuttosto ad una sorta di ulteriore effetto sanzionatorio nei confronti dell’intermediario (totalmente alla merce dell’investitore) ben al di là di quanto previsto dalla già severa sanzione della nullità. A fronte della ben mirata richiesta di restituzione di indebito, sta infatti un’assoluta mancanza di possibilità di reazione da parte della banca che, non avendo legittimazione a far valere tale nullità, ben può dubitarsi che possa allargare gli effetti dell’azione promossa dagli investitori anche ad operazioni rispetto alle quali questi (nonostante la dedotta nullità ad origine dell’intero rapporto) nulla richiedono: la domanda riconvenzionale dell’intermediario, infatti, potrebbe (a sua volta iniquamente) rovesciare effetti negativi non previsti e non voluti dall’investitore, unico soggetto legittimato a decidere se e quando far valere la nullità. (…) L’investitore, quindi, da parte originariamente debole del rapporto e per questo destinatario della tutela legale, diventa unico arbitro della sorte del rapporto intercorso magari per anni con l’intermediario, sia in ordine alla tempistica dell’azione che della scelta degli investimenti da porre nel nulla potendo dirigere opportunisticamente e maliziosamente gli effetti della dedotta nullità. Ad avviso di questo Collegio la particolare configurazione del diritto sostanziale qui azionato, proprio perché si presta in concreto a tale uso distorto in sede giudiziale, esplica un rilievo decisivo in campo processuale in relazione alla necessaria correlazione tra situazione giuridica sostanziale ed oggetto del processo, nonché in relazione ai riflessi in ambito di giudicato, il quale esige che il diritto azionato possa venire dedotto in giudizio nella sua totale consistenza. (…) Del resto operare una simile selezione non pare neppure giustificabile in forza del principio di libera disponibilità dei propri diritti, posto che nel caso in esame l’investitore disporrebbe anche di diritti previsti ex lege e di per sé spettanti alla controparte (ovvero di quelli di far discendere dalla dedotta nullità gli effetti restitutori derivanti dal conteggio anche delle eventuali plusvalenze maturate in altre operazioni).Non solo, ma diversamente opinando verrebbe consentita la formazione di un giudicato su presupposti di fatto che, proprio perché individuati senza operare l’effettiva compensazione di tutte le poste riferibili al rapporto, sono potenzialmente e probabilmente non veritieri. In questo modo l’effetto derivante dalla nullità e previsto ex lege viene manipolato e l’unità sostanziale del diritto azionato viene disarticolata artificiosamente e in funzione di un interesse di parte estraneo alla finalità propria della disciplina protettiva. La legittimazione esclusiva in capo ad uno dei contraenti, quindi, influenza la configurabilità nell’interesse ad agire, non tanto sotto il profilo dell’eventuale e sostanziale “raggiungimento dello scopo protettivo” (posto che tale scopo deve essere raggiunto ex lege con la stipula di un atto scritto ), bensì per la configurazione leale e totale della domanda in relazione a tutti gli effetti promanati dalla richiesta dichiarazione di nullità (prevista appunto dall’art. 23 TUF solo per il contratto quadro e non per gli ordini di acquisto) e ritenendo illegittima e non meritevole di tutela un’azione promossa sulla base di una domanda che concretizza una siffatta opportunistica disarticolazione di un rapporto unitario. Rilevare in tale condotta l’esistenza di un abuso, quindi, si limiterebbe a paralizzare una siffatta azione dell’investitore a fronte di una lettura dell’art. 23 TUF (laddove riserva
4.1 LA DIFFERENZA TRA T.U.F. E T.U.B – L’INAPPLICABILITA’ DEL CONTRATTO MONOFIRMA AL T.U.B
Nonostante la giurisprudenza equipari l’art. 23 T.U.F. all’art. 117 T.U.B., secondo la dottrina166 l’impostazione sulla nullità relativa e funzionale non può però essere applicata indistintamente a tutti i contratti bancari, pur prevedendo entrambe le discipline il requisito di forma scritta e la consegna della copia al cliente a pena di nullità167.
Nel Testo Unico Bancario, all’art. 117 (inserito nel Titolo VI, capo I) non vi è alcun riferimento al soggetto legittimato a far valere tale nullità in giudizio, infatti, la legittimazione processuale in tema di nullità del contratto bancario è disciplinata dall’art. 127 T.U.B. il quale, al comma 2, n. 2, stabilisce che “Le nullità previste dal presente titolo operano solo a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”.
Inoltre, l’art. 23 del T.U.F. al quarto comma prevede che “Le disposizioni del titolo VI, capo I, del T.U. bancario non si applicano ai servizi di investimento né al servizio accessorio previsto dall’art. 1, comma 6, lettera f)”.
In entrambi i casi si tratta, dunque, di nullità di protezione poste a tutela del contraente debole, ma la nullità prevista dal T.U.F. è eccepibile solo dall’investitore e, quindi, è relativa, mentre quella prevista dal T.U.B. è, per espressa disposizione di legge, rilevabile d’ufficio dal giudice. Dal tenore
l’esclusiva legittimazione ad agire all’investitore) che valuti l’osservanza del criterio di correttezza, ovvero a ritenerla effettivamente configurabile a condizione che nel far valere la nullità l’investitore non utilizzi selettivamente le connesse domande restitutorie.” Contrariamente il Tribunale di Milano con la sentenza del 29 aprile 2015, in ilcaso.it, afferma che la domanda di nullità con riferimento solo ad alcune operazioni non si configura come un esercizio abusivo del diritto perché l’istituto della nullità di protezione si conforma esattamente sul concreto interesse del cliente che la fa valere. In questo senso anche Corte App. Bologna del 20 luglio 2016 n. 1345, in dejure.it.
166Cfr., V. CANCRINI, CONTRATTI quadro monofirma: brevi note sulla recente sentenza delle Sezioni Unite del 16 gennaio 2018, in diritto.it.
167 L’art. 117 TUB stabilisce che: “1. I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. 2. Il CICR può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma. 3. Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo (…)”.
della legge non sembrerebbe, dunque, applicabile ai contratti bancari disciplinati dal T.U.B. il principio secondo cui il rilievo ufficioso ha come limite il solo interesse del contraente debole, il quale ha, dunque, la facoltà di non avvalersi della nullità impedendo al giudice di accertare, anche in via meramente incidentale, l’invalidità da cui il contratto potrebbe essere affetto.
Sembra, dunque, che tra le nullità di protezione si debba distinguere tra nullità relative e nullità assolute, infatti, anche la sentenza della Corte di Cassazione, sezioni unite, n. 898 del 2018, che si è espressa, come abbiamo visto sulla validità del contratto sottoscritto dal solo investitore, ha stabilito che : “ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta ed immediata non un interesse generale, ma anzitutto un interesse particolare, l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche”.
Fatta questa distinzione sembra che la nullità di protezione prevista dal combinato disposto degli artt. 117 e 127 T.U.B. sia assoluta, perché tesa a proteggere un interesse generale, mentre quella prevista dall’art. 23 T.U.F. sia relativa perché volta a proteggere solo l’interesse particolare dell’investitore.
Secondo parte della dottrina la differenza tra i contratti bancari (ad. es. apertura di credito in conto corrente) e quelli di negoziazione finanziaria risiede nel fatto che, mentre i primi hanno un immediato e diretto contenuto patrimoniale, i secondi, essendo contratti quadro, si limitano a dettare le regole per i futuri atti esecutivi, cioè gli ordini di investimento.
Solo questi ultimi, che peraltro hanno, come pacificamente ammesso in giurisprudenza168, forma libera, hanno contenuto patrimoniale.
168 Cass. 12 febbraio 2016 n. 2816, in ilcaso.it e Cass.,13 gennaio 2012, n.384 in dirittobancario.it secondo cui “i singoli ordini di investimento, accertata la sottoscrizione e validità del contratto quadro e l’assenza di particolari forme previste dallo stesso, pur avendo natura negoziale possono essere dati in forma libera. L’obbligo della forma scritta
Secondo questa tesi, quindi, bisogna escludere che i contratti quadro non sottoscritti dall’intermediario siano assimilabili ai contratti bancari “monofirma”, sia per la lettera delle norme esaminate, che per la differente natura giuridica della nullità e, conseguentemente, il principio secondo cui i contratti monofirma non sono nulli non è applicabile ai contratti bancari perché la norma dell’art. 127 T.U.B.: “…è stata espressamente configurata dal legislatore come nullità di protezione assoluta, rilevabile d’ufficio dal giudice, non sanabile, perché a tutela di interessi generali e costituzionalmente garantiti, come il corretto funzionamento del mercato (art. 41 cost.) e l’uguaglianza formale tra contraenti forti e contraenti deboli (art. 3 cost.), cioè di valori fondamentali a presidio di contratti a contenuto patrimoniale, come quelli bancari”169.
Ne consegue che, in tema di contratti bancari disciplinati dal T.U.B., è difficile rinvenire forme di abuso da parte del contraente debole che utilizzi la domanda di nullità a suo esclusivo vantaggio, perché la rilevabilità di ufficio per vizio di forma esclude a monte la possibilità di un intento abusivo della parte, o, comunque, non lo considera rilevante nella vicenda contrattuale.
4.2 ABUSO DELLA NULLITA’ SELETTIVA
La giurisprudenza che riteneva necessaria la firma di entrambe le parti nei contratti di intermediazione finanziaria, con la conseguenza che in mancanza della sottoscrizione della banca il contratto fosse nullo, aveva ritenuto anche che: “trattandosi di una nullità di protezione, la stessa può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini d’acquisto a mezzo dei quali è stata data esecuzione” 170).
a pena di nullità del contratto, stabilito dall’art. 23 d.lgs. n. 158/1998, è previsto solo per il contratto quadro”
169 Così V. CANCRINI, op. cit., pagg. 8 e 9
170 Cass., 27 aprile 2016, n. 8394, in ilcaso.it.
Dall’esame della giurisprudenza emerge che la situazione che si viene a creare quando il contratto di negoziazione manca dei requisiti formali imposti dalla legge è che, da una parte, si garantisce all’investitore una più pronta tutela delle sue ragioni, dall’altra, che la relativa semplicità di tutela possa prestarsi ad “eccessi di protezione”, dando spazio ad iniziative opportunistiche che mirano ad ottenere una sorta di “copertura assicurativa” contro il rischio connaturato agli investimenti finanziari171.
In questo modo l’accoglimento in giudizio di domande selettive avrebbe l’effetto sostanziale di rendere l’investitore arbitro, non solo della tempistica, ma anche della scelta degli investimenti da “cancellare”, c.d. cherry picking.
Sul punto la Cassazione172, da ultimo, ha rilevato che “l’esigenza di scongiurare uno sfruttamento “opportunistico” della normativa di tutela dell’investitore potrebbe portare la Corte, come suggerito da parte della dottrina ad affermare la possibilità per l’intermediario di opporre (evidentemente in mala fede) proponga una domanda di nullità “selettiva”, cosicché l’eccezione di dolo concepito quale strumento volto ad ottenere la disapplicazione delle norme positive nei casi in cui la rigorosa applicazione delle stesse risulterebbe - in ragione di una condotta abusiva - sostanzialmente iniqua, potrebbe in effetti rivelarsi un’utile arma di difesa contro il ricorso pretestuoso all’art. 23, menzionato”.
Così argomentando la Corte di Cassazione ha evidenziato la rilevanza e la delicatezza della questione della nullità selettiva “nella quale temi specifici della contrattazione finanziaria incrociano profili più generali del diritto delle obbligazioni (regime delle nullità di protezione, sanabilità del negozio nullo, opponibilità delle eccezioni di correttezza e buona fede), e la difficile ricerca di un punto di equilibrio tra le opposte esigenze, di garanzia
171 Cfr. R. SACCO, Nullità e annullabilità, in Digesto civ., XII, Torino, 1995, p. 309, nota 66, “il diritto di far attendere gli altri (speculando, nell’attesa dell’andamento del mercato) è - ahimè – uno dei diritti meglio protetti nel nostro sistema”.
172 Cass., 2 ottobre 2018, n. 23927, in il (in cui ha riportato la posizione già espressa dalle sentenze precedenti, Cfr., Cass., 17 maggio 2017, n.12388, 12389 e 12390 in ilcaso, it.).
degli investimenti operati dai privati con i loro risparmi (art. 47 Cost.) e di tutela dell’intermediario, anche in relazione alla certezza dei mercati in materia di investimenti finanziari”, ha rimesso la questione al Primo Presidente della Corte suprema di Cassazione perché valuti la eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Allo stato le Sezioni Unite non si sono ancora pronunziate, ma la prospettiva che esse si allineino a quanto già disposto in materia fa ragionevolmente ritenere che la lettura sarà conforme ai principi di armonica tutela degli interessi contrapposti, mediante una delineazione delle opzioni ritenute abusive173.
173 È interessante esaminare le diverse posizioni assunte sul punto il 13 febbraio 2019 nel convegno svoltosi nell’Aula Magna della Corte di Cassazione con il titolo “il contratto d’intermediazione finanziaria privo di forma scritta nullità selettiva o abuso del diritto?”, in ordineavvocatiroma.it.
All’incontro erano presenti il Presidente titolare della Prima Sezione Civile (oltre che Presidente del Collegio che ha rimesso alle Sezioni Unite la questione) dott. Stefano Schirò e l’estensore dell’ordinanza di rimessione Consigliere Antonio Valitutti.
Quest’ultimo ha rilevato che “la selettività della nullità può essere coerente con lo statuto della nullità di protezione che consente, così, di preservare la parte di contratto non incisa dall’azione volta a far valere il vizio corrispondendo, in tal modo, alle esigenze per le quali la nullità di protezione è stata prevista. Si tratta di una nullità a sé, con un regime ed una regolamentazione che dovrebbero tenere conto dell’interesse per la tutela del quale è prevista. In tale prospettiva, tuttavia, non significa che la nullità possa essere fatta valere senza il rispetto dei doveri di correttezza e buona fede in attuazione degli artt. 2 Cost. 1175
c.c. e 1375 c.c. imposti a tutte le parti del rapporto.” e ha concluso “prospettando la possibilità di rinvenire un punto di incontro tra le contrapposte esigenze” ritenendo che “in tale ottica non è la limitazione alla domanda di nullità che potrebbe giustificare l’exceptio doli, ma eventualmente il comportamento dell’investitore che si precostituisce la possibilità di impugnare il successivo contratto”.
Tra gli altri relatori il prof. Stefano Pagliantini (ordinario di Diritto Civile all’Università di Siena) il quale ha espresso perplessità sulla proponibilità dell’exceptio doli contro la domanda di nullità dell’investitore del contratto quadro, infatti, “in tal caso, non vi può essere abuso in quanto il rapporto è unico e la nullità del contratto quadro elimina ogni problema, in quanto le operazioni “a valle” sono legate tra loro da una sorta di collegamento unilaterale negoziale necessario. Il problema della nullità selettiva si pone, quindi, solo de la domanda del cliente riguarda le operazioni di investimento e non anche il contratto quadro, la cui validità sarebbe conosciuta solo in via incidentale e con esclusione di qualsiasi pronuncia di ufficio; conseguentemente, in tal caso, non sarebbe ammissibile neppure la domanda riconvenzionale dell’intermediario ai sensi dell’art. 23, comma 3,TUF.” e ha aggiunto che “In tale condizioni, la questione di validità del contratto quadro potrebbe porsi come pregiudiziale logica ed il giudice non potrà estendere la pronuncia sullo stesso in quanto manca la domanda. Pertanto, o la nullità è rilevabile d’ufficio, in quanto l’effetto legale della domanda dell’investitore o si dovrebbe ipotizzare l’exceptio doli. Né è possibile ipotizzare la convalida tacita (non rilevabile d’ufficio), che deve formare oggetto di eccezione in senso stretto.” È continua affermando che: “il giudicato sulla singola azione non investe le altre e sarà, quindi, esperibile un’azione risarcitoria traente origine da
un altro ordine di acquisto antecedente non andato a buon fine. Laddove vi sia simmetria tra petitum e causa petendi e la caducazione del contratto quadro nullo travolga i singoli contratti di investimento, dovrà trovare applicazione l’art. 2033 c.c. (non derogato dalla disciplina dei contratti bancari) ed entrambe le parti avranno diritto alle restituzioni.” e ha concluso “sostenendo che se l’azione riguarda tutto il contratto è inutile l’exceptio doli, se l’azione è riferita ad alcune operazione può aver senso l’exceptio purché non si ritenga sostenibile la tesi della rilevabilità officiosa della nullità del contratto quadro; eccezione la cui ampiezza e i cui limiti di esperibilità spetta alle Sezioni Unite delineare”. Il prof. Daniele Maffeis (ordinario di Diritto Privato all’Università degli studi di Brescia) si è chiesto “se non possa ritenersi dolosa l’eccezione dell’intermediario che ha dato causa al vizio di forma e che chiede di porre nel vuoto anche gli investimenti che sono stati favorevoli per il cliente per effetto di una nullità alla quale egli (l’intermediario) ha dato causa. Ciò tenuto conto della prima regola dello Statuto dell’intermediario: non compiere atti di investimento se non dopo avere raccolto il consenso informato del cliente. Potrebbero confliggere due doli generali: quello dell’investitore (innocente – dolo generale) e quello della banca (colpevole
– dolo speciale).” Il prof. Giuseppe Guizzi (Professore di Diritto Commerciale- Università Federico II di Napoli e componente ACF) ha affermato che: “Il singolo ordine, però, non è un contratto, ma un mero atto giuridico. È improprio, quindi, parlare di problemi restitutori relativamente all’ordine, che non può essere qualificato come nullo. Ed allora, se di nullità si deve parlare, si può evocare tale figura solo rispetto al contratto di mandato, la cui eventuale nullità comporta che gli effetti dell’atto viziato si manifestino solo nei confronti del mandatario rendendo impossibile il ri-trasferimento degli effetti al soggetto che ha conferito il mandato (in questo caso l’investitore). Ciò deve poter valere per tutti gli ordini eseguiti in base al contratto di mandato viziato e non esisterebbe spazio, in tale prospettiva, per la nullità selettiva.” Il prof. Floriano D’Alessandro (Professore emerito di Diritto Commerciale dell’Università di Roma “La Sapienza”) ha individuato “nell’impugnabilità dell’ordine il nucleo della questione, segnalando come la questione dell’esistenza e della validità del contratto quadro sia il presupposto perché stiano in piedi gli ordini. Ammessa l’impugnabilità dei singoli ordini ed in presenza di un accertamento solo incidentale al quale è chiamato il giudice sul contratto quadro (non oggetto di specifica domanda da parte dell’investitore), il giudicato si forma sulla invalidità dell’ordine e la stessa banca non può proporre alcuna domanda che abbia ad oggetto una questione sottoposta al giudice solo in via incidentale”. Il prof. La Rocca (Ordinario di diritto Privato all’Università di Milano “Bicocca” ha sostenuto “Il tema della nullità deve riguardare, necessariamente, la singola operazione; un eventuale intervento che avvenga per tutti gli investimenti metterebbe a rischio la certezza dei rapporti che si svolgono nell’ambito del mercato finanziario. In caso di nullità non selettiva e di obbligo restitutorio a carico del cliente verso la banca, questa, unica destinataria delle restituzioni, lucrerebbe a causa del mancato rispetto della disciplina dei mercati finanziari. Ciò in quanto, certamente, la banca non provvederebbe alle restituzioni verso l’emettitore dei titoli. Infine, da parte di altro interventore, è stata sollevata la questione della possibilità di rinvenire una qualsiasi forma di abuso nell’esercizio dell’azione di nullità limitata a far valere un diritto proprio dell’investitore e dei profili che potrebbero assimilare tale ipotesi a quella degli atti emulativi (fattispecie tipica di esercizio abusivo del diritto”. Il prof. Claudio Scognamiglio (ordinario di Istituzioni di diritto privato all’Università degli Studi di Roma – Tor Vergata ha osservato: Il consumatore è libero di scegliere l’esperimento dell’azione di nullità ma, una volta accolta la domanda di nullità, la disciplina segue il regime del codice civile che non prevede alcuna forma di “selezione”. Il rilievo (definito “difficilmente superabile”) pone un problema di eventuale costruzione di uno statuto normativo del regime delle restituzioni che sia premiale per il consumatore attraverso una scelta normativa che consenta di armonizzare la selettività dell’azione con quella degli effetti della stessa. Una soluzione prospettata dal relatore potrebbe rinvenirsi nella individuazione di un piano di intervento di natura pubblicistica in grado di rendere simmetrici piani che, secondo il regime attuale, sono necessariamente asimmetrici nel senso che esiste una commistione di rimedi che non permette l’operatività parallela del piano
Un’ altra pronuncia della Corte di Cassazione 174, pur ripercorrendo la questione della nullità selettiva (al vaglio delle Sezioni Unite), ed ulteriormente rilevando, nella fattispecie, la totale mancanza del contratto quadro a monte di un “coacervo di singole operazioni”, ha affrontato il tema della convalida del negozio nullo, e, nell’ottica della exceptio doli, ha pronunciato il seguente principio di diritto: “In materia di intermediazione finanziaria, allorché le singole operazioni di investimento abbiano avuto esecuzione in mancanza della stipulazione del contratto quadro, previsto dal D. Dlgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 23, all’investitore, che chiede che ne sia dichiarata la nullità solo di alcune di esse, non sono opponibili l’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità e in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, l’intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso, l’una e l’altra essendo prospettabili solo in relazione ad un contratto quadro formalmente esistente”.
4.4 GLI ORIENTAMENTI CONTRARI ALL’ESERCIZIO OPPORTUNISTICO DELLA NULLITA’ SELETTIVA
In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite è interessante esaminare come la giurisprudenza abbia tentato di arginare l’uso selettivo della nullità selettiva. Nei casi in cui l’investitore ha spiegato un’azione svolta all’accertamento della nullità del rapporto, deducendo in giudizio un conseguente suo credito ex art. 2033 c.c., solo relativamente ad investimenti
dell’azione con quello degli effetti. Tanto più che si tratta di materia nella quale esiste e si prospetta la necessità di contemperare, come più volte segnalato, interessi pubblici e privati che fanno capo al mercato finanziario ed al singolo investitore”. (sintesi degli interventi a cura del dott. Vincenzo Galati- Magistrato addetto all’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione).
174 Cass. civ, I sez., 24 aprile 2018, n. 10116, in ilcaso.it
non andati a buon fine175, la domanda è stata ritenuta ammissibile in quanto è pacifica, in giurisprudenza, la considerazione secondo la quale i singoli ordini sono ritenuti “negozi giuridici autonomi” rispetto al contratto quadro e come tali passibili di specifica censura176.
La dottrina sul punto ha ritenuto che la nullità è “rilevante soltanto come premessa per le sue conseguenze su diritti soggettivi e rapporti giuridici” e “il relativo accertamento va sempre concepito come qualche cosa di strumentale in vista di un risultato diverso”177, ossia la decisione su diritti soggettivi, la cui latitudine non può che riferirsi alla richiesta attorea, la quale è unica titolare del diritto dispositivo di decidere quale investimento impugnare.
Secondo una ricostruzione l’uso selettivo della nullità implicherebbe implicitamente la volontà di sanare il contratto quadro178 e, conseguentemente, perpetrarne la validità rispetto ad altri acquisti. La dottrina è stata critica sul punto. Secondo alcuni autori179, infatti, il divieto previsto
175 In questo senso Cass., 27 aprile 2016, n. 8395, in ilcaso.it: “L’investitore ex art. 99 e 100 cpc può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti (o più correttamente i contratti attuativi del contratto quadro) di prodotti finanziari dai quali si è ritenuto illegittimamente pregiudicato, essendo gli altri estranei al giudizio. La rilevabilità d’ufficio, peraltro non incondizionata, delle nullità di protezione, affermata di recente dalle S.U. nella sentenza 26242 del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l’accertamento giudiziale anche a cause di nullità protettive non dedotte dalle parti senza tuttavia consentirne il rilievo anche ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è rivolta”.
176Cass., 16 marzo 2018, n. 6664, in ilcaso.it.
177 Cfr., E.F. RICCI, Sull’accertamento della nullità e della simulazione dei contratti come situazioni preliminari, in Riv. Dir. Proc., 1994, p. 660.
178 Hanno utilizzato l’argomento per impedire la nullità selettiva, ritenendo che la nullità di cui all’art. 23 T.u.f. sia riconducibile all’annullabilità e quindi con applicabilità dell’istituto della convalida: Trib. Verona del 17 aprile 2009, Trib. Verona del 23 marzo 2010, Trib. Pavia del 26.1.2013, Trib. Como del 7 marzo 2010, in il caso.it, in particolare il giudice comasco ha affermato che la nullità del contratto quadro “sia suscettibile di essere…sanata attraverso atti formali e espliciti ovvero attraverso fatti che chiaramente rivelino una volontà abdicativa del rimedio invalida torio”. Contra: Corte di Appello di Taranto del 10 dicembre 2012, in ilcaso.it.
179 G. PIAZZA, Convalida tacita nel diritto privato, Napoli, 1980; S. POLIDORI, Nullità relativa e potere di convalida, in Rass. Dir. Civ, 2003, p. 931 e ss.; G. PERLINGIERI, La convalida delle nullità di protezione, Contributo allo studio della sanatoria del negozio nullo, in AA. VV: Studi in onore di Giogio Cian, II, Padova, 2010, p. 1901 e ss.; G. BILÒ, Rilevabilità d’ufficio e potere di convalida nelle nullità di protezione del consumatore, in Riv. Trim.,2011, p. 483 ss. Contra: G. PASSAGNOLI, Note critiche in tema di sanabilità e rinunziabilità delle nullità di protezione, in Pers. e Merc., 2012, 1, p. 24 e ss.
dall’art. 1423 c.c. opererebbe solo per i contratti affetti da nullità assoluta, ma non per quelli in cui ricorra la nullità relativa, essendo questo rimedio diretto a tutelare la parte debole di un rapporto che, come abbiamo già visto, ha sia il potere di esercitare l’azione diretta alla dichiarazione di nullità, sia quello di convalidare il contratto nullo.
La Corte di Cassazione aveva in un primo momento escluso questa ipotesi, infatti, con una pronuncia del 2013 180 aveva stabilito che: “In tema di intermediazione finanziaria, ed alla stregua di quanto sancito dall'art. 23 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, sono nulle, per carenza di un indispensabile requisito di forma prescritto dalla legge a protezione dell'investitore, le operazioni di investimento compiute da una banca in assenza del cosiddetto "contratto quadro", senza che sia possibile una ratifica tacita, che sarebbe affetta dal medesimo vizio di forma ”, la Cassazione con una successiva pronuncia181 , ha escluso la convalida quando manca il contratto quadro, perché non può essere convalidato un contratto che non è mai esistito, ammettendola quindi, implicitamente, nell’ipotesi di un contratto esistente, ma formalmente invalido. Anche su questo punto dovranno pronunciarsi le Sezioni Unite chiamate a chiarire se dalla dichiarazione di nullità di alcune operazioni derivi la sanatoria del contratto nullo per rinuncia a far valere la nullità rispetto ad altre operazioni o per convalida.
Ancora si è sostenuto che l’eventuale nullità del contratto quadro richiesta dall’investitore per la mancanza dei requisiti di forma previsti dall’ art. 23, dovesse pregiudicare gli effetti di tutti i successivi atti d’acquisto e non solamente di quelli censurati dal contraente debole. Con la conseguenza che, privando di effetti anche gli acquisti che avevano generato risultati
180 Cass., 22 marzo 2013, n. 7283 in ilcaso.it.
181 Cass., 24 aprile 2018, n 10116, cit.
vantaggiosi per l’investitore, la banca ne poteva richiedere la restituzione, scongiurando così usi opportunistici182.
Va osservato che sul punto, la Cassazione183, con la sentenza del 16 marzo 2018 n. 6664, ha sostenuto che: “(…) Né la legittimazione all’azione di nullità, riservata all’investitore ex art. 23 d. lgs. n. 58 del 1998, impedisce la restituzione reciproca dell’indebito ricevuto: ponendosi la legittimazione all’azione e le conseguenze ripristinatorie dell’azione medesima, qualora esercitata, su piani diversi che l’investitore può vagliare al momento della proposizione della domanda perseguendo la sua massima convenienza. Neppure è di ostacolo la natura giuridica di singoli ordini, che questa Corte ormai ritiene negozi giuridici autonomi, ma collegati al contratto normativo di riferimento”. Inoltre, continua la sentenza, quando: “(…) sia stata dichiarata dal giudice del merito la nullità per difetto di sottoscrizione da parte del cliente del contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi di investimento, anche i successivi ordini, pur qualora non indicati dal cliente, né restato travolti. Secondo le norme sull’indebito, le restituzioni non seguono automaticamente alla caducazione del contratto ma esigono la domanda di parte”.
La sentenza appena citata sembrerebbe porsi in contrasto con la tesi secondo cui trattandosi di nullità di protezione questa sarebbe operativa solo nell’interesse dell’investitore184, e secondo alcuni si rischierebbe di
182 Cfr., D. SEMEGHINI, op. cit., p. 33 e ss.; A. PERRONE, op. cit., pp. 540-541. In giurisprudenza Trib. Milano del 29 aprile 2015, n. 5379, in ilcaso.it, secondo cui “La declaratoria di nullità impone altresì l’accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalla banca, con l’effetto che l’attore va condannato a restituire all’intermediario finanziario le obbligazioni acquistate (…) o i titoli conseguiti in concambio a seguito dell’adesione all’OPS 2010”.
183 Cass., 16 marzo 2018, n. 6664 in ilcaso.it.
184 In questo senso è interessante il documento del Consiglio Superiore della Magistratura predisposto in occasione del “…tirocinio mirato riservato ai magistrati nominati con DM 6.12.2007 e destinati a svolgere funzioni civili”, tenutosi a Roma il 15-19 giugno ove si afferma “Quando l’investitore agisce per far valere la nullità del contratto quadro per mancanza della prova scritta a norma dell’art. 23 TUF, spesso le banche chiedono in via riconvenzionale che l’eventuale declaratoria di nullità travolga anche operazioni distinte e diverse da quelle oggetto della domanda del risparmiatore. Il ragionamento è il seguente: se cade il contratto quadro questo travolge non solo gli ordini che hanno arrecato perdite ma anche quelli di cui il risparmiatore non si è lamentato. Tale impostazione non è condivisibile.
sovrapporre il piano della domanda di nullità con quella dell’indebito che ne consegue “confondendo la legittimazione a far valere la nullità con quella di domandare le restituzioni conseguenti a un accertamento della nullità promosso dall’esclusivo titolare delle relativa azione”185 e, comunque, si scivolerebbe “in una logica di “ritorsioni” estranea ai criteri che informano la disciplina applicabile nell’allocazione delle perdite subite dall’investitore”186.
Un’altra ricostruzione propone di compensare i risultati economici degli investimenti andati a buon fine con quelli di cui l’investitore richiedeva la nullità. La Corte di Appello di Milano187 aveva affermato che la Banca non può opporre in compensazione “le plusvalenze realizzate dall'investitore in altre operazioni finanziarie effettuate nel periodo oggetto di causa” perché “i ricavi ottenuti dall’attore non costituiscono credito dell’intermediario”. Ma la Cassazione ha cassato la pronuncia della Corte milanese, affermando il seguente principio di diritto: “In tema di giudizi aventi ad oggetto rapporti di intermediazione finanziaria, ove sia stata dichiarata la nullità del contratto quadro su domanda dell’investitore non è precluso all’intermediario, che pure non abbia proposto la domanda di nullità anche degli ordini positivamente conclusi per il proprio cliente, di sollevare l’eccezione di
La nullità prevista dall’art. 23 D. Lgs. 58/1998 è, per espressa previsione normativa, di carattere relativo in quanto solamente il cliente è legittimato ad eccepirla. Da ciò consegue che l’intermediario non è legittimato né ad eccepire la nullità del contratto di negoziazione per vizi formali né a far valere la nullità di operazioni distinte e autonome rispetto a quelle investite dalla domanda dei risparmiatori (…)”.
185 Così: A. PERRONE, op. cit., p. 540, nota 8. La Corte di Appello di Milano con la sentenza del 7 gennaio 2014, cassata dalla sentenza Cass. 16 marzo 2018 n. 6664, cit., aveva affermato che “non è fondata l’exceptio doli sollevata dalla banca in relazione al duplice abuso del diritto, per avere il cliente ingenerato, eseguendo il contratto per oltre sette anni, l’affidamento circa il riconoscimento della piena validità ed efficacia del contratto quadro, mentre è in facoltà del cliente compiere un uso c.d. selettivo dell’azione di nullità, con riguardo ai soli investimenti non andati a buon fine; non è fondata l’eccezione di compensazione proposta dalla banca con riguardo ai risultati economici positivi realizzati dall’attore nel periodo grazie alle plusvalenze delle operazioni finanziarie i quali non costituiscono un credito dell’intermediario, né si applica in materia di ripetizione dell’indebito il principio della “competatio lucri cum danno” tipico delle sole azione di responsabilità.”.
186 D. SEMEGHINI, op. cit., p. 39.
187 Corte di Appello, 7 gennaio 2014, in ilcaso.it.
compensazione con riguardo all’intero credito restitutorio che le deriva, in tesi, dal complesso delle operazioni compiute nell’ambito del contratto quadro dichiarato nullo” e riguardo alla ripetizione di indebito, questo principio di diritto: “Accertata la nullità del contratto d’investimento, il venir meno della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporta l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo, di cui agli artt. 2033
c.c. e ss., con il conseguente sorgere dell’obbligo restitutorio reciproco, subordinato alla domanda di parte ed all’assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente alla banca per eseguire l’operazione e, dall’altro i titoli consegnati dalla banca al cliente e gli altri importi ricevuti a titoli di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi a norma dell’art. 2038 cc, con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza” 188.
Anche questa soluzione si è prestata a qualche critica considerando che la compensazione si verifica quando due soggetti sono obbligati una verso l’altro per crediti e debiti reciproci e non sembra, come ha affermato la recente pronuncia della Cassazione, che le plusvalenze realizzate dall’investitore possano costituire un credito dell’intermediario.
Un ultimo orientamento ha proposto di circoscrivere l’azione di nullità dell’investitore “sulla base di una lettura correttiva della disposizione che riserva a questi l’esclusiva legittimazione ad agire” la quale “verrebbe sottoposta in virtù del criterio della correttezza, alla condizione di non utilizzare selettivamente le connesse domande restitutorie”189.
188 Cass., 16 marzo 2018 n. 6664, cit.
189 Cfr., D. SEMEGHINI, op. cit, pp. 131 e 132; R. LENER, I contratti di gestione, in Studi in onore di Antonio Pavone La Rosa, I, Milano, 1999, p. 562, nota 39, in considerazione della più generale eventualità che il cliente possa sfruttare abusivamente le rigidità della nullità relativa, accenna che “forse soltanto il ricorso ad una eccezione di “mala fede” potrebbe far salve le ragioni dell’intermediario”; così anche M. MIOLA, Testo Unico della Finanza, I, (a cura di) CAMPOBASSO, Torino, 2002, p. 226; V. SANGIOVANNI, Contratto di negoziazione, forma convenzionale e nullità per inosservanza di forma, in Contr. 2007, p. 783 ss., evoca un agire “quasi in malafede” dell’impugnante, suggerendo che il giudice dovrebbe cercare “un qualche meccanismo di sanatoria”.
Si tratta di un rimedio a cui i giuristi cercano di ricorrere in presenza di un contrasto tra ius scriptum e naturalismo equità, infatti, quando è accolta, l’exceptio doli consente di paralizzare una pretesa legittimamente fondata su una disposizione normativa proprio in ragione della sua contrarietà, nelle circostanze del suo concreto esercizio, a istanze di giustizia sostanziale190.
Come visto infra nel paragrafo relativo al diritto di recesso previsto dall’art. 30 T.U.F. questa è stata la soluzione adottata dalla sentenza delle Sez. Un191.
Parte della dottrina ha ritenuto possibile opporre l’exceptio doli generalis all’azione promossa da un investitore fondata sul difetto di forma del contratto quadro quando essa sia esercitata da una parte, per beneficiare dei vantaggi conseguenti alla dichiarazione di nullità, dall’altra, con l’intento di sottrarsi ai connessi svantaggi attraverso un’apposita formulazione selettiva delle domande restitutorie. Ciò, infatti, consentirebbe di limitare l’eventualità di uno sfruttamento opportunistico della tutela approntata per l’investitore affinando la portata protettiva della disciplina relativa alla forma dei contratti di intermediazione finanziari “senza deteriorare la particolare efficacia che questa ha mostrato di svolgere nella protezione dei risparmiatori”. In quest’ottica, dunque, l’eccezione di dolo generale è stata ritenuta idonea ad assicurare un adeguato contemperamento degli interessi sottesi, perché da un lato non appare possibile negare la nullità di un rapporto contrattuale di intermediazione finanziaria sprovvisto di un accordo scritto a monte, senza ricorrere ad interpretazioni che svuotino di contenuto la norma, dall’altro, la facoltà di spingere la dichiarazione di nullità fino alle estreme conseguenze di portare alla cancellazione di tutti gli investimenti effettuati, anche se potrebbe fare da deterrente indirettamente ad iniziative opportunistiche, rischia di portare nella singola controversia esiti squilibrati.
190 Cfr.: A. DOLMETTA, Exceptio doli generalis, in Enc. Giur, XII, Roma, 1997, p. 25; G. PORTALE, Lezioni di diritto privato comparato, Torino, 2007, p. 155-168; G. MERUZZI, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Padova, 2005.
191 Cass., 3 giugno 2013, n. 13905, in ilcaso.it
Secondo un autore, “Con l’eccezione di dolo, invece, la nullità prevista dal precetto positivo non viene intaccata, ma nel contempo i tentativi di riversare opportunisticamente sulla controparte i soli insuccessi delle operazioni compiute dall’investitore vengono respinti in via diretta e con minor sommarietà. E ciò senza introdurre disarmonie sul piano semantico bensì come dimostrato realizzando un ulteriore affinamento dell’impostazione di fondo che contraddistingue la disciplina interessata”192.
192 Cfr., D. SEMEGHINI, Forma ad substantiam ed exceptio doli nei servizi di investimento, Milano, 2010, p. 135 ss; A. PERRONE, Regole di comportamento e tutela degli investitori, Less is more, in Banca borsa tit. cred., 2010, p. 537 ss.
Conclusioni
L’esigenza politico-economica di regolamentare, in chiave protettiva, la posizione dei soggetti ritenuti deboli nei rapporti commerciali, ha determinato una rilevante produzione di norme nel nostro ordinamento.
Come abbiamo visto, negli ultimi decenni sono state sviluppate nuove prescrizioni concernenti la forma dei contratti, c.d. “neoformalismo”, che hanno dato il via ad una parallela concezione della forma rispetto alle tradizionali norme civilistiche. È stata sviluppata una nuova forma di invalidità che, al fine di proteggere il contrente debole, opera in maniera innovativa rispetto agli istituti civilistici tradizionali. È emersa una nuova e particolare forma di recesso legale, che in determinati casi consente alla parte debole di compiere una opposta valutazione riguardo l’interesse che lo aveva spinto alla conclusione del contratto, senza alcuna giustificazione od onere probatorio.
Dall’analisi casistica è emerso come la giurisprudenza, dopo essersi orientata verso l’adozione di decisioni “formalistiche” favorevoli alla parte debole, abbia e stia ancora cambiando rotta, con l’intento di moderare gli effetti voluti dal legislatore, controbilanciando un potere che, nell’applicazione pratica, ha mostrato molteplici fessure attraverso le quali si potevano infiltrare distorsioni ed abusi.
Di qui un acceso dibattito sul concetto di abuso del diritto che ha implicato una nuova riflessione sui limiti di esercizio dei poteri contrattuali e sul significato della clausola di buona fede.
Dibattiti sicuramente rianimati da un nuovo equilibrio tra le parti e dall’uso che degli strumenti se ne è fatto in concreto.
Si pensi alla denunciata manipolazione del diritto di recesso praticata dall’investitore nelle negoziazioni fuori sede di prodotti finanziari, all’uso selettivo della nullità relativa, mediante la quale la parte debole del contratto ha ritenuto di poter orientare i propri investimenti facendo ricadere sull’intermediario il rischio di mercato, o ancora la richiesta di un
risarcimento del danno da vacanza rovinata sfruttando un inadempimento anche lieve dell’organizzatore che, nella realtà, non ha viziato la causa del negozio e non ha in sostanza causato un danno apprezzabile.
Sembrerebbe che l’esigenza di perequare i rapporti tra parti asimmetriche abbia fatto emergere una nuova problematica in considerazione del fatto che, non sempre, il soggetto che si presume debole nei rapporti di mercato abbia l’esigenza di essere protetto o che parti ritenute in posizione e forza equivalente non possano in concreto trovarsi in soggezione oggettiva.
La giurisprudenza, dunque, si è trovata di fronte ad un bivio: dover riconoscere gli effetti di un diritto, esercitato in conformità delle prescrizioni normative, ma diretto a perseguire fini difformi rispetto alle problematiche a cui il legislatore voleva porre rimedio; o scongiurare risultati opportunistici muovendo sulla base di valori non necessariamente contenuti nella norma istitutiva, ma diffusi nell’ordinamento o addirittura tratti dal senso di giustizia pratica e comunemente condivisi.
Il susseguirsi delle decisioni, spesso opposte, non consente ancora di delineare gli sviluppi definitivi del dibattito. Sembra tuttavia doversi ritenere che il giudizio di merito non può prescindere da un contemperamento di diritti coesistenti. Nonostante il precetto ricavabile dal brocardo qui iure suo utitur neminem leadit, sembra spingere l’interprete a ritenere non risarcibile un diritto esercitato in conformità alla fonte attributiva del diritto stesso, in un sistema in cui coesistono diritti contrapposti, l’uso del diritto non può non essere “moderato” ed arginato dall’incontro con altre norme, né può ritenersi che questo confronto non imponga di attenersi a doveri morali o di solidarietà sociale.
Come visto nel caso Renault193in cui non preesistevano norme protettive per una delle parti, i giudici hanno interpretato il diritto di recesso in maniera adeguata ad un sistema economico evoluto, articolato, complesso (si pensi all’effetto che un recesso da parte della casa madre esclusiva possa
193 Cass. Civ., sez III, 18 settembre 2009, n. 20106, in DeJure.
determinare sugli equilibri finanziari dell’impresa dealer, impresa che è venuta a costruirsi proprio in proiezione delle commesse ricevute), conferendo alla clausola nuovi significati e nuove applicazioni a protezione di una situazione di fatto inconciliabile con un recesso ad nutum. Il fatto che il caso Renault non derivasse da una legislazione tra parti asimmetriche ha dato riscontro di una sensibilità giurisprudenziale attenta ai mutamenti della società e dell’economia. Gli stessi mutamenti che hanno indotto la produzione di norme protettive.
Ma anche nelle contrattazioni tra parti asimmetriche non sembrano poter trovare spazio diritti incondizionati o assoluti e gli strumenti ermeneutici elaborati intorno al concetto di abuso del diritto sono stati dirimenti per bilanciare nuovamente opposti interessi.
Insomma l’analisi condotta sui casi riportati nel presente lavoro ci induce a ritenere che lo spazio discrezionale scaturente dallo strumento dell’abuso di diritto (unitamente ad una rinnovata visione del principio di buona fede, che lo espande e lo integra), utilizzato dai giudici di merito e di legittimità, ha consentito di dirimere casi in cui appariva palmare la distorsione degli istituti, avvicinando le decisioni a valori di giustizia più equi e moderni.
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