Dipartimento di Giurisprudenza
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza
Il contratto di lavoro a tempo determinato
Il candidato Il relatore
Xxxxxxxxx Xxx Xxxx. Xxxxxxxxxx Xxxx
A.A. 2013/2014
“Il diritto al lavoro è concepito nelle Costituzioni contemporanee essenzialmente come concreta opportunità per tutti i cittadini di vivere dignitosamente e al riparo dal bisogno grazie all’occupazione stabile nel lavoro subordinato: “schema occupazionale”, tuttavia, che basandosi, concettualmente e finanziariamente, sulla centralità dell’occupazione stabile dalla scuola alla pensione, non regge all’invecchiamento della popolazione e alla jobless growth alla quale le società europee sembrano condannate”
X. X’Xxxxxx, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità?, Xxx. Giur. Lav. Prev.Soc., 1998, I.
Sommario
Introduzione 7
CAPITOLO I: Il quadro normativo di riferimento: la direttiva
1999/70/CE 9
2. L’accordo quadro del 18 marzo 1999 13
3. I contenuti dell’accordo 16
3.1. Il principio di non discriminazione 17
3.2. La prevenzione degli abusi nella direttiva 20
3.3. Le disposizioni di attuazione. La clausola di non regresso 22
CAPITOLO II: L’attuazione della direttiva 1999/70/CE in Italia
26
1. La disciplina anteriore alla direttiva 1999/70/ CE 26
2.1. La giustificazione dell’apposizione del termine 41
2.2. Procedure e formalità per l’assunzione dei lavoratori a termine 48
2.3. I divieti di apposizione del termine 52
2.4. La proroga del termine originario 56
2.5. La successione di più contratti a tempo determinato 59
2.6. Esclusioni e discipline specifiche 61
3. I successivi interventi di riforma 71
3.1. Le modifiche introdotte dalla legge n.247/2007 72
3.3. Il Collegato Lavoro: la legge n.183/2010 82
CAPITOLO III: L’attuazione della direttiva 1999/70/CE nei principali paesi europei 106
1. Introduzione 106
2. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento francese 107
3. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento tedesco 114
4. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento britannico 119
5. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento spagnolo 123
CAPITOLO IV: La situazione attuale e i mutamenti normativi in atto 128
1. Un bilancio del d.lgs. n.368/2001 128
2. Il contratto di lavoro a tempo determinato nell’esperienza applicata
europea della direttiva 1999/70/CE | 134 |
3. Il contratto a tempo determinato dopo la legge | n.78/2014: verso la |
parificazione con il contratto a tempo indeterminato? | 141 |
Conclusioni | 147 |
Ringraziamenti | 150 |
Bibliografia | 151 |
Introduzione
In questi anni caratterizzati dal perdurare della crisi economica il contratto di lavoro a tempo determinato ha assunto un’importanza sempre maggiore, tale da renderlo uno dei principali protagonisti del diritto del lavoro.
Suddetta tipologia contrattuale costituisce infatti lo strumento più utilizzato per l’assunzione di forza lavoro, in particolare di quella giovanile: per gli under 25, la quota di avviamenti tramite rapporti di lavoro a tempo determinato è cresciuta di oltre 10 punti percentuali nell’ultimo anno, passando dal 51,3% del totale degli avviamenti nel secondo trimestre 2012 al 61,4% del secondo trimestre 2013. Rimaste pressoché invariate le quote di avviamenti tramite lavoro a tempo indeterminato (ultimo dato 9,6%) e apprendistato (11,9%), scesa leggermente la quota dei contratti di collaborazione (da 7,6% a 6,3%), il lavoro a tempo determinato è andato a erodere quel bacino di contratti neanche troppo marginali nell’ambito dell’occupazione giovanile, e in particolare quello intermittente, il cui peso sugli avviamenti è calato in un anno dal 20,2% al 10,7%1.
Questa situazione deriva da due circostanze fondamentali: da una parte, l’incertezza sui tempi della ripresa non consente agli imprenditori di effettuare investimenti strategici sul personale in azienda (spostando così la domanda di lavoro verso contratti in grado di coprire esigenze temporanee di breve periodo), dall’altra le riforme susseguitesi nell’ultimo decennio hanno attenuato i vincoli all’impiego di contratti a termine e portato ad un
1 Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema delle Comunicazioni Obbligatorie (2013).
sostanziale incremento dei lavoratori dipendenti a tempo determinato e, più in generale, di quelli con contratti di lavoro di tipo non standard.
Nel corso degli anni il legislatore è infatti intervenuto innumerevoli volte con riforme e modifiche più o meno riuscite sul contratto a termine, facendolo divenire una sorta di emblema della flessibilità del lavoro. Considerato la chiave di volta, lo strumento capace di venire incontro alle legittime esigenze delle imprese di incremento temporaneo della propria forza lavoro e, al tempo stesso, di favorire l’aumento del tasso di occupazione, esso è stato talvolta sovracaricato di aspettative salvifiche ed è tutt’ora al centro di un acceso dibattito politico.
Per tali ragioni un elaborato incentrato sul contratto di lavoro a tempo determinato è più che mai attuale e utile per comprendere e analizzare i recenti sviluppi sul tema in oggetto.
Lo scopo di questo lavoro è pertanto quello di illustrare il percorso normativo del contratto a termine in Italia, partendo dalla norma fondamentale in materia: la direttiva comunitaria n.70/99/CE. In seguito viene analizzato il sistema normativo italiano, ripercorrendo le tappe fondamentali che hanno portato al d.lgs. n.368/2001 e alle continue riforme che hanno contribuito a rendere così instabile la materia. Particolare attenzione viene posta sulle recenti modifiche normative e in particolare sul
d.l. n.34/2014, convertito nella legge n.78/2014, analizzando l’impatto che la nuova disciplina ha avuto sul mercato del lavoro. Al fine di affrontare l’argomento in un’ottica europea, l’elaborato esamina inoltre le diverse normative poste in essere dai principali paesi dell’Unione (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna) al fine di attuare la direttiva n.70/99/CE e si sofferma sulla situazione attuale di questi mercati occupazionali, analizzandoli e comparando in tal modo le molteplici realtà europee.
CAPITOLO I: Il quadro normativo di riferimento: la direttiva 1999/70/CE
1. Il contesto europeo
La necessità di un intervento comunitario in materia lavoristica, con una serie di norme volte ad armonizzare le normative dei singoli Stati membri, emerge solo a partire dagli anni Ottanta, dopo ben trent’anni dalla nascita della prima forma di Comunità europea (la CECA).
La spiegazione di questo fenomeno è chiara se si tiene conto del fatto che la costruzione europea nasce sulle rovine della II guerra mondiale con l'obiettivo di promuovere innanzitutto la cooperazione economica tra i paesi, partendo dal principio che il commercio produce un'interdipendenza che riduce i rischi di conflitti. Tale connotazione mercantilistica appare chiara nei primi Trattati, in cui emerge come obbiettivo prioritario la creazione di un’area di libero mercato caratterizzato dalla liberalizzazione degli scambi e dall’istituzione di una tariffa doganale comune verso il resto del mondo.
Nel corso degli anni Ottanta emerse tuttavia il bisogno di porre maggiore attenzione alla dimensione sociale dell’Europa: lo shock petrolifero, la successiva intensa fase di ristrutturazione e innovazione produttiva e l’indebolimento delle forze sindacali, portarono l’ordinamento comunitario a concentrarsi sui diritti sociali e del lavoro senza considerarli dei meri strumenti utili per il raggiungimento del mercato unico europeo.
Un simile cambiamento di prospettiva portò nel 1986 alla redazione dell’Atto Unico Europeo, che introdusse il TITOLO V del Trattato CEE e il
nuovo concetto della coesione economica e sociale tra Stati membri che le autorità comunitarie devono promuovere, impegnandosi a ridurre il divario fra le diverse regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite2.
Un ulteriore passo avanti si registrò nel 1992 con l’adozione dell’Accordo sulla politica sociale che ha ampliato, innanzitutto, i compiti comunitari nella sfera sociale, assegnando congiuntamente alla Comunità e agli Stati membri gli obiettivi della promozione dell’occupazione, del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, di una protezione sociale adeguata, del dialogo sociale, dello sviluppo delle risorse umane al fine di consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e di combattere le esclusioni. Obiettivi da realizzare, tuttavia, tenendo conto delle diversità delle pratiche nazionali e della necessità di mantenere la competitività dell’economia comunitaria.
Con tale documento si gettarono le basi normative di un sistema di contrattazione a livello europeo, consentendo alle parti sociali di inserirsi nei processi decisionali comunitari e di avere un ruolo, tutt’altro che secondario, in quelli legislativi. Il metodo utilizzato è organizzato secondo una procedura "a schema binario" che, muovendo dalla consultazione delle parti sociali da parte della Commissione, può condurre o ad una cooperazione, più o meno intensa, delle Parti sociali all'attività della Commissione e del Consiglio; o alla disciplina - integrale o parziale - di una specifica materia da parte dell'autonomia collettiva, sulla base di una "autorizzazione" della Commissione; in questo secondo caso l'autonomia, collettiva viene riconosciuta come fonte normativa sussidiaria.
In seguito, il Trattato di Amsterdam del 1997 (entrato in vigore nel 1999), integrò l’accordo sociale alle disposizioni del Titolo XI del TCE assegnando
2 L’atto ha comunque un centro di interesse ancora una volta economico: la finalità consiste nell'instaurazione progressiva del mercato interno nel corso di un periodo che scade il 31 dicembre 1992. Il mercato interno è definito come uno "spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali ".
un ruolo normativo alle parti sociali: non solo si prevede che esse possano collaborare alla produzione normativa, ma si intende promuovere anche la loro autonoma attività favorendo accordi collettivi europei nelle materie oggetto di intervento comunitario. L’art.139 TCE, che riproduce integralmente il testo dell’art.4 dell’APS, dispone al I comma che “Il dialogo delle parti sociali a livello comunitario può condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi”, e al II prevede che “Gli accordi conclusi a livello comunitario sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle Parti sociali e degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 137, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione”. Il dialogo sociale può portare quindi ad accordi tra le parti che possono assumere efficacia vincolante o mediante procedure e prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri (contratti collettivi), oppure mediante una decisione adottata dal Consiglio su proposta della Commissione.
Le difficoltà economiche degli anni Novanta portarono a focalizzare l’attenzione della politica comunitaria sul problema dell’occupazione, nel tentativo di dare una risposta coordinata a livello europeo.
Con il Libro Verde del 1997 su Partnership for a New Organization of work, del 16 aprile 1997, la Commissione intese stimolare un dibattito europeo su nuove forme di organizzazione del lavoro e, per la prima volta, venne presentata l’idea di un necessario bilanciamento tra flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. La questione fondamentale da affrontare era incentrata sul raggiungimento del giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza: da un lato, la necessità di offrire maggiore flessibilità agli imprenditori, per far fronte alle fluttuazioni della domanda dei beni e servizi da essi offerti; dall’altro, la necessità di rassicurare i lavoratori stessi sul fatto che, una volta introdotti i cambiamenti, essi avrebbero continuato ad avere, per un ragionevole lasso di tempo, un posto di lavoro e che la nuova
organizzazione avrebbe offerto loro una maggiore sicurezza tramite un maggiore coinvolgimento nell'attività dell'azienda, una maggiore soddisfazione e la possibilità di sviluppare competenze ed attitudini a lungo termine.
Proprio tale obbiettivo divenne uno dei pilastri delineati nell’ambito della strategia europea per l'occupazione varata a Lussemburgo nel novembre 1997, quello dell’adattabilità3, che punta sulla modernizzazione dell'organizzazione, la flessibilità del lavoro e la predisposizione di contratti adattabili ai diversi tipi di lavoro, al fine di ottenere la creazione di posti di lavoro duraturi e il funzionamento efficiente del mercato del lavoro.
Tale pilastro si compone di tre linee guida:
la prima invita le parti sociali a negoziare ai livelli tradizionali, ma soprattutto ai livelli di settore e di impresa, accordi volti a modernizzare l’organizzazione del lavoro, al fine di rendere più produttive e competitive le imprese;
la seconda riguarda l’opportunità per gli Stati membri di introdurre nuove tipologie contrattuali più flessibili;
la terza invita gli Stati membri ad eliminare gli ostacoli, soprattutto fiscali, che possono impedire l’investimento in capitale umano, introducendo incentivi, fiscali o di altro tipo, atti a promuovere la formazione nell’impresa.
Il legislatore europeo si indirizza quindi verso una “flessibilità regolata” in modo da evitare l’eccessiva liberalizzazione delle forme contrattuali atipiche e costruire degli istituti normativi stabili in grado di favorire la crescita del livello occupazionale.
3 Le altre linee d’azione che gli Stati devono porre in essere sono l'occupabilità, l'imprenditorialità e la pari opportunità.
2. L’accordo quadro del 18 marzo 1999
Il primo tentativo di regolarizzare il lavoro a tempo determinato risale al 1982, allorquando la Commissione europea elaborò una proposta di direttiva in materia di lavoro temporaneo che comprendeva sia il lavoro interinale che il lavoro a termine, mai discussa in modo approfondito in seno al Consiglio.
Nel corso negli anni Novanta, sotto la spinta delle innovazioni introdotte dall’Atto Unico Europeo, si succedettero una serie di progetti in materia, tutti destinati a naufragare. Solo grazie alle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam e alla procedura ex art. 139 TCE (ora art. 155 TFUE) è stato possibile arrivare finalmente a una regolarizzazione del lavoro a tempo determinato con la direttiva n. 99/70/CE. Grazie al nuovo ruolo attribuito al dialogo sociale, la disciplina dei lavori atipici è stata infatti attratta nell’orbita della contrattazione collettiva europea, che vede come protagoniste principali tre organizzazioni interprofessionali a vocazione generale: il CEEP (Centro europeo delle imprese pubbliche), l’UNICE (Unione delle industrie della Comunità europea) e la CES (Confederazione europea dei sindacati), e ha portato alla firma dello storico accordo quadro del 18 marzo 1999.
La direttiva del 28 giugno 1999 si propone di dare attuazione a tale intesa sul lavoro a tempo determinato, limitandosi a rinviare al testo dell'accordo senza variarne il contenuto. E’ necessario sottolineare che l’oggetto della normativa è esclusivamente il contratto a tempo determinato e non anche il lavoro interinale, che dunque rimane escluso dalla sfera applicativa dell’accordo. Nel quarto punto del preambolo si esprime l’intenzione delle parti di considerare la necessità di un analogo accordo relativo al lavoro interinale.
La direttiva consta di un preambolo e di soli quattro articoli.
Nel preambolo vi sono considerazioni relative al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori comunitari, nonché alla prospettiva di un incremento occupazionale mediante un’organizzazione più flessibile e moderna del lavoro.
Il testo normativo non prevede una disciplina di dettaglio, ma si limita a stabilire i principi generali e le disposizioni minime inderogabili in peius dagli Stati membri, determinando solo gli obbiettivi da raggiungere e rimettendo ai vari ordinamenti il completamento delle linee guida tracciate dalla direttiva.
L’accordo quadro, allegato alla direttiva, si compone di tre parti: il preambolo, dodici considerazioni generali e otto clausole che costituiscono la parte precettiva o dispositiva vera e propria.
Nel preambolo le parti sociali riconoscono che “i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro tra i datori di lavoro e i lavoratori. Essi inoltre riconoscono che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori”.
Il contenuto dell’accordo rispecchia tutti i limiti tipici, da una parte, della natura compromissoria tipica di questi accordi collettivi e, dall’altra, della competenza delle parti sociali in materia, che resta sempre subordinata a limiti preventivi e successivi4.
Se da un lato le parti sottolineano che l’accordo rappresenta un “contributo in direzione di un migliore equilibrio tra la flessibilità dell’orario di lavoro e la sicurezza dei lavoratori” (preambolo, I capoverso) ed evidenziano la necessità di “modernizzare l’organizzazione del lavoro, comprese formule flessibili di lavoro, onde rendere produttive e competitive le imprese e raggiungere il necessario equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza”
4 A. Lo Faro, Funzioni e finzioni della contrattazione collettiva comunitaria, Milano, Xxxxxxx, 1999, secondo il quale i limiti preventivi attengono ai contenuti dell’iniziativa delle parti sociali, quelli successivi alle forme di controllo poste in essere dalla Commissione.
(considerazione generale n. 5); dall’altro si afferma che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento” (considerazione generale n.6).
Il preambolo e le considerazioni generali offrono un contesto altamente compromissorio ai fini del componimento degli obbiettivi di flessibilità e sicurezza. La logica liberalizzante, corroborata dall’esplicita volontà di spostare l’asse di oscillazione del sistema di garanzie verso il polo flessibilità, allo scopo di aumentare la competitività dell’economia comunitaria con peculiare attenzione alla creazione delle piccole e medie imprese, si contrappone al favor accordato al lavoro a tempo indeterminato quale forma comune dei rapporti di lavoro5.
Vista questa presenza di affermazioni di natura opposta, una delle prime questioni che si è posta in dottrina riguarda proprio la struttura dell’accordo, ossia se al preambolo e alle considerazioni generali debba essere attribuito un significato esclusivamente politico o un vero e proprio valore giuridico. Quest’ultima lettura, che si è rivelata alla fine maggioritaria, parte dal presupposto che solo una lettura unitaria consente la ricostruzione del significato oggettivo dell’accordo. Tale interpretazione è stata inoltre avvallata della Corte di giustizia europea, la quale ha più volte affermato6 che il beneficio della stabilità dell’impiego costituisce un elemento portante della tutela dei lavoratori, proprio valorizzando il preambolo dell’accordo quadro, nella parte in cui si afferma che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro.
5 X. Xxxxxx, in La direttiva comunitaria n.99/70/CE, in Perone G. (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, x.000, Xxxxxx, Giappichelli Editore, 2002.
6 In particolare si vedano le sentenze 22.11.2005, C-144/04, Xxxxxxx, n.64, e 4.7.2006, X- 000/00, Xxxxxxxx, x.00.
3. I contenuti dell’accordo
Nella parte più propriamente dispositiva, la clausola n.1 chiarisce che gli obbiettivi dell’accordo quadro sono:
a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;
b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
Tali scopi sono oggetto di due clausole successive: la clausola n.4, relativa al principio di non discriminazione, e la n.5, “misure di prevenzione degli abusi”, che delinea il quadro normativo preannunciato dalla clausola n.1 al fine di assicurare un utilizzo non fraudolento dell’istituto del rinnovo dei contratti a tempo determinato.
Il campo d’applicazione è definito dalla clausola n.2, dove al primo comma si precisa che “Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro”. Il secondo comma della clausola attribuisce poi agli Stati membri la possibilità di escludere, previa consultazione delle parti sociali, l’applicabilità dell'accordo a particolari tipologie contrattuali: sono richiamati i rapporti di formazione professionale, i rapporti di apprendistato e comunque quei rapporti di lavoro che facciano riferimento ad uno specifico programma di formazione, inserimento o riqualificazione professionale o un programma che usufruisca di contributi pubblici.
I termini utilizzati per delimitare il campo di applicazione vengono chiariti nella successiva clausola n.3, dove vengono fornite una serie di definizioni utili. La prima definizione riguarda il lavoratore a tempo determinato, che viene indicato come una “persona con un contratto o un rapporto di lavoro
definiti direttamente fra il datore di lavoro ed il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una determinata data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”. Per permettere un confronto tra lavoratore a termine e lavoratore a tempo indeterminato, utile in sede di accertamento di comportamenti discriminanti, è stata poi inserita la definizione di lavoratore a tempo indeterminato comparabile, inteso come un “lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze”. Nel caso in cui non vi sia la possibilità di effettuare tale comparazione per l’assenza di un lavoratore che rientri in tali parametri, “il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest'ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali” (clausola n.3.2).
Il tenore delle definizioni utilizzate, di per sé non univoche, hanno destato diversi dubbi sull’effettivo ambito di applicazione della direttiva. A tal proposito, con riguardo ai contratti a termine stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni, non vi era un orientamento unitario. La Corte di giustizia europea è però intervenuta a riguardo chiarendo che la direttiva deve essere applicata ai lavoratori a termine, senza che sia possibile operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del datore di lavoro7.
3.1. Il principio di non discriminazione
Nel suo nucleo essenziale, il principio di non discriminazione ex clausola
n.4 concerne il diritto del lavoratore a termine alla parità di trattamento
7 Si vedano in particolare le sentenze Xxxxxxxx, cit., e la sentenza 7.9.2006, C-53/04,
Xxxxxxx e Xxxxxxx, n.39.
rispetto al “lavoratore a tempo indeterminato comparabile”. Dalla lettura della norma, che stabilisce che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”, affiora infatti un vero e proprio obbligo positivo di pari trattamento gravante sul datore di lavoro. Emerge quindi una sorta di rapporto dicotomico tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato, con la conseguenza che ogni differenza di trattamento rispetto al lavoratore comparabile dovrà presumersi illegittima a meno che non venga dimostrato l’esistenza si determinate ragioni oggettive che giustifichino deroghe in peius.
Un’ulteriore conseguenza dell’applicazione del principio di non discriminazione è prevista dalla clausola n.4.4, secondo la quale “i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive”. Appare dunque chiaro che, qualora i diritti dei lavoratori siano condizionati da possesso di una certa anzianità, questa condizione deve essere applicata senza alcuna distinzione tra lavoratori stabili e precari.
Il terzo comma della clausola prescrive ad ogni Stato membro di definire la disciplina atta ad applicare il principio di non discriminazione, previa consultazione delle parti sociali e/o dalle parti sociali stesse, viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e la prassi nazionali.
Un criterio di contemperamento della piena applicazione del principio in oggetto deriva dalla clausola n.4.2, secondo la quale “se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis”. In base a tale disciplina, i trattamenti spettanti al lavoratore a tempo indeterminato saranno dovuti al lavoratore a termine solo in proporzione al periodo di lavoro prestato.
A cornice delle garanzie antidiscriminatorie previste dalla normativa comunitaria vi sono le clausole nn.6 e 7.
In primo luogo, la clausola n.6.1 stabilisce un obbligo per i datori di lavoro di informare i lavoratori a tempo determinato dei posti vacanti che si rendano disponibili nell’impresa o nello stabilimento, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori. Il secondo comma si occupa invece della formazione, disponendo che “nella misura del possibile, i datori di lavoro dovrebbero agevolare l'accesso dei lavoratori a tempo determinato a opportunità di formazione adeguate, per aumentarne le qualifiche, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale”.
La clausola n.7 sancisce la computabilità dei lavoratori a termine ai fini della determinazione della soglia numerica oltre la quale possono costituirsi, nell’ambito dell’impresa, gli organi di rappresentanza sindacale previsti dalla legislazione nazionale ed europea ed in conformità con la normativa nazionale. L’accordo demanda, anche in questo caso, agli Stati membri previa consultazione delle parti sociali, e/o alle parti sociali stesse, la definizione delle modalità applicative della norma, secondo legislazione, contrattazione e prassi nazionali, nel rispetto del principio generale di non discriminazione di cui alla clausola n.4.
Desta perplessità, infine, in ordine all’effettiva portata precettiva la clausola
n.7.3 che, con tono esortativo, prevede che “nella misura del possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione la fornitura di adeguata informazione agli organi di rappresentanza dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nell'azienda”.
Secondo una discutibile tecnica legislativa, le parti sociali si limitano ad auspicare che, nella misura del possibile, i datori di lavoro prendano in considerazione la fornitura di adeguate informazioni. Nessun riferimento si rinviene, invece, ad eventuali obblighi di consultazione, nonostante la promettente rubrica della clausola n.7 (“informazione e consultazione”).
3.2. La prevenzione degli abusi nella direttiva
La clausola n.5, concernente la finalità di prevenzione degli abusi nel ricorso del contratto a termine, costituisce il fulcro della disciplina pattizia in esame.
Al fine di definire il quadro normativo preannunciato dalla clausola n.1, la norma indica una serie di misure dirette a sanzionare l’utilizzazione incontrollata di contratti a termine successivi tra le stesse parti ovvero la continua proroga dello stesso contratto. Tali meccanismi, infatti, determinano il forte sospetto che si intenda eludere la più rigorosa e garantista disciplina in materia di contratto a tempo indeterminato, mantenendo il lavoratore in una situazione di precarietà e di insicurezza, nonostante il rapporto sia sostanzialmente stabile sul piano dei fatti, ma non anche su quello delle garanzie giuridiche.
Il primo comma impone agli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o alle parti sociali stesse, di introdurre, in assenza di norme equivalenti, una o più misure relative a:
a) Ragioni obbiettive per la giustificazione del rinnovo;
b) Durata massima totale dei contratti o rapporti a termine successivi;
c) Numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
La clausola n.5.2 precisa che “gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:
a) devono essere considerati “successivi”;
b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato”. La questione interpretativa più rilevante che si è posta attiene al problema di capire se la direttiva imponga l’adozione di una ovvero di tutte le misure indicate, ossia se queste debbano essere introdotte in via alternativa o congiunta.
Nonostante in dottrina si registrino posizioni discordanti e spesso opposte, la questione va affrontata secondo una diversa prospettiva, cioè seguendo il
c.d. criterio teleologico8: il tenore della clausola è tale da non imporre l’adozione di una o tutte le misure, quanto piuttosto dall’indicare il risultato da raggiungere, nel senso di attuare anche solo una misura purchè quest’ultima sia tale da prevenire effettivamente gli abusi derivanti dalle successioni di contratti o rapporti a tempo determinato. Ciò che rileva è quindi che gli Stati membri dispongano di norme in grado di garantire tale prevenzione e pertanto, se queste norme esistevano anteriormente alla direttiva, l’ordinamento nazionale si può considerare conforme al dettato comunitario.
Due questioni di fondamentale importanza affrontate dalla Corte di giustizia europea nelle sentenze Xxxxxxxx (sent. 4.7.2006, C-212/04, nn. 69-70) e Xxxxxxxxxx (sent. 23.04.2009, C- 378/07, n.96) riguardano l’individuazione di due nozioni, quella di “ragioni oggettive” e quella di “contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi”.
Con riferimento al primo problema, la Corte ha sostenuto che costituiscono ragioni oggettive le circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività, tali da giustificare in tale particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato. Non sono dunque conformi al diritto comunitario disposizioni che si limitano ad autorizzare in modo generale ed astratto il ricorso a contratti a termine senza nessuna precisazione e senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata.
Partendo da tali considerazioni, la dottrina ha sviluppato ulteriormente il concetto di ragioni oggettive, sostenendo che esse debbano consistere in
8 Aderiscono a tale interpretazione X. Xxxxxxxxxx, La direttiva sul lavoro a tempo determinato, in Garilli A. e Napoli M., Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Torino, Giappichelli Editore, 2003; Miranda N., Il contratto a termine nel lavoro privato e pubblico, Padova, Cedam, 2007; Xxxxxxxx L., Il nuovo lavoro a termine, in Vallebona A., I contratti di lavoro, I, Torino, Utet, 2009.
un’attività destinata ad esaurirsi in un arco temporale delimitato, ciò che non implica straordinarietà, non ripetitività o imprevedibilità, ma che corrisponda alla funzione del contratto a termine come strumento destinato a far fronte a fabbisogni di carattere temporaneo e non già utilizzato per soddisfare fabbisogni durevoli e permanenti9.
La seconda questione esaminata dalla Corte concerne la nozione di contratti a termine “successivi”. Sebbene la clausola n.5.2, lasci agli Stati membri la cura di determinare la definizione del carattere “successivo” dei contratti, secondo la Corte tale potere discrezionale non è illimitato, in quanto esso non può in alcun caso pregiudicare lo scopo o l’effettività dell’accordo quadro. Pertanto “una disposizione nazionale che consideri successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore o pari a 20 giorni lavorativi deve essere considerata tale da compromettere l’obiettivo, la finalità nonché l’effettività dell’accordo quadro” (punto 84 della sent. Xxxxxxxx).
3.3. Le disposizioni di attuazione. La clausola di non regresso
La clausola finale dell’accordo quadro chiarisce che la normativa comunitaria predispone solo un livello minimo di tutela al quale gli Stati possono discostarsi riconoscendo ai lavoratori una disciplina più favorevole. Ad integrazione di tale disposizione si vieta, nella fase di trasposizione, di ridurre il generale livello di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso (clausola n.8.3, c.d. clausola di non regresso).
9 Di Xxxxx X. e Xxxxxx X., Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, Xxxxxxx ed., 2011.
La norma chiarisce inoltre che l’accordo “non pregiudica ulteriori disposizioni comunitarie più specifiche, in particolare per quanto riguarda la parità di trattamento e di opportunità uomo-donna” (clausola n.8.2) né “il diritto delle parti sociali di concludere al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate” (clausola n.8.4).
Fra le disposizioni della clausola n.8, quella che ha suscitato maggiore interesse è senza dubbio quella riguardante la clausola di non regresso. Essa attiene non tanto ad un giudizio di conformità tra la direttiva comunitaria e la normativa nazionale di recepimento, ma ad una verifica atta ad escludere che il legislatore interno, pur conformandosi alla direttiva, non realizzi un peggioramento rispetto alla precedente disciplina.
Dalle sentenze della Corte di giustizia emerge come tale clausola abbia una funzione contenuta, atta ed escludere che l’arretramento di tutele possa fondarsi sul pretesto rappresentato dall’apparente necessità di attuare la direttiva10. La dottrina preferibile, pertanto, sarebbe quella che fa discendere dalla clausola di non regresso un obbligo di trasparenza delle scelte legislative dello Stato membro, nel senso che le clausole di non regresso imporrebbero allo Stato di giustificare il mutamento in peius, ovviamente con il limite del rispetto del livello minimo di tutela imposta dalla direttiva11.
Un’ulteriore questione su cui si sono soffermati gli interpreti12 riguarda il significato dell’espressione “livello generale di tutela” e, in particolare, sul
10 Corte di giustizia, ordinanza 11.11.2010, C-20/10, Vino, n.37.
11 In particolare Xxxxxx M., La disciplina aggiuntiva del contratto a termine per il settore delle Poste e la dir. 1999/70/CE: violazione della clausola di non regresso e poteri del giudice italiano, in XXX, XX, 0000; Xxxxxx L., Xxxxxxxx di non regresso e divieti di discriminazione per età: il caso Xxxxxxx ed i limiti alla discrezionalità del legislatore nazionale in materia di lavoro, RGL, II, 2006.
12 Si veda Xxxxxxx X., Il contratto a termine…, op. cit., e Xxxxxx X., Regresso delle tutele e vincoli comunitari, ADL, I, 2006.
problema se occorra effettuare o meno una valutazione di tipo complessivo tra il livello di tutela complessivo e quello preesistente all’adozione della direttiva.
In proposito, la Corte di giustizia europea13 ha reputato che, per ritenere la violazione della clausola di non regresso, la modifica della normativa nazionale di cui alla causa principale deve essere valutata tenendo presenti le altre garanzie previste al fine di assicurare la tutela dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, come le misure preventive contro l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi e quelle volte a vietare le discriminazioni esercitate contro lavoratori che abbiano concluso tale tipo di contratti, in quanto le modifiche di una normativa nazionale non costituiscono una riforma in peius del livello generale di tutela ai sensi della clausola 8.3, purchè esse siano compensate dall’adozione di altre garanzie o misure di tutela, circostanza che spetta al giudice del rinvio individuare.
Un ultimo punto da sottolineare è che la Corte14 ha espressamente escluso che i singoli possano invocare la diretta applicabilità della clausola di non regresso. Si è infatti osservato che il fatto che la clausola n.8.3 si limiti a vietare di “ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito presente dall’accordo quadro”, comporta che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato è idonea a ricadere nel suo ambito applicativo. I singoli non potrebbero fondare sul descritto divieto un diritto dal contenuto sufficientemente chiaro, preciso e incondizionato. La Corte ha chiarito che spetta ai giudici nazionali interpretare le disposizioni del diritto nazionale quanto è più possibile in modo da consentirne un’applicazione conforme alle finalità perseguite dall’accordo quadro.
13 Sentenza 24.06.2010, C- 98/09, Sorge ,n. 46.
14 Sentenze Angelidaki e Sorge, cit.
Secondo questa giurisprudenza, dunque, l’eventuale contrasto di una norma interna con la clausola di non regresso, comporterebbe per il giudice interno, sia nel caso di controversia tra un privato e lo Stato sia nel caso di controversia fra privati, solo l’obbligo di seguire l’interpretazione conforme all’ordinamento comunitario, escludendo, quindi, la possibilità di disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la direttiva.
CAPITOLO II: L’attuazione della direttiva 1999/70/CE in
Italia
1. La disciplina anteriore alla direttiva 1999/70/ CE
La regolamentazione del rapporto di lavoro a termine è stata storicamente caratterizzata da una stratificazione normativa che ha dato vita ad un sistema non certo unitario e coerente, che racchiude modelli disciplinari basati su ragioni di accesso alla tipologia negoziale in esame alquanto differenziate, con il dichiarato obbiettivo di assolvere a specifiche problematiche economiche e sociali poste di volta in volta al centro della scena politica dal legislatore.
Nella storia normativa italiana, il contratto di lavoro a tempo determinato non è sempre stato un’eccezione. Il codice civile del 1865, infatti, stabiliva all’art.1628 che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa”.
Il fatto che suddetto tipo di contratto fosse l’unica forma di lavoro subordinato consentita è una diretta conseguenza della situazione politico- economica di quel determinato periodo storico: in un’Italia appena unita, dove i rapporti di natura servile, in particolar modo al sud, non erano ancora scomparsi, il rischio che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato mascherasse una situazione para-servile era molto forte. In siffatto sistema, che tollerava i rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo perché veniva riconosciuta alle parti, e in particolar modo al lavoratore, la facoltà di
disdetta, il legislatore aveva trovato lo strumento ideale per contrastare la pericolosità di un vincolo perpetuo tra datore di lavoro e prestatore d’opera. Col passare del tempo e con l’affievolirsi di tale timore vennero alla luce nuove esigenze, prima tra tutte la necessità di un rapporto duraturo che fornisse al lavoratore specifiche garanzie e una certa sicurezza economica.
La precedente impostazione venne stravolta: già nel R.D.L. n.1825 del 1924, convertito nella legge n.562/1926 (Legge sull’impiego privato), seppure limitatamente alla categoria degli impiegati, fu stabilito, all’art.1, che “il contratto d'impiego privato , di cui nel presente decreto, è quello per il quale una società o un privato, gestori di un'azienda, assumono al servizio dell'azienda stessa, normalmente a tempo indeterminato, l'attività professionale dell'altro contraente, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera. Il contratto d'impiego privato può anche essere fatto con prefissione di termine; tuttavia saranno applicabili in tal caso le disposizioni del presente decreto che presuppongono il contratto a tempo indeterminato, quando l'aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto ed apparisca invece fatta per eludere le disposizioni del decreto”.
L’art.2097 del codice civile del 1942, intitolato “Durata del rapporto di lavoro” sancì il definitivo passaggio ad un atteggiamento di sfavore verso il lavoro a termine, consentendolo solo in relazione alla specialità del rapporto o se previsto espressamente per iscritto (primo comma); in mancanza di queste condizioni, alternative tra loro, il contratto si riteneva a tempo indeterminato.
La norma in esame, pur portando alla generalizzazione della disciplina in oggetto, era soggetta a vistose lacune dal momento che, una volta rispettati i requisiti formali, non vi era nessun altro limite all’utilizzo del contratto a termine e che le tutele poste in essere dai successivi due commi erano facilmente eludibili.
Con riguardo al secondo comma, infatti, nonostante venisse sancita espressamente l’inefficacia del termine risultante da atto scritto se concordato al fine di eludere le disposizioni relative al contratto a tempo indeterminato, l’onere della prova era posta a carico del lavoratore, con evidente difficoltà per quest’ultimo di dimostrare il comportamento fraudolento del datore di lavoro (quasi una probatio diabolica).
Il terzo comma, inoltre, subordinava la conversione del rapporto a tempo indeterminato, in caso si prosecuzione di fatto dell’attività lavorativa oltre la scadenza del termine, alla condizione che non risultasse una contraria volontà delle parti, indebolendo in tal modo l’imperatività della norma.
Ne derivò un massiccio abuso del contratto a termine, preferito dai datori di lavoro in quanto dava la possibilità di uscire dal nucleo delle tutele stringenti destinate ai lavoratori a tempo indeterminato e consentiva una maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita.
Al fine di arginare un tale uso fraudolento, il legislatore intervenne nuovamente nel 1962 con la legge n.230, che abrogava e sostituiva l’art.2097 c.c. (art.9 l. n.230/1962).
La nuova normativa configurava il contratto a tempo come eccezione rispetto all’ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ammettendolo soltanto in una serie di ipotesi tassativamente elencate e previa stipulazione in forma scritta. Venivano quindi richiesti sia requisiti formali sia sostanziali, non più in maniera alternativa come avveniva nella disciplina precedente, ma in modo cumulativo. Inoltre, le condizioni sostanziali di legittimità a cui era necessario far riferimento erano determinate attraverso la riconducibilità delle fattispecie concrete alle ipotesi specificatamente indicate nelle lettere dalla a) alla e) dell’art.1, e non ad una clausola generale come accadeva con l’art. 2097 c.c. che richiamava la “specialità del rapporto”.
Tale elencazione includeva innanzitutto le attività stagionali (lett. a), così come individuate dal D.P.R. n.1525/1963 su delega dell’art.1.6 della
l.230/1962. Rispetto al precedente sistema, il giudice si doveva limitare a operare un semplice raffronto tra le singole fattispecie concrete e quelle presenti nelle elencazioni e non accertare caso per caso la sussistenza del carattere stagionale dell’attività, anche se la giurisprudenza precisò che l’assunzione a termine era illegittima quando l’attività stagionale, pur inclusa nel prescritto elenco di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n.1525, come successivamente modificato e integrato, fosse di fatto svolta continuativamente o, comunque, per periodi che andavano oltre i limiti della stagionalità15.
La lett. b) si riferiva invece alla possibilità di assumere lavoratori a termine per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto. In tale fattispecie rientravano i casi di assenza per malattia, infortunio, maternità, servizio militare (artt. 2110 e 2111 c.c.), mentre si escludeva che vi potesse rientrare la sostituzione del lavoratore in ferie, in quanto evento normale e non eccezionale, oltre che periodico, e pertanto da valutare per la determinazione del normale organico effettuata dall’imprenditore16. Non era necessario, invece, che vi fosse coincidenza temporale tra periodo dell’assenza del lavoratore sostituito e durata del contratto a termine17, così come poteva essere irrilevante la contemporanea presenza di sostituto e sostituito per alcuni giorni per circostanze casuali o per esigenze di passaggio delle consegne18. L’estinzione del rapporto lavorativo dell’assente (ad esempio, per decesso, dimissioni, ecc.) non determinava la cessazione anticipata del rapporto lavorativo instaurato con il sostituto, né la trasformazione dello stesso in rapporto a tempo indeterminato19.
15 Si veda Cass.. 29 gennaio 1993, n. 1095, in RIDL, 1994, II, 396.
16 Si veda Cass., 13 maggio 1983, n. 3293, in LPO, 1983, 1405.
17 Cass. 20 febbraio 1995, n. 1827.
18 Sentenza Trib. Milano 16 gennaio 1976, in OGL, 1976, 259.
19 Cass. 17 aprile 1986, n. 2729, in MGL, 1986, 374.
Nei casi previsti dalla lett. b) unico onere del datore di lavoro era quello di indicare nel contratto il nome del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione.
L’ipotesi contenuta nella lett. c) riguardava l’assunzione a termine per l’esecuzione di un’opera o di un servizio, definiti e predeterminati nel tempo, aventi carattere straordinario od occasionale. La previsione normativa non includeva le esigenze volte a sopperire ad incrementi della domanda prevedibili o ricorrenti in determinati periodi o eventi, bensì a quelle opere o servizi che, seppur rientranti nell’ambito dell’ordinaria attività dell’impresa, determinavano una fluttuazione rilevante in occasione di eventi eccezionali, cui non era possibile far fronte con le risorse strutturali e la normale organizzazione produttiva, pur adeguatamente programmata20. La lett. d) ammetteva l’apposizione del termine “per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari ed integrative per le quali non vi sia continuità d’impiego nell’ambito dell’azienda”.
L’ultima ipotesi particolare di ricorso al termine era quello delle “assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi”. Anche in questa fattispecie era richiesta la temporaneità e limitazione nel tempo dei programmi, con la conseguente esclusione del personale amministrativo e della manodopera generica.
Il legislatore dettava poi, all’art.2, una disciplina alquanto rigida con riguardo al tema della proroga del termine: questa era ammessa in via eccezionale una sola volta, per esigenze contingenti e imprevedibili, con il consenso del lavoratore, che poteva anche essere desunto dalla prosecuzione di fatto dell’attività21; doveva avere una durata non superiore a quella del contratto iniziale e riferirsi alla stessa attività lavorativa che aveva motivato
20 Si veda Cass. 27 marzo 1996, n. 2756, in FI, 1996, I, 2427.
21 Cass. 28 maggio 1990, n. 4939, in Mass. giur. lav., 1990, suppl., 91.
l’assunzione a tempo determinato. L’art.3 assegnava poi l’onere della prova della sussistenza di tali condizioni, come di quelle legittimanti l’apposizione del termine, al datore di lavoro, discostandosi in tal modo dalla disciplina ex art.2097 c.c..
Se il rapporto di lavoro continuava dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il contratto veniva considerato automaticamente a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore. Il contratto si reputava egualmente a tempo indeterminato quando il lavoratore veniva riassunto a termine entro un periodo di quindici ovvero trenta giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi e, in ogni caso, qualora si trattasse di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della presente legge. In quest’ultimo caso vi era un’inversione dell’onere probatorio, dal momento che spettava al prestatore d’opera dimostrare il fine elusivo di una successione di contratti a termine rispettosi della giustificazione di legge e dell’intervallo necessario.
Nell’ipotesi di successione di contratti a termine illegittimi, con conseguente accertamento di un unico rapporto a tempo indeterminato, al lavoratore era riconosciuto il diritto alla retribuzione degli intervalli non lavorati solo nel caso in cui questi avesse provveduto ad offrire la prestazione in quei periodi22.
Particolare importanza aveva, infine, la statuizione della parità di trattamento tra lavoratori a termine e quelli a tempo indeterminato presente nell’art.5: “Al prestatore di lavoro, con contratto a tempo determinato, spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori regolamentati con contratto a tempo indeterminato, in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura
22 Cass. 17 aprile 1996, n.3634, in Mass. Giur. Lav., 1996, 50.
del contratto a termine. Alla scadenza del contratto verrà corrisposto al lavoratore un premio di fine lavoro proporzionato alla durata del contratto stesso, e pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi”.
L’inosservanza di tali obblighi era punita con le sanzioni penali previste dall’art.7: un’ammenda da lire 5.000 a lire 100.000 per ogni lavoratore cui si riferiva l’inosservanza stessa.
Dall’applicazione della disciplina erano esclusi i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e i salariati fissi comunque denominati, che restavano regolati dalla legge 15 agosto 1949, n. 533, e successive modificazioni (art.6).
A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, tale normativa iniziò ad apparire troppo rigida dal momento che il sistema di tassatività delle ipotesi ammesse cristallizzava nel tempo la possibilità di lavoro a termine senza tener conto delle nuove realtà ed esigenze. La crisi economica di quegli anni, infatti, fece emergere la necessità di una maggiore flessibilità della disciplina sul contratto a termine, esigenza facilmente comprensibile tenendo conto del fatto che, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) e l’introduzione del regime di stabilità reale del posto di lavoro (art.18 Stat. Lav.), la possibilità per il datore di lavoro di ricorrere al licenziamento era diventata notevolmente onerosa.
L’atteggiamento di sfavore del legislatore nei confronti del contratto a tempo determinato venne così a mitigarsi e vennero introdotte le prime modifiche alla l. n.230/1962, volte ad attenuarne alcune rigidità.
Inizialmente, la legge 23 maggio 1977 n. 266 modificò la lett. e) dell’art. 1, comma 2°, l. n. 230/1962, che limitava le assunzioni a termine nello spettacolo al solo personale artistico e tecnico, estendendone la portata a tutto il personale necessario per specifici spettacoli o per specifici programmi radiofonici o televisivi.
Con riguardo al settore del commercio e del turismo, che più di ogni altro avvertiva la rigidità della disciplina, il d.l. 3 dicembre 1977, n.876,
convertito nella legge 3 febbraio 1978, n.18, consentì, per un solo anno, l’assunzione a termine in occasione delle intensificazioni, in determinati e limitati periodi dell'anno, dell'attività lavorativa, cui non fosse possibile sopperire con il normale organico. Tale ipotesi aggiuntiva di ricorso al contratto a termine non fu inserita nell’elenco di cui all’art.1, comma II, l. n.230/1962 poiché era soggetta ad una disciplina parzialmente diversa da quella prevista dalla normativa di riferimento. Venne infatti predisposto un meccanismo di preventiva autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro, che aveva il compito di accertare ex ante l’intensificazione dell’attività produttiva in certi periodi dell’anno, sentiti i sindacati provinciali di categoria maggiormente rappresentativi. Tale modalità permetteva di evitare le incertezze derivanti dal controllo ex post effettuato dal giudice sulla effettiva esistenza della punta stagionale. Il successo di questa disciplina, che aveva notevolmente ridotto il contenzioso in materia, indusse il legislatore, dapprima, a prorogarla per due volte (ll. n.737/1978 e n.598/1979) e successivamente, vista l’interpretazione restrittiva che la giurisprudenza dava del concetto di settore commerciale e turistico e sulla scia delle indicazioni contenute nel protocollo d’intesa tra Governo e parti sociali del 22 gennaio 1983, ad estenderne la portata a tutti i settori economici (art. 8 bis, comma II, d.l. 29 gennaio 1983, n.17, convertito nella legge 25 marzo 1983, n.79), legittimando, così, in xxx xxxxxxxx xx xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxxx x xxxxxxx xx xxxxxxxx di punte ricorrenti o stagionali di attività. Ai lavoratori assunti a termine per tali esigenze e a quelli assunti ai sensi dell’art. 1, comma II, lett. a) della l. n.230, venne riconosciuto un diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dallo stesso datore di lavoro in relazione alla medesima qualifica, a condizione che gli interessati manifestassero la loro volontà in tal senso entro tre mesi dalla cessazione del rapporto (art. 23, comma II, l. n.56/1987, art. 9 bis, comma I, l. n. 236/1993).
La legge n.84/1986 modificò invece direttamente il testo della legge n.230 aggiungendo all’elenco di cui all’art.1, comma II, la lettera f). A seguito di tale variazione venne consentito alle aziende di trasporto aereo e alle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa comunicazione ai sindacati provinciali di categoria, l’assunzione di lavoratori a termine per lo svolgimento di servizi operativi di terra e di volo e di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Le assunzioni a termine potevano essere effettuate per un periodo complessivo massimo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, oppure di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti. La norma, a fronte di una presunzione di incremento dell’attività in certi periodi dell’anno, ammetteva assunzioni a termine solo nel limite massimo del 15% dell’organico aziendale, limite che si riteneva idoneo a tutelare l’equilibrio esistente tra le esigenze di flessibilità dell’impresa e quelle di stabilità dei lavoratori.
Il vero punto di svolta si ebbe però con l’approvazione della legge n.56/1987 e in particolare dell’art.23, che consentì alla contrattazione collettiva di individuare ipotesi aggiuntive di ricorso al contratto a termine, portando in tal modo a un notevole allargamento delle causali.
Si trattava di una vera e propria delega in bianco poiché la legge non prevedeva alcuna limitazione relativamente al tipo di causale, né richiedeva che si trattasse di circostanze provvisorie o straordinarie: l’unico limite, di tipo quantitativo, riguardava l’individuazione di una percentuale massima di lavoratori a termine rispetto al numero di lavoratori a tempo indeterminato. Venne così a realizzarsi un sistema di “flessibilità negoziata” in cui ai continui interventi adeguatori del legislatore si sostituivano le decisioni prese di volta in volta dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Anche la Corte di Cassazione, intervenuta più volte sulla normativa in oggetto23, ha sottolineato come, nel modello normativo configurato dall’art.23, l. n.56/1987, l’esame congiunto delle parti sociali sulle esigenze del mercato del lavoro e l’individuazione contrattuale dei limiti percentuali permettevano di fornire, al tempo stesso, ai lavoratori precari un’adeguata protezione e ai datori di lavoro la flessibilità necessaria allo svolgimento della propria attività imprenditoriale.
La stessa Corte Suprema, a Sezioni Unite, nella sentenza n.4588 del 2 marzo 2006, aveva sottolineato il carattere innovativo di tale norma, in base alla quale i sindacati, “senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere "oggettivo" ed anche, alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale, per ragioni di tipo meramente "soggettivo", consentendo (vuoi in funzione di promozione dell'occupazione o anche di tutela delle fasce deboli di lavoratori) l'assunzione di speciali categorie di lavoratori, costituendo anche in questo caso l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i suddetti lavoratori e per una efficacia salvaguardia dei loro diritti”.
La legge n.56/1987, al terzo comma dell’art.23, consentiva inoltre, nei settori del turismo e dei pubblici servizi, l’assunzione di lavoratori per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore ad uno, e a seguito della modifica ex art.54, quarto comma, della l. n.448/1998, tre giorni, individuati dai contratti collettivi stipulati con i sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative, senza neppure bisogno di fissare il limite percentuale previsto dal primo comma dell’art.23.
Il legislatore continuò tale opera di liberalizzazione dell’utilizzo del contratto a termine con l’art.8, secondo comma, della l. n.223/1991, che, al
23 Si vedano Cass. 1 dicembre 2003, n. 18354; Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674; Cass. 7
marzo 2005, n. 4862 ; Cass. 6 dicembre 2005, n. 26679 ; Cass. 7 dicembre 0000, x. 00000.
fine di agevolare il reimpiego dei lavoratori coinvolti in procedure di mobilità, consentiva l’assunzione degli iscritti nelle liste senza che fosse necessario addurre una delle esigenze previste dalle norme di legge sul contratto a termine. Il contratto di lavoro doveva avere una durata non superiore a dodici mesi e veniva disposta una riduzione della contribuzione a carico del datore di lavoro, che si estendeva per ulteriori dodici mesi qualora il rapporto venisse trasformato a tempo indeterminato.
La norma è stata mantenuta in vigore anche nel nuovo sistema introdotto dal d. lgs. n.368/2001 (art. 10, sesto comma) e continua a godere di un certo favor: l’esigenza di sostenere l’occupazione dei lavoratori in mobilità consente la loro assunzione a termine anche a prescindere dall’esistenza di quelle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, in via generale richieste per la legittimità dell’apposizione del termine dall’art. 1, comma I, d.lgs. n.368/2001 e, quanto ai requisiti formali, è sufficiente che nell’atto scritto si menzioni che l’assunzione avviene sulla scorta dell’art. 8, comma 2, l. n. 223/1991.
Successivamente, l’art.75, secondo comma, lett. b), l. n.388/2000 (legge finanziaria 2001) ha introdotto un’ulteriore ipotesi di contratto a termine per ragioni soggettive, anch’esso tuttora vigente in forza dell’art. 10, comma VI, d.lgs. n. 368/2001: al fine di favorirne l’occupazione, ai lavoratori anziani è consentito, qualora abbiano maturato i requisiti per accedere alla pensione di anzianità, di proseguire il rapporto di lavoro con un contratto a tempo determinato di due anni.
Il legislatore era inoltre intervenuto alleggerendo l’apparato sanzionatorio previsto in caso di prosecuzione di fatto del rapporto oltre la data di scadenza del contratto a termine: l’art. 12 della legge 14 giugno 1997, n.196 (c.d. “pacchetto Treu”), rubricato “Disciplina sanzionatoria del contratto a termine”, riscriveva infatti l’art. 2, comma secondo, della legge n.230/1962. Invece dell’immediata conversione del rapporto, la nuova formulazione prevedeva la distinzione tra i casi di violazione riconducibili ad una
situazione di mero fatto, cioè ad un comportamento materiale dell’imprenditore consistente nella prosecuzione del rapporto oltre i limiti pattuiti, e i casi di violazione connessi, invece, ad una manifestazione di volontà, anche tacita, dell’imprenditore, indicativa dell’intenzione di fare del contratto a termine un uso fraudolento. Si prevedeva che “se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo, al 40% per ciascun giorno ulteriore. Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero oltre il trentesimo negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”. Si attenuarono quindi le conseguenze della continuazione del rapporto di lavoro, monetizzandole entro un determinato arco temporale e disponendo solo successivamente la trasformazione in tempo indeterminato del rapporto lavorativo, peraltro non dalla data di costituzione dello stesso, ma soltanto dal momento del superamento dei predetti termini. L’intento del legislatore era di evitare, in questo modo, la stabilizzazione del rapporto quando, non sussistendo gli estremi per il ricorso alla proroga, la breve prosecuzione ultra tempus della prestazione fosse dipesa da meri disguidi organizzativi o da un modesto errore di valutazione della durata delle esigenze sottese all’apposizione del termine o dal breve protrarsi di quest’ultime.
L’art. 12, l. n. 196 del 1997 abbreviava poi il periodo dilatorio minimo al di sotto del quale vigeva la presunzione assoluta di frode: per poter lecitamente riassumere lo stesso lavoratore, diventava sufficiente una pausa di 10 o 20 giorni (anziché 15 o 30) dalla scadenza del contratto precedente, a seconda che si trattasse di rapporti di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi. Inoltre, in caso di riassunzione prima dello spirare dei termini predetti, solo il secondo contratto si considerava a tempo indeterminato.
Anche la parte terza della stessa predetta disposizione normativa, che considerava a tempo indeterminato il contratto nel caso di assunzioni successive a termine con finalità elusive, veniva modificata dall’art.12 e sostituita con una disposizione di difficile interpretazione: “quando si tratti di due assunzioni a termine, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.
L’ambiguità della norma aveva dato vita a un vivace dibattito dottrinale. Secondo una prima opinione, che invocava i lavori preparatori e lo spirito della norma, la frase andava letta come se fosse stato scritto “due assunzioni a termine di carattere fraudolento” e cioè come mantenimento dell’originaria ipotesi antielusiva24.
Una seconda proposta25 interpretativa riteneva che la fattispecie sanzionatoria si sarebbe realizzata quando il datore di lavoro avesse riassunto a termine lo stesso lavoratore per due volte successive alla prima, senza rispettare gli intervalli temporali, venendosi così a configurare una fattispecie del tutto nuova.
L’interpretazione maggioritaria, fatta propria anche dal Ministero del Lavoro nella Circolare 28 novembre 1997, n.153, riteneva, infine, che la trasformazione ex tunc del rapporto si sarebbe verificata quando il secondo contratto fosse stato stipulato senza soluzione di continuità temporale, poiché la mancanza assoluta di intervallo meriterebbe una sanzione maggiore rispetto alla semplice inosservanza degli intervalli minimi. Così interpretata la norma era destinata a coprire ipotesi del tutto marginali, essendo evidente la rarità di una stipulazione di un nuovo contratto immediatamente successiva alla scadenza del primo.
24 Si vedano X. Xxxxxxxx, La nuova disciplina sanzionatoria del contratto a termine, art. 12, in Galantino L. (a cura di), Il lavoro temporaneo e i nuovi strumenti di promozione dell’occupazione, Milano, Xxxxxxx ed., 1997; X. Xxxx, Diritto del lavoro, Padova, Cedam, 2000.
25 X. Xxxxxxxx, Nuove sanzioni per il contratto a termine, in Dir. prat. lav., 1997, n. 30.
All’alba della direttiva 1999/70/CE la disciplina del contratto a tempo determinato risulta quindi imperniata su un modello che, da una parte, affida all’elencazione tassativa ex lege le ipotesi legittimanti l’assunzione a termine e, dall’altra, punta sull’intervento delle parti sociali, che godono della c.d. “delega in bianco”, al fine di individuare ulteriori ipotesi aggiuntive rispetto a quelle legali.
2. Il d.lgs. n.368/2001
Come precedentemente affermato, la direttiva 1999/70/CE è stata recepita dall’ordinamento italiano con il d.lgs. 6 settembre 2001 n.368, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.235 del 9 ottobre 2001 ed entrato in vigore il 24 ottobre del medesimo anno.
Tale decreto è stato emanato in base alla delega contenuta nella legge n.422/2000, attraverso la quale il Parlamento aveva conferito al Governo il potere di emanare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive europee, avendo cura di precisare che questi dovevano comunque assicurare che la disciplina fosse pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime26. Al legislatore delegato veniva tuttavia consentito di introdurre le occorrenti modifiche o integrazioni per evitare disarmonie con le norme vigenti (art.2, lett. b) e di emanare testi unici delle disposizioni dettate in attuazione delle deleghe conferite per il recepimento di direttive comunitarie, al fine di coordinare le medesime con le norme legislative vigenti nelle stesse materie (art.5).
26 Legge n.422/2000, art.2, lettera f.
In realtà, secondo una parte della dottrina27, i requisiti della direttiva 1999/70/CE potevano considerarsi già soddisfatti dalla previgente normativa, bastando apportare delle modifiche in tema di formazione professionale, informazioni ai lavoratori e sindacali, computo dei lavoratori a termine. L’art.6 del d.lgs. n.368/2001, infatti, se si eccettua la specificazione della rubrica “Principio di non discriminazione”, non fa altro che reiterare quanto già previsto dal legislatore in ordine al trattamento retributivo e normativo dal previgente art.5 della legge n.230/196228.
Il medesimo convincimento è stato espresso anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.41 del 7 febbraio 2000. Questa, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della legge n.230/1962, aveva infatti affermato che considerata “la lettera e lo spirito della direttiva in questione l’ordinamento italiano risulta anticipatamente conformato agli obblighi da essa derivanti” tanto che la richiesta di referendum fu considerata inammissibile perché avrebbe esposto lo Stato italiano alla violazione degli obblighi comunitari, atteso che l’abrogazione della legge avrebbe determinato una radicale carenza di garanzie in frontale contrasto con la lettera e lo spirito della
27 Si vedano X. Xx Xxxx, Direttiva comunitaria in materia di lavoro a tempo determinato: attuazione nei paesi dell’Unione europea, in FI, 2002, V; A. Vallebona, La nuova disciplina del lavoro a termine, in XX, 0000, I.
28 L’art. 6 del d.lgs. n.368 del 2001 recita: “Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine”, mentre per il precedente art.5 della l.n.230/62: “Al prestatore di lavoro, con contratto a tempo determinato, spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori regolamentati con contratto a tempo indeterminato, in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine. Alla scadenza del contratto verrà corrisposto al lavoratore un premio di fine lavoro proporzionato alla durata del contratto stesso, e pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi”.
direttiva suddetta, che neppure nel suo contenuto minimo essenziale sarebbe stata più rispettata.
La scelta del legislatore delegato è stata invece di natura opposta, con l’emanazione di un testo di legge che ridisegna la materia in esame e abroga, all’art.11, “la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, l'articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l'articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo”29.
Il nuovo testo normativo, pur stravolgendo l’impianto generale della materia in esame, riprende in realtà molti punti della disciplina precedente integrandoli con i nuovi elementi richiesti dal legislatore comunitario.
2.1. La giustificazione dell’apposizione del termine
L’aspetto maggiormente innovativo del nuovo impianto normativo consiste nell’abbandono del sistema delle ipotesi tassativamente ammesse e nell’introduzione di una clausola generale di legittima apposizione del termine, sanciti dall’art.1, primo comma, in base al quale: “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato
29 La Corte Costituzionale, con sentenza 4 marzo 2008, n. 44 ha dichiarato l'incostituzionalità del presente comma nella parte in cui abroga l'art. 23, co. 2, della l. 28 febbraio 1987, n. 56 per violazione dell'art. 77, primo comma, Cost, così come dell’art.10 commi 9 e 10. Secondo la Corte, “la disciplina dettata dalle norme censurate, concernente i lavori stagionali, non mira tanto a prevenire l'abusiva reiterazione di più contratti di lavoro a tempo determinato, per favorire la stabilizzazione del rapporto, ma è volta unicamente a tutelare i lavoratori stagionali, regolando l'esercizio del diritto di precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda e con la medesima qualifica. La disciplina censurata si colloca, quindi, al di fuori della direttiva comunitaria. Essa resta anche al di fuori della delega conferita dalla legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 2000), complessivamente considerata".
a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.
La tecnica della norma aperta sembra valorizzare il potere dell’autonomia individuale di adattare la norma generale ed astratta alla specifica realtà aziendale giacché necessita, strutturalmente, di una concretizzazione che non può che essere affidata, in un primo momento, alla discrezionalità delle parti individuali del rapporto e quindi, in sostanza, alla decisione del datore di lavoro e in un secondo momento, e solo eventualmente, all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria. Lo scopo che il legislatore intendeva perseguire con tale metodo è quello di semplificare la disciplina pregressa, sostituendo un elenco di fattispecie estremamente folto con un’unica previsione di carattere generale che viene considerata più flessibile e meno esposta all’elusione attraverso comportamenti fraudolenti.
Il fatto che tale scopo sia stato raggiunto non è tuttavia pacifico, dal momento che tale impostazione ha dato adito a numerose critiche.
La prima di queste ha riguardato il fatto che la nuova enunciazione ometteva di riproporre la norma imperativa posta in apertura dell’art.1 della legge n.230/1962, secondo la quale “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le eccezioni”. Ciò ha portato alcuni autori30 a ritenere che la nuova disciplina comportasse una totale liberalizzazione dell’istituto del contratto a termine, ormai in rapporto di piena fungibilità con il contratto a tempo indeterminato. Tale tesi è stata però rifiutata dalla giurisprudenza di legittimità che anche in una recente pronuncia31 ha confermato il proprio orientamento, precisando che “ la nuova disciplina persegue lo scopo di riposizionare l’equilibrio del sistema, nel contemperamento degli interessi economici e sociali in possibile contrasto nella materia del contratto a
30 Si vedano: X. Xxxxxxx D’Urso - X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, in MGL, 2002; X. Xxxxxxxxx, Ancora nuove regole per il lavoro a termine, in ADL, 2002, I; X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Note introduttive al d.lgs. 6 settembre 2001, n.368, in NLCC, 2002.
31 Cass. 16 marzo 2010 n.6328, in FI 2010, I.
tempo determinato, tenendo peraltro fermo il principio, anche di derivazione comunitaria, relativo alla centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato, affermato nel “considerando” dell’accordo quadro di cui alla direttiva citata. Da qui la non riconducibilità del contratto a termine a strumento comune di assunzione al lavoro, che si esprime nella legge nel richiedere, già in sede di formulazione in forma scritta del relativo contratto, la puntuale specificazione della concreta esigenza che giustifica l’apposizione del termine, riconducibile tra quelle riassunte nella formulazione della clausola generale enunciata al comma 1 del citato articolo di legge”.
Un secondo aspetto critico era da rinvenire nella genericità della norma e nella sua poca chiarezza, che hanno portato gli interpreti a dibattere se l’apposizione di un termine presupponesse necessariamente la mancanza di un’occasione permanente di lavoro, oppure fosse legittimata da una qualsiasi ragione oggettiva, purché non illecita e non arbitraria, che renda preferibile in concreto il lavoro a termine rispetto a quello a tempo indeterminato. Il problema riguardava in special modo le esigenze tecniche, organizzative e produttive, posto che il significato di carattere sostitutivo è facilmente intuibile, riferendosi questo a tutte quelle fattispecie nelle quali viene meno l’apporto di un dipendente, che necessita di essere rimpiazzato32.
Coloro che si rifacevano al primo orientamento sostenevano che le ragioni oggettive non possono coincidere con quelle poste a base della conclusione di un contratto a tempo indeterminato poiché diversamente non si comprenderebbe per quali ragioni si siano qualificate due tipologie contrattuali in rapporto di “regola” e “delega” se poi non si ritenesse che entrambe sono basate sulle stesse esigenze economiche e organizzative. Inoltre, se il datore di lavoro potesse apporre il termine anche per esigenze
32 Eccezion fatta per lo sciopero che, come precisa l’art.3, lett. a), non consente la sostituzione di lavoratori assenti.
di lavoro stabile, non avrebbe senso l’obbligo gravante su quest’ultimo di giustificare specificatamente per iscritto la causale, nonché la disciplina dettata dagli artt. 4 e 5 in tema di proroga, di riassunzione a termine senza rispetto degli intervalli minimi e di costituzione successiva, senza interruzione, di due rapporti a tempo determinato, da cui emergerebbe lo sfavore della legge, entro certi limiti, nei confronti del prolungamento del contratto originario e dell’utilizzazione del contratto a termine come mezzo sostitutivo del contratto privo scadenza finale.
Tale orientamento sembra trovare conferma nella sentenza Xxxxxxxx della Corte di Giustizia europea, nella parte in cui si reputa che le ragioni obiettive devono consistere in “circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in tale particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi” (punto 69), mentre “il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato sulla sola base di una disposizione legislativa o regolamentare di carattere generale, senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti” (punto 74). Sembrerebbe, dunque, che per la Corte di Giustizia le ragioni oggettive debbano essere riferite concretamente e specificamente ad un’attività che richieda l’utilizzo di un lavoratore a termine, per la quale non sarebbe possibile instaurare un rapporto sine die, e cioè ad un’attività destinata ad esaurirsi in un arco temporale delimitato: in altre parole, temporanea.
Tale temporaneità dovrebbe essere valutata ex ante nella prospettiva del programma imprenditoriale nel quale si collocano le ragioni che hanno determinato l’apposizione del termine, in quanto la legge non vieta che
un’esigenza che nasca temporanea possa, nel tempo, diventare stabile o definitiva33.
L’orientamento contrario34 sosteneva invece la sufficienza di una ragione obiettiva non arbitraria o fraudolenta e la possibilità del ricorso al contratto a termine anche quando l’esigenza di lavoro da soddisfare sia continuativa, portando a supporto della propria tesi il fatto che nell’art.1 del d.lgs. 368/01 non si rinviene alcun riferimento testuale all’intrinseca temporaneità che dovrebbe caratterizzare la ragione posta a fondamento dell’assunzione del temine. Inoltre, poiché la norma generale di cui all’art. 1, comma primo, d.lgs. n.368, sostituisce non solo le vecchie ipotesi di termine inevitabile previste dalla legge n.230/1962, ma anche le ipotesi aggiuntive di fonte collettiva ex art.23, l. n.58/1987, non necessariamente collegate all’intrinseca temporaneità dell’occasione di lavoro, essa deve poter consentire almeno la stessa ampiezza di ricorso al contratto a termine garantita dal sistema previgente, dovendosi escludere che il legislatore del 2001 abbia voluto irrigidire la normativa. In questa prospettiva, la norma generale di cui all’art. 1, svolgerebbe la stessa funzione liberalizzante con la stessa cautela essenzialmente quantitativa propria delle ipotesi di fonte collettiva ora eliminate.
La maggior parte della giurisprudenza si orientò verso il primo tipo d’interpretazione, come emerge dalla sentenza della Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxxxxxxx 0 febbraio 2006, n. 226318, secondo cui la clausola generale dell’art.1 ha un senso “solo se intesa come una giustificazione oggettiva di un’occasione di lavoro predeterminata nel tempo”; le ragioni giustificative, quindi, devono essere tali da rendere evidente che con il loro venir meno
33 X. Xxxxx, La giustificazione del lavoro a termine, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), Colloqui giuridici sul lavoro, Milano, Il Sole 24 ore- Pirola, 2006.
34 X. Xxxxxxxxxx, La giustificazione del lavoro a termine, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), Colloqui giuridici sul lavoro, 2006 op.cit.; X. Xxxxxxxx, La giustificazione del lavoro a termine, in A. Vallebona (a cura di), Colloqui giuridici sul lavoro, 2006, op.cit.; X. Xxxxxxxx, L’eccezionalità del contratto a termine: dalla causali specifiche alla specificazione delle ragioni giustificatrici, in ADL, 2007.
cessa la possibilità di utilizzare ulteriormente la prestazione di lavoro. La Suprema Corte ha poi recentemente statuito35 che “deve ritenersi incompatibile con le finalità della direttiva che le esigenze cui rispondono i contratti a termine abbiano di fatto un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole. Le considerazioni che precedono valgono, pertanto, ad escludere che sussista una sostanziale fungibilità fra il contratto a termine e il contratto a tempo indeterminato e che il datore di lavoro sia esentato da alcun onere probatorio o, ancora, che il contenuto dello stesso si esaurisca nella dimostrazione di una situazione né arbitraria, né illecita, che, comunque, renda preferibile l’assunzione con contratto a termine”.
Appurato che le ragioni di carattere tecnico, produttivo e organizzativo indicano esigenze di lavoro temporaneo, si può passare a definire nel dettaglio tali fattispecie.
Alle ragioni tecniche si riconducono le ipotesi per cui l’imprenditore si trovi a dover far fronte a necessità di carattere transitorio di personale in possesso di particolari attitudini o specializzazioni, per mansioni che i dipendenti interni stabili non sono in grado di affrontare36. Un’ulteriore ipotesi ricorre allorquando ci si trovi in una fase di avvio di innovazioni tecnologiche con l’introduzione di strumenti e macchinari vari37.
Ragioni produttive e organizzative sono da considerarsi quelle in cui l’imprenditore rischi, per transitoria carenza di lavoratori, di perdere la propria competitività (ad es. per far fronte a temporanee situazioni di mercato o per commesse eccezionali la cui possibilità di ripetersi in futuro è quantomeno improbabile)38. La maggiore esemplificazione di tali ragioni è data dai picchi di attività, precisando comunque che l’intensificazione della
35 Cass. 27 aprile 2010, n.10033, in FI 2010, I.
36 X. Xxxxxxxx, L’apposizione del termine nel decreto di attuazione della direttiva CE 99/70, in MGL, 2001.
37 X. Xxxxxxx, Il contratto a termine tormentato, in MGL, 2008.
38 X. Xxxxxxxx, L’apposizione del termine nel decreto di attuazione della direttiva CE 99/70, 2001, op. cit.
normale attività produttiva deve assumere una valenza temporanea rispetto al consueto andamento dell’impresa.
Per ragioni giustificative di carattere produttivo si devono intendere, inoltre, quei motivi che ineriscono al rapporto tra il prodotto tipico della società e l’insieme dei fattori di produzione, sicché l’aver il datore di lavoro ricevuto una commessa a tempo determinato non spiega di per sé per quale motivo produttivo vi sarebbe la deroga alla regola del tempo indeterminato, rilevando invece il rapporto tra organico esistente e necessità sopravvenute39.
Con riguardo all’onere della prova, prevale il principio per cui tale incombenza spetta a chi ha la possibilità di fornirla più agevolmente, ossia il datore di lavoro. Si afferma infatti che, costituendo il contratto di lavoro a termine un’eccezione rispetto alla regola generale, costituisce onere della parte datoriale dimostrare, in relazione alla sua specifica realtà imprenditoriale, la ricorrenza delle ragioni che rendono possibile il ricorso a tale forma di contrattazione, in quanto espressione di una sua diretta scelta imprenditoriale40. Occorre tuttavia precisare che tale incombenza va pur sempre modulata in base alle deduzioni delle parti: per esempio, spetta comunque al lavoratore provare di aver sostituito, oltre al lavoratore assente indicato dal datore, anche altro lavoratore, in difformità da quanto pattuito in contratto.
Compito del giudice sarà quello di verificare solo l’esistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro e il nesso di causalità tra queste e l’assunzione a termine, non potendo invece formulare nessun giudizio di valore. Egli dovrà verificare l’esistenza del nesso intercorrente tra una ragione chiaramente indicata nel contratto di assunzione in termini sufficientemente specifici da consentirne l’oggettiva individuazione e il modo in cui si è sviluppato, in concreto, il rapporto di lavoro, ivi comprendendo tutti gli elementi che lo
39 Trib. Milano 20 luglio 2009, in RCDL, 2009.
40 Trib. Piacenza 27 settembre 2006, in ADL, 2007.
hanno caratterizzato, l’unità produttiva di assunzione, le mansioni di assegnazione, il contesto complessivo di riferimento41.
Con riguardo agli effetti della mancanza delle ragioni giustificative del contratto di lavoro a termine, essi sono da ricollegarsi alla conversione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con effetto ex nunc dal momento della sentenza che la dichiara e la corresponsione di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva42.
La costruzione teorica che soggiace alla regola della conversione è quella per cui la mancanza di specificazione delle ragioni giustificative del termine dà luogo alla nullità unicamente della clausola appositiva dello stesso e dunque alla nullità parziale ai sensi dell’art. 1419 cc.. La nullità di singole clausole non importa infatti la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperativa, quali sono quelle che stabiliscono garanzie e tutela del lavoro subordinato, che per sua natura è a tempo indeterminato. Difatti, l’apposizione del termine allo stesso si configura come ipotesi derogatoria ed eccezionale (in questo senso, del resto, sono inequivocabili le affermazioni contenute tanto nell’accordo quadro recepito dalla direttiva europea 99/70/CE del 28.06.1999 quanto dallo stesso d.lgs. 368/2001 al punto 01 dell’art. 1. Cass., Sez. Lav, n.12985/2008).
2.2. Procedure e formalità per l’assunzione dei lavoratori a termine
41 D.A. Conte, La nuova disciplina del contratto a termine, primi orientamenti giurisprudenziali, in RCDL, 2004.
42 Corte di Cassazione Sezione Lavoro n. 12985/2008.
Il secondo comma dell’art.1 prevede, sulla scia di quanto già disposto dalla legge n.230/1962, che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”.
Il requisito della forma scritta, che nella previgente normativa era richiesto solo per l’apposizione del termine e non anche per la causale giustificatrice dello stesso, riguarda ora entrambi gli aspetti. Il datore di lavoro ha l’obbligo di apporre per iscritto il termine, pena la sua inefficacia (la forma è richiesta ad substantiam), in un atto dal quale risultino, direttamente o indirettamente, le ragioni per la stipulazione del contratto a termine. Con la stessa tecnica utilizzata dal legislatore del 1962, infatti, la forma è prevista quale condizione di efficacia della determinazione preventiva dalla durata del rapporto. Ne consegue che la mancata ottemperanza del predetto requisito converte ex tunc il contratto a tempo indeterminato, dovendosi escludere che gli effetti dell’inosservanza dell’onere formale possano estendersi all’intero negozio: la precisione con cui il legislatore ha individuato la sanzione dell’inefficacia, anziché della nullità, sembra diretta a fugare ogni dubbio sulla possibilità che l’invalidità della clausola si propaghi all’intero contratto.
L’articolo in esame, al terzo comma, prescrive poi che il datore di lavoro consegni al lavoratore l’atto scritto entro i 5 giorni successivi all’inizio del rapporto di lavoro. E’ necessario sottolineare che il termine dei 5 giorni si riferisce all’atto di consegna del contratto e non al momento della sottoscrizione dello stesso che deve essere effettuata anteriormente o contestualmente all’inizio del rapporto di lavoro. L’atto della consegna assume così un carattere di tipo accessorio alla conoscenza del contenuto del rapporto che, in ogni caso, si è già perfezionato con la sottoscrizione del contratto.
Eccezione all’obbligo di consegna dell’atto scritto al lavoratore, come anche nel previgente regime, si rinviene laddove il rapporto, puramente
occasionale, abbia durata non superiore a 12 giorni (art.1, quarto comma). La ragione dell’esclusione della forma vincolata per tale fattispecie risiede nella natura della prestazione lavorativa, ossia nella sua occasionalità, che, presupponendo un impegno lavorativo temporalmente molto limitato giustifica una meno intensa esigenza di tutela da parte dell’ordinamento. Tale deroga non deve comunque portare a ritenere che in questi casi non continuino a valere le esigenze economiche ed organizzative che giustificano l’apposizione del termine.
Attraverso tale disciplina si vuole permettere al lavoratore la sicura conoscenza delle motivazioni per le quali è stato assunto, nel rispetto delle clausole di buona fede e lealtà (artt.1175 e 1375 c.c.), e inoltre si assicura un puntuale controllo giudiziale sulle ragioni giustificatrici addotte dal datore di lavoro e sul loro nesso di causalità con l’assunzione a termine.
Proprio per permettere che tale controllo avvenga nella maniera più puntuale possibile, il datore di lavoro non può genericamente richiamare le causali astrattamente individuate dall’art.1, dovendo invece evidenziare la motivazione in maniera specifica, spiegando perché vi sia la necessità di assumere a tempo determinato. Come precisato dalla Corte di Cassazione43, “l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le
43 Cass. 27 aprile 2010, n.10033, cit.
esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa”.
L’onere di specificazione della causale costituisce, quindi, una limitazione della facoltà riconosciuta al datore di lavoro di far ricorso a tale tipologia contrattuale al fine di soddisfare le proprie esigenze aziendali, allo scopo di evitare l’uso indiscriminato dell’istituto per fini solo nominalmente riconducibili alle esigenze riconosciute dalla legge.
Dubbi interpretativi ha fatto sorgere, inoltre, la formula utilizzata dal legislatore nella parte in cui stabilisce che è possibile far risultare “indirettamente” dall’atto scritto l’apposizione del termine.
La possibilità, da alcuni prospettata, che la clausola di durata risulti da un atto diverso dal contratto di lavoro vero e proprio, quali le comunicazioni al Centro per l’impiego ovvero precedenti annunci o proposte relative al contratto al termine44, appare smentita dal dato letterale della norma per la quale l’apposizione indiretta del termine deve essere contenuta nel medesimo atto in cui sono esplicitate le motivazioni, manifestando, quindi, la necessità di un unico documento. Appare dunque preferibile l’ipotesi secondo la quale il legislatore intendesse far riferimento ad un evento certus an sed incertus quando45, come era pacificamente emerso dalla precedente elaborazione giurisprudenziale della legge n. 230/1962.
Pertanto, dall’atto scritto deve desumersi in maniera inequivoca l’accordo delle parti circa la costituzione di un rapporto a termine, vuoi direttamente, attraverso l’indicazione di una precisa data, vuoi indirettamente, attraverso l’indicazione di un evento che determina la cessazione della prestazione. Ovviamente, quando il termine risulti indirettamente dall’atto, sarà onere del datore di lavoro, in caso di contestazione, dimostrare che la sua scadenza è
44 Si veda X. Xxxxxxxxxx, Peculiarità genetiche e profili modificativi del nuovo decreto legislativo sul lavoro a tempo determinato, in Lav. giur., 2001.
45 X. Xxxxxxxx, L’eccezionalità del contratto a termine…2007, op.cit.; X. Xxxxxxxx, La nuova legge sul contratto a termine, in DLRI, 2001.
coincisa con l’effettivo esaurimento delle esigenze temporanee che hanno motivato il rapporto.
In linea di principio, spetta sempre al datore di lavoro, parte interessata a far valere l’intervenuta cessazione del rapporto per scadenza del termine, provare la conclusione del contratto in forma scritta. Tuttavia, non può escludersi l’ipotesi che tale incombenza ricada sul lavoratore, ad esempio nel caso in cui intenda dimostrare la scadenza del termine apposto per evitare il preavviso delle dimissioni46.
Con riguardo ai mezzi di prova, trattandosi di forma scritta ad substantiam, non sono ammessi neppure il giuramento e la confessione, mentre può essere ammessa la prova testimoniale ex art.2725, comma secondo, c.c., se la parte ha senza sua colpa perduto il documento. Tale perdita incolpevole si verifica quando la condotta appare immune da imprudenza o negligenza, non potendo essere presa in considerazione dal giudice nessuna prova orale o presuntiva se la parte che la offre non abbia prima dimostrato di essere rimasta priva del documento senza propria colpa47.
2.3. I divieti di apposizione del termine
Contrariamente a quanto accadeva con la precedente disciplina, che predeterminava le ipotesi in cui era ammessa l’apposizione del termine al contratto di lavoro, il d.lgs. n.368/2001 delinea un sistema nel quale è sempre consentito apporre un termine, purché ricorrano le ragioni giustificative contemplate nell’art.1.
46 A. Vallebona- X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine, Padova, Cedam, 2001.
47 A. Vallebona- X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine, op.cit., 2001; A. Sitzia, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in X. Xxxxx (a cura di), Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino, Utet, 2004.
Proprio al fine di porre un limite a un simile ampliamento, in chiave di prevenzione di possibili utilizzi fraudolenti o comunque contrari allo spirito della normativa in oggetto, il legislatore ha posto espressamente, all’art.3, dei divieti all’apposizione di un termine.
Tali limiti possono essere ricondotti a due aree distinte a seconda dei differenti scopi perseguiti: nella prima vi sono il divieto di assumere lavoratori a termine per la sostituzione di altri che esercitano il diritto di sciopero (art.3, comma I, lett. a) e quello che inibisce la stipulazione di contratti a tempo determinato nelle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex art.4 d.lgs. n. 626/1994 (art.3, comma I, lett. d); nella seconda il divieto di assumere presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori a tempo indeterminato adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine (art.3, comma I, lett. c) e l’impossibilità di assumere a termine lavoratori da adibire alle stesse mansioni che, nella stessa unità produttiva e nei sei mesi precedenti, era espletate da prestatori di lavoro a tempo indeterminato coinvolti in procedure di licenziamento ex artt.4 e 24 l.223/1991 (art.3, comma I, lett. b).
La ratio della prima area di divieti è quella di garantire l’attuazione dei diritti fondamentali del lavoratore a prescindere dalla materia del contratto a termine. Il divieto di sostituire con contratti a tempo determinato i lavoratori in sciopero (c.d. crumiraggio esterno), mira infatti a proteggere il diritto previsto dall’art.40 della Costituzione evitando che il datore di lavoro reagisca in tal modo allo sciopero al fine di attenuare gli effetti dannosi di tale legittima manifestazione. Alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, che trova fondamento nell’art.32 della Costituzione è posta la limitazione della lettera d). Una simile restrizione, riconducibile anche ad una finalità promozionale della sicurezza nei luoghi di lavoro, ha un chiaro intento sanzionatorio nei confronti delle aziende che non garantiscono
l’effettività di beni giuridici fondamentali, quali, appunto, la salute e la sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro: questo divieto non ammette deroghe e l’eventuale ritardo nell’adempimento non vale a sanare le assunzioni precedenti, ma può solo consentire quelle successive.
L’obbiettivo che il legislatore persegue con i divieti della seconda area è invece più direttamente rivolto ad assicurare l’occupazione stabile dell’impresa, basandosi su una presunzione di incompatibilità tra la stipulazione di contratti a tempo determinato e sfavorevoli congiunture economiche attraversate dall’impresa. In queste ipotesi, la ratio non è quella di tutelare i diritti dei lavoratori a termine, bensì di salvaguardare l’interesse dei prestatori a tempo indeterminato che hanno subito le conseguenze del periodo sfavorevole dell’azienda.
In particolare, l’impossibilità di assumere a termine presso le unità produttive in cui si è proceduto nei sei mesi precedenti a licenziamenti collettivi di lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato, intende svolgere una funzione preventiva e dissuasiva volta ad escludere comportamenti fraudolenti dell’imprenditore che, enfatizzando le condizioni di crisi aziendale, provveda a licenziare i dipendenti stabili per sostituirli, poi, con assunti a termine. Al fine di contemperare il valore presuntivo attribuito a un simile comportamento, il legislatore interviene poi ammettendo delle deroghe. Le prime due eccezioni riguardano le ipotesi in cui un accordo sindacale oppure l’esigenza di sostituire un lavoratore assente ad organico invariato consentono di superare il sospetto di un intento fraudolento. La deroga concessa, invece, per le assunzioni a termine effettuate ai sensi dell’art.8, comma II, della l. n.223/1991, risponde all’esigenza di incentivare l’assunzione di lavoratori in mobilità conseguendo così obbiettivi sociali apprezzabili.
Meno agevole risulta all'opposto la ratio che anima l’ultima eccezione, vale a dire quella relativa ai contratti a termine di durata iniziale non superiore a
tre mesi. Alcuni autori48 hanno tentato di valorizzare l’elemento della brevità che indurrebbe a pensare a un’occasione di lavoro limitata nel tempo e non a un intento elusivo, ma in molti49 hanno mostrato perplessità reputando che si presti facilmente a manovre distorsive.
Alla medesima ratio antifraudolenta sottesa al divieto di cui all’art.3, lett. b), è riconducibile la previsione che vieta le assunzioni a termine nelle unità produttive in cui sia operante una sospensione dei rapporti di lavoro o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale; in tal caso, peraltro, la finalità antielusiva risulta perseguita con maggior coerenza dato che la norma non ammette deroghe e non vi è l’inserimento di limiti temporali.
Il d.lgs. n.368 non ha previsto alcuna conseguenza sanzionatoria per l’assenza delle ragioni di cui all’art. 1, e neppure per la violazione dei divieti di cui all’art.3.
Ciò ha indotto parte della dottrina50 a ritenere applicabile anche alla fattispecie in esame il regime civilistico della nullità parziale di cui all’art. 1419, comma I, c.c. In effetti la conseguenza della stipulazione di un contratto a tempo determinato in una ipotesi vietata è la stessa che deriva dalla stipulazione di un contratto a tempo determinato in mancanza di una ragione oggettiva giustificativa: l’illegittimità sostanziale dell’apposizione del termine. Nel nuovo assetto legislativo la valutazione di conformità all’ordinamento di ipotesi di assunzione a termine si articola infatti in una doppia verifica: una, in positivo, relativa alla sussistenza delle ragioni produttive, tecniche, organizzative o sostitutive; l’altra, in negativo, relativa all’assenza di casi di divieto. Dunque, l’insussistenza di una ragione giustificativa o l’esistenza di un divieto comportano il medesimo effetto:
48 X. Xxxxxxxxx, I contratti a termine nel mercato differenziato, Milano, Xxxxxxx ed., 2001.
49 X. Xxxxxxx D’Urso-X. Xxxxxx, Il nuovo contratto…, 2002, op. cit.; X. Xxxxxxxxx, Xxxx e ombre nella riforma del contratto a termine, in RIDL, I, 2001.
50 X. Xxxxxxxxx, La nuova disciplina…, 2002, op. cit.
l’illegittimità del termine e, quindi, la sua nullità per contrarietà a norma imperativa.
2.4. La proroga del termine originario
L’art.4, al primo comma, detta i principi generali che regolano la possibilità di prorogare il termine originario del contratto: “Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
La prima condizione di ammissibilità, rappresentata dal consenso del lavoratore, suona in realtà tautologica dal momento che il contratto di lavoro, esigendo per il proprio perfezionamento l’accordo delle parti, richiede allo stesso modo il consenso di entrambe perché il rapporto possa procrastinarsi per un periodo di tempo superiore a quello originariamente pattuito. Con riguardo a tale consenso, che deve essere prestato anteriormente o almeno contestualmente all’inizio dell’attività lavorativa fornita in regime di xxxxxxx, non è stabilito alcun obbligo di forma che, quindi, deve essere considerata libera. Tuttavia, poiché l’art.4, secondo xxxxx, attribuisce espressamente al datore di lavoro l'onere della prova circa “l'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga”, i datori di lavoro avranno tutto l’interesse ad utilizzare la forma scritta per avere certezza del momento in cui la proroga è stata accettata.
L’esplicitazione di tale prima condizione ricalca comunque il testo della disciplina previgente, che prevedeva all’art.2 il consenso del lavoratore come elemento imprescindibile per la proroga.
Elementi di continuità con la l. n.230/1962 si riscontrano inoltre nelle disposizioni per le quali il contratto può essere prorogato una sola volta e per la stessa attività lavorativa per cui era stato stipulato, nonché nella norma che pone espressamente a carico del datore di lavoro l’onere della prova delle ragioni giustificative della proroga. E’, invece, scomparso il riferimento all’eccezionalità della proroga e alla contingenza e imprevedibilità delle esigenze che la legittimavano nella precedente disciplina ed è stata cancellata la regola per cui il contratto prorogato non poteva avere una durata superiore a quella del contratto iniziale.
La nuova disciplina risulta conforme alla normativa comunitaria, avendo recepito tutte e tre le misure indicate nella clausola 5 della Direttiva CE/99/70 per la prevenzione degli abusi: l’indicazione delle ragioni oggettive giustificatrici del rinnovo, l’indicazione del numero massimo dei rinnovi, la determinazione di una durata massima totale del contratto.
Con riferimento a tali “ragioni oggettive” il tenore generale della previsione spinge a credere che si debba ammettere la ricorrenza di qualsiasi ragione oggettiva51, anche diversa da quella presente nell’originario contratto, permettendo in tal modo un più ampio ricorso all’istituto. Restano invece sicuramente escluse quelle ragioni di carattere soggettivo, derivanti da una scelta meramente discrezionale del datore di lavoro o da particolari esigenze o necessità del lavoratore.
La proroga deve comunque riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato, intendendosi però l’identità della causa tipica che ha legittimato il termine iniziale, e non delle mansioni svolte. La proroga è quindi condizionata dal verificarsi di
51F. Bianchi D’Urso - X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, 2002, op.cit.
un’occasione di lavoro identica a quella iniziale, ovvero provocata dalle stesse esigenze dell’impresa che hanno determinato l’assunzione iniziale, potendosi adibire il lavoratore anche a mansioni diverse52.
Posto quanto fin ora visto, la proroga è nulla:
a) per mancanza del consenso del lavoratore;
b) perché pattuita in relazione a contratto di durata iniziale superiore a tre anni;
c) perché la durata complessiva del rapporto supera i tre anni;
d) perché pattuita per più di una volta;
e) perché difettano le ragioni oggettive;
f) perché non si riferisce alla medesima attività lavorativa per la quale il primo contratto era stato stipulato.
In tali ipotesi la proroga è inefficace, con la conseguenza che il rapporto prosegue come se non fosse stata pattuita e che verranno, pertanto, applicate le sanzioni previste all’art.5, commi primo e secondo, per il proseguimento del rapporto di lavoro oltre la scadenza del termine.
La norma in oggetto prevede un “periodo di tolleranza” di venti giorni per i contratti di durata inferiore a sei mesi o di trenta giorni negli altri casi, durante il quale al lavoratore è dovuta soltanto una maggiorazione retributiva (pari al 20% fino al decimo giorno e al 40% per ogni giorno ulteriore), avente funzione sanzionatoria e deterrente nei confronti del datore di lavoro, in quanto volta a disincentivare la prosecuzione del rapporto, e risarcitoria per il lavoratore, per l’ulteriore effettuazione di attività in regime precario. Durante l’arco di tempo considerato il legislatore presume la buona fede del datore di lavoro, conservando la validità del contratto a termine vista la brevità del periodo in questione. Se però il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il
52P. Xxxxxx, L’estensione del lavoro a termine oltre il primo contratto: la nuova disciplina, in Xxxxxx X. (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato... 2002, op.cit.
contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. In tal caso il legislatore lascia operare una presunzione assoluta di frode alla legge, cui fa corrispondere la più grave sanzione della conversione ex nunc.
2.5. La successione di più contratti a tempo determinato
Il legislatore ammette, in xxx xxxxxxxx, xx xxxxxxxxxxx xx xxxxxxxxx più contratti a termine con il medesimo lavoratore, ponendo però a garanzia un limite temporale superato il quale il nuovo contratto può essere legittimamente concluso.
L’art. 5, comma III, stabilisce infatti che “qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell’art. 1, entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato”.
Il solo deterrente temporale alla reiterazione di più contratti a termine appare dunque costituito dal rispetto di tali intervalli minimi, mentre manca una più opportuna previsione limitativa con riferimento al numero massimo di rinnovi possibili. L’altra guarentigia posta a tutela del lavoratore è data dalla previsione secondo la quale la riassunzione a termine deve rispettare tutti i requisiti posti dall’art.1 con riguardo alla sussistenza delle “ragioni oggettive”. Proprio attraverso tale inciso il legislatore italiano si è uniformato all’obbligo ex clausola 5 della direttiva europea di prevedere delle misure anti elusive, scegliendo di varare una sola delle opzioni proposte e di non introdurre quindi una disciplina troppo restrittiva.
La norma in esame riproduce il contenuto della disciplina introdotta dall’art.12, legge n.196/1997, con la sola specificazione che anche ai
contratti di durata pari a sei mesi si applica il minor termine dei dieci giorni (mentre l’art. 12 faceva riferimento a contratti di durata inferiore o superiore a sei mesi), riprendendone altresì il regime sanzionatorio: la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato opera dalla stipulazione del secondo contratto.
Anche il successivo quarto comma sembra seguire tale impostazione, se non che, nel riproporre la regola per cui quando si tratta di due assunzioni successive a termine il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto, precisa che si è in presenza di due assunzioni successive a termine quando “non vi sia tra esse alcuna soluzione di continuità”. Il legislatore ha in tal maniera eluso qualsiasi questione interpretativa su cosa dovesse intendersi col termine “successive” decidendo di seguire la tesi più blanda tra quelle emerse nel vigore della precedente disciplina, limitando l’applicazione della sanzione della conversione ex tunc ai soli (e in realtà abbastanza limitati) casi in cui all’indomani della scadenza di un rapporto a termine e senza far intercorrere neppure un giorno di intervallo, si riassuma ex novo il lavoratore con un altro contratto di durata.
Restano così scoperte tutte quelle ipotesi nelle quali, benché vengano rispettati i limiti individuati dalla disciplina in esame, si stia comunque perpetrando un abuso dell’istituto con riassunzioni che, in ossequio alla cesura temporale, si ripetano per un numero indefinito di volte, in ipotesi anche per tutta la vita professionale del lavoratore.
La decisione del legislatore nazionale di attuare la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE esclusivamente mediante l’obbligo di esplicare le ragioni oggettive che rendono necessario il ricorso al contratto a tempo determinato, senza fissare né una durata massima totale dei contratti né il numero dei
xxxxxxx, ha suscitato numerose perplessità53 anche all’interno dello stesso Governo54. Secondo alcuni autori55, i dettami comunitari sarebbero comunque rispettati in quanto alla fattispecie della successione di contratti a termine, anche se intervallati da più di dieci o venti giorni, con cui si intenda sopperire ad esigenze permanenti e durevoli, è possibile applicare l’istituto generale del negozio in frode alla legge (art.1344 c.c.), accompagnato dalla trasformazione dei vari rapporti a termine in un unico rapporto a tempo indeterminato facendo leva sul fatto che è possibile ricavare la norma imperativa richiesta dall’art. 1419, xxxxx XX, c.c., per avvalersi dell’effetto legale sostitutivo derivi dall’espressa qualificazione fatta dalla Corte di Giustizia europea56 delle misure di prevenzione degli abusi come norme di protezione contro la precarizzazione.
2.6. Esclusioni e discipline specifiche
53 X. Xxxxxx, L’estensione del lavoro…, in X. Xxxxxx (a cura di), Il contratto di lavoro…, 2002, op.cit.; X. Xx Xxxx, Direttiva comunitaria in materia di lavoro a tempo determinato…, 2002, op. cit.; P. Xxxxxxxxxxx, Sub art. 5. Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti, in X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Commento al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Attuazione della direttiva n. 70/99/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES, in Nuove Leggi Civili Commentate, 2002.
54 Nella seduta della Commissione lavoro del Senato, in data 1 agosto 2001, il sottosegretario Xxxxxxx, in Commissione lavoro del Senato, dichiarò che “la questione del regime della successione dei contratti è uno dei tipici problemi che dovranno essere oggetto del monitoraggio: al momento il Governo intende attenersi alla lettera dell’avviso comune, ma è disposto a valutare la possibilità di modificare la normativa proposta, in sede di adozione del decreto correttivo, ove si riscontrino gravi e reiterati abusi”.
Cfr. X. Xxxxx, Il lavoro a termine nell’ordinamento comunitario: le precisazioni della Corte di Giustizia, in Dir. rel. ind., 2007, n. 1.
55 X. Xxxxxxxxx, Contratto a termine: prime riflessioni sulla nuova disciplina, in FI, 2002, I; X. Xxxxxxxxxx, Peculiarità genetiche e profili modificativi.., 2001, op. cit.; X. Xx Xxxxxxx, Il nuovo contratto a termine: considerazioni sul regime sanzionatorio, in FI,2002, V.
Di avviso contrario X. Xxxxxx, L’estensione del lavoro.., in X. Xxxxxx (a cura di), Il contratto…, 2002, op. cit.
56 Sentenza del 4 luglio 2006, Adelaner, cit., punti 61-63.
La diversificazione dei fini perseguiti con l’utilizzazione dello strumento del contratto a termine ha comportato la frammentazione dell’originaria unitarietà dell’istituto, onde il legislatore non poteva ignorare queste differenze di fondo, pretendendo di unificare discipline che rispondono ad esigenze e logiche diverse57. Di qui la ratio dell’art.10 del decreto n.368/2001, rubricato “Esclusioni e discipline specifiche”, che prevede una serie di ipotesi escluse dall’applicazione della disciplina in questione e di casi di esenzione dai limiti quantitativi di utilizzazione del contratto a tempo determinato, nonché il diritto di precedenza58.
Il primo comma dell’articolo in esame esclude totalmente dal campo di applicazione della disciplina alcune tipologie di rapporti in quanto già disciplinati da specifiche normative, segnatamente: a) i contratti di lavoro temporaneo di cui alla legge 24 giugno 1997, n.196, e successive modificazioni; b) i contratti di formazione e lavoro; c) i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro che, pur caratterizzate dall'apposizione di un termine, non costituiscono rapporti di lavoro.
Con riguardo alla prima ipotesi, il legislatore è in seguito intervenuto con il d.lgs. n.276/2003 che ha abrogato gli artt. 1-11 della l. n.196/1997 in materia di lavoro interinale. L’attuale art.22, comma II, d.lgs. n. 276/2003, così come modificato dall’art.1, comma 42, l. n.247/2007 dispone che: “In caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, per quanto compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all'articolo 5, commi 3 e seguenti. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei
57 X. Xxxxxxxxx, I contratti a termine nel mercato differenziato, 2001, op. cit.
58 Come analizzato nel capitolo successivo, tale diritto è regolato ex novo dall’art.5, comma IV quater, d.lgs. 368/2001, come modificato dalla legge n. 247/2007.
casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore.”. Da ciò deriva una previsione di esclusione parziale quanto alle disposizioni sui limiti alla riassunzione, sul limite dei 36 mesi, nonché per la facoltà di proroga consensuale.
Per quanto concerne la lett. b), il contratto di formazione e lavoro è stato eliminato dal già citato d.lgs. n.276/2003 per i datori di lavoro privati e consentito solo per le pubbliche amministrazioni e, contestualmente, è stato introdotto il contratto di inserimento. Anche in tal caso il disposto normativo non consente tuttavia di applicare il contenuto dell’art.10 al nuovo contratto, dal momento che l’art.58, comma I, del d.lgs. n.276/2003 dispone che “Salvo diversa previsione dei contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dei contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali di cui all'articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni, ovvero dalle rappresentanze sindacali unitarie, ai contratti di inserimento si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368.”.
Non evoca invece particolari problemi interpretativi il riferimento all’apprendistato di cui alla lett. c), mentre più interessante è quanto previsto dalla seconda parte: il riferimento alle tipologie contrattuali che non costituiscono rapporti di lavoro consente di ricomprendere nella previsione in esame sia gli stage aziendali ed i tirocini formativi, sia i lavori socialmente utili o di pubblica utilità. Con riferimento a quest’ultima tipologia, vanno ricompresi sia i lavori socialmente utili concessi ai lavoratori che già usufruiscono di un trattamento di sostegno al reddito, sia quelli svolti da chi non è beneficiario di alcun trattamento previdenziale o assistenziale.
Una seconda tipologia di esclusione, legata non già all’esistenza di una disciplina propria, bensì alle caratteristiche del settore e, in particolar modo,
all’intimo legame tra l’attività lavorativa del prestatore e la durata dei cicli colturali, è stabilita dall’art.10, II e V comma, per quanto riguarda i “rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato così come definiti dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 375” e i “rapporti instaurati con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed all'ingresso di prodotti ortofrutticoli”.
L’esclusione del settore agricolo era già prevista dall’art.6 della legge n.230/1962, che stabiliva tale deroga per “i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell’agricoltura e salariati fissi comunque denominati, regolati dalla legge 15 agosto 1949, n.533 e successive modificazioni”. Nonostante l’utilizzo della terminologia “salariati fissi” avesse creato dubbi circa l’applicabilità della norma al c.d. bracciantato, la Corte di Cassazione, fornendo un’interpretazione estensiva, incluse tutti i lavoratori a termine comunque denominati operanti nel settore in ragione della intrinseca precarietà e saltuarietà dell’occupazione nel settore dell’agricoltura59.
La ratio dell’esclusione della disciplina del contratto a tempo determinato per le aziende operanti nel settore ortofrutticolo deve essere anch’essa rinvenuta nella convinzione del legislatore che l’attività prestata alle dipendenze di tali aziende sia comunque collegata all’alternarsi dei cicli produttivi agrari. Tale presunzione, senza dubbio esatta nel caso del prestatore che coltiva la terra in un’azienda agricola (si pensi alle attività di semina, potatura e raccolta), risulta fallace nei confronti di quella attività prettamente commerciale di chi si limita a smerciare i prodotti. Inoltre, vista l’esclusione totale e la mancanza di alcun rinvio alla contrattazione collettiva, come invece per il settore del turismo e dei pubblici servizi, l’azienda che opera nel settore del commercio ortofrutticolo gode della massima libertà nella conclusione di contratti di lavoro a termine, con
59 Cass. S.U. 13 gennaio 1997, n.265, in FI, 1997, I.
conseguente configurabilità, per una parte della dottrina60, della lesione dei diritti costituzionalmente garantiti agli artt.3, 4, 35, 36 e 41 Cost.
Il terzo comma dell’art.10 del decreto n.368/2001 annovera tra le ipotesi escluse anche i rapporti di lavoro a termine stipulati nel settore del turismo e dei pubblici servizi limitatamente alle prestazioni di durata non superiore ai tre giorni, per l’esecuzione di speciali servizi, previa menzione nei contratti collettivi stipulati dai sindacati locali o nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Tale disposizione, pressoché identica a quella contenuta all’art.23, comma III, della legge n.56/1987, ha come ratio quella di agevolare le attività delle imprese per l’organizzazione di servizi che non necessariamente presentano i connotati dell’occasionalità e della straordinarietà, potendosi ripetere anche sistematicamente per lunghi periodi. La Corte di Cassazione, nella sentenza n.7468 del 21 maggio 2002, ha sottolineato come “il servizio è speciale solo in quanto appartiene ad una particolare specie: la specie determinata dalla normativa collettiva. Poiché il servizio speciale non è caratterizzato da imprevedibilità, né da straordinarietà, né da eccezionalità bensì solo dalla sua definizione attraverso la norma collettiva, è ipotizzabile anche la sua legittima preventiva programmazione da parte dell’azienda”. Come unica formalità la norma in esame, nella sua formulazione originaria, prevedeva che dell’avvenuta assunzione doveva essere data comunicazione al centro per l’impiego entro cinque giorni. L’art.18, d. l. 9 febbraio 2012, n.5, convertito con l. 4 aprile 2012, n.35, ha modificato tale inciso stabilendo che detta comunicazione debba essere eseguita “entro il giorno antecedente l'instaurazione del rapporto di lavoro”.
Ripresa dalla normativa previgente61 è altresì la disposizione di cui all’art.10, IV comma, in materia di contratti a termine per i dirigenti, in base
60 X. Xxxxxxxxxx, Peculiarità genetiche e profili modificativi…, 2001, op. cit.; P. Pozzaglia, Esclusioni, discipline specifiche ed esenzioni nel d. lgs. n.368/2001, in Xxxxxx X. (a cura di) Il contratto di lavoro a tempo determinato... 2002, op.cit.
alla quale “E' consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti, i quali possono comunque recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione dell'articolo 2118 del codice civile. Tali rapporti sono esclusi dal campo di applicazione del presente decreto legislativo, salvo per quanto concerne le previsioni di cui agli articoli 6 e 8”.
Sulla nozione di dirigente, in assenza di definizioni normative, è necessario rifarsi all’elaborazione giurisprudenziale e, in particolar modo, a quanto stabilito dalla Cassazione, secondo la quale “la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come altre ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualifica professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità”62.
Il contratto a tempo determinato del dirigente non richiede, quindi, l’indicazione di particolari causali giustificatrici, mentre risultano applicabili le disposizioni del decreto n.368/2001 riguardanti il principio di non discriminazione ex art.6 e il criterio di computo di cui all’art.8.
Nel VI comma dell’articolo in esame, il legislatore si discosta dalla tecnica normativa finora utilizzata e, invece di escludere talune fattispecie dall’ambito di applicazione della disciplina, stabilisce che “Restano in vigore le discipline di cui all'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n.223, all'articolo 10 della legge 8 marzo 2000, n.53, ed all'articolo
75 della legge 23 dicembre 2000, n.388”.
61 L’art.4 della legge n.230/1962 recitava: “E’ consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti amministrativi e tecnici, i quali possono comunque recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione dell’art.2118 del codice civile”.
62 Cass. 24 giugno 2009, n.14835, in RGL, 2010.
Tale divergenza denota l’intenzione di non escludere che talune delle disposizioni in tema di contratto a tempo determinato concorrano a disciplinare le fattispecie richiamate qualora non incompatibili con la specifica normativa in vigore.
La prima ipotesi richiamata dal VI comma riguarda la concessione di benefici contributivi per il datore di lavoro che assume con contratto a termine, di durata non superiore a dodici mesi, lavoratori iscritte alle liste di mobilità. Nel caso in cui un datore di lavoro decida quindi di usufruire di tali agevolazioni e di favorire in tal modo il reingresso dei lavoratori all’interno del circuito produttivo, non sorge dunque l’obbligo di dover apportare una causale di tipo oggettivo, salvo ovviamente l’essere il prestatore iscritto nelle liste di cui all’art.6 della legge n.223/1991. Inoltre, la particolare natura soggettiva della causale giustificatrice dell’assunzione a termine de qua, la quale prescinde da aspetti connessi con oggettive esigenze dell’impresa, implica che il lavoratore potrà essere adibito a mansioni routinarie e di carattere continuativo, con conseguente venir meno della ratio stessa sottesa agli artt.4 e 5 del decreto n.368/200163. Non si rinvengono, al contrario, motivi per negare l’applicabilità dei principi riguardanti la non discriminazione, l’onere della forma, la formazione e i criteri di computo.
La seconda disciplina fatta salva dall’art.10, VI comma, riguarda il contratto a termine stipulato per la sostituzione di lavoratori in congedo parentale, ai sensi dell’art.10 della legge n.53/2000. In questo caso la causale si impernia su una giustificazione di tipo oggettivo, costituendo una particolare ipotesi di assunzione motivata da ragioni sostitutive, per cui non sembra rinvenirsi alcun profilo di incompatibilità con le disposizioni del decreto n.368/2001. L’ultima fattispecie richiamata prevede per i lavoratori del settore privato in possesso dei requisiti utili per il pensionamento di anzianità, la possibilità di
63 P. Pozzaglia, Esclusioni, discipline specifiche…2002, op. cit.
rinunciare all’accredito contributivo posticipando di almeno due anni, rispetto alla prima scadenza utile, l’età pensionabile mediante la stipula di un contratto di lavoro a termine di durata pari al numero di anni del posticipo medesimo. La norma, abrogata dall’art.1, comma 17, della legge n.243/2004, prevedeva l’esonero del datore di lavoro dal versamento degli obblighi contributivi e la facoltà per il prestatore di reiterare la rinuncia più volte ed anche per i periodi inferiore ai due anni nel caso di rinnovo, purché non oltre il compimento dell’età prevista per il pensionamento di vecchiaia. L’art.10, comma VII, pone un limite complessivo all’utilizzo del contratto di lavoro a termine rimettendone la determinazione in concreto alle parti sociali. La norma stabilisce infatti che “l’individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell'istituto del contratto a tempo determinato stipulato ai sensi dell'articolo 1, comma 1, è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi” e tipizza una serie di ipotesi rispetto alle quali detti limiti non trovano applicazione, specificatamente quei contratti conclusi:
a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell'elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n.1525, e successive modificazioni;
c) per l'intensificazione dell'attività lavorativa in determinati periodo dell'anno;
d) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi. Sono esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage, allo scopo di facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ovvero stipulati con lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni, o conclusi
quando l'assunzione abbia luogo per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario o occasionale64.
Tale norma ha indotto parte della dottrina65 a ritenere che la mancata individuazione di tali limitazioni non ostacoli la stipula dei contratti a termine, essendo l’espressione “affida” utilizzata dalla norma tale da suggerire che l’individuazione di soglie massime sia prevista come semplice facoltà attribuita alla contrattazione collettiva e non come conditio sine qua non del ricorso al contratto a termine.
Secondo altri autori66, invece, l’introduzione della clausola di contingentamento non può che essere configurata come elemento essenziale della fattispecie, avendo la determinazione dei limiti quantitativi una funzione integratrice rispetto alla disposizione che consente l’apposizione del termine.
Tra coloro che sostengono la natura essenziale delle clausole di contingentamento si riscontrano, comunque, opinioni diverse riguardo agli effetti della stipulazione di contratti a termine in mancanza o in violazione di tali clausole. Mentre alcuni propendono per la conversione a tempo indeterminato del contratto67, non manca chi ritiene che il contratto sarebbe affetto da nullità di diritto comune ex art.1418 c.c., con conseguente nullità
64 Il legislatore è successivamente intervento con la legge n.247/2007 sostituendo le lettere
c) e d) con le seguenti: “c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con lavoratori di età superiore a 55 anni”.
65 X. Xxxxx – X. Xxxxxxxx, Esclusioni e discipline specifiche, in X. Xxxxx (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001. n. 368, Milano, Xxxxxxx ed., 2002; M.P. Aimo, Il contratto a termine alla prova, in Lav. dir., 2006; P. Xxxxxxxxxxx, L’evoluzione della disciplina del contratto a termine tra oscillazioni giurisprudenziali e normativa comunitaria, in Arg. dir. lav., 2001, n. 2.
66 X. Xxxxxx, Lavoro a termine e a tempo indeterminato: due realtà non fungibili neanche per l’ordinamento comunitario, in Dir. lav., 2006, I; M. Napoli, Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Torino, Giappichelli Editore, 2003; A. Vallebona- X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine, 2001, op.cit.
67M. Napoli, Il lavoro a termine in Italia e in Europa, 2003, op. cit.
dell’intero contratto se la parte dimostri che non avrebbe concluso il contratto in mancanza della clausola sul termine68.
L’ottavo comma dell’art.10 del decreto in esame, abrogato dalla legge n.247/2007, stabiliva l’esenzione dalle limitazioni quantitative per i contratti a tempo determinato non rientranti nelle tipologie di cui al comma 7, di durata non superiore ai sette mesi, compresa la eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggiore durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. L’esenzione non si applicava però a singoli contratti stipulati per le durate suddette per lo svolgimento di prestazioni di lavoro che siano identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi.
I commi 9 e 10 dell’articolo in oggetto lasciano poi altro spazio all’autonomia collettiva, stabilendo che spetta alle parti collettive, in sede di contrattazione a livello nazionale, individuare un diritto di precedenza a favore dei lavoratori a termine in caso di assunzioni presso la stessa azienda e per la medesima qualifica spettante, tuttavia, solo a coloro che abbiano prestato attività lavorativa a termine ai sensi della legge n.56 del 1987, abrogata dalla legge di riforma. A chiusura, il legislatore sottolinea che, in ogni caso, il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto. Il lavoratore lo può esercitare manifestando in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.
Per completezza espositiva occorre dire che Corte costituzionale, con sentenza n. 44/2008, ha dichiarato illegittimo l’articolo 10, commi 9 e 10, del decreto legislativo n.368/2001 nella parte in cui abroga il diritto di precedenza di cui all’articolo 23, comma 2, della legge n.56/1987. Il giudice delle leggi ha ritenuto sussistente la violazione dell’articolo 77, comma 1,
68 A. Vallebona- X. Xxxxxx, Il nuovo contratto a termine, 2001, op.cit.
della Costituzione, in quanto l’articolo 1, comma 1, della legge 29 dicembre 2000, n. 422 «delega il Governo ad emanare “i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B” e, per quanto concerne la direttiva 1999/70/CE relativa al caso in esame non ha dettato – a differenza di altre ipotesi – specifici criteri o principi capaci di ampliare lo spazio di intervento del legislatore delegato».
3. I successivi interventi di riforma
Gli anni successivi all’entrata in vigore del decreto che regola il contratto a tempo determinato hanno visto un sempre maggior utilizzo di tale tipologia contrattuale, soprattutto per l’assunzione di giovani e donne.
Al fine di evitare un uso distorsivo di questo strumento normativo, il legislatore è intervenuto più volte cercando di ottimizzare la disciplina in oggetto, vista l’esigenza di un migliore raccordo con gli obiettivi indicati dalla direttiva comunitaria in materia e, segnatamente, quello di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
I diversi interventi modificativi, frutto di visioni politiche di volta in volta differenti, hanno contribuito non poco alla creazione di una selva infernale spesso incomprensibile e destinata ad aumentare ancora il contenzioso69, in una logica che ha visto alternarsi discipline restrittive, volte a limitare l’utilizzo del contratto a termine, ad altre di segno opposto, in una prospettiva che riconosce nel contratto a tempo determinato uno strumento di politica del lavoro.
69 X. Xxxxxxxx, Contratto a termine (art. 1, comma 9 – 13, l. n. 92/2012), in LG, 2012
3.1. Le modifiche introdotte dalla legge n.247/2007
La legge n.247 del 2007, all’art. 1, commi da 39 a 43, modifica la disciplina del contratto a termine contenuta nel decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368, ponendosi chiaramente la finalità di limitare l’utilizzazione dei contratti a termine sia sotto il profilo della reiterazione temporale che della loro consistenza quantitativa.
Le nuove disposizioni introdotte da tale legge, intitolata "Norme di attuazione del protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l'equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale", sono il frutto di un lungo processo di natura negoziale che ha avuto inizio con la stipula, il 23 luglio 2007, di un accordo tra Governo, sindacati e Confindustria che punta a intervenire su molteplici aspetti del sistema previdenziale e del mercato del lavoro, prevedendo misure per favorire la competitività e una crescita duratura.
Rispetto al modello di concertazione tradizionale, che presuppone una condivisione degli obiettivi e l’autonomia di ciascuna delle parti negoziali (Governo incluso) per quanto riguarda gli interventi attuativi dell’intesa, la codecisione ha riguardato in questo caso non solo le linee guida o i principi generali della regolazione, ma anche la fase di dettaglio della definizione dei singoli articoli di legge. Tale modello di concertazione “forte” è emerso in sede di recepimento dell’accordo, allorquando le parti sociali, a seguito di alcune modifiche apportate nel dibattito parlamentare, sono insorte e hanno imposto il ritorno alla versione concertata70.
70 Il processo di traduzione in legge del Protocollo è stato travagliato, passando per un referendum sindacale sul Protocollo medesimo, veti incrociati ad opera di alcune forze della maggioranza e delle parti sociali che hanno imposto l’apposizione della questione di fiducia da parte del Governo in sede di approvazione definitiva della l. n.247/2007. Per
Con riguardo al contratto a tempo determinato, la riforma si propone di introdurre una disciplina che realizzi l'obiettivo della direttiva 99/70/CE di evitare gli “abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” (clausola 1, lettera b della direttiva 99/70/CE).
L’art.1, comma 39, della l. n.247/2007 aggiunge all’art. 1 del d.lgs. 368/2001 un primo comma, secondo il quale “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, dichiarando in tal modo il carattere eccezionale del contratto a termine. Si afferma pertanto il principio per il quale il contratto a tempo indeterminato e quello a tempo determinato costituiscono, rispettivamente, il primo la regola e il secondo l'eccezione, in quanto il contratto a termine, pregiudicando fondamentali garanzie assicurate dall'ordinamento al lavoratore dipendente, non può che rappresentare un'eccezione giustificata unicamente da oggettive esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo.
Al fine di evitare l’eccessiva diffusione di questa tipologia contrattuale e, in particolare, la sua reiterazione, il legislatore ha introdotto limiti ulteriori rispetto alla disciplina del d.lgs.n.368 introducendo all’art.5 i commi 4 bis e 4 ter. Per effetto della intervenuta normativa è ora previsto che, fermo rimanendo il limite temporale di interruzione tra un rapporto a termine e il successivo, in caso di successione dì differenti contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro tra le parti non può eccedere complessivamente i trentasei mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrano tra un contratto e l'altro. Ove il periodo complessivo di 36 mesi fosse superato, il rapporto di lavoro si verrebbe a considerare a tempo indeterminato.
La disposizione di natura meramente antielusiva, introduce un’ulteriore fattispecie di conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato che
approfondimenti si vedano X. Xxxxx, Europa e concertazione: modelli a confronto, Padova, Cedam, 2009; X. Xxxxxxxxx, Interesse generale e concertazione, in Arg. Dir. Lav., 2008, 2.
si aggiunge a quelle già previste dall'art. 4, comma 1 e dal catalogo fornitone dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n.368/2001.
Quanto all’identità delle parti, se nessun problema sorge a proposito del lavoratore, per il datore di lavoro può richiamarsi l’orientamento della giurisprudenza secondo cui nell’ipotesi di collegamento economico- funzionale tra diverse persone giuridiche o imprese, perché sussista un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro e perché possa essere superato il principio che il collegamento economico-funzionale tra imprese dello stesso gruppo non importa il sorgere di un autonomo soggetto di diritto poiché ogni persona giuridica conserva la propria autonomia, occorre accertare in modo adeguato l’esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico, amministrativo e finanziario, tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte dei titolari delle distinte imprese nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori71.
Il limite dei 36 mesi di durata massima non si applica nei confronti dei lavoratori impiegati in attività stagionali (definite dal DPR n.1525/1963), ai dirigenti, nonché in attività che saranno individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi (articolo 5, comma 4 ter, decreto legislativo n.368/2001, introdotto dall’articolo 1, comma 40, lettera b, legge n.247/2007).
Per ciò che concerne la formula utilizzata dal legislatore per indicare i soggetti legittimati a rimuovere il limite di cui trattasi, deve ritenersi che per
71 Cass. 14 novembre 2005, n. 22927, in OGL, 2005, I, 796.
avvisi comuni il legislatore intenda diverse ipotesi: quella classica dell’accordo interconfederale destinato a esplicare i propri effetti nella sfera dell’autonomia collettiva e a fungere quindi da battistrada per i contratti collettivi nazionali di categoria, oppure a colmare le lacune derivanti dall’inerzia della contrattazione in alcuni settori; quella più moderna di suggeritore del legislatore, proiettato a creare regole che solo con il recepimento nella legge potranno produrre effetti72.
I contratti descritti non sono gli unici esclusi dal limite del triennio. La l. n.247/2007 riforma l’art.5 del d.lgs. 368/2001, ma non modifica l’art. 10 della medesima legge nei commi dove sono regolate le esclusioni dal campo di applicazione del presente decreto legislativo. Dunque le tipologie contrattuali ivi previste sono fuori dall’ambito applicativo della disciplina generale del termine, con una regola che, applicabile alla legge originaria, va ribadita anche oggi dopo la riforma e che riguarda, quindi, tutte le innovazioni introdotte nel 2007, non estensibili a questi contratti.
Un notevole irrigidimento rispetto alla normativa previgente è dovuto al fatto che la legge non pone alcuna limitazione temporale al periodo entro il quale deve essere preso in considerazione il tetto dei 36 mesi. Da ciò deriva che, nell’ipotesi in cui le parti, con rapporti a termine, abbiano utilizzato 24 mesi su 36, potranno usufruire solamente dei 12 mesi rimanenti, indipendentemente dal fatto che dall’ultimo contratto siano trascorsi vari anni.
Per espressa previsione normativa sono sottratti al vincolo temporale i contratti a termine recanti lo svolgimento di mansioni non equivalenti. In riferimento al consolidato orientamento giurisprudenziale, per la sentenza della Cassazione n.10091/2006, l’equivalenza ha assunto nel tempo un ampio significato, condizionato sia da aspetti di natura oggettiva, dati dalla
72 X. Xxxxxxx, Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, d. lgs. n. 368/2001, in RIDL, 2008, 3.
assimilabilità dei servizi svolti nell'ambito dell'organizzazione produttiva, sia da altri di tipo soggettivo, connessi alla possibilità per il lavoratore di svolgere le nuove e diverse mansioni con le stesse attitudini e capacità possedute o maturate nell'attuazione delle precedenti. L’equivalenza deve essere, pertanto, valutata in concreto caso per caso, e non astrattamente, tenendo conto in termini dinamici della effettiva posizione assunta dal lavoratore nel contesto dell'organizzazione dell'impresa, così come si deduce dallo spirito dell'art.2103 c.c. che è quello di favorire, nel corso del rapporto, un'adeguata utilizzazione della sua professionalità, consentendo modifiche solo migliorative. Sotto questa luce, per sottrarsi ai nuovi limiti imposti dal legislatore, non sarà pertanto sufficiente adibire il lavoratore a mansioni di altro tipo.
Il limite temporale dei 36 mesi può essere, soltanto per una volta, superato tramite la stipula di un ulteriore, successivo contratto a termine tra le parti presso la Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio e con l'assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. La durata di tale ulteriore contratto è tuttavia stabilita, con avvisi comuni, dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In questa ipotesi, il mancato rispetto della procedura, nonché il superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, determinano il riconoscimento a tempo indeterminato del nuovo rapporto.
La funzione attribuita al soggetto pubblico ed al rappresentante sindacale, oltre a quella di informare il lavoratore dei suoi diritti e di supportare la formazione di una volontà individuale consapevole, è quella di controllare il profilo causale del contratto, con una funzione di vera e propria “derogabilità assistita”. In sostanza, si chiederà alla DPL ed al sindacato di verificare: a) il superamento dei 36 mesi; b) l'esistenza di esigenze
temporanee alla base del nuovo contratto; c) il fatto che il rapporto in deroga abbia la durata prevista negli avvisi comuni.
Data la rilevante novità in materia di durata massima del rapporto di lavoro con successione di più contratti a termine e il forte impatto che avrebbe comportato l'immediata entrata a regime della norma, la legge n.247/2007 ne prevede una entrata in vigore graduale. Nella fase della prima applicazione infatti sono esentati dal computo temporale i contratti a termine in corso al 1° gennaio 2008, data di entrata in vigore della legge, che possono proseguire fino al termine previsto. Tali contratti pertanto, se continuando fino alla naturale scadenza dovessero contribuire al superamento dei 36 mesi, non andranno ad assumere rilevanza a fini di specie. E inoltre previsto un periodo transitorio di 15 mesi, decorso il quale, dall'1.4.2009, i contratti che abbiano avuto svolgimento antecedentemente all'1.1.2008 cominceranno a essere computati, insieme ai periodi successivi, ai fini della determinazione del periodo massimo.
La normativa in esame si occupa infine del diritto di precedenza, stabilendo che il lavoratore, il quale con uno o più contratti a termine presso la stessa azienda ha prestato attività lavorativa per più di sei mesi, vanta un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine (articolo 5, comma 4 quater, decreto legislativo n.368/2001, introdotto dall’articolo 40, legge n.247/2007). Il diritto di precedenza sussiste a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro sei mesi dalla data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro e si estingue entro un anno dalla medesima data (articolo 5, comma 4 sexies, decreto legislativo n.368/2001, introdotto dall’articolo 40, legge n.247/2007).
Il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali ha diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali (articolo 5,
comma 4 quinquies, decreto legislativo 368/2001, introdotto dall’articolo 40, legge n.247/2007). Tale diritto sussiste a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione dell’ultimo rapporto e si estingue entro un anno dalla medesima data (articolo 5, comma 4 sexies, decreto legislativo n.368/2001, introdotto dall’articolo 40, legge n.247/2007).
Occorre inoltre evidenziare che il diritto di precedenza trova applicazione, per espressa previsione normativa, con riferimento alle "mansioni già espletate" e non, come avviene per il computo del periodo massimo dei 36 mesi, con riferimento a "mansioni equivalenti". Questa circostanza induce ad affermare che il legislatore abbia voluto limitare il diritto di precedenza alle nuove assunzioni che abbiano ad oggetto le stesse, identiche, mansioni già svolte dal lavoratore, con esclusione quindi delle nuove assunzioni che abbiano ad oggetto mansioni equivalenti73. Non manca tuttavia chi ritiene74, al contrario, che la norma faccia riferimento genericamente alla pluralità di mansioni già espletate nei precedenti rapporti a termine, consentendo così un’interpretazione che favorisce l’esercizio del diritto di precedenza, giacché questo matura anche nelle ipotesi in cui le mansioni non siano state sempre uniformi nei vari contratti che si siano succeduti nel tempo.
3.2. La legge n.133/2008
Il legislatore è intervenuto nuovamente a modificare il decreto n.368/2001 con il d.l. n.122/2008, convertito nella legge n.133 del 5 agosto 2008.
La prima modifica ha riguardato l’articolo 1 che disciplina i casi in cui può essere apposto il termine al contratto di lavoro: l’art.21 della legge in esame, al primo comma, aggiunge alla formulazione originale, ovvero “È
73 X. Xxxxx - X. Xxxxxxxx (a cura di), La nuova disciplina del Welfare, Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247, Padova, Cedam, 2008.
74 X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx, Lavoro, competitività, welfare, Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247 e riforme correlate, Torino, Utet giuridica, 2008.
consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” le parole “anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.
La novella utilizza un inciso già presente nella disciplina del contratto di somministrazione a tempo determinato, in cui si ritrova il concetto di esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore (art. 20, d.lgs. n.276/2003) e interviene su uno dei punti più controversi della disciplina contenuta nel d.lgs. n.368/2001, cioè la natura straordinaria oppure ordinaria delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto a termine.
Muovendosi in una prospettiva opposta rispetto a quella che ha segnato la legge n.247/2007, il legislatore arriva a stabilire che costituisce valido presupposto che legittima l’apposizione del termine qualsiasi ragione oggettiva non arbitraria che renda preferibile in concreto nell’organizzazione aziendale il contratto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato. In tal modo viene derogato, ed è questa la vera novità, il carattere di eccezionalità e straordinarietà che la giurisprudenza del lavoro aveva posto come condizione indispensabile affinché il contratto a termine fosse genuino e non costituisse l'espediente per eludere il lavoro a tempo indeterminato.
La suddetta precisazione, correlata con l’ampia formula di base che sostanzialmente comprende tutte le possibili esigenze aziendali, sembra consentire un ampio impiego del contratto a termine con esclusione delle sole ragioni meramente soggettive o per meglio dire di quelle che hanno una valenza illecita, frodatoria o discriminatoria75.
75 X. Xxxxxxx, Ancora sul contratto a tempo determinato, in X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx (a cura di), Lavoro, competitività, welfare. Dal d. l. n. 112/2008 alla riforma del lavoro pubblico, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2009.
Nel corso dell’esame in sede referente, con l’em. 5.10, è stato aggiunto all’articolo in esame il comma 1 bis, che prevede l’introduzione nel d.lgs. n.368/2001 dell’articolo 4 bis, che, in caso di violazione delle norme del medesimo decreto legislativo che disciplinano la possibilità e le modalità di apposizione del termine nonché la proroga del contratto a termine (articoli 1, 2 e 4), pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di indennizzare il lavoratore con un’indennità compresa tra un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. Inoltre, introducendo l’articolo 4 ter al d.lgs. n.368/2001, si precisa che, salvo nei casi di sentenze passate in giudicato, le disposizioni di cui al menzionato articolo 4 bis devono essere applicate “anche ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge”.
E’ bene ricordare come, in via ordinaria, in caso di illegittimità di apposizione del termine, il rapporto si considera a tempo indeterminato e il lavoratore ha diritto al ripristino del rapporto di lavoro con il pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla messa a disposizione sino alla effettiva riammissione in servizio.
Con la nuova norma, per le cause pendenti alla data di entrata in vigore della legge n.133/08, in caso di accertata illegittimità di apposizione del termine, il lavoratore ha diritto al pagamento dell’indennità prevista per il risarcimento in materia di licenziamenti illegittimi in aziende con occupazione inferiore ai sedici dipendenti per unità produttiva o 60 complessivamente, secondo le disposizioni della legge n.604/1966, come integrata e modificata dalla legge n.108/1990.
La ratio che sottende alla riforma non è certo imperscrutabile: paralizzare il contenzioso in corso di migliaia di lavoratori precari che legittimamente si attendevano di veder convertito il loro rapporto a termine, illegittimamente a termine, in rapporto a tempo indeterminato.
La norma, apparsa da subito in aperto contrasto coi dettami costituzionali di cui all’art.3 Cost., nonché con quelli comunitari, è stata immediatamente oggetto di critiche. Il giudice di merito che è stato chiamato a decidere sulle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge 133/08, o non ha applicato la disposizione per essere la stessa in contrasto con i principi comunitari, oppure ha sollevato la questione di legittimità costituzionale: così hanno fatto le Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxx (00/0/00), Xxxxxx (2/10/08), Roma (21/10/08) e Genova (26/9/08), e i Tribunali di Ascoli (30/9/08), Roma (26/9/08), Rossano (17/11/2008), Foggia (22/12/08) e Trieste (15/10/08).
La Corte Costituzione, intervenuta con la decisione n.214/2009, ha stabilito l’illegittimità costituzione della predetta disposizione poiché situazioni di fatto identiche (contratti di lavoro a tempo determinato stipulati nello stesso periodo, per la stessa durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi) risultano destinatarie di discipline sostanziali diverse (da un lato, secondo il diritto vivente, conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato e risarcimento del danno; dall'altro, erogazione di una modesta indennità economica), per la mera e del tutto casuale circostanza della pendenza di un giudizio alla data (anch'essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008 (giorno di entrata in vigore della legge). Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità di accompagnare il passaggio da un certo regime normativo ad un altro. Infatti l'intervento del legislatore non ha toccato la disciplina relativa alle condizioni per l'apposizione del termine o per la proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.
Un ulteriore intervento apportato dalla legge n.133/2008 riguarda la possibilità assegnata alla contrattazione collettiva di derogare a due norme
introdotte con la legge n.247/2007: il tetto dei 36 mesi di cui all’art.5, comma 4 bis, e il diritto di precedenza ex art.5, comma 4 quater. Grazie all’aggiunta in entrambe le disposizioni dell’inciso “fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” viene infatti dato nuovo respiro alla contrattazione collettiva di qualsiasi livello.
3.3. Il Collegato Lavoro: la legge n.183/2010
La legge 4 novembre 2010, n.183, recante “deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e controversie di lavoro”, nota più comunemente come Collegato Xxxxxx, racchiude un’eterogenea normativa lavoristica che riverbera i suoi effetti anche sul d.lgs. n.368/2001.
Significative ricadute sull’interpretazione dei presupposti legittimanti l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato ha in primo luogo quanto disposto dall’art.30 della legge in esame, seppur non faccia alcun esplicito riferimento al decreto n.368.
Il primo comma dell’art.30 ribadisce infatti il principio generale, costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, in tutti i casi in cui disposizioni di legge in materia di rapporti di lavoro contengano clausole generali76, ivi comprese quelle in tema di instaurazione dei rapporti di
76Nel senso ampio ed atecnico di “qualsiasi norma a precetto generico”, X. Xxxxxxxxx, Il Collegato lavoro: un bilancio tecnico, in Mass. giur. lav., 2010.
lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento d’azienda e recesso, il controllo giudiziale deve limitarsi elusivamente all’accertamento “del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. In questo modo il Collegato Xxxxxx sembra voler vincolare il giudice all’accertamento del solo presupposto di legittimità, senza estendere il controllo al merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che spettano soltanto all’imprenditore. La temporaneità dell’occasione lavorativa viene così in rilievo come prodotto della volontà del datore che, nell’esercizio della iniziativa economica privata, è libero di configurare nel modo più conveniente le diverse posizioni di lavoro in cui si scompone l’organizzazione aziendale77.
Le disposizioni che hanno comunque maggiori ricadute sulla disciplina del contratto a tempo determinato sono quelle contenute nell’art.32 della legge n.183/2010 in tema di regime delle impugnazioni e di conseguenze dell’accertamento e della dichiarazione giudiziale della nullità del termine apposto al contratto.
Il primo comma dell’articolo in parola riscrive l’articolo 6 della legge n.604/1966 ed estende il nuovo regime di impugnazione anche alle azioni di nullità del termine. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla
77 X. Xxxxxxxx, L’eccezionalità del contratto a termine..., 2007, op.cit.
controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Il nuovo regime di impugnazione dei licenziamenti si applica, in base al terzo comma, anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro od alla legittimità del termine apposto al contratto, al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto), al trasferimento del lavoratore, all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro.
La nuova disciplina dei termini di impugnazione del contratto a termine ha efficacia retroattiva. Essa si applica, infatti, come previsto dal successivo quarto comma, sia ai contratti a termine in corso di esecuzione con decorrenza dell’impugnativa, anche in questo caso, dalla scadenza del termine, sia a quelli già cessati, come previsto dalla lettera b) dell’art.32.4 che fa espresso riferimento ai contratti di lavoro a termine stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al d.lgs. 6 settembre 2001, n.368, che siano già conclusi alla data di entrata in vigore della nuova legge, data dalla quale decorrono i termini per l’impugnazione.
Il legislatore è poi tornato, dopo la sentenza n.214/2009 di illegittimità costituzionale dell’art.4 bis del d.lgs. n.368/2001, sulle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine. L’art.32, quinto comma, dispone che “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art.8 della legge 15 luglio 1966,
n.604”. Il successivo sesto comma contempla un meccanismo di riduzione della misura massima della predetta indennità in funzione promozionale di soluzioni concordate in sede contrattuale collettiva: in presenza di contratti ovvero di accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma quinto è ridotto alla metà. Tali disposizioni trovano applicazione, secondo quanto stabilito dal settimo comma, per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge.
Il Tribunale di Trani prima, con ordinanza del 20 dicembre 2010 e la Corte di Cassazione poi, con ordinanza del 28 gennaio 2011, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art.32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183. In particolare i giudici rimettenti hanno censurato la norma in esame nella parte in cui prevede, in caso di dichiarata illegittimità del termine, oltre alla conversione del rapporto, un’indennità risarcitoria omnicomprensiva predeterminata dal legislatore entro un limite compreso tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore e l’applicazione delle disposizioni del Collegato Lavoro a tutti i procedimenti pendenti, in qualsiasi stato e grado, con il solo limite del giudicato.
Secondo i giudici tali disposizioni sarebbero lesive delle norme di cui agli artt. 3, 4, 24, 101, 102, e 111 Cost., poiché la liquidazione dell’indennità, così come determinata dal legislatore, sarebbe sproporzionata per difetto rispetto al danno subito dal lavoratore ed indurrebbe il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, tentando di prolungare il giudizio o addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, insuscettibile di esecuzione in forma specifica, in virtù del disposto di cui all’art. 614 bis c.p.c.. La norma dell’art.32 era inoltre sospettata
d’illegittimità costituzionale anche nella parte in cui prevede la sua applicazione retroattiva e generalizzata a tutti i giudizi pendenti, in qualsiasi stato e grado, con il solo limite del giudicato.
La Corte Costituzionale, con sentenza n.303 del 9 novembre 2011, ha però rigettato tutte le censure. Secondo la Consulta infatti “il Collegato Xxxxxx realizza un perfetto bilanciamento, garantendo al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonché una indennità che gli è dovuta sempre e comunque, e al datore di lavoro assicura la conoscenza preventiva, e massima, del risarcimento del danno che, in caso di soccombenza, sarebbe tenuto a liquidare al lavoratore”.
La Corte Costituzionale ha chiarito che l’indennità prevista dall’art.32 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato e ha inoltre precisato che il danno forfettizzato dalla indennità in esame copre solo il periodo cd “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di essa e dichiara la conversione del rapporto, mentre per il periodo successivo il datore di lavoro è obbligato a riammettere in servizio il lavoratore ed a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
In merito, poi, alla censura d’illegittimità costituzionale della norma in esame nella parte in cui prevede la sua applicazione a tutti i giudizi pendenti, a giudizio della Consulta tale previsione è assolutamente legittima e va esente dai dubbi di incostituzionalità prospettati, poiché non vi è ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali tutte egualmente sub iudice.
Parimenti esenti da sospetti di incostituzionalità prospettati dai giudici rimettenti le disposizioni della norma in esame riguardo alla portata retroattiva delle sue disposizioni.
La Corte ritiene che la norma in esame non sia in contrasto con la disciplina comunitaria (art.6 CEDU), dal momento che l’applicazione retroattiva delle
xxx disposizioni, avendo portata generalizzata a tutte le controversie avente ad oggetto i contratti a termine, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico, poiché le controversie sulle quali va ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro a termine alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti indistintamente i rapporti a termine.
Sotto altro profilo la Corte Costituzionale osserva come a giustificazione della retroattività delle disposizioni di cui alla norma in commento, si pongano rilevanti ragioni di utilità generale, riconducibili all’esigenza di offrire una tutela economica dei rapporti a termine più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici di tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, di talché ricorrono tutte le condizioni previste dalla norma di cui all’art.6 CEDU per l’applicazione retroattiva di norme in suddetta materia.
3.4. La riforma Fornero
La legge n.92 del 28 giugno 2012, c.d. riforma Fornero, modifica nuovamente il diritto del lavoro con la finalità di “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione” (art.1, comma I).
Il tentativo portato avanti è quello di separare la flessibilità buona da quella cattiva facendo sì che la prima abbia un suo ambito d’azione connesso a reali esigenze aziendali e contrastando il fenomeno che vede l’utilizzo di determinate tipologie contrattuali a soli fini elusivi.
Proprio in tale ottica il legislatore, ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale “contratto dominante”, abroga il contratto di inserimento (articolo 1, comma 14, della l. n.92/2012), modifica in senso restrittivo i tirocini formativi (articolo 1, commi 34 e 35 della l.
n.92/2012), opera una stretta sul lavoro autonomo ritenuto sospetto (articolo 1, comma 26 della l. n.92/2012) e apporta ulteriori novità alla disciplina sul contratto a tempo determinato.
L’art.1, comma 9, lettera a), della legge in esame varia la formulazione del primo comma dell’art.1 del d.lgs. n. 368/2001 sostituendo la dicitura inserita nel 2007 (“il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”) con la seguente: “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
La nuova formulazione, secondo una parte della dottrina78, ribadisce la relazione tra ordinarietà del contratto a tempo indeterminato e specialità di quello a termine e serve proprio a giustificare il primo contratto a termine a- causale, vera novità della disciplina in esame. Al contrario, invece, altro approccio interpretativo79, osservato come non risulti molto chiaro il significato dei termini usati dal legislatore in riferimento al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale “contratto dominante” ovvero “forma comune del contratto di lavoro”, ritiene trattarsi più di un riferimento quantitativo che qualitativo, nel senso che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, quantomeno secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe continuare ad essere la forma contrattuale più diffusa. Il punto focale della riforma è nella successiva lettera b), che introduce nel decreto n.368 un comma 1 bis, secondo cui il primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso tra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansioni, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato, può prescindere dall’esistenza e
00 X. Xxxxxxxx, Xx riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92, WP
C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” – IT, 2012, n. 153.
79 X. Xxxxx, Le Nuove disposizioni sul contratto a tempo determinato e sul contratto a progetto, Relazione tenuta al corso di aggiornamento professionale per avvocati Inps, Le recenti riforme in tema di diritto del lavoro e di processo civile, in Roma e videoconferenza, 14 e 15 novembre 2012, datt., 3.
dall’indicazione delle ragioni oggettive che ordinariamente consentono la stipula di un contratto di lavoro a termine.
La possibilità di stipulare contratti a termine a-causali non è in realtà nuova nel nostro ordinamento, che la prevede da tempo per le aziende dei servizi aeroportuali e del trasporto aereo (art.2 d.lgs. n.368/2001), ma in tal maniera detta possibilità viene generalizzata a tutti i settori, seppur limitata a un primo contratto di un anno. Tale contratto non può essere prorogato, perché la proroga presuppone ragioni oggettive che sono qui assenti, oltre che per il carattere eccezionale e derogatorio di un contratto a termine a-causale rispetto a quello ordinario, fondato su necessità temporanee di lavoro. La proroga, infatti, riflette la necessità di un prolungamento del contratto iniziale sempre per esigenze temporanee e non è quindi compatibile con un accordo individuale che prescinde dalla temporaneità delle ragioni del lavoro80.
Poiché nella norma manca un espresso divieto di riassumere con un contratto a-causale il medesimo lavoratore, è da ritenersi che ben potrà stipularsi un contratto a-causale con un lavoratore che già ha avuto un precedente simile rapporto, ma con un’altra impresa, così come si potranno registrare casi di aziende stipulanti rapporti a-causali con diversi lavoratori assunti a termine una prima ed unica volta. E’ invece esclusa la possibilità per il datore di lavoro di riassumere a termine, ai sensi dell’articolo 1, comma 1 bis del decreto n.368, il medesimo lavoratore seppure con mansioni differenti rispetto a quelle precedentemente svolte.
A tale primo rapporto a tempo determinato la lettera b) affianca un ulteriore contratto a termine a-causale, senza il requisito delle esigenze tecniche e organizzative, definito dall'autonomia collettiva “nell'ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all'articolo 5, comma 3” e cioè per l'avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio
00 X. Xxxxxxxx, Xx riforma del contratto a termine…,2012, op.cit.
innovativo, l'implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, la fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, il rinnovo o la proroga di una commessa consistente. Tale possibilità è peraltro vincolata a una franchigia del 6% del totale dei lavoratori occupati nell'ambito dell’unità produttiva.
In questa maniera il legislatore utilizza lo strumento della delega al contratto collettivo non per ridurre la rigidità della norma, come di solito avviene, ma per introdurre nuove forme di lavoro a tempo determinato in un quadro che appare già liberalizzato. L’opportunità di tale decisione è da rinvenire nella possibilità, per le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di prevedere un termine di durata superiore (o inferiore) ai 12 mesi previsti dalla prima parte della normativa.
Si lascia quindi alle parti sociali, in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, il compito di definire un tempo massimo che costituisce un differente punto di equilibrio rispetto a quello rinvenuto dal legislatore.
Seppur in assenza di un regime sanzionatorio specifico, è da ritenersi che la violazione delle disposizioni di cui all’art.1, comma 1 bis, determini la nullità del termine e la conversione del rapporto a tempo indeterminato, ai sensi degli articoli 1418 e 1419, c. 2, c.c..
Peraltro, l’art. 1, comma 9, lettera e), della legge n.92/2012 estende il periodo di tolleranza entro il quale il prolungamento del contratto oltre il termine finale (eventualmente prorogato) non determina la sua conversione in un rapporto a tempo indeterminato, ma soltanto un incremento della retribuzione dovuta. I termini di venti giorni (per i contratti fino a sei mesi) e quello di trenta giorni (per i contratti superiori a sei mesi) vengono infatti elevati rispettivamente a trenta e cinquanta giorni. Superato tale breve periodo di tolleranza senza che il rapporto sia effettivamente cessato, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Questa modifica ha
subito sollevato perplessità, dal momento che i termini originariamente previsti erano più che sufficienti ad impedire gli effetti negativi sopra descritti. La loro estensione, dunque, non sembra avere una reale giustificazione se non quella di consentire al datore di lavoro di poter utilizzare più a lungo il lavoratore anche in assenza delle causali temporanee originarie.
Resta ferma la previsione normativa secondo cui, nel caso di protrazione della prestazione lavorativa dopo il maturare del termine, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una retribuzione maggiorata, pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo alla scadenza del termine ed al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore.
E’, comunque, necessaria la previa comunicazione al Centro per l’impiego territorialmente competente, da effettuarsi entro la scadenza del termine inizialmente fissato indicando altresì la durata della prosecuzione. Tale modifica all’art.5 del d.lgs. n.368/2001 con l’inserimento del comma 2 bis, è stato ritenuto irragionevole poiché il periodo “cuscinetto” è stato introdotto da tempo non per prosecuzioni di fatto programmate con precisione in anticipo, quanto per situazioni dovute a disguidi o a esigenze del momento per definizione incompatibili con precise comunicazioni preventive81.
La legge inoltre non prevede alcuna sanzione, neanche economica, nel caso di mancata comunicazione e non incentiva quindi l’applicazione della norma.
In direzione opposta rispetto ai provvedimenti finora analizzati, ossia nel tentativo di limitare la reiterazione dei rapporti a termine, l’art.1, comma 9, lettera g), della l. n.92/2012 interviene sugli intervalli temporali tra i contratti a tempo. Tra un contratto a termine e l’altro devono intercorrere, pena la trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, i seguenti intervalli: 60 giorni, dalla data di scadenza di un contratto di durata non
81 X. Xxxxxxxxx, La riforma del lavoro 2012, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2012.
superiore a 6 mesi; 90 giorni, dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a 6 mesi. La successiva lettera h), tuttavia, stabilisce che “I contratti collettivi di cui all’articolo 1, comma 1-bis, possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione dei predetti periodi, rispettivamente, fino a venti e trenta giorni nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente”.
Con una modificazione introdotta dalla legge n. 134/2012 di conversione del decreto legge n.83/2012 (c.d. decreto sviluppo) l’articolo 46 bis, modificando la legge n.92/2012 appena approvata, introduce la deroga sulle riassunzioni a termine per gli stagionali, che è possibile se il secondo rapporto a termine è instaurato dopo venti giorni (anziché sessanta) se il contratto è di durata fino a sei mesi o dopo trenta (anziché novanta) se il contratto è di durata superiore ai sei mesi. Analogamente, la stessa disposizione amplia la possibilità di riduzione degli intervalli in esame sino a venti o trenta giorni, possibilità che viene affidata ai contratti collettivi di ogni livello e senza ulteriori condizioni.
Un'ulteriore disposizione diretta a ridurre la precarizzazione del lavoro si rinviene nella modifica del comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. n.368/2001. Nel computo dei 36 mesi (o del diverso periodo previsto dai contratti collettivi), che costituisce il tetto massimo di rapporti a termine tra le stesse parti e per mansioni equivalenti, devono ora essere computate anche le somministrazioni a tempo determinato, sia quella a-causale prevista dal comma 1 bis del decreto delegato, sia quelle effettuate in base alle esigenze tecniche od organizzative previste dal comma 4 dell’art.20 del d.lgs. n.276/2003. In precedenza infatti le missioni effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti del medesimo utilizzatore non potevano essere
prese in considerazione nel “tetto” triennale, in quanto tra impresa utilizzatrice e dipendente non sussiste un contratto di lavoro a termine.
Infine, l’art.1, comma 11, lettera a), della l. n.92/2012, modifica l’art.32, comma 3, lettera a), della l. n.183/2010 intervenendo in tal maniera sulla disciplina relativa alla impugnazione giudiziale e stragiudiziale dei contratti a termine. Si stabilisce che “ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368, e successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni”.
La riforma, che quindi aumenta il termine per l’impugnazione in forma scritta (da 60 a 120 giorni) e diminuisce quello relativo alle fasi successive (da 270 a 180 giorni), si applica soltanto alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013.
Nonostante a una prima lettura l’allungamento del primo termine possa sembrare un’agevolazione nei confronti del lavoratore, in realtà la situazione è rimasta sostanzialmente invariata dal momento che a fronte di un periodo minimo di sessanta o novanta giorni tra un contratto a termine e l’altro il prestatore tornerà ad avere tempi molto limitati entro cui dover decidere se impugnare o meno il contratto. Inoltre, mentre in precedenza la somma del doppio periodo di decadenza era pari a 330 giorni (60 + 270), i giorni complessivi sono in tal modo 300 (120 + 180), venendo quindi anche in questo caso a peggiorare la situazione ex ante.
3.5 La legge n.99/2013
A distanza di più di un anno dall’entrata in vigore della riforma Fornero, il legislatore ha apportato, tramite il Decreto legge n.76 del 2013, successivamente convertito con modifiche dalla legge n.99 del 2013, delle integrazioni e dei chiarimenti ad alcuni istituti già precedentemente emendati dalla legge n.92/2012.
In primo luogo, ha attribuito alla contrattazione collettiva, anche aziendale, il compito di individuare ogni altra ipotesi di causalità, senza che tali fattispecie debbano rientrare nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all’articolo 5, comma 3, nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati dall’unità produttiva. La circolare n.35 del 29 agosto 2013 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha evidenziato che la disciplina introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di contratto a tempo determinato a- causale, integra quanto disposto dal legislatore e pertanto i contratti collettivi, anche aziendali, potranno prevedere che il contratto a-causale abbia una durata maggiore di dodici mesi e che possa essere sottoscritto da soggetti che abbiano avuto precedentemente un rapporto di lavoro subordinato.
Sempre in tema di causale, la riforma del lavoro, risolvendo un dubbio giurisprudenziale, precisa che i contratti a termine stipulati con i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità non sono soggetti a tale obbligo.
Viene inoltre abrogato l’articolo 4, comma 2 bis, introdotto dalla legge n.92/2012 che prevedeva il divieto di proroga del contratto privo di ragione giustificatrice.
Il primo contratto a termine privo di giustificazione può essere stipulato per un massimo di dodici mesi e può essere prorogato una sola volta nel caso in
cui il primo contratto sia di durata inferiore ai dodici mesi. La proroga deve inoltre riferirsi alla stessa attività per la quale il contratto è stato stipulato.
La contrattazione collettiva diventa protagonista anche della nuova disciplina del cd. stop and go, l’obbligo di rispettare un intervallo di tempo tra la fine di un contratto a termine e la stipula di un nuovo rapporto. Il decreto lavoro, azzerando il discusso intervento della legge Fornero, riporta, all’art.7, comma 1, lett c), punto 3, questo intervallo a 10 giorni (20, se il precedente contratto ha avuto una durata superiore a 6 mesi). Le disposizioni introdotte non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali, definite dal Decreto del Presidente della Repubblica n.1525/1963, nonché in relazione alle ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Il legislatore estende poi la disciplina dell’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n.368/2001 anche al contratto a termine a-causale. Pertanto recependo nel disposto normativo quanto espresso dal Ministero con la Circolare n.18/2012, ovvero che al contratto a-causale si applicano le regole generali in materia di prosecuzione, se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno, in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4 bis (36 mesi), ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Questo significa che rimane fermo quanto stabilito dal comma 1 dell’articolo 5 del d.lgs. n.368/2001 cioè che, in caso il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore, ossia dall’11°al 30° per i contratti di
durata inferiore a sei mesi e dall’11°al 50° per quelli di durata pari o superiore a sei mesi.
Il decreto legge abroga inoltre la discussa “prosecuzione programmata” di cui al comma 2 bis dell’articolo 5 del decreto legislativo n.368/2001, che prevedeva l’obbligo di comunicazione al Centro per l’impiego della prosecuzione di fatto. Occorre precisare che la soppressione della comunicazione preventiva in caso di prosecuzione riguarda l’intero istituto del tempo determinato e non solo quello a-causale.
3.6. La legge n.78/2014
La cosiddetta a-causalità del contratto a termine, introdotta dalla legge 28 giugno 2012, n.92 e successivamente estesa dal decreto legge 28 giugno 2013, n.76, da mera eccezione, diventa regola generale con l’intervento del decreto legge 20 marzo 2014, n.34, convertito in legge 16 maggio 2014, n.78.
Nelle dichiarazioni programmatiche che hanno accompagnato l’emanazione del provvedimento normativo di cui trattasi si è fatto presente che lo stesso deve essere considerato parte di un più ampio progetto di riforma complessiva del mercato del lavoro. Per tale motivo, al fine di giustificare le modifiche apportate in materia di contratti a termine, l’art.1 parte dal seguente presupposto: “considerata la perdurante crisi occupazionale e l'incertezza dell'attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare, nelle more dell'adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente e salva l'attuale articolazione delle tipologie di contratti di lavoro, vista la direttiva n.
1999/70/Ce, al contratto a termine sono apportate le seguenti modificazioni”.
Il legislatore si muove nuovamente nell’ottica di un’ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro e opera il superamento del regime delle causali di giustificazione della apposizione di un termine di durata al contratto di lavoro subordinato, che rappresentavano il baricentro del d.lgs.
6 settembre 2001, n.368. Eliminando definitivamente l’obbligo di indicazione delle ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro, la nuova formulazione del primo comma dell’art.1 diviene la seguente: “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Fatto salvo quanto disposto dall'articolo 10, comma 7, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell'anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato ″. Conseguentemente, viene abrogato anche il successivo comma 1 bis, introdotto dalla legge 28 giugno 2012, n.92, che consentiva la possibilità di derogare al regime delle causali oggettive nella ipotesi di un primo rapporto di lavoro a tempo determinato di durata non superiore ai dodici mesi. Distonica rispetto a tale intervento normativo appare ora la prima parte dell’art.1, introdotta dalla riforma Fornero, che pone l’accento sulla natura di “forma comune” del contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato. Tale principio, non più presidiato dai limiti causali, pur avendo perso molto della sua forza normativa potrebbe restare comunque una chiave interpretativa utile a chiarire alcuni punti oscuri della disciplina. Il contratto a tempo determinato sembra in tal modo perdere definitivamente quel connotato di negatività che lo aveva sempre contraddistinto e che, per questa ragione, lo vedeva necessariamente corredato da una ragione giustificatrice che lo legittimasse.
La direttiva comunitaria di riferimento, la n. 1999/70/CE, risulta comunque rispettata nella sua finalità di prevenzione degli abusi con la previsione di un duplice limite quantitativo.
Secondo la nuova formulazione dell’art.4, comma 1, del d.lgs. n.368/2001, infatti, a seguito della conversione del d.l. n.34/2014, “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi, a condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
La prorogabilità del termine, sino ad un massimo di cinque volte (nel testo originario del decreto erano otto) e sempre entro il limite di durata complessiva del singolo contratto pari a 36 mesi, è dunque ammessa alla condizione che ci si riferisca alla “stessa attività lavorativa”, intendendo con tale formulazione le stesse mansioni, le mansioni equivalenti o comunque quelle svolte in applicazione della disciplina di cui all’art. 2103 c.c. Il legislatore evidenzia inoltre che il limite delle cinque proroghe trova applicazione “indipendentemente dal numero dei rinnovi”. Ciò significa che, nell’ambito di più contratti a tempo determinato stipulati tra un datore di lavoro e un lavoratore “per lo svolgimento di mansioni equivalenti”, le
proroghe totali non potranno essere più di cinque; viceversa, qualora il nuovo contratto a termine non preveda lo svolgimento di mansioni equivalenti, le eventuali precedenti proroghe non dovranno essere “contabilizzate”82.
Appare utile a tal punto ricordare che si ha “proroga” di un contratto nel caso in cui, prima della scadenza del termine, lo stesso venga prorogato ad altra data. Si ha invece “rinnovo” quando l’iniziale contratto a termine raggiunga la scadenza originariamente prevista (o successivamente prorogata) e le parti vogliano procedere alla sottoscrizione di un ulteriore contratto.
La possibilità di poter porre in essere ben cinque proroghe, soprattutto se paragonata all’unica proroga ammessa in precedenza, imprime una particolare flessibilità alla disciplina del contratto a termine.
Il nuovo istituto della proroga trova applicazione ai rapporti di lavoro instaurati a far data dall’entrata in vigore del decreto, ossia dal 21 marzo 2014. Tutti i rapporti posti in essere precedentemente sono quindi tuttora soggetti al previgente regime. La Circolare n.18/2014 precisa inoltre che, poiché il d.l. n.34 prevedeva inizialmente otto proroghe, è corretto il comportamento di quei datori di lavoro che nel periodo 21 marzo- 19 maggio 2014 abbiano effettuato fino a un massimo di xxxx xxxxxxxx.
L’art. 1 del d.lgs. n.368/2001, introducendo il limite dei 36 mesi per un singolo contratto a tempo determinato, non consente più, così come in precedenza, la sottoscrizione di un primo contratto di durata anche superiore. Rimane tuttavia possibile stipulare più contratti a tempo determinato anche oltre il limite complessivo di 36 mesi, ma solo nell’ambito delle ipotesi derogatorie già previste dall’art. 5, comma 0 xxx x xxx, xxx xxxxxxx n. 368/2001.
82 Circolare del Ministero del Lavoro n.18 del 30 luglio 2014.