Nozione generale
Nozione generale
Il contratto collettivo di diritto comune ha la finalità di regolamentare in maniera unitaria il rapporto di lavoro intercorrente tra lavoratori e datori di lavoro che operano in un determinato settore economico-produttivo.
Viene stipulato dalle contrapposte organizzazioni sindacali lavorative e datoriali ed ha una duplice funzione, quella di definire le condizioni economiche e normative del rapporto di lavoro subordinato e quella di disciplinare le relazioni sindacali.
All’interno del contratto collettivo si possono rinvenire disposizioni relative alla costituzione e alla cessazione del rapporto di lavoro, all’inquadramento dei lavoratori, alla retribuzione, all’orario, ferie e riposi, al codice disciplinare.
Possono essere fatti rientrare nella detta categoria, i contratti collettivi nazionali, regionali, provinciali o di altro ambito territoriale, i contratti aziendali e gli accordi interconfederali.
La Costituzione disciplina la stipulazione dei contratti collettivi all’art. 39, dove prevede che i “sindacati registrati” possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Dato che tale sistema di registrazione non ha mai trovato attuazione nella legislazione ordinaria, ne deriva che allo stato attuale non possono essere stipulati contratti collettivi con efficacia “erga omnes”.
Soggetti stipulanti
Per aversi contrattazione collettiva è necessario che almeno una delle due parti contrapposte sia un soggetto collettivo.
Nella prassi è frequente che la parte datoriale sia rappresentata dal singolo imprenditore come soggetto individuale, mentre la parte dei lavoratori sia rappresentata da un soggetto collettivo, che chiaramente può tutelare con efficacia più incisiva la posizione del lavoratore, soggetto considerato “debole” nella costituzione e nello svolgimento del rapporto di lavoro.
Sia l’organizzazione sindacale dei lavoratori che quella dei datori di lavoro è strutturata su un duplice piano, verticale, per categorie di appartenenza, e orizzontale di tipo territoriale.
Per le organizzazioni dei datori di lavoro prevale una struttura orizzontale di tipo territoriale, in prevalenza risultano suddivise per settori economici (industria, commercio ed agricoltura), tenendo conto del tipo di attività produttiva, dell’ubicazione territoriale e delle dimensioni dell’impresa.
Forma
Sulla forma che deve rivestire il contratto collettivo per dirsi validamente stipulato, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno affermato il principio della libertà di forma (Cass., S.U., 22 marzo 1995, n.° 3318).
Pertanto, è ritenuta valida anche la forma orale e non sono suscettibili di applicazione analogica le norme che prevedono la forma scritta per determinati contratti, anche se quest’ultima viene adottata sempre per motivi di opportunità.
Contenuto
Il contratto collettivo può essere suddiviso in due parti: una normativa ed una obbligatoria.
La parte normativa ha la funzione di predeterminare il contenuto dei futuri contratti individuali di lavoro, si tratta della parte tipica del contratto collettivo e non disciplina i rapporti tra i soggetti stipulanti.
Sono clausole normative quelle aventi ad oggetto i minimi retributivi, il periodo di prova e la sua durata, nonché quella del preavviso e del comporto.
In quanto clausole destinate a regolamentare un numero indeterminato di rapporti di lavoro subordinato hanno carattere generale.
La parte obbligatoria invece, impegna gli stessi soggetti stipulanti il contratto collettivo stesso.
Trattasi pertanto delle clausole che disciplinano la cd. amministrazione del contratto impegnando le parti firmatarie a sottostare alle loro disposizioni, ad esempio attraverso l’istituzione di organismi atti a dirimere eventuali contrasti circa l’applicazione o l’interpretazione del contratto stesso.
Da ultimo vanno ricordate le cd. clausole di tregua sindacale che impegnano le parti collettive a non ricorrere a scioperi o agitazioni per modificare le materie disciplinate dal contratto collettivo prima della sua scadenza.
Durata
Le parti stipulanti il contratto collettivo ne fissano anche la durata, la quale in armonia con quanto disposto dall’accordo interconfederale del 23/7/1993 sulla Politica dei redditi, è quadriennale per la materia normativa e biennale per la materia retributiva.
E’ importante tenere presente che spesso nei contratti collettivi le parti inseriscono la clausola con cui prevedono che in caso di mancata disdetta, il contratto si intende automaticamente rinnovato.
Nell’ipotesi rara e riguardante i soli accordi aziendali, può capitare che se le parti nulla dicano in ordine alla scadenza, il contratto si considera a tempo indeterminato.
Una volta scaduto il termine il contratto cessa di produrre i suoi effetti e non è più vincolante per le parti.
Per il contratto collettivo di diritto comune, non trova così applicazione l’art. 2074 c.c. che sancisce il principio dell’ultrattività e che è valido esclusivamente per i contratti corporativi.
Va evidenziato comunque che il lavoratore, nel periodo intercorrente tra la scadenza del contratto ed il suo rinnovo, conserva i diritti previsti nel contratto scaduto.
Inoltre, le parti collettive spesso prevedono il rinnovo automatico del contratto in mancanza di disdetta, oppure possono prevedere che il nuovo contratto stipulato abbia efficacia retroattiva e così provvedere per il periodo “scoperto”.
Rinnovo
Ogni contratto collettivo nazionale di categoria ha una sezione dedicata allo svolgimento delle procedure per il rinnovo dello stesso.
In armonia con le norme contenute nel Protocollo sulla Politica dei redditi del 23/7/1993 che disciplinano tale argomento, tre mesi prima della scadenza del contratto le parti devono presentare la piattaforma per il rinnovo per consentire l’apertura delle trattative.
Durante i tre mesi precedenti la scadenza e nel mese successivo e, comunque, per un periodo complessivamente pari a 4 mesi dalla presentazione della piattaforma, le parti non assumeranno iniziative unilaterali, né procederanno ad azioni dirette.
Decorsi tre mesi dalla scadenza del contratto o dalla presentazione della piattaforma se successiva, ai lavoratori dipendenti ai quali si applica il contratto scaduto e non ancora rinnovato, sarà corrisposto un elemento provvisorio della retribuzione che viene definito “indennità di vacanza contrattuale".
La corresponsione di tale elemento avviene in due tranches: la prima dopo il suddetto periodo di tre mesi e di importo sarà pari al 30% del tasso di inflazione programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti, inclusa l’indennità di contingenza; la seconda dopo gli ulteriori 3 mesi di vacanza contrattuale e di importo pari al 50% del tasso di inflazione programmato.
Tale meccanismo è unico per tutti i lavoratori.
Nel momento in cui viene elaborato il testo del rinnovo definito ipotesi di accordo, l’approvazione sarà data dai lavoratori che all’interno delle aziende vi provvederanno con assemblee o referendum.
L’indennità di vacanza contrattuale cessa di essere corrisposta alla data dell’aumento retributivo indicata nell’accordo di rinnovo, il quale solitamente prevede anche la corresponsione, in un’unica o più soluzioni, di un importo forfetario denominato “una tantum” a titolo di emolumenti arretrati relativi al periodo di vacanza contrattuale.
Interpretazioni del contratto
Si applicano i criteri generali dettati per l’interpretazione dei contratti dagli artt. 1362 e ss. c.c..
In particolare, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, prevalgono le norme di interpretazione soggettiva, quelle cioè che danno rilievo alla comune intenzione delle parti, rispetto a quelle, sussidiarie, di interpretazione oggettiva, alle quali deve farsi ricorso esclusivamente quando le prime risultano insufficienti alla ricostruzione del comune intento delle parti (Cass., 10 agosto 1991, n.° 8761; 14 ottobre 1991, n.° 10816; 5 febbraio 2000, n.° 1311).
La giurisprudenza ha altresì affermato l’inammissibilità del ricorso per Cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi.
Il difetto di interpretazione del contratto collettivo potrà essere fatto valere in cassazione solo in quanto sia stato il prodotto di un difetto di applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale o se abbia dato luogo ad un vizio di motivazione (Cass., 19 agosto 1994, n.° 7452; Cass., 3 febbraio 1994, n.° 1079; Cass., 16 settembre 1992, n.° 4889).
Da ultimo va ricordato che la giurisprudenza considera inapplicabile l’analogia effettuata attraverso la comparazione tra la legge ed i contratti collettivi, così come parimenti inapplicabile è considerata l’analogia tra contratti collettivi di categorie diverse (Cass., 2 dicembre 1988, n.° 6524; Cass., 2 aprile 1987, n.° 3216; Cass., 20 dicembre 1983, n.° 7519).
E’ invece ritenuta ammissibile l’analogia interna, cioè l’estensione di norme contrattuali ritenuti applicabili ad una categoria di casi anziché a casi singoli (Cass., 17 luglio 1995, n.° 7763).
Rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale
Vige il principio dell’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte di quello individuale.
Di conseguenza nel caso di clausola peggiorativa inserita nel contratto individuale, la stessa verrà automaticamente sostituita da quella più favorevole contenuta nell’accordo collettivo.
Il raffronto tra le due discipline, allo scopo di comprendere la natura peggiorativa o meno della deroga, va operato comparando i trattamenti complessivi contenuti nei contratti e non le singole clausole contrapposte.
Infatti, secondo la giurisprudenza, il principio dell’applicabilità della clausola più favorevole al lavoratore va interpretato attraverso l’individuazione del trattamento complessivo più favorevole (Cass., 13 maggio 1995, n.° 5244).
Rapporto tra contratti collettivi di diversa natura
In generale si ammette, in caso di successione di contratti collettivi di diversa natura, l’applicabilità delle clausole contrattuali più favorevoli al lavoratore.
Problemi sono sorti con riguardo alle modalità con cui si deve operare il confronto tra le due discipline al fine di decidere qual’è il trattamento più favorevole.
La giurisprudenza è divisa in due orientamenti, secondo il primo vanno comparati i singoli istituti contrattuali (Cass., 7 gennaio 1992, n.° 84).
Per il secondo orientamento invece vanno comparati i due contratti nel loro complesso (Cass., 9 ottobre 1999, n.° 11338).
Rapporto tra contratto di categoria e contratto aziendale
La giurisprudenza si è occupata di regolamentare le ipotesi in cui uno stesso aspetto del rapporto di lavoro sia disciplinato da più contratti collettivi stipulati a livelli differenti, esaminando esclusivamente però i rapporti di derogabilità in senso peggiorativo.
La Corte di Cassazione, nelle sue più recenti pronunce, ha affermato che il contrasto tra clausole di contratti collettivi di diverso livello deve essere risolto alla stregua dell’effettiva volontà delle parti, ritenendosi altresì ammissibile che un contratto aziendale può introdurre modifiche peggiorative alla disciplina contenuta in un precedente contratto collettivo nazionale (Cass., 4 marzo 1998, n.° 2363).
Allo stesso modo è stato ritenuto ammissibile il contrario, e cioè che un contratto collettivo nazionale possa disporre in senso peggiorativo rispetto ad un precedente contratto aziendale (Cass., 5 maggio 1998, n.° 4534).
Rapporto tra legge e contratto collettivo
Il contratto collettivo è gerarchicamente subordinato alla legge che, secondo quanto sancito dall’art. 35 della Costituzione, deve fissare la tutela minima del lavoratore.
Di conseguenza il contratto collettivo può derogare alla legge solo in meglio e qualora contenga al suo interno clausole in contrasto con norme di legge, dette clausole sono automaticamente sostituite dalla previsione legale più favorevole.
Esistono comunque dei casi in cui la legge consente alla contrattazione collettiva di scendere al di sotto dei livelli minimi di tutela sanciti dalle norme imperative, imponendo delle limitazioni ai miglioramenti che possono effettuarsi in tale sede.
Rapporti tra contratti collettivi di diritto comune
Nella generalità dei casi un contratto collettivo non interviene a modificare il precedente nella sua totalità, ma opera modifiche, previamente concordate, soltanto su alcune disposizioni contrattuali laddove tali modifiche stabiliscono nella maggior parte dei casi miglioramenti retributivi o normativi del trattamento dei lavoratori.
Il problema sorge quando le modifiche sono peggiorative ed a tal proposito la giurisprudenza ha affermato che il contratto successivo potrà modificare in peius le clausole di quello precedente poiché la legge sancisce l’impossibilità di peggiorare disposizioni contrattuali solo in relazione al rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (Cass., 18 dicembre 1998, n.° 12716), resta fermo comunque il limite dei diritti cd. quesiti, quei diritti cioè entrati a far parte del patrimonio del lavoratore perché già esauriti a fronte di una prestazione lavorativa già resa.
Tali diritti non sono disponibili dal sindacato a meno di un espresso mandato o ratifica del lavoratore interessato (Cass. 12 febbraio 2000, n.° 1576 )
La giurisprudenza ritiene ammissibile la retroattività della modifica peggiorativa purché riguardi situazioni future o in via di consolidamento (Cass., 25 novembre 1999, n.° 13160; Cass., 12 febbraio 2000, n.° 1576).
Recesso dal contratto
Il recesso dal contratto collettivo prima della sua scadenza è legittimo solo nel caso in cui il contratto stesso non preveda un termine di durata, in questo caso dovrà essere dato un congruo preavviso, generalmente di tre mesi (Cass., 9 giugno 1993, n.° 6408).
Viceversa, nel caso in cui il datore di lavoro eserciti il suo diritto di recesso prima della scadenza indicata nel contratto, oltre ad aver assunto un comportamento antisindacale, avrà posto in essere una tipica ipotesi di inadempimento contrattuale.
La giurisprudenza ha altresì affermato che nel caso di contratto collettivo stipulato per la composizione di un conflitto tra le parti senza la previsione di un termine di scadenza non implica che gli effetti dello stesso perdurino illimitatamente nel tempo.
Infatti le parti possono dare disdetta nel rispetto del principio di correttezza e buona fede (Cass., 1 luglio 1998, n.° 6427).
Contratto per adesione
L’adesione si ha quando una o più organizzazioni sindacali minori, non partecipando alla fase di stipulazione del contratto collettivo, vi aderiscono solo successivamente con la sottoscrizione di un nuovo contratto di identico contenuto.
In questo caso il contratto collettivo produrrà i suoi effetti anche nei confronti degli iscritti all’associazione aderente.
La giurisprudenza ha precisato che accanto a tale adesione esplicita, si può avere anche l’adesione c.d. implicita, quella cioè desumibile da fatti concludenti che configurino ratifica ed approvazione dell’operato dell’organizzazione sindacale maggiore (Cass., 5 marzo 1992, n.° 2664).
Contratto collettivo applicabile
Ai sensi dell’art. 2070 del codice civile, il tipo di contratto collettivo applicabile viene determinato sulla base dell’attività svolta in concreto dal datore di lavoro e non su quella dell’attività esercitata dal singolo lavoratore nell’impresa.
Nel caso dell’imprenditore che svolga due distinte attività, si applicano due diversi contratti collettivi solo se le attività medesime sono autonome ed indipendenti l’una dall’altra, altrimenti andrà applicato quello relativo all’attività prevalente.
Le clausole individuali che vogliono sottoporre il rapporto di lavoro alla disciplina di un contratto collettivo diverso da quello individuato alla stregua dei criteri citati, sono inefficaci (Cass., 13 novembre 1999, n.° 12608).
Nel caso in cui il datore di lavoro non aderisca all’associazione stipulante, le parti possono inserire nel contratto individuale di lavoro clausole di un contratto collettivo diverso da quello della categoria di appartenenza allo scopo di applicare al singolo lavoratore un trattamento retributivo più favorevole (Cass., 6 novembre 1995, n.° 11554).
Ambito soggettivo di applicazione
Considerando che nel nostro ordinamento non è stata data attuazione alla norma contenuta nell’art. 39 Cost., e che conseguentemente non possono essere stipulati contratti collettivi con efficacia erga omnes, ne deriva che il contratto collettivo di diritto comune ha forza di legge tra le parti, spiega cioè la sua efficacia esclusivamente nei confronti delle parti collettive che lo hanno stipulato in via diretta e nei confronti dei soggetti individuali che appartengono alle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro stipulanti, in virtù del mandato loro rilasciato dal lavoratore o dal datore di lavoro all’atto dell’iscrizione alle rispettive rappresentanze.
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’efficacia soggettiva del contratto collettivo si estende anche ai rapporti di lavoro tra datori associati all’organizzazione sindacale stipulante e lavoratori non iscritti al sindacato.
Inoltre è emerso l’orientamento secondo cui il contratto collettivo deve esser considerato vincolante anche per tutti quei soggetti che, pur non essendo iscritti alle associazioni stipulanti, abbiano aderito esplicitamente o implicitamente al contratto stesso (Xxxx. S.U., 26 marzo 1997, n.° 2665).
Si ha l’adesione esplicita quando si indica nel contratto individuale o nella lettera di assunzione che si applicherà un determinato contratto collettivo.
Si ha l’adesione implicita invece, quando il datore di lavoro applica costantemente e spontaneamente al rapporto di lavoro un determinato contratto collettivo o alcune delle clausole maggiormente rilevanti dello stesso (Cass., 9 giugno 1993, n.° 6412).
Usi aziendali
Per usi aziendali si intendono quei comportamenti caratterizzati dalla generalità, costanza e durata che possono assumere valore negoziale quali clausole integrative del contratto di lavoro (Cass., 7 agosto 1998, n.° 7774).
Si tratta pertanto, della ripetizione continua di comportamenti da parte del datore di lavoro, all’interno della sua azienda, nei confronti di tutti o di parte dei suoi lavoratori.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale tale comportamento spontaneamente ripetuto nel tempo obbliga il datore di lavoro soltanto nei confronti dei lavoratori già occupati, di quei soggetti cioè, nei confronti dei quali è stato tenuto e non nei confronti della generalità dei dipendenti comprensiva anche dei futuri assunti (Cass., S.U., 30 marzo 1994, n.° 3134).
Configurano usi aziendali, la concessione di gratifiche, di premi o di indennità (Cass., 26 settembre 1998, n.° 9663).
L’uso aziendale, per essere considerato tale, deve rivestire le seguenti caratteristiche:
- il comportamento del datore di lavoro deve essere uniforme, diffuso e spontaneo;
- deve essere provata la sussistenza del convincimento della necessarietà di conservazione di una condotta determinata a tempo indeterminato.
Rapporto tra usi e contratto collettivo
L’uso aziendale può derogare al contratto collettivo solo se introduce un trattamento più favorevole rispetto a quest’ultimo.
La giurisprudenza ha affermato che l’uso aziendale fa sorgere un obbligo di carattere collettivo tale da agire sul piano dei singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
Pertanto, il contratto collettivo aziendale successivo può modificare anche in senso peggiorativo i precedenti già consolidati usi aziendali (Cass., 6 novembre 1996, n.° 9690).
Gli usi aziendali e le prestazioni in natura
La giurisprudenza si è soffermata sul rapporto tra gli usi e le prestazioni in natura che in base al disposto di cui all’art. 2099, comma 3, c.c., possono essere erogate al lavoratore accanto a quelle in danaro.
La corresponsione da parte del datore di lavoro di una prestazione in natura, dovuta quale corrispettivo della prestazione lavorativa, ad una determinata collettività di dipendenti effettuata con continuità configura un uso aziendale (Cass., 11 giugno 1987, n.° 5119).
Rapporto tra usi e contratto collettivo
L’uso aziendale può derogare al contratto collettivo solo se introduce un trattamento più favorevole rispetto a quest’ultimo.
La giurisprudenza ha affermato che l’uso aziendale fa sorgere un obbligo di carattere collettivo tale da agire sul piano dei singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.
Pertanto, il contratto collettivo aziendale successivo può modificare anche in senso peggiorativo i precedenti già consolidati usi aziendali (Cass., 6 novembre 1996, n.° 9690).