Edizione di martedì 18 maggio 2021
Edizione di martedì 18 maggio 2021
Proprietà e diritti reali
Benefici e rischi dei contratti di locazione a uso transitorio e con finalità turistica
di Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Procedimenti di cognizione e ADR
Sul carattere definitivo o meno, ai fini della validità della riserva, della sentenza emessa nel corso del giudizio
di Xxxxx Xxxxx, Avvocato
Esecuzione forzata
Vicende del titolo esecutivo dell’interveniente e diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Responsabilità civile
La Cassazione si pronuncia sulla liquidazione del danno c.d. parentale, esprimendo preferenza per la tabella basata su un sistema a punti
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Comunione – Condominio - Locazione
Si all'autorizzazione paesaggistica in caso di canna fumaria sulla facciata di un immobile sito nel centro storico
di Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Diritto e procedimento di famiglia
Riconosciuto il mantenimento alla moglie che non riesce a trovare un lavoro a tempo pieno
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Diritto e reati societari
Sono responsabili gli amministratori che intraprendono nuove iniziative imprenditoriali dopo lo scioglimento della società
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Dottoressa in legge e Assistente didattico presso l’Università degli
Studi di Bologna
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
La fondatezza dell’azione revocatoria tra calcolo del periodo sospetto e interpretazione dei “termini d’uso”
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Diritto Bancario
Il superamento del limite di finanziabilità nell’operatività di credito fondiario
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Soft Skills
Sostenibilità: facciamo chiarezza
di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx - Senior partner Marketude
Proprietà e diritti reali
Benefici e rischi dei contratti di locazione a uso transitorio e con finalità turistica
di Xxxxxxxxx Xxxxxx, Avvocato
Parole chiave
Locazioni abitative – medium term – natura transitoria – contratti – validità – canone concordato- norme inderogabili – piattaforme di intermediazione – Airbnb – finalità turistica
Sintesi
Il ricorso allo strumento negoziale del contratto di locazione di natura transitoria è in rapida espansione ma foriero di problemi nuovi. Una crescita favorita anche dal recente interesse delle piattaforme di intermediazione immobiliare che hanno deciso di offrire, oltre alle locazioni di breve periodo, anche quelle di medio termine, per meglio rispondere alla crescente domanda di alloggio emersa in connessione con la pandemia da COVID-19. Tuttavia, anche se concluso fruendo dell’intervento degli intermediari on line di impronta anglosassone, questo accordo locativo va comunque inquadrato all’interno del nostro ordinamento: parzialmente sottratto all’autonomia contrattuale delle parti, deve essere sottoposto all’inderogabile disciplina sulle locazioni a uso abitativo ad uso transitorio delineata dal combinato disposto degli articoli 5 e 2 della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 2 del Decreto Ministeriale del 16 gennaio 2017 e degli accordi territoriali conclusi tra le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative. Pena, la nullità della pattuizione difforme rispetto alla disciplina inderogabile e la sostituzione con quella normativamente prevista. Attento a questa tendenza, il Comune di Milano sta invitando le piattaforme a prendere atto di tale disciplina inderogabile e ad adeguarsi.
I contratti stipulati per esigenze di natura transitoria e le piattaforme di intermediazione
L’emergenza sanitaria ha generato nuove categorie di conduttori, quali per esempio i lavoratori in smart working in località tradizionalmente turistiche (il cosiddetto holiday working) oppure personale sanitario o famiglie che si spostano per ragioni di salute. A questo scopo molti proprietari hanno riproposto sul mercato del Real Estate residenziale di medio periodo i loro immobili a uso abitativo precedentemente organizzati per la fruizione con locazioni brevi turistiche, rimasti essenzialmente vuoti in quest’ultimo anno per la decimazione dei turisti. Quasi tutte le piattaforme di intermediazione turistica e immobiliare si sono pertanto ormai adoperate per offrire immobili fruibili anche con queste tipologie di accordi locativi c.d. medium term. Spesso sono anche in grado di incassare i canoni e di offrire servizi aggiuntivi
(come soluzioni assicurative) a tutela del proprietario. Ma tendono a non considerare l’aspetto più rilevante. In Italia non è possibile liberamente disciplinare gli accordi locatizi. In deroga al principio dell’autonomia privata delle parti di cui all’art. 1322 c.c., la L. 431/98 prevede alcune disposizioni inderogabili, da cui le parti contrattuali non possono discostarsi, pena l’automatica sostituzione delle disposizioni pattizie con quelle imperative. Quanto alla durata della locazione, questa disciplina prevede che possano essere validamente conclusi contratti di locazione di durata inferiore ai 18 mesi solo se sussistono comprovate esigenze transitorie e se vengono rispettate condizioni e modalità richiesti dal DM 16 gennaio 2017.
La normativa applicabile
La L. 431/98, quanto alla durata delle locazioni, in sintesi, prevede tre possibilità:
– la regola generale è prevista dalla L. 431/98 all’art. 2 – Modalità di stipula e di rinnovo dei contratti di locazione, il quale al co.1 prevede che le parti “possono stipulare contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni, decorsi i quali i contratti sono rinnovati per un periodo di quattro anni…”
– l’alternativa, se le parti convengono di ridurre tale durata, è valersi dell’articolo 2 co. 3 che prevede il cosiddetto regime del canone concordato prevedendo la stipula di “contratti di locazione, definendo il valore del canone, la durata del contratto, anche in relazione a quanto previsto dall’articolo 5, comma 1, nel rispetto comunque di quanto previsto dal comma 5 del presente articolo, ed altre condizioni contrattuali sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative.…”
– la terza possibilità, ancor più eccezionale, è il contratto di locazione di natura transitoria (che ricomprende la variante per esigenze di studenti universitari). Il decreto del 2017 definisce le condizioni e le modalità per la stipula di contratti di locazione di natura transitoria per soddisfare particolari esigenze di proprietari e conduttori. Ma se l’alloggio locato si trova in un Comune con più di 10.000 abitanti (art.2 co.2), le locazioni di durata inferiore ai diciotto mesi concluse per esigenze transitorie (non turistiche, come di seguito indicato) devono attenersi alle disposizioni previste per i contratti locativi a canone concordato (canoni definiti dalle parti all’interno dei valori minimi massimi stabiliti dagli accordi locali).
Natura transitoria, disciplina inderogabile e portali
La disciplina dei contratti di locazione di natura transitoria è prevista dall’art. 5 della L. 431/98. Condizioni e modalità di stipula sono descritte dal DM richiamato all’art. 2. Sono inderogabili:
la durata, non superiore a 18 mesi (art. 2 co.1 DM);
l‘indicazione delle particolari esigenze transitorie dei proprietari o dei conduttori (art. 2 co.1 DM);
per gli immobili ricadenti in Comuni con un numero di abitanti superiori a 10.000, l’individuazione del canone all’interno di valori minimi e massimi stabiliti per le fasce di oscillazione per aree omogenee definite da accordi territoriali (con possibilità di variazione fino ad un massimo del 20%) (art. 2 co. 2 DM);
gli obblighi di documentazione dell’esigenza di transitorietà per i contratti superiori a 30 giorni (art.2 co.4 DM).
La norma prevede ancora (art. 2 co.6 DM) che: “i contratti di cui al presente articolo sono ricondotti alla durata prevista dall’art. 2, comma 1, della legge n. 431 del 1998 in caso di inadempimento delle modalità di stipula del contratto previste dai commi 1, 2, 4, 5 del presente articolo.” L’inadempimento delle modalità descritte comporta quindi la riconduzione alla durata prevista per i contratti di locazione ordinaria (c.d. 4+4).
Il locatore che si attiene a quanto normativamente previsto, non solo si svincola dalla durata ordinaria prevista dalla legge, ma può ottenere un regime fiscale agevolato (art. 5 DM). Fondamentale quindi l’esigenza di transitorietà. Secondo la giurisprudenza infatti “o ricorrono tali condizioni e si soddisfano le dette modalità, volte a giustificare obbiettivamente la deroga alla disciplina ordinaria oppure […] il contratto locativo non può avere una durata inferiore a quella ordinaria con l’ulteriore conseguenza che, in difetto di prova dei requisiti richiesti, va ricondotto nell’alveo dei contratti di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 2, commi 2 e 3.” (Sent. Sez II Civ. 20 febbraio 2014, n. 4075).
Non è tutto. Il DM prevede ancora la possibilità di farsi assistere dalle rispettive organizzazioni di categoria. In mancanza, sono richieste modalità di attestazione della rispondenza del contenuto economico e normativo del contratto al relativo accordo locale. L’art. 2 co.7 infine, stabilisce che tali contratti debbano essere stipulati “esclusivamente utilizzando il tipo di contratto allegato B” (ripreso poi dai relativi Accordi territoriali). In caso di discostamento dal modello non sono però specificate le conseguenze. Sul punto discute la dottrina civilistica. C’è chi individua nello scostamento una mera irregolarità – non rilevante se in conformità con gli elementi essenziali che giustificano la transitorietà- e chi sostiene l’invalidità dell’accordo transitorio.
Da qui la scelta di Airbnb di pubblicare (solo per la città di Milano, almeno per il momento) il contratto tipo, coordinandolo con le proprie condizioni generali attraverso alcuni rinvii e specificando che “Fermo restando le norme di legge aventi carattere imperativo, in caso di contrasto tra quanto previsto nel presente contratto e i Termini del Servizio, prevarranno questi ultimi”. Il tentativo di adeguamento del noto portale alla normativa inderogabile italiana, malgrado richieda certamente ulteriori interventi, è da considerarsi lodevole, in quanto è parte degli obblighi di correttezza dell’intermediario (indipendentemente dall’effettiva iscrizione nel registro dei mediatori immobiliari) informare adeguatamente le parti e porle nelle condizioni di concludere contratti giuridicamente validi.
I contratti di locazione con finalità turistica
Altra e diversa categoria di contratti potenzialmente di medium term è il contratto con finalità turistica. Una tipologia individuata dall’art. 1 della L.431/98 il quale stabilisce al punto 2 che “Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 7, 8 e 13 della presente legge non si applicano: … c) agli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche.”
Nella disciplina esclusa quindi: Modalità di stipula e di rinnovo (art. 2), norme sulla disdetta del contratto da parte del locatore (art. 3), sulla Convenzione nazionale che individua i criteri generali per la definizione dei canoni concordati (art. 4), sulla condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile (art. 7), sulle agevolazioni fiscali (art. 8), sui patti contrari alla legge (art. 13). Da tenere presente, inoltre, che il Codice del Turismo (D.Lgs 23 maggio 2011, n.79), all’art. 53 prevede che: “Gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, sono regolati dalle disposizioni del codice civile in tema di locazione”. Le locazioni con finalità turistica, pertanto (quali, per esempio, le locazioni stagionali degli alloggi comunemente indicati come “seconde case”) sono soggette ad altra disciplina e restano estranee alla suesposta questione.
Procedimenti di cognizione e ADR
Sul carattere definitivo o meno, ai fini della validità della riserva, della sentenza emessa nel corso del giudizio
di Xxxxx Xxxxx, Avvocato
Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10242 Pres. Di Iasi, Rel. Carrato
Procedimento civile – Sentenza non definitiva – Riserva – Appello – Ammissibilità (C.p.c. artt. 36, 40, 104, 274, 279, 339, 340, 361)
Ai fini dell’individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte tra le stesse parti, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell’ambiguità derivante dall’irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l’appello in concreto proposto mediante riserva.
CASO
I cinque attori, in qualità di eredi, convengono il Comune per sentir pronunciare la risoluzione della donazione con cui il de cuius aveva a suo tempo beneficiato l’Amministrazione di un’area edificabile, con previsione dell’onere di trasferire altrettanto gratuitamente il terreno all’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia per la realizzazione di una costruzione da destinare agli scopi istitutivi dell’ente: il Comune, secondo la prospettazione attorea, aveva infatti effettivamente donato l’area, ma, subentrato all’Opera (soppressa nel 1975) prima di una formale accettazione della donazione, aveva poi concesso a terzi il diritto di superficie per la realizzazione di un parcheggio.
Il Tribunale nel 2007 accoglie la domanda con una “prima” sentenza: decisione che, anche nel prosieguo dello scritto, così chiameremo (e non chiameremo dunque “sentenza non definitiva”) per rendere al lettore più immediata la comprensione della portata innovativa della decisione della Cassazione in commento.
Con la prima sentenza, dunque, il giudice dichiara risolta la donazione e condanna il Comune al rilascio del bene donato nonché al rimborso delle spese di lite; e avverso tale sentenza è
formulata, da parte del convenuto, riserva di impugnazione.
Con separata ordinanza lo stesso giudice dispone la prosecuzione del giudizio per la quantificazione del danno; giudizio che si conclude, tre anni più tardi, con la condanna del convenuto al risarcimento del pregiudizio economico causato dall’illegittima occupazione del bene e al pagamento delle spese processuali per l’attività successiva alla prima decisione.
Il Comune appella con unico atto entrambe le sentenze, vedendosi però dichiarare inammissibile l’impugnazione avverso la prima sentenza in quanto tardiva (e, per quanto qui rileva, vedendosi rigettato l’appello principale avverso la seconda, con incremento anzi del quantum risarcitorio a seguito dell’accoglimento dell’appello incidentale formulato dagli eredi appellati).
In motivazione, la Corte d’appello osserva che non tutte le sentenze emesse nel corso di un giudizio possono dirsi per ciò solo “non definitive”, ai fini dell’applicazione dell’istituto della riserva e dunque della possibilità o meno di posticipare l’impugnazione all’esito della decisione che conclude il giudizio; in particolare, la distinzione transita da un criterio formale per cui in caso di cumulo di domande tra le stesse parti, ove siano state decise solo alcune di esse, deve considerarsi non definitiva solo la sentenza che non abbia adottato un formale provvedimento di separazione ovvero non abbia liquidato le spese di lite in ordine alla domanda o alle domande decise.
La prima sentenza aveva liquidato le spese di lite, tanto è vero che la seconda aveva provveduto soltanto per le attività successive: ciò equivaleva ad un provvedimento di separazione, con conseguente natura definitiva già in capo alla prima decisione e, dunque, passaggio in giudicato della stessa a seguito dell’omessa impugnazione (sulla base dell’irrilevante riserva formulata dal Comune) nei termini ordinari.
La sentenza è oggetto di ricorso per cassazione, assegnato alle Sezioni Unite sulla base della particolare importanza della questione dedotta.
SOLUZIONE
La Corte accoglie il ricorso avallando opportunamente un approccio meno formalistico rispetto a quello adottato dal giudice d’appello, ritenuto foriero di incongruenze nei casi, come in quello di specie, in cui indici non univoci (l’affermazione del giudice del merito, in dispositivo, di “non definitivamente pronunciare”, unita però alla liquidazione delle spese processuali e al contempo all’assenza di un formale provvedimento di separazione delle cause) rendono incerta la ricostruzione della natura – definitiva o meno – attribuita dal giudice alla sentenza interinale.
Se infatti il problema è rappresentato dall’individuazione dei caratteri in presenza dei quali il soccombente, a fronte di una sentenza emessa nel corso del processo, è legittimato a confidare nell’effettivo carattere “non definitivo” della decisione, e dunque nell’idoneità della
riserva a cristallizzare il potere d’impugnazione, la Cassazione scioglie l’ambiguità osservando il valore preminente, anche sul piano costituzionale, del “pieno esercizio del diritto di impugnazione“, e dunque l’ammissibilità dell’appello proposto mediante riserva.
QUESTIONI
A tale soluzione approda la Corte dopo un approfondito excursus sulle varie soluzioni sino ad oggi elaborate in giurisprudenza, e già oggetto di tre distinte pronunce da parte delle Sezioni Unite, nell’applicazione delle norme in materia di impugnazione delle sentenze non definitive.
In particolare un orientamento consolidato, susseguente ad una prima decisione delle Sezioni Unite, n. 1577 del 1° marzo 1990, afferma che, nel caso di cumulo di domande fra gli stessi soggetti, la sentenza che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d’impugnazione differita, qualora non disponga la separazione, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 5) e non provveda sulle spese relative alla domanda o alle domande decise, rinviando all’ulteriore corso del giudizio: e ciò perché il carattere definitivo della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione del procedimento concluso da quello destinato a concludersi con altra sentenza definitiva (fattispecie però diversa da quella qui in commento, in cui il giudice di primo grado aveva sì riferito come “non definitiva” la sentenza e non aveva adottato un provvedimento formale di separazione delle cause, ma, a differenza di quella in esame, neppure aveva liquidato le spese e dunque, davvero l’affermazione circa la non definitività della sentenza poteva apparire un lapsus calami).
Con una seconda pronuncia a Sezioni Unite (8 ottobre 1999, sentt. nn. 711 e 712) la Corte aveva confermato il principio, ribadendo il carattere sostanzialmente non definitivo, ai fini della riserva di impugnazione, della sentenza con cui il giudice si pronunci su una o più domande con prosecuzione del procedimento per le altre, senza disporre la separazione ex art. 279 c.p.c., comma 2, n. 5) e senza provvedere sulle spese in ordine alle domande così decise, rinviandone la relativa liquidazione all’ulteriore corso del giudizio.
Ancora una volta a Sezioni Unite (28 aprile 2011, n. 94419) la Cassazione ha affermato che “l’opzione per il criterio formale di identificazione delle sentenze non definitive risponde ad un criterio di assoluta chiarezza, che fonda l’affidamento della parte nella possibilità che, ricorrendo le condizioni date (omessa separazione delle cause; omessa statuizione sulle spese), si sia effettivamente in presenza – qualunque ne sia il contenuto – di una sentenza non definitiva, suscettibile, in quanto tale, di riserva di impugnazione”.
Con la decisione riportata in epigrafe la Corte conferma l’orientamento riconoscendone la ratio garantistica, che permette un maggiore affidamento rispetto alle tesi “sostanziali e contenutistiche” le quali, non offrendo un criterio certo ed univoco di distinzione, finiscono per esporre il soccombente, “le cui esigenze di tutela assumono nella materia in esame preminente rilievo”, al “rischio di perdere il diritto a impugnare” nel caso in cui la propria ricostruzione sia contraddetta dal giudice dell’impugnazione (così la citata Xxxx., S.U.,
711/1999).
Ciò premesso sul piano astratto, la Cassazione ha osservato che l’errore commesso dalla corte territoriale è consistito nell’attribuire un significato processuale al fatto che la seconda sentenza aveva “tenuto conto, ai fini della liquidazione delle spese, soltanto delle attività effettuate dopo la prima”: criterio, secondo la Corte, “fallace e illogico, perché utilizza elementi esterni e posteriori al provvedimento della cui definitività si controverte, in quanto tali ininfluenti sull’affidamento delle parti circa il regime d’impugnazione applicabile a quel provvedimento”.
In sintesi, le Sezioni Unite confermano dunque l’orientamento che privilegia, ai fini di cui si discute, l’indagine sui requisiti esterni del provvedimento, anche in virtù del c.d. principio di apparenza, e tra essi l’indicazione sulla definitività o meno contenuta nella sentenza stessa, con la sola precisazione, funzionale alla stessa “salvaguardia delle esigenze di certezza e di affidamento”, che il criterio deve essere contemperato con opportuni correttivi nelle ipotesi in cui l’obiettivo contrasto tra gli indici formali comporti, in caso di riserva d’impugnazione e successiva dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione per tardività, una violazione dell’art. 24, comma 2 Cost nella sua “componente essenziale” che permette “di ottenere, mediante l’impugnazione, il riesame della causa da parte di un giudice diverso da quello che ha emanato il provvedimento” e che, come ha ricordato recentemente anche la Corte costituzionale, rappresenta, “anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare”, il “contenuto indefettibile di una tutela giurisdizionale effettiva” (Corte Cost., 9 aprile 2019, n. 75).
Esecuzione forzata
Vicende del titolo esecutivo dell’interveniente e diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2021, n. 4034 – Pres. Vivaldi – Rel. D’Xxxxxx
Espropriazione forzata – Intervento di creditori – Sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo – Ripristino – Effetti
Nel processo di esecuzione forzata, al quale concorrano più creditori, nell’ipotesi in cui il titolo del creditore intervenuto, provvisoriamente sospeso, riacquisti efficacia esecutiva in data anteriore all’approvazione del definitivo progetto di distribuzione, l’effetto preclusivo della partecipazione alla distribuzione delle somme ricavate dalla vendita deve ritenersi limitato alle distribuzioni avvenute medio tempore, dal momento che l’esigenza di rispetto del principio della par condicio creditorum e la necessità di evitare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla posizione del creditore pignorante (per il quale la perdita della provvisoria esecutività del titolo non determina l’inefficacia del pignoramento ma soltanto la sospensione cosiddetta “esterna” del processo esecutivo, in attesa che il titolo sia definitivamente revocato o confermato) impongono di riconoscere la legittimazione dell’interveniente a concorrere alle ulteriori fasi distributive.
CASO
Una creditrice interveniva in una procedura esecutiva immobiliare in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva del Tribunale di Roma e si rendeva, altresì, cessionaria del credito vantato dal procedente nei confronti dell’esecutato, nonché di un ulteriore credito avente titolo nella medesima sentenza in forza della quale aveva svolto l’intervento, venendo, così, a cumulare tre distinte ragioni creditorie.
Poiché, nel frattempo, l’efficacia esecutiva della sentenza del Tribunale di Roma era stata sospesa, l’intervenuta, in occasione dell’udienza fissata per l’approvazione del progetto di distribuzione, formulava richiesta di accantonamento delle somme a lei spettanti, ma il giudice la respingeva.
Fissata una nuova udienza per l’approvazione di un secondo progetto di riparto, la medesima creditrice chiedeva l’assegnazione delle somme spettantile sia in virtù della sentenza del Tribunale di Roma (che aveva, frattanto, riacquistato efficacia esecutiva), sia quale cessionaria del credito del procedente, che non era stato soddisfatto in precedenza perché la sentenza azionata era di condanna generica e non valeva, quindi, come titolo esecutivo; motivo per cui,
con riguardo allo stesso identico credito, il procedente si era procurato, nelle more, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, svolgendo intervento e cedendo pure esso alla creditrice che aveva acquistato in precedenza quello che trovava titolo nella sentenza di condanna generica.
Poiché il giudice dell’esecuzione, nondimeno, escludeva dal riparto tutti i crediti dell’istante, quest’ultima proponeva opposizione ai sensi degli artt. 512 e 617 c.p.c., che veniva respinta con sentenza impugnata con ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il creditore che interviene in forza di un titolo la cui provvisoria esecutività è stata sospesa non può partecipare ai riparti disposti nel periodo in cui la sospensione esplica i propri effetti, ma ha diritto di concorrere alle ulteriori fasi distributive che intervengano in un momento successivo a quello in cui il titolo ha recuperato la sua piena vigenza.
QUESTIONI
Nell’articolata vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione era accaduto che:
il creditore procedente aveva promosso l’espropriazione forzata immobiliare in virtù di una sentenza di condanna generica, che non era stata reputata titolo esecutivo idoneo a consentire la partecipazione a un primo riparto della somma ricavata dalla vendita del bene pignorato;
per tale ragione, in relazione allo stesso credito, il creditore procedente si era munito, nelle more del processo esecutivo, di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e aveva svolto intervento;
un’altra creditrice dell’esecutato era, in precedenza, intervenuta in forza di una sentenza del Tribunale di Roma (la cui efficacia esecutiva risultava sospesa allorché venne effettuato il primo riparto, ma aveva ripreso pieno vigore prima che si addivenisse a una seconda distribuzione) e si era resa, altresì, cessionaria, oltre che del credito del proprio procuratore distrattario avente titolo nella medesima pronuncia del Tribunale di Roma, di quello vantato dal procedente in forza tanto della sentenza di condanna generica originariamente azionata, quanto del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo in virtù del quale era stato svolto apposito intervento.
Con riferimento ai crediti aventi titolo nella sentenza del Tribunale di Roma che aveva dapprima perso e poi riacquistato efficacia esecutiva, la sospensione temporanea di quest’ultima, secondo la ricorrente, non aveva fatto venire meno la legittimità dell’intervento, da valutarsi al momento in cui era stato compiuto, sicché tale circostanza non poteva escludere il suo diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato dalla vendita, visto che, quando si era tenuta l’udienza per l’approvazione del progetto di riparto, la sentenza aveva riacquistato la propria esecutività.
La censura è stata reputata fondata, avendo errato il giudice dell’esecuzione nel ritenere che la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo dell’interveniente – che non ha effetti paralizzanti dell’intero processo esecutivo ai sensi dell’art. 623 c.p.c. – ne determina la definitiva uscita di scena, senza possibilità di rientrarvi in virtù del fatto che, nelle more, il titolo aveva riacquistato l’efficacia esecutiva di cui era stato momentaneamente privato.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’intervento del creditore, quando la provvisoria esecutività del titolo sia stata sospesa, non perde ogni effetto nell’ambito dell’espropriazione forzata, ma comporta soltanto una sorta di quiescenza e l’impossibilità di partecipare alle distribuzioni che dovessero avvenire nel periodo in cui vige tale sospensione; se, tuttavia, prima della conclusione del processo esecutivo, il titolo recupera la sua efficacia esecutiva (com’era avvenuto nella fattispecie oggetto della sentenza che si annota), anche l’atto di intervento riprende l’originario vigore, legittimando il creditore a partecipare alle ulteriori fasi distributive.
Un tanto in ossequio al principio della par condicio creditorum, evitandosi un’irragionevole disparità di trattamento dell’intervenuto rispetto al creditore pignorante, per il quale la perdita della provvisoria esecutività del titolo non determina l’inefficacia del pignoramento, ma la sospensione del processo esecutivo ai sensi dell’art. 623 c.p.c. (in attesa che il titolo sia definitivamente revocato oppure confermato), sempre che, nel frattempo, non sia intervenuto altro creditore titolato che possa coltivare l’esecuzione.
Si ricorderà, in proposito che, secondo il fondamentale arresto di Xxxx. civ., sez. un., 7 gennaio 2014, n. 61, nel processo esecutivo cui partecipano più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non ostacolano la prosecuzione dell’esecuzione su impulso del creditore intervenuto, il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva.
Con riferimento, invece, ai crediti dell’originario pignorante portati da una sentenza di condanna generica e da un successivo decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (entrambi ceduti alla creditrice intervenuta e ricorrente per cassazione), il giudice dell’esecuzione aveva escluso il diritto di partecipare al riparto perché, da un lato, la sentenza non costituiva titolo esecutivo e, dall’altro lato, l’intervento svolto avvalendosi del provvedimento monitorio risultava tardivo e, quindi, inefficace.
Le censure mosse avverso tale statuizione facevano leva sul fatto che, nonostante i provvedimenti giudiziali fossero formalmente diversi, si trattava pur sempre del medesimo credito, sicché l’intervento non poteva considerarsi nuovo (dovendosi parlare, di fatto, di mera sostituzione formale di un titolo a un altro) e, dunque, tardivo.
I giudici di legittimità hanno, tuttavia, osservato che quando il titolo esecutivo si riferisce a un credito privo dei requisiti della liquidità e dell’esigibilità, la nullità del precetto si propaga al pignoramento e determina l’estinzione del processo esecutivo, salvo che, nel frattempo, sia intervenuto un altro creditore titolato che possa utilmente coltivare l’esecuzione; in tale caso,
l’originario creditore pignorante che si sia munito di un nuovo titolo può intervenire nel processo esecutivo, ma nella situazione in cui questo si trova, senza potere ancorare (ovvero fare retroagire) gli effetti dell’intervento al pignoramento nullo perché compiuto in difetto di titolo esecutivo.
Pertanto, qualora, nel frattempo, si sia tenuta la prima udienza per l’autorizzazione della vendita prevista dall’art. 569 c.p.c., l’interveniente, giusta quanto stabilito dall’art. 564 c.p.c., non potrà partecipare all’espropriazione, senza che possa acquistare rilievo il fatto che l’intervento sia stato eseguito per il medesimo credito per il quale era stato effettuato il pignoramento nullo.
Secondo i giudici di legittimità, quindi, il giudice dell’esecuzione aveva correttamente escluso il credito in questione dal riparto.
Dalla lettura della sentenza, tuttavia, parrebbe evincersi che l’intervento svolto in virtù del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo fosse avvenuto prima che si celebrasse l’udienza fissata per l’approvazione del secondo progetto di distribuzione.
Se così fosse, poiché l’interventore tardivo, pur non potendo partecipare all’espropriazione, è nondimeno legittimato, ai sensi dell’art. 565 c.p.c., a prendere parte alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita (sia pure limitatamente alla parte di essa che residua dopo che sono stati soddisfatti i diritti del creditore pignorante, di quelli intervenuti tempestivamente e dei creditori prelazionari che abbiano svolto intervento, anche tardivo, prima dell’udienza di cui all’art. 596 c.p.c.), non sarebbe affatto vero che, nel caso esaminato, l’intervento andasse sanzionato con l’inefficacia; ciò anche volendo tenere conto dell’orientamento secondo cui l’inderogabilità del termine stabilito dall’art. 565 c.p.c. vale pure quando, dopo l’approvazione del progetto di distribuzione, siano state acquisite alla procedura nuove somme e il giudice fissi una nuova udienza per modificarlo (si veda, in proposito, Cass. civ., sez. III, 31 marzo 2015,
n. 6432), visto che tale principio si attaglia al caso in cui debbano essere apportate modifiche al progetto approvato, ma non a quello in cui si debba addivenire alla discussione e all’approvazione di uno nuovo, distinto dal precedente.
Piuttosto, nella fattispecie esaminata, assumeva rilievo un altro aspetto, se si vuole assorbente rispetto a tutti gli altri, che, tuttavia, non risulta essere stato affrontato: se, come sembra, il pignoramento era stato eseguito in forza di una sentenza di condanna generica (come tale, inidonea a sorreggere l’espropriazione forzata), esso era da considerarsi radicalmente nullo, come pure rilevato nella pronuncia annotata (dalla quale, peraltro, non si comprende se quello fosse l’unico titolo su cui si reggeva il processo esecutivo, dal momento che, pur accennandosi alla presenza di un altro creditore unitamente al quale era stato eseguito il pignoramento, non vengono fornite ulteriori precisazioni circa la sua legittimazione).
Pertanto, poiché, come affermato dal già richiamato arresto delle Sezioni Unite in merito alla possibilità che il processo esecutivo prosegua su impulso di un creditore intervenuto, occorre distinguere a seconda che il difetto del titolo del procedente posto a fondamento dell’azione
esecutiva sia originario o sopravvenuto (posto che solo nel secondo caso e non anche nel primo si verifica, in favore degli intervenuti, l’estensione degli effetti di tutti gli atti compiuti finché il titolo originario ha conservato validità), l’assenza di efficacia esecutiva della sentenza (di condanna generica) in forza della quale era stato eseguito il pignoramento gettava ombre non tanto e non solo sul diritto del creditore procedente (e, per lui, del cessionario) di partecipare alla distribuzione, ma sulla legittimità stessa dell’azione esecutiva, anche avuto riguardo alla posizione assunta dagli altri creditori per effetto degli interventi via via susseguitisi.
Responsabilità civile
La Cassazione si pronuncia sulla liquidazione del danno c.d. parentale, esprimendo preferenza per la tabella basata su un sistema a punti
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Cass. civ. Sez. Terza Sent., 21/04/2021, n. 10579, Pres. Travaglino, Est. Scoditti
Danno parentale– Criteri di quantificazione del danno da liquidare – Tabelle di Milano – Tabelle di Roma
[1] Al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.
Disposizioni applicate
Art. 1226 c.c., art. 2056 c.c.
CASO
Sulla base di un giudicato penale di responsabilità per omicidio colposo, la moglie e il fratello della persona deceduta a causa di un sinistro stradale hanno agito contro la compagnia assicurativa per ottenere il risarcimento del danno.
Il Tribunale di primo grado ha accolto la domanda, riconoscendo in favore degli attori il danno da perdita del rapporto parentale calcolato sulla base delle tabelle del Tribunale di Roma e il danno biologico iure hereditatis.
A seguito dell’impugnazione della sentenza da parte dell’assicurazione, la Corte d’Appello ha avuto modo di affermare la necessità di utilizzare le tabelle di Milano per la loro vocazione nazionale, così liquidando nel caso di specie un danno di ammontare inferiore rispetto a
quanto liquidato invece dal Tribunale.
Avverso detta sentenza la moglie e il fratello della vittima del sinistro hanno proposto ricorso in Cassazione.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, non riconoscendo uniformità di applicazione dei criteri di cui alle tabelle milanesi, afferma che il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi.
QUESTIONI
La pronuncia di legittimità in commento interviene in particolare per individuare il criterio applicabile alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale.
Mentre il giudice di primo grado ha applicato i criteri di cui alle tabelle di Roma, la Corte d’appello ha riconosciuto la prevalenza delle tabelle di Milano su tutto il territorio nazionale.
La Corte si sofferma quindi in particolare sul danno cd. parentale, al fine di verificare se le tabelle del Tribunale di Roma possano essere considerate recessive rispetto a quelle meneghine, con l’effetto che il parametro, ai fini della conformità della liquidazione, debba invece essere fornito dalle tabelle milanesi.
Il danno cd. parentale si estrinseca nella sofferenza causata dalla perdita di un congiunto; consiste, di per sé, nella perdita della relazione col familiare e si sostanzia – al tempo stesso e congiuntamente – nella sofferenza interiore e nell’alterazione del precedente assetto esistenziale del congiunto superstite.
La giurisprudenza ha riconosciuto negli anni un ruolo fondamentale e di riferimento per il giudice di merito delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia eventualmente pervenuti.
L’utilizzo da parte del giudice delle tabelle redatte dall’ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale in generale trova fondamento nel potere del giudice di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c.c. (cfr. Cass. Civ. 4582/1999).
L’esigenza che è sorta quindi è quella di uniformare il trattamento dei giudizi aventi ad oggetto la domanda risarcitoria.
Come ha avuto modo di affermare la Cassazione, con la sentenza n. 12408/2011, tale necessità
si manifesta maggiormente in assenza di criteri stabiliti dalla legge: in tal caso la regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità del giudizio a fronte di casi analoghi. Sempre questa pronuncia ha a suo tempo riconosciuto che il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano garantisce tale uniformità di trattamento, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale.
In tale contesto negli anni la giurisprudenza è giunta altresì ad affermare che la mancata o erronea applicazione delle tabelle di Milano comporta una violazione dell’art. 1226 c.c. (Cass. Civ. 27562/2017), arrivando quindi ad acquisire, tali tabelle, una sorta di efficacia para- normativa (Cass. Civ. 8532/2020).
Con specifico riferimento al danno parentale, tuttavia, con la sentenza in commento la Cassazione si discosta dall’orientamento di legittimità sopra richiamato e, pur riconoscendo un ruolo importante alle tabelle milanesi, ne critica la capacità di garantire uniformità nel momento in cui si debba liquidare il danno parentale. La Corte infatti esprime la preferenza a una tabella per la liquidazione del danno parentale basata sul sistema a punti (quale quella romana), con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione. Tale sistema consente di garantire maggiore uniformità e prevedibilità della liquidazione, a differenza del sistema milanese in cui è previsto un limite minimo e un limite massimo tra loro peraltro molto lontani.
Aggiunge inoltre la Cassazione che la tabella con sistema a punti dovrebbe contenere: 1) l’adozione del criterio “a punto variabile”, 2) l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, 3) la modularità e 4) l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza).
Pur quindi non disconoscendo la funzione “nazionale” delle tabelle milanesi, con questa pronuncia la giurisprudenza di legittimità individua uno strumento diverso per la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale (i.e. sistema a punti), proprio perché lo schema di cui alla tabella di Milano non può ritenersi garante di una uniformità applicativa.
Tale pronuncia si pone all’interno di una progressiva evoluzione della giurisprudenza che mira ad un livello massimo di certezza, uniformità e prevedibilità della liquidazione del danno, in assenza di un parametro legislativo in merito.
Comunione – Condominio - Locazione
Si all'autorizzazione paesaggistica in caso di canna fumaria sulla facciata di un immobile sito nel centro storico
di Xxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
T.A.R. Umbria, I sezione, sentenza 8 febbraio 2021, n. 38
Proprietà e condominio – immobile di interesse storico e paesaggistico – installazione canna fumaria su facciata – procedura autorizzatoria semplificata – tassatività delle fattispecie – esclusione – autorizzazione paesaggistica ordinaria – necessaria.
Riferimenti normativi: D.P.R. n. 31/2017 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata) –
D. Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) – Legge n. 241/1990
“… Il posizionamento di una canna fumaria lungo la parete esterna di un fabbricato a destinazione abitativa posto in un centro storico sottoposto a tutela, quale è quello del Comune di Perugia, non può considerarsi intervento rientrante in alcuna delle categorie di cui all’allegato B del D.P.R. n. 31/2017 menzionate dall’Amministrazione comunale e dal controinteressato negli atti del procedimento e nelle memorie depositate in giudizio”
“Deve infatti considerarsi che le previsioni del D.P.R. n. 31/2017, che individuano taluni interventi in aree sottoposte a vincolo i quali, per il limitato impatto sul bene tutelato, non richiedono il rilascio di autorizzazione paesaggistica o consentono un’autorizzazione semplificata, hanno natura regolamentare. Esse, pertanto, devono essere interpretate conformemente alle disposizioni del d.lgs.
n. 42/2004 e con esclusione di qualsiasi possibilità di estensione analogica che possa ampliarne il campo di operatività”
CASO
La sentenza in commento affronta alcuni aspetti amministrativi in merito all’installazione, da parte di un privato proprietario, della canna fumaria in un edificio sito in centro storico[1].
La vicenda è la seguente: il proprietario di un immobile situato al piano terra e destinato ad esercizio commerciale di ristorazione (precisamente a pizzeria) – controinteressato nel giudizio dinanzi al Giudice amministrativo – installava una canna fumaria in rame lungo la facciata interna dell’edificio, sino al tetto.
Il ricorrente, proprietario di un appartamento ubicato al piano superiore del medesimo edificio,
veniva a sapere – mediante un accesso agli atti – che l’installazione della canna fumaria era avvenuta in forza di autorizzazione paesaggistica rilasciata dal dirigente del Comune territorialmente competente, area governo e sviluppo del territorio.
Per il vero, detta autorizzazione era stata anticipata a) dal parere favorevole all’intervento della Commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio, la quale aveva istruito la pratica secondo la procedura semplificata di cui al D.P.R. n. 31/2017 e b) dalla successiva trasmissione alla Soprintendenza archeologica belle arti e paesaggio della regione Umbria, al fine del rilascio del parere di competenza ai sensi dell’art. 146, co. 5, D. Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)[2].
Occorre rilevare che, in prima battuta, la Soprintendenza aveva emesso preavviso di parere sfavorevole all’intervento ai sensi della procedura semplificata, sul presupposto della non riconducibilità del medesimo all’ipotesi di cui al punto 4 dell’allegato B del D.P.R. n. 31/2017, in quanto riferibile, quest’ultimo, ai soli interventi sulle coperture; il preavviso di parere si concludeva quindi con l’invito ad adottare sistemi di aspirazione interni “tali da “evitare la collocazione di condotte in corrispondenza dei prospetti di fabbricati ricadenti all’interno del centro storico”, anche a tutela “dell’impatto negativo che l’installazione avrebbe determinato sul prospetto interessato …”[3]
Tuttavia, il titolare del locale produceva, a propria difesa, le osservazioni avverso il preavviso di parere sfavorevole, sulle quali – vertendosi in ambito di procedura semplificata – si formava il silenzio-assenso ai sensi degli articoli 11, comma 9, D.P.R. n. 31/2017 e 17-bis Legge n. 241/1990; sicché il Comune, condividendo a sua volta le ragioni del proprietario, rilasciava l’autorizzazione paesaggistica[4].
Il proprietario dell’appartamento sito al piano superiore adiva quindi il T.A.R. umbro e impugnava l’autorizzazione paesaggistica, il parere favorevole della Commissione e il preavviso di parere negativo della Soprintendenza, facendo proprie le obiezioni già prospettate dalla Soprintendenza, vale a dire la circostanza che l’intervento in questione non rientrasse tra quelli per i quali è prevista la procedura semplificata di autorizzazione paesaggistica, oltre al rilievo dell’impatto negativo della canna fumaria sulla facciata e al difetto di istruttoria.
Resistevano in giudizio il Comune – che, peraltro, produceva il parere (positivo) postumo della Soprintendenza – e il proprietario controinteressato; avverso quest’ultimo atto, il ricorrente proponeva impugnazione con motivi aggiunti.
SOLUZIONE
Il T.A.R. Umbria accoglieva il ricorso avverso l’autorizzazione paesaggistica rilasciata al proprietario titolare del locale, statuendo che “Il posizionamento di una canna fumaria lungo la parete esterna di un fabbricato a destinazione abitativa posto in un centro storico sottoposto a tutela, quale è quello del Comune di Perugia, non può considerarsi intervento rientrante in alcuna
delle categorie di cui all’allegato X xxx X.X.X. x. 00/0000”: per l’effetto, alla fattispecie non poteva applicarsi la procedura autorizzatoria semplificata ma occorreva fare ricorso alla vera e propria autorizzazione paesaggistica ex D. Lgs. n. 42/2004.
Viceversa, il Giudice Amministrativo dichiarava inammissibili a) l’impugnazione del preavviso di parere negativo, in quanto atto endo-procedimentale privo di immediata lesività e, quindi, non autonomamente impugnabile[5] e b) il parere positivo postumo, in quanto successivo all’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica e, quindi, ininfluente rispetto alle valutazioni poste alla base del contemperamento di interessi pubblici e privati[6].
QUESTIONI GIURIDICHE
La sentenza in commento offre l’occasione per mettere a fuoco le differenze tra l’autorizzazione paesaggistica ordinaria ai sensi dell’art. 146 D. Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e la procedura autorizzatoria semplificata, di cui all’art. 11
D.P.R. n. 31/2017.
Si è visto che, nel caso di specie, il T.A.R. umbro ha ritenuto – decisione peraltro condivisibile – che l’installazione di una canna fumaria sulla facciata (interna) di un immobile del centro storico comportasse un impatto tale da richiedere l’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, connotata da una procedura articolata posta a garanzia della tutela del patrimonio pubblico[7].
La complessità della procedura ordinaria di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica si evince anche dal fatto che non può (più) essere consentito il rilascio autonomo dell’autorizzazione paesaggistica ma essa dev’essere necessariamente acquisita nell’ambito dell’apposita conferenza di servizi, dovendo essere accertato che tutte le amministrazioni interessate (a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) esaminino contestualmente l’istanza[8]
In via generale, l’atto amministrativo di diniego di autorizzazione paesaggistica – ordinaria o semplificata che sia – deve essere adeguatamente motivato (art. 146, co. 8, D.Lgs. 42/2004 e art. 11, co. 7, D.P.R. n. 31/2017)[9] e costituisce un atto presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento edilizio (art. 146, co. 3, D. Lgs. n. 42/2004), in applicazione del principio in base al quale la tutela del paesaggio, avente valore costituzionale e funzione di preminente interesse pubblico, è nettamente distinta da quella dell’urbanistica, rispondente ad esigenze diverse[10].
Al contrario, un aspetto significativo che marca la differenza tra le due procedure è, come già accennato, quella della formazione per silentium dell’assenso della Soprintendenza: invero, solo nella procedura autorizzatoria semplificata si applica l’assenso “endoprocedimentale” di cui all’art. 17-bis Legge n. 241/1990, stante il richiamo operato dall’art. 11, comma 9, D.P.R. n. 31/2017: “L’istituto del silenzio assenso “endoprocedimentale” di cui all’art. 17-bis, L. n. 241/1990, introdotto dalla riforma Madia, non si applica al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, di cui all’art. 146, D.Lgs. n. 42/2004 e, segnatamente, al parere obbligatorio e vincolante di competenza della Soprintendenza. Nonostante la natura pluristrutturata della procedura, l’atto conclusivo del procedimento (l’autorizzazione paesaggistica, o il diniego di essa) rimane un provvedimento monostrutturato, riferibile all’autorità che lo emana”[11].
Svolte queste premesse, il Giudice Amministrativo è pervenuto alla conclusione dell’inapplicabilità alla fattispecie della procedura autorizzatoria semplificata declinando, in modo consequenziale, le seguenti argomentazioni di diritto: a) la mancata inclusione dell’intervento de quo – segnatamente, installazione di canna fumaria su facciata di edificio in zona soggetta a vincolo paesaggistico – dall’elenco degli interventi di lieve entità di cui all’Allegato B del D.P.R. n. 31/2017 e b) la natura regolamentare di tali previsioni, non suscettibile di interpretazione estensiva (il D.P.R. n. 31/2017 è infatti un Regolamento).
a) Sotto il primo profilo, il T.A.R. Umbria sancisce che “… Il posizionamento di una canna fumaria lungo la parete esterna di un fabbricato a destinazione abitativa posto in un centro storico sottoposto a tutela, quale è quello del Comune di Perugia, non può considerarsi intervento rientrante in alcuna delle categorie di cui all’allegato X xxx X.X.X. x. 00/0000”.
In effetti, la disamina dell’elenco di ben quarantadue interventi di c.d. “lieve entità” sottoposti a procedura semplificata (o addirittura esclusi dall’autorizzazione paesaggistica), di cui all’Allegato B del D.P.R. n. 31/2017, giusta il richiamo di cui all’art. 3 del medesimo decreto, non contempla l’installazione di canne fumarie su facciate di immobili d’interesse storico- paesaggistico.
Sul punto, vale la pena di precisare che la modalità di ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica – ordinaria o semplificata – non incide in alcun modo sulle conseguenze giuridiche, anche penali, dell’intervento realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica. Sicché, “In tema di reati paesaggistici, il recente intervento normativo costituito dal d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), all’art. 3 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere soggette ad autorizzazione paesaggistica semplificata all’Allegato “B”, ciò che comporta che detti interventi necessitano pur sempre di autorizzazione paesaggistica, seppure in forma semplificata; ne consegue, dunque, che nessuna incidenza sul piano penale discende dalla circostanza che i predetti interventi siano soggetti attualmente ad una procedura semplificata, configurandosi in ogni caso in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, pur se conseguente a procedura semplificata, il reato di cui all’art. 181, D.Lgs. n. 42/2004”[12].
b) Quanto alla natura regolamentare degli interventi compresi nell’Allegato B del D.P.R. n. 31/2017, il T.A.R. sancisce il seguente principio: “… le previsioni del D.P.R. n. 31/2017, che individuano taluni interventi in aree sottoposte a vincolo i quali, per il limitato impatto sul bene tutelato, non richiedono il rilascio di autorizzazione paesaggistica o consentono un’autorizzazione semplificata, hanno natura regolamentare. Esse, pertanto, devono essere interpretate conformemente alle disposizioni del d.lgs. n. 42/2004 e con esclusione di qualsiasi possibilità di
estensione analogica che possa ampliarne il campo di operatività”.
In altre parole, la lettura dell’elencazione di cui all’Allegato B dev’essere combinata – in forza dell’art. 3 del Regolamento – con le disposizioni del D. Lgs. n. 42/2004, atteso che le fattispecie elencate rappresentano specifiche deroghe al principio generale di cui all’art. 146 D. Lgs. n. 42/2004, che impone l’autorizzazione paesaggistica c.d. ordinaria in caso di interventi su beni soggetti a vincolo paesaggistico[13].
Da ciò discende il divieto di estensione analogica delle singole ipotesi tipiche, da considerarsi
numerus clausus di stretta interpretazione letterale[14].
[1] Com’è noto, il tema dell’installazione di canne fumarie ha rilevanza anche sotto il profilo civilistico: nel caso del condominio, è stato affermato che “… è ius receptum nella costante giurisprudenza e in dottrina che l’installazione di una canna fumaria in aderenza, appoggio o incastro nel muro perimetrale di un edificio, da parte di un condomino, sia attività lecita rientrante nell’uso della cosa comune … e che, come tale, non richiede né interpello, né consenso degli altri condòmini. La facoltà incontra soltanto i limiti costituiti dai diritti esclusivi altrui (ad esempio distanze dalle vedute, immissioni, ecc.) e dal divieto di alterare il decoro architettonico dell’edificio
…”; peraltro, “… La giurisprudenza ha più volte affermato che una canna fumaria, anche se ricavata nel vuoto di un muro perimetrale in condominio, non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere ad uno solo dei condòmini, se sia destinata a servire esclusivamente l’appartamento cui afferisce” (XXXXXXX G., “Il condominio”, Milano, 1998, pag. 82-83 e pag. 132). Nei rapporti di vicinato, invece, si applicano alle canne fumarie le norme in materia di distanze dal confine (art. 889 c.c.): CENTOFANTI N.-XXXXXXXX C., “Le distanze legali”, Milano, 2019, pag. 85.
[2] Art. 146, co. 5, D. Lgs. n. 42/2004: “Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all’articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del soprintendente, all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”.
[3] In effetti, il punto 4 dell’allegato B al D.P.R. n. 31/2017, recante “Elenco interventi di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato”, richiama espressamente – tra gli altri – l’”inserimento di canne fumarie o comignoli”, nell’ambito però di “interventi sulle coperture”.
[4] Art. 11, co. 9, D.P.R. n. 31/2017: “In caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi
dell’articolo 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241” e “l’amministrazione procedente provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”.
[5] Ex multis: T.A.R. Campania Napoli Sez. VIII, 05/02/2021, n. 791; T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. II, 30/09/2020, n. 1494; T.A.R. Lazio Roma Sez. II, 03/09/2020, n. 9322.
[6] Per il vero, la censura in parola non pare pertinente rispetto al caso poiché, nell’ambito della procedura autorizzatoria semplificata ex D.P.R. n. 31/2017, l’assenso si forma anche per silentium (art. 11, co. 9, D.P.R. n. 31/2017), a prescindere dal parere postumo; al contrario, nella procedura di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.Lgs. n. 42/2004, “Scaduto il termine previsto dalla norma, il parere reso dalla Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzativa ex art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004 è da considerarsi privo dell’efficacia attribuitagli dalla legge e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante, … tuttavia la decorrenza del termine non ne impedisce comunque tout court l’espressione, affermando che un siffatto parere possa comunque essere reso nei confronti dell’amministrazione procedente la quale dovrà quindi valutarlo in modo adeguato” (T.A.R. Campania Napoli Sez. III, 14/01/2021, n. 275).
[7] “Gli interventi che determinino modificazioni o pregiudizi all’aspetto esteriore di un’area vincolata, attuati attraverso qualsiasi tipo di opera visivamente percepibile come ingombro alla visuale o come innovazione non diluibile nell’insieme paesistico, è assoggettato al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 in mancanza della quale l’amministrazione è tenuta a ordinare al trasgressore la rimessione in pristino”: T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, 19/02/2021, n. 478.
[8] T.A.R. Basilicata Potenza Sez. I, 11/09/2020, n. 547.
[9] “Il provvedimento di xxxxxxx di autorizzazione paesaggistica, perché possa considerarsi legittimo sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione, nel rispetto del principio scolpito nell’art. 3 L. n. 241/1990, che costituisce il precipitato normativo di fonte legislativa al principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost., deve contenere una puntuale manifestazione delle ragioni tecnico-giuridiche che costituiscono il complesso impeditivo alla realizzazione dell’opera con riferimento alla quale l’autorizzazione è richiesta, dovendo la motivazione doverosamente corrispondere ad un modello che contempli la descrizione dell’edificio e del progetto, del contesto paesaggistico in cui esso si colloca e del rapporto tra edificio e contesto, teso a stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio”: T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, 03/11/2020, n. 1188.
[10] Così T.A.R. Veneto Venezia Sez. II, 24/09/2020, n. 854; in senso analogo, si legge in T.A.R. Sardegna Cagliari Sez. I, 16/11/2020, n. 630 che “L’autorizzazione paesaggistica di cui alla normativa dell’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42/2004, costituisce un atto presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento edilizio, ivi compresi quelli in sanatoria, avendo la stessa la funzione di verificare la compatibilità dell’opera edilizia che si intende realizzare con l’esigenza di conservazione dei valori paesistici protetti dal vincolo, dovendo l’autorità preposta operare un giudizio in concreto circa il rispetto da parte dell’intervento progettato delle esigenze connesse alla tutela del paesaggio stesso”.
[11] Cons. Stato Sez. IV, 27/07/2020, n. 4765. [12] Cass. pen. Sez. III, 09/05/2017, n. 30195.
[13] Art. 3 D.P.R. n. 31/2017, recante Interventi ed opere di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato: “1. Sono soggetti al procedimento autorizzatorio semplificato di cui al Capo II gli interventi ed opere di lieve entità elencati nell’Allegato B”.
[14] Il principio non è certo nuovo: si pensi all’esclusione del “diritto reale di uso esclusivo di cosa comune”, sancito da Cass., S.U., 17/12/2020, n. 28972 sul presupposto della tipicità dei diritti reali; così come a Corte dei Conti Umbria, sez. contr. Delib., 12/04/2021, n. 26, in cui si legge che “Mediante il fondo di cui all’art. 113, comma 2, D.Lgs. n. 50/2016, sono liquidabili incentivi per le sole funzioni tecniche espletate dai dipendenti pubblici che rientrino nell’elenco della norma sopra richiamata e sempre che sussistano le altre condizioni previste dalla stessa – trattandosi di disciplina derogatoria rispetto al principio di omnicomprensività della retribuzione e, quindi, da considerarsi di stretta interpretazione non suscettibile di interpretazione analogica – tra le quali l’espletamento di una pubblica gara …”.
Diritto e procedimento di famiglia
Riconosciuto il mantenimento alla moglie che non riesce a trovare un lavoro a tempo pieno
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cassazione civile sez. VI, ordinanza del 10/05/2021, n. 12329
Assegno di mantenimento separazione – capacità lavorativa in concreto del coniuge (Art. 156 c.c.)
La prova dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno grava sul coniuge che chiede il mantenimento. A fronte dell’accertamento positivo dei presupposti, compresa la mancanza di colpa del coniuge istante nel non riuscire a reperire un’occupazione adeguata, operata dal giudice di merito sulla base delle allegazioni e dei riscontri probatori offerti, ricade sulla parte che intende contestare tale ricostruzione, indicare nel ricorso per cassazione gli elementi di segno contrario allegati in sede di merito, e non valutati dal giudice dell’appello.
Caso
Nel giudizio di separazione personale dei coniugi, il Tribunale di Rovereto respingeva la domanda di addebito nei confronti della moglie, disponeva che ciascuno dei coniugi versasse direttamente ai due figli maggiorenni la somma di 250 euro mensili, e negava il riconoscimento dell’assegno di mantenimento per il coniuge. La donna ricorreva in appello, dove la Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, le attribuiva un assegno mensile di 200 euro.
Secondo il marito la donna non avrebbe avuto diritto al contributo per il mantenimento poiché avrebbe potuto trasformare il rapporto di lavoro part-time in corso, in un rapporto full-time. Inoltre, la moglie avrebbe trascurato altre occasioni di lavoro.
Ebbene, secondo la Corte la dimostrazione di tali circostanze, sarebbe spettata al marito, trattandosi di circostanze impeditive o limitative al sorgere del diritto all’assegno di mantenimento.
L’uomo ricorre in Cassazione sostenendo la violazione dell’art. 156 c.c. e delle regole sull’onere probatorio.
Soluzione e percorso argomentativo seguito dalla Cassazione
Secondo il ricorrente il giudice di appello avrebbe compiuto un’illegittima inversione dell’onere della prova, ponendo a suo carico la dimostrazione dell’impossibilità per la moglie, di trasformare il rapporto di lavoro in corso, da rapporto a tempo determinato a rapporto a tempo indeterminato, e di avere trascurato più favorevoli occasioni di lavoro.
La legge prevede, infatti, che la prova della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di separazione incombe sul coniuge che lo richiede.
La Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile e del tutto generico, poiché non è evidenziato alcun elemento di prova di segno contrario – non valutato in appello – circa un’ipotetica colpa della donna nel non essere riuscita ad ottenere una modifica del rapporto di lavoro, o nell’avere rifiutato proposte di lavoro più favorevoli.
In primis la Corte ha ribadito che l’assegno nella separazione ha una diversa valenza rispetto a quello divorzile. Secondo la giurisprudenza i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento in favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
A differenza del divorzio in cui in vincolo matrimoniale è sciolto, nella separazione permane il dovere di assistenza materiale, essendo sospesi soltanto gli obblighi di natura personale (fedeltà, convivenza e collaborazione).
In sintesi, l’assegno separativo ha un carattere diverso dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cfr. Cass. Civ. 16/05/2017, n. 12196 e Cass. Civ. 24/06/2019, n. 16809).
Quanto alla prova in giudizio, se il richiedente l’assegno ha provato l’esistenza dei presupposti di legge e il giudice ha accertato anche la mancanza di colpa del coniuge istante nel non riuscire a trovare un’occupazione idonea, ricade sui chi intende contestare tale ricostruzione, l’onere di indicare gli elementi di segno contrario allegati in sede di merito, e non valutati dal giudice di appello.
Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva accertato che la moglie aveva reperito nel 2012 un’attività part-time presso un ente privato, e che, “a causa dell’età (56 anni), della prolungata estromissione dall’attività produttiva e della ormai obsoleta formazione”, non era riuscita a trovare altre occasioni lavorative.
Rilevante è stata valutata anche l’effettiva differenza tra i redditi delle due parti, essendosi rivelati nettamente più alti quelli percepiti dall’uomo, dipendente della Guardia di Finanza.
Questioni
La sentenza appare in linea con l’orientamento giurisprudenziale attuale che distingue il
mantenimento nella separazione e quello in sede di divorzio per la diversità dei presupposti.
Quanto all’elemento relativo all’attitudine del coniuge al lavoro, questa rileva solo se si accerti la concreta possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni fattore individuale ed ambientale, e non in base a valutazioni astratte e ipotetiche (Cass. Civ. n. 789/2017).
Diritto e reati societari
Sono responsabili gli amministratori che intraprendono nuove iniziative imprenditoriali dopo lo scioglimento della società
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Dottoressa in legge e Assistente didattico presso l’Università degli
Studi di Bologna
Tribunale di Napoli, Sezione Specializzata in materia di Impresa, sentenza n. 2166 dell’8 marzo 2021
Parolechiave: fallimento –curatore –amministratore –scioglimento –responsabilità –differenza tra i netti patrimoniali – nuove operazioni – nuovi impegni – nuove obbligazioni – nuovi rischi – attività conservativa –
Massima
La responsabilità dell’amministratore di una società a responsabilità limitata che abbia interamente perso il capitale sociale non sorge automaticamente dalla mera prosecuzione dell’attività di impresa, consentita entro certi limiti ai sensi dell’art. 2486 c.c., ma quando l’amministratore gestisca in chiave non conservativa la società assumendo nuovi impegni e/o obbligazioni (connotati dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e quindi compiuti al di fuori di una logica meramente conservativa).
Disposizioni applicate: articolo 2486 c.c.
Il giudizio in analisi sorge dall’azione giudiziale del curatore del fallimento di una S.r.l. fallita nei confronti dell’ex amministratore al fine di ottenere il risarcimento del danno causato dalla prosecuzione, in violazione dell’art. 2486 c.c., dell’attività d’impresa a seguito del verificarsi della causa di scioglimento della società per effetto dell’integrale perdita del capitale sociale.
Invero, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato alla realizzazione dello scopo sociale e, pertanto, gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, rimanendo abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente allo scopo della liquidazione dei beni. In tal senso, quindi, ad essi è inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall’altro, il diritto dei soci ad una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione.
Al riguardo, il Tribunale di Napoli ha però sottolineato come il verificarsi di una causa di
scioglimento non comporta automaticamente la cessazione di qualsiasi attività da parte della società, in particolare se si tratta di attività in corso di esecuzione sulla base di contratti ancora in essere.
In tal senso, quindi, il curatore fallimentare che intenda far valere una responsabilità per violazione degli obblighi di cui all’art. 2486 c.c. dovrà provare che, dopo la perdita del capitale, sono state intraprese iniziative imprenditoriali connotate come tali dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.
Tuttavia, nel caso di specie, il curatore fallimentare non ha individuato né specificato quali fossero i pagamenti e/o gli atti integranti “nuove operazioni” in violazione dello scopo conservativo che deve connotare la gestione amministrativa in uno stato di sottocapitalizzazione (e quindi generative di un danno per il patrimonio sociale).
Pertanto, mancando la prova che il convenuto, nel proseguire l’attività d’impresa, lo avesse fatto con modalità non conservative – e quindi impegnando la società in operazioni aggravanti il dissesto – il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni azionata dal curatore fallimentare.
Infine, si noti che il curatore aveva domandato che il danno fosse commisurato sulla base del criterio della differenza tra i netti patrimoniali, secondo il quale, fatta salva la prova di un danno di diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o alla data di apertura di un’eventuale procedura concorsuale e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento della società.
Tuttavia, occorre osservare come tale criterio – che nel caso di specie non è stato ritenuto possibile applicare correttamente anche per i motivi sopra esposti – sia necessariamente limitato in determinate circostanze, in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
La fondatezza dell’azione revocatoria tra calcolo del periodo sospetto e interpretazione dei “termini d’uso”
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Cass. Civ., sez. I, Sent. 19 febbraio 2021, n. 4482– Pres. Xxxxxxxxx – Rel. Terrusi
Parole chiave: amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, consecuzione tra procedure, periodo sospetto, pagamenti eseguiti nei termini d’uso, revocatoria fallimentare.
Massime
L’istituto della consecuzione tra procedure, ai fini della retrodatazione dei termini di cui alla L. Fall., art. 67, trova applicazione anche ove la prima sia un’amministrazione controllata e l’ultima una procedura il cui presupposto oggettivo sia costituito dallo stato d’insolvenza, ma in tal caso il computo a ritroso del periodo sospetto ha inizio dalla data del decreto di ammissione all’amministrazione controllata.
L’art. 67, comma 3, lett. a) L.F. e quindi il concetto di “i termini d’uso” ai fini dell’esenzione dell’azione revocatoria, non può essere inteso come funzionale a estendere la tutela al di là dei casi di normale consuetudine, poiché se così fosse la norma si presterebbe a facili meccanismi di approfittamento della situazione di difficoltà del debitore. Per quanto non sia da escludere giuridicamente che i termini d’uso dei pagamenti possano essere modificati dalle parti durante il rapporto di fornitura, la norma non si estende a ipotesi nelle quali è accertato il mancato rispetto della consuetudine corrente tra le parti in condizione di normalità.
Disposizioni applicate: artt. 67 comma 2, 67 comma 3 lett. a) X.X. 00 marzo 1942, n. 267.
CASO
La società Alfa in forza di un accordo di rientro (stipulato il 8.11.2004) ha eseguito tra il 14.10.2004 e il 14.4.2005, dei pagamenti rilevanti per oltre 4 milioni di euro nei confronti della società Beta, in parte a titolo di corrispettivo di merci e in parte a rimborso di insoluti pregressi. La società Alfa, già in amministrazione controllata, è stata posta in amministrazione straordinaria a seguito della dichiarazione di insolvenza nel 17.2.2006. In seguito ad azione proposta dall’Amministrazione straordinaria, il Tribunale di prime cure aveva dichiarato inefficaci ai sensi dell’art. 67 comma 2 L.F. i pagamenti eseguiti da Alfa nei confronti di Beta nei sei mesi antecedenti la domanda di ammissione alla procedura di amministrazione controllata. La pronuncia veniva impugnata da Beta il cui gravame veniva respinto dalla Corte
d’appello competente. Xxxx quindi proponeva ricorso in Cassazione, censurando in particolare una non corretta applicazione del principio della consecuzione tra le procedure e comunque sostenendo che i pagamenti avrebbero dovuto essere esenti da revocatoria perché eseguiti “nei termini d’uso”.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione con riferimento alla consecutio tra le procedure, nel caso in esame relativa alla successione tra l’amministrazione controllata e l’amministrazione straordinaria, ha affermato, dando ragione al ricorrente, che il decorso dei 6 mesi del periodo sospetto ai fini dell’azione revocatoria deve essere calcolato a partire dal decreto che ammette il debitore alla procedura di amministrazione controllata ossia dal primo atto della procedura e non anche dalla domanda di ammissione alla procedura.
La Suprema Corte confermando la pronuncia della Corte d’appello ha inoltre affermato che non possono essere interpretati pagamenti eseguiti “secondo i termini d’uso” ai fini dell’esenzione dalla revocatoria, quei pagamenti che non corrispondono alle modalità di pagamento proprie in essere tra le parti.
QUESTIONI
Il caso in esame offre lo spunto per approfondire due problematiche estremamente delicate. La prima riguarda il calcolo del periodo sospetto ai fini dell’esperimento dell’azione revocatoria in caso di consecuzione tra procedure; il secondo concerne, invece, l’interpretazione dell’articolo 67 comma 3, lettera a) L.F. che prevede che non sono soggetti all’ azione revocatoria i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa “nei termini d’uso”.
Con riferimento al computo del periodo sospetto, l’articolo 67 comma due, della L.F. si limita a stabilire che sono revocabili “i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili gli altri atti a titolo oneroso (…) se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione del fallimento”.
Si tratta, quindi, di interpretare la norma citata con riferimento al calcolo del periodo sospetto nel caso di successione tra procedure.
Con riferimento a tale primo profilo, la sentenza in commento riguarda la fattispecie particolare di successione tra l’amministrazione controllata e l’amministrazione straordinaria, purtuttavia il principio espresso dalla Suprema Corte a soluzione sul punto assurge ad una valenza di tipo generale.
Il ricorrente, infatti, nel caso in esame, contestava in prima battuta il fatto che non fosse possibile estendere il periodo sospetto ai fini della revocatoria ai mesi antecedenti la procedura di amministrazione controllata poiché, a suo dire, il presupposto dell’amministrazione controllata non era lo stato di insolvenza, come accade nel fallimento e
nell’amministrazione straordinaria, bensì solo lo stato di temporanea difficoltà. Tale censura veniva però respinta dagli Ermellini i quali, richiamandosi ai propri precedenti giurisprudenziali hanno affermato che l’istituto della consecuzione tra procedure ai fini della retrodatazione dei termini di cui alla legge fallimentare trova applicazione anche qualora la prima sia un’amministrazione controllata e l’ultima una procedura il cui presupposto oggettivo sia costituito dallo stato di insolvenza (c.f.r. Cass. Civ. n. 204861/2015 Cass. Civ. numero 208445/2008). Nell’ambito della propria argomentazione la Suprema Corte ha altresì affermato che l’elemento della continuità nell’insolvenza non si risolve in un mero dato temporale, ma si configura come fattispecie di effettiva consecuzione per effetto del negativo sviluppo della condizione di temporanea difficoltà denunciata dall’imprenditore, che chiede il beneficio dell’amministrazione controllata, laddove si rilevi erronea la prognosi di risanamento.
E’ stato invece ritenuto fondato il motivo di censura proposto dal ricorrente avverso la sentenza di appello e relativo al criterio di computo del periodo sospetto che il ricorrente riteneva doversi calcolare a partire dal decreto che ammette il debitore alla procedura di amministrazione controllata, ossia dal primo atto della medesima procedura e non anche dalla precedente domanda di ammissione, in conformità ai precedenti già pronunciati dalla Suprema Corte (cfr. Cass. Civ. n. 24861/2015 Cass. Civ. n. 13838/2019).
Poiché nella sentenza impugnata veniva riconosciuta la revocabilità di tutti i pagamenti eseguiti in relazione al periodo corrente tra 14.10.2004 al 14.04.2005, sulla base del periodo sospetto erroneamente calcolato a partire dalla data della domanda di ammissione alla procedura di amministrazione controllata, anziché dalla data del provvedimento di ammissione alla stessa procedura, la Suprema Corte ha cassato la pronuncia con rinvio per nuovo esame.
Con riferimento al secondo profilo relativo all’esecuzione dei pagamenti “nei termini d’uso”, va sottolineato che nel caso in commento, i pagamenti contestati erano stati eseguiti in forza di un accordo che era stato stipulato tra le parti 11 2004 in cui si prevedeva il pagamento di somme in parte a titolo di corrispettivo di merci alla consegna e in parte a rimborso di insoluti pregressi. Nel corso del giudizio è emerso che tale accordo era stato di fatto concluso dopo una serie di precedenti accordi che prevedevano diverse modalità di pagamento in concreto non applicate; inizialmente, infatti, le parti avevano stabilito modalità di pagamento alla consegna delle merci e poi modalità di pagamento anticipata al momento dell’ordine. Il ricorrente sosteneva che la modifica delle condizioni precedentemente pattuite, ancorché fosse indice della piena conoscenza dello Stato di grave difficoltà della controparte, non rileverebbe ai fini di escludere l’esenzione dalla revocatoria, in quanto il pagamento contestuale alla consegna della merce sarebbe da considerarsi modalità d’uso normale in una situazione di crisi.
I Giudici di legittimità hanno però respinto le censure del ricorrente, chiarendo che il rinvio della norma ai “termini d’uso” ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle
modalità di pagamento proprie del rapporto delle parti e non alle prassi del settore economico di riferimento (cfr. Cass. Civ. n. 251602/2016) e che in prospettiva è compito del giudice del merito verificare le modalità di pagamento concretamente invalse tra le parti e anche l’eventuale sistematica tolleranza del creditore di ritardi nei pagamenti rispetto alle scadenze pattizie convenute azione (Cass. Civ. n. 7580/2019)
La Suprema Corte ha quindi affermato, in conclusione, che “per quanto non sia da escludere giuridicamente che i termini d’uso dei pagamenti possano essere modificati dalle parti durante il rapporto di fornitura, deve anche osservarsi che la legge fallimentare all’articolo 67 comma tre lettera a) non può essere intesa come funzionale estendere la tutela al di là dei casi di normale consuetudine poiché se così fosse, la norma si presterebbe a facili meccanismi di approfittamento della situazione di difficoltà del debitore. Essa in particolare non si estende alle ipotesi, come quella in esame, nella quale è accertato giustappunto (e semmai) il mancato rispetto della consuetudine corrente tra le parti in condizioni di normalità”.
Diritto Bancario
Il superamento del limite di finanziabilità nell’operatività di credito fondiario
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Come risaputo, l’importo massimo finanziabile nell’ambito di un’operazione di credito fondiario (art. 38 TUB) è fissato nell’80% del valore dei beni ipotecati o del costo delle opere da eseguire sugli stessi, ivi compreso il costo dell’area o dell’immobile da ristrutturare.
Secondo un (seppur minoritario) indirizzo giurisprudenziale, noto anche alla Cassazione (Cass.
n. 17439/2019), dal superamento del predetto limite di finanziabilità non deriva la nullità del sinallagma, con conversione in altro tipo di contratto, ma solo la disapplicazione della speciale disciplina del mutuo fondiario, con conservazione della garanzia ipotecaria.
Questa impostazione predica l’unicità del tipo contrattuale del mutuo, negando al mutuo fondiario la qualifica di tipo autonomo. In sostanza, il mutuo, pur qualificato come “fondiario”, ove non rispettoso dei limiti di finanziabilità altro non sarebbe che un ordinario mutuo ipotecario.
Al riguardo, è osservato che non si tratta di applicare l’istituto della conversione del contratto nullo di cui all’art. 1424 c.c., ma di constatare che tra le conseguenze della violazione del limite posto dall’art. 38, comma 2, TUB (e dalle relative norme delegate) non è la nullità del contratto di finanziamento né della contestuale concessione di ipoteca. La contemporanea presenza di tutti i connotati caratteristici della “Nozione di credito fondiario” (tale la rubrica dell’art. 38 T.U.B.), e quindi anche del rispetto della proporzione tra importo finanziato e valore dei beni ipotecati, è senz’altro necessaria perché trovi applicazione la relativa disciplina speciale e, in particolare, la ricordata disciplina di favore per il creditore fondiario; si ritiene, invece, che non sarebbe corretto desumere dalla mancanza di uno di quei connotati la nullità del contratto di finanziamento e della relativa concessione di ipoteca, trattandosi di connotati non richiesti normalmente dalla legge per la validità di quei negozi e prescritti soltanto nell’ambito della specifica disciplina del “credito fondiario”. Infatti, non si vede una ragione per cui ciò che sarebbe perfettamente valido ed efficace qualora le parti non avessero fatto alcun riferimento al “credito fondiario” (ovverosia l’erogazione di un finanziamento per importo superiore al valore del bene ipotecato) dovrebbe essere dichiarato nullo nel caso di invocazione delle norme del “credito fondiario” in mancanza di uno dei requisiti necessari per l’operatività di quelle norme (nei termini Trib. Udine 29.5.2014; conf. Trib. Mantova 27.12.2018; Trib. Napoli 5.6.2019: il superamento del limite ex art. 38 TUB condurrà (non già alla sanzione della nullità ex art. 1418 c.c., bensì) alla qualificazione del contratto nei termini di un ordinario mutuo (con esclusione dei c.d. privilegi fondiari); Trib. Grosseto 15.2.2020; Trib.
Napoli 20.10.2020: mera riqualificazione giuridica del contratto ipotecario, da fondiario a ordinario).
In sostanza, il contratto di mutuo fondiario non rappresenta una forma contrattuale autonoma; esso va inteso quale species del genus credito ipotecario, trattandosi di una forma particolare di finanziamento cui, in presenza di taluni requisiti, si applica una disciplina ad hoc. La mancanza – anche patologica – di uno degli elementi costitutivi caratterizzanti tale tipologia negoziale consente di procedere alla mera disapplicazione della disciplina di favore in danno del soggetto che abbia (causato o abbia) concorso alla violazione. Dunque, dalla violazione della normativa bancaria in tema di limite di finanziabilità del mutuo (art. 38 TUB) deriva non l’invalidità totale del contratto quanto piuttosto la mera disapplicazione della disciplina speciale del mutuo fondiario, con conservazione del contratto di mutuo ipotecario ordinario (da ultimo Trib. Torre Annunziata 10.2.2021).
Soft Skills
Sostenibilità: facciamo chiarezza
di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx - Senior partner Marketude
Ne parla anche Draghi.
“Questo Governo conferma l’impegno a inserire lo sviluppo sostenibile in Costituzione”.
Lo ha detto al Senato il nostro Presidente del Consiglio nel suo discorso programmatico lo scorso febbraio. E chi lo ha già letto sa bene quanto il PNRR -Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Next Generation Italia) sia un’altra chiara testimonianza di quanti sforzi il Governo stia profondendo per andare in questa direzione.
Sostenibilità è una parola che rimbalza sulle bocche di tutti da diverso tempo ormai ma quando si entra nel vivo della conversazione ci si rende agilmente conto che la stragrande maggioranza di chi ne parla non ha affatto compreso di che cosa si tratti esattamente.
Mi sembra opportuno quindi riproporne una sintesi per fornire una cornice quanto più possibile chiara del tema anche perché, forse a causa del gran numero di acronimi con cui ci si riferisce ad argomenti ad essa correlati, la confusione regna sovrana.
Prima di cominciare dichiaro con sincerità i miei obiettivi:
– far comprendere che quando si parla di sostenibilità non ci si riferisce solo a tematiche ambientali
– sottolineare quanto la questione abbia un taglio assolutamente economico, oltre che etico, e che, non a caso, il primo a prendere una decisa posizione in merito sia stato il mondo della finanza.
Cominciamo quindi dalla definizione di sviluppo sostenibile, datata 1987 e presentata, per la prima volta, nel c.d rapporto Brundtland (Our Common Future), un documento pubblicato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) nel quale si legge: «Lo sviluppo sostenibile [sustainable development] è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri».
E ancora “Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”.
Al centro dell’attenzione, quindi, c’è un modello di “sviluppo” che garantisca continuità all’umanità, nel rispetto di un patto intergenerazionale che consenta alle generazioni future di poter soddisfare i propri bisogni come quelle attuali stanno soddisfacendo i propri.
Come riuscirci? Quali caratteristiche dovrebbe avere un tale modello di sviluppo?