A cura di Sara Spada.
A cura di Xxxx Xxxxx.
Hanno partecipato alla scrittura dei testi:
Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxx Xxxxxxx, Xxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxx, Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxx, Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxx Xxxx, Xxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx.
Un ringraziamento per la collaborazione a tutti i colleghi del Servizio centrale.
Presentazione 4
Introduzione 5
CAPITOLO PRIMO:
1.1 Il contratto di accoglienza e il regolamento del centro 7
1.2 L’esperienza del progetto del comune di Macerata 9
CAPITOLO SECONDO:
2.1 La supervisione. Strumento di prevenzione, sostegno, apprendimento
e consapevolezza del lavoro degli operatori 13
CAPITOLO TERZO:
3.1 La presa in carico sanitaria delle persone vittime di tortura e violenza 22
3.2 L’esperienza del progetto del comune di Fidenza 25
CAPITOLO QUARTO: 4.1 La sperimentazione di nuovi modelli 37
4.2 L’esperienza del progetto della provincia di Ascoli Xxxxxx 39
4.3 Il tirocinio formativo 51
4.4 L’esperienza del progetto del comune di San Xxxxxx Xxxxxxxxx
e del progetto del comune di Trepuzzi 53
CAPITOLO QUINTO:
5.1 La sostenibilità dell’integrazione passa per la casa 58
5.2 L’esperienza del progetto del comune di Pordenone 60
CAPITOLO SESTO:
6.1 Quando la rete fa la forza 67
6.2 L’esperienza del progetto del comune di Napoli 69
CAPITOLO SETTIMO:
7.1 Il “doppio binario” 76
7.2 L’esperienza del progetto del comune di Cosenza 80
7.3 L’esperienza del progetto del comune di Lodi 87
I Quaderni del Servizio Centrale
di Xxxxxxx Xx Xxxxx
Direttrice del Servizio centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
Nel 2010 il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, PNA o SPRAR che sia, compie 10 anni.
Molti sono gli enti locali e le associazioni che fin dal primo momento hanno aderito alla rete, ma altrettanti si sono andati aggiungendo negli anni, fino a rag- giungere l’attuale numero di 138 progetti territoriali che offrono servizi di tutela e accoglienza integrata a richiedenti e titolari di protezione internazionale.
In questi anni il Servizio centrale, nella sua funzione di coordinamento e mo- nitoraggio dei progetti, ha visto crescere esperienze e professionalità ricchis- sime, al punto di dover prendere atto che si è ormai entrati in una fase nuova.
Una fase in cui fare nostro sempre di più l’obiettivo specifico di offrire visi- bilità e diffusione alle realtà territoriali, una fase in cui il confronto e lo scambio non costituiscano più un’eccezione, bensì il modus operandi del nostro sistema, da cui possano trarre vantaggio tutti i soggetti coinvolti.
E’ in quest’ottica che abbiamo avviato questa collana di Quaderni del Ser- vizio centrale, una serie di raccolte tematiche con cui valorizzare, a titolo esem- plificativo, solo una parte delle tante e varie prassi dei progetti dello SPRAR.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
A distanza di alcuni anni dalla nascita del Sistema di protezione per richie- denti asilo e rifugiati, in considerazione delle significative esperienze maturate dai progetti territoriali e della loro necessità di rinnovarsi, si è diffuso, in maniera sempre più urgente, il bisogno di condividere le pratiche sperimentate e di in- dividuare un metodo di trasferimento delle esperienze, in un’ottica di sistema.
Prendendo spunto da questa riflessione, nel 2008, il Servizio centrale ha iniziato a raccogliere, attraverso schede apposite, le prassi sperimentate negli anni precedenti dai progetti territoriali. Tutte le schede sono state inserite sul sito del Servizio centrale in una “Raccolta” che ha rappresentato il punto di partenza per una condivisione della ricca esperienza dello SPRAR.
L’ideazione e la realizzazione di questo quaderno integra il percorso ini- ziato con la “Raccolta delle prassi”, collocandosi in stretta continuità con quel documento. Anche il quaderno, infatti, quale strumento operativo, concorre allo stesso obiettivo, cioè alla diffusione delle buone pratiche, al fine di incentivare cambiamenti e miglioramenti negli interventi a favore dei beneficiari, agevo- lando allo stesso tempo la standardizzazione e l’uniformità delle azioni nell’of- ferta dei servizi di accoglienza, integrazione e tutela.
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Si intende per “buona prassi” un’azione che, sperimentata positivamente, ri- sulta significativa in termini di innovatività, efficacia, innalzamento qualitativo dei servizi, sostenibilità nel tempo, riproducibilità e trasferibilità, capacità di coinvol- gimento orizzontale e verticale (effetti di Mainstreaming), coerenza del risultato rispetto agli obiettivi. Non si tratta necessariamente di un’esperienza che riguarda l’ottimo possibile da un punto di vista teorico, ma piuttosto di un’esperienza po- sitiva che, per essere trasferita e riprodotta, necessita di visibilità.
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I Quaderni del Servizio Centrale
Questo quaderno, che raccoglie alcuni approfondimenti riguardanti diversi settori di intervento, rappresenta l’occasione per dare visibilità ad alcune delle significative prassi sviluppate nell’ambito del Sistema di protezione per richie- denti asilo e rifugiati. Le buone prassi segnalate, accompagnate da riflessioni introduttive del Servizio centrale, vogliono essere solo uno spunto in più, nella consapevolezza che rappresentano un piccolo contributo nell’ampia varietà delle esperienze maturate, da cui emerge il ruolo insostituibile di sperimenta- zione e evoluzione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
Prassi segnalate anni 2007 - 2008: ambiti di intervento
3% INSERIMENTO ABITATIVO
9% INSERIMENTO SOCIO-ECONOMICO E CULTURALE
3% FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO OPERATORI
27% FORMAZIONE SCOLASTICA E INSERIMENTO LAVORATIVO
6% COSTRUZIONE DELLA RETE
5% ATTIVITÀ DI SENSIBILIZZAZIONE E COMUNICAZIONE
5% MINORI NON ACCOMPAGNATI
3% GESTIONE DELL’ACCOGLIENZA
3% EQUIPE
9% APPRENDIMENTO LINGUA ITALIANA E FORMAZIONE SCOLASTICA
7% ORIENTAMENTO E INFORMAZIONE BENEFICIARI
17% ASSISTENZA SANITARIA
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
capitolo primo
Il contratto di accoglienza e il regolamento del centro
Nell’ambito dello SPRAR, la fase iniziale del percorso di accoglienza inte- grata rappresenta un momento molto importante e particolarmente delicato sia per i richiedenti e i titolari di protezione internazionale, sia per coloro che ge- stiscono il progetto. Entrambe le parti sono portatrici, reciprocamente, di aspet- tative non facili da soddisfare soprattutto nell’immediato. La necessità è avviare, fin dall’inizio, un percorso di accoglienza integrata basato sulla chiarezza e sulla trasparenza, sulla distinzione dei ruoli e delle attività, sul rispetto delle dif- ferenze, sulla collaborazione, sulla fiducia, sulla riservatezza.
Per favorire il raggiungimento di tale obiettivo, è previsto che tutti i progetti si dotino di due strumenti operativi, il contratto di accoglienza e il regolamento del centro, che si rivelano molto utili a patto che siano correttamente impostati. La predisposizione di tali strumenti comporta, quindi, un’attenta riflessione sul valore delle regole, la cui efficacia è condizionata da una corretta valutazione di alcuni elementi.
Il primo passo consiste nel definire regole chiare, praticabili e sostenute da tutti; obiettivo raggiungibile non solo includendo le regole nel contratto, ma de- finendo in maniera limpida i ruoli e le attività di tutte le parti.
Non è, però, sufficiente impostare le regole, ma occorre monitorarne l’ap- plicazione, in modo da valutarne l’efficacia, modificandole laddove serva. Le regole, infatti, possono variare nel tempo e può essere necessario ridiscuterle con i beneficiari, al fine di chiarire le motivazioni e la bontà degli obiettivi.
Come per ogni altro aspetto nella messa in atto del progetto, l’equipe do- vrebbe adottare una gestione attiva: occorre creare le condizioni perché si
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I Quaderni del Servizio Centrale
possa apprendere, preparare e prevenire i momenti critici ed essere, tuttavia, pronti ad agire in caso di comportamento non idoneo.
In caso di violazione, può essere utile elaborare un preciso vademecum d’intervento che prenda in considerazione le diverse situazioni: ciò porta ad una maggiore equità negli interventi e aiuta gli operatori ad agire in maniera certa e uniforme.
È comunque importante mantenere una certa elasticità nelle modalità d’in- tervento che non possono essere applicate tout court, ma adattate sia nel tempo, che in base alle problematiche dei singoli casi
Una volta individuate le regole, anche quelle implicite, occorre trovare mo- dalità di trasmissione e di esplicitazione appropriate. Un elemento da non sot- tovalutare è l’adozione di un adeguato atteggiamento comunicativo degli operatori: può essere utile chiarire tale aspetto, definendolo anche attraverso momenti di scambio tra gli operatori con la supervisione di un esperto.
L’esplicazione delle regole, tradotte nella lingua del beneficiario, deve av- venire in presenza del mediatore linguistico-culturale che non soltanto ha il com- pito di tradurre il testo, ma anche i contenuti, sapendo cogliere e interpretare le richieste e i bisogni delle persone accolte, anche quelli a cui i progetti non sanno ancora rispondere e grazie alle quali potranno apportare delle modifiche alla loro organizzazione. Sarebbe inoltre molto importante che venissero indi- viduati dei luoghi specifici, se possibile istituzionalizzati, deputati alla presen- tazione di queste regole comuni.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
L’esperienza del progetto del comune di Macerata
Il contratto di accoglienza e il regolamento del centro nel tempo stavano perdendo sempre più la loro importanza, a causa di continue infrazioni impunite o sanzionate con provvedimenti minori rispetto a quelli previsti da tali documenti. La situazione, quindi, era diventata difficile da gestire per gli operatori dell’ente gestore che si trovavano ad affrontare un clima di crescente violazione delle re- gole. Ovviamente, poi, il passa parola tra i vari beneficiari faceva sì che anche i nuovi arrivati fossero subito informati della scarsa importanza di quei “fogli” che si trovavano a firmare al momento dell’ingresso. Le difficoltà poi si aggravavano ulteriormente nella fase di uscita dal progetto, poiché molti ospiti si mostravano risolutamente decisi a non rispettare la data prevista fin dall’inizio del periodo di accoglienza e, qualora gli operatori facessero appello a quanto scritto e fir- mato da loro stessi nel contratto di accoglienza, dimostravano di ritenerli solo dei fogli privi di valore oppure sostenevano che avevano sì firmato quei docu- menti ma, in realtà, nessuno li aveva informati relativamente alle regole previste. Era quindi indispensabile un’azione decisa che restituisse sia l’importanza ne- cessaria a questi documenti, sia il rispetto dovuto agli operatori del centro.
In un primo momento, quindi, contratto e regolamento sono stati tradotti, non più solo in inglese, ma in varie lingue, al fine di evitare reali incomprensioni o false giustificazioni in merito alle contravvenzioni avvenute. Quindi, in pieno accordo con l’ente locale, si è deciso di rendere il momento della firma quanto più ufficiale possibile, tanto da favorire un maggiore rispetto delle norme pre- viste dal progetto.
A partire dal 2007 quindi, i beneficiari, il giorno del loro ingresso nella rete SPRAR, sostengono un colloquio preliminare con il mediatore culturale e un ope- ratore sociale dell’ente gestore che illustrano nei dettagli il contratto di accoglienza e il regolamento del centro e si rendono disponibili a tutti i chiarimenti del caso.
di Xxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxxx
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I Quaderni del Servizio Centrale
Successivamente viene consegnata loro una copia dei documenti in italiano e, qualora possibile, anche nella loro lingua madre, in modo che possano ri- leggerlo con calma a casa e avere il tempo di approfondirlo e sperimentarlo durante i loro primi giorni di permanenza nella nostra città. A circa una setti- mana di distanza dall’ingresso nel progetto, poi, viene fissato un appuntamento presso l’ente locale per la firma del contratto e del regolamento alla presenza non solo del presidente dell’ente gestore, ma anche dell’Assessore ai Servizi Sociali del comune di Macerata, nonché della responsabile dell’ente locale per il progetto, la quale ribadisce i loro diritti e doveri nel periodo di accoglienza e si rende disponibile a chiarire ulteriori dubbi ai beneficiari, ma anche ad ascoltare le problematiche da loro affrontate fino a questo momento.
Il contratto, firmato dal presidente dell’ente gestore, dall’Assessore e dal be- neficiario stesso, viene quindi consegnato in copia al beneficiario e in originale al responsabile dell’ente gestore.
Inoltre, due mesi prima della scadenza del periodo di accoglienza, il be- neficiario viene richiamato in comune con convocazione formale dalla respon- sabile dell’ente locale per ribadire la data di uscita, discutere della sua situazione e cercare di supportarlo nella realizzazione dei suoi progetti per il futuro. Spesso i colloqui si svolgono in maniera distesa e collaborativa, ma ci sono anche casi in cui i beneficiari dimostrano una forte aggressività di fronte all’idea di lasciare il progetto. Grazie a questo confronto, quindi, l’ente locale è sempre aggiornato sulle situazioni critiche ed è pronto, in casi estremi, anche a coinvolgere i vigili urbani, qualora fosse necessaria la loro assistenza nel giorno previsto per l’uscita.
Come obiettivo per il futuro si sta pensando di aggiungere un colloquio in- termedio sempre presso la sede dell’ente locale affinché la responsabile abbia la possibilità di rendersi meglio conto del percorso intrapreso dal beneficiario in questione, dei suoi progressi nella lingua italiana e dell’impegno speso nella ricerca di un lavoro; tale colloquio si potrebbe rivelare utile per spronare gli ospiti del progetto qualora questi abbiano assunto un atteggiamento lassista,
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
ma anche per aiutare con altri canali quei beneficiari che, nonostante l’impe- gno profuso, manifestano delle oggettive difficoltà di integrazione sul territorio.
Nel tempo questa prassi ha dato molti risultati vantaggiosi, alcuni addirittura inattesi, per tutti gli attori coinvolti. In primo luogo, i beneficiari percepiscono una maggiore ufficialità e serietà nel metodo adottato e si sentono in dovere di leggere con maggiore attenzione i documenti in questione prima della firma in comune; inoltre il fatto di averne il testo tradotto in più lingue e di poter usu- fruire di una duplice spiegazione del regolamento, da parte dell’ente gestore prima e dell’ente locale poi, fa sì che si creino sempre meno triangolazioni. Tut- tavia è anche possibile citare dei casi in cui i beneficiari, avendo tutto il tempo di valutare le regole previste dal progetto prima della firma del contratto, du- rante il colloquio in comune hanno manifestato le loro perplessità relativamente al regolamento o alla città e hanno deciso di lasciare il progetto prima ancora della firma di ingresso. Per di più, grazie a questo appuntamento hanno la possibilità di avere un primo contatto con l’ente locale e di conoscere diretta- mente la responsabile del progetto, alla quale, in seguito, si rivolgono diretta- mente per eventuali difficoltà con gli operatori dell’ente stesso, ma anche per problemi che vanno al di là delle competenze dell’ente gestore, come l’edilizia pubblica, il sostegno alle famiglie o gli sgravi fiscali previsti per i residenti con difficoltà. In altre parole, la presenza di un altro ufficio a cui rivolgersi è per loro fonte di maggiore tranquillità.
Allo stesso tempo anche l’ente gestore ha tratto notevoli vantaggi da questa prassi, in quanto si è registrato un maggiore rispetto delle regole imposte dal progetto, minori trasgressioni e ansie ed è diventato più semplice anche far ri- spettare i progetti individualizzati e le date di uscita. Utile si è rivelato anche il chiarimento dei ruoli che naturalmente deriva da un atteggiamento più formale; in questo modo gli operatori non sono più visti come dei volontari pronti a sod- disfare ogni esigenza, ma come dei professionisti che offrono servizi prestabiliti ed inquadrati entro limiti precisi, pertanto sono sempre andate diminuendo ri- chieste inaccettabili e continue insistenze in seguito a rifiuti.
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I Quaderni del Servizio Centrale
Per di più in questo modo si è instaurato un rapporto migliore e più vantag- gioso con l’ente locale che ora è maggiormente consapevole delle finalità e dell’andamento del progetto e, conoscendo i beneficiari in prima persona, può essere più partecipe nelle decisioni da prendere e nei percorsi da seguire per ognuno di loro. Ciò ha portato per l’ente gestore una diminuzione del carico di responsabilità, poiché le decisioni più critiche o complesse sono prese in co- mune accordo e con piena consapevolezza da ambo le parti.
Anche l’ente locale ha tratto dei vantaggi da questa prassi, poiché in questo modo ha la possibilità di monitorare da vicino l’operato dell’ente gestore, anche attraverso l’ottica dei beneficiari stessi, e di conoscere meglio le situa- zioni dei singoli ospiti del progetto e le problematiche relative a ciascuno di loro. D’altro canto, ha avuto anche la possibilità di rendersi conto delle reali difficoltà affrontate dagli operatori nella gestione del progetto e nello svolgi- mento della quotidiana attività lavorativa.
Si è quindi instaurato un clima di collaborazione che ha fatto sì che si cre- assero un linguaggio e degli scopi comuni, da un lato e, dall’altro, ha ovvia- mente favorito anche un clima di fiducia reciproca; interessandosi maggiormente alle attività svolte, l’ente locale ha avuto la possibilità di avere una visione più chiara di cosa rappresenti un progetto SPRAR, dei compiti da svolgere, degli obiettivi da raggiungere e delle criticità maggiori. Inoltre, grazie a questa collaborazione, l’ente gestore può godere di rapporti migliori e mag- giore credibilità anche nei confronti di uffici tecnici dell’ente locale stesso (es: anagrafe, ufficio scuola, urp, etc).
Nell’ultimo periodo, inoltre, tenendo conto della crisi economica e delle dif- ficoltà che si hanno nella ricerca di un impiego, l’ente locale ha allacciato dei rapporti con il Centro per l’Impiego per ottenere informazioni sempre aggior- nate sui corsi di formazione avviati e per sollecitarne l’attivazione di nuovi che siano adatti alle caratteristiche dei beneficiari stessi, andando così ad estendere la collaborazione anche ad altri ambiti di attività ed apportando nel contempo un grande valore aggiunto al progetto stesso.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
capitolo secondo
La supervisione
Strumento di prevenzione, sostegno, apprendimento e consapevolezza del lavoro degli operatori
I richiedenti protezione internazionale e i rifugiati fuggono generalmente da condizioni di violenza estesa nel territorio o esercitata su gruppi, nuclei o singoli individui o in seguito a disastri ambientali, carestie, epidemie. Spesso durante il percorso migratorio sono esposti a pericoli e traumi aggiuntivi quali, per esem- pio, la morte di compagni di viaggio, lo sfruttamento, violenze e aggressioni di varia natura compresa quella sessuale, la malnutrizione, l’impossibilità di es- sere curati, la detenzione e i respingimenti. Il fenomeno della migrazione for- zata rappresenta nella società contemporanea una realtà drammatica, un fenomeno mondiale, spesso sconosciuto e insufficientemente considerato dai mezzi di informazione. Gli eventi traumatici che colpiscono i migranti forzati de- terminano gravi conseguenze sulla salute fisica e psichica, sul benessere sociale ed economico che riguardano non solo le vittime, ma anche i familiari e la so- cietà di appartenenza.
Gli effetti e gli esiti, sia a breve che a lungo termine, sulle vittime, sulle fa- miglie e sul personale coinvolto nell’accoglienza, orientamento, accompagna- mento e trattamento rappresentano questioni chiave per programmare al meglio le strutture socio sanitarie (AAVV). In particolare gli operatori che lavorano nei centri di accoglienza, piuttosto che nei servizi socio-sanitari (medici, psicologi, assistenti sociali, mediatori linguistico-culturali, operatori del settore pubblico e
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Dirigente Psichiatra referente Xx.Xx.Xx. Ausl Roma A
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I Quaderni del Servizio Centrale
privato sociale, le forze dell’ordine, operatori del pubblico impiego a contatto con l’utenza, insegnanti, docenti di lingua italiana e di corsi di formazione) si trovano di fronte alla multidimensionalità e alla complessità di bisogni delle vit- time (bisogni materiali, relazionali, legali, individuali, economici, socializzanti, sanitari, etc).
La storia traumatica dei migranti forzati e la complessità dei bisogni che ne fa seguito, soprattutto nei casi più “vulnerabili” (vittime di tortura e violenza in- tenzionale, donne abusate sessualmente, persone affette da gravi malattie, mi- nori non accompagnati) rendono difficile la relazione operatore-utente poiché emotivamente intensa e molto esigente. Quando ci si confronta o si è trascinati da storie drammatiche e orribili, il distacco terapeutico o relazionale è ogget- tivamente impossibile e verosimilmente neanche voluto o desiderato; al contra- rio le reazioni controtransferali (la risposta emotiva del clinico o dell’operatore nei confronti dell’utente/paziente) possono essere così intense da incidere for- temente nel rapporto con la vittima. Talvolta nei servizi dedicati alle vittime di torture il personale dipendente (soprattutto gli operatori della salute mentale, dei servizi ginecologici e legali, i mediatori linguistico-culturali) può esperire rea- zioni psicologiche dolorose come l’iperidentificazione, la rabbia e la labilità emotiva oppure l’evitamento, la colpa e lo scetticismo.
La richiesta da parte delle vittime di risposte urgenti per calmare il dolore e lo stress, di relazioni interpersonali empatiche e sicure, di appoggio sociale, di affidabilità del terapeuta, di sentirsi accolti, accettati, compresi, liberi, di permettere il riconoscimento delle proprie emozioni e manifestarle senza peri- coli, mettono a dura prova le motivazioni e la stabilità degli operatori.
La complessità dei bisogni delle vittime e l’impossibilità di dare risposte complete alle loro aspettative non rappresenta l’unico fattore di rischio per lo sviluppo delle malattie da stress lavorativo; ad esso infatti contribuiscono anche fattori personali, organizzativi, di ruolo, sociali, politici, etc. Il carattere, la men- talità, la visione del problema, le motivazioni, il ruolo professionale all’interno del servizio, la frammentazione dei servizi, la durata limitata dei progetti, le po-
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
litiche di deterrenza del sistema dominante, l’insufficienza e l’inadeguatezza delle risorse e degli strumenti a disposizione, la carenza di training e forma- zione del personale, gli ostacoli burocratico-organizzativi e talvolta gestionali, determinano una oggettiva difficoltà, un vero disagio degli operatori. Inoltre le barriere all’accessibilità e fruibilità dei servizi sanitari pubblici, gli ostacoli e la complessità nell’accesso alla procedura d’asilo, talvolta con durata eccessiva e con esito incerto, le difficoltà di inserimento socio-lavorativo possono trasfor- marsi in fattori di rischio per lo sviluppo di malattie da stress lavorativo quali il burnout, il disturbo post traumatico da stress vicario o indiretto (Xxxxx et all 2003), la traumatizzazione da compassione (Xxxxxx 1995), la depressione, la presenza di sintomi d’ansia o di comportamenti a rischio.
Ma cosa ci spinge a fare questo lavoro? Perché scegliamo di (pre)occuparci delle vittime di tortura o di violenza intenzionale e confrontarci quotidianamente con la sofferenza di queste persone? Quali sono le motivazioni che ci spingono a fare un lavoro che aiuti gli altri? Ci sono delle “ombre”, dei “lati oscuri” in queste motivazioni? Come riconoscerli e affrontarli? E’ fondamentale capire che noi rappresentiamo, nella complessità dei bisogni dei nostri utenti, solo un tassello. I rapporti che le vittime instaurano con i servizi, con i curanti, terapeuti, operatori, mediatori, non sono gli unici o uno più importante dell’altro: tutte quelle relazioni e comportamenti intenzionali, a prescindere dalle tecniche uti- lizzate, che hanno il fine di ricostruire il “credo e le convinzioni della vittima” e ridare dignità alla struttura di identità che la definisce come persona grave- mente lesa dalle violenze, hanno valore terapeutico. “E’ molto difficile accettare di essere soltanto un mezzo di aiuto ma è l’unico modo per non diventare di- pendenti dalle gratificazioni o terrorizzati dall’insuccesso, per non oscillare tra impotenza e onnipotenza”.
In uno studio condotto nel 1997 Xxxxxxx ha evidenziato che i non attivisti politici arrestati durante una dimostrazione di protesta hanno significativamente manifestato maggiori sintomi riferibili al disturbo post traumatico da stress (58.5% vs. 18%) e alla depressione (24% vs.4%) rispetto agli attivisti, pur es-
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I Quaderni del Servizio Centrale
sendo stati sottoposti a violenze relativamente minori. La minore preparazione psicologica al trauma sembra essere un fattore predittore lo sviluppo di disturbi psichici nelle vittime. Parimenti la carenza di una solida preparazione profes- sionale, di attività formativa continua, di periodi sabbatici di aggiornamento, l’assenza di supervisioni regolari collegiali ed esterne, l’eccessivo carico di la- voro, la mancanza di un riconoscimento sociale degli operatori e lo stato di pre- carietà finanziaria e legale sembrano essere i fattori maggiormente responsabili dello stress negli operatori.
E’ dovere dei servizi elaborare piani d’azione per misurare le capacità degli operatori di lavorare in particolari circostanze (per esempio essere testi- moni di terribili eventi traumatici) e di valutare la loro risposta a eventuali stres- sors; bisogna creare un ambiente gradevole per lo staff (e per i beneficiari), mettere in condizione gli operatori di lavorare nel miglior modo possibile, pre- venire o mitigare gli effetti dello stress e quindi proteggere lo staff dagli “attacchi degli utenti”. Gli operatori devono essere (in)formati su come riconoscere i segni dello stress in se stessi e nei colleghi di lavoro e come affrontare le reazioni emotive delle vittime di tortura.
E’ responsabilità dei direttori dei servizi dedicati ai richiedenti protezione in- ternazionale, rifugiati, vittime di violenze, provvedere al benessere dei propri dipendenti, non solo per una motivazione etica e morale, ma anche per ridurre i costi sociali della presa in carica degli utenti. Infatti lo sviluppo di reazioni psi- cologiche allo stress lavorativo determina ricadute sulla qualità delle prestazioni che peggiorano ulteriormente la salute mentale dell’operatore in una sorta di circolo vizioso che colpisce anche l’agenzia per la quale lavora, i finanziatori (frequentemente lo stato o l’unione europea) e infine impoverisce la relazione con le vittime precludendo o ritardando la loro guarigione.
La supervisione nelle sue diverse forme (individuale, d’equipe, di gruppo, clinica, gestionale-organizzativa) rappresenta uno degli strumenti preventivi dello stress negli operatori; dovrebbero essere obbligatori, non un optional, in tutti i “trauma center”, quei servizi dedicati ai richiedenti protezione internazio-
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
xxxx e rifugiati dove generalmente tutto il personale è interessato a sostenere i diritti umani e lavora per aiutare coloro che hanno sofferto fra le più gravi vio- lazioni dei diritti umani.
La supervisione di gruppo è universalmente riconosciuta come la forma più efficace di espressione e gestione delle emozioni e dei conflitti nelle situazioni lavorative con vittime di traumi o catastrofi.
Nel nostro lavoro quotidiano ci sono dei momenti in cui ci sentiamo impo- tenti perché il “sistema” nel quale operiamo non garantisce le nostre aspettative e quelle degli utenti; nonostante l’impegno e la professionalità talvolta non riu- sciamo a dare quanto vorremmo e la sensazione di sentirsi inutili o inariditi può portarci a subire passivamente queste sensazioni. In situazioni come queste la supervisione “permette di fermarsi e riflettere, di evitare facili colpevolizzazioni, di cercare soluzioni nuove, di apprendere qualcosa anche nei momenti più cri- tici, di ricevere sostegno”.
Il supervisore ha la funzione di mettere in comunicazione tutto il personale di un determinato servizio a prescindere dai ruoli, dalle funzioni, dal riconosci- mento sociale, giuridico e economico; di promuovere e stimolare discussioni condivise, riflessioni critiche sulle difficoltà lavorative e professionali degli ope- ratori coinvolti nella presa in carica dei migranti forzati. I malumori e i conflitti all’interno del gruppo sono fisiologici ed è indispensabile esplicitarli senza aver paura di essere giudicati. Durante la supervisione gli operatori devono sentirsi di poter parlare liberamente del proprio malessere e delle proprie difficoltà senza il rischio di interpretazioni, paragoni o persino di perdere il lavoro. Nel- l’atmosfera di fiducia ed empatia si possono condividere il senso di ingiustizia, di dolore e orrore vissuti e trasmessi dalle vittime. Quando i malumori riman- gono inespressi, i segreti rischiano di diventare delle “mine vaganti” che pos- sono colpire improvvisamente e casualmente gli operatori, intossicando così l’ambiente lavorativo. Il compito del supervisore è di osservare le capacità dei singoli operatori, la consapevolezza emotiva e la capacità di autovalutazione; di monitorare e valutare le attività professionali dell’operatore, di fornire infor-
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I Quaderni del Servizio Centrale
mazioni e consigli attraverso le conoscenze, l’abilità e l’esperienza. Spesso i supervisori ricordano al gruppo di impegnarsi a gestire spazi dove i pazienti possano sperimentare cambiamenti positivi, imparare a crescere, a essere au- tonomi e a migliorare la propria autostima. Non quindi cercare di rinforzare l’onnipotenza e il potere del terapeuta-operatore, ma al contrario ricordare i li- miti e le difficoltà. Talvolta le aspettative dei singoli operatori non coincidono con il ruolo professionale ricoperto e/o con il compito e la funzione del super- visore.
La supervisione mette il gruppo in condizione di elaborare il vissuto, di in- tegrarlo costruttivamente nella propria identità e di lottare per superare il danno così come avviene nella relazione terapeutica. Deve tendere al miglioramento continuo personale e relazionale, alla protezione o al rinnovamento della pas- sione per la propria professione attraverso un approccio scientifico a un pro- blema socio-politico; la militanza professionale, come risposta alla violazione dei diritti umani fondamentali, dove gli operatori sono custodi di uno spazio re- lazionale e terapeutico più o meno intimo “di lotta per la libertà”. Xxxxx Xxx- king in “La supervisione nelle professioni d’aiuto”, paragona i concetti di “madre sufficientemente buona” e “di triade dell’accudimento” di Xxxxxxxxx al ruolo della supervisione, spazio in cui sostenere il rapporto terapeutico opera- tore-paziente, definendola “la triade terapeutica”. La supervisione rappresenta anche uno stimolo all’apprendimento e alla maggior consapevolezza delle pro- prie capacità e dei propri limiti. “Xxxxx insegnanti all’inizio della carriera sono appassionati al loro lavoro, felici di dare un contributo e di esperire la profes- sione come uno sviluppo personale. A metà della carriera molti di essi sentono il lavoro come un obbligo, perdono il piacere di insegnare e smettono di im- parare e di svilupparsi” (Xxxxxxx e Xxxxxxxxxx, 2005). Lo stesso accade fre- quentemente a molti operatori socio-sanitari (medici, assistenti sociali, infermieri, operatori, mediatori linguistico-culturali, psicoterapisti etc.) che esercitano pro- fessioni che implicano rapporti umani più o meno esigenti e l’aiutare gli altri.
L’aspetto formativo e di apprendimento della supervisione rappresenta
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
anche una eccellente possibilità di affrontare lo stress e prevenire i suoi effetti negativi. La consapevolezza dell’acquisizione di maggior capacità psicologi- che, di sviluppo e controllo emozionali, di maggior tolleranza nei confronti di situazioni difficili o incerte, aumenta il livello di soddisfazione nel proprio lavoro diminuendo la possibilità di incorrere in burnout; gli operatori di salute, in par- ticolare gli addetti alla salute mentale, riconoscono i benefici e duraturi effetti della supervisione, che offre la possibilità di apprendere e di provvedere alle proprie esigenze e al proprio sviluppo, di migliorarsi e di crescere nel proprio ruolo professionale; stimola la voglia di imparare, di essere sempre più com- petente e capace, di sentirsi a proprio agio, di migliorare le capacità di inte- razione con gli altri, di avere cura del proprio benessere emotivo, di imparare a tollerare i propri limiti e a controllarsi, di essere efficace e concreto.
La supervisione garantisce anche il monitoraggio continuo della risposta allo stress negli operatori attraverso la partecipazione di tutti i membri del gruppo. Spesso i centri dedicati ai migranti forzati sono servizi integrati fra enti pubblici e privati, con personale multidisciplinare, con diversi ruoli, funzioni, contratti lavorativi e retribuzioni. Tutti i partecipanti alla supervisione devono avere pari dignità, da alcuni definito “gruppi di pari”; deve essere un luogo dove i partecipanti possano sentirsi liberi di esprimere le proprie idee e/o il proprio malessere, legati alle emozioni trasmesse dagli utenti, ai problemi re- lazionali con gli altri operatori o a questioni organizzative. Tutti i membri del gruppo devono ascoltare con attenzione e rispetto ciò che viene proposto, come ognuno gestisce la relazione terapeutica, come rispondere a richieste difficilmente esaudibili senza sentirsi in colpa, in un clima onesto di confronto delle idee. La supervisione deve innescare meccanismi di acquisizione di ca- pacità di ascolto all’interno del gruppo, nella relazione operatore-utente, e di maggior comprensione dei rapporti umani.
Nell’esercizio della mia professione ho imparato a evitare di impormi o consigliare il rispetto di regole troppo rigide (spesso indicate per mantenere il distacco terapeutico o reazioni controtransferali nocivi alla relazione terapeu-
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I Quaderni del Servizio Centrale
tica) perché rischiano di far perdere di vista tutte le dimensioni coinvolte nelle rapporti che interessano gli utenti, gli operatori e il gruppo. Ma al fine di non rischiare di essere dispersivi, approssimativi, disarticolati, la supervisione do- vrebbe rispettare alcune regole basilari: andrebbe effettuata sempre nello stesso luogo, mantenuta la omogeneità e la stabilità del gruppo, fissare in precedenza date, durata, frequenza e intervalli regolari. Il supervisore dovrebbe modulare il gruppo, promuovere idee e riflessioni tra i partecipanti incoraggiando com- portamenti adatti per gestire i conflitti e le tensioni all’interno del gruppo.
Non è compito del supervisore trovare soluzioni ai problemi individuali. L’abilità del supervisore, la sua preparazione e esperienza devono far si che la supervisione di gruppo non si trasformi in una specie di conferenza, di lezione magistrale sulle dinamiche transferali e controtransferali, di consulenza per il responsabile del servizio o per un’equipe, perdendo il contatto con la realtà e le esigenze del gruppo. Non insegnare il modo giusto di fare le cose ma aiutare gli operatori a scoprire quali siano realmente le dinamiche all’interno del gruppo e/o con il paziente e che riflettono i conflitti fra i membri o fra gli operatori/terapeuti e l’utente/ paziente. Offrire prospettive che siano d’aiuto agli operatori nell’acquisire una visione diversa del proprio lavoro con gli altri operatori e con gli utenti.
Nella supervisione di gruppo è utile presentare esperienze con i pazienti, con i colleghi o con il servizio che suscitano preoccupazioni, difficoltà e più in generale forti emozioni (casi clinici, difficoltà relazionali, difficoltà di risposte a richieste pressanti e irragionevoli, problemi di varia natura che scatenano reazioni emozionali scarsamente sostenibili). Nei primi gruppi Xxxxxx tenuti a Londra negli anni 50 (di cui facevano parte solo medici di base che avevano difficoltà nella interpretazione di sintomi o alcune manifestazioni cliniche in pa- zienti traumatizzati dalla II guerra mondiale), il supervisore invitò i partecipanti a sperimentare di dedicare più tempo alle visite con i pazienti. La conseguenza fu che i pazienti rivelarono particolari della propria storia e dei propri vissuti e i medici ebbero reazioni diverse e talvolta opposte. Durante le supervisioni di
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
gruppo i medici iniziarono a conoscersi meglio, a fidarsi reciprocamente, a confidare dubbi e incertezze e talvolta il senso di inadeguatezza e impotenza che vivevano durante le visite. La presentazione dei casi clinici veniva fatta senza poter consultare cartelle cliniche poiché “questo modo rende liberi di par- lare in modo spontaneo e di inserire le sensazioni che fanno parte della nar- razione quale opportunità di apprendimento e di ascolto profondo”(Xxxxxx).
In conclusione possiamo condividere quanto elaborato e affermato da Xxxxx Xxxxxxx:“la supervisione ha tre funzioni fondamentali: qualitativa (per miglio- rare la qualità del lavoro), di sviluppo (per sviluppare competenze e abilità), di rifornimento (per migliorare la capacità di rifornirsi e sostenersi),definita da altri autori funzione di supporto.
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I Quaderni del Servizio Centrale
capitolo terzo
La presa in carico sanitaria delle persone vittime di tortura e di violenza
Nel 2007 una ricerca, condotta in seno alla rete del Sistema di protezione, ha presentato risultati molto interessanti circa il rapporto tra i progetti di acco- glienza dello SPRAR e i servizi socio-sanitari3. Nella ricerca è emerso, infatti, come i progetti territoriali fossero sostanzialmente soddisfatti del rapporto con le ASL e con il personale delle medesime aziende, che nel corso di pochi anni4 sono diventati interlocutori indispensabili per la presa in carico delle persone e la riuscita dei percorsi di inserimento socio-economico. La soddisfazione re- gistrata è stata tale che, al momento della presentazione della ricerca alla rete dello SPRAR e agli altri operatori addetti al settore, ci si è addirittura interrogati su come la partecipazione all’accoglienza del Sistema fosse di fatto la reale discriminante per l’accesso ai servizi socio-sanitari da parte dei migranti forzati. E’ risultato, infatti, che chi è accolto nello SPRAR usufruisce del Servizio sanitario nazionale e ne è preso in carico in maniera complessiva; mentre chi rimane esterno al circuito dell’accoglienza deve poter contare solo su concomitanze fortuite (l’incontro con una persona o con un ente; il contatto con un determinato sportello di orientamento e assistenza, ecc.) per poter ricevere la tutela della propria salute, nonché il basilare accesso ai servizi.
Per le persone accolte nello SPRAR, pure nella generale soddisfazione, la ricercaha evidenziato alcuni elementi di criticità assistenziali che rientrano
3 Caritas diocesana di Roma – Area sanitaria, Unità psicosociale e di integrazione culturale di OIM, Servizi socio-sanitari e rifugiati. Mappatura dei servizi socio-sanitari sui progetti territoriali dello SPRAR, ottobre 2007. La ricerca è consultabile sul sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, nella sezione documenti.
4 La norma che ha riformato la tutela del diritto alla salute dei migranti (Legge n.40/1998) precede di nove anni prima la ricerca citata.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
negli ambiti dell’odontoiatria (in una condizione di equiparazione con i cittadini italiani che tendenzialmente ricorrono alle cure private), della riabilitazione fi- sioterapica e protesica e della presa in carico del disagio mentale. «Proprio in questo ambito emerge tutta la difficoltà del nostro sistema a riappropriarsi con l’alterità culturale e in parte con la fragilità sociale»5. I locali servizi socio-sani- tari manifestano, dunque, un limite nel garantire la tutela della salute mentale di richiedenti e titolari di protezione internazionale, perché il disagio vissuto è lontano dalla casistica riconosciuta e supportata, e strettamente connesso ai traumi vissuti durante il viaggio migratorio: tortura e persecuzione nel paese d’origine, violenza nell’itinerario per arrivare in Italia, il naufragio, la riduzione all’anonimato del gruppo nelle prime fasi di soccorso e accoglienza. Sebbene il flusso delle migrazioni forzate non sia più un evento imprevisto (e imprevedi- bile) per l’Italia, è pur sempre vero che questa stabilizzazione delle presenze di richiedenti e titolari di protezione internazionale è propria degli ultimi anni e in numeri non ancora così rilevanti da incidere su una radicale trasformazione dei servizi socio-sanitari, soprattutto per l’ambito della sfera mentale che già di per sé è un settore estremamente specialistico e complesso. I servizi socio-sa- nitari, dunque, non hanno avuto ancora il tempo necessario e gli strumenti ap- propriati per potersi adeguare ai nuovi bisogni di presa in carico, riabilitazione, supporto e cura.
Nei dieci anni del Sistema di protezione, i progetti territoriali di accoglienza sono intervenuti proprio in questa piega procedendo principalmente a un in- tenso e continuato lavoro di sensibilizzazione dei servizi per far conoscere la condizione di richiedenti asilo e rifugiati, le loro necessità, la normativa di rife- rimento. Chi lavora da almeno dieci anni nel settore dell’asilo sicuramente ri- corderà il lavoro di informazione, condotto con i servizi socio-sanitari dagli enti di tutela e dai progetti territoriali dello SPRAR, per l’applicazione delle allora “nuove” norme, come quella relativa all’iscrizione dei richiedenti asilo al
5 Ibidem nota 3
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I Quaderni del Servizio Centrale
Sistema sanitario nazionale o per l’esenzione dal pagamento del ticket degli stessi. Allo stesso modo sono ancora patrimonio di una recente memoria gli sforzi che sono stati fatti per far nascere collaborazioni, protocolli d’intesa, pro- gettazione di interventi comuni tra enti locali, associazioni e aziende sanitarie locali. Oggi, in molte realtà territoriali, questi appaiono come aspetti consolidati nella presa in carico e nell’accoglienza delle persone, ma è importante rico- struirne la genesi per riconoscere il lavoro fatto e le modalità che lo hanno ca- ratterizzato, anche al fine di replicarne almeno gli approcci adottati e le linee politiche ispiratrici dei differenti interventi.
Questo tipo di lavoro è ricostruibile osservando l’impegno di molti progetti dello SPRAR dedicato a facilitare risposte a esigenze sempre più complesse, come quelle avanzate dalle condizioni delle vittime di tortura e di violenza estrema, dei sopravvissuti ai naufragi e agli altri traumi migratori. Le fasi di questo intervento si snodano su più livelli e attività, che – sommati insieme – perseguono l’obiettivo di rafforzare le misure di supporto e di riabilitazione di persone con vulnerabilità così alte e gravi. E’ necessario, pertanto, partire dalla identifica- zione degli interlocutori privilegiati che – per mandato, per competenza e anche per sensibilità – possono essere determinanti nella riuscita di un percorso di presa in carico. Nei loro confronti si è spesso proceduto con un avvicinamento alla realtà del progetto di accoglienza, alle tematiche dell’asilo, alla lettura dei bisogni di richiedenti asilo e rifugiati vulnerabili. E’ un avvicinamento fondamen- tale per costruire una rete di sostegno al progetto territoriale e ai suoi beneficiari, e per trasformare gli interlocutori in partner operativi del progetto, attraverso la strutturazione di collaborazioni e la realizzazione di interventi ulteriori, volti a raf- forzare ancora in modo più articolato le locali competenze e capacità. Accade, così, che le ASL o i singoli servizi perdano i connotati di “semplici”erogatori di prestazioni, per diventare parte essenziale del progetto territoriale di acco- glienza, condividendone gli obiettivi di presa in carico e riconoscendo nelle istanze di assistenza delle vittime di tortura e di trauma migratorio una nuova sfida di intervento, in cui investire tempo e risorse per potenziare le risposte dei territori e, soprattutto, il loro diretto coinvolgimento.
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L’esperienza del progetto del comune di Fidenza
La presa in carico sanitaria delle persone vittime di tortura e violenza: l’esperienza del CIAC
“fuori di qua il mondo non vi crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze. Perché noi distruggeremo le prove. E quando anche qualche prova dovesse rimanere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti. Dirà che sono esagerazioni e crederà a noi che negheremo tutto, e non a voi”
Xxxxx Xxxxxxxxxx
“quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte ricordano un sogno ricorrente, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate a una persona cara, e di non essere creduti, anzi neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e crudele), l’interlocutore si alzava e se ne andava in silenzio”
Xxxxx Xxxx
È in questo angusto spazio dove la minaccia del torturatore e l’incubo del torturato rischiano pericolosamente di convergere, avverandosi reciprocamente e non ammettendo ogni altro possibile esito, che crediamo vada inserita l’in- terrogazione e l’elaborazione circa il ruolo che operatori e strutture di acco- glienza possano avere nel confronto delle vittime di tortura nella prospettiva di contribuire, anche solo parzialmente, al percorso di restituzione alla singola vittima della dignità che le compete.
È nostra convinzione che analizzare come agisce la tortura su chi ne è stato vittima costituisca pertanto un fondamentale criterio metodologico per orientare l’intervento di presa in carico, assistenza e accoglienza, in quanto consente di
di Xxxxxxx Xxxxx
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individuare i meccanismi xxxxx in essere dal torturatore e quindi contrapporvi misure corrispondenti di segno contrario7 .
E’ a partire da queste premesse che il 1 settembre 2009 è divenuto ope- rativo il protocollo di intesa siglato tra Ciac Onlus e Azienda Usl di Parma “PER LA DEFINIZIONE DELLE MODALITA’ OPERATIVE DEL COORDINAMENTO SOCIO-SANITARIO E PER L’INDIVIDUAZIONE DEI PERCORSI DI CURA ED IN- TEGRAZIONE DELLE VITTIME DI TORTURA E VIOLENZA IN CARICO”.
Il protocollo di intesa ed il coordinamento socio-sanitario integrato che il protocollo istituisce formalmente, - coordinamento formato da personale sanita- rio dell’Ausl e sociale di Ciac -, costituisce l’esito di un lungo e laborioso per- corso di sperimentazione di modalità operative, metodi di lavoro e prassi condivise tra operatori sanitari (con particolare riferimento al personale medico e infermieristico dello Spazio Salute Immigrati Ausl Parma) e sociali che, nel corso degli anni, si sono succedute nel tentativo di organizzare risposte ade- guate a fronte dell’emersione in sede territoriale della problematica della presa in carico sociale e sanitaria di persone Vittime di Tortura.
Occorre in questa sede soffermarsi brevemente su due concetti chiave: quello di “bisogno” e quello, correlato, di “risposta”. Rifugiate\i che recano con sé i segni - visibili e non - dei traumi della tortura e violenza subita, sono portatrici e portatori di un bisogno complesso, articolato e a più dimensioni: sociale (acco- glienza e integrazione), sanitario (semeiotica, diagnosi e cura), giuridico (rico- noscimento dello status di rifugiata\o) e psicologico (riabilitazione).
7 Volpatti, Xxxxxxx: Xxxxxxxsi cura delle vittime di tortura, Punti di resistenza e modalità d’acco- glienza: “ al di là del dolore fisico conseguente alla violenza, il fatto che il dolore sia stato inflitto deliberatamente da un altro uomo rende la tortura un’esperienza-frattura, un vissuto impossibile da rappresentare, narrare, restituire a un senso condiviso. Impossibile perché la mia capacità di rap- presentare e comprendere il significato di un evento a cui partecipo dipende dalla mia posizione di soggetto all’interno dell’evento stesso, mentre nella tortura io perdo proprio questa posizione, sono privato della mia libera soggettività diventando un mero oggetto nelle mani dell’altro, in sua completa e assoluta balia.”
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Le risposte che a fronte di un tale bisogno si sono tentate di organizzare, in un “sistema paese” sprovvisto di strumenti idonei, sono ancora, necessaria- mente – contando la recente esperienza, la scarsa ricerca, lo scarso dibattito scientifico e sociale – insufficienti: poche le risorse, ancora scarse l’esperienza e le competenze acquisite.
Le persone che sono portatrici di questo bisogno specifico, sono altresì portatrici anche di uno specifico diritto8: quello di una accoglienza, una cura e una integrazione che sappia confrontarsi con l’indicibile trauma di cui sono state oggetto. È questo diritto ad imporre la individuazione e la costruzione, lad- dove non vi siano, degli strumenti atti a renderlo effettivamente accessibile. È a partire da questa elementare considerazione, che i percorsi, le prassi e i ser- vizi che qui proviamo a descrivere si sono modellati: comprendere la tortura e, in assenza di modelli consolidati, utilizzare tale analisi e lettura per opporvi un possibile antidoto, “plasmando” scelte, metodi, opportunità, organizzazione e la stessa strutturazione della rete sul “calco” del trauma inferto\subito.
In questa prospettiva va letta la scelta di non istituire un servizio specifico, dedicato ed esclusivo, ma quella di un coordinamento di diversi servizi territo- riali, pubblici e privati, sanitari e sociali. Rendere i servizi generali capaci di una simile specifica sensibilità significa ben di più che riconoscere l’esigenza di una presa in carico multidimensionale e multidisciplinare ed integrare diverse professionalità: significa tentare di mobilitare un’intera comunità, un intero ter- ritorio, che solo nel suo complesso potrà essere capace di con-tenere e pren- dere in carico un così complesso trauma. Significa riconoscere un valore “terapeutico” alla stessa strutturazione della rete, consentendo, all’atto pratico una pluralità di riferimenti e possibilità di accesso, e, su un piano più astratto, un progressivo radicamento e sensibilizzazione di competenze specifiche e specifiche modalità di relazione.
8 Direttiva 2003/9/CE – art. 20: “ Gli Stati membri provvedono affinché, se necessario, le per- sone che hanno subito torture, stupri o altri atti di violenza ricevano il necessario trattamento per i danni provocati dagli atti sopra menzionati”
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Una scelta che vuole significare il tentativo, per lo meno nelle intenzioni, di attrezzare un’intera comunità a rispondere all’azione del torturatore con un’azione contrapposta e di segno contrario.
Per queste ragioni, esposte sinteticamente, crediamo che la nascita del co- ordinamento socio-sanitario Ciac-Ausl Parma costituisca un primo ma fonda- mentale passo per sperimentare un modello organizzativo che, nel riconoscere la presa in carico della vittima di tortura come “compito istituzionale” dell’Ausl, problematizzi il tema della presa in carico sottoponendo ad elaborazione, spe- rimentazione e verifica le prassi relative alle dimensioni dell’”emersione del vis- suto”, “diagnosi degli esiti”, e soprattutto, dei possibili percorsi di cura e riabilitazione, in un’ottica dove azione sanitaria e sociale si integrano e raffor- zano reciprocamente e sono finalizzati alla realizzazione di condizioni indivi- duali di benessere e autonomia.
Gli elementi di criticità nella presa in carico sanitaria delle vittime di tortura e violenza
Tale complessità della dimensione di cura - intesa come progetto di riabili- tazione psico-fisica, accoglienza e tutela giuridica – delle persone sopravvissute alla tortura e alla violenza ci ha imposto, sulla base dell’esperienza comune, un ripensamento dei modelli, delle competenze, delle pratiche e dei significati di presa in carico sanitaria e sociale. Le vittime di tortura presentano manife- stazioni cliniche multiple e complesse per le quali sono necessari approcci mul- tispecialistici, multidisciplinari e multidimensionali. L’emersione della tortura può avvenire solo entro un setting ideale di accoglienza, che si apre intorno alla vit- tima e la supporta in un contesto globale che è giuridico, medico, sociale e re- lazionale; gli effetti della tortura sulla salute psico-fisica presentano caratteristiche sui generis che non rientrano nelle nozioni nosografiche abituali e necessitano di un approccio e di un trattamento specifici.
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Xxxxxx Xxxxxxx, psichiatra dell’associazione Medici contro la Tortura, de- scrive questa complessità individuando “i luoghi clinici” per la cura delle vittime di tortura, comprendendo le esperienze d’interesse per “la clinica organica” (le forme di deprivazione e sofferenza corporea delle vittime) e la fenomenologia, vale a dire “i vissuti che si rivelano nel colloquio con il medico e si comunicano nell’incontro col disagio e la sofferenza delle vittime9“.
L’integrazione della presa in carico medica e giuridico-sociale rende possibile la definizione condivisa di un progetto complessivo di cura che ha al centro il soggetto con lo scopo di non ridurlo a una dimensione patologica bensì quello di ricollocarlo in un progetto di vita possibile. Il coinvolgimento dei professionisti della salute, degli operatori dell’accoglienza sociale e del diritto ci pare sia l’unico percorso capace di rispondere e di cogliere una richiesta di aiuto radicale.
La relazione di aiuto tra l’operatore e la vittima di tortura non può essere frutto dell’improvvisazione. Occorre pensarla e confrontarla con i saperi e con l’esperienza quotidiana. Essa si configura come una vera e propria strategia. Il suo punto di partenza è il riconoscimento della specificità della condizione del rifugiato e della complessità dei bisogni spesso negati da interventi assisten- ziali standardizzati.
9 "il tempo di fuga con viaggi in condizioni inumane, di sradicamento, di un corpo senza riposo, strappato da ogni essere amato; il tempo del dolore persistente del corpo psichico torturato, il tempo dell'insonnia e degli incubi che ripetono i risvegli nella prigione; il tempo dell'incomunicabilità in mezzo alla lingua estranea, i tempi della discriminazione, dell'annichilimento della dignità (il clan- destino, puro corpo estraneo) e dell'estremo rischio per la vita, il rischio di espulsione per mancanza di documenti mentre procede a tentoni la ricerca del riconoscimento dello status di rifugiato; il tempo lungo e recidivo delle attese in Questura e dei rinvii, del cibo caritativo-assistenziale e della ricerca di un ricovero introvabile all'arrivo, o negato, o solo temporaneamente concesso, nello smarrimento della persona che resta un senza fissa dimora; i tempi di indigenza assoluta, della perdita del lavoro, dell'inerzia forzata, delle fatiche malpagate e dell'esposizione agli infortuni sul lavoro; il tempo delle malattie e dei traumi accidentali successivi alla tortura che cambiano i tempi dell'orga- nismo, tempo in cui il corpo può essere invaso da quell'impulso verso la morte che si era già an- nunciato nei tempi interminabili della tortura, tempo di vite interrotte per lo più tra i 18 e i 30 anni; tempi di ulteriori violenze: di vicissitudini cronicamente punitive, di ridottissima libertà, senza soldi in tasca, in locali e orari di asili semi-coercitivi, tempi di altri interrogatori e ispezioni poliziesche, del sospetto e delle umiliazioni, delle aggressioni contro la persona diversa e debole".
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La richiesta di aiuto infatti comprende una molteplicità di bisogni: lo stato di salute spesso gravemente compromesso dai traumi vissuti nel paese di ori- gine, di transito e di accoglienza; la tutela giuridica nella procedura di ricono- scimento della protezione internazionale con la testimonianza della storia delle persecuzioni subite; la soddisfazione dei bisogni di base come l’accoglienza abitativa, l’alimentazione, l’apprendimento della lingua italiana; l’orientamento al territorio e in generale al nuovo contesto sociale e culturale e infine il raggiun- gimento dell’autonomia attraverso l’attività lavorativa. La molteplicità dei bisogni della persona deve essere compresa e ricollocata entro un quadro logico dal quale partire per la definizione di un progetto individuale di vita. Il progetto di accoglienza e di cura ha come scopo quello di incidere sulla situazione iniziale della persona vittima di tortura: dall’indigenza all’autonomia, dalla chiusura del futuro alla riappropriazione di sé nel presente e nella progettualità, da vit- tima a testimone. La psicanalista francese Xxxxxxxxx Xxxxxx ci invita a non schiac- ciare il rifugiato a una sola dimensione, quella della vittima, bensì di cogliere la doppia dimensione: la dimensione dell’influenza del torturatore interiorizzato e la dimensione di rivolta contro l’influenzamento. Entrambe le dimensioni co- stituiscono la personalità della persona sopravvissuta alla tortura. Nella rela- zione di aiuto occorre pertanto isolare i frammenti di alterità e far leva sulle zone della personalità non ancora intaccate (o non del tutto) dal carnefice in- teriorizzato per rafforzarle e contrapporle all’azione dell’intruso. Tali zone pos- sono essere composte dai gusti, dagli interessi, dalle motivazioni, da certe abitudini, dagli affetti, dallo stile; elementi questi che preesistevano al momento del trauma e che possono sopravvivere ancora. Isolare gli elementi di alterità significa saper ascoltare e compensare, saper sostenere le strategie di autocon- trollo e riavviare un progetto migratorio. Isolare gli elementi di alterità significa saper essere testimoni della violenza affinché i sopravvissuti vedano riconosciuta la loro dignità di essere umani nel paese d’asilo. Ognuno con le proprie com- petenze, con i propri ruoli e nelle sedi opportune: il medico, lo specialista, l’operatore sociale e gli operatori del diritto.
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I problemi che la prassi tenta di risolvere
L’esperienza di Xxxx è consistita quindi principalmente nel tentare di dare una declinazione organizzativa e operativa a tali principi, agendo lungo due direttrici: da un lato, il varo di un modello organizzativo di coordinamento te- matico, dall’altro lato, un ampliamento dell’offerta di opportunità di integra- zione sociale pensate proprio in funzione dei criteri sopra esposti. A titolo di esempio citiamo l’istituzione di borse lavoro terapeutico presso cooperative so- ciali del territorio (con tutor individuali, in contesti dove la formazione al lavoro si coniuga con aspetti di socialità e relazione) e l’attivazione di laboratori ludici ed espressivi in sinergia con associazioni del territorio. Il coordinamento (che si riunisce ogni 15 giorni) è stato individuato quindi come luogo deputato alla progettazione individualizzata “integrata”, che nasce dall’attivazione di misure specifiche ordinata temporalmente e conta sulla seguente composizione:
● Referente sanitario: medico di medicina generale presso lo Spazio Sa- lute immigrati Ausl Parma;
● Referente ostetrico: ostetrica presso l’azienda USL con competenza della presa in carico di donne straniere;
● Referente psichiatrico: psichiatra presso l’azienda USL;
● Referente fisioterapico;
● Referente fisiatrico;
● Referente medico-legale;
● Referente per la consulenza e supervisione radiologica;
● Referente organizzativo AUSL con funzioni di interfaccia tra il coordina- mento e l’Azienda:
● Coordinatore di progetto: ginecologa, con competenza nella presa in carico di donne straniere vittime di violenza;
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● Referenti in ambito sociale e giuridico (assistente sociale, educatore, operatore giuridico, operatore sociale, mediatore culturale e linguistico) attivi presso equipe Ciac Onlus.
I punti di forza della presa in carico delle vittime di tortura
Questa attività di progettazione e coordinamento ha i seguenti macro-obiet- tivi, così formalizzati nel protocollo di intesa Ciac-Ausl Parma:
● sostenere le persone vittime di tortura o violenza estrema attraverso una risposta multidisciplinare e integrata di tipo clinico, assistenziale, relazio- nale e di integrazione sociale, mirata a favorire percorsi di autonomia personale, e la sperimentazione di attività mirate al benessere;
● sperimentare modalità organizzative e prassi di lavoro di rete finalizzate ad approcciare la complessità del quadro clinico, sociale giuridico dei soggetti vittime di traumi estremi attraverso una azione sinergica da parte di differenti professionalità;
● definire linee-guida e prassi operative per la presa in carico sociale e sa- nitaria dei soggetti vittime di tortura e violenza, con particolare riferimento all’individuazione di referenze sul territorio e strumenti in grado di affron- tare le situazioni di vulnerabilità in modo efficace e in tempi adeguati;
● offrire un più ampio supporto a cittadini che chiedono protezione inter- nazionale nell’ambito dello Sportello Provinciale Asilo e del progetto di Accoglienza Terra d’Asilo, tramite percorsi integrati socio-sanitari e inter- venti di mediazione interculturale e linguistica con particolare riferimento al tema del genere;
● supportare il quotidiano lavoro degli operatori Ausl offrendo opportunità di formazione, aggiornamento, consulenza specifiche sulle tematiche dell’immigrazione;
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● promuovere l’ampliamento della rete territoriale a soggetti pubblici e pri- vati con associazioni ed enti attivi sul territorio sui temi dell’immigrazione per potenziare progressivamente la capacità della rete di intercettare bisogni e di organizzare adeguate risposte;
● raccordare l’esperienza locale con i nodi della rete nazionale attraverso il confronto e il dibattito, sia a livello medico scientifico che organizza- tivo e sociale”.
Le dimensioni dell’emersione, della diagnosi e della cura\riabilitazione degli esiti di tortura si collocano così, fuori dal tempo dell’emergenza, su un arco temporale di medio-lungo periodo. Le attività del coordinamento e la presa in carico è ipotizzata su questo intero arco temporale, secondo lo schema che segue nella pagina successiva.
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1. Diagnosi e certificazione
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
2. Presa in carico e progetto terapeutico
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Uno sguardo al futuro: gli ostacoli da superare
In prospettiva appare strategico ad implementazioni delle funzioni del co- ordinamento socio-sanitario, un più stretto rapporto con i servizi sociali territoriali dei comuni della Provincia, al fine di garantire una continuità all’azione tera- peutica anche lungo intervalli di tempo più lunghi e per supportare le vittime nelle diverse fasi dell’integrazione sociale successive all’accoglienza dedicata e alla fase di prima autonomia. Tale continuità nel tempo si è rivelata fonda- mentale per prevenire possibili ricadute o sostenere persone senza altre reti di supporto in circostanze quali la perdita dell’occupazione o il riacutizzarsi di problemi di salute; consolidando e supportando il fragile progetto di vita rico- struito ed evitando possibili ricadute in situazioni di marginalità sociale, parti- colarmente pericolose per i rischi di re-traumatizzazione secondaria.
Gli esiti della sperimentazione in atto sono in fase di elaborazione e docu- mentazione al fine di rendere condivisibili ed eventualmente trasferibili imposta- zioni, metodi e prassi.
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capitolo quarto
L’inserimento lavorativo: uno sguardo d’insieme
L’inserimento nel mondo del lavoro riveste un ruolo molto importante nel per- corso di integrazione sociale di coloro che sono accolti nel Sistema di prote- zione; il lavoro costituisce infatti, una dimensione prioritaria, l’elemento chiave per un’integrazione sociale vera, stabile e duratura.
È indubbio che l’inserimento lavorativo dei richiedenti e dei titolari di prote- zione internazionale presenta alcune problematiche di natura sostanziale. La difficoltà linguistica, una scarsa spendibilità delle qualifiche e delle esperienze lavorative precedenti (la quota di stranieri che ha più competenze di quelle ri- chieste nel lavoro svolto è doppia rispetto ai lavoratori nazionali)10, il non rico- noscimento dei titoli di studio, la scarsa conoscenza della normativa sull’asilo da parte del contesto di inserimento, i pregiudizi, i comportamenti discrimina- tori, la difficoltà a comprendere le caratteristiche del mercato del lavoro e i ser- vizi di supporto a tale inserimento, sono solo alcune delle problematiche che i richiedenti e i titolari di protezione internazionale affrontano nel loro complesso percorso; elementi che si accompagnano a difficoltà connesse alla storia delle persone, alla fuga improvvisa, all’allontanamento forzato dal proprio paese, al distacco dal proprio ambiente, agli eventi traumatici che colpiscono i migranti forzati, all’arrivo in un paese nuovo.
Il settore “formazione professionale e inserimento lavorativo” è l’ambito per il quale sono state segnalate il maggior numero di prassi nello SPRAR.
10 Rapporto OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) - Profilo della popolazione immigrata nel 21/mo secolo", 2007.
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Questo rivela, senza dubbio, un’attenzione particolare dei progetti del Si- stema di protezione nel rafforzare e indirizzare i propri interventi verso i servizi di orientamento e accompagnamento al lavoro, al fine di attivare percorsi so- stenibili che favoriscano l’autonomia e l’uscita dallo SPRAR. Nonostante tale im- pegno, la difficoltà a trovare soluzioni lavorative idonee, soddisfacenti e definitive è stata evidenziata da molti progetti che, a seconda del contesto ter- ritoriale in cui si trovano a operare, hanno risentito in maniera più o meno rile- vante della riduzione delle opportunità lavorative.
La domanda di lavoro, infatti, si è fortemente contratta a causa della crisi economica che, iniziata alcuni anni fa, continua a manifestare i suoi effetti. In generale, i lavoratori stranieri risultano essere i più colpiti dalla crisi economica attuale: tra i primi ad essere licenziati e, nel mercato del lavoro depresso, tra gli ultimi ad essere assunti. Nonostante, infatti, una rilevante elasticità ad affron- tare il mondo lavorativo e una capacità di adattamento legata alla necessità di mantenersi senza il supporto di una rete familiare, si registra non solo un alto rischio di uscire dal mercato del lavoro, ma anche grandi ostacoli ad en- trarvi.
In questo quadro, appare chiaro come mancando l’accesso diretto al mondo lavorativo, si cerchi di realizzare esperienze formative, orientative o professionalizzanti, non costituenti rapporti di lavoro, ma finalizzate, in via esclusiva, a sostenere le scelte professionali ed a favorire l’acquisizione di com- petenze mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro.
Partendo da questa considerazione, alcuni progetti territoriali hanno lavo- rato per avviare relazioni organiche con vari enti interessati o già impegnati a vario titolo nel percorso di inserimento socio-lavorativo dei beneficiari e con aziende, andando a elaborare strategie e modelli maggiormente strutturati.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
L’esperienza del progetto della provincia di ascoli xxxxxx
Un modello per l’inserimento nel mercato del lavoro: la Formazione Pratica in Impresa
Molte sono le buone pratiche realizzate in questi ultimi anni da parte di enti pubblici e del privato sociale che hanno permesso di favorire l’inclusione socio-professionale di target ad alto rischio di esclusione.
Il modello della Formazione Pratica in Impresa è il frutto dell’esperienza con- dotta su campo dall’Associazione On the Road a partire dal 1997 per l’inse- rimento di donne vittima di tratta, e delle tante riflessioni, verifiche e discussioni che ne hanno scandito l’attuazione. Successivamente il modello è stato repli- cato da On the Road attraverso diversi progetti, ma anche ripreso in altri con- testi, da altre organizzazioni.
Il problema dell’inclusione socio-occupazionale di fasce svantaggiate e nello specifico di categorie vulnerabili (donne richiedenti e titolari di protezione internazionale) è estremamente complesso in quanto chiama in causa non solo le dinamiche del mercato del lavoro, ma anche ambiti istituzionali diversi, ele- menti culturali e ideologici, che nella loro interazione non possono prescindere da progetti più ampi di inserimento, non solo nella società locale, ma anche all’interno di programmazioni territoriali più estese. Tutta l’attività è stata con- dizionata da un complesso di criticità quali:
1. Il target group in questione (donne vittime di tratta) è contestualmente di- soccupato, disagiato, dequalificato, stigmatizzato (spesso non compa- tibile od armonizzabile con l’azienda per motivi di tenuta lavorativa, di inaffidabilità strutturale, di “fedeltà” aziendale); in molti casi con bassa scolarità, completamente estraneo a strutture di lavoro con difficoltà a confrontarsi sia con attività lavorative strutturate che con le difficoltà de- rivanti dalle relazioni interpersonali.
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx
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I Quaderni del Servizio Centrale
2. Le proposte lavorative sono spesso emergenziali, occasionali ed estem- poranee.
3. Una legislazione precaria, inadeguata, assistenziale, assente per le vul- nerabilità.
A. Mission e obiettivi
La FPI è pensata come una misura volta a facilitare l’inserimento socio-lavo- rativo di categorie vulnerabili, in forma individualizzata e diretta; essa perciò non è vista solo come possibile risorsa economica ma anche come strumento di promozione delle competenze e di identificazione delle capacità, di reale avvio individuale e collettivo di autonomia prima sociale e poi anche econo- mica.
Quindi, da un lato, il lavoro è considerato come strumento e volano per la promozione delle risorse individuali, dall’altro, il target è visto come “risorsa” e non solo come “problema sociale”.
La mission individuata è la “creazione di percorsi di autonomia personale, di formazione e di inserimento socio-lavorativo”.
Tale obiettivo richiede l’acquisizione di:
● Xxxxxx (conoscenze): conoscenza di base del funzionamento del mondo del lavoro e della realtà produttiva e del più generale contesto socio-eco- nomico;
● Saper fare (capacità e abilità operative): acquisizione della strumenta- zione attitudinale, comportamentale e tecnica di base al fine di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro e della gestione della risorsa econo- mica in maniera autonoma (l’uso di uno “stipendio” da poter gestire, da imparare a gestire);
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
● Saper essere (capacità e abilità comportamentali e attitudinali): raffor- zare l’empowerment individuale in un contesto di rete che permetta il processo di ricostruzione di sé e dei propri progetti, che è alla base del progetto migratorio.
Tale misura ha l’obiettivo dichiarato di sfociare in un rapporto di lavoro (di- pendente) con le aziende nelle quali si effettua la FPI e, in seconda istanza, gra- zie al percorso di formazione/inclusione portato a termine, nell’accresciuta possibilità di inserimento lavorativo anche in altre aziende.
B. Metodologia e azioni
La FPI12 è un modello di intervento strutturato in una serie di fasi che preve- dono lo svolgimento delle seguenti azioni:
1. Individuazione e contatto d’imprese per la creazione di una banca dati delle aziende disponibili sia alla formazione che all’inserimento diretto nel mondo del lavoro. Tale fase prevede l’individuazione e la creazione di un rap- porto di collaborazione con imprese interessate a facilitare l’inserimento lavo- rativo di soggetti svantaggiati. In tal senso, si tende da un lato a consolidare il rapporto già avviato con alcune imprese, e dall’altro ad ampliare il numero delle imprese coinvolte per garantire un più ampio ventaglio di scelta in merito ai settori, alla natura e alle dimensioni delle aziende, all’ambiente di lavoro. Ovviamente viene data la priorità a quelle imprese presso cui si profilano pos- sibilità di inserimento a FPI conclusa. Tale azione prevede quindi:
● incontri ravvicinati con reti e network imprenditoriali del territorio;
● contatti con imprese;
12 Xxxxxxx Xxxxxx, “Costruire percorsi e strumenti di inclusione socio-lavorativa” in Prostituzione e tratta – Manuale di intervento sociale, ed. Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 2002, pp. 328-343.
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I Quaderni del Servizio Centrale
● creazione banca dati ditte;
● proposta organica: convenzione, relazioni, accordi, referenzialità;
● organizzazione pratica degli inserimenti.
2. L’attività di orientamento individualizzato e di gruppo è finalizzata a ve- rificare le capacità, le attitudini, le aspirazioni e le potenzialità delle destinatarie e ad incrociarle con le disponibilità delle aziende ad effettuare percorsi forma- tivi. L’obiettivo è creare un “abbinamento mirato”13 tra le esigenze dell’azienda e le capacità e attitudini del soggetto. L’abbinamento mirato permette quindi di:
● progettare moduli formativi all’interno del progetto scegliendo tra gli in- dirizzi possibili (tempi, specificità lavorative ecc…) quelli più congrui con i profili di ingresso delle donne e con i tempi ipotizzabili per il rag- giungimento di un obiettivo formativo spendibile sul mercato del lavoro;
● verificare, al di là di una prima osservazione sommaria delle tipologie di lavoro, le effettive possibilità e condizioni di impiego;
● proporre alle donne obiettivi chiari e realistici orientandole o ri-orientan- dole verso mete possibili e praticabili.
Il colloquio individuale di sostegno psicologico e di orientamento permette di conoscere la persona in relazione ad alcuni aspetti:
● xxxxxx, interessi, aspirazioni, desideri (cosa vuole);
● capacità, competenze, attitudini e tipo di personalità (su cosa può contare);
● i vincoli personali o legati ad aspetti esterni, es. l’impossibilità a raggiun- xxxx il posto di lavoro (limiti oggettivi).
13 Xxxxx Xxxxxxx, “L’inserimento socio-occupazionale” in Kaleidos, ed. On the Road, Martinsicuro, 2002, pp. 129-175.
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Una seconda fase del colloquio è la costruzione di un Port-folio di compe- tenze che si ottiene con il bilancio competenze.
E’ con la terza fase che la tutor interagisce a livello individuale con la be- neficiaria per prepararla all’inserimento nella specifica realtà aziendale e, una volta in azienda, continuerà il monitoraggio dell’inserimento con colloqui di ve- rifica e di sostegno lungo il percorso di ingresso nel mondo produttivo e sociale.
3. Percorsi Formazione Pratica in Impresa (FPI) in cui dare la possibilità alle donne di misurarsi in contesti lavorativi “normali”, di sperimentarsi affrontando tempi, ritmi e routine del lavoro, di acquisire in sintesi la strumentazione attitu- dinale e comportamentale di base che permette l’inserimento nel mondo “oc- cidentale” del lavoro è il fine, ambizioso, della FPI. Le attività di FPI individualizzate sono flessibili e di breve periodo (1/4 mesi full-time o part- time) per consentire alle beneficiarie, che spesso sono donne sole e senza una rete di supporto per la gestione dei figli, le funzioni di cura. Essa si configura come un’attività formativa di affiancamento e di partecipazione all’azione pro- duttiva, regolata da un’apposita convenzione tra l’ente titolare del progetto e l’azienda. Vengono garantite azioni diversificate di accompagnamento nella FPI, quali il tutoraggio esterno di intermediazione e il sostegno psicologico (a cura dell’ente titolare del progetto), il tutoraggio in impresa (con l’individuazione di un dipendente dell’azienda che funga da tutor e punto di riferimento). La FPI non comporta alcun onere (compensi, contributi e assicurazione) per l’impresa stessa, qualsiasi costo per l’azienda, per la durata della formazione, è garantita dal progetto stesso. L’obiettivo finale è l’inserimento nell’organico dell’azienda della beneficiaria, garantendole l’autonomia completa.
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I Quaderni del Servizio Centrale
C. Punti di forza del modello
● Mappatura del territorio di riferimento e creazione di una banca dati aziende;
● creazione di percorsi individualizzati, attraverso la creazione di abbi- namenti mirati d’inserimento in base alle singole esigenze della benefi- ciaria e del mercato del lavoro;
● attività di orientamento individuale e di gruppo per tutte le beneficiarie;
● sostegno psicologico ex ante, in itinere ed ex post il percorso formativo;
● figure professionali di supporto (tutor d’intermediazione e tutor d’impresa);
● condurre una seria negoziazione territoriale con le imprese presenti nel contesto di svolgimento dell’azione;
● realizzare un percorso verificabile delle reali capacità e possibili poten- zialità e competenze del target;
● assicurare risorse economiche immediate per le beneficiarie;
● creare e sviluppare competenze professionali nella persona;
● creare opportunità in termini di conoscenze (conoscere e farsi cono- scere);
● permettere un’autonomia economica
● sperimentare la gestione dei propri tempi sul luogo di lavoro;
● inserirsi in un contesto di normalità lavorativa;
● accrescere l’autostima del soggetto;
● confrontarsi con altre figure: tutor d’impresa, xxxxxxxx, titolare, responsa- bile di reparto.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
La sperimentazione della FPI permette dunque di :
● offrire una reale capacità di inserimento nel mondo del lavoro “normale” per persone vulnerabili;
● condurre una seria negoziazione territoriale con le imprese presenti nel contesto di svolgimento dell’azione;
● realizzare un percorso verificabile delle reali capacità e possibili poten- zialità e competenze del target;
● assicurare una risorsa economica immediata per le beneficiarie.
D. Punti di debolezza del modello
● Mancanza di una rete attiva di aziende, imprese sociali, sindacati, as- sociazioni di categoria, ecc.
● L’abbinamento mirato è condizionato dalla disponibilità di posti di lavoro nei diversi settori produttivi o anche dalla stessa mancanza di lavoro nei territori di riferimento.
● Spesso l’abbinamento mirato è condizionato dalla scarsa disponibilità di posti di lavoro in diversi settori produttivi o anche dalla stessa man- canza di lavoro nei territori di riferimento.
Il modello presenta inoltre alcuni rischi, potrebbe infatti:
● non creare competenze professionali ma competenze funzionali esclu- sivamente all’azienda;
● dare una falsa autonomia economica in quanto il percorso formativo è a tempo e non prevede obblighi reali di assunzione;
● indurre ad una chiusura su pregiudizio/stereotipo del contesto di riferi- mento;
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I Quaderni del Servizio Centrale
● diminuire l’autostima del soggetto che non si riconosce uguale agli altri;
● creare dipendenza dalla struttura ospitante che diventa unico luogo di realizzazione.
E. L’Innovazione
Il modello della FPI ha inteso superare le logiche presenti nella ordinaria pro- grammazione e gestione di azioni ed interventi rivolti a fasce vulnerabili. Infatti, in tali Programmi persiste ancora una proposta corsuale della formazione, ge- neralizzata e priva di misure di accompagnamento e sostegno specifiche e personalizzate in grado di attivare un circuito virtuoso capace di incidere sul processo formativo della persona svantaggiata.
Con questo modello si è voluto avviare un vero e proprio percorso di inno- vazione formativa basata su una proposta individualizzata e personalizzata - rispetto al target - sviluppando altresì un processo incrementale di inclusione socio-occupazionale, garantendo alle destinatarie un reddito di inserimento vi- tale, una figura-cerniera di accompagnamento (il tutor di intermediazione) al- l’interno di una ricerca di bacini occupazionali congrui al target group svantaggiato, mixando la correlazione domanda-offerta all’interno di una stra- tegia di rete pubblico-privato (Welfare mix) in grado di supportare realmente il processo di inclusione socio-occupazionale delle fasce deboli.
Il modello della FPI altresì ha tentato di colmare il grande limite degli inter- venti agiti nei confronti delle fasce deboli ancorati a offerte ancora di tipo neo- assistenzialistiche e sintomatologiche, sviluppando al contrario azioni di valorizzazione delle reti di sostegno delle fasce deboli, intercettazione di ca- pacità e competenze proprie dei destinatari finali, canalizzazione di processi integrati di inclusione sociale.
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Lo stesso problema identificato ha permesso, infatti, di:
● fare interagire fra loro strutture e sistemi (quello del lavoro, quello della formazione e quello sanitario-sociale) che se sempre più a livello teorico dichiarano i loro intenti ad interagire nell’affrontare problematiche, che in qualche modo o misura possono essere considerate comuni, a livello pratico manifestano ancora forti segni di differenziazione, soprattutto nella impostazione degli interventi (innovazione orientata agli obiettivi);
● intervenire su sacche di emarginazione che, a livello diverso, si presen- tano con forza sui territori (innovazione orientata al contesto).
Conclusioni
Dunque, un primo livello di innovazione riguarda il miglioramento del livello di dialogo e collaborazione tra quanti si trovano ad avere un ruolo sul tema. Infatti la possibilità di fare interagire e di coniugare assieme politiche del lavoro, politiche della formazione e politiche socio-sanitarie nell’affrontare un problema comune ha caratterizzato l’elemento innovativo nella possibilità di sperimentare forme di raccordo e di cooperazione che possono caratterizzarsi anche ad un livello terri- toriale più grande, come modello di intervento innovativo nei confronti di fasce di popolazione svantaggiata considerata non più come sola costo, ma anche come risorsa per lo stesso territorio locale (innovazione orientata ai processi).
L’attivazione di Tavoli di concertazione provinciale è stata un’occasione per sperimentare una modalità di co-progettazione tra istituzioni, pubblico/privato, profit/no profit, e per coordinare gli interventi dei singoli attori attorno ad una strategia comune.
Nonostante le criticità indicate in premessa, l’alto numero di avvii di percorsi formativi effettuati in questi anni, e il consequenziale effettivo inserimento in azienda di molte delle donne che hanno usufruito di questo strumento, delinea il modello della FPI come validissimo strumento di accompagnamento/inseri-
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mento lavorativo delle beneficiarie del progetto. Inoltre il lavoro di relazione con le imprese per l’attivazione della FPI nel corso degli anni ha comportato la creazione di un rapporto di fiducia reciproca che ha facilitato anche gli inse- rimenti diretti in azienda, senza un preliminare percorso formativo, in particolare per le donne con un buon grado di preparazione di base.
D’altro canto il fine ultimo della Formazione Pratica in Impresa non è neces- sariamente quello di realizzare un effettivo inserimento lavorativo della donna nella struttura ospitante la formazione, bensì quello di far acquisire alla benefi- ciaria la strumentazione necessaria (sapere – saper essere – saper fare) per po- tersi poi sperimentare anche in altri contesti lavorativi.
In effetti, la formazione diventa ancor più efficace quando riesce a dare consapevolezza alla donna del percorso effettuato e di quale sia la sua reale inclinazione lavorativa. In questi anni infatti, non sono stati rari i casi in cui la donna, a formazione pratica conclusa (ma anche prima che la formazione ter- minasse), ha deciso di non rimanere in quel determinato settore lavorativo, per- ché ha maturata l’idea di non essere incline a quella determinata attività.
Va da sé quindi che lo strumento formativo non esaurisce le azioni possibili, per un effettivo inserimento della beneficiaria nel contesto produttivo, ma di- venta un buon punto di partenza nella costruzione del percorso socio-professio- nale della donna in programma.
In quest’ottica, la FPI prova a rispondere alle esigenze della legge n. 30 del 14 febbraio 2003 sul collocamento denominata “Riforma Biagi”. Se lo scenario che ci troviamo di fronte è quello di una riforma del mercato del lavoro che basa i suoi principi ispiratori sulla flessibilità14 del collocamento, è chiaro che gli stessi soggetti che sono coinvolti in questo processo dovranno necessariamente essere messi in grado di poter usufruire di tutti i vantaggi che la riforma auspica.
14 Flessibilità: nascono nuove forme di lavoro che rispondono, da un lato alle esigenze produttive delle aziende e, dall’altro, alla possibilità del soggetto di sperimentarsi in contesti lavorativi diversi così da aumentare le proprie potenzialità e la spendibilità sul mercato del lavoro.
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Se da un lato la riforma del collocamento mira ad un aumento dell’occupa- zione, e può rappresentare un valido strumento di sperimentazione del sog- getto, attraverso diverse forme contrattuali che la nuova legge prevede (job sharing, job on call, staff leasing, etc), dall’altro, per alcuni soggetti, rischia di aumentare la già precaria condizione lavorativa. E’ questo spesso il caso di im- migrati bisognosi di un lavoro “sicuro” e continuativo, che permetta loro di per- manere sul territorio italiano in condizioni di regolarità.
I positivi risultati raggiunti incoraggiano a pensarci come servizio, a speri- mentare nuovi settori di intervento, come ad esempio l’autoimprenditorialità, cercando anche altri interlocutori con nuove o maggiormente strutturate sinergie (es. associazioni di categoria e i centri per l’impiego).
Volendo individuare tracce di lavoro possibile possiamo proporre quattro fi- loni di intervento:
● a livello di tessuto locale. La promozione di partenariati stabili con i soggetti attivi a livello locale consente di valorizzare la vocazione na- turale delle iniziative di programmazione negoziata, facendone occa- sioni di lavoro condiviso per la promozione dello sviluppo socio-economico del territorio. Tale strategia consentirà, inoltre, di supe- rare le logiche operative d’intervento settoriali a favore di uno sviluppo integrato su base locale, di una visione complessa ed unica dei feno- meni da parte degli operatori addetti. Questo approccio favorisce, da un lato, l’innalzamento della qualità degli interventi e dall’altro lo svi- luppo di cambiamenti strutturali nei “sistemi bersaglio”.
● a livello di sistema. Favorire l’istituzione di sinergie positive fra gli attori locali chiamati ad agire in favore delle donne in situazione di grave marginalità. La complessità dell’intervento chiama in causa in primo luogo le istituzioni, chiamate a svolgere un ruolo di sensibilizza- zione dell’opinione pubblica e di coordinamento degli interventi, in se- condo luogo le forze dell’ordine, chiamate a svolgere una funzione di
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tutela nei confronti delle donne e, in terzo luogo, tutti i soggetti della so- cietà civile (cooperative, associazioni, volontariato), impegnati nel set- tore e tutti i soggetti della società imprenditoriale.
● a livello di processo. Migliorare il modello di intervento rivolto alle donne escluse socialmente, promuovendo la messa a punto di strumenti e metodi maggiormente orientati all’inserimento lavorativo. La comples- sità insita nel processo di intervento richiede una revisione complessiva del modello che prevede, da una parte, una maggiore individualizza- zione degli interventi e, dall’altra, una ulteriore flessibilità e specializza- zione, puntando a sperimentarne di nuovi e più efficaci.
● a livello di indirizzo. La partecipazione importante delle realtà pub- bliche direttamente coinvolte nei processi di lotta alla criminalità e miglio- ramento della sicurezza, da un lato garantisce un investimento in primis rispetto a figure professionali, a competenze, a funzioni istituzionali, e dall’altro promuove processi di responsabilizzazione forte delle istituzioni al fine di validare processi territoriali a valenza politica. La programma- zione locale potrà realmente attingere da questo progetto in termini di buone pratiche, di network attivato, di sperimentazioni territoriali, di una maggiore consapevolezza del fenomeno e delle conseguenze di im- patto che comporta, nell’ottica di un allargamento europeo di cui ora si comincia seriamente a discutere e che ancora poca consapevolezza lega ai suoi contenuti. Si tratterebbe in sintesi di strutturare un’azione che operi sullo sviluppo locale, sugli assetti dei territori, sugli elementi che caratterizzano il contesto locale, la vita quotidiana, i tempi e gli spazi, i gruppi sociali, lo scambio sociale e le relazioni.
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Il tirocinio informativo
Sono molti i progetti del Sistema di protezione che, nel rispetto dei principi e degli indirizzi stabiliti dalla legislazione nazionale ed in particolare delle pre- visioni dell’art.18 della L.196/97 e del regolamento attuativo D.M. 142/98, attivano tirocini formativi ad integrazione di un corso di formazione professio- nale o, più spesso, quale esperienza a sé stante, per permettere al beneficiario di avvicinarsi alla realtà lavorativa. La normativa, oltre a definire in modo pun- tuale tutti gli aspetti connessi all’attivazione di un tirocinio formativo, chiarisce che la finalità è quella “di agevolare le scelte professionali mediante la cono- scenza diretta del mondo del lavoro”15.
Per quanto riguarda la natura del tirocinio, esso si configura come rapporto trilaterale tra un ente promotore, l’azienda presso la quale si svolge il tirocinio e il tirocinante, e viene attivato sulla base di un’apposita convenzione stipulata tra il soggetto promotore e l’azienda ospitante. Il tirocinio formativo non costi- tuisce rapporto di lavoro: per questo motivo anche al richiedente protezione in- ternazionale, a cui non è consentito svolgere attività lavorativa prima che siano trascorsi sei mesi dalla presentazione della domanda di protezione internazio- nale16, è data la possibilità di avvicinarsi al mondo del lavoro in questa fase.
Questo strumento di formazione e di accesso al lavoro, tuttavia, sulla base dell’analisi dei contributi dei progetti territoriali che hanno segnalato buone prassi sull’attivazione di tirocini formativi, presenta alcune criticità.
In particolare sono state sottolineate dai progetti dello SPRAR: difficoltà nel disbrigo delle pratiche amministrative e lentezze burocratiche; scarsa disponi- bilità delle aziende a sostenere i costi del tirocinio, difficoltà a individuare
15 Art.1, D.M. 25 marzo 1998, n.142 - Regolamento recante norme di attuazione dei princìpi e dei criteri di cui all'articolo 18 della L. 24 giugno 1997, n. 196, sui tirocini formativi e di orientamento.
16 Art.11, D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 140 – “Attuazione della direttiva 2003/9/CE che sta- bilisce norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri”.
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aziende che siano realmente interessate all’inserimento lavorativo dopo il tiro- cinio (l’attuale involuzione del mercato del lavoro ha ridotto le assunzioni e au- mentato le situazioni di utilizzo del tirocinio come strumento di impiego temporaneo di manodopera a basso costo senza finalità di crescita della ri- sorsa umana), etc.
A queste problematiche se ne affiancano altre riguardanti i beneficiari: pro- blemi di alfabetizzazione e di riconoscimento dei percorsi scolastici precedenti (con conseguente impedimento ad accedere ai tirocini formativi), differenze socio-culturali tra l’Italia e i paesi d’origine, giovane età dei beneficiari, diffi- coltà linguistiche, mancanza di fiducia nei servizi offerti, richiesta di un lavoro immediato e riluttanza a “sprecare” tempo in un percorso formativo; in alcuni casi, aspettative più elevate rispetto alle reali possibilità offerte dal mercato del lavoro locale.
Accanto a tali criticità, molti sono risultati gli elementi positivi: è emerso come grazie all’attivazione dei tirocini si raggiungano importanti obiettivi quali, per quanto riguarda i beneficiari, una conoscenza diretta del mondo del la- voro, la possibilità di sperimentare/sperimentarsi e di farsi conoscere e ap- prezzare dal datore di lavoro, l’approfondimento delle conoscenze linguistiche, l’acquisizione di competenze tecnico-professionali e trasversali spendibili in altri ambiti, la possibilità di essere assunti con contratti a tempo determinato o in- determinato, etc. Oltre a questi aspetti, si evidenziano alcuni vantaggi indotti, quali un miglioramento sul benessere psicofisico della persona, un recupero delle capacità e competenze spesso perdute, dell’autostima, della propria pro- gettualità, dell’autonomia economica, qualora venga riconosciuto un rimborso spese al tirocinante.
In considerazione dei fattori positivi sopraindicati, il tirocinio formativo ri- mane uno degli strumenti maggiormente utilizzati per la formazione dai progetti territoriali dello SPRAR, che lo considerano utile al fine di realizzare un inseri- mento graduale e accompagnato al mercato del lavoro e di sostenere l’inseri- mento lavorativo.
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L’esperienza del progetto del comune di San Xxxxxx Xxxxxxxxx e del progetto del comune di Trepuzzi
Nella strutturazione del percorso di integrazione lavorativa, che viene orga- nizzata insieme ai beneficiari, abbiamo, negli anni scorsi, riscontrato un grosso problema di spendibilità delle competenze acquisite attraverso i corsi di forma- zione professionale. Da una serie di colloqui di lavoro fatti ci siamo accorti che il grosso handicap era determinato dalla mancanza di un curriculum vitae con esperienze lavorative svolte in Italia.
Quindi, a fronte di una buona preparazione ottenuta attraverso vari corsi se- guiti nelle scuole e negli istituti di formazione professionale, non si riusciva a tro- vare un lavoro che consentisse un’uscita dai progetti protetta da un inserimento lavorativo soddisfacente.
Questo fatto costringeva i beneficiari con il loro bagaglio di formazione ad andare al nord in cerca di lavoro presso aziende che offrivano lavori poco attrattivi. Molto spesso i beneficiari finivano per tornare nel nostro territorio perché, a fronte di buoni stipendi, affrontavano spese realmente ingenti in quanto ad affitti e vitto. Inoltre, lamentavano che nelle grandi città vi era poca umanizzazione e non riconoscevano il territorio come accogliente, perché il tempo passato nei progetti con i vari ac- compagnamenti sociali aveva loro dato sicurezza sul come muoversi.
Abbiamo così pensato di trovare una soluzione che andasse nel senso di immaginare procedure che consentissero ai beneficiari di rimanere sul territorio attraverso l’attivazione di tirocini formativi presso aziende locali.
Le motivazioni possono essere così sintetizzate:
1. creare i presupposti per una conoscenza reale del mondo del lavoro e della tipologia contrattuale con conseguente acquisizione di nuovi stru- menti conoscitivi e contemporaneamente far apprendere ai beneficiari concretamente l’idea di tempo-lavoro in Italia;
di Xxxx Xxxxxx
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I Quaderni del Servizio Centrale
2. creare i presupposti perché l’azienda ospitante trattenesse i beneficiari presso di sé dopo la fine del tirocinio con un contratto lavorativo a tempo determinato o indeterminato;
3. creare un buon curriculum vitae con relativa lettera di referenze con ri- ferimenti precisi all’Azienda presso cui avevano volto il tirocinio.
L’attivazione dei tirocini formativi prevede diversi steps che partono sempre e comunque da una preparazione di base che è uguale per tutti i beneficiari dei progetti SPRAR, vale a dire:
1. analisi iniziale delle competenze scolastiche e professionali;
2. corsi di alfabetizzazione e implementazione del lessico, interni al pro- getto;
3. iscrizione e frequenza a corsi di alfabetizzazione presso il Centri per l’educazione per gli adulti locale, acquisizione di diploma di scuola pri- xxxxx e eventualmente di scuola secondaria di i grado;
4. definizione di un percorso di vita attraverso colloqui con i beneficiari, gli operatori e i mediatori;
5. aggiornamento delle competenze e strutturazione di un Libretto ad hoc.
Una volta definita una piattaforma di conoscenza minima si cercano, sulla scorta di quanto sintetizzato nel libretto delle competenze individuale, una o più aziende che potrebbero inserire un dato beneficiario.
Il reperimento delle aziende ospitanti ha rappresentato una criticità; per tro- varle abbiamo attivato una serie di canali legati alle nostre conoscenze del ter- ritorio. Tutti gli operatori hanno svolto un lavoro di monitoraggio e di incontro con i responsabili di tali aziende, cercando di mettere in luce gli aspetti positivi dei tirocini. Xxxxxxx cominciato contattando delle piccole realtà locali quali imprese edili, pasticcerie, bar, saloni di bellezza dove la proposta di avere del personale
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
praticamente in maniera gratuita, disposto ad imparare un lavoro di basso profilo, dando nel contempo una presenza e un aiuto, è stata accolta con interesse.
E’ stato importante soprattutto nell’approccio iniziale dimostrare la perfetta legittimità della proposta, la serietà del progetto stesso, la disponibilità a risol- vere eventuali criticità. E’ evidente che la presenza di un progetto SPRAR in una realtà piccola ha dei vantaggi perché le persone imparano a conoscerne obiettivi e capacità gestionale, e quindi sono disponibili ad approcci di inclu- sione sociale e lavorativa. Inoltre, una volta iniziato questo tipo di percorso siamo stati più volte contattati da altre aziende che ci hanno chiesto di poter stipulare accordi di tirocinio.
Ovviamente non si tratta di pura solidarietà, ma anche di proposte strumen- tali determinate dalla possibilità di avere, anche se per poche ore, manodo- pera gratuita, ma la cosa non ci ha mai disturbato perché comunque i beneficiari acquisiscono nuove competenze, socializzano, imparano linguaggi diversi legati all’ambito in cui opera l’azienda; il territorio vede queste persone in un ambiente lavorativo e quindi diminuiscono le eventuali paure o pregiudizi.
Complessivamente possiamo affermare che il rapporto di conoscenza tra gli operatori del progetto e la realtà in cui si opera è lo strumento su cui puntare per avvicinare le aziende.
Sui beneficiari è stato fatto un lavoro di preparazione sia sul tipo di rapporto che si andava instaurando, che sui contratti di lavoro esistenti in Italia, ponendo particolare attenzione sui diritti e doveri dei lavoratori, sul tempo-lavoro, sulla normativa in tema di sicurezza, sul rispetto degli impegni.
Xxxxxxx spiegato loro che non di rapporto di lavoro contrattualizzato si trattava, ma di formazione con tutoraggio, che avrebbe permesso di acquisire nuove esperienze per il loro curriculum vitae e che qualche azienda avrebbe potuto trattenere i tirocinanti con dei contratti di lavoro.
In questo senso è andata anche la scelta delle aziende: abbiamo preferito situazioni che potessero prevedere un inserimento futuro dei beneficiari, indivi-
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I Quaderni del Servizio Centrale
duando luoghi di lavoro dove da una prima indagine conoscitiva, si delineasse la possibilità di implementare il numero degli occupati, anche in piccole aziende, dove magari il datore di lavoro aveva un problema di turn over de- terminato da altre scelte lavorative dei dipendenti.
Una volta presi gli accordi necessari su persona, orario e mansioni, abbiamo stipulato i protocolli d’intesa con l’attivazione di assicurazione a nostro carico e segnalazione dell’avvio del tirocinio da parte dell’azienda all’INAIL. Abbiamo concordato un rimborso spese per i beneficiari pari a 500,00 euro mensili.
L’azienda ha nominato un proprio tutor interno e noi abbiamo nominato un nostro tutor di progetto, il quale settimanalmente verifica le presenze, il lavoro che viene fatto svolgere, le modalità di apprendimento, l’orario di ingresso e di uscita, interessandosi anche del rimborso ai beneficiari che effettuano il tirocinio.
Il coinvolgimento delle persone in un ambiente di lavoro ben strutturato apporta una crescita determinante nello sviluppo dei processi di integrazione necessari per un reale accompagnamento all’autonomia dei soggetti in uscita dai progetti.
Inoltre, vi è stata sempre una buona crescita dell’autostima dei beneficiari quando si sono visti inseriti in un vero ambiente di lavoro e conseguentemente hanno ricercato una possibilità di inserimento lavorativo con più fiducia e con risultati sempre positivi.
Le criticità sono state nell’ordine di poche unità e determinate dall’incapacità di recepire il rispetto dell’orario di lavoro, la modularità dei tempi lavoro, le re- gole delle aziende ospitanti, ma abbiamo notato che questa negatività era le- gata soprattutto a persone che erano nei progetti da poco tempo e che non avevano avuto modo di capire ancora l’importanza dell’occasione che gli ve- niva xxxxxxxx.Xx è, poi, un risultato secondario, di importanza rilevante e legato alla possibilità di far conoscere “lo straniero” ad una serie di persone, in ma- niera diversa; nascono rapporti di amicizia, di stima, cadono pregiudizi, si abbattono muri di ignoranza e di falsità e le persone vengono trattate come tali, per quelle che fanno, per quello che dicono.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
Tutte le persone che hanno seguito questa prassi hanno di lì a poco trovato lavoro, alcuni sono rimasti e rimangono nelle aziende che li hanno ospitati per i tirocini, altri sono stati assimilati in aziende dello stesso settore, altri ancora proprio perché conosciuti in quel periodo sono stati contattati da altri tipi di im- prese locali. I riscontri sono stati positivi per un buon 90%, in termini di occupa- zione o di sviluppo di nuove capacità lavorative da spendere poi in altro ambiente di lavoro.
La crisi economica non ha influito su queste procedure perché le aziende da noi individuate o che si sono proposte sono tutte di piccole dimensioni e non hanno quindi grandi costi da sostenere in periodi di più bassi consumi; anzi, facendo parte di quella fetta di mercato legata ai locali commerciali, piccola imprenditoria, etc. non hanno subito grossi scossoni.
Attualmente stiamo cercando di ampliare la platea attraverso rapporti con aziende che lavorano nel campo delle confezioni, del ricamo, della camiceria, per poter inserire le donne dei gruppi monoparentali che abbiamo in ospitalità.
Crediamo che l’incentivazione di queste prassi sia determinante sia per poten- ziare le possibilità di inserimento lavorativo, che per far conoscere al territorio i be- neficiari dei progetti nel momento in cui vengono inseriti in normali ruoli sociali.
L’esperienza acquisita ci consente di pensare di avere ormai una platea a cui attingere per i tirocini, aziende cioè che, pur non garantendo l’assunzione, sono disponibili all’accoglienza per fare formazione e avere in cambio un aiuto che, di fatto, risulta molto apprezzato.
In futuro, crediamo che si debbano preventivare le risorse per attivarne il più possibile, cercando di fare uno sforzo che vada soprattutto nella direzione delle conoscenze che ogni operatore ha acquisito nel corso degli anni, perché di fatto è il rapporto di fiducia che si ha con le persone che determina la decisione di collaborare o meno con i nostri progetti.
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I Quaderni del Servizio Centrale
capitolo quinto
La sostenibilità dell’integrazione passa per la casa
La disponibilità di un’abitazione è condizione imprescindibile per favorire la stabilità del percorso di autonomia dei beneficiari in uscita dall’accoglienza assistita del Sistema di protezione e, in maniera assoluta, è il presupposto per la prevenzione di qualsiasi forma di esclusione sociale.
Da anni i progetti territoriali dello SPRAR individuano la ricerca delle abita- zioni come uno degli ostacoli principali per il raggiungimento dell’autonomia dai servizi dell’accoglienza. Le motivazioni di questa criticità sono molteplici. In primo luogo la poca disponibilità di alloggi, non per mancanza di immobili, ma per l’esosità del mercato degli affitti e per una sproporzione tra la domanda e l’offerta nell’accesso all’edilizia pubblica. A questo si aggiunge un ulteriore fattore economico, vale a dire la stretta correlazione tra le possibilità di man- tenere un’abitazione e la precarietà lavorativa, che – se di per sé è compo- nente destabilizzante per chiunque, cittadino italiano o migrante – per i rifugiati si accresce in quanto gli stessi sovente non hanno una rete di protezione sociale che possa supportarli nei momenti di crisi lavorativa. In ultimo una rilevata dif- fidenza da parte dei proprietari di immobili nel sottoscrivere contratti di affitto con cittadini stranieri in genere.
Il lavoro condotto negli anni da parte dei progetti territoriali dello SPRAR – talvolta in maniera, di volta in volta, creativa e spesso in maniera del tutto in- formale e destrutturata – è stato teso a trovare soluzioni che potessero, se non rimuovere, almeno aggirare gli ostacoli sopra indicati.
In questo tentativo gli sforzi si sono mossi in due direzioni: da un lato inter- venire per supportare il caso specifico nel superamento del problema contin- gente; dall’altro agire sul territorio per promuove politiche e azioni di sistema
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
che potessero affrontare in maniera complessiva il tema disagio abitativo.
Le esperienze maturate fino a oggi sono state caratterizzate da grande ete- rogeneità in termini di progettazione, attività realizzate, metodologie applicate, anche perché le variabili – da territorio a territorio – sono tante e non ancora sistematizzabili in modo tale da poterne prescindere per una individuazioni di buone prassi. Si tratta, infatti, di variabili che attengono ad aspetti molto vin- colanti per il successo dell’esperienza come le politiche sociali e sulla casa condotte dall’ente locale, le risorse del territorio, la conformazione della rete, la componente culturale delle comunità cittadine, infine lo spirito di intrapren- denza e di iniziativa degli attori che seguono la realizzazione degli interventi.
Come elemento comune tra le varie iniziative realizzate si può sicuramente evidenziare il ruolo centrale che riveste la rete di riferimento del progetto terri- toriale, nella sua composizione, nonché nelle dinamiche operative che la ca- ratterizzano. Gli operatori dello SPRAR, infatti, da sempre sottolineano come la salute dei rapporti con una serie di interlocutori privilegiati (agenzie immobiliari, associazioni o singoli proprietari di immobili, banche, fondazioni, cooperative, ecc.) sia la condizione indispensabile per accedere al mercato della casa. La gestione di tali rapporti ha, nella stragrande maggioranza dei casi, caratteri- stiche informali e molto personali, il che non ne diminuisce in sé l’efficacia, ma ne riduce la portata e la sostenibilità futura, nel momento in cui non si dovesse intervenire con una codificazione degli interventi.
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I Quaderni del Servizio Centrale
L’esperienza del progetto del comune di Pordenone
Il progetto di Agenzia Sociale per l’Abitazione “Cerco Casa” propone un servizio di mediazione sociale immobiliare e di inserimento abitativo per per- sone e famiglie in condizione di disagio abitativo.
Nel territorio della provincia di Pordenone questa esperienza è stata avviata dall’associazione Nuovi Vicini onlus tra il 2002 e il 2003 attraverso la costi- tuzione di alcuni sportelli presso gli Ambiti Socio Assistenziali della provincia.
Il progetto “Cerco Casa” ha poi sviluppato nel corso degli anni una vera e propria attività di sistema, una strategia di intervento organica e complessiva nel settore del disagio abitativo, ispirata alle esperienze di social housing pro- mosse dalle organizzazioni del terzo settore in Italia. Si tratta di un campo in- novativo nelle politiche abitative, che, di fronte alla necessità di rispondere all’eterogeneità dei bisogni e delle forme dell’abitare emergenti nella collettività, si pone l’obiettivo di offrire soluzioni sempre più diversificate al trattamento della marginalità abitativa.
Il sistema “CERCO CASA”coinvolge una rete di attori istituzionali e del pri- vato sociale: la Regione Friuli Venezia Giulia, il Comune di Pordenone, la Ca- ritas Diocesana di Concordia-Pordenone, alcuni Ambiti Socio assistenziali della provincia di Pordenone, l’associazione Nuovi Vicini onlus, la cooperativa so- ciale Abitamondo.
La finalità del sistema “CERCO CASA” è quella di facilitare l’accesso alla casa per coloro che non riescono a soddisfare autonomamente il proprio biso- gno abitativo sul mercato (per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata), cercando di rafforzare la loro condizione e intraprendendo percorsi di integrazione abitativa permanenti, attraverso l’accompagnamento sociale e il coinvolgimento diretto dei destinatari (inquilini e proprietari).
di Xxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
Il sistema “CERCO CASA” si basa su una rete di agenzie sociali per l’abi- tazione, denominate “Punto Cerco Casa”, dislocate sul territorio della provincia, che offrono a proprietari e inquilini un servizio professionale gratuito di media- zione sociale nel campo delle locazioni, attraverso: l’orientamento alle risorse abitative presenti sul territorio, l’assistenza e la consulenza in materia abitativa, il supporto all’integrazione abitativa e sociale nel tessuto territoriale locale.
I servizi offerti dall’agenzia sociale per l’abitazione Cerco Casa
Gli utenti del servizio si rivolgono al Punto Cerco Casa per chiedere assi- stenza e mediazione nella ricerca di un alloggio in locazione e, più general- mente, per poter avere informazioni riguardanti l’accesso alla proprietà, all’edilizia residenziale pubblica, ai contratti di fornitura (acqua, luce, gas). Il Punto Cerco Casa raccoglie informazioni sull’offerta abitativa, rivolgendosi al libero mercato immobiliare per trovare la soluzione alloggiativa adatta alle esi- genze degli utenti.
I SERVIZI forniti dal Punto Cerco Casa sono in sintesi i seguenti:
● Raccolta sistematica della domanda di casa (il servizio è aperto a citta- dini stranieri e italiani) e filtro della stessa mediante inserimento in un database specifico.
● Ricerca nel libero mercato di un’abitazione adatta alle esigenze del- l’utente.
● Assistenza e mediazione: dal primo contatto con possibili locatori, al- l’accompagnamento degli affittuari in tutti i passi necessari ad una cor- retta evasione delle pratiche previste e ad un corretto utilizzo dell’abitazione stessa.
● Possibilità di effettuare prestiti non onerosi per l’anticipo del deposito cauzionale attingendo ad un Fondo di Rotazione e Garanzia. Il bene- ficiario si impegna a restituire il prestito in piccole rate mensili.
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I Quaderni del Servizio Centrale
● Offerta di informazioni generali e consulenza su diritti e doveri in capo a locatori e conduttori in riferimento alla legge vigente, senza la pretesa di volersi sostituire agli enti preposti o ai professionisti del settore.
● Accompagnamento alla conduzione responsabile della casa, dall’allac- ciamento dei servizi alla manutenzione ordinaria.
● Attività di mediazione tra le parti, anche con i condomini e il vicinato.
● Prevenzione dei conflitti attraverso la composizione positiva di accordi sui singoli aspetti della relazione proprietario-inquilino.
● Monitoraggio costante sull’andamento dell’integrazione abitativa.
● Mappatura delle risorse del mercato immobiliare e di eventuali servizi pubblici connessi (con particolare attenzione all’ambito dell’edilizia re- sidenziale pubblica).
Lo sportello “Cerco Casa” si è consolidato negli anni, diventando un punto di riferimento non solo per le persone in cerca di un alloggio e per i servizi so- ciali del comune, ma anche per le agenzie immobiliari e i proprietari di abita- zioni in locazione.
Su tutto il territorio della provincia sono circa 400 le persone che ogni anno si rivolgono agli sportelli Cerco Casa per il servizio di informazione, consulenza e mediazione. Dal 2003 Xxxxx Casa ha contribuito direttamente all’inseri- mento di oltre 450 famiglie, erogando contributi per l’abitazione nella forma del microcredito non oneroso per quasi 400 mila €.
Con gran parte dei beneficiari (inquilini e proprietari) il rapporto prosegue negli anni, oltre la fase del primo ingresso nell’alloggio, attraverso la consu- lenza, la mediazione sociale, il monitoraggio della conduzione dell’immobile, la collaborazione con i servizi sociali, la gestione del rientro dei prestiti, ecc.
Grazie alla spinta progettuale del “Cerco Casa”, la Nuovi Vicini onlus, in
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
collaborazione con la rete degli interlocutori privilegiati, si pone l’obiettivo di co-progettare e realizzare azioni efficaci nell’ambito del disagio abitativo.
Per questo, accanto all’agenzia sociale per l’abitazione, ha avviato un ser- vizio di gestione di immobili a scopo sociale.
L’accesso alle strutture di accoglienza avviene su richiesta diretta dei singoli interessati o su segnalazione dei servizi sociali di riferimento.
Tra le strutture gestite vanno segnalate in particolare:
● la “Casa del Lavoratore San Xxxxxxxx” della Caritas Diocesana di Con- cordia-Pordenone, destinata all’ospitalità temporanea di lavoratori stra- nieri e italiani;
● gli alloggi del “Centro Interculturale Palazzo De Xxxxxxx-Brinis” del co- mune di Casarsa della Delizia, per l’accoglienza temporanea di singoli o famiglie;
● la struttura “Porta Naonis”, della Caritas Diocesana di Concordia-Porde- none, per l’accoglienza di cittadini stranieri.
L’agenzia sociale e i progetti Sprar:
i supporti nell’accoglienza e nell’integrazione
L’agenzia sociale collabora con i progetti del Sistema di Protezione sia sul versante dell’accoglienza che dell’integrazione. Sul versante dell’accoglienza si occupa del reperimento degli alloggi sul libero mercato e della loro gestione, svolge quindi un servizio di gestione immobiliare integrata. In particolare non solo cura i rapporti con i proprietari, la gestione delle utenze, i rapporti con i condomini, ma, attraverso visite periodiche alle strutture asservite ai progetti, ne valuta l’utilizzo ed è in grado di concordare con gli operatori dell’accoglienza azioni volte alla “formazione all’abitare” dei beneficiari dei progetti. La pre- senza di operatori esterni specializzati sgrava gli operatori dell’accoglienza
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I Quaderni del Servizio Centrale
di alcune incombenze e permette di intervenire con maggiore celerità là dove ci siano problemi nelle strutture.
L’utilizzo dell’agenzia non si limita solo all’accoglienza, ma svolge la sua funzione principale negli ultimi mesi di permanenza delle persone nel progetto attraverso varie azioni volte all’integrazione abitativa.
Gli operatori del progetto SPRAR concordano in equipe un percorso di au- tonomia abitativa sulla base della storia personale dei beneficiari, utilizzando un’apposita scheda che riassume in modo puntuale e tematico i vari passaggi dal momento della presa in carico nel progetto. Sulla base delle valutazioni del- l’equipe si sviluppa un’azione di accompagnamento e collaborazione con il servizio offerto dall’Agenzia Cerco Casa.
L’agenzia viene infatti attivata dagli operatori per la ricerca di abitazioni o di altre soluzioni (ad esempio reperimento di stanze in sub-affitto) per le famiglie e i singoli in uscita dal progetto, fornendo tutti i servizi propri dell’agenzia, compreso, là dove ci siano le condizioni, l’accesso a risorse proprie come il Fondo di Rotazione e Garanzia. Questo fondo, finanziato dalla Regione Friuli Venezia e gestito dall’associazione Nuovi Vicini e dalla Cooperativa Sociale Abitamondo, prevede l’erogazione di un microprestito non oneroso che copra fino a un massimo di tre mensilità del canone di locazione (pari generalmente alla cauzione), importo che verrà poi restituito dal beneficiario integrando quindi nuovamente il Fondo per favorire nuovi prestiti. Il Fondo si configura come risorsa aggiuntiva a quegli strumenti già messi a disposizione dal pro- getto, generalmente nella forma del contributo (contributo affitti, contributo ac- quisto mobili).
Grazie alla presenza dell’agenzia, o più propriamente di un sistema inte- grato di abitare sociale, nella fase dell’uscita dal progetto e quindi dell’integra- zione abitativa, si creano anche altre opportunità di inserimento abitativo.Nel corso di questi anni si sono sperimentate la possibilità di accesso alle strutture gestite dal Progetto “Cerco Casa”, quindi Casa del Lavoratore San Xxxxxxxx
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
e Palazzo Brinis, e la possibilità di attivare sublocazioni. L’accesso alle strutture gestite dalla Cooperativa avviene su segnalazione degli operatori del progetto, previa valutazione della cooperativa stessa, e prevede che gli oneri di acco- glienza siano a carico degli ex beneficiari Sprar. A questa forma accedono gli uomini che pur avendo trovato un lavoro fanno fatica a reperire una stanza, op- pure dove ci sia la necessità di consolidare la posizione lavorativa, evitando di far accollare all’ex beneficiario un onere fisso come può essere l’affitto di un ap- partamento. In questo caso una volta uscito dal progetto, viene inserito all’interno delle strutture pagando il contributo all’accoglienza. Si sono sperimentati anche forme di sublocazione, con contratti intestati all’associazione e successiva sublo- cazione con i beneficiari usciti dal progetto.
Potenzialità e criticità dell’iniziativa
Avere un’agenzia sociale per l’abitazione che viene coinvolta in alcune fasi del progetto di accoglienza e integrazione, significa innanzitutto avvalersi di operatori esperti in attività che altrimenti gli operatori del progetto si trovereb- bero a affrontare saltuariamente. Significa anche, nella fase dell’integrazione, abituare i beneficiari a relazionarsi con una pluralità di soggetti e anche ad au- mentare i punti di osservazioni sul percorso di accoglienza e integrazione del beneficiario. Permette inoltre, in particolar modo dove si attivi il Fondo di Ro- tazione e Garanzia, di mantenere un contatto con i beneficiari integrati sul ter- ritorio anche se non a cura degli operatori dei progetti Sprar, consentendo di valutare anche in tempi più lunghi i percorsi di integrazione.
La questione abitativa ha tuttavia delle criticità, in particolar modo quella le- gata alla presenza nel nucleo famigliare di un reddito sufficiente a consentire il pagamento delle spese di abitazione e il mantenimento della famiglia. L’agen- zia può aiutare il beneficiario in uscita a capire quali sono le concrete possi- bilità sul mercato e a valutare con lui le migliori soluzioni. Resta tuttavia il problema della difficoltà di reperimento di alloggi soprattutto per nuclei fami-
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I Quaderni del Servizio Centrale
gliari monoreddito. In questi casi l’attivazione delle reti, il coinvolgimento degli attori privati e la professionalità degli operatori può non essere sufficiente per arrivare a una soluzione soddisfacente.
In questo la sublocazione può rappresentare uno strumento utile per il rag- giungimento dell’autonomia abitativa, perché accompagna gradualmente il beneficiario in uscita dal progetto nell’inserimento abitativo e gli consente di in- staurare un rapporto positivo con il proprietario e di giungere ad un subentro del contratto di locazione. La sublocazione però risulta spesso molto onerosa per l’associazione che si accolla il rischio di eventuali mancati pagamenti del canone.
Questa tipologia di strumento è stata applicata in alcuni casi, in particolar modo famiglie, con risultati alterni. Talvolta infatti la precarietà economica della famiglia non le ha consentito di diventare completamente autonoma.
L’apporto principale dell’Agenzia è quindi quello di integrare gli strumenti già messi a disposizione dello SPRAR, con l’utilizzo di operatori professional- mente formati sul tema dell’inserimento abitativo, rappresentando, per come è stata strutturata nel nostro territorio, e grazie alla possibilità di accedere a altre risorse, un valore aggiunto per il progetto.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
capitolo sesto
Quando la rete fa la forza
Dagli anni ottanta a oggi sono state numerosissime le riflessioni e le consi- derazioni sviluppate intorno al concetto di rete. Lo stesso Sistema di protezione lo ha fatto proprio, traducendolo in funzione degli obiettivi da perseguire, con- vergenti nella (ri)conquista dell’autonomia da parte delle persone in accoglienza.
In questo senso la rete diventa strumento indispensabile per consentire al progetto territoriale di rafforzare l’approccio olistico e multidisciplinare dell’ac- coglienza: rispondere contestualmente a più bisogni di una stessa persona; ri- spondere secondo diverse competenze a un unico bisogno.
Il lavoro di rete, in cui chi ne fa parte è alleato e partecipe del progetto di accoglienza, consente di trovare soluzioni che un intervento autarchico e au- toreferenziale non consentirebbe mai. E’, infatti, nel momento in cui il gruppo degli operatori riconosce i propri limiti di intervento che la rete gioca il suo ruolo determinante, consentendo di realizzare azioni e conseguire risultati che altrimenti non sarebbero possibili.
Ogni ufficializzazione delle differenti forme di collaborazione nasce comun- que dalla capacità degli attori locali dello SPRAR di costruire e gestire reti infor- mali, fondate su rapporti e conoscenze personali. Sono numerosissimi i protocolli d’intesa e di collaborazione, le convenzioni, gli accordi di partenariato che sono nati dall’incontro umano di sensibilità e che hanno saputo rendere strutturale l’individuazione di risposte ai bisogni dei richiedenti e titolari di protezione in- ternazionale.
Le reti informali, dunque, hanno una forza propria e un valore aggiunto per- ché sono agili, facilmente e rapidamente adattabili ai cambiamenti, in virtù del
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I Quaderni del Servizio Centrale
loro essere indipendenti da qualsiasi codificazione vincolante. Se, tuttavia, è vero che le reti informali permettono di intervenire (anche in maniera veloce) per un singolo caso, nel momento in cui non trovano una loro “istituzionalizza- zione”, minano alla base la possibilità di realizzare azioni di sistema.
Solamente con una rete formale – disciplinata da regole di adesione e di collaborazione – è possibile svincolare le relazioni tra enti e servizi dalla mera sensibilità del singolo operatore e addetto, spostando la natura del rapporto dal (seppure prezioso) livello umano a una prospettiva più istituzionale e di lungo periodo.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
L’esperienza del progetto del comune di Napoli
Quando nel 2004 il Comune di Napoli, assieme all’associazione L.E.S.S. Onlus come ente gestore, entra nello SPRAR col progetto I.A.R.A. – Integrazione e Accoglienza per Rifugiati e richiedenti Asilo - il livello di conoscenza di enti e servizi del fenomeno delle migrazioni forzate sul territorio della provincia na- poletana è assolutamente insufficiente. Risulta subito evidente la necessità di strutturare una rete di servizi, enti e associazioni, che garantisca un livello di tu- tela adeguato alla crescente presenza di richiedenti asilo e rifugiati; presenza che, da un primo monitoraggio, risulta sconosciuta al territorio, almeno nelle sue dimensioni e nella sua complessità.
Distretti dell’ASL che non conoscono, e dunque negano, il diritto dei richie- denti asilo all’iscrizione al SSN; la Questura che non rinnova i permessi di sog- giorno per richiesta asilo a coloro che non dimostrano un’ospitalità effettiva, che ben pochi hanno; problema analogo per il rilascio del codice fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate; avvocati che non hanno mai approfondito la legi- slazione sull’asilo. Sono solo alcuni esempi dei primi problemi da affrontare.
L’obiettivo a medio termine è di costruire un sistema complessivo di accordi formali, che superi questo gap rispetto ad altre città italiane e sia in grado di dare risposte efficaci e disponibili per qualunque richiedente asilo si presenti ai servizi del territorio. Ma attendere i tempi necessari ad avviare questo lavoro e raccogliere i primi risultati significava lasciare indietro troppe persone biso- gnose di assistenza nell’immediato.
Da qui nasce l’esigenza della rete informale costruita nel primo periodo di attività del progetto. Incontrare il dirigente del singolo distretto dell’ASL, e dargli copia della normativa legata al rilascio dei tesserini sanitari; sensibilizzare le poche associazioni che sono, almeno occasionalmente, investite dal fenomeno
di Xxxxxxx Xxxxxx e Xxxxx Xxxxxxx
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I Quaderni del Servizio Centrale
delle migrazioni forzate sul nostro territorio, per offrire loro sostegno e consu- lenza; attivare rapporti, spesso in situazioni di emergenza, con le strutture di ac- coglienza disponibili, per venire incontro alle richieste di accoglienza che il progetto non riusciva a soddisfare; coinvolgere alcune comunità di migranti, per avviare il lavoro di monitoraggio delle presenze di migranti forzati sul territorio, in modo da avere un quadro più completo degli interventi da attivare.
La rete informale ha consentito di assistere da subito un numero dei richie- denti e titolari di protezione internazionale notevolmente più alto rispetto al pic- colo gruppo che il progetto poteva accogliere, e di dare una prima risposta alla forte domanda di tutela che emergeva dal territorio.
La rete informale, però, aveva il limite di affrontare singoli casi, o al più casi riguardanti gruppi di persone in contatto con la struttura di accoglienza esterna del progetto, o con le associazioni con cui si stringevano i primi rapporti. Re- stava dunque l’esigenza che questo embrione di rete evolvesse in una struttura capace di affrontare i problemi in maniera continuata e diffusa.
Rete formale e Rete informale
Una rete informale è estremamente efficace per la soluzione immediata di singoli casi. In una città come Napoli, attraverso la rete informale si è riusciti, a volte, ad ottenere anche ciò che non era necessariamente dovuto. Dall’altra parte, però, non sempre si riusciva ad ottenere quello che ci si sarebbe tran- quillamente aspettato, per le normative vigenti o le prassi consuetudinarie at- tuate altrove.
La rete formale è stato sempre l’obiettivo, l’approdo necessario del lavoro avviato con la rete informale, almeno in territori a grande presenza di migranti forzati come quello napoletano; avendo monitorato la presenza di qualche mi- gliaio di unità nella provincia, si è sempre cercato di fare in modo che, dal sin- golo caso affrontato e risolto, nascesse un accordo di sistema, in grado di estendere il risultato a chiunque accedesse ai servizi del territorio, che passasse o meno per le strutture di tutela del progetto.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
In definitiva la rete informale, e i singoli accordi e rapporti che così si co- struiscono, sono stati il seme di una struttura continuativa e diffusa capillarmente.
È poi grazie alla formalizzazione della rete che si riesce, inoltre, a passare dalla fase della gestione delle emergenze e del contingente alla fase della pro- gettazione di interventi futuri, in grado di dare risposte innovative per il territorio.
La costruzione della rete informale e le criticità incontrate
Uno degli snodi importanti della costruzione della rete informale sul territorio della provincia napoletana è stato il rapporto con le comunità di migranti pre- senti e strutturate sul territorio.
In questo lavoro è stato importante il rapporto che l’ente gestore L.E.S.S. Xxxxx aveva già costruito negli anni precedenti con alcune comunità di mi- granti, grazie all’impegno per i migranti a Napoli e provincia portato avanti con progetti di tutela e integrazione.
In particolare, si è cercato di mettere in rete i diversi servizi gestiti, ad esem- pio lo Sportello Immigrati della Provincia di Napoli, per creare momenti di sen- sibilizzazione degli stessi migranti sulle condizioni dei richiedenti protezione internazionale, in modo da far fronte all’isolamento degli stessi non solo dal tes- suto sociale e culturale della città, ma spesso nelle loro stesse comunità.
Un esempio è stato la costituzione della compagnia teatrale nel 2009; un’iniziativa nata da alcuni richiedenti asilo accolti dal progetto, ma che si è pensato di estendere anche ad alcune comunità meno interessate dal fenomeno delle migrazioni forzate. Inoltre, è stata coinvolta un’associazione culturale na- poletana legata al teatro Tintadirosso, che potesse fungere da collante tra i mi- granti e l’ambiente culturale della città, oltre a mettere a disposizione le strutture e le competenze professionali.
Il risultato è stato quello di superare l’intervento settoriale, che si rivolgesse solo ai migranti forzati e che parlasse solo di questo tema, e di allargare sen-
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sibilmente, allo stesso tempo, la rete di organizzazioni e singoli cittadini dispo- nibili ad impegnarsi per la tutela del diritto di asilo a Napoli.
Il coinvolgimento delle comunità di migranti nella rete di tutela dei richiedenti e titolari di protezione internazionale è, d’altra parte, un’arma a doppio taglio.
Vi sono comunità (in particolare a Napoli quelle burkinabé, ivoriana, so- mala) costituite in massima parte da richiedenti e titolari di protezione interna- zionale, che dunque sono più facilmente coinvolgibili, ed anzi sono spesso promotrici di accordi e collaborazioni.
Ma vi sono anche comunità, ad esempio quella srilankese (la seconda a Napoli), dove i richiedenti protezione internazionale – quasi sempre Tamil, ma non solo – sono visti con diffidenza, una diffidenza per la verità reciproca.
In questi casi è difficile, e forse sconsigliabile, il coinvolgimento in toto della comunità; esistono comunque settori della stessa più sensibili, che riescono a garantire quel sostegno di cui necessita non solo il singolo richiedente asilo, ma lo stesso progetto; ed è con questi settori che si è stabilita un’interlocuzione, ov- viamente in questo caso di tipo solo informale.
Il valore aggiunto della rete informale per il progetto e per il Sistema di protezione
Quello che la rete formale non riuscirà quasi mai a fare bene come la rete informale, almeno a Napoli, è la soluzione dei casi singoli più emergenziali. Una rete formale ha i suoi tempi, ha la necessità di essere avviata alla soluzione di un problema, e deve spesso rispettare equilibri particolari.
Ma se, ad esempio, arriva allo Sportello del progetto una donna incinta, o un nucleo familiare con minori senza fissa dimora, i tempi per trovare una so- luzione “formale” si scontrano con l’emergenza del momento.
È qui che la rete informale entra in gioco in maniera decisiva. L’associazione
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con il piccolo centro di accoglienza temporanea, o la comunità di migranti di- sponibile a fornire accoglienza momentanea, consentono di avere il tempo ne- cessario per mettere in campo tutti i servizi costruiti con la rete formale, e nel frattempo dare una risposta immediata alle esigenze che si presentano all’im- provviso.
È un tipo di intervento, inoltre, già diffuso in passato tra le comunità di mi- granti che risiedono a Napoli, in particolar modo nelle strutture occupate – ad esempio a Pianura - che, pur se ai limiti dell’abitabilità, sono l’unica soluzione emergenziale disponibile sul territorio in alcuni casi, purché si riesca a limitare queste forme di accoglienza temporanea al minor tempo possibile, attraverso la successiva ricerca di soluzioni più idonee.
L’incontro con una comunità straniera
Una delle nazionalità prevalenti tra i migranti accolti nei primi anni dal pro- getto di Napoli è stata quella somala. La comunità somala a Napoli conta qualche centinaio di persone, con un numero crescente di donne singole, e non era mai stata particolarmente coesa, né tantomeno strutturata.
La presenza di richiedenti protezione internazionale somali nel progetto ha fatto nascere la necessità di metterli in contatto con i loro connazionali in città, cosa che gli stessi chiedevano per lenire la mancanza degli affetti e dei legami lasciati al momento della fuga.
Inizialmente ci si è rivolti a quei contatti che la L.E.S.S. Xxxxx aveva incon- trato in attività passate, e che erano costituiti da somali impegnati in attività di volontariato a sostegno dei loro connazionali in città. Questi primi contatti sono stati utilissimi a costruire una prima rete di sostegno; nessuno meglio di chi vive da anni in un territorio, tanto più quando è così complesso come quello napo- letano, può aiutare un proprio connazionale a comprenderlo.
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Col passare del tempo il rapporto è divenuto uno scambio reciproco; se la piccola comunità somala forniva il suo supporto a sostegno dei beneficiari del progetto, il progetto aiutava la comunità somala a strutturarsi ed a costruire le prime iniziative in città.
Questo lavoro ha portato alla costituzione dell’associazione della Comunità Somala in Italia, che è divenuta un soggetto importante della rete del progetto di Napoli, con il quale ha costruito diverse iniziative pubbliche, tra le quali l’an- nuale Festa dell’Indipendenza della Somalia che ogni primo luglio conclude la campagna di sensibilizzazione “Io accolgo un Rifugiato” promossa dal pro- getto di Napoli attraverso l’ente gestore L.E.S.S. Onlus.
Gli aspetti critici della rete
La rete napoletana a sostegno dei richiedenti e titolari di protezione inter- nazionale è oggi divenuta un soggetto esteso e capace di ottenere risultati im- portanti.
Fanno parte della rete formale, a seguito del protocollo d’intesa siglato nel 2008, la Prefettura, il Comune, la Provincia, l’ASL, la L.E.S.S. Onlus.
Sono partner del progetto l’Assopace Napoli, la Comunità Palestinese della Campania, l’Associazione della Comunità Somala in Italia, e il nodo campano dell’ASGI.
La rete informale si estende a varie associazioni napoletane, ad enti del terzo settore, a sindacati, a comunità ed associazioni di migranti, come l’As- sociazione dei Rifugiati a Napoli di recente costituzione.
Aver coinvolto così tanti soggetti nella tutela del diritto di asilo a Napoli ha permesso di costruire un sistema di accoglienza e integrazione che, con tutti i suoi limiti e ancora inadeguato a dare risposte a tutte le esigenze, è comunque una straordinaria novità rispetto solo a 5 anni fa.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
Quello che manca ancora alla rete napoletana è la capacità, e la volontà, di molti di questi soggetti di affrontare in prima persona il fenomeno delle mi- grazioni forzate in provincia.
C’è a volte il rischio che molti soggetti, enti, associazioni, perfino servizi pubblici, tendano a “scaricare” i singoli casi e i singoli problemi al progetto di Napoli, e non alla rete nel suo complesso.
In pratica alcuni preferiscono ancora investire il centro della rete, piuttosto che farsi nodi attivi della stessa.
È un lavoro di sensibilizzazione e, a volte, di formazione, che ancora resta da completare.
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I Quaderni del Servizio Centrale
capitolo settimo
Il “doppio binario”
I percorsi di inserimento socio-economico previsti dallo SPRAR sono concepiti come processi a “doppio binario”, nei quali possono – e devono – trovare un ruolo da protagonista sia i richiedenti e titolari di protezione internazionale, sia le comunità locali presso le quali gli stessi scelgono di (ri)costruire la propria dimensione.
L’immagine di integrazione che ne emerge è, dunque, molto fluida, dina- mica, variabile in base alle biografie delle persone e alle realtà territoriali20. Se il rifugiato, da parte sua, troppo spesso sente su di sé una sovradimensionata re- sponsabilità all’integrazione (“Sono costretto a integrarmi”21), è necessario che di questa se ne rendano compartecipi le comunità locali, perché sono loro la reale discriminante per determinare il successo di un percorso di inserimento o il suo fallimento. Acquista, così, una posizione centrale la disponibilità della comu- nità a mettersi in gioco per conoscere più da vicino i nuovi concittadini, supe- rando le sovrastrutture preconcette circa l’altro, lo straniero, e quindi favorire una crescita della cultura dell’accoglienza. Se una comunità è in grado di accogliere (e per comunità si intende l’insieme dei cittadini, con l’amministrazione locale e le sue politiche, i servizi e le risorse del territorio), per misurare la sostenibilità di un percorso di integrazione non sarà più determinante rilevare se un rifugiato ha casa e lavoro, ma se – anche da disoccupato o sfrattato – può contare
20 Servizio centrale dello SPRAR, Rapporto annuale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Anno 2007/2008, pagg. 153 e ss.
21 Unità Psicosociale e di Integrazione Culturale dell’OIM, IntegraRef , Le filiere dell’accoglienza e dell’integrazione: esperienze, progetti, indicatori, 2007-2008.
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
su alcune opportunità quali: la possibilità di individuare un interlocutore nei ser- vizi e attraverso le risorse del territorio; la disponibilità di una propria rete sociale di riferimento; una condizione di nuovo cittadino che possa sostituire l’immagine dello straniero, fondata sull’alterità e sulla percezione di insicurezza.
Informare, sensibilizzare, promuovere una cultura dell’accoglienza
L’importanza del coinvolgimento della comunità cittadina è un concetto chiave per il Sistema di protezione e per questo negli ultimi dieci anni si è as- sistito a una graduale crescita (numerica e qualitativa) degli interventi di sensi- bilizzazione e di comunicazione. Si è trattato di iniziative spesso molto eterogenee tra di loro – per contenuti, modalità di realizzazione, dimensioni – che, tuttavia, possono collegarsi l’una all’altra con un unico filo rosso: promuo- vere la conoscenza della realtà dei rifugiati. Nelle brochure e nelle locandine informative, così come negli interventi pubblici o nelle pubblicazioni e nelle rappresentazioni teatrali messe in scena, sono sempre più ricorrenti le parole che raccontano il vissuto dei rifugiati, i frammenti delle loro complesse (e spesso inenarrabili) vicende e che ricollocano lo stereotipo artefatto e anonimo del mi- grante nella sua dimensione umana, restituendogli la dignità personale della sua storia e del suo nome.
Molte di queste iniziative fioriscono in giugno, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, altre – invece – sono dei “sempreverde” e si rincorrono durante tutto l’anno, secondo un programma strutturato di attività. Sono attività che vogliono sensibilizzare attraverso una corretta informazione e che assumono fisionomie differenti, in base alle caratteristiche di chi le promuove e dove.
Si tratta di convegni e seminari divulgativi, di spettacoli teatrali e iniziative sportive (per quanto si possa essere critici, le partite di calcio continuano a es- sere un fenomenale strumento di melting-pot!), di incontri gastronomici e cultu- rali. I progetti territoriali dello SPRAR investono tempo e inventiva nelle pubblicazioni (dalle raccolte di biografie ai rapporti sulla condizione dei rifu-
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I Quaderni del Servizio Centrale
giati, passando per le agende annuali), nella produzione di brochure informa- tive e di video, nella costruzione di eventi per e con la partecipazione diretta dei beneficiari dell’accoglienza.
Molti progetti territoriali entrano nelle scuole e incontrano i ragazzi, perché è forte la convinzione che proprio nelle generazioni più giovani risiede il po- tenziale più alto per facilitare la costruzione (o il rafforzamento) di una cultura dell’accoglienza. In molti casi sono gli stessi rifugiati a entrare nelle aule per raccontare le proprie storie e per tramandare competenze artistiche o artigianali sconosciute o desuete. Indubbiamente il lavoro condotto con le classi di studenti è quello che maggiormente gratifica, perché i risultati possono raccogliersi su- bito e l’entusiasmo di rimando è talmente forte da rendere maggiormente per- cepibile la possibilità di operare un reale cambiamento nel contesto sociale.
Il “doppio binario” della sensibilizzazione
I destinatari delle attività di sensibilizzazione sono senza dubbio coloro che ne beneficiano direttamente, rafforzando il proprio bagaglio di conoscenze e di sen- sibilità. Allo stesso tempo c’è, però, un arricchimento anche per i rifugiati che hanno contribuito alla realizzazione delle iniziative e che nel farlo hanno aggiunto un ulteriore tassello nella complicata ricostruzione del proprio progetto di vita.
La partecipazione attiva dei rifugiati all’organizzazione di eventi consente loro di riequilibrare il rapporto con gli operatori del progetto di accoglienza e con il contesto della popolazione locale. Nel primo caso la possibilità di ap- portare un contributo originale e non sostituibile all’iniziativa (nel racconto di vi- cende personali o del paese di origine, così come nel mettere a disposizione una particolare competenza o capacità) consente alla persona di poter valo- rizzare il proprio bagaglio esperienziale, riaffermando delle componenti es- senziali di sé e passando da una posizione di utente di servizi a quella di attuatore di interventi. Rispetto al lavoro condotto dal rifugiato anche l’operatore ne beneficia e per questo si ricompone un rapporto di reciprocità tra operatore
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Buone prassi dei progetti territoriali dello SPRAR
e utente, spesso falsato da una logica di assistenza, che riduce i rifugiati nella posizione subalterna di coloro che devono ricevere tutto e che non sono in grado di dare nulla, se non emozioni e umanità.
In maniera analoga, nei confronti del pubblico delle iniziative di sensibilizza- zione e informazione il rifugiato può riscattarsi dallo stereotipo in cui lo costringe l’immaginario collettivo. La dimestichezza con più lingue parlate, la conoscenza di paesi lontani, l’attitudine in una particolare arte o manualità, la condivisione di una competenza o, più semplicemente, la disarmante disponibilità a presen- tarsi in pubblico con un volto e un nome propri permettono al rifugiato di riap- propriarsi di uno spazio che la comunità locale gli riconosce, in nome di questa nuova conoscenza e a prescindere dalle immagini di dolore spettacolarizzato e di anonimato dei tanti volti che sfilano nelle sequenze di repertorio riprodotte al- l’infinito nei notiziari, quando si tratta dei temi delle migrazioni.
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Le prassi sulle attività di sensibilizzazione e di informazione - per quanto la componente territoriale sia determinante e caratterizzante anche per la loro realizzazione - sono quelle che più facilmente possono essere replicate in con- testi differenti. Perché, di fatto, in queste attività quello che più rileva è l’idea di fondo che ha ispirato l’iniziativa e che può subire un processo di astrazione tale fino a una sua completa universalizzazione (e dunque replicabilità).
Le buone prassi che si presentano partono rispettivamente da idee molto semplici: coinvolgere nella Giornata Mondiale del Rifugiato contestualmente la scuola, i rifugiati e la popolazione; riuscire a recuperare la capacità di raccon- tare e di raccontarsi attraverso il teatro. Idee semplici condivisibili praticamente da tutti i contesti territoriali dello SPRAR, alle quali, però, sono seguiti processi complessi (per i differenti attori coinvolti e per la sequenza delle attività con- dotte. Quindi complessi si, ma non complicati) che possono essere da spunto per la realizzazione di iniziative analoghe, anche là dove non sono disponibili particolari risorse economiche dedicate.
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I Quaderni del Servizio Centrale
L’esperienza del progetto del comune di Cosenza
La Compagnia delle Onde
Il Progetto Asylon-Cosenza, la città dell’accoglienza
“È nella qualità del rapporto tra operatori e beneficiari che si gioca la sfida del sistema di accoglienza”
La Compagnia delle Onde: abbiamo deciso di chiamare così l’esperienza teatrale dello SPRAR di Cosenza. Questa compagnia immaginaria nasce da un percorso di condivisione con i migranti e i rifugiati che ha portato a confrontare, nel corso degli anni, esperienze, vissuti ed emozioni tra persone provenienti da diversi contesti socioculturali.
L’esperienza è nata da una sfida precisa: quella di provare a creare un luogo fisico e simbolico nel quale ognuno di noi, operatore e/o beneficiario, mettesse in gioco il proprio ruolo, in maniera creativa.
Sappiamo quanto sia delicato il rapporto che si instaura tra beneficiari ed operatori, nel sistema di accoglienza: un tipo di relazione all’interno del quale il rischio della dipendenza è sempre dietro l’angolo.
Il confronto con i rifugiati richiede, inoltre, agli operatori sociali specifiche competenze psicologico-relazionali che consentano una attenta decodifica dei bisogni e l’individuazione di specifiche risposte e che permettano, al contempo, agli operatori di far fronte allo stress derivante dal contenimento di tali storie traumatiche. Un compito arduo, difficile da gestire emotivamente.
Dopo un colloquio con un rifugiato ci si sente male, scomodi, spesso ci si sente assaliti da un senso di urgenza di fare qualcosa e di fronte a queste sen- sazioni possiamo avere un senso di disperazione, o perché non riusciamo a capire cosa fare oppure perché sappiamo che possiamo fare poco o niente.
di Enza Papa
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Di fronte si ha un rifugiato, cioè una persona sradicata dal proprio contesto. Essere rifugiato significa essere in una condizione di liminalità, essere in uno stato nel quale l’individuo si trova sospeso tra il vecchio e il nuovo ambiente e non riuscire a sentire come proprio né l’uno né l’altro.
Da dove nasce, dunque, la necessità di proporre a persone che soffrono per la mancanza fisica di tutto ciò che riguarda i bisogni primari, un’attività lu- dica quale quella del teatro?
Nasce in primo luogo dalla consapevolezza che lavorare sui bisogni sociali dei rifugiati contribuisce in larga misura al processo di ricostruzione cognitiva ed emotiva delle capacità di adattamento della persona al nuovo contesto, oltre a ridurre i fattori esterni di stress tramite la messa in campo di risorse rela- zionali. Senza un percorso di questo tipo è difficile far funzionare l’esperienza dell’accoglienza all’interno dei nostri centri SPRAR. Un percorso non semplice da realizzare che richiede grandi capacità e professionalità.
La scelta dello strumento teatrale nasce in primo luogo dalla sua peculiare interculturalità in quanto esso è portatore di un linguaggio universale basato più sul corpo e sulle emozioni e quindi più facilmente condivisibile.
Il teatro da tempo, inoltre, ha aperto la riflessione sulla capacità di dare forma a nuove modalità di affrontare eventi drammatici come la perdita oltre che dei beni materiali soprattutto di un ruolo sociale che abbia senso nell’intrec- cio del contesto comunitario, in situazioni dove la guerra e la violenza hanno lasciato profondi xxxxxx. La risorsa più preziosa del teatro, nell’esperienza con i rifugiati è l’essere portatore di una modalità di relazione di ordine antropolo- gico prima che artistico e performativo: esso crea autonomie, empowerment, non dipendenze né spazi di evasione intermittenti ed evanescenti.
Il teatro, dunque, è un luogo privilegiato per affrontare creativamente il di- sagio che vivono le persone che sono state costrette ad abbandonare la pro- pria terra e i propri affetti. Nel teatro è possibile esprimersi, costruire socialità, dare voce e rappresentare vissuti, esperienze, desideri, speranze, paure in un
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I Quaderni del Servizio Centrale
processo di rielaborazione individuale e di condivisione emotiva.
Autorevoli conoscitori della materia sottolineano da tempo la straordinaria capacità terapeutica dello strumento teatrale; il teatro è spazio di incontro per eccellenza e presuppone un lavoro di gruppo. Inoltre il teatro per la sua stessa peculiarità, permette di lavorare in un contesto protetto anche sul piano del- l’emotività e di utilizzare canali comunicativi legati al corpo e non necessaria- mente alla parola. Gli strumenti espressivi forniti dal teatro possono aiutare a sviluppare la capacità di gestire aspetti emotivi che possono bloccare le per- sone in determinate situazioni. Il teatro si presenta come un universo composto da molteplici linguaggi, come un luogo di relazioni straordinarie ed intense e dove si attua una costante ricerca di significato dei rapporti quotidiani, a be- neficio del singolo e della collettività; soltanto cogliendo la necessità di entrare nelle emozioni, si è in grado di valutare la possibilità di una guarigione, apren- dosi ad un processo di riconoscimento di sé attraverso il confronto con l’essere collettivo. Il teatro è lo spazio-tempo dove la persona può mettersi in gioco con se stessa e con gli altri. L’aspetto della scelta, dell’azione libera, all’interno della quale non esiste alcun elemento di costrizione, è tipico del gioco. Avere voglia di giocare significa rendersi disponibili a misurarsi con se stessi e con gli altri, con le regole del gioco, con i cambiamenti che il gioco produce dentro e intorno a noi. Il gioco teatrale grazie a tutto questo permette una liberazione di emozioni e va oltre: permette all’attore e allo spettatore di prendere coscienza del gioco, del fare finta che consente di dire verità altrimenti inesprimibili.
Tutto questo e tanto altro abbiamo compreso e sperimentato nella nostra Compagnia delle onde: bisogna chiarire che, soprattutto all’inizio, non sape- vamo con precisione dove stessimo andando e che tipo di risultati saremmo mai stati in grado di ottenere, soprattutto dal momento che nessuno tra noi è un professionista del settore, ma fin dal primo momento l’entusiasmo per questa nuova sfida ha contagiato diversi operatori e beneficiari e questo ci sembrava un buon punto di partenza. Sulla base di questa tensione emotiva e creativa ci siamo buttati in questa strana avventura, leggendo qua e la, chiedendo con-
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xxxxx ad amici professionisti, provando a fare sul serio. Diciamo, per dovere di cronaca, che il responsabile del nostro progetto è anche un bravo regista, non a caso si destreggia benissimo nelle attività di coordinamento, e il suo contri- buto video è stato particolarmente importante e diciamo anche che tra noi ope- ratrici come pure tra i rifugiati coinvolti, si sono rivelati dei veri e propri talenti artistici che mai avremmo potuto sospettare.
Da queste risorse umane abbiamo iniziato a strutturare un vero e proprio la- boratorio teatrale che si è tenuto per alcuni mesi, rigorosamente durante il fine settimana, un dato da sottolineare. Sentivamo il bisogno di ricavare un mo- mento totalmente altro rispetto alle attività previste dallo sprar; un momento spe- ciale in cui incontrarci, fuori dai panni dei soccorritori e dei bisognosi, che indossavamo giornalmente, per provare a sperimentare nuove modalità relazio- nali, orizzontali e ribelli, in cui liberare finalmente lati inimmaginabili di ognuno di noi. Questo ha significato praticare in primo luogo una buona dose di au- toironia e capacità di mettere a nudo le proprie emozioni, le proprie insicu- rezze. Non è stato sempre facile, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. E’ stato possibile solo grazie allo straordinario entusiasmo di tantissime persone che hanno lavorato insieme per costruire questa esperienza.
È importante sottolineare il valore che ha avuto questa esperienza non solo per i beneficiari, ma anche per gli operatori. L’opportunità di poter giocare rapporti paritari e condividere responsabilità nella realizzazione degli spetta- coli, ha restituito nuovo senso e rivitalizzato il quotidiano ruolo di operatore fa- vorendo l’innescarsi di dinamiche virtuose nel delicato rapporto con i beneficiari. Non si è trattato semplicemente di organizzare delle attività che dessero vita a spettacoli finali con cui esibirsi davanti ad un pubblico. È stato un vero e proprio esperimento di analisi e rielaborazione dei vissuti, spesso traumatizzanti, dei rifugiati che ha condotto ad un modo nuovo di raccontarli all’esterno. Sono numerose le occasioni in cui i rifugiati prendono la parola in iniziative con le scuole o con l’associazionismo locale, per raccontare la pro- pria testimonianza, ma con il teatro esplode una magia speciale.
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Ma a questo punto è urgente spiegare meglio la genesi anche dei testi tea- trali, che sono frutto di un lavoro collettivo e condiviso. Siamo partiti inevitabil- mente dalle storie di vita dei singoli partecipanti, abbiamo focalizzato l’attenzione sui vari momenti fondamentali: la vita prima dell’esilio, il viaggio, l’impatto con il contesto di approdo. Abbiamo, così, portato avanti un lavoro di analisi delle emozioni legate alla sofferenza del distacco e all’urgenza della fuga, approfondendo il legame con la terra di origine, gli affetti lasciati, ma anche le sfide rappresentate dal nuovo, la scoperta di nuove relazioni, nuove emozioni, nuove risorse.
Parallelamente a questo tipo di lavoro, nel corso dei laboratori, si è molto ragionato sulle difficoltà del contesto di approdo, quello che investe il qui ed ora, le relazioni tra beneficiari ed operatori, tra “noi” e “loro”.
Inevitabile il riferimento alle difficoltà soprattutto linguistiche e al disorienta- mento vissuto da chi non padroneggia a perfezione una nuova lingua. Su que- sto passaggio, abbiamo approfondito anche il terreno dei pregiudizi e degli stereotipi legati a questa problematica. Abbiamo indagato i nostri atteggia- menti, specie quando parliamo con uno straniero e i meccanismi per i quali molti si rivolgono ai migranti in generale, ai rifugiati nello specifico, alzando la voce e parlando all’infinito, come se gli stranieri avessero problemi di udito e non fossero assolutamente capaci di coniugare i verbi!
Insieme abbiamo analizzato molti dei luoghi comuni e dei preconcetti che, nei nostri contesti, strutturano le relazioni con gli stranieri: gli africani hanno la musica nel sangue, sono tutti bravi ballerini, vivono in capanne, non sanno parlare. Sembrano delle esagerazioni, ma questi sono luoghi comuni che sten- tano a modificarsi, nonostante l’epoca in cui viviamo.
È stato liberatorio indossare i panni degli uni e degli altri e giocare con i propri limiti, portando all’estremo la ridicolizzazione di pratiche che discrimi- nano, spesso in maniera inconsapevole, le persone provenienti da contesti so- cioculturali differenti.
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Abbiamo scelto di utilizzare un doppio registro: uno comico, iperbolico e irriverente, con il quale giocare sulle auto rappresentazioni e sugli stereotipi e un registro drammatico, serio, con il quale trasmettere al pubblico la tragicità dei vissuti delle persone in carne ed ossa, costrette ad abbandonare tutto, gli affetti più cari e mettersi in viaggio,un viaggio costoso e rischioso, che a volte può durare anche anni, e che per molti finisce ancor prima di approdare sulle coste della civile Europa.
L’ultima spiaggia è il nostro cavallo di battaglia: una parodia semiseria del- l’Isola dei Famosi che continuiamo a rappresentare in giro per la Calabria, re- xxxxxxx ogni volta emozioni forti sia a chi si esibisce che a quanti vengono a vederci. Uno spettacolo che attraverso un intreccio di immagini, eventi, azioni, narra di un gruppo di profughi, carichi di sogni per il futuro, che, approdati sul territorio italiano, sono in attesa di conoscere il proprio destino. L’impianto nar- rativo scelto è quello dei reality shows, con la sua struttura di nominations ed eliminazioni, di commento e critica degli ospiti in studio, di prove di sopravvi- venza, in virtù della quale uno solo dei concorrenti viene eletto: un unico vinci- tore cui spetterà un premio ambito da tutti: il permesso di soggiorno. Allo spettacolo si ride amaro: un gruppo di clandestini su un’isola; il pubblico de- creterà chi può rimanere in Italia e chi invece sarà espulso. Nello studio televi- sivo, icone trash: la conduttrice isterica, la soubrette sensuale, l’intellettuale di sinistra e la deputata di destra.
Fin dal primo giorno di prove abbiamo capito che mettere in scena questo spettacolo sarebbe stato tutt’altro che duro, tutt’altro che faticoso, tutt’altro che straziante. Infatti non abbiamo fatto altro che giocare, divertirci, inventare, fan- tasticare, cambiare di continuo, perché una cosa ci piaceva più di un’altra, per- ché subito un’idea ci spingeva in un’altra direzione. Fino ad arrivare alla conclusione che molto probabilmente “l’ultima spiaggia” non sarebbe mai an- dato in scena. Dopo diversi tentennamenti e ripensamenti, momenti di crisi e di empasse, abbiamo ad un certo punto compreso invece che forse proprio questa instabilità poteva essere la forza del nostro spettacolo, lasciandoci la
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possibilità di improvvisare, di togliere ed aggiungere a seconda delle persone di volta in volta coinvolte, di scherzare, in equilibrio sul sottilissimo filo che lega l’ironia alla crudeltà del reale. Questo spettacolo sarà cambiato, aggiornato e corretto da una regia più impietosa della nostra, il cui sguardo miope continua a mettere i privilegi dell’Occidente e le sue assurde regole del gioco al centro del mondo.
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L’esperienza del progetto del comune di Lodi
La Giornata Mondiale Del Rifugiato Lodi, 20 giugno 2009
L’iniziativa
L’evento centrale della Giornata Mondiale del Rifugiato nella città di Lodi, il 20 giugno 2009, è stato la mostra La casa dov’è?, per iniziativa di Comune di Lodi, Istituto sperimentale statale “Xxxxxx Xxxxx” di Lodi, Lodi per Mostar ONLUS, SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
Il titolo, che riecheggia una canzone di Xxxxxxxxx (Voglio andare a casa / La casa dov’è?), ha voluto richiamare l’attenzione sul fatto che donne e uomini rifugiati non hanno più una casa e non hanno altra scelta, se non la fuga: un messaggio forte, in un momento in cui il clima sociale non è favorevole alle per- sone straniere, semplicemente in quanto tali.
La mostra, costituita da ventidue pannelli di grande formato, presenta volti e storie di venti rifugiati, preceduti da un pannello di apertura e da uno di in- troduzione al percorso; è dedicata, dunque, a donne e uomini, celebri e meno celebri, che hanno abbandonato per forza il proprio paese per salvare la vita e riconquistare la libertà: italiani che nel passato hanno lasciato l’Italia, stranieri che nel presente vi sono accolti, persone di ogni nazione e continente, alcune delle quali beneficiarie del progetto territoriale SPRAR denominato “Per il diritto di asilo in Lodi”. Eccole: Xxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxx, Xxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxx Xxx- xxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxx, Xxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxx- chù, Xxxx Xxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx , Xxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxx Xxxx.
di Xxxxx Xxxx
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Un’idea semplice ed efficace, realizzata grazie alla collaborazione di sog- getti differenti, ma uniti dalla stessa concezione di cittadinanza aperta.
Gli attori e il contributo della scuola
Il Comune di Lodi è una delle centoquaranta istituzione titolari di un progetto territoriale SPRAR, che ha avuto inizio nel giugno 2001, grazie alla volontà del- l’allora sindaco Xxxxxxx Xxxxxxx, nell’ambito del PNA (Programma Nazionale Xxxxx) e che è stato proseguito con determinazione dalla giunta guidata dal sindaco Xx- xxxxx Xxxxxxx, in particolare dall’assessora alle politiche sociali Xxxxxxx Xxxxxx.
Lodi per Mostar ONLUS è l’organizzazione che gestisce per conto del Co- mune di Lodi il progetto territoriale SPRAR “Per il diritto di asilo in Lodi”, che in oltre otto anni di attività ha offerto asilo e protezione a centoquarantacinque persone in fuga da persecuzioni e violenze. Alcune di queste, forse le più con- sapevoli e coraggiose, hanno scelto di testimoniare che cosa significa essere rifugiati: partecipando in passato ad azioni sceniche ed eventi teatrali, pre- stando ora il proprio volto e la propria storia alla mostra.
L’Istituto “Xxxxxx Xxxxx” è sede di un Liceo delle scienze sociali, un corso di studi innovativo istituito nel 1997: il Liceo delle scienze sociali ha infatti come finalità prima quella di formare giovani capaci di orientarsi e di convivere nella società complessa contemporanea, di essere cittadine e cittadini del mondo. Coerentemente con la sperimentazione nazionale, l’Istituto “Xxxxxx Xxxxx” di Lodi ha declinato aree di laboratorio (discipline attivate nell’ambito di ciascuna istituzione scolastica) e stage formativi (di conoscenza della realtà sociale del territorio) con attenzione alla realtà delle migrazioni e, in particolare, delle persone richiedenti asilo e rifugiate.
Nessuna sorpresa, dunque, se tra gli artefici della Giornata Mondiale del Rifugiato del 20 giugno 2009 a Lodi ha un ruolo di rilievo una classe del “Maf- feo Vegio”, l’attuale 5a A.
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Anche la scelta della classe non è casuale: le ragazze e ragazzi che la co- stituiscono hanno progettato e prodotto l’evento centrale della GMR lodigiana quale stazione di un percorso articolato e significativo. Per tre anni hanno par- tecipato al concorso non competitivo Il pane degli altri, promosso da Caritas Lodigiana, portando a compimento altrettanti progetti di ricerca e riflessione sul tema della solidarietà. Hanno effettuato stage di forte impatto conoscitivo ed emotivo: di facilitazione all’apprendimento per studenti stranieri di recente im- migrazione; di conoscenza e supporto presso il progetto territoriale SPRAR di Lodi; di conduzione di un laboratorio di scrittura presso la Casa circondariale cittadina. Con la guida di una regista, hanno allestito con cadenza annuale azioni sceniche (tutte presentate al Festival di teatro delle scuole del Lodigiano) in collaborazione con il gruppo di persone rifugiate “Asylum Seekers”, benefi- ciarie del progetto territoriale SPRAR (una di queste azioni sceniche, Voci dalla città, nel 2009 ha vinto il primo premio del concorso nazionale “I come Inter- cultura”). Si sono dimostrati capaci, soprattutto, di cogliere stimoli e occasioni, di lavorare con impegno e passione, di essere consapevoli e perciò convincenti nei confronti degli altri.
Ciascun ragazzo e ragazza della classe (venti studenti) ha scelto il “suo” ri- fugiato, uomo o donna, ne ha rintracciato la fisionomia e ripercorso la vicenda, per dargli voce e parola. In questa prospettiva, particolare significato ha assunto il dialogo e la relazione con i rifugiati del territorio, presenze vive e tangibili che hanno consentito ai giovani interlocutori di “mettersi nei panni dell’altro”.
I destinatari e le problematiche affrontate
La mostra, allestita su supporti mobili, è stata in visione per l’intera giornata del 20 giugno 2009 sotto i portici del Broletto, adiacenti la centralissima piazza della Vittoria in Lodi: un luogo aperto e di grande passaggio, in parti- colare il sabato (giorno di mercato), scelto per attrarre l’attenzione delle persone “comuni”, quelle stesse che magari, quando si parla di diritto di asilo, alzano
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le spalle, indifferenti. Il grande formato dei pannelli, lo spazio di rilievo dato alle immagini, l’enigma degli accostamenti di volti e storie in apparenza lon- tanissimi tra loro ha invece destato curiosità («Perché quella giovane orientale è posta al fianco di Xxxxxxxx Xxxxxxx?» e ancora «Cos’hanno in comune Xxxxx Xxxxxxxxx e il Dalai Lama?»).
Alcune persone, avuta notizia dell’evento dalla stampa locale o dalla rete informale delle associazioni, sono arrivate in centro appositamente per vedere la mostra; così sono venute Xxxx e Xxxxxxx, beneficiarie del progetto e prota- goniste assolute di due pannelli: la prima, ancora incredula, quando si è vista in gigantografia è scoppiata in una grande risata; la seconda, con serietà compresa, ha accompagnato l’anziana di cui si prende cura nella scoperta di un passato di persecuzione.
Altre persone, invece, sono passate per i portici assolutamente per caso. E di queste un buon numero si è fermato, ha osservato, ha chiesto: a tutte è stato distribuito materiale informativo UNHCR ed è stata fornita una breve spiega- zione dalle operatrici Lodi per Mostar e dalle studenti presenti (a scuola ormai conclusa da alcuni giorni). Non pochi visitatori se ne sono andati con una pic- cola, inattesa consapevolezza: già molto, in un tempo tanto ostile.
I volti e le storie dei rifugiati sono poi ricomparsi in città nei giorni successivi (dal 22 giugno al 5 luglio) con una modalità inedita, che non ha mancato di suscitare curiosità e sorpresa nei passanti: ovvero sui muri e per le vie della città, in forma di manifesti affissi negli spazi pubblicitari. Significativo che le ragazze e i ragazzi della 5a A abbiano dato vita a una singolare “caccia al tesoro”: tutti i manifesti (stampati in copia unica) con le donne e gli uomini rifugiati sono stati rintracciati uno per uno xxxxx xx xxxxxx xxx xxxxxx xxxxxxxxx (xxxxxxxx ec- centriche accanto agli avvisi di feste di partito o di soggiorni per anziani) e ri- gorosamente fotografati, per conservare memoria del loro passaggio.
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Il valore aggiunto
«Storie coinvolgenti e appassionanti, tristi e raccapriccianti, che suscitano rabbia e dolore, ma soprattutto che generano persone. Storie di coetanei vis- sute in modi differenti… stesso sesso, stessa età, ma con un abisso infinito tra il modo di pensare, di credere, di vivere. Allora, altro non si può se non co- struire insieme un ponte per l’incontro». Sono parole di Xxxxx, studente di 5a A, poste sul secondo pannello a conclusione della sequenza costituita dall’ar- ticolo 10 della Costituzione repubblicana e dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; parole che rappresentano in modo esemplare il valore dell’inizia- tiva: luogo d’incontro e di sinergia di realtà differenti, occasione di promozione del diritto di cittadinanza e di conoscenza del diritto di asilo, spazio di consa- pevolezza attraverso la condivisione delle emozioni.
Uno sguardo al futuro
Il clima sociale è ostile alle persone straniere. È un dato di fatto. Promuovere e realizzare un’iniziativa che abbia per protagonisti studenti italiani e persone rifugiate è dunque un investimento per il futuro: perché questi giovani parle- ranno, certo, con le proprie famiglie, con i propri amici e amiche, con la gente; racconteranno, forse, anche la propria esperienza di incontro, di ascolto, di re- sponsabilità.
Una speranza che procede a piccoli, piccolissimi passi, ma che, comun- que, è in cammino.
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