Contract
Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario
SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN : GIURISPRUDENZA INDIRIZZO: UNICO
CICLO XXV
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IL MERCATO. SERVIZI PUBBLICI, ATTIVITÀ CONTRATTUALE E TUTELA DELLA CONCORRENZA
Direttore della Scuola: Xx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxx
Supervisore: Xx.xx Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxxx
Dottorando: Xxxxxxx Xxxxxxx
A mamma e papà, sempre insieme,
il destino non ostante
Indice
Introduzione p. 1
CAPITOLO I: I MODELLI DI INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA: gli anni
dell’interventismo, le privatizzazioni, lo Stato “regolatore” e l’azione delle autorità amministrative indipendenti………………………………………………………………………. p. 8
1.1 – Breve ricostruzione storica dei rapporti tra Stato ed economia dall’unità d’Italia agli
anni ottanta del XX secolo…………………………………………………………………………. p. 8
1.1.2 – Il cambiamento del ruolo dello Stato e, in generale, della pubblica amministrazione
nell’economia. Questioni di metodo e obiettivi dell’analisi……………………………………. p. 25
1.2 – Superamento del modello interventista e privatizzazione delle imprese pubbliche…. p. 28
1.2.1 – (segue) Privatizzazioni formali e sostanziali……………………………………………. p. 31
1.2.2 - Privatizzazione formale e implicazioni in termini di sindacato contabile e riparto di giurisdizione………………………………………………………………………………………… p. 37
1.2.3 – Il diritto comunitario impone un concetto elastico di impresa pubblica. Il caso degli organismi di diritto pubblico……………………………………………………………………… p. 43
1.2.4 – Le privatizzazioni sostanziali e i poteri speciali riservati allo Stato di dubbia
compatibilità con l’ordinamento comunitario…………………………………………………… p. 51
1.2.5 – Incompatibilità tra i poteri speciali riservati all’azionista pubblico dall’art. 2449 c.c. e
l’ordinamento comunitario………………………………………………………………………… p. 63
1.3 – Le società degli enti locali e i limiti imposti alla detenzione di partecipazioni sociali. (rinvio)………………………………………………………………………………………………... p. 68
1.4 – Lo Stato regolatore e l’avvento delle autorità amministrative indipendenti…………… p. 69
1.4.1 – Il condizionamento dell’autonomia negoziale derivante dall’esercizio dei c.d. “poteri regolatori” delle autorità amministrative indipendenti…………………………………………. p. 73
1.4.2 – (segue) Analisi della natura del potere regolatorio delle autorità amministrative indipendenti, tra categorie e forme del diritto amministrativo ed effetti che incidono nel campo del diritto privato…………………………………………………………………………… p. 84
1.4.3 – Il caso dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. In particolare, il potere di accettare impegni di cui all’art. 14-ter della legge 10 ottobre 1990, n. 287, tra
discrezionalità tecnica e amministrativa p. 87
1.4.4 – L’eccesso di attività regolatoria porta ad un nuovo dirigismo nell’economia……….. p. 100
CAPITOLO II: I SERVIZI PUBBLICI TRA ESIGENZE PUBBLICISTICHE E TUTELA DELLA
CONCORRENZA………………………………………………………………………………………... p. 103
2.1 – I servizi pubblici quale settore del diritto amministrativo che intercetta esigenze di tipo privatistico. Analisi delle scelte effettuate e dei metodi adottati nello studio di questa
tematica………………………………………………………………………………………………... p. 103
2.2 – L’incerta nozione di servizio pubblico. Teoria soggettiva, teoria oggettiva e teoria funzionale…………………………………………………………………………………………….. p. 106
2.3 – Il servizio pubblico nella dimensione europea e analisi dell’art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione………………………………………………………………………..... p. 115
2.4 – (segue) Il concetto di aiuto di stato deve essere letto alla luce dell’art. 106 TFUE……… p. 132
2.5 – I servizi pubblici economici tra privatizzazione e liberalizzazione, alla luce dei parametri comunitari che spingono per una decisa apertura al mercato concorrenziale……. p. 137
2.5.1 – (segue) Le privatizzazioni: privatizzazione della titolarità e privatizzazione della gestione del servizio pubblico……………………………………………………………………… p. 139
2.5.2 – (segue) Le liberalizzazioni nel settore dei servizi pubblici. La libertà d’iniziativa economica deve comunque porsi al servizio degli utenti……………………………………….. p. 144
2.5.3 – (segue) Le condizioni necessarie per un’efficace liberalizzazione. Breve analisi del caso dei servizi a rete in tema di third party access, tariffe per l’accesso alla rete e
unbundling…………………………………………………………………………………………….. p. 151
2.6 – L’incerta liberalizzazione dei servizi pubblici locali……………………………………….. p. 160
2.7 – (segue) Xxxxx disamina delle novità introdotte in materia di gestione dei servizi pubblici locali dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e dall’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011…… p. 170
2.8 – Gli affidamenti in house e il c.d. in house “spurio”………………………………………….. p. 185
2.8.1 – Nozione di affidamento in house e ripercussioni di questa forma di gestione dei
servizi pubblici locali sull’assetto concorrenziale del mercato………………………………….. p. 185
2.8.2 – (segue) Il requisito del controllo analogo nella giurisprudenza del giudice amministrativo e analisi della figura del c.d. in house frantumato……………………………... p. 190
2.8.3 – (segue) Il requisito dell’attività prevalente………………………………………………... p. 200
2.8.4 – Il legislatore italiano esprime un netto disfavore per l’affidamento in house nell’art. 23-bis del d.l. 112 del 2008 e nell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011. Alla base di questa scelta la
volontà di dare una spinta decisiva alle liberalizzazioni p. 203
2.8.5 – L’in house spurio rappresenta una forma di gestione del servizio pubblico locale equiparabile all’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica……………………………. p. 211
2.9 – Il divieto di affidamenti ulteriori previsto a carico delle società già affidatarie in via
diretta di servizi pubblici locali…………………………………………………………………….. p. 216
2.9.1 – (segue) Gli strumenti di ingegneria societaria come mezzi per eludere i vincoli pro concorrenziali previsti dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e dall’art. 4 del d.l. n. 138 del
2011…………………………………………………………………………………………………….. p. 221
2.10 – Ulteriori limiti all’utilizzo dello strumento societario da parte dell’ente locale: dalla
legge finanziaria per il 2008 al d.l. n. 78 del 2010…………………………………………………. p. 226
2.11 – La disciplina attualmente vigente presenta lacune che possono essere colmate con l’interpretazione del diritto comunitario, in una prospettiva evolutiva………………………... p. 232
CAPITOLO III: L’ATTIVITÀ CONTRATTUALE DELLA P.A. TRA INTERESSE PUBBLICO, TUTELA
DELLA CONCORRENZA E DISCIPLINA PRIVATISTICA…………………………………………………. p. 238
3.1 – La p.a. persegue e tutela interessi propri facendo uso della capacità giuridica di diritto privato che, tuttavia, è condizionata dalla funzionalizzazione di ogni attività dell’amministrazione alla cura dell’interesse pubblico. Presentazione del campo d’indagine,
metodi e obiettivi…………………………………………………………………………………….. p. 238
3.2 – La responsabilità precontrattuale della p.a. come risposta alle esigenze di tutela dell’affidamento del terzo a fronte dell’esercizio di prerogative pubblicistiche che incidono
sull’attività negoziale………………………………………………………………………………… p. 248
3.3 – Il rapporto tra revoca degli atti di gara e responsabilità precontrattuale sotto il profilo teorico e della tutela del soggetto privato…………………………………………………………. p. 254
3.4 – Limiti al sindacato sulla discrezionalità amministrativa sottostante al provvedimento di revoca dell’aggiudicazione. Dietro l’interesse pubblicistico all’autotutela non si può
celare l’intento di eludere il principio di tassatività delle cause di recesso…………………….. p. 265
3.5 - Il rapporto tra l’annullamento dell’aggiudicazione e il contratto di appalto medio tempore stipulato…………………………………………………………………………………….. p. 273
3.5.1 – (segue) Profili sostanziali relativi alla patologia che affligge il contratto a seguito
dell’annullamento dell’aggiudicazione p. 275
3.5.2 – (segue) L’inefficacia flessibile delineata dagli artt. 121 e ss. del c.p.a. e l’ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo nel calibrare gli effetti sul contratto del venir meno dell’aggiudicazione fanno propendere per una ricostruzione pubblicistica
dell’invalidità negoziale……………………………………………………………………………... p. 289
3.6 – L’autonomia negoziale della p.a. si differenzia da quella degli operatori di mercato privati anche in ragione dell’obbligo di tutela della concorrenza. Analisi dei limiti
all’utilizzo delle procedure negoziate……………………………………………………………… p. 300
3.7 – Rischi per la tutela della concorrenza nella fase successiva all’aggiudicazione definitiva: la rinegoziazione delle condizioni contrattuali prima della stipula e l’esecuzione
del contratto non conforme all’offerta presentata dall’aggiudicatario…………………………. p. 311
Conclusioni……………………………………………………………………………………………
Bibliografia…………………………………………………………………………………………….
Abstract………………………………………………………………………………………………...
p. 320
p. 325
p. 338
Introduzione
Nel corso della storia il confine tra diritto privato e diritto pubblico è sempre stato mobile, principalmente in ragione dell’evoluzione del concetto di ordinamento giuridico. Se la concezione liberista dell’ottocento aveva cercato di separare l’intervento dello Stato nelle dinamiche di tipo economico, con l’intento di privilegiare gli equilibri propri del mercato, agli inizi del novecento si assiste alla comparsa del diritto pubblico dell’economia che sostiene, da un punto di vista teoretico, le ragioni di uno Stato nuovamente interventista. L’inevitabile conseguenza fu l’erosione di ampi margini di autonomia agli istituti di diritto privato e, in particolare, alla loro applicazione nel rinnovato e ampliato settore pubblico.
Nuove e profonde trasformazioni hanno coinvolto l’amministrazione, nelle modalità del suo essere e del suo agire, a partire dagli anni novanta del secolo scorso e da allora si continua ancor oggi ad assistere ad un progressivo ridimensionamento dell’indole autoritativa del soggetto pubblico e della sua volontà di imporsi sui rapporti giuridici piuttosto che esserne parte. La stessa ampiezza del diritto pubblico nazionale si è ridotta in conseguenza della presenza sempre più consistente dell’ordinamento comunitario che, ormai, può essere considerato parte integrante degli ordinamenti interni, in una prospettiva dinamica, non di dualismo ma di condizionamento bi-direzionale, in vista di una sempre maggiore uniformità a livello continentale.
Lo Stato ha preso coscienza dell’inadeguatezza di un modello di intervento pubblico dirigistico nell’economia, in grado di funzionare all’interno dei confini nazionali ma, di certo, inadeguato a fronte di una inesorabile globalizzazione dei mercati, preferendo, dunque, un ruolo di controllo e di regolazione. In questo senso deve essere letta la creazione
delle autorità amministrative indipendenti e lo sviluppo di processi di liberalizzazione progressiva di interi settori economici, coinvolgendo anche attività aventi una rilevanza di natura pubblicistica. È ,allora, inevitabile dover ripensare l’influenza del diritto amministrativo sul diritto privato e il ruolo che può svolgere l’amministrazione all’interno di un mercato le cui regole non possono riconoscere in capo ad alcuni dei soggetti che vi operano i privilegi di natura autoritativa che invece, da sempre, connotano l’agire dell’amministrazione in vita del perseguimento di interessi superiori e degni di una protezione particolare. Le dimensioni ormai sovranazionali dei fenomeni economici e i condizionamenti che derivano dall’essere parte dell’Unione europea obbligano l’amministrazione di ciascuno Stato membro a rispettare il mercato e, soprattutto, i suoi valori fondamentali che, in definitiva, sono i valori di una comunità che ha deciso di essere unita prima di tutto da un punto di vista economico. La concorrenza, la non discriminazione, la libertà di iniziativa economica, divengono i parametri per adeguare alle dinamiche del mercato l’intervento del soggetto pubblico, che può essere destabilizzante in una duplice prospettiva: quale soggetto che è tenuto ad offrire e garantire servizi e quale soggetto che detiene una quota di domanda di beni e servizi assai rilevante.
La ricerca vuole allora addentrarsi nell’analisi del delicato rapporto intercorrente tra l’attività della pubblica amministrazione e il libero mercato.
L’argomento, evidentemente, ha carattere trasversale e, per questo motivo, l’attenzione non è stata focalizzata su di uno specifico istituto ma, più in generale, sul ruolo della pubblica amministrazione nei vari momenti in cui lo svolgimento della funzione si intreccia con la tutela di interessi privatistici o di interessi generali quale è certamente la tutela della concorrenza nei mercati.
Volendo qui anticipare molto sinteticamente gli argomenti che sono stati presi in considerazione, si può dire che il lavoro è stato suddiviso in tre macro aree.
Nel primo capitolo mi sono soffermato sulla posizione dell’amministrazione e, in generale del soggetto pubblico, nell’economia di mercato, nella duplice veste di operatore che svolge un ruolo attivo attraverso lo strumento societario e di soggetto investito di una funzione di garanzia degli equilibri di mercato (focalizzando qui l’attenzione sulla funzione delle autorità garanti).
In primo luogo ho analizzato il fenomeno della privatizzazione delle società pubbliche, nella sua duplice configurazione di privatizzazione formale e sostanziale soffermandomi, in particolare, sulle peculiarità che contraddistinguono le nuove realtà societarie derivanti da questo processo di trasformazione rispetto alla comuni società private.
In relazione alle società derivanti dal processo di privatizzazione formale ho rilevato come la logica di tipo economico che deve ispirare la loro azione vada considerata una condizione imprescindibile sia per poter considerare queste società come dei veri operatori di mercato, in concorrenza con gli altri, sia per poter considerare la loro posizione nel mercato compatibile con i principi del diritto comunitario e anche del diritto interno, stante l’obbligo di interpretare la nuova costituzione economica in coerenza con i principi dell’Unione. Di qui la rilevata difficoltà di poter coniugare questa posizione di soggetto tenuto al rispetto della disciplina che informa il libero mercato concorrenziale con la natura di ente pubblico tout court che, ontologicamente e teleologicamente si pone al di fuori della logica – economica, privatistica e lucrativa – che informa tale disciplina.
Quanto alle società non solo formalmente, ma anche sostanzialmente privatizzate, la relativa analisi ha avuto ad oggetto principalmente i poteri
speciali di comunque può godere il soggetto pubblico all’interno della compagine societaria e che lo pongono in una posizione di netto privilegio rispetto ai soci privati in ragione della necessità di tutelare gli interessi pubblici legati all’attività svolta dalle società in questione.
Dopo aver approfondito le problematiche sottese al progressivo ritiro dello Stato dall’economia, nelle vesti di soggetto attivo, ho quindi dedicato ampio spazio al nuovo ruolo di regolatore del mercato assunto dal soggetto pubblico e al connesso fenomeno rappresentato dall’avvento delle autorità amministrative indipendenti. Al centro dell’indagine ho posto il ruolo di queste nuove figure amministrative, le ragioni della loro creazione, la neutralità della loro azione e gli ingenti poteri di cui sono state investite, dedicando una particolare attenzione all’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato.
Nel secondo capitolo mi sono concentrato sul ruolo della p.a. quale soggetto tenuto a garantire l’erogazione di servizi di interesse economico generale e, conseguentemente, l’analisi ha avuto ad oggetto la disciplina pro concorrenziale di stampo comunitario e le sue diverse declinazioni nell’ordinamento interno. Si è scelto di parlare di servizi pubblici perché rappresentano il caso forse maggiormente paradigmatico dell’intreccio e dell’interdipendenza tra interessi pubblici e privati, il cui giusto bilanciamento garantisce, da un lato, il perseguimento dei primi con il minor sacrificio per i secondi e, dall’altro, l’erogazione di prestazioni in grado di soddisfare i bisogni delle comunità di riferimento. Lo stesso concetto di servizio pubblico si colloca in una zona di confine tra il diritto pubblico e il diritto privato e lo sforzo definitorio cui è chiamato il giurista si complica ulteriormente laddove si tenga nella dovuta considerazione l’istanza comunitaria secondo cui anche nel mercato dei servizi devono essere garantite la libertà di concorrenza e la non discriminazione tra gli
operatori economici. L’intreccio tra diritto pubblico e diritto privato si fa, dunque, ancora più fitto in ragione della forza catalizzatrice immessa nell’ordinamento nazionale dal diritto dell’Unione europea.
Dopo aver inquadrato la tematica tenendo, quindi, ben presenti i principi e la giurisprudenza provenienti dall’ordinamento comunitario sono stati approfonditi i concetti di privatizzazione e liberalizzazione, cercando di affrontare il problema rappresentato dalla loro non semplice conciliabilità con l’interesse pubblico sotteso all’erogazione dei servizi.
Particolare rilievo è stato poi assegnato alla disciplina dei servizi pubblici locali dove è sensibilmente accentuata la tensione tra apertura al mercato, da un lato, e salvaguardia degli interessi pubblici sottesi ai servizi da erogare, dall’altro. Questo peculiare settore del diritto amministrativo è stato oggetto di numerose e incisive riforme nel corso degli ultimi anni. Conseguentemente, si è imposta la necessità di fare il punto sulla disciplina attualmente vigente focalizzando l’attenzione, in particolare, sulle norme e sugli istituti che maggiormente evidenziano le criticità sottese al difficile rapporto tra i vari interessi coinvolti nell’attività di gestione ed erogazione dei servizi pubblici locali.
Nel terzo capitolo l’analisi si è spostata sul ruolo dell’amministrazione quale operatore di mercato la cui attività contrattuale si caratterizza per numerosi profili di specialità rispetto alla disciplina normalmente applicabile ai rapporti tra privati. Sono stati svolti, quindi, alcuni approfondimenti in tema di responsabilità precontrattuale, sorte del contratto ad esito dell’annullamento del provvedimento prodromico di aggiudicazione e in relazione ad alcune vicende della contrattualistica pubblica che possono rappresentare un pericolo per le esigenze di tutela della concorrenza e di parità delle chances competitive dei vari soggetti privati interessati ad essere controparti negoziali della p.a..
Questo approfondimento in materia di attività contrattuale della p.a., evidentemente, non poteva e non voleva essere né una descrizione ad ampio raggio delle procedure ad evidenza pubblica, né una completa rappresentazione delle numerose problematiche interpretative che hanno per oggetto i vari istituti disciplinati dal codice dei contratti.
Ciò che si è cercato di analizzare sono fondamentalmente due tematiche strettamente connesse al ruolo dell’amministrazione nel mercato.
La prima riguarda il condizionamento dell’agere pubblicistico – ispirato da logiche di tutela dell’interesse pubblico – sugli istituti e sulla disciplina di diritto comune applicabile all’attività negoziale tra privati.
La seconda riguarda il pericolo di una possibile alterazione dell’assetto concorrenziale del mercato attraverso meccanismi elusivi delle procedure ad evidenza pubblica.
Naturalmente, consapevoli che l’analisi in questione avrebbe meritato una trattazione monografica, si son voluti prendere in considerazione solo i casi che presentano le maggiori criticità in ordine alla peculiare posizione della
p.a. nei rapporti contrattuali, ad un tempo operatore di mercato, portatrice dell’interesse pubblico e destinataria di precisi obblighi in funzione della garanzia delle libertà economiche comunitarie.
L’analisi svolta mi ha portato a concludere che per far convivere armonicamente i vari interessi che la pubblica amministrazione incontra nel suo cammino al servizio della collettività è necessario ridefinire il fondamentale concetto di interesse pubblico.
In esso devono trovare spazio il principio di tutela della concorrenza così come tutte quelle garanzie per i soggetti privati introdotte dal legislatore interno e comunitario che potrebbero apparire come un ostacolo e una limitazione all’efficace perseguimento dei fini propri dell’amministrazione che agisce quale operatore di mercato. Se, infatti, l’interesse pubblico viene
declinato in termini di interesse per tutta la collettività risulta allora più semplice e più corretto ritenere funzionali all’efficienza complessiva dell’azione amministrativa anche la disciplina pro-concorrenziale sottesa alla selezione dei partners economici della p.a. e l’introduzione di regole che impediscano alle stazioni appaltanti di sottrarsi unilateralmente ai vincoli negoziali e alle responsabilità che gravano su ogni operatore di mercato facendo uso di poteri autoritativi che assumono le sembianze di privilegi intollerabili se utilizzati per alterare l’equilibrio di rapporti paritari di diritto privato.
Specularmente, anche lo stesso diritto privato non può sottrarsi a questo cambio di rotta e, dunque, rifuggendo un’antistorica contrapposizione tra ciò che pertiene esclusivamente alla sfera pubblica e ciò che rientra esclusivamente in quella privata, anche il diritto delle società e dei contratti deve potersi declinare in modo da rappresentare “una regola posta nell’interesse di tutti”1.
1 L’espressione, che verrà richiamata anche nelle conclusioni, è tratta da X. XXXXXXXXXXXX, Diritto amministrativo e diritto privato: verso un diritto amministrativo “meno speciale” o un “diritto privato speciale”?, in Dir. amm., 1999, fasc. 1, p. 200.
CAPITOLO I: I MODELLI DI INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA: gli
anni dell’interventismo, le privatizzazioni, lo Stato “regolatore” e l’azione delle autorità amministrative indipendenti.
1.1 – Breve ricostruzione storica dei rapporti tra Stato ed economia dall’unità d’Italia agli anni ottanta del XX secolo.
In tutti i paesi lo Stato interviene nell’economia, sia pur in misura differente, per modificare l’allocazione delle risorse determinata dal mercato. Qualunque sia l’idea ispiratrice delle politiche economiche di un paese, infatti, è innegabile che l’intervento pubblico – per quanto limitato possa essere – determina una modifica dell’assetto naturale del mercato2.
Non potendo, tuttavia, approfondire con la dovuta attenzione le problematiche più schiettamente economiche sottese alle politiche interventiste di stampo keynesiano è bene limitarsi a ricostruire – sia pur con pochi tratti – come si sia sviluppato l’intervento dello Stato nell’economia del nostro paese.
Nel periodo storico immediatamente successivo all’unità d’Italia e fino al termine del XIX secolo le politiche del Regno si dimostrano in linea con il clima di crescente favore per la concezione liberista del mercato pur in presenza di alcuni importanti interventi statali volti – prevalentemente – a
2 I fattori e le situazioni che danno origine all’intervento pubblico si possono distinguere in tre grandi categorie. La prima è quella dei servizi pubblici indispensabili per la collettività che lo Stato deve (rectius: vuole) garantire. La seconda categoria vuol invece dare risposta ai c.d. fallimenti del mercato. Il funzionamento efficiente del mercato presuppone costi di transazione ridotti, un sufficiente livello di concorrenza tra gli operatori economici e adeguata informazione nei confronti degli utenti – consumatori. Quando queste condizioni non si verificano si apre la via per un intervento pubblico volto a far fronte agli squilibri (che a loro volta si traducono in inefficienze del mercato) che si sono creati. La terza categoria ha invece una funzione più propriamente redistributiva della ricchezza e dipende fondamentalmente da scelte e valutazioni politico – sociali. A questo proposito si legga X. XXXXXX, Economia e finanza pubblica, Roma, 2001, pp. 62 e xx.xx..
creare le condizioni ideali per lo sviluppo di un mercato autosufficiente. In questo senso deve interpretarsi l’intervento volto a dare una legislazione uniforme ai traffici commerciali, evitando così il permanere e lo svilupparsi di particolarismi giuridici3 che, evidentemente, costituiscono un ostacolo allo sviluppo ordinato dell’economia di un paese. Di qui l’adozione del codice civile del 1865 e del contemporaneo codice del commercio, nonché l’estensione della legislazione piemontese a tutto il territorio nazionale. Giova poi sottolineare l’importanza attribuita dalla codificazione al diritto di proprietà, considerato alla stregua di un fondamentale corollario della stessa libertà individuale. Proprietà, dunque, intesa come diritto della persona, in piena coerenza con tutte le codificazioni ottocentesche di stampo liberista che, come noto, tendevano ad escludere una presenza invasiva dello Stato che potesse frustrare l’iniziativa economica di una borghesia che ormai si era imposta come motore della crescita e dello sviluppo dell’Europa e che aveva acquisito consapevolezza del proprio ruolo e dei propri diritti4.
L’uniformità legislativa avrebbe potuto favorire lo sviluppo di un mercato unico a livello nazionale ma la presenza di un’economia ancora
3 Basti pensare che la nazione era unita solo da pochi anni, con conseguente necessità di integrare gli ordinamenti giuridici dei territori annessi al Regno di Sardegna.
4 Quale, dunque, il ruolo dello Stato secondo la prospettiva liberista? La risposta, assai famosa, viene fornita da Xxxx Xxxxx: “Secondo il sistema della perfetta libertà, il sovrano ha solo tre compiti da svolgere, tre compiti di grande importanza, in effetti, ma chiari e comprensibili per ogni comune intelletto: primo, il compito di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione delle altre società indipendenti; secondo, il compito di proteggere, per quanto è possibile, ogni membro della società dall’ingiustizia o dall’oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di stabilire un’esatta giustizia; e, terzo, il compito di erigere e conservare certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni, la cui edificazione e conservazione non possono mai essere interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, dato che il profitto non potrebbe mai rimborsarne il costo …”. Così A. XXXXX, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Isedi, Milano, 1973, p. 681.
prevalentemente agricola l’avrebbe certamente esposto ad un’inevitabile condizione di inefficienza a fronte dello sviluppo industriale già avanzato di altri stati europei5. Sorse, allora, la necessità di introdurre delle misure protettive del mercato interno che consentissero di minimizzare la scarsa competitività a livello internazionale e che, nel contempo, fungessero da volano per la crescita e lo sviluppo. Tale esigenza venne soddisfatta per mezzo delle tariffe doganali istituite nel 1872 e nel 1887 che, per loro stessa natura, ebbero l’effetto di diminuire la concorrenzialità dei prodotti stranieri e di aumentare quella interna, con conseguente penalizzazione delle nascenti iniziative economiche nel sud d’Italia. Se nelle intenzioni, infatti, l’intervento statale era diretto a favorire lo sviluppo del mercato nazionale (in un’ottica liberista applicata ad un mercato non globalizzato), la chiusura di quest’ultimo agli altri mercati ebbe, tuttavia, un effetto indotto negativo sui naturali rapporti di forza tra le economie del nord e del sud Italia, a tutto vantaggio della prima6.
Ai citati interventi dello Stato nell’economia (omogeneizzazione della normativa e introduzione di dazi doganali) si accompagnò poi un notevole impegno nella dismissione del patrimonio pubblico7, il cui scopo principale fu quello di ripianare almeno in parte il pesante disavanzo dei conti
5 Una vera industrializzazione dell’Italia si è avuta solo verso la metà del XX secolo, in concomitanza del c.d. boom economico degli anni sessanta.
6 A questo proposito si segala X. XXXXXXX, La nuova Costituzione economica, Laterza, Roma, 2008, p. 10, in cui l’eminente autore evidenzia la presenza di numerose contraddizioni. “Da un lato, vi è il bisogno di creare un mercato nazionale. Dall’altro, il mercato si sviluppa su un’economia dualistica, a due velocità […]. Il dualismo che si voleva combattere con l’unificazione legislativa viene invece, accentuato dalla protezione doganale che accompagna l’unificazione legislativa imposta dalla necessità di costituire un mercato nazionale unico”.
7 Vennero alienati beni demaniali, miniere, canali navigabili, stabilimenti termali e, non ultimi, i beni del c.d. Asse ecclesiastico per mezzo della legge 15 agosto 1867, preceduta dal regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866, con cui vennero soppressi gli Ordini e le Corporazioni religiose.
pubblici venutosi a creare a seguito della terza guerra di indipendenza ma che, nel contempo, si inserì nel più generale obiettivo di politica economica volto a creare i presupposti per l’esistenza e il fiorire di un mercato in cui lo Stato non aveva intenzione di essere un soggetto operativo8.
Tra la fine dell’ottocento e gli anni venti del secolo XIX si assiste all’inizio di un’inversione di tendenza nelle scelte di politica economica, con il progressivo abbandono del liberismo smithiano e il simmetrico aumento dell’ingerenza statuale volta ad indirizzare lo sviluppo dell’economia nazionale.
In primo luogo viene abbandonata l’idea (peraltro solo astrattamente condivisibile) secondo cui l’uniformità normativa avrebbe consentito un eguale sviluppo di tutto il paese. Emblematica, a questo proposito, è l’approvazione di una legge speciale per il risanamento urbanistico della città di Napoli (l. n. 2892 del 1885) che consentì una più equa applicazione dell’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità rispetto a quanto previsto dalla legge fondamentale n. 2359 del 18659. Non a caso si è fatto riferimento all’equità. E’ proprio l’esigenza di una correzione degli squilibri dettati dalla pura applicazione delle leggi di mercato che ha determinato un
8 Nello stesso senso deve essere intesa l’istituzione delle camere di commercio, che non erano enti pubblici ma strutture corporative dirette a garantire l’autoregolamentazione e la tutela degli interessi delle categorie produttive. In questo senso X. XXXXXXX, La nuova Costituzione economica, cit., p. 11.
9 La legge n. 2359 del 1865 prevedeva che l’indennizzo corrispondesse al giusto prezzo del bene oggetto di un’ipotetica compravendita. Considerando lo stato di degrado dei quartieri di Napoli interessati dall’opera di riqualificazione urbana (cui l’espropriazione era preordinata) l’indennizzo sarebbe stato del tutto irrisorio. Si decise così di superare la regola del giusto prezzo di mercato (di chiara ispirazione liberista) imponendo una quantificazione dell’indennizzo corrispondente alla media del valore di mercato del bene e del valore dei fitti coacervati nell’ultimo decennio. In alternativa, nel caso non fosse noto quest’ultimo valore, il secondo termine dell’operazione matematica sarebbe stato individuato nell’imponibile netto agli effetti dell’imposta dei redditi sui terreni e sui fabbricati.
sempre crescente impiego di risorse pubbliche in quei settori dell’economia (in primis quello delle opere di rilevanza pubblica) in cui la presenza o meno dell’intervento statale determina conseguenze sul piano della giustizia sociale e dell’eguaglianza sostanziale. Si comprende così l’incremento sia dei contratti tra Stato e soggetti privati aventi ad oggetto l’esecuzione di opere di rilevanza strategica per un paese sulla via dell’industrializzazione, sia degli interventi volti a implementare le reti infrastrutturali; prima fra tutte, quella ferroviaria, con il riscatto delle varie concessioni a privati gestori e l’istituzione, nel 1905, dell’Azienda delle Ferrovie dello Stato. Lo Stato decide quindi di assumere le vesti dell’imprenditore sostituendosi ad una pluralità di gestori privati con l’intento di garantire (e non semplicemente offrire, come potrebbe fare un comune imprenditore) un servizio fondamentale come quello del trasporto ferroviario. Di lì a pochi anni vennero poi istituite altre imprese pubbliche in diversi settori strategici: telecomunicazioni, credito e assicurazioni10. Il liberismo cede, dunque, definitivamente il passo ad una politica di sempre maggiore interventismo.
Tale cambiamento di prospettiva si manifesta in particolar modo con l’avvento del regime fascista, la cui politica accentratrice porta ad un vero e proprio dirigismo economico attuato sia tramite leggi di pianificazione e programmazione11, sia attraverso una riserva alla mano pubblica di
10 Il riferimento è alla costituzione dell’Impresa per la telefonia interurbana (1907), della Banca Nazionale del Lavoro (1913) e dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (1913).
11 Basti pensare, a titolo di esempio, alla legge sulla pianificazione urbanistica n. 1150 del 1942. Il diritto di proprietà viene pesantemente limitato dai vincoli della pianificazione, dando rilievo centrale allo strumento urbanistico comunale (prg); inoltre, viene disciplinata dettagliatamente l'attività privata, con una serie di norme che introducono le lottizzazioni ed i comparti edificatori (strumenti esecutivi per attuare i piani particolareggiati), la licenza edilizia per l'edificazione nei centri abitati e nelle zone di espansione, le sanzioni in caso di violazione delle norme urbanistiche.
numerose attività economiche da gestire in via diretta o tramite concessione (tra i settori maggiormente significativi ricordiamo quello della telefonia, delle radiodiffusioni e del trasporto marittimo). Nel contempo, anche in mancanza di un regime di riserva, l’esercizio di molte altre attività imprenditoriali12 venne comunque sottratto alla libera iniziativa economica degli operatori di mercato e sottoposto ad un vaglio di compatibilità con l’interesse pubblico13.
Laddove lo Stato decise di intervenire in via diretta, uno degli strumenti maggiormente efficaci si dimostrò l’istituzione di enti pubblici con compiti operativi14; enti – imprenditori investiti del ruolo di operatori di mercato ma, allo stesso tempo, soggetti pubblici con poteri derogatori rispetto al diritto comune, giustificati dalla finalità programmatoria e dirigista che portò alla loro istituzione. La caratteristica di questi soggetti era, infatti, quella di disporre di prerogative di tipo regolatorio del settore in cui operavano assieme ad altri soggetti privati. Evidente appare allora il privilegio che, con le categorie giuridiche moderne, potrebbe essere definito come un vantaggio lesivo della concorrenza. Naturalmente, però, l’idea che la concorrenza e la parità delle chances competitive degli operatori economici sia un obiettivo da perseguire e un valore sotteso alla politica economica di un paese era ben lungi dal trovare concreta applicazione.
Ulteriore conferma del ruolo di protagonista nel rilancio dell’economia nazionale interpretato dallo Stato può essere trovata nelle numerosissime partecipazioni azionarie detenute dal soggetto pubblico che, dunque, nella
12 Mi riferisco, in particolare, al settore delle imprese assicurative, a quello creditizio e al commercio, sottoposti ad un regime autorizzatorio tra il 1923 e il 1936.
13 Si parla di “passaggio da un regime di accesso libero ad uno di accesso controllato” in X. XXXXXXX, La nuova Costituzione economica, cit., p. 15.
14 Enti di questo tipo vennero istituiti nei settori della seta, del riso, dei fertilizzanti, della carta, del metano, del vino, del turismo e molti altri ancora.
veste di socio (spesso di maggioranza) era in grado di condizionare indirettamente le strategie imprenditoriali di operatori economici formalmente privati. Tale fenomeno assunse proporzioni assai maggiori nel momento in cui venne fondato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (1933), con l’obiettivo di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi mondiale iniziata nel 1929. Le banche citate erano azioniste di numerose e importanti società che svolgevano un ruolo di primo piano in diversi settori dell’economia, dai servizi pubblici alla meccanica, dalla siderurgia alla cantieristica. La pesante recessione di quegli anni portò tali aziende a chiedere sempre maggiori finanziamenti alle banche – azioniste, con conseguente aumento dell’esposizione debitoria che mise a repentaglio non solo la sopravvivenza delle società ma anche la stabilità del sistema bancario e, più in generale, dell’economia nazionale. Lo Stato decise quindi di intervenire imponendo agli azionisti delle banche e alle banche stesse la cessione delle partecipazioni azionarie in loro possesso (che potremmo definire tossiche) al nuovo Istituto (IRI) che, di fatto, si trovò a controllare sia le banche sia le società di cui queste erano azioniste. In altre parole, l’IRI divenne la prima holding pubblica del nostro paese e, per suo tramite, lo Stato assunse il controllo di larga parte di settori strategici dell’economia.
L’assetto della politica interventista, di cui si è cercato di delineare solo qualche tratto caratterizzante15, ben presto dovette confrontarsi con
15 Merita un accenno anche l’ordinamento corporativo. Tra il 1930 e il 1934 vennero istituite ventidue corporazioni, organi dello Stato cui era attribuita la funzione di collegamento fra le organizzazioni sindacali di uno stesso ramo produttivo e tra categorie d’imprese, con facoltà di emettere norme giuridiche per la disciplina della produzione e dei rapporti di lavoro. Le corporazioni formavano con i loro rappresentanti il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, organo collegiale i cui membri, insieme ai rappresentanti del Partito
l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e, in particolare, con i principi che essa sancì nella materia che ci interessa. In particolare, l’art. 41 sancisce che l’iniziativa economica è libera, mentre l’art. 42 dispone che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge. Nel contempo, però, a fronte di un espresso riconoscimento del diritto di proprietà e della libertà dell’iniziativa economica, ne vien prevista la c.d. funzionalizzazione rispetto all’utilità sociale. Di qui, come una sorta di corollario dell’immanente principio di prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, la previsione dell’art. 42, che consente l’espropriazione della proprietà per motivi di interesse generale, e quella dell’art. 43 che, come noto, consente di espropriare imprese o categorie di imprese. È fuor di dubbio che la garanzia del diritto di proprietà e il principio di libertà dell’iniziativa economica non siano in contrasto con il vincolo dettato dall’utilità sociale cui si fa cenno nella carta costituzionale. Tuttavia, è bene precisare che l’equilibrata composizione di interessi pubblici e privati che emerge dal dettato costituzionale ha determinato un vivo (e mai del tutto sopito) dibattito dottrinale in merito alla preponderanza degli uni o degli altri. L’art. 41 sembra presentare un’ambiguità di fondo che si percepisce chiaramente leggendo i tre commi che lo compongono. Il primo sancisce in modo categorico la libertà dell’iniziativa economica privata; il secondo precisa che tale libertà non può spingersi sino al punto di porsi in contrasto con l’utilità sociale (concetto, peraltro, molto vago, suscettibile di varia interpretazione, e quindi potenzialmente in grado di giustificare livelli
Nazionale Fascista, costituiva la Camera dei fasci e delle corporazioni, istituita con legge n. 129 del 1939. In sostanza, gli esponenti dei diversi rami della produzione entravano a far parte delle corporazioni e, per questa via, gli interessi delle varie categorie trovavano tutela direttamente in seno all’organo costituzionale che aveva preso il posto della Camera dei deputati. Grazie al modello corporativo, pertanto, il controllo dello Stato sull’economia nazionale avrebbe dovuto essere garantito proprio dall’assorbimento dei rappresentanti delle corporazioni nell’architettura istituzionale del paese.
anche sensibilmente diversi di libertà d’iniziativa); il terzo circoscrive ulteriormente il liberismo ispiratore del primo comma ponendo le basi per una vera e propria programmazione economica il cui scopo è quello di indirizzare e coordinare l’attività economica affinché possa perseguire finalità sociali. Come rilevato da autorevole dottrina, questo articolo sembra essere il frutto di un evidente compromesso tra l’ideologia capitalista e quella socialista16.
L’art. 42 presenta caratteristiche non dissimili dalla norma che lo precede. Il secondo comma, in particolare, dispone che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (e questa è la parte di ispirazione liberale) ma, nel contempo, quest’ultima ne determina i modi d’acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La formula usata dal costituente è tale da giustificare un’interpretazione in chiave di funzionalizzazione17: “il proprietario non può godere del bene se non nei limiti in cui tale godimento sia giustificato da un interesse generale e, viceversa, la proprietà può essere sempre compromessa quando ciò sia utile socialmente”18.
Tuttavia, se da un lato è innegabile che le citate disposizioni possano essere utilizzate per giustificare (o sostenere) una vocazione maggiormente sociale all’assetto economico nazionale, dall’altro è parimenti condivisibile
16 Così R. BIN – X. XXXXXXXXXXX, Diritto costituzionale, Torino, 2009, p. 538.
17 Il concetto di funzionalizzazione è stato utilizzato soprattutto per dare un inquadramento teorico all’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità che costituisce la limitazione più radicale del diritto di proprietà; diritto che, è bene evidenziarlo, non è stato inserito tra quelli inviolabili della persona indicati nella prima parte della Costituzione. L’interesse pubblico sotteso all’espropriazione non costituirebbe una condizione esterna preclusiva rispetto alla pienezza del diritto ma sarebbe parte rilevante del suo stesso contenuto, enfatizzandone, così, la funzione sociale. In questi termini X. XXXXXXXXXX, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, p. 838.
18 Cfr. X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, p. 213.
l’impostazione di chi in esse scorge il fondamento liberale che ispira la nuova costituzione economica. Quest’ultima posizione potrebbe sembrare in contrasto con la lettera delle norme costituzionali che abbiamo preso in considerazione, ma l’impressione è destinata a perdere consistenza se si cerca di chiarire il concetto di utilità sociale. I tre commi dell’art. 41 tentano sì di conciliare la dichiarazione di libertà dell’iniziativa economica con la qualificazione sociale dello Stato repubblicano, imperniato cioè sui valori solidaristici e sul primato della persona, tuttavia tale libertà è rimasta preservata nella sua essenza in virtù dell’esclusione di ogni forma di collettivismo19. I limiti che pur vengono richiamati, pertanto, devono intendersi quali limiti esterni, incapaci di condizionare in positivo il contenuto della libertà economica. In particolare, l’utilità sociale cui si fa riferimento al secondo comma dell’art. 41, rappresenta certamente un limite al dispiegarsi dell’iniziativa economica privata ma, dal punto di vista contenutistico, essa va ricondotta a quei valori che la Costituzione stessa protegge con norme puntuali: si pensi alla libertà personale, a quella d’espressione, di informazione, al diritto alla salute, alla tutela dell’ambiente20. Per questa via, si può dunque affermare che la libertà economica non deve necessariamente perseguire gli obiettivi di una pianificazione che subordina la realizzazione dell’interesse privato al suo
19 In questo senso X. XXXXXXXXX VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959, p. 52
20 La Corte costituzionale ha spesso giustificato i limiti apposti all’esercizio della libertà economica argomentando la loro rispondenza ai requisiti dell’utilità sociale attraverso un collegamento con altri beni costituzionalmente garantiti in modo espresso, individuandoli variamente nella tutela della donna lavoratrice (Corte cost., 14 febbraio 1969, n. 27), nel diritto al mantenimento e all’assistenza sociale (Corte cost., 27 febbraio 1969, n. 36), nella garanzia del diritto dei lavoratori al riposo settimanale (Corte cost., 5 aprile 1974, n. 111), nella tutela della salute e dell’ambiente (Corte cost., 20 maggio 1998, n. 196 e 6 giugno 2001, n. 190). Tutte le sentenze citate sono consultabili su xxx.xxxxxxxx.xxx.
conformarsi ai superiori interessi pubblici individuati dal legislatore. Se così fosse, d’altro canto, la libertà d’iniziativa economica non potrebbe nemmeno essere considerata oggetto di una situazione giuridica soggettiva pienamente tutelata dall’ordinamento ma un mero interesse legittimo. L’utilità sociale, al pari della sicurezza, la libertà e la dignità umana richiamati dalla norma, deve essere intesa quale limite negativo ed esterno rispetto alla libertà d’iniziativa economica che rimane, pertanto, un diritto costituzionalmente garantito nella sua pienezza, i cui atti d’esercizio, tuttavia, devono rispettare i principi solidaristici che informano l’ordinamento nel suo complesso21.
Aderendo a questa ricostruzione teorica è possibile, allora, emancipare il principio della libertà d’iniziativa economica dall’idea di una sua funzionalizzazione intrinseca rispetto alle ragioni di utilità sociale (positivamente intese come obiettivo necessario dell’attività economica privata). Ricostruzione che, è bene evidenziarlo sin d’ora, si è dimostrata maggiormente coerente con l’ordinamento comunitario ed i principi che questo ha posto in vista della creazione e dello sviluppo del mercato unico europeo. La libera circolazione di beni, servizi e capitali, la libertà di stabilimento e la libera concorrenza tra gli attori del mercato presuppongono, infatti, che le diverse libertà economiche possano coesistere senza subire condizionamenti che riducano le chances competitive dei vari operatori e che, in ultima analisi, possano essere esercitate in un mercato non etero-diretto a livello politico in vista del raggiungimento di interessi superiori. La funzionalizzazione dell’iniziativa economica, pertanto, sarebbe un ostacolo insormontabile per lo sviluppo di un mercato
21 In questo senso si legga F. CINTIOLI, Concorrenza istituzioni e servizio pubblico, Milano, 2010, p. 7. Lo stesso ragionamento ben si attaglia anche in riferimento al diritto di proprietà: situazione giuridica pienamente tutelata il cui godimento non è però del tutto svincolato dal rispetto di prescrizioni dettate da ragioni di utilità sociale.
europeo liberalizzato e, in quanto tale, maggiormente equo nei confronti dei soggetti che vi operano proprio perché governato da regole tecniche tendenzialmente neutrali e non determinate da scelte (campanilistiche o nazionalistiche) di politica economica riconducibili ai singoli Stati membri.
Tuttavia, prima che il diritto dell’Unione europea acquisisse una posizione centrale nella gerarchia delle fonti in virtù dei vincoli derivanti dalla ratifica dei vari trattati comunitari, la questione relativa all’interpretazione da dare agli articoli della c.d. costituzione economica non poteva certo dirsi di facile soluzione22. Da un lato il modello dello stato interventista, dall’altro un liberismo temperato dall’esigenza di salvaguardare i valori supremi garantiti dalla prima parte della Costituzione, relativi ai diritti fondamentali della persona. Vista, allora, l’ambiguità di fondo della Carta fondamentale e vista la contrapposizione politica tra il blocco socialista-comunista e quello cattolico-liberale, tra gli anni cinquanta e ottanta si imposero i concetti di costituzione economica mista e di economia amministrata.
In questo quadro economico – normativo dal carattere fluido, lo Stato si trovò dunque nella posizione di dover scegliere fin dove potesse spingersi la sua azione nel tentativo di perseguire l’obiettivo dello sviluppo economico senza, tuttavia, sacrificare la libertà dell’iniziativa privata. Un esempio della politica interventista di quegli anni può essere ravvisato nella modalità di gestione del gran numero di partecipazioni azionarie (dirette e indirette) detenute dall’IRI e dai vari Ministeri.
22 È evidente che con la ratifica dell’Atto unico europeo e del Trattato di Maastricht del 1992 l’Italia ha aderito ad un mercato europeo aperto e concorrenziale. Di qui l’esigenza di interpretare gli artt. 41 e 42 Cost. in senso conforme ad un modello economico tendenzialmente liberale, pena l’insanabile contrasto tra l’adesione dell’Italia alla Comunità europea e i principi cardine della nostra Carta costituzionale.
A seguito di un’indagine compiuta da una commissione presieduta dall’on. Xxx Xx Xxxxx sulla consistenza delle partecipazioni statali e sulla loro incidenza in settori nevralgici dell’economia nazionale, si decise di istituire un apposito Ministero23 con il compito di gestire in modo unitario, cioè sulla scorta di precisi indirizzi di politica economica, l’azionariato in mano pubblica. Tale gestione, tuttavia, si articolava su tre livelli: il Ministero forniva le linee programmatiche stabilite a livello politico e controllava diversi enti pubblici economici che, a loro volta, controllavano per mezzo delle partecipazioni azionarie le società di cui risultavano soci. Alla base della scelta di istituire il Ministero vi fu la convergenza della sinistra democristiana e della sinistra parlamentare volta ad indirizzare lo sviluppo economico del Paese creando occupazione, rilanciando zone depresse, e promuovendo attività trascurate dall'iniziativa privata. Questi obiettivi avrebbero potuto essere raggiunti grazie all’intervento dello Stato volto a sostenere determinati rami di produzione industriale, fra i quali anche quelli alimentare e farmaceutico, proteggendoli dai rischi connessi
23 Il Ministero delle partecipazioni statali venne istituito con legge 22 dicembre 1956, n. 1589. Ai sensi dell’art. 2 della legge, vennero devoluti al Ministero delle partecipazioni statali tutti i compiti e le attribuzioni spettanti al Ministero delle finanze per quanto attiene alle partecipazioni da esso gestite ed alle Aziende patrimoniali dello Stato. Al predetto Ministero vennero egualmente devoluti tutti i compiti e le attribuzioni che, secondo le disposizioni allora vigenti, spettavano al Consiglio dei Ministri, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Comitati di Ministri o a singoli Ministeri relativamente all’I.R.I., all’E.N.I. e a tutte le altre imprese con partecipazione statale diretta o indiretta. Le direttive di politica economica e i conseguenti puntuali interventi nella gestione delle partecipazioni azionarie non erano però rimesse all'esclusivo apprezzamento del Ministro delle partecipazioni statali. Questi doveva concordare l'indirizzo generale con i ministri interessati ai vari settori nei quali lo Stato era presente con proprie partecipazioni azionarie. A tale scopo venne istituito presso il Ministero il Comitato permanente per le partecipazioni statali presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e composto, oltre che dal Ministro delle Partecipazioni Statali, dai Ministri del Bilancio, del Tesoro, dell'Industria e il Commercio e del Lavoro e della Previdenza Sociale, il cui ruolo istituzionale era quello di coordinare l'azione del Ministero.
alle dinamiche del libero mercato che, per sua natura, premia chi si trova in posizione di vantaggio rispetto agli altri competitors. L’azione statale aveva, infatti, un duplice obiettivo: svincolare l'approvvigionamento di materie prime essenziali dal predominio di gruppi stranieri (che, sfruttando la loro posizione dominante avrebbero impedito alle imprese nazionali di accrescere la loro competitività) e impedire il formarsi di pericolosi monopoli privati che avrebbero acuito il differente grado di sviluppo tra il nord del paese, maggiormente sviluppato, e il sud caratterizzato da un’economia prevalentemente agricola e che non aveva ancora conosciuto una vera industrializzazione.
Lo Stato, inoltre, nel tentativo di creare i presupposti per lo sviluppo di settori dell’economia ritenuti strategici si adoperò non solo in veste di attore (diretto o indiretto) dell’economia reale a mezzo delle sue innumerevoli partecipazioni ma anche facendo uso dello strumento dei finanziamenti pubblici. La legislazione degli anni sessanta e settanta, infatti, si caratterizzò per la previsione di diverse forme di finanziamento dirette ad incentivare gli investimenti privati. Si sono così registrati interventi diretti a favorire l’ammodernamento e la riconversione dell’apparato industriale, a velocizzare la trasformazione dell’attività agricola per renderla maggiormente competitiva ed efficiente, a sostenere la ripresa economica di aree depresse o colpite da calamità naturali. Molti settori dell’economia, in altre parole, vennero fortemente sostenuti con immissione di denaro pubblico o (per altro verso) mediante risparmio di spesa da parte degli investitori privati, con l’intento di dare una spinta decisiva – e nella direzione voluta – all’economia di un paese che viveva un momento di grande crescita.
Il ruolo di primo piano assunto nell’economia nazionale con la gestione delle partecipazioni, di cui si è detto, e la previsione di finanziamenti diretti
o indiretti a sostegno degli investimenti privati sono indici rivelatori di una precisa strategia politico – economica adottata nel corso degli anni sessanta e che, comunemente, si riconduce al concetto di programmazione. In quegli anni vi fu una sostanziale convergenza delle forze politiche nel sostenere l’idea che lo Stato dovesse farsi carico di indirizzare e sostenere la crescita economica verso “finalità sociali” ma, almeno inizialmente, non vi era accordo circa il modo di perseguire tale obiettivo24. Il dibattito, evidentemente, era legato alla questione se l’art. 41 Cost. imponesse un modello economico dirigistico, oppure se i limiti da esso posti, pur lasciando ampi spazi al legislatore, escludessero ogni forma di pianificazione economica. La tesi più corretta, che poi prevalse, sembrò la seconda, anche perché l’art. 41 Cost. utilizzava il termine «programmi», in luogo di «piani», mostrando, perciò, di preferire una programmazione meramente indicativa e per incentivi. Va detto, comunque, che, pur non essendo mancati programmi a livello settoriale, è fallito l’unico tentativo, operato con la legge n. 685 del 1967, di introdurre una forma di programmazione economica globale25. Troppe, infatti, sono le variabili che complessivamente determinano il successo o l’insuccesso di un programma economico pluriennale. Basti pensare che, in sede di elaborazione, qualunque legge di programmazione si basa su dati destinati ad un
24 L’esigenza di ricorrere alla programmazione economica cominciò a sorgere nel corso degli anni cinquanta, gli anni del cosiddetto “miracolo economico”. Tale “miracolo”, che consisteva in uno sviluppo molto rapido dell'economia del paese, mise anche a nudo, nel suo divenire, squilibri economici e sociali che la classe politica cominciò a giudicare non tollerabili: ad esempio lo squilibrio crescente tra livello di vita della popolazione del mezzogiorno rispetto a quello del centro-nord; oppure la differenza di redditi tra lavoratori dell'agricoltura e quelli dell'industria.
25 La legge n. 685 del 1967, sotto il profilo contenutistico, si dimostrò (fin troppo) ambiziosa perché teneva conto, nell’attività di calcolo ricostruttivo e revisionale, dell’intera economia italiana (così M. S. XXXXXXXX, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995, p. 287).
rapidissimo invecchiamento e, in sede di attuazione, è molto difficile che le misure di politica economica prefigurate siano sufficienti per fare in modo che gli investimenti vengano effettuati nelle quantità, nei modi e nei tempi voluti. D’altro canto, in un'economia di mercato l'iniziativa economica privata è e non può essere che libera e, come tale, suscettibile di estrinsecarsi in modi e in direzioni difficilmente prevedibili, data la moltitudine di centri decisionali che la caratterizza. Se, tuttavia, il tentativo di dare vita ad una programmazione globale non ebbe il successo sperato, non si può negare che vari programmi settoriali (quello elettrico e quello dell’industria chimica, ad esempio) diedero buona prova di sé ed ebbero un peso non trascurabile nello sviluppo dell’economia nazionale.
Assieme alla politica di programmazione a partire dagli anni sessanta videro la luce le c.d. istituzioni del benessere; interventi pubblici diretti non tanto ad indirizzare l’economia privata verso fini sociali (compito precipuo della programmazione) quanto piuttosto a dare attuazione al principio di eguaglianza sostanziale garantendo un elevato livello delle prestazioni sociali (welfare state). Nel 1962 venne istituita la scuola media come scuola dell’obbligo, nel 1978 venne istituito il servizio sanitario nazionale, nel 1974 si introdusse la pensione sociale e al 1975 risale la principale riforma della Cassa integrazione guadagni. Queste innovazioni rappresentano, a ben vedere l’attuazione (conforme al concetto di uguaglianza sostanziale) di alcuni dei principi sanciti in Costituzione a tutela della persona e della sua dignità. L’art. 34 prevede, infatti, l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione inferiore per almeno otto anni, l’art. 32 assicura il diritto del cittadino alla salute (inteso come diritto alle cure, alla prevenzione e anche alla tutela dell’ambiente), l’art. 38 prevede che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Lo Stato, in altre parole, assunto il
ruolo di imprenditore sociale e garante del benessere dei cittadini, si è fatto carico delle varie situazioni di bisogno per assicurare a tutti le condizioni minime per il pieno sviluppo della persona umana, eliminando così, almeno in parte, le disuguaglianze determinate dal censo e anche dagli eventi imprevedibili che possono condizionare negativamente la vita di ciascun individuo e della sua famiglia (es. malattie, disoccupazione, morte, e così via)26.
Ciò chiarito, si può concludere che, fin sul finire degli anni ottanta, l’attività dello Stato nell’economia nazionale si è caratterizzata per la presenza di interventi sia diretti che indiretti.
Tra i primi spicca l’attività del c.d. Stato – imprenditore che opera attivamente come operatore di mercato per il tramite di imprese pubbliche. Queste possono essere imprese – organo (o aziende autonome, cioè prive di personalità giuridica ma dotate di autonomia patrimoniale, gestionale e contabile), imprese – enti, in particolare enti pubblici economici27 e, infine,
26 Tale ruolo dello Stato venne teorizzato per la prima volta da lord Xxxxxxx Xxxxxxxxx nel 1942, che ricevette l’incarico dal primo ministro di Gran Bretagna Xxxxxxx Xxxxxxxxx di studiare un sistema di protezione sociale obbligatoria capace di tutelare tutte le classi sociali. Lo studioso inglese formulò quindi una proposta di riforma dell’assistenza sociale denominata Social Insurance and Allied Service, meglio nota come “rapporto Xxxxxxxxx”, basata su tre capisaldi fondamentali: Un sistema previdenziale capace di intervenire in tutti i momenti critici della vita di una persona; un sistema di assistenza sanitaria universale e accessibile gratuitamente a tutti; una politica economica basata sul pieno impiego e la riduzione progressiva della disoccupazione. Le proposte di Xxxxxxxxx vennero almeno in parte realizzate dal governo laburista guidato dal Xxxxxxxx Xxxxxx (succeduto a Xxxxxxxxx nel 1945) e poi, sia pur con diverse sfumature, vennero recepite nelle politiche economiche di Germania, Francia e Italia.
27 L’ente pubblico economico è definibile come quel soggetto amministrativo che svolge attività imprenditoriale agendo in regime di diritto privato e concorrenziale rispetto alle imprese private. L’ente, inoltre, deve “svolgere la sua attività conseguendone ricavi idonei, almeno tendenzialmente, a coprire i costi e le eventuali perdite, mentre non sono decisivi né il perseguimento di utilità di carattere generale, né la mancanza di un fine speculativo, inteso come
imprese – società per azioni con partecipazioni pubbliche (spesso di maggioranza). Tra gli interventi indiretti si possono annoverare le politiche di programmazione, volte a fornire indirizzi e a condizionare lo sviluppo dei diversi settori produttivi, ma anche tutti quegli interventi, da ultimo ricordati, che sono soliti essere ricondotti alle c.d. istituzioni del benessere.
1.1.2 – Il cambiamento del ruolo dello Stato e, in generale, della pubblica amministrazione nell’economia. Questioni di metodo e obiettivi dell’analisi.
Nelle pagine che precedono si è cercato di tratteggiare con qualche veloce pennellata il quadro della politica interventista che ha caratterizzato per lungo tempo l’economia del nostro paese. L’intento che ha animato l’azione dei pubblici poteri può essere ricondotto ad una duplice esigenza: da un lato, guidare la crescita del paese a livello interno, cercando di stimolare lo sviluppo, gli investimenti e l’occupazione soprattutto nei settori e nelle aree maggiormente depresse, dall’altro, proteggere questa crescita dal potere economico dei paesi e dei mercati esteri più avanzati o, comunque, maggiormente competitivi.
Un’economia nascente come quella italiana del secondo dopoguerra doveva essere difesa dallo Stato per garantire le migliori condizioni per il suo sviluppo ma, così come accade per le persone, anche i sistemi economici devono sostenersi con le loro forze dopo un primo periodo in cui hanno potuto crescere evitando i pericoli provenienti dall’esterno. L’intervento statale, infatti, non può essere né idoneo né sufficiente per garantire la solidità e soprattutto la competitività di un’intera economia chiamata a confrontarsi con sfide di livello globale. Deve essere il mercato a
conseguimento e distribuzione di utili” (così Xxxx. Sez. un., 28 dicembre 1990, n. 12207, in
Mass. Giur. it., 1990.
selezionare prodotti e imprese in grado di reggere il confronto con i vari competitors nazionali e internazionali e sempre il mercato, attraverso le dinamiche della libera concorrenza, rappresenta lo strumento in grado di assicurare la migliore allocazione delle risorse e dei fattori di produzione in funzione dell’innalzamento della qualità e della diminuzione dei costi.
Fatta questa premessa, è evidente che il ruolo dello Stato cambi radicalmente in concomitanza con l’accresciuto grado di sviluppo maturato dall’economia nazionale sul finire del secolo scorso. Gli interventi volti a creare e modellare il mercato hanno lasciato spazio a interventi diretti a favorire il suo spontaneo sviluppo, ridando in questo modo centralità alla libertà economica dei singoli. Questa apertura alle leggi di mercato, tuttavia, si è giustamente accompagnata ad una preziosa attività regolatoria, necessaria per evitare condizioni patologiche negli inevitabili squilibri che caratterizzano i rapporti di forza tra operatori e utenti, destinate a ripercuotersi sulla condizione di uguaglianza sostanziale che lo Stato ha il compito precipuo di difendere.
Naturalmente il percorso descritto non solo è ancora in corso ma si caratterizza per una sensibile resistenza della mano pubblica a rinunciare ad un ruolo da protagonista nei rapporti economici, verosimilmente alimentato dal timore di perdere il controllo della politica industriale del paese, sia dal timore che possano essere sacrificati interessi fondamentali aventi una forte valenza sociale.
Nella pagine che seguono, pertanto, si ritiene opportuno analizzare alcuni degli aspetti peculiari di questa fase di transizione, mettendone in evidenza le criticità soprattutto in relazione alla dicotomia pubblico – privato che informa l’agire del legislatore e dell’amministrazione ogniqualvolta venga in rilievo l’interdipendenza tra attività economica e interessi di rilevanza pubblicistica. In particolare ci si soffermerà innanzi tutto sul fenomeno
delle privatizzazioni delle imprese pubbliche che plasticamente rappresenta la difficoltà di condurre l’attività economica che prima faceva capo allo Stato xxxxx xx xxx xxx xxxxxx xxxxxxx. Ad una privatizzazione solo formale si è accompagnato il permanere di vincoli fin troppo stringenti con l’ente pubblico di riferimento che non si è limitato ad esercitare i poteri derivanti dalla puntuale applicazione della disciplina societaria ma ha continuato ad esercitare un’influenza anche politica sulla governance della neo costituita società, facendo persino dubitare in ordine alla sua natura pubblica o privata. Ciò che si vorrà mettere in luce, a questo proposito, è come la scarsa emancipazione di queste nuove entità giuridiche dalla mano pubblica abbia generato un operatore di mercato che almeno per alcuni aspetti va considerato parte dell’Amministrazione e a cui sono applicabili, in relazione ad aspetti specifici della sua attività, le norme riferibili agli enti pubblici.
In secondo luogo, ci si occuperà dei poteri speciali che lo Stato ha continuato a mantenere anche dopo il completamento del processo di privatizzazione sostanziale, mettendone il luce il carattere distorsivo rispetto agli equilibri del libero mercato e la scarsa compatibilità con i principi del diritto comunitario.
Infine, l’attenzione verrà focalizzata sul ruolo fondamentale assunto dalle autorità amministrative indipendenti nel nuovo contesto giuridico economico plasmato dalle istituzioni comunitarie e caratterizzato dal generale divieto per la mano pubblica di condizionare le libertà economiche (di circolazione, di stabilimento, di prestazione). Alle c.d. autorities viene infatti affidato un ruolo di garanzia, dovuto alla posizione di soggetto terzo e neutrale, non condizionato dall’esecutivo, che si traduce nell’adozione di atti regolatori e sanzionatori, senza dimenticare l’importante funzione d’impulso nei confronti del legislatore a produrre norme capaci di superare
eventuali ostacoli alla libertà d’iniziativa economica o comunque elementi di criticità che determinano i c.d. fallimenti del mercato e impediscono l’equilibrato sviluppo di un determinato settore economico. In particolare ci si soffermerà sulla funzione regolatoria delle autorità garanti e su quegli aspetti della loro attività, che è pur sempre attività amministrativa, maggiormente in grado di condizionare l’autonomia negoziale dei privati.
Ma procediamo con ordine e riprendiamo le fila del discorso legato alle imprese pubbliche e alla progressiva loro dismissione da parte dello Stato. Non è infatti possibile parlare del moderno Stato regolatore se prima non si capiscono le ragioni e le modalità che hanno contraddistinto l’apertura al mercato di numerosi settori economici e dei loro principali attori.
1.2 – Superamento del modello interventista e privatizzazione delle imprese pubbliche.
Verso la fine degli anni ottanta, il settore economico pubblico (cioè interessato dall’intervento diretto dello Stato in veste di imprenditore – azionista) aveva assunto una consistenza tale da rappresentare più di un quarto dell’intera economia nazionale.
Tuttavia, se almeno inizialmente aveva contribuito in modo significativo allo sviluppo del paese, il sistema delle partecipazioni statali (poi estesosi anche al livello delle amministrazioni locali) si rivelò, nel lungo periodo, del tutto inadeguato a fronteggiare le nuove sfide di un’economia sempre più globale. L’impresa pubblica, sul versante pratico, aveva generato un crescente deficit finanziario e, su quello teorico, risultava difficilmente compatibile con la creazione di un mercato unico europeo e con le altre istanze liberalizzatrici provenienti dalle istituzioni comunitarie28.
28 Rileva X. XXXXXXX, in Manuale di diritto amministrativo, II vol., Padova, 2008, p. 642, che
“un sistema di partecipazioni statali è da ritenersi conforme ai principi della libera concorrenza, se e
Sotto il primo profilo, in particolare, va segnalato che buona parte delle imprese pubbliche hanno dato luogo a dei fenomeni di inadeguata gestione finanziaria e di creazione di una struttura organizzativa sovrabbondante rispetto alle reali esigenze. La gestione non è stata guidata da criteri economico – imprenditoriali ma, troppo spesso, da logiche dettate dalla politica. Di qui l’accollo di attività anti economiche, investimenti poco redditizi e aumento eccessivo delle piante organiche, che hanno costretto lo Stato a ripianare le perdite, con aumento del debito pubblico.
A partire dai primi anni novanta, pertanto, si assiste ad un’inversione di tendenza con l’inizio di quei processi di privatizzazione delle imprese pubbliche, tutt’oggi non ancora giunti a termine. In particolare, la privatizzazione si è attuata con la trasformazione delle c.d. imprese – organo e delle imprese – ente in società per azioni. Una breve puntualizzazione è, tuttavia, necessaria in riferimento alle imprese ente e, più nello specifico, agli enti pubblici economici. Il processo di privatizzazione che li ha coinvolti ha avuto inizio con la legge 8 agosto 1992, n. 359, che ha trasformato l’IRI, l’ENI, l’INA e l’ENEL in società per azioni ed ha, contestualmente, attribuito al Ministero del Tesoro la totalità delle partecipazioni azionarie, sia pur in via provvisoria e in vista di una successiva collocazione presso il mercato degli investitori29. Il dato che emerge in prima battuta, in ogni caso, è quello relativo alla scelta di riservare alla mano pubblica le azioni delle neonate società privatizzate. Lo
nella misura in cui esso sia rispettoso delle regole del mercato; qualora, di contro, siffatto intervento pubblico crei discriminazioni, rendite di posizione, oppure risultati antieconomici, si violano i principi in questione”.
29 La citata legge ha, inoltre, attribuito al Comitato interministeriale per la programmazione economica il potere di deliberare la trasformazione in S.p.A. di enti pubblici economici, qualunque sia il loro settore di attività. Con questa procedura è stato trasformato in S.p.A. l’ente Ferrovie dello Stato, le cui azioni, anche in questo caso, sono state assegnate al Ministero del Tesoro.
Stato, pertanto, mantiene un ruolo di primo piano, sia pur non in veste di imprenditore ma di azionista, i cui diritti e poteri disciplinati dal diritto privato dovrebbero rappresentare l’unica via per influenzare la gestione della società. In secondo luogo, la privatizzazione fa emergere un problema di non poco momento relativo alle modalità di gestione delle attività prima istituzionalmente affidate agli enti pubblici poi trasformati in s.p.a.. L’ENI, ad esempio, era affidatario per legge della ricerca e della coltivazione di idrocarburi nella valle padana, l’ENEL aveva la funzione di produrre, trasportare e distribuire l’energia elettrica in veste di monopolista pubblico. Venendo meno gli enti pubblici di riferimento (data la loro privatizzazione) la legge n. 359 del 1992 stabilì che le attività loro riservate per legge restassero attribuite a titolo di concessione alle società per azioni che ne avevano preso il posto, per una durata di vent’anni. L’aver attribuito alle società la gestione delle rilevanti attività economiche, prima spettanti al monopolista pubblico, mediante il modello concessorio, ha precluso qualsiasi forma di concorrenza30 e impedito il sorgere di un mercato dei servizi. Tale impostazione, evidentemente, si è poi rivelata in netto contrasto con i principi comunitari su cui si basa anche oggi l’Unione e, per questo motivo, dopo una prima fase di c.d. privatizzazione formale, si è dovuto procedere nella direzione di una sostanziale dismissione dell’impegno pubblico nella gestione, con vendita delle quote azionarie in base a modalità trasparenti e non discriminatorie.
30 Così E. FRENI, Le privatizzazioni, in La nuova costituzione economica, cit., p. 229.
1.2.1 – (segue) Privatizzazioni formali e sostanziali.
A questo punto è bene chiarire i termini della contrapposizione tra privatizzazione formale e sostanziale31. La prima viene in rilievo quando l’ente pubblico assume la veste di soggetto di diritto privato ma, nella sostanza, il capitale societario, e con esso il controllo, permane alla mano pubblica. Al contrario, si può parlare di privatizzazione sostanziale quando la proprietà dell’impresa (pubblica) viene trasferita nelle mani di investitori privati che, di conseguenza, acquistano il controllo della società. Anche solo queste definizioni ci permettono di capire che la privatizzazione sostanziale rappresenta (o avrebbe dovuto rappresentare) il momento conclusivo di un processo di modernizzazione dell’intervento statale nell’economia che vede la privatizzazione formale come un necessario passaggio intermedio.
In realtà, la previsione troppo generica di tempi e modalità di dismissione delle partecipazioni azionarie, nonché la possibilità per lo Stato o gli enti di riferimento di continuare a controllare, sia pure indirettamente, l’attività demandata alle nuove società privatizzate, ha comportato il protrarsi per molti anni di un regime provvisorio e ibrido (formalmente privatistico, sostanzialmente pubblicistico). Questa realtà ha portato con sé vantaggi, da un lato, e numerosi problemi, dall’altro.
Quanto ai vantaggi, innanzi tutto bisogna partire dal presupposto che prima della privatizzazione l’impresa pubblica costituiva uno strumento della politica economica del governo. Le assunzioni, gli investimenti e la gestione nel suo complesso erano guidate da una logica pubblicistica, in vista del perseguimento di risultati sul piano politico piuttosto che su
31 Per un maggiore approfondimento sul tema si rinvia a Le privatizzazioni in Italia, a cura di
X. X. XXXXXXXXX, Xxxxxx, 0000, nonché a X. XXXXXXX, La privatizzazione delle imprese pubbliche, Milano, 1996 e X. XXXXXXX, Il codice delle privatizzazioni nazionali e locali, Milano, 2001.
quello economico32. Dopo la privatizzazione, tuttavia, alle neonate società si son dovute applicare le norme previste dal codice civile in materia di amministrazione, controllo e, soprattutto, bilancio societario, con conseguente implementazione del tasso di trasparenza e di “leggibilità” dei risultati di gestione33. L’efficienza e l’economicità divengono obiettivi non più eludibili e la ricerca dell’utile d’esercizio allontana la gestione della società da investimenti e spese improduttive. Tale rinnovata prospettiva, in base alla quale non si poteva più riconoscere nella società un’articolazione dello Stato o uno strumento per il perseguimento di determinate politiche economiche, ha consentito di conseguire importanti risultati in termini di miglioramento degli equilibri di bilancio e, più in generale, in termini di risanamento di ex imprese pubbliche pesantemente indebitate quali, ad esempio Poste Italiane S.p.A. e Ferrovie dello Stato S.p.A.. Peraltro, un generoso impulso alla necessità di separare la politica (economica) dalla gestione delle ex imprese pubbliche è venuto dalle disposizioni comunitarie in materia di aiuti di stato e dalla giurisprudenza che le ha applicate, statuendo che la condotta finanziaria dello Stato non può considerarsi un atto illegittimo (solo) quando risponde alla logica dell’investimento del privato azionista34. Se ne deduce che, anche in presenza di una
32 In questo senso si legga X. XXXXXXXXXX, Regole e mercato nei servizi pubblici, Bologna, 2005, p. 59.
33 Cfr. X. XXXXXXX, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 648.
34 Si legga, ad esempio, Corte giustizia UE 3 luglio 2003, cause riunite C-83/01 – C-93/01 – C-94/01. Quanto alla nozione di aiuto di stato si può dire che devono ricorrere i seguenti elementi: il beneficiario deve essere necessariamente un’impresa, da intendersi come qualsiasi entità che eserciti un'attività economica, a prescindere dalla sua natura giuridica, pubblica o privata, e dalle sue modalità concrete di funzionamento; il trasferimento di risorse deve avvenire da parte dello Stato o di organo intermedio, pubblico o privato, individuato dallo Stato, che gestisce per conto di quest'ultimo risorse pubbliche; la misura disposta dallo Stato deve apportare al beneficiario un vantaggio economico che altrimenti non avrebbe conseguito; al beneficio deve conseguire - anche solo potenzialmente - una
privatizzazione solo formale, lo Stato unico azionista deve necessariamente agire secondo una logica di tipo economico, perseguendo il fine di lucro tipico delle società commerciali. Ulteriore impulso al perseguimento del fine di lucro deriva poi dalla necessità di dover procedere (sia pur nel medio - lungo periodo) al perfezionamento del processo di privatizzazione. È evidente che la prospettiva del collocamento sul mercato delle partecipazioni azionarie induce ad una gestione più razionale e, dunque, in grado di massimizzare la domanda degli investitori e con essa il profitto generato dall’operazione di dismissione.
Quanto ai problemi che ha generato la privatizzazione formale, è innegabile che, nonostante l’accennata tendenza a perseguire logiche di tipo economico, le società in questione presentano caratteri tali da porsi ai limiti della compatibilità con il modello privatistico.
La privatizzazione degli enti pubblici economici e il riconoscimento in capo ai nuovi soggetti (apparentemente) operanti iure privatorum della titolarità di servizi aventi una rilevante e tipica valenza pubblicistica, ha alimentato il dibattito circa la configurabilità di enti pubblici a struttura societaria. In altre parole, dietro le vesti privatistiche della società per azioni si cela un ente pubblico o si tratta di una vera società, pur caratterizzata da un regime giuridico derogatorio rispetto al diritto comune? Queste società, infatti, al di là della qualificazione e della natura che si vuol loro attribuire, sono evidentemente caratterizzate da una disciplina sensibilmente diversa da quella codicistica, che riflette l’originario – forse persistente – legame con il soggetto pubblico e che vuol essere strumentale al perseguimento di finalità di stampo pubblicistico.
distorsione della concorrenza e quindi dei mercati (così Tar Lazio, Roma, sez. III, 4 giugno 2007, n. 5140, in Foro Amm. – Tar, 2007, p. 2058).
Il problema, ad avviso di chi scrive, non deve essere affrontato sul piano nominalistico né tantomeno su quello della possibilità per un ente pubblico di assumere vesti societarie. In sostanza, voler rispondere alla domanda se una società può essere considerata un ente pubblico è quanto meno riduttivo e fuorviante se si pretende di dare una risposta rigida e, dunque, sempre valida. È necessario un approccio più pragmatico e, in primo luogo, bisogna verificare quali siano le deviazioni dal modello societario codicistico. Se possano essere considerate un semplice adattamento alla peculiare missione cui sono chiamate le ex imprese pubbliche privatizzate e, soprattutto, quali siano gli effetti di tali disposizioni derogatorie. In particolare quando presentino una consistenza tale da suggerire una qualificazione della società in termini pubblicistici35. Il riferimento va a quelle ipotesi in cui alle singole disposizioni derogatorie si affiancano delle vere e proprie anomalie di struttura e funzionamento degli organi sociali che evidenziano l’innegabile legame con il soggetto pubblico di riferimento e la sua capacità di incidere dall’esterno sulle vicende della società36.
35 Si v., in particolare, il saggio di X. XXXXXXXXXX, Soggetti privati «enti pubblici»?, in Dir. amm., 2003, p. 801 ss., il quale suggerisce di abbandonare le teorie che si soffermano sulla natura da riconoscere ai soggetti privati a diverso titolo coinvolti nell’organizzazione amministrativa e di privilegiare, invece, un approccio metodologico che tenda a verificare i regimi giuridici applicabili a tali soggetti sulla base delle finalità perseguite e degli interessi tutelati. Sulla rilevanza dell’attività pubblica come elemento qualificante della società, si v. invece X. XXXXXXXX, Il criterio discretivo tra persona giuridica privata e persona giuridica pubblica: verso una legge sullo statuto della persona giuridica pubblica, cit., p. 671 ss.. Per una difesa e conferma della teoria degli enti pubblici in forma societaria v. X. XXXXX, Gli enti pubblici in forma societaria, in Servizi pubblici e appalti, 2004, pp. 221 ss..
36 Secondo X. XXXXXXXX, in Le privatizzazioni degli enti dell’economia. Profili giuridici, Milano, 1998, elemento sintomatico dell’attrazione nell’orbita pubblicistica delle società privatizzate è l’attribuzione in capo a soggetti pubblici diversi da quelli che rivestono la qualità di soci, di potestà il cui esercizio è destinato a produrre effetti sulle fondamentali determinazioni degli organi societari.
Sotto il profilo genetico, le società derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici si caratterizzano per essere state costituite non tramite un atto di autonomia negoziale (il contratto di società) ma grazie ad un atto legislativo37 o, in alternativa, un atto amministrativo di un’autorità pubblica all’uopo autorizzata dalla legge (il CIPE).
Sotto il profilo del funzionamento degli organi sociali è interessante notare la disciplina introdotta dall’art. 15, comma 2, della legge n. 359 del 1992, secondo cui “il Ministro del tesoro, al quale è stata attribuita la titolarità delle azioni delle società, eserciterà i diritti dell’azionista secondo le direttive del Presidente del Consiglio, d’intesa con il Ministro del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato”. Se ne ricava la natura indubbiamente pubblica (per non dire politica) delle direttive e dell’intesa tra Presidenza del Consiglio e i Ministri citati, nonché la chiara influenza esercitata sull’organo assembleare da parte di soggetti che non detengono alcuna partecipazione azionaria. Ne consegue che l’attività della società viene eterodiretta da determinazioni ispirate da finalità pubblicistiche provenienti dall’esterno della compagine societaria, che condizionano l’esercizio dei poteri dell’azionista pubblico38. In altre parole, il Ministero del tesoro – titolare delle azioni – risulta formalmente condizionato nell’attività di gestione dall’obbligo legislativamente previsto di ottemperare alle direttive e alle intese summenzionate; il che determina una notevole alterazione dei meccanismi di funzionamento e dell’autonomia degli organi societari. Autonomia ulteriormente limitata dalla previsione dell’art. 16 della legge n. 359 del 1992, in base alla quale il Ministero del tesoro (l’azionista) deve predisporre
37 Il riferimento è al già citato caso della privatizzazione dell’ENI, dell’INA, dell’ENEL e dell’IRI ad opera della legge n. 359 del 1992.
38 In questo senso X. XXXXX, L’evoluzione del sistema elettrico nazionalizzato. In particolare il rapporto tra l’ENEL e le imprese degli enti locali, in Rass. Giur. En. Elettr., 1993, p. 22.
e trasmettere al Presidente del Consiglio un programma di riordino delle partecipazioni volto alla valorizzazione delle stesse “anche attraverso la previsione di cessioni di attività e rami di aziende, scambi di partecipazioni, fusioni, incorporazioni e ogni altro atto necessario al riordino”, sul quale le competenti commissioni parlamentari esprimono il proprio parere prima che sia approvato dal Consiglio dei Ministri. Considerando, poi, che buona parte delle decisioni sulle operazioni rientranti nei possibili sviluppi del piano di riordino sono state trasferite all’assemblea (dove l’unico azionista è, come detto, vincolato al rispetto delle direttive della Presidenza del Consiglio e delle intese con altri Ministeri), appare chiaro l’intento di rimettere una parte fondamentale dell’attività di gestione alle determinazioni adottate extra moenia, in sede pubblicistica e politica.
Prendiamo in considerazione il caso di Ferrovie dello Stato S.p.a., società per azioni costituita in seguito alla trasformazione – a mezzo delibera del CIPE39 – dell’Ente Ferrovie dello Stato. Lo statuto adottato prevede che i diritti dell’azionista pubblico siano esercitati d’intesa tra i Ministeri del bilancio e della programmazione economica, del tesoro e dei trasporti. In più, vengono devolute all’assemblea ordinaria delle competenze anche maggiori di quelle previste nel modello legislativo poc’anzi tratteggiato; si pensi alle autorizzazioni per le cessioni delle linee ferroviarie, le cessioni o le acquisizioni di azioni di società partecipate quando determinano la perdita o l’acquisizione della quota di controllo, nonché l’approvazione dei programmi annuali e pluriennali della società. La compressione dell’autonomia funzionale degli organi societari appare evidente e, con essa, anche l’attrazione dell’attività della società (privata) nell’orbita del controllo pubblicistico.
39 Delibera adottata in forza dei poteri attribuiti al CIPE dall’art. 18 della legge n. 359 del 1992, di cui si è già fatto cenno.
Chiarite alcune delle più rilevanti deviazioni dal modello codicistico è ora necessario capire quali possano essere le implicazioni derivanti da una privatizzazione formale che solo parzialmente emancipa la neo istituita società dall’influenza della mano pubblica.
1.2.2 - Privatizzazione formale e implicazioni in termini di sindacato contabile e riparto di giurisdizione.
Una prima riflessione riguarda l’assoggettabilità o meno delle società privatizzate al controllo della Corte dei conti.
Il dato normativo di partenza è rappresentato dall’art. 100 Cost., secondo cui la Corte dei conti “partecipa nei casi e nelle forme stabilite dalla legge al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisca in via ordinaria”. Nel dare attuazione alla norma costituzionale, il legislatore ha previsto con la legge n. 259 del 1958 due tipologie di controlli: la prima (disciplinata all’art. 2) riguarda il controllo sugli enti che con carattere di periodicità ricevono dalla pubblica amministrazione contributi da oltre un biennio e quelli cui è continuativamente attribuito un potere impositivo; la seconda (disciplinata all’art. 12) riguarda il controllo sulla gestione finanziaria degli enti pubblici ai quali l’amministrazione dello Stato o un’azienda autonoma statale contribuisce con apporto al patrimonio in capitale o servizi, ovvero mediante concessione di garanzia finanziaria40. È evidente che quando le partecipazioni statali venivano gestite da appositi enti (pubblici) di gestione, la sottoposizione di questi ultimi al controllo
40 Lo scopo principale del controllo ad opera della Corte dei conti sugli enti sovvenzionati in via ordinaria dallo Stato (anche con apporto di capitale) è quello di offrire al Parlamento
- per mezzo della relazione del giudice contabile - quei dati conoscitivi necessari per esercitare le prerogative di indirizzo e vigilanza in un settore assai rilevante per la finanza pubblica. In altre, più semplici, parole, il controllo può dirsi funzionalizzato alla tutela del patrimonio pubblico.
contabile era fuori discussione, così come lo era in riferimento agli altri enti pubblici economici (ad esempio, l’ENEL). La questione presenta aspetti più problematici a seguito della privatizzazione operata dalla legge n. 359 del 1992: la trasformazione in società per azioni è preclusiva alla qualificazione in termini di ente pubblico che, in base a quanto disposto dall’art. 12 della legge n. 259 del 1958, costituisce presupposto indefettibile per la sussistenza del controllo da parte del giudice contabile?
La Corte costituzionale ha tentato di fornire una risposta nella sentenza n.
466 del 199341, con cui si è dovuta pronunciare sulla persistenza del controllo della Corte dei conti nei confronti degli ex enti pubblici economici, trasformati in società per azioni. Il giudice delle leggi ha individuato il maggiore ostacolo alla permanenza del controllo contabile nella formulazione letterale dell’art. 12 della legge n. 259 del 1958 e, dunque, assumendo come dato di partenza la necessità che le nuove società, in quanto sostanzialmente pubbliche, debbano essere sottoposte al controllo del giudice contabile, ha tentato di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo. In primo luogo ha rilevato che l’art. 100 Cost. esprime la necessità che siano sottoposte a vigilanza le gestioni che gravano sul bilancio pubblico, senza che la natura formalmente privatistica delle nuove società per azioni possa avere un’importanza decisiva. In secondo luogo, la Corte si è spinta verso il superamento dell’inconciliabilità tra modello societario ed ente pubblico sulla base di tre argomenti: quello del crescente utilizzo degli strumenti offerti dal diritto privato (tra cui il modulo organizzativo della S.p.a.) per il perseguimento di finalità pubblicistiche; quello dell’adesione comunitaria ad una nozione sostanziale di impresa pubblica e quello della possibilità di individuare nelle nuove società per azioni “connotazioni proprie della loro originaria
41 Corte cost., 28 dicembre 1993, n. 466, in Foro it., 1994, I, c. 325.
natura pubblicistica”. La Corte valorizza le divergenze tra il regime codicistico delle comuni S.p.a. e la disciplina, in parte derogatoria, prevista dal legislatore per le nuove società privatizzate per riconoscere in queste ultime quelle caratterizzazioni di stampo pubblicistico che le rendono assimilabili agli enti pubblici. In più, il fatto che la gestione sia comunque nelle mani del soggetto pubblico che detiene la totalità dell’azionariato e che a tali società siano affidati compiti di rilevante interesse nazionale, secondo la Consulta, giustificherebbe pienamente il permanere del controllo del giudice contabile. Fin qui le argomentazioni della Corte.
Il problema centrale, tuttavia, rimane l’applicabilità alle nuove s.p.a. dell’art. 12 della legge n. 259 del 1958, in particolare laddove prevede il controllo della Corte dei conti per “gli enti pubblici ai quali l’amministrazione dello Stato o un’azienda autonoma statale contribuisce con apporto al patrimonio in capitale o servizi, ovvero mediante concessione di garanzia finanziaria”. La Corte costituzionale ha tentato di stemperare la differenza e l’inconciliabilità tra ente pubblico e società per azioni, ma ha solo lambito il punto nodale del ragionamento e cioè non ha dato una risposta univoca alla domanda se le società nate dalla privatizzazione formale possano essere qualificate come enti pubblici. Certo, le deroghe al regime tipico delle società per azioni e la presenza di chiari tratti pubblicistici avvicinano le due realtà (privatistica e pubblicistica) ma, ad avviso di chi scrive non sono elementi sufficienti. D’altra parte anche il codice civile e la legislazione speciale in materia di società abbonda di regimi differenziati. Inoltre, se solo bastassero delle disposizioni derogatorie a qualificare un soggetto in termini di ente pubblico, bisognerebbe riconoscere la figura stessa dell’ente pubblico come residuale e sussidiaria42 in assenza di una diversa
42 In questo senso X. XXXXXXXXXX, Regole e mercato nei servizi pubblici, cit., p. 66.
qualificazione in grado di giustificare eventuali caratteri suscettibili di apparire come indici di un collegamento ad interessi di tipo pubblicistico.
Con questo non si vuol certo sostenere che società come Enel s.p.a., o Poste italiane s.p.a. siano soggetti completamente privati al pari di qualsiasi altra società per azioni; i dati di partenza rimangono pur sempre la proprietà pubblica del capitale e la possibilità per l’autorità amministrativa di condizionare le scelte strategiche degli organi assembleari. Tuttavia non è possibile fare alcun passo ulteriore e riconoscere una diversità qualitativa, potremmo dire, di genere. Le società rimangono soggetti privati cui, tuttavia, si applicano in via di deroga delle disposizioni aventi una chiara connotazione pubblicistica che sono funzionali all’attuazione della specifica missione (comunque rientrante nell’oggetto sociale) che è stata loro attribuita dalla mano pubblica. Soggetti privati, dunque, cui si applicano, a seconda dei casi, norme del diritto comune e norme che disciplinano l’azione amministrativa.
Pur consapevoli che la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria si è espressa a favore della natura pubblicistica delle società in questione, ritengo che sia più corretto e, nel contempo, coerente con gli sviluppi del diritto amministrativo europeo, affermare che l’evoluzione dell’azione amministrativa, lato sensu intesa, non può più essere imbrigliata in schemi e qualificazioni tradizionali. Per questo, pur affermando che le società di cui si tratta rimangono soggetti privati, non intendo sbilanciarmi a favore di una loro qualificazione meramente privatistica, tutt’altro. Voglio solo affermare che anche soggetti privati possono (rectius, devono) essere riconosciuti come pubbliche amministrazioni laddove operino in veste di autorità, come strumenti della funzione amministrativa43.
43 L’idea trova il proprio fondamento nel diritto comunitario e, in particolare, nella c.d. nozione elastica di pubblica amministrazione di cui infra, par. 1.2.3.
Il modo di affrontare la tematica relativa alla qualificazione giuridica delle società derivanti dal processo di privatizzazione ha portato con sé importanti implicazioni anche in punto di giurisdizione.
Prima della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del g.a. dell’intero contenzioso in materia di appalti indetti dalle società a partecipazione pubblica tenute a seguire le procedure ad evidenza pubblica in base a norme interne o comunitarie44, la giustizia amministrativa ha dovuto interrogarsi su quale fosse il giudice deputato alla cognizione delle controversie che vedevano coinvolte le nuove realtà societarie. Il riferimento va, nello specifico, alla sentenza 20 maggio 1995, n. 49845, con cui il Consiglio di Stato ha dovuto stabilire se le controversie relative ai contratti d’appalto stipulati dalle Ferrovie dello Stato rientrassero nella giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo. I giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati in favore della giurisdizione amministrativa per un duplice ordine di motivazioni che, in questa sede, è bene analizzare per ricavare alcuni spunti di riflessione in merito alla problematica della natura giuridica delle società solo formalmente privatizzate. In primo luogo, la Ferrovie dello Stato S.p.a. era (ed è) “una figura sui generis di concessionario ex lege a contenuto vincolato e cioè definito per relationem ai compiti di cui era già titolare l’ente F.S.”. Al cospetto, quindi, di una concessione traslativa per mezzo della quale le finalità pubblicistiche del concedente vengono realizzate dal concessionario, quest’ultimo assume necessariamente le vesti di organo indiretto della p.a., con ogni conseguenza in punto di giurisdizione. In secondo luogo, e a prescindere dalla sussistenza del rapporto concessorio, il fatto che la società sia
44 L’espansione della giurisdizione esclusiva è riconducibile alle leggi n. 80 del 1998 e n. 205 del 2000.
45 Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 1995, n. 498, in Cons. Stato, 1995, I, p. 843.
preposta alla cura di rilevanti interessi pubblici, consentirebbe di concludere che l’adozione della forma societaria sia solamente un modo per rendere l’attività economica più efficiente e funzionale, fermo restando il permanere di “uno spiccato rilievo pubblicistico”46.
La giurisprudenza appare, dunque, orientata a riconoscere la pubblicità delle società nate dal processo di privatizzazione formale, tuttavia appare eccessivo generalizzare la qualificazione in senso pubblicistico fino al punto di equiparare tout court una società per azioni ad un’amministrazione pubblica o ad una sua articolazione. Ad avviso di chi scrive, pertanto, la conclusione cui giunge la giurisprudenza è sicuramente condivisibile laddove si afferma la giurisdizione del g.a. in materia di appalti indetti dalle società di cui si tratta; non lo è nella misura in cui tale statuizione si presenta come il risultato dell’applicazione di una disciplina comune a tutte le pubbliche amministrazioni e non, piuttosto, di un regime derogatorio alle norme privatistiche in materia di appalti che, normalmente, sarebbero applicabili ad una società per azioni.
Per dare sostegno teorico e argomentativo a questa affermazione, ritengo sia doveroso soffermarsi sui concetti di impresa pubblica “comunitaria” e di organismo di diritto pubblico che, ponendo le basi per un nuovo modo d’intendere la pubblica amministrazione, ci consentiranno di chiarire l’intricata questione relativa alla natura giuridica delle società derivanti dal processo di privatizzazione formale.
46 In senso conforme anche Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2001, n. 1206, in www.giustizia- xxxxxxxxxxxxxx.xx, in cui, con riferimento ad un contratto d’appalto indetto da una società a partecipazione pubblica totalitaria come Poste italiane s.p.a., si evidenzia il permanere di una caratterizzazione sostanzialmente pubblicistica visti i rilevanti poteri di controllo e influenza esercitati sia dall’azionista pubblico, sia da altri soggetti pubblici non azionisti come il Ministero delle comunicazioni e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
1.2.3 – Il diritto comunitario impone un concetto elastico di impresa pubblica. Il caso degli organismi di diritto pubblico.
A livello comunitario manca una nozione unitaria di soggetto pubblico e, conseguentemente, anche di impresa pubblica.
Sono state, tuttavia, enucleate – soprattutto a livello giurisprudenziale – diverse nozioni in funzione degli obiettivi che le norme comunitarie di settore tendevano a perseguire, tutte accomunate da una caratterizzazione di tipo sostanziale, piuttosto che definitoria e statica.
In un primo momento si era tentato anche a livello europeo di procedere ad una formalizzazione dei concetti e, a questo proposito, possiamo ricordare la direttiva n. 71/305/CEE in materia di appalti pubblici di opere che indicava come amministrazioni aggiudicatrici (tenute al rispetto delle procedure ad evidenza pubblica) lo Stato, gli enti pubblici territoriali e le persone giuridiche pubbliche tassativamente enumerate in un apposito allegato. Il tentativo definitorio si rivelò, tuttavia, un fallimento a causa della facilità con cui si poteva eludere una puntuale elencazione di soggetti considerati formalmente “pubblici”47 e, conseguentemente, si adottarono criteri maggiormente elastici, dotati di una naturale vis espansiva.
Le successive direttive comunitarie hanno quindi incluso tra le amministrazioni aggiudicatrici, oltre allo Stato e agli altri enti pubblici territoriali, anche la nuova figura degli organismi di diritto pubblico e, per gli appalti nei settori esclusi, le c.d. imprese pubbliche comunitarie che, sotto il profilo genetico potevano essere anche soggetti aventi personalità
47 Già nel corso della vigenza della direttiva in questione, la Corte di giustizia, consapevole della lacuna normativa, ha iniziato ad utilizzare una nozione sostanziale di ente pubblico, giungendo a ritenere che nel concetto di “Stato” dovesse essere ricompreso anche un ente che, pur dotato di personalità giuridica distinta, dipendesse in modo sostanziale dai pubblici poteri quanto a composizione e funzioni attribuite dalla legge. Così la sentenza Xxxxx xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1988, n. 31, Gebroeders Beentjes B.V. c. Paesi Bassi, in Giust. civ., 1990, I, p. 579.
giuridica di diritto privato. Partendo da queste ultime, la prima direttiva che le ha prese in considerazione risale al 198048 e riguardava le relazioni finanziarie tra gli Stati e le loro imprese pubbliche, all’uopo definite come ogni impresa nei cui confronti i poteri pubblici (Stato o enti territoriali) potevano esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante. In modo non dissimile, la successiva direttiva n. 2004/17/CE, in materia di appalti indetti dagli enti erogatori di acqua ed energia, nonché dei servizi di trasporto e postali, definisce le imprese in parola come “le imprese su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante perché sono proprietarie, vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù di norme che disciplinano le imprese in questione”. Nel concetto comunitario di impresa pubblica rientrano, allora, sia le aziende autonome e gli enti economici (che sono parte integrante della struttura dell’amministrazione e, dunque, soggetti pubblici in senso proprio) ma anche le società di capitali caratterizzate dalla partecipazione pubblica totalitaria o prevalente e, in ogni caso, sottoposte al controllo e alla direzione dei pubblici poteri. Se ne deduce, allora, l’indifferenza dell’ordinamento comunitario rispetto ad una rigida differenziazione tra soggetti di diritto privato ed enti pubblici propriamente intesi, cui consegue la possibilità per una società per azioni di rivestire la qualifica di impresa pubblica, anche solo a determinati fini individuati dal diritto dell’Unione. Nella materia degli appalti pubblici, ad esempio, una tale qualificazione porta con sé la necessità per un soggetto formalmente privato, che potrebbe apparire esonerato, di adottare procedure ad evidenza pubblica per selezionare la controparte dei contratti d’appalto, in modo che siano garantite trasparenza, imparzialità e non discriminazione.
48 Il riferimento è alla direttiva n. 80/723/CEE del 25 giugno 1980.
Quanto agli organismi di diritto pubblico, la direttiva n. 89/37/CEE – sempre per sopperire alla lacunosità dell’elencazione tassativa contenuta nella già citata direttiva n. 71/305/CEE in materia di appalti di opere – individuava come amministrazioni aggiudicatrici oltre allo Stato e agli enti pubblici territoriali, gli “organismi di diritto pubblico”, cioè quei soggetti giuridici istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale, dotati di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta al controllo di questi ultimi, oppure i cui organi di amministrazione, di direzione e vigilanza sono costituiti da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico. Tre, dunque, sono i requisiti degli organismi di diritto pubblico: la personalità giuridica, l’influenza pubblica dominante49 e il c.d. requisito teleologico, dato dalla soddisfazione di bisogni di carattere generale, nel contempo non aventi carattere industriale o commerciale50. Dei tre requisiti, quello che in questa sede rileva
49 Influenza pubblica che non necessariamente deve manifestarsi attraverso prerogative tipicamente autoritative e pubblicistiche (come atti amministrativi di indirizzo o veti provenienti da soggetti pubblici esterni alla compagine societaria), ma che ben può dipendere in via esclusiva dall’esercizio dei diritti e dei poteri tipici del diritto societario da parte dell’azionista pubblico (di maggioranza o titolare di pacchetti di controllo). In questo senso, Cons. Stato, sez. V, 22 agosto 2003, n. 4748, in Giorn. dir. amm., 2004, fasc. 1, p. 29, con nota di X. XXXXXXXXX. D’altra parte, sarebbe vanificato l’effetto utile della direttiva se gli enti pubblici potessero istituire società di diritto privato sottratte all’obbligo di contrattare tramite procedure ad evidenza pubblica sol perché non controllate mediante atti di natura autoritativa.
50 Quanto al requisito in parola, la Corte di giustizia ha affermato che la nozione di “bisogni di interesse generale” è una nozione autonoma del diritto comunitario, che deve essere interpretata tenendo conto del contesto in cui si inserisce e delle finalità perseguite dalle varie direttive (cfr. Corte giustizia UE, 27 febbraio 2003, causa C-373/2000, Xxxxx Xxxxxx GmbH c. Bestattung Wien GmbH). In ambito nazionale si legga Cons. Stato, sez. V, 22 agosto 2003, n. 4748, cit., in cui viene riconosciuta la qualifica di organismo di diritto
maggiormente è il primo: l’organismo deve essere dotato di personalità giuridica, sia essa pubblica o privata.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato della Corte di giustizia deve, infatti, considerarsi irrilevante la distinzione tra personalità privatistica e pubblicistica, dovendo, piuttosto, privilegiare una prospettiva di tipo sostanziale51. Il carattere di diritto privato di un ente non può, dunque, essere considerato idoneo e sufficiente ad escluderne la natura di organismo di diritto pubblico. La Corte di giustizia, infatti, si è sempre limitata a verificare la sussistenza delle tre condizioni sopra delineate, senza dare alcun rilievo particolare alla forma di costituzione degli enti in questione. Di qui la conclusione che il carattere di diritto privato di un organismo (si pensi a società per azioni come Enel S.p.a.) non può mai costituire valido criterio per escludere la sua qualificazione in termini di organismo di diritto pubblico e, in particolare, di amministrazione aggiudicatrice. Ne derivano almeno due importanti conseguenze. Innanzi tutto, se un soggetto privato può essere considerato tale, le controversie relative alle procedure ad evidenza pubblica che lo vedono coinvolto in tale veste “sostanzialmente pubblicistica” saranno devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in base all’art. 133 c.p.a.. In secondo luogo, gli atti delle procedure di gara, attratti
pubblico alla società deputata alla gestione dell’interporto di Padova in quanto, oltre alla sussistenza degli altri requisiti, si era in presenza di “un servizio pubblico strettamente connesso con il settore dei trasporti”, in cui “la prevalenza degli interessi pubblici appare evidente”. L’assenza di carattere industriale o commerciale viene desunta dalla presenza di alcuni indici sintomatici nell’attività esercitata dal soggetto preso in considerazione: la non operatività dello stesso nell’ambito di un regime concorrenziale, il perseguimento di uno scopo istituzionale e la mancata assunzione del rischio d’impresa.
51 Cfr, ex multis, Corte giustizia UE, 16 ottobre 2003, causa C-283/2000, Regno di Spagna c. Commissione, in Urb e app., 2003, p. 647; 1 febbraio 2001, causa X- 000/0000, Xxxxxxx c. Commissione, in Giorn. dir. amm., 2001, p. 489.
nell’orbita comunitaria e nazional – pubblicistica, dovranno considerarsi assoggettati alla disciplina dell’accesso ai documenti di cui all’art. 22 della legge n. 241 del 1990, in base alla quale devono considerarsi pubbliche amministrazioni “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”. Nelle parole dell’articolo si intravede la chiave di volta del nostro ragionamento.
Nei casi in cui il soggetto procedente esplica un’attività funzionalizzata, mediante lo svolgimento di gare ad evidenza pubblica, deve trovare applicazione la normativa in materia di accesso poiché la caratterizzazione pubblicistica, sul piano sostanziale, dell’attività in concreto svolta rende irrilevante la natura privatistica o la veste societaria del soggetto in questione52. Ne deriva che anche gli organismi di diritto pubblico, limitatamente all’attività che espletano in tale qualità e, in particolare, all’attività compiuta come stazione appaltante, devono considerarsi pubbliche amministrazioni, con ogni conseguenza in termini di assoggettamento agli obblighi di ostensione.
Il diritto comunitario, i cui effetti si ripercuotono anche sulla normazione interna (che l’art. 117 Cost. vuole armonizzata con le fonti dell’Unione), ha imposto una nozione flessibile di ente pubblico, in modo che sia sempre garantito il c.d. effetto utile delle sue disposizioni, indipendentemente dalle varie classificazioni dottrinarie e qualificazioni normative adottate negli ordinamenti dei paesi membri. In quest’ottica, parte della dottrina ha richiamato il concetto fortemente simbolico della “geometria variabile” della pubblica amministrazione, secondo cui, almeno nei settori interessati dall’intervento del legislatore comunitario, ci possa essere un soggetto giuridico qualificabile come ente pubblico solo settorialmente e che, allo
52 Così T.a.r. Lombardia, Milano, 25 maggio 1998, n. 1119, in Urb. e app., 1998, p. 976.
stesso tempo, rimanga un soggetto meramente privatistico nella generalità della sua azione53.
Alcuni esempi possono chiarire quanto detto. L’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (già art. 43 Trattato CE) stabilisce come regola generale la libertà di stabilimento per garantire la libertà di svolgimento dell’attività lavorativa da parte di tutti i cittadini dell’Unione. Tale regola trova un’importante eccezione con riferimento agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e, dunque, l’applicazione di tale eccezione normativa (che, nei fatti, consente una discriminazione dei lavoratori in base alla loro nazionalità) dipende essenzialmente dalla qualificazione di ente pubblico che si intende accogliere. Per evitare un eccessivo sacrificio di una delle fondamentali libertà garantite dall’ordinamento comunitario, in sede giurisprudenziale si è limitata l’ampiezza della nozione di pubblica amministrazione (ben inteso, solo ai fini dell’applicazione della norma in parola). Non rientrano, allora, tra gli enti pubblici quei soggetti (come gli organismi di diritto pubblico o gli enti pubblici economici) che svolgono attività d’impresa pur se, sotto un profilo sostanziale, possono considerarsi attratti nell’orbita pubblicistica. Lo scopo, apertamente dichiarato dalla Corte di giustizia54, è quello di impedire restrizioni alla selezione dei pubblici dipendenti, almeno con riferimento a ruoli che non implicano l’esercizio di pubblici poteri e che, conseguentemente, non richiedono quel
53 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Corso di diritto amministrativo, tomo I, Milano, 2008, p. 795 e, per un inquadramento sistematico, X. XXXXXXX GRIFFI, Le nozioni comunitarie di amministrazione: organismo di diritto pubblico, impresa pubblica, società in house, in Serv. pubbl. e app., 2006, p. 27 ss..
54 Cfr., ex multis, Corte giusitizia UE, 10 dicembre 1991, Commissione c. Grecia, causa C- 306/89, in Racc., p. I-5863; Corte giustizia UE, 13 luglio 1993, Xxxxxxxx, causa C-42/92, in Racc., p. I-4047; Corte giusitizia UE, 26 aprile 1994, Commissione c. Repubblica italiana, causa C-272/91, in Racc., p. I-1409.
maggior grado di fedeltà alla missione propria dell’amministrazione che si vorrebbe garantito dallo status di cittadino.
Di contro, nel settore dei pubblici appalti, la nozione di pubblica amministrazione subisce una sensibile espansione (di qui l’espressione “geometrie variabili” indicata in precedenza) dato che alla qualifica pubblicistica porta con sé la necessità che il soggetto giuridico in questione faccia uso delle procedure ad evidenza pubblica per selezionare le proprie controparti negoziali. L’obiettivo, dunque, è quello di favorire lo sviluppo di un mercato concorrenziale e, con esso, la parità delle chances competitive dei vari operatori economici, interessati ad essere partners commerciali delle pubbliche amministrazioni. Considerando, allora, che tale obiettivo è uno dei cardini su cui si è voluta costruire l’Unione, l’espansione della qualifica di ente pubblico anche nei confronti di soggetti che pur avendo natura privatistica sono sottoposti a direzione e controllo da parte dello Stato o di altri enti pubblici, si giustifica in ragione dell’esigenza di perseguire al massimo grado tale caposaldo comunitario. Più si espande la definizione di ente pubblico, infatti, meglio si garantiscono le libertà di circolazione e di stabilimento, presupposti indispensabili per la creazione di vere dinamiche concorrenziali.
Se queste sono le premesse (e si tratta di premesse non eludibili, in quanto provenienti dalle scelte del legislatore comunitario), non può sorprendere che anche nel diritto interno sia ormai possibile adottare una nozione di ente pubblico non cristallizzata e sempre valida, ma flessibile, da applicare a casi e settori specifici.
Le esigenze cui l’amministrazione deve far fronte, in un’economia globale e condizionata da vincoli provenienti da altri ordinamenti o imposti dal mercato, hanno determinato la scelta di trasformare gli apparati pubblici, dismettendo le vesti tradizionali di “autorità” e assumendo quelle di un
vero operatore di mercato, la cui attività è largamente disciplinata dal diritto privato.
La conclusione è dunque che l’amministrazione può istituire e servirsi di società private senza che tale qualificazione possa costituire un ostacolo rispetto all’inevitabile – doverosa – permanenza dell’interesse pubblico che rimane sottesa ad ogni attività della p.a., indipendentemente dalle regole che la disciplinano. Alla domanda che ci eravamo posti inizialmente, se possono esistere enti pubblici con struttura societaria, ritengo si debba rispondere che possono esistere società private che vanno settorialmente considerate degli enti pubblici.
La scelta di considerare le società derivanti dal processo di privatizzazione formale dei veri e propri enti pubblici, oltre ad essere troppo rigida sul piano dogmatico (e, in questo senso, parzialmente distonica rispetto alle categorie flessibili del diritto comunitario) porterebbe con sé ulteriori implicazioni, non auspicabili, relativi all’applicazione tout court delle regole cui soggiacciono le pubbliche amministrazioni55. Se, infatti, si dovessero applicare tutte le regole dell’azione amministrativa verrebbe frustrata l’esigenza di maggiore efficienza ed efficacia dell’attività delle società che, come già rilevato, è stata una delle ragioni principali che ha portato alla privatizzazione e all’adozione di modelli organizzativi basati su regole tipicamente privatistiche. In più, e non è un dato da sottovalutare, voler considerare le società alla stregua di enti pubblici allontana sicuramente i possibili investimenti privati e, con essi, le positive
55 Rileva sul punto X. Xxxxxxxxxx, Regole e mercato nei servizi pubblici, cit., p. 67 che “l’atipicità delle figure soggettive pubbliche rende difficile postulare rapporti di corrispondenza biunivoca tra ente pubblico e ambito di applicazione soggettiva delle regole di diritto amministrativo. […] Sovrapporre gli schemi pubblicistici, da un lato, finisce per forzare l’articolazione delle figure soggettive utilizzate dalla normazione amministrativa. Dall’altro, produce effetti rigidi e vincolanti, che contraddicono il ricorso a soluzioni differenziate”.
xxxxxxxx che può innescare il partenariato pubblico – privato. Le società è bene che siano private, dunque, senza che ciò impedisca una regolamentazione della loro attività puntuale, settoriale e strettamente funzionale alle sole irrinunciabili finalità di interesse pubblico.
D’altro canto, la logica di tipo economico che deve ispirare l’azione delle società derivanti dal processo di privatizzazione formale si pone come condizione imprescindibile sia per poter considerare queste società come dei veri operatori di mercato, in concorrenza con gli altri, sia per poter considerare la loro posizione nel mercato compatibile con i principi del diritto comunitario e anche del diritto interno, stante l’obbligo di interpretare la nuova costituzione economica in coerenza con i principi dell’Unione. Di qui la difficoltà di poter coniugare questa posizione di soggetto tenuto al rispetto della disciplina che informa il libero mercato concorrenziale con la natura di ente pubblico tout court che, ontologicamente e teleologicamente si pone al di fuori della logica – economica, privatistica e lucrativa – che informa tale disciplina.
In più, la stessa considerazione in ordine al dovere di agire secondo logiche di tipo economico consente di render ragione dei limiti all’ingerenza della mano pubblica nella gestione e nell’attività delle società non solo formalmente ma anche sostanzialmente privatizzate e, conseguentemente, pone dei seri problemi in ordine alla legittimità dei numerosi poteri speciali riservati allo Stato.
1.2.4 – Le privatizzazioni sostanziali e i poteri speciali riservati allo Stato di dubbia compatibilità con l’ordinamento comunitario.
Completato il processo di privatizzazione formale, il decreto legge n. 332 del 1994, convertito in legge 30 luglio 1994, n. 474, pose le basi per la successiva dismissione delle partecipazioni azionarie statali, nel tentativo di
portare a compimento il più generale progetto di disimpegno dello Stato nella gestione diretta (e indiretta) dell’economia nazionale. Gli obiettivi perseguiti dalla privatizzazione sostanziale sono almeno tre: la riduzione del debito pubblico, l’immissione di assets produttivi nel circuito dell’economia privata e l’implementazione dell’efficienza e della competitività delle ex imprese pubbliche56.
Quanto alle modalità di dismissione, il decreto ha voluto sottrarre l’intera operazione di vendita delle partecipazioni dirette detenute da Stato ed enti locali alle rigidità imposte dalle norme di contabilità generale contenute nel
X.X. 00 maggio 1924, n. 827 (ostative ad una vera negoziazione e inadatte ad una rapida definizione della vicenda traslativa) ed ha previsto una serie di modalità alternative di alienazione57: mediante offerta pubblica di vendita disciplinata dalla legge 18 febbraio 1992, n. 149, e relativi regolamenti attuativi58; mediante cessione delle azioni sulla base di trattative dirette con i potenziali acquirenti ovvero mediante il ricorso ad entrambe le procedure. Appare evidente come la possibilità di optare per la trattativa diretta sacrifichi sull’altare della speditezza l’esigenza di garantire la trasparenza della procedura e la parità di chances a tutti gli investitori potenzialmente interessati. Di qui l’ineludibile necessità di adeguare il dettato normativo ai canoni comunitari per mezzo della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il cui art. 4 va a sostituire la disposizione poc’anzi menzionata prevedendo che l’alienazione delle partecipazioni deve essere
56 Così, sul punto, X. XXXXXXX, Manuale di diritto amministrativo, tomo II, cit. p. 650 e X. XXXXXXX, X. ROLI, Privatizzazioni, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, p. 998.
57 In base all’art. 1, comma 2, del decreto la scelta della modalità di alienazione è effettuata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri dell'industria, del commercio e dell'artigianato e del bilancio e della programmazione economica.
58 Oggi la disposizione citata è stata sostituita dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico in materia di intermediazione finanziaria.
“effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell'azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di alienazione sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle attività produttive”59. Di particolare interesse risultano poi le disposizioni che si riferiscono alla dismissione di partecipazioni relative a società esercenti pubblici servizi60. Da un lato, l’art. 1-bis stabilisce che le dismissioni delle partecipazioni azionarie dello Stato e degli enti pubblici siano “subordinate alla creazione di organismi indipendenti per la regolarizzazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico”61. Dall’altro l’art. 2 prevede che tra le società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato operanti nel settore dei pubblici servizi, siano individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell'economia e finanze, di intesa con il Ministro delle attività produttive, nonché con i Ministri
59 La norma presenta una certa elasticità, consentendo la libertà di scegliere modalità di vendita non standardizzate e imponendo, invece, un generico obbligo di rispettare i principi di trasparenza e non discriminazione imposti dall’ordinamento comunitario.
60 Peraltro v’è da rilevare come la determinazione di cosa si debba intendere per pubblici servizi ai fini dell’applicazione della norma è molto insoddisfacente. Si citano espressamente i settori dei trasporti, delle telecomunicazioni, della difesa, delle fonti di energia e poi si citano, in via residuale “gli altri pubblici servizi”. Considerando l’intensità del dibattito che nel corso degli anni si è sviluppato attorno al concetto di servizio pubblico, una maggiore precisione da parte del legislatore avrebbe evitato di esporre la norma ad evidenti dubbi interpretativi.
61 Il Consiglio di Stato, nel parere 20 settembre 1995, n. 330, (in Foro it., 1996, III, c. 209) ha precisato che la creazione dell’organismo indipendente deve ritenersi necessaria solo nel caso in cui, assieme alla cessione delle partecipazioni di controllo, vengano previsti nello statuto della società poteri speciali riservati al Ministero del tesoro. L’istituzione di autorità indipendenti, quindi, vuole evitare che si sostituisca al monopolio pubblico un pericoloso monopolio privato e, nel contempo, è strumentale al necessario temperamento dei poteri speciali di controllo che lo Stato vuol mantenere.
competenti per settore, previa comunicazione alle competenti Commissioni parlamentari, quelle nei cui statuti, prima di ogni atto che determini la perdita del controllo, deve essere introdotta con deliberazione dell'assemblea straordinaria una clausola che attribuisca al Ministro dell' economia e delle finanze la titolarità di poteri speciali da esercitare di intesa con il Ministro delle attività produttive. Poteri speciali, dunque, sulla falsa riga di quanto già previsto nell’ordinamento inglese con la “golden share” o in quello francese con l’”action specifique”62, non connessi ai normali poteri dell’azionista ma strumentali alle prerogative che l’autorità vuol mantenere in settori in cui vengono in rilievo interessi pubblici particolarmente sensibili.
La norma procede con una precisa elencazione di questi poteri. Il primo consiste nel gradimento all’assunzione di partecipazioni rilevanti verso quei soggetti che, ai sensi del successivo art. 3, non possono detenere più del 5% del capitale sociale. Il secondo riguarda la possibilità di opporsi alla stipula di patti parasociali che riuniscano almeno il 5 % del capitale sociale con diritto di voto in assemblea. Il terzo contempla il diritto di veto nei confronti delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell'azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all'estero, di cambiamento dell'oggetto sociale, di modifiche dello statuto che sopprimono o modificano i poteri speciali riservati al Ministro dell’economia. Il quarto, infine, prevede la possibilità di nominare almeno
62 Per un approfondimento sul tema si rinvia a X. XXXXXXXXX - X. XXXXXXX, La golden share nel diritto comunitario, in Riv. società, 2004, 2 ss.; X. XXXXXXX, Golden share ed approccio uniforme in materia di capitali nella recente giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2004, 427 ss.; G.C. SPATTINI, Poteri pubblici dopo la privatizzazione (saggio di diritto pubblico dell’economia), Torino, 2006; E. FRENI Golden share, ordinamento comunitario e liberalizzazioni asimmetriche: un conflitto irrisolto, in Giorn. dir. amm., 2007, 145.
un amministratore (o più amministratori, comunque in numero non superiore ad un quarto del totale) e un membro del collegio sindacale.
Tali poteri speciali pongono un duplice problema di compatibilità: da un lato, con l’autonomia che deve caratterizzare l’attività di gestione da parte degli organi sociali, così come previsto dalle norme privatistiche in materia, e, dall’altro, con la disciplina comunitaria del mercato unico, basata su libertà di concorrenza, libertà di stabilimento e libertà di circolazione dei capitali. In relazione a quest’ultimo profilo, il legislatore italiano si è adoperato a più riprese63 nel tentativo di superare i possibili rilievi e le possibili censure da parte della Corte di giustizia dell’Unione ma, ciò nonostante, la Commissione (in prima battuta) e poi gli stessi giudici del Lussemburgo hanno stigmatizzato il contrasto delle norme nazionali in materia con i surriferiti principi cardine dell’ordinamento comunitario.
La Corte di giustizia, con sentenza pronunciata il 23 maggio 200064, ha dichiarato la normativa relativa ai poteri speciali contenuta nel decreto
63 Basti qui ricordare come un D.P.C.M. del 4 maggio 1999 abbia indicato gli obiettivi che potevano giustificare l’inserimento delle prerogative riservate al Ministro dell’economia negli statuti delle società interessate dal d.l. n. 332 del 1994: salvaguardia di interessi vitali dello Stato, con particolare riguardo all’ordine pubblico, alla pubblica sicurezza, alla sanità pubblica e alla difesa. Inoltre nel medesimo provvedimento si stabiliva i criteri in base ai quali si sarebbero dovuti esercitare i poteri in questione. In particolare, tale esercizio non avrebbe dovuto presentare carattere discriminatorio nei confronti degli investitori privati e, sul versante positivo, avrebbe dovuto essere idoneo, proporzionato e strettamente strumentale alla salvaguardia degli interessi di carattere generale precedentemente indicati come obiettivi dell’azione pubblica. In seguito, nell’estremo tentativo di evitare la formale condanna da parte della Corte di giustizia, la legge 23 dicembre 1999, n. 488, all’art. 66, ha affermato che i poteri speciali riservati al Ministro dell’economia “sono posti nel rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario”, ribadendo, poi, i contenuti del
D.P.C.M. testé citato. Le precisazioni introdotte, tuttavia, sono state ritenute troppo generiche per sottrarsi alla censura comunitaria. Di qui la prima sentenza di condanna nel maggio del 2000.
64 Sentenza della Corte di giustizia UE del 23 maggio 2000 nella causa C-58/99, Commissione
c. Repubblica italiana, in Giur. it., 2000, p. 1967.
legge n. 332 del 1994 in contrasto con le disposizioni del Trattato CE relative al diritto di stabilimento (art. 43 Trattato CE, ora art. 49 TFUE), alla libera prestazione dei servizi (art. 49) e alla libera circolazione dei capitali (art. 56, ora art. 63 TFUE).
In un secondo tempo, con riferimento alla normativa modificata successivamente alla prima procedura di infrazione (si veda l’articolo 66, comma 3 della legge n. 488/1999, di cui alla nota 58, e il relativo D.P.C.M. 11 febbraio 2000), la Commissione ha di nuovo inviato, nel febbraio 2003, una lettera di messa in mora al Governo italiano, nella quale è stata nuovamente prospettata la violazione degli articoli 43 e 56 del Trattato CE relativi, specificamente, al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali. Il Governo italiano, nelle osservazioni inviate alla Commissione il 4 giugno 2003, si era, quindi, impegnato a procedere in tempi rapidi a una modifica della regolamentazione nazionale in materia di esercizio dei poteri speciali, così da restringere la portata di tali poteri e renderli pienamente conformi ai principi del diritto comunitario e alla giurisprudenza della Corte di giustizia. Tale assunzione di impegni è sfociata nelle previsioni contenute nell’art. 4, commi 227 – 231 della legge finanziaria per il 2004 (legge n. 350 del 2003), volte, in estrema sintesi, a rendere i poteri speciali da strumenti di controllo preventivo a strumenti eventuali di controllo (successivo), esercitabili esclusivamente in caso di anomalie nel processo di formazione delle delibere societarie o in presenza di un pregiudizio per interessi vitali dello Stato65.
65 In base a quanto disposto dalla novella del 2005 l’esercizio del potere di veto all'adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o, comunque, di particolare rilevanza deve essere motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato e, in ogni caso, viene garantito ai soci dissenzienti dalle deliberazioni che introducono questo potere speciale il diritto di recesso (articolo 2, comma 2). Il potere di nomina riservato all’azionista pubblico, invece, viene ridimensionato avendo ad oggetto un solo
La disciplina della golden share, tuttavia, è stata nuovamente oggetto di censure da parte della Commissione europea. In particolare, in data 13 ottobre 2005, la Commissione ha adottato un parere motivato nei confronti dello Stato italiano, nel quale, pur riconoscendo che la normativa di riforma “sostituisce la precedente procedura (..) con un diritto di opposizione meno restrittivo”, ha ritenuto “ingiustificati i restanti controlli sull’assetto proprietario delle società privatizzate e sulle decisioni di gestione, valutandoli sproporzionati rispetto al loro scopo e costituenti ingiustificate limitazioni alla libera circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento (articoli 56 e 43 TCE)”. Ha pertanto invitato l’Italia a modificare nuovamente la legislazione e le autorità italiane, nel tentativo di interrompere la procedura d’infrazione, hanno presentato le proprie osservazioni difensive (come previsto dall’art. 258 TFUE) nel dicembre 2005. La Commissione, tuttavia, ritenendo non soddisfacenti le motivazioni addotte, in data 28 giugno 2006, ha deferito l’Italia dinanzi alla Corte di Giustizia, che si è pronunciata con sentenza 26 marzo 2009 (causa C-326/07)66, giudicando l’Italia responsabile per essere venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza dell’art. 56 TCE (libera circolazione dei capitali, ora art. 63 TFUE) ed in forza dell'art. 43 TCE (diritto di stabilimento, ora art. 49 TFUE), “nella misura in cui i criteri e le condizioni per l’esercizio dei poteri speciali [disciplinati all’articolo 1, comma 2, del D.P.C.M. 10 giugno 2004] si applicano ai poteri previsti dall'art. 2, comma 1, lett. a) e b) e c) del D.L. n. 332/94”67.
amministratore, peraltro, senza diritto di voto (articolo 2, comma 1, lett. d)). In attuazione di tali disposizioni è stato adottato il D.P.C.M. 10 giugno 2004, che ha sostituito il precedente D.P.C.M. 11 febbraio 2000 ridefinendo i criteri per l’esercizio dei poteri speciali.
66 Corte giustizia UE, 26 marzo 2009, causa 326/07, Commissione c. Repubblica italiana, in
67 Il riferimento va rispettivamente all’opposizione all’assunzione di partecipazioni rilevanti, all’opposizione all’assunzione di patti o accordi parasociali, nonché al potere di veto, in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato,
La Corte si è pronunciata, in prima battuta, sui criteri per l’esercizio dei poteri speciali di opposizione (all’acquisizione di partecipazioni rilevanti e alla conclusione di patti parasociali), ritenendo la normativa italiana non compatibile con le norme del Trattato sulla libera circolazione dei capitali, in quanto non rispettosa del principio di proporzionalità.
I giudici europei hanno infatti ricordato che la libera circolazione dei capitali nell’Unione può essere limitata da provvedimenti nazionali solo se giustificati da ragioni imperative di interesse generale e, in ogni caso, purché non esistano misure comunitarie di armonizzazione che indichino i provvedimenti necessari a garantire la tutela degli stessi interessi. In mancanza di sufficienti misure comunitarie, spetta agli Stati membri decidere il livello di tutela da garantire, nonché il modo in cui questo livello deve essere raggiunto, ma possono farlo soltanto nei limiti tracciati dal Trattato. Ineludibile appare, dunque, il rispetto del principio di proporzionalità in base al quale i provvedimenti adottati devono risultare congrui rispetto all’obiettivo di conseguire gli obiettivi perseguiti, ma, nel contempo, devono essere puntuali e strettamente aderenti alle necessità che li hanno giustificati. La Corte, sulla base di questi presupposti, ha (giustamente) ritenuto che l’applicazione dei criteri contenuti nell’articolo 1, comma 2 del DPCM del 10 giugno 2004, fossero generici ed imprecisi e, conseguentemente, in contrasto con il diritto dell’Unione. In più, la Corte ha avuto modo di rilevare che l’assenza di un preciso rapporto di causalità tra i criteri di esercizio dei poteri speciali e i poteri stessi finisce per accentuare il loro carattere ingiustificatamente discrezionale, rendendoli un mezzo del tutto sproporzionato in relazione agli obiettivi perseguiti.
all'adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell'azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all'estero.
Quanto ai criteri per l’esercizio del potere di veto, la Corte ha parimenti dichiarato inadempiente lo Stato italiano ai sensi del citato articolo 43 CE perché, da un lato, le circostanze per l’esercizio del potere stabilite dalle norme interne si presentavano imprecise e, dall’altro, la normativa in materia introduceva la possibilità di utilizzare strumenti sproporzionati rispetto all’obiettivo indicato. A parere della Corte, infatti, il decreto del 2004 non conteneva precisazioni sufficienti sulle circostanze concrete in cui poteva essere esercitato il potere di veto e i criteri da esso fissati non potevano dirsi fondati su condizioni oggettive e controllabili. L’analoga, generica e apodittica affermazione secondo cui il potere di veto dovesse essere esercitato soltanto in conformità con il diritto comunitario, nonché la sottoposizione al controllo del giudice nazionale, non potevano certamente bastare per rendere la normativa in esame compatibile con il diritto comunitario.
A seguito di tale pronuncia, i criteri per l’esercizio dei poteri speciali dettati dall’articolo 1, comma 2, del D.P.C.M. 10 giugno 2004 sono stati abrogati con un apposito D.P.C.M. 20 maggio 2010 ma, in mancanza di un deciso cambio di direzione nel senso auspicato dai giudici del Lussemburgo, la normativa sulla golden share è rimasta oggetto di vaglio da parte degli organismi comunitari.
Su di essa, in data 16 febbraio 2011, è stato inviato all’Italia un parere motivato da parte della Commissione europea e, ad oggi, è pendente la decisione di ricorso presso la Corte di giustizia. La Commissione, pur riconoscendo che gli interessi collettivi cui fa riferimento la normativa italiana68 possono essere considerati, in astratto, come legittimi interessi la
68 Tali interessi sono: l’approvvigionamento minimo di prodotti petroliferi, energetici, materie prime e beni essenziali alla collettività; un livello minimo nei servizi di telecomunicazione e di trasporto; la continuità della prestazione dei servizi pubblici; la
cui tutela potrebbe richiedere misure restrittive della libera circolazione dei capitali e della libertà di stabilimento, sostiene che le disposizioni in questione configurino restrizioni inadeguate e/o sproporzionate ai fini del conseguimento dei legittimi obiettivi. Ad avviso della Commissione, infatti69:
- l’attribuzione allo Stato di poteri speciali operata dalla normativa italiana in oggetto avrebbe l’effetto di dissuadere i potenziali investitori stabiliti in altri Stati membri dall’investire o dall’accrescere la loro influenza sulla gestione e sul controllo delle società stesse, e sarebbe pertanto incompatibile con i princìpi di libera circolazione dei capitali e di stabilimento di cui agli articoli 63 e 49 del TFUE;
- l’obiettivo di salvaguardare gli interessi vitali dello Stato può essere raggiunto mediante misure più adeguate e meno restrittive rispetto al controllo degli assetti proprietari delle società strategiche e delle decisioni dei loro dirigenti;
- i criteri per l'esercizio dei poteri di opposizione da parte del Ministro dell’economia potrebbero comportare un'eccessiva discrezionalità da parte dello Stato in quanto sono limitati solo da un riferimento generico agli interessi vitali dello Stato e dai criteri enunciati nel decreto attuativo 10 giugno 2004, ora abrogato, che non precisano le circostanze specifiche ed obiettive in cui tali poteri devono essere esercitati;
- il potere di opporsi all’assunzione di partecipazioni e alla conclusione di patti da parte degli azionisti che rappresentino una determinata
difesa nazionale; la sicurezza militare; l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza; le emergenze sanitarie.
69 Si riportano qui di seguito i punti fondamentali del parere inviato all’Italia, ripresi alla lettera dal dossier di documentazione redatto dal servizio studi del Dipartimento delle finanze e utilizzato dalla Camera dei deputati per la redazione della legge di conversione del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, di cui si dirà infra. Il testo del dossier è consultabile nel sito internet xxxx://xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxx00/xxxxxxx/xxxxx/X00000.xxx.
percentuale dei diritti di voto non può ritenersi strumentale alla tutela di interessi vitali dello Stato, in quanto né l’assunzione di una partecipazione scarsamente significativa (anche limitata al 5% del capitale), né un accordo tra azionisti che rappresentano una percentuale analogamente bassa, possono in linea di principio essere considerati una reale minaccia per gli interessi vitali dello Stato;
La Commissione ha concluso, pertanto, che i poteri speciali previsti dalla normativa italiana risultano sproporzionati rispetto agli obiettivi perseguiti e sono quindi incompatibili con la libertà di stabilimento e la libera circolazione invitando l’Italia a modificare le disposizioni contestate.
La modifica, inevitabile per evitare l’ennesima condanna, è intervenuta di recente con il d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito in legge 11 maggio 2012,
n. 56. L’articolo 1 del decreto in esame reca la nuova disciplina dei poteri speciali esercitabili dal Governo rispetto alle imprese operanti nei comparti della difesa e della sicurezza nazionale. L’articolo 2, invece, si riferisce alla disciplina dei poteri speciali nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni.
La principale differenza con la normativa previgente si rinviene nell’ambito operativo della nuova disciplina, la quale consente l’esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o in mano pubblica70. Inoltre, per ottemperare agli obblighi imposti da Bruxelles ed esplicitati nel parere motivato inviato all’Italia, vengono maggiormente circoscritti i criteri per l’esercizio dei poteri speciali, in modo da ridurre la discrezionalità di cui
70 Così si esprime il Servizio studi del Dipartimento delle finanze nel dossier di documentazione utilizzato dalla Camera dei deputati citato alla nota 64.
gode lo Stato nell’esercizio delle sue prerogative e, in questo modo, evitare la violazione delle libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali.
Nel comparto difesa e sicurezza, l’esercizio dei poteri speciali, che viene minuziosamente disciplinato, è subordinato alla sussistenza di una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale71.
Quanto ai poteri speciali esercitabili nel settore dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, essi consistono nella possibilità: a) di far valere il veto dell’esecutivo rispetto alle delibere, agli atti e alle operazioni concernenti assets strategici, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, ovvero imporvi specifiche condizioni; b) di porre condizioni all'efficacia dell'acquisto di partecipazioni da parte di soggetti esterni all’UE in società che detengono assets strategici e, in casi eccezionali, opporsi all'acquisto stesso. Anche in questo caso, la novella introduce criteri molto più precisi per l’esercizio di tali poteri che, in definitiva, viene circoscritto alle ipotesi di gravi pregiudizi per la sicurezza, il funzionamento delle reti e degli impianti e la continuità degli approvvigionamenti.
In entrambe le ipotesi, dunque, l’intervento dello Stato viene ricondotto ad evento eccezionale e successivo rispetto allo svolgersi delle dinamiche societarie; giustificabile solo nella misura in cui sia indispensabile per
71 Allo scopo di rendere evidente lo sforzo compiuto dal legislatore per superare i rilievi della Commissione, che aveva criticato l’eccessiva genericità delle modalità d’esercizio dei poteri speciali, mi limito ad indicare le circostanze che giustificano l’esercizio del potere di veto nei confronti di delibere particolarmente rilevanti: la rilevanza strategica dei beni o delle imprese oggetto di trasferimento; l'idoneità dell'assetto risultante dalla delibera o dall'operazione a garantire l'integrità del sistema di difesa e sicurezza nazionale, la sicurezza delle informazioni relative alla difesa militare, gli interessi internazionali dello Stato, la protezione del territorio nazionale, delle infrastrutture critiche e strategiche e delle frontiere; la possibilità che dell’acquisto di partecipazioni in imprese del settore derivi una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. Per la disciplina degli altri poteri rinvio alla lettura della norma.
salvaguardare esigenze di preminente interesse pubblico puntualmente individuabili. Il diritto comunitario ha imposto, quindi, una trasformazione radicale al ruolo dello Stato nella gestione delle attività economiche, in cui rimane coinvolto sia in veste di azionista, sia in veste di ineliminabile garante degli interessi vitali della collettività. Tuttavia, il corretto svolgimento di questo ruolo di garanzia impone che le prerogative pubblicistiche non siano utilizzate come strumento per esercitare un’inammissibile direzione sull’attività di diritto privato delle società partecipate; pena la puntuale violazione dei valori su cui si fondano l’Unione e il mercato unico72.
1.2.4 – Incompatibilità tra i poteri speciali riservati all’azionista pubblico dall’art. 2449 c.c. e l’ordinamento comunitario.
La tematica che ora si vuol affrontare, oltre a completare – ma senza esaurire – l’analisi delle prerogative pubblicistiche che possono collidere con i principi che regolano le libere dinamiche economiche, rappresenta in modo plastico il pragmatismo che contraddistingue il diritto dell’Unione e la sua interpretazione.
72 Un altro potere speciale che sembra porsi in contrasto con l’ordinamento comunitario è rappresentato dalla c.d. poison pill. Si tratta di una previsione statutaria (che può essere introdotta sulla base di quanto disposto dall’art. 1, commi 381 – 384, dalla legge finanziaria per il 2006, legge 23 dicembre 2005, n. 266) in base alla quale le società in cui lo Stato detenga una partecipazione rilevante possono emettere azioni e strumenti finanziari partecipativi che attribuiscono ai loro titolari il diritto a chiedere l’emissione in proprio favore di nuove azioni o strumenti partecipativi muniti di diritto di voto. Attraverso la possibilità di aumento del capitale sociale l’azionista pubblico (che vedrebbe aumentata la propria quota) sarebbe, così, in grado di neutralizzare eventuali tentativi di scalata non in linea con le esigenze della privatizzazione e la diffusione dell’investimento azionario. Questi due obiettivi, indicati espressamente dalla norma citata, sembrano troppo generici e potenzialmente in grado di giustificare un utilizzo troppo discrezionale della c.d. poison pill, con inevitabile, illegittima, compressione della libertà di circolazione dei capitali.
La Corte di giustizia, oltre ad aver censurato la disciplina speciale della golden share introdotta dal d.l. n. 332 del 1994, poi più volte modificata, si è pronunciata anche sulla compatibilità di una norma di “diritto comune”, l’articolo 2449 del codice civile, con l’articolo 56 del Trattato CE, a seguito di una serie di questioni pregiudiziali sollevate dal Tar Lombardia con ordinanza 29 settembre 200473.
In tale ordinanza, il giudice amministrativo aveva chiesto alla Corte di valutare la conformità dell’art. 2449 del codice civile con l’art. 56 del Trattato CE74 in quanto la sua applicazione, combinata con il sistema del voto di lista75 di cui all’art. 4 della legge n. 474/94, appariva “idonea ad introdurre una severa limitazione alla possibilità di partecipazione effettiva alla gestione ed al controllo reale di una società per azioni al di fuori degli ambiti di esercizio legittimo dei poteri speciali”.
L’art. 2449 c.c., infatti, prevedeva che in caso di detenzione di partecipazioni azionarie da parte dello Stato o di enti pubblici, lo statuto avrebbe potuto ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza76. Tale previsione, assieme all’ulteriore possibilità di nominare
73 La pronuncia in xxx xxxxxxxxxxxxx xx xxx. 000 xxx Xxxxxxxx XX (oggi art. 267 TFUE) a cui ci si riferisce è Corte giustizia UE, sez. I, 6 dicembre 2007, procedimenti riuniti C-463/04 e C-464/04, nelle cause radicate dinanzi al Tar Lombardia Federconsumatori + altri c. Comune di Milano, in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx.
74 La Corte in numerose occasioni si è pronunciata sull’interpretazione dell’articolo in questione. Si rinvia alle sentenze 23 maggio 2000, causa C-58/99, [Commissione/Italia]; 4 giugno 2002, cause C-503/99 e C-483/99, [Commissione/Belgio e Commissione/Francia]; 13 maggio 2003, cause C-98/01 e C-463/00, [Commissione/Regno Unito e Commissione/Spagna]).
75 Il meccanismo del voto di lista è stato previsto dalla norma citata al fine di una maggiore tutela delle minoranze, le quali, per questa via, possono comunque nominare un loro rappresentante in seno al consiglio di amministrazione.
76 Per completezza di informazione si ricorda che l’art. 2450 c.c., certamente in contrasto con l’ordinamento comunitario in quanto prevedeva l’applicazione dello stesso
altri consiglieri di amministrazione grazie al meccanismo del voto di lista, avrebbe potuto garantire al socio pubblico di minoranza il controllo dell’organo di gestione. Questa eventualità si era verificata nel caso di specie, dove il Comune di Milano, socio al 33,4% della società Aem S.p.A.77, era in grado di esprimere la maggioranza degli amministratori proprio grazie alla previsione statutaria introdotta sulla base dell’art. 2449 c.c.. L’articolo in parola consegnava nelle mani dell’azionista pubblico uno strumento che, da un lato garantiva la possibilità di esercitare un’influenza che va al di là dell’investimento effettuato, dall’altro, e specularmente, riduceva l’influenza degli altri azionisti che, pur avendo investito (e rischiato) un capitale maggiore, non avrebbero avuto la possibilità di indirizzare l’attività di gestione nel senso desiderato in vista di un maggiore ritorno economico.
Il Comune di Milano e lo Stato italiano (litisconsorte dinanzi alla Corte di giustizia) hanno evidenziato come tale prerogativa, prevista in astratto dal codice civile – e dunque rientrante nel diritto societario comune – doveva comunque essere attribuita all’azionista pubblico per mezzo di una delibera di assemblea capace di modificare lo statuto e, conseguentemente, non sarebbe stato possibile invocare la violazione dell’art. 56 del Trattato CE. In
meccanismo contemplato dall’art. 2449 anche nelle ipotesi in cui la legge o lo statuto attribuiva all’azionista pubblico la possibilità di nominare amministratori anche in assenza di partecipazione azionaria, è stato abrogato dall’art. 3 del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito in legge 6 aprile 2007, n. 46.
77 Si tratta di una società costituita dal Comune di Milano nel 1996, che opera nel settore dei servizi pubblici di distribuzione del gas e dell’energia elettrica. Nel 1998, a seguito della quotazione in borsa dell’AEM, vi è stata una prima cessione di titoli azionari, pur continuando il Comune di Milano a detenere il 51% del capitale sociale. Successivamente, con delibera 17 febbraio 2004, n. 4, il Comune di Milano ha deciso di ridurre ulteriormente la sua partecipazione azionaria nell’AEM al 33.4%. Esso ha tuttavia subordinato tale riduzione alla preventiva modifica dello statuto della società (nel senso previsto dall’art. 2449 c.c.).
altre parole, non si sarebbe trattato di una manifestazione dell’agire autoritativo dell’amministrazione ma, piuttosto, di una libera manifestazione della volontà dei soci.
Il rilievo, per quanto ficcante, non ha impedito alla Corte di constatare la violazione del diritto comunitario. In primo luogo, infatti, il Comune aveva subordinato la cessione di parte della propria partecipazione (quando deteneva la maggioranza assoluta) proprio alla modifica statutaria in questione. In secondo luogo, pur riconoscendo che un tale diritto di nomina, una volta inserito nello statuto, non è immutabile, dato che può essere modificato o eliminato in occasione di un’ulteriore revisione dello statuto medesimo, esso tuttavia gode di una protezione relativamente intensa78. Infatti, anche se l’azionista pubblico decidesse, in un secondo momento, di ridurre la propria partecipazione societaria, potrebbe comunque continuare a godere del privilegio fino a che una nuova maggioranza qualificata (non sempre facilmente raggiungibile) adottasse la delibera necessaria per eliminarlo.
Premessa, dunque, l’applicabilità nel caso di specie del parametro rappresentato dall’art. 56 del Trattato CE, la Corte non poteva che riconoscere il contrasto dell’art. 2449 c.c. con il diritto comunitario sia perché creava disparità di trattamento tra azionisti pubblici e privati, sia perché finiva per disincentivare l’investimento privato in società partecipate dallo Stato o dagli enti pubblici. Quanto al primo profilo, l’art. 2449 c.c. consentiva allo statuto di una società per azioni di conferire la facoltà di nominare direttamente uno o più amministratori solamente allo Stato o agli enti pubblici che in tale società avevano delle partecipazioni, mentre tale facoltà non poteva certo essere riconosciuta ad azionisti privati.
78 Per le modifiche statutarie è necessaria una maggioranza qualificata.
Quanto al secondo profilo, un investitore privato avrebbe potuto avere la certezza di riuscire ad abrogare il diritto di nomina diretta degli amministratori solamente qualora l’investimento effettuato fosse stato di una rilevanza tale da assicurargli la maggioranza necessaria per le modifiche statutarie. Un simile investimento, tuttavia, almeno nella generalità dei casi, sarebbe stato molto più ingente di quello normalmente necessario per assicurarsi quegli stessi poteri di direzione dell’attività sociale che si sarebbero potuti ottenere in assenza del privilegio pubblicistico in questione.
Per questi motivi la Corte di giustizia ha sancito il contrasto della norma interna con il diritto comunitario affermando che “l’art. 56 CE dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una disposizione nazionale, quale l’art. 2449 del codice civile, secondo cui lo statuto di una società per azioni può conferire allo Stato o ad un ente pubblico che hanno partecipazioni nel capitale di tale società la facoltà di nominare direttamente uno o più amministratori, la quale, di per sé o, come nelle cause principali, in combinato con una disposizione, quale l’art. 4 della legge n. 474/1994 […] è tale da consentire a detto Stato o a detto ente di godere di un potere di controllo sproporzionato rispetto alla sua partecipazione nel capitale delle detta società”79.
A seguito della pronuncia pregiudiziale, cui – come noto – segue un obbligo conformativo a carico dello Stato nell’ipotesi in cui venga rilevato un contrasto con il diritto comunitario, il legislatore nazionale ha provveduto a riscrivere l’articolo in questione. Nello specifico, si è precisato che il diritto di nominare amministratori o sindaci (o membri del consiglio di sorveglianza) può sì essere conferito dallo statuto ma, a differenza di prima, tali nomine dirette devono mantenersi in rapporto di
79 La statuizione è tratta dal punto 43 della pronuncia in via pregiudiziale della Corte già menzionata alla nota 69.
proporzionalità con la partecipazione al capitale sociale detenuta dall’azionista pubblico.
Dalla lettura della norma emerge che parte dei rilievi formulati dalla Corte sono stati recepiti dalla novella ma, allo stesso tempo, si deve rilevare la permanenza di una chiara disparità di trattamento tra investitore pubblico e privato, dato che a quest’ultimo, anche nella sua nuova versione, l’art. 2449 c.c. non è certamente applicabile. Pertanto, alla domanda se la norma debba considerarsi limitativa rispetto alla libertà di circolazione dei capitali sembra doversi rispondere positivamente, anche perché il privilegio in questione80 viene accordato non tanto ad una certa categoria di azioni o a determinati strumenti finanziari partecipativi, ma ad un particolare azionista, proprio in ragione della sua qualificazione soggettiva pubblicistica.
1.3 – Le società degli enti locali e i limiti imposti alla detenzione di partecipazioni sociali. (rinvio)
Si rinvia al capitolo II in cui verrà affrontata diffusamente la tematica delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali e, in quell’occasione, si avrà modo di approfondire le problematiche connesse all’utilizzo del modello societario da parte degli enti locali.
80 L’art. 2449 c.c si riferisce alle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Se, invece, la società vi facesse ricorso, sarebbe comunque possibile riconoscere diritti speciali di nomina allo Stato o agli enti pubblici mediante attribuzione di strumenti finanziari partecipativi o azioni speciali ma, secondo autorevole dottrina, varrebbe in questo caso il limite numerico di un solo amministratore, analogamente a quanto previsto dall’art. 2351 c.c. (cfr. G. F. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2011, p. 258).
1.4 – Lo Stato regolatore e l’avvento delle autorità amministrative indipendenti.
L’avvio del processo di privatizzazione sostanziale delle ex imprese pubbliche e, più in generale, la sempre maggiore apertura al mercato di rilevanti settori dell’economia, hanno determinato la necessità che lo Stato assumesse un nuovo ruolo nel quadro della politica economica comunitaria. Non più – o comunque sempre meno – un soggetto pronto ad intervenire con misure puntuali volte a favorire lo sviluppo o la ripresa di certi settori dell’economia nazionale, ma soggetto regolatore, il cui compito è quello di creare e mantenere le condizioni affinché possa svilupparsi il mercato e l’economia nazionale (intesa però non più come monade ma come parte di un intero sistema economico comunitario)81. A questo punto sarebbe facile affermare che il diritto comunitario ha imposto una concezione liberista dell’economia, a discapito di forme incisive di tutela del welfare che hanno caratterizzato la politica economica di alcuni importanti paesi membri. Tale conclusione, se pur corretta nei limiti in cui rileva un deciso favore nei confronti di politiche liberiste, è sostanzialmente sbagliata nei presupposti. Non si tratta di una scelta imposta da una preferenza ideologica per un determinato modello economico; tale scelta, piuttosto, è la conseguenza di una necessità primaria: creare l’Unione europea. Quest’ultima non avrebbe potuto nascere come il risultato della volontà comune di creare legami di tipo politico; troppe le implicazioni in termini di cessione di sovranità e, soprattutto, troppo inconciliabili con la
81 Con ciò non si vuol dire che lo Stato perda la funzione di prendere decisioni strategiche in materia di politica industriale ma tali decisioni devono essere rispettose degli equilibri imposti dalle norme comunitarie che, come noto, vietano interventi statali diretti a favorire determinate imprese nazionali (ad esempio gli ex monopolisti pubblici) che, sostanzialmente, rappresentano degli ostacoli all’ingresso di nuovi operatori economici comunque provenienti dal mercato unico.
secolare differenziazione (e conflittualità) tra gli Stati nazionali del vecchio continente82. Si è deciso, quindi, di iniziare da un’unione di tipo economico, uniformando i mercati nazionali al fine di renderli parte integrante di un più ampio mercato unico, senza frontiere e senza restrizioni discriminatorie. La creazione del mercato unico, quindi, ha imposto che venissero messi alla base dell’ambiziosa architettura delineata dai trattati comunitari alcuni valori irrinunciabili quali la tutela della concorrenza, le libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi, di circolazione delle merci, dei lavoratori e dei capitali, oltre al principio trasversale della non discriminazione e quello ancor più basilare della libertà dell’iniziativa economica. Questi valori sono certamente espressione di un’impostazione liberista dell’economia ma, nella dimensione europea, sono in primo luogo i valori fondamentali di una comunità che ha voluto essere unita sotto il profilo economico, prima ancora che da un punto di vista politico.
In questa cornice fornita dal diritto comunitario non stupisce, allora, che si sia fatta sentire sempre più pressante l’esigenza di garantire un intervento pubblico regolatorio di natura imparziale, in funzione di garanzia più che di indirizzo. Garanzia, ben s’intende, proprio di quei valori cui poc’anzi si faceva cenno e che sono stati alla base di quel complesso (e mai del tutto completato) processo che ha portato lo Stato a mutare il proprio ruolo nelle dinamiche economiche.
Il venir meno dell’interventismo diretto garantisce, infatti, maggiori spazi all’iniziativa privata ma, nel contempo, priva il mercato - e in particolare i suoi operatori più deboli e gli utenti / consumatori - di un’efficace tutela nei confronti di pratiche commerciali scorrette e di una possibile (e probabile) riduzione delle garanzie offerte dallo stato sociale. Come giustamente è
82 In questo senso X. XXXXXXX, La nuova costituzione economica, cit., p. 293.
stato rilevato83, è innegabile che la piena apertura al mercato in settori nevralgici dell’economia, come è quello dei servizi, rischia di favorire la nascita di pericolosi e aggressivi monopoli privati, in grado di danneggiare l’utenza (in prima battuta) e, più in generale, il mercato stesso in termini di minore efficienza dei servizi offerti e di aumento delle tariffe. Di qui la necessità di dar vita ad autorità di garanzia indipendenti dal potere politico, che è stata puntualmente recepita proprio dalle norme che hanno disciplinato la c.d. privatizzazione sostanziale delle ex imprese pubbliche84.
Ciò chiarito, ci si potrebbe però domandare perché queste autorità devono essere indipendenti dal potere politico. Non potrebbe, forse, la stessa amministrazione pubblica – nelle sue forme tradizionali – farsi carico di tale funzione garantista? Consapevoli dell’ampio dibattito dottrinale che si è sviluppato sul punto85, in questa sede mi limito ad alcune sintetiche considerazioni.
In primo luogo l’indipendenza delle autorità in questione rappresenta una condizione indispensabile affinché settori della vita sociale in cui il bilanciamento dei contrapposti interessi risulta particolarmente delicato siano regolati senza il dovere istituzionale (tipico di ogni organo amministrativo di tipo tradizionale) di perseguire un particolare interesse pubblico primario, sia pur con il minor sacrificio possibile per gli interessi
83 Il riferimento è a X. XXXXXXXXXX, Corso di diritto amministrativo, tomo I, cit., p. 999.
84 Sul punto vedi supra, par. 1.2.4.
85 Tra i moltissimi contributi si segnalano: M. X’XXXXXXX, voce Autorità indipendenti, in Enc. Giur. Treccani, 1995; ID, Riforma della regolazione e sviluppo dei mercati in Italia, in X. XXXXXXX-M. X’XXXXXXX, Regolazione e concorrenza, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 172; A. LA SPINA-G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 23 ss; X. XXXXXXXXXX, Regole e mercati nei servizi pubblici, Bologna, 2005 ; X. XXXXX, Autorità semi-indipendenti ed autorità di garanzia, in Riv. trim. dir. pubb., 1997, p. 645 ss; C. MALINCONICO, Le funzioni amministrative delle autorità indipendenti, in X. XXXXXXX – X. XXXXXXXXX, I garanti delle regole, Bologna 1996, p. 39 ss.
secondari coinvolti. Il condizionamento della scelta politica che è sottesa all’attribuzione di un potere autoritativo per mezzo di una norma di legge, in altre parole, impedirebbe la tutela, in veste neutrale, dell’interesse obiettivo dell’ordinamento che, nella materia economica, si compendia nei principi di derivazione comunitaria sopra menzionati. Non a caso, infatti, si parla di neutralità e non di imparzialità delle autorità indipendenti. Solo la prima è sinonimo di una posizione di indifferenza rispetto agli interessi da regolare e, soprattutto, rispetto ai soggetti che ne sono portatori. L’imparzialità, diversamente, esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare le posizioni soggettive di chi è coinvolto dalla sua azione che, come detto, è comunque volta a perseguire la cura degli interessi (primari) ad essa affidati dalla legge86.
L’altra fondamentale ragione che giustifica la necessaria indipendenza delle autorità in questione risiede in una generale sfiducia nei confronti dell’amministrazione tradizionale, ritenuta, da un lato, incapace di svolgere con sufficiente obiettività il delicato ruolo di soggetto regolatore di settori in cui è molto forte la pressione di lobbies e gruppi di potere, dall’altro, sfornita di quelle adeguate competenze che risultano indispensabili per poter pienamente comprendere – e consapevolmente gestire - le dinamiche che caratterizzano materie ad elevato tasso di tecnicismo87.
A questo punto, non potendo affrontare le pur interessanti tematiche riconducibili alla mancanza di una formale copertura costituzionale che giustifichi la peculiarità di un’amministrazione sottratta al principio
86 Così E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2009, p. 48.
87 Si pensi alle materie del credito, della finanza, delle telecomunicazioni o, più in generale, alla difficoltà di cogliere le conseguenze di particolari strategie societarie (ad esempio un progetto di fusione tra due società appartenenti allo stesso relevant market).
d’ispirazione cavouriana secondo cui ogni p.a. deve far capo al Governo88, ritengo maggiormente funzionale alla presente trattazione introdurre il tema di come le funzioni affidate alle authorities possano influenzare il mercato e l’autonomia negoziale dei suoi protagonisti.
1.4.1 – Il condizionamento dell’autonomia negoziale derivante dall’esercizio dei c.d. “poteri regolatori” delle autorità amministrative indipendenti.
Alle autorità amministrative indipendenti è stato affidato un fondamentale compito di garanzia, che si manifesta nell’adozione di atti tipicamente regolatori (laddove una norma di rango primario attribuisca all’autorità poteri regolamentari) o atti, come quelli sanzionatori, che rientrano nell’ampia figura della cd. funzione giusdicente; senza, peraltro, dimenticare il ruolo svolto in termini di impulso nei confronti del legislatore ad adottare discipline maggiormente coerenti con la cura degli interessi cui le stesse authorities sono preposte (cd. funzione di advocacy).
Naturalmente, l’intervento delle autorità indipendenti è legittimo e doveroso nel momento in cui si presenti un’ipotesi di market failure89, che consiste in uno sviluppo anomalo del rapporto tra domanda e offerta e determina una situazione in cui i mercati non sono in grado di organizzare
88 L’orientamento maggioritario è nel senso di riconoscere un elevato grado di indipendenza dal Governo in ragione della stessa funzione che sono chiamate a svolgere e che non potrebbe essere svolta correttamente se il potere politico potesse condizionare il loro operato. Naturalmente, non si deve dimenticare che le amministrazioni indipendenti trovano pur sempre nella legge la fonte attributiva dei loro poteri e l’indicazione dei criteri che debbono presiedere all’esercizio di tali poteri. In più, la natura amministrativa delle autorità ne impone la soggezione al controllo giurisdizionale. Controllo tanto più indispensabile data la non configurabilità di poteri governativi di direttiva e di annullamento dei relativi atti.
89 Per un approfondimento si rinvia a H. S. XXXXX – X. XXXXX, Scienza delle finanze, Milano, 2010, p. 69 ss.; X. XXXXX, Public goods and market failures, New Brunswick, 1988, p. 27 ss..
la produzione in maniera efficiente, o non sanno allocare efficientemente beni e servizi ai consumatori. Le cause di tali fallimenti del mercato sono state tradizionalmente individuate nell’assenza di un mercato concorrenziale (o nell’imperfezione della concorrenza in esso presente), nelle asimmetrie informative e nella presenza di esternalità negative: interventi, cioè, provenienti da soggetti terzi (ad esempio lo Stato) che condizionano e sbilanciano gli equilibri del libero mercato. Equilibri che, evidentemente, possono determinare un assetto efficiente del mercato solo se il rapporto tra domanda e offerta, tra consumatore e produttore, è il risultato di un’effettiva libertà negoziale, che è condizione indispensabile per raggiungere quel livello di efficienza denominato dalla scienza economica “ottimo paretiano”90.
Si capisce, dunque, che la mancanza di una vera libertà negoziale, determinata principalmente da squilibrati rapporti di forza tra soggetti produttori (o fornitori di servizi) e soggetti consumatori (o utenti), porta con sé il sacrificio della par condicio dei protagonisti dei rapporti economici e l’alterazione delle regole del mercato concorrenziale (che, ricordiamolo ancora una volta, sono valori irrinunciabili per tutti i paesi membri dell’Unione europea). La libertà – o autonomia – negoziale può dirsi realmente sussistente solo laddove le parti possono trattare e costruire, in
90 L'ottimo paretiano o efficienza paretiana è un concetto introdotto dall'economista italiano Xxxxxxxx Xxxxxx, largamente applicato in economia, teoria dei giochi, ingegneria e scienze sociali. Si realizza quando l'allocazione delle risorse è tale che non è possibile apportare miglioramenti paretiani al sistema, cioè non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro. La condizione di partenza per un mercato efficiente in senso paretiano è la concorrenza pura. Un mercato concorrenziale rifletterà nei prezzi dei beni la loro scarsità in natura secondo il principio della domanda e dell'offerta.
condizioni di parità91, il contenuto del rapporto negoziale, secondo lo schema tradizionale delineato dagli artt. 1321 e 1322 del codice civile. Nei rapporti contrattuali di massa, tuttavia, si assiste ad una progressiva erosione di questo spazio di autonomia decisionale data la crescente necessità (e convenienza) per i soggetti “professionisti” di predisporre unilateralmente modelli contrattuali standardizzati cui il consumatore – utente può solamente aderire o meno, senza nessuna possibilità di incidere nella formulazione delle sue clausole92. Di qui la necessità dell’intervento tutorio da parte dello Stato, tra i cui compiti rientra anche la protezione della libertà negoziale e, con essa, della libertà dell’iniziativa economica. Tale intervento si è tradotto, in primo luogo, nella particolare disciplina delle c.d. clausole vessatorie e, più in generale, nella disciplina riservata ai rapporti contrattuali tra professionisti e consumatori contenuta nel d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo). In secondo luogo, l’intervento si è manifestato anche con l’introduzione di norme assai specifiche e settoriali destinate a disciplinare alcuni elementi del rapporto contrattuale tra professionista e consumatore (imponendo, ad esempio obblighi informativi o tempi precisi per l’esercizio del diritto di recesso o un obbligo a contrarre) e in grado di prevalere sulle difformi clausole stipulate dalle parti in virtù degli artt. 1339 e 1419 c.c..
Questi importanti correttivi introdotti dal legislatore, tuttavia, proprio perché previsti da puntuali norme di legge non sono sufficienti a garantire adeguata tutela nell’ambito del settore degli scambi commerciali e in quello
91 Secondo R. SACCO, in Autonomia nel diritto privato, in Dig. disc. privat., I, p. 517, autonomia significa facoltà di autoregolamentare i propri interessi. Risulta, perciò, essere autonomo chi può decidere sul se e sul come perseguire e raggiungere un certo scopo mediante il contratto (così X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, p. 775).
92 Cfr., sul punto, X. XXXXXXX, Autonomia privata e autorità indipendenti, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti, a cura di G. GITTI, Bologna, 2006, p. 71.
dei servizi. La rigidità delle norme, infatti, non permette il necessario e continuo adeguamento dei rimedi ai sempre mutevoli pericoli che incombono sulla concorrenzialità del mercato, sulla sua efficienza e sulla libertà negoziale dei suoi attori. Maggiormente rispondenti a questa esigenza di rapidità e puntualità sono invece i provvedimenti amministrativi adottati, però, da autorità indipendenti dai vincoli imposti dalla concezione piramidale della p.a., proprio perché, come già detto93, l’indipendenza è condizione indispensabile per lo svolgimento della funzione regolatoria. Per questo motivo sono state introdotte diverse disposizioni di legge che attribuiscono ad un’autorità indipendente, di volta in volta individuata in relazione al settore d’intervento, il potere di adottare provvedimenti con lo scopo di creare condizioni uniformi per la stipula di determinati contratti. Considerando, poi, che tali provvedimenti finiscono per imporre un determinato contenuto al negozio privatistico, non appare fuori luogo parlare di vera e propria eteronomia delle fonti del regolamento contrattuale94.
Analizziamo alcuni esempi per capire meglio gli esatti contorni di questa peculiare forma di intervento dello Stato nelle dinamiche del libero mercato.
Prendiamo in considerazione il caso dell’Isvap, l’autorità indipendente che si occupa della vigilanza nel settore delle assicurazioni private. In armonia con quanto prescritto dalla direttiva 92/1996/CE, il d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174 (che ne costituisce attuazione) e, successivamente, il d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 “codice delle assicurazioni private”, hanno attribuito
93 Vedi supra, par. 1.4.
94 Di eteronomia delle fonti, naturalmente, si può parlare anche in relazione alle disposizioni di legge, prima richiamate, che introducono clausole contrattuali in sostituzione di quelle difformi previste dalle parti. Per un approfondimento sul tema si rinvia a X. XXXXXX, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004.
all’Isvap il potere di disciplinare il contenuto della nota informativa che l’impresa di assicurazione deve consegnare al cliente prima della stipula. Questo potere potrebbe sembrare non particolarmente significativo, considerando che si riferisce ad un obbligo di informazione precontrattuale, tuttavia, si comprende pienamente la sua rilevanza in termini di condizionamento dell’autonomia negoziale facendo attenzione al ruolo che la nota informativa svolge, in particolare nel settore delle assicurazioni sulla vita. L’art. 185 del codice delle assicurazioni private afferma che l’Isvap deve disciplinare, con regolamento, “il contenuto e lo schema della nota informativa in modo tale che siano previste, oltre alle indicazioni relative all'impresa, le informazioni sul contratto con particolare riguardo alle garanzie e alle obbligazioni assunte dall'impresa, alle nullità, alle decadenze, alle esclusioni e alle limitazioni della garanzia e alle rivalse, ai diritti e agli obblighi in corso di contratto e in caso di sinistro, alla legge applicabile ed ai termini di prescrizione dei diritti, alla procedura da seguire in caso di reclamo e all'organismo o all'autorità eventualmente competente”. L’ampiezza delle prescrizioni che la nota informativa deve prevedere aumenta ancor di più nel settore delle assicurazioni sulla vita dove si devono specificare anche le informazioni essenziali relative ai costi ed ai rischi del contratto ed alle operazioni in conflitto di interesse. In più, il regolamento Isvap deve indicare anche quali ulteriori informazioni devono essere comunicate al contraente in corso di rapporto in merito a costi, spese e risultati della gestione delle attività in cui è investito il capitale assicurato.
Il contenuto della nota informativa, in altre parole, finisce per descrivere
puntualmente quello che deve essere il contenuto del regolamento contrattuale e, dunque, le caratteristiche dei singoli prodotti assicurativi, determinando così una chiara etero – regolamentazione del rapporto negoziale. A fronte di una tale pervasività dell’atto regolamentare, la
disciplina codicistica relativa al contratto di assicurazione appare ormai come residuale o, se vogliamo, come un catalogo di principi95 riferibili ad un particolare tipo negoziale.
Le stesse riflessioni possono essere svolte, a maggior ragione, anche in riferimento al recentissimo regolamento Isvap 3 maggio 2012, n. 40, per la definizione dei contenuti minimi del contratto previsto dall’art. 28, comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012, n.1, in relazione all’ipotesi in cui le banche e altri intermediari finanziari condizionino l’erogazione di un mutuo immobiliare o di un credito al consumo proprio alla stipulazione di un contratto di assicurazione sulla vita. A differenza dell’ipotesi sopra delineata, in questo caso il regolamento si spinge sino a prevedere direttamente, e in xxx xxxxxxxxx, xx xxxxxxxxxx xxxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxx, il suo oggetto e le sue clausole. Il sacrificio dell’autonomia privata non potrebbe apparire più netto.
Nel settore dei servizi d’investimento, sin dal 199196, il legislatore ha attribuito alla Consob il potere di disciplinare l’organizzazione e le modalità di svolgimento delle negoziazioni dei contratti a termine su strumenti finanziari collegati a valori mobiliari quotati nei mercati regolamentati, compresi quelli aventi ad oggetto indici su tali valori mobiliari (i cd. futures e options). In conseguenza di tale potere la Consob ha
95 Così G. GITTI, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti, cit., p. 94, il quale ritiene che la mancata consegna della nota informativa o la sua lacunosità rispetto al modello delineato nel regolamento Isvap determini la nullità del contratto di assicurazione per indeterminatezza dell’oggetto. Tale comunicazione precontrattuale, infatti, avrebbe la funzione di rendere intelligibile al futuro assicurato il contenuto stesso del prodotto assicurativo che intende acquistare. La qualità e la quantità di informazioni in essa contenute sembrano giustificare la riflessione proposta dall’autore.
96 Il riferimento è all’art. 23, comma 2, della legge 2 gennaio 1991, n. 1, poi abrogato dal d.
lgs. 23 luglio 1996, n. 415.
sostanzialmente tipizzato i contratti in questione e l’autonomia degli operatori del mercato mobiliare si è ridotta alla scelta di immettere (da un lato) e di acquistare (dall’altro) questi prodotti finanziari, senza poter incidere in senso dispositivo sulla relativa disciplina.
Passando al settore del credito, l’art. 117, comma 8, del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385, ha previsto che “la Banca d’Italia [anch’essa autorità indipendente] può prescrivere che determinati contratti o titoli, individuati attraverso una denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato”, sanzionando, poi, con la nullità i contratti e i titoli difformi. Il testo unico bancario, quindi, ha attribuito alla Banca d’Italia il potere di tipizzazione di alcune forme contrattuali (dando un’interpretazione “forte” alla norma) o, quanto meno di “connotazione”97, intesa come il potere di indicare quali debbano essere i contenuti e le caratteristiche essenziali di un contratto affinché questo possa rientrare in un determinato tipo negoziale (e possa, quindi, essergli attribuito un certo nomen iuris). Secondo la prima interpretazione, peraltro minoritaria, l’art. 117, comma 8, garantirebbe alla Banca d’Italia il ruolo di unico soggetto in grado di stabilire il contenuto dei contratti bancari allo scopo di assicurarne la massima trasparenza98. Una simile impostazione, tuttavia, finirebbe per penalizzare l’autonomia contrattuale delle parti oltre misura, dal momento che il testo unico bancario non attribuisce alla Banca d’Italia un potere di regolamentazione generalizzato in funzione della trasparenza; l’art. 117, comma 8, si limita a proteggere l’uniformità dei linguaggi informativi99.
97 L’espressione è di G. DE NOVA, Trasparenza e connotazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 935.
98 Tra i sostenitori di questa teoria X. XXXXX, La nuova normativa sulla trasparenza bancaria, in Dir. banc. merc. fin., 1993, p. 583.
99 In questo senso X.X. XXXXXXXX, Normativa di trasparenza e ruolo della Banca d’Italia, in
Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n. 40 del 1999, p. 27.
Ha prevalso, dunque, la seconda interpretazione della norma in commento secondo cui le parti, da un lato, possono dar vita a contratti non tipizzati ma, dall’altro, non possono inserire nei contratti tipici presi in considerazione dal potere regolamentare della Banca d’Italia clausole difformi da quelle stabilite dall’autorità di vigilanza100. Anche questa interpretazione “debole” della disposizione, in ogni caso, rende palese il condizionamento esercitato dall’autorità indipendente sull’autonomia privata, tanto più che la legge sanziona con la nullità ogni contenuto negoziale difforme dal modello proposto. A tale nullità, secondo l’opinione di chi scrive, non può, tuttavia, far seguito il meccanismo di sostituzione automatica previsto dall’art. 1339 del codice civile, anche se tale conseguenza sarebbe certamente coerente con la finalità di garanzia nei confronti dell’investitore privato, il quale si trova nella condizione di poter contrarre solo alle condizioni della banca (che, come detto, rendono invalido il contratto)101. Questa conclusione sembra imposta da ragioni di ordine letterale - l’art. 1339 c.c. richiede che sia una norma imperativa di legge a imporre il contenuto del regolamento contrattuale cui non si è conformata la volontà negoziale delle parti – e di ordine sistematico. Nel medesimo art. 117 del T.U.b., infatti, mentre nell’ottavo comma non si fa cenno ad un meccanismo di integrazione del regolamento contrattuale o di modifica dello stesso secondo quanto previsto dall’opera di tipizzazione / connotazione della Banca d’Italia, il comma 7 ha introdotto proprio tale meccanismo in relazione ad altre ipotesi di nullità del contratto. Come ricorda l’antico brocardo, ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Nell’ipotesi analizzata, dunque, il contrasto del regolamento contrattuale voluto dalle
100 Si legga in proposito R. COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 1994, p. 481, richiamato da X.X. XXXXXXXX, op. cit., p. 23.
101 In questo senso anche G. DE NOVA, Trasparenza e connotazione, cit., p. 940; contra X.X. XXXXXXXX, Normativa di trasparenza e ruolo della Banca d’Xxxxxx, xxx., x. 00.
parti (rectius, imposto dalla banca, che si trova in posizione dominante rispetto all’investitore) con quanto previsto dall’atto regolatorio della Banca d’Italia avrà l’effetto di determinare la nullità del contratto stipulato senza che residui spazio per eventuali eterointegrazioni. Nullità che sarà rilevabile d’ufficio dal giudice e che, analogamente ad una nullità di protezione del codice del consumo, opererà solo a vantaggio del cliente, così come previsto dall’art. 127 del T.U.b..
Concludo questa serie di esempi, che dimostrano la penetrante efficacia degli atti delle autorità indipendenti in termini di limitazione dell’autonomia negoziale privata, con quello che ritengo un caso particolarmente significativo e che coinvolge i poteri delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità.
La legge 14 novembre 1995, n. 481, istitutiva di queste amministrazioni indipendenti (tra cui si annoverano l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e quella per le telecomunicazioni), ha previsto l’attribuzione in favore di questi organismi di numerosi poteri funzionali all’attività di regolazione, tra i quali spicca quello di adottare “direttive concernenti la produzione e l'erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all'utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti degli utenti e dei consumatori, eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione”102. Inoltre, il comma 37 dello stesso articolo dispone che il contenuto di tali direttive, adottate a seguito di un’attività di concertazione con i rappresentanti dei soggetti protagonisti del settore economico interessato, vada ad integrare o a modificare il regolamento di servizio che il soggetto gestore deve predisporre nel rispetto della legge in questione e delle
102 Si tratta del potere indicato all’art. 2, comma 12, lettera h), della legge n. 481 del 1995.
convenzioni o accordi di programma stipulati con l’amministrazione concedente. Il regolamento di servizio, è bene precisarlo, costituisce una sorta di negozio normativo unilaterale103 in base al quale l’esercente predispone la disciplina dei futuri contratti individuali d’utenza e si impegna a non discostarsene in modo che sia maggiormente garantita la posizione del contraente debole da eventuali mutamenti in senso peggiorativo o discriminatorio. Le direttive adottate dall’autorità garante, pertanto, si presentano come fonti eteronome del regolamento di servizio e, in seconda battuta, anche dei singoli contratti d’utenza che riflettono il contenuto del regolamento.
L’autorità che più di altre ha esercitato in modo penetrante il potere attribuito dalla legge è l’Autorità per l’energia elettrica e il gas che, nello specifico, ha adottato la direttiva n. 229 del 2001 (poi ripetutamente modificata e integrata) con cui ha determinato in modo assai dettagliato le condizioni contrattuali del servizio di vendita del gas ai clienti finali attraverso reti di gasdotti locali. Ciò premesso, e a conferma della bontà di quanto sostenuto in merito alla natura di fonte eteronoma dei contratti d’utenza attribuita alle direttive delle autorità garanti, la Corte di cassazione ha affermato che “il potere normativo secondario (o, altrimenti, il potere di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) dell'Autorità per l'energia elettrica ed il Gas (A.e.e.g.) ai sensi dell'art. 2, comma 12, lett. x, x. 14 novembre 1995 n. 481, si può concretare anche nella previsione di prescrizioni specifiche, che non lascino al destinatario margini di scelta sul quando e sul "quomodo", le quali, tramite l'integrazione del regolamento di servizio, di cui al comma 37 dello stesso art. 2 citato, possono in via riflessa integrare, ai sensi
103 Per un approfondimento sulla qualificazione del regolamento di servizio in termini di negozio normativo si richiama G. XXXXX, Contratti regolamentari e normativi, 1994, p. 233 ss.
dell'art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali pendenti”104. Come giustificare, tuttavia, la pur corretta applicazione dell’art. 1339 c.c.? Si potrebbe sostenere che le eventuali clausole difformi dei contratti individuali debbano essere sostituite da quelle previste nel regolamento perché l’esercente si è vincolato a non disporre diversamente, tuttavia, questa lineare ricostruzione non appare, in prima battuta, convincente. Se analizziamo la questione con gli occhi del civilista e consideriamo il regolamento di servizio un negozio normativo (per quanto unilaterale), è facile rilevare che i negozi normativi fissano la disciplina dei futuri contratti ma non tolgono alle parti la possibilità di accordarsi in modo diverso. Se, invece, le clausole difformi del contratto individuale voluto dalle parti venissero sostituite da quelle del negozio normativo, a quest’ultimo dovrebbe riconoscersi carattere legale e non negoziale105. Ma, nel nostro caso, è proprio questa la chiave di volta che giustifica l’applicabilità dell’art. 1339 c.c.. Il regolamento di servizio può essere considerato un particolare negozio normativo avente carattere legale. Da un lato costituisce manifestazione di autonomia privata del soggetto esercente il servizio (e, dunque, almeno in parte, è riconducibile alla sua volontà negoziale) ma, dall’altro, recepisce al suo interno, per volontà della legge, il contenuto delle direttive dell’autorità garante relative alle condizioni contrattuali del servizio di vendita del gas. Condizioni che sono, evidentemente, imposte dalla legge e che fanno rientrare la fattispecie nell’ambito di applicazione dell’art. 1339 c.c..
104 Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2011, n. 16401, in Giust. civ. 2011, 9, I, p. 1967.
105 In relazione all’impossibilità di applicare l’art. 1339 c.c. ai c.d. contratti normativi si richiama X. XXXXXXX, op. cit., p. 895. Per un’analisi completa dell’istituto si rinvia a X. XXXXXXXX, Contratto normativo, in Enc. giur., 1962, p. 122; X. XXXXX, Xx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 527.
1.4.2 – (segue) Analisi della natura del potere regolatorio delle autorità amministrative indipendenti, tra categorie e forme del diritto amministrativo ed effetti che incidono nel campo del diritto privato.
La regolazione affidata alle autorità indipendenti ha la funzione di garantire le condizioni per l’esercizio dell’autonomia contrattuale e, più in generale, garantire la libertà dell’iniziativa economica. L’affermazione, dopo quanto detto nelle pagine che precedono in tema di eterointegrazione dei contratti e di condizionamento dell’autonomia negoziale, potrebbe sembrare contraddittoria o, quanto meno, provocatoria. Escludendo la provocazione, che certo non si addice ad uno scritto giuridico, sono necessarie alcune riflessioni per fugare anche l’apparente contraddizione.
Il potere esercitato dalle autorità indipendenti rientra a pieno titolo nella più ampia categoria del potere amministrativo ma, almeno per certi versi, risulta eccentrico rispetto al tradizionale schema che vede contrapposti autorità pubblica e soggetti privati106. Gli atti per mezzo dei quali tale potere si esplica spesso sono il frutto di dialogo e concertazione con i soggetti interessati dall'intervento regolatorio e, talvolta, l’intervento è richiesto proprio da quei soggetti (privati) la cui posizione nel mercato risulta pregiudicata dallo squilibrio della forza contrattuale o dalla presenza dominante dei c.d. soggetti incumbents. Si pensi, ad esempio agli ex monopolisti pubblici che godono indubbiamente di una posizione privilegiata rispetto a quegli operatori – new comers – che intendono entrare nel loro mercato. Parte della dottrina si è spinta sino a parlare di atti amministrativi negoziati107 ma, per quanto il procedimento per la loro adozione possa talvolta coinvolgere i rappresentanti dei soggetti interessati
106 In questo senso si legga X. XXXXXXX, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992, p. 428 ss..
107 Così G. GITTI, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, cit., p. 106.
dall’azione dell’autorità, ritengo che quest’ultima rimanga fondamentalmente una risposta autoritativa ai c.d. fallimenti del mercato. Peraltro, esistono ipotesi in cui l’esercizio del potere amministrativo potrebbe sembrare ancor più negoziato – si pensi agli accordi sostitutivi del provvedimento ex art. 11 della legge n. 241 del 1990 – ma, anche in relazione ad essi, le peculiari forme procedimentali non determinano il prevalere del diritto privato su quello amministrativo108.
Nel caso in esame, piuttosto, la peculiarità sta nel fatto che il potere amministrativo va ad incidere su atti privatistici e, in particolare, sui contratti, sottraendoli alla dinamica dei rapporti di forza tra le parti. Questo condizionamento, come abbiamo visto, si avvicina al meccanismo di sostituzione automatica delle clausole contrattuali previsto dall’art. 1339
c.c. e, talvolta, ne costituisce applicazione109. L’unica vera differenza con l’istituto civilistico consiste nel fatto che la norma imperativa di rango primario non prevede puntualmente le clausole da inserire nel regolamento contrattuale ma, dopo aver imposto la sostituzione automatica o l’integrazione del contratto, affida questo compito alla discrezionalità (tecnica) delle autorità indipendenti, in modo da assicurare la dinamicità dell’intervento regolatorio ed evitare pericoli di cristallizzazione della disciplina. La libera negoziazione, dunque, cede il passo all’autoritatività
108 L’accordo sostitutivo, proprio perché alternativo al provvedimento, non può che partecipare della sua stessa natura pubblicistica. In più la possibilità generalizzata di recedere, accordata dalla legge alla pubblica amministrazione, si avvicina molto di più alla fattispecie della revoca del provvedimento ex art. 21-quinquies, che non al recesso dai contratti di cui all’art. 21-sexies. Per un approfondimento si rimanda a X. XXXXXX, Convenzioni e accordi amministrativi, in Enc. giur. Treccani, vol. IX, Roma, 1988.
109 Il riferimento è all’ipotesi descritta nel paragrafo precedente, relativa ai poteri dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
degli atti di regolazione e, in questa prospettiva, altra parte della dottrina110 ha affermato che l’azione delle autorità indipendenti andrebbe correttamente collocata tra quelle forme di intervento pubblico nell’economia previste dall’art. 41, comma 3, della Costituzione.
La conclusione, se pur basata su premesse corrette (natura sostanzialmente amministrativa dell’attività di regolazione), non può essere condivisa nella sua radicalità.
Ciò che differenzia l’intervento regolatorio delle autorità indipendenti dal comune agire provvedimentale è la particolarità dell’interesse pubblico che giustifica l’attribuzione del potere in questione. Questo non consiste tanto nel perseguimento di precisi e predeterminati obiettivi di politica economica, quanto nella promozione della concorrenza e la tutela dei consumatori111. Tra gli interessi in gioco – quelli degli esercenti e degli utenti – non vi è una differenziazione in termini di interesse primario e interessi secondari. Essi sono equiordinati e vanno contemperati in funzione del più generale interesse pubblico consistente nella creazione o nel mantenimento delle condizioni che rendono efficiente e concorrenziale il mercato112. Se questo è l’obiettivo – poi variamente declinato a seconda del raggio d’azione dell’autorità indipendente – la funzione regolatoria deve essere neutrale rispetto sia agli interessi particolari degli operatori di
110 Cfr. E. XXXXXX, Il servizio pubblico. Tra tradizione nazionale e prospettive europee, Padova, 2003, p. 100 ss.; L. DE LUCIA, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Torino, 2002, p. 153 ss..
111 Così, autorevolmente, X. XXXXXXXXXX – A. ZOPPINI, Regolazione indipendente dei servizi pubblici e garanzia dei privati, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti, cit., p. 130.
112 Si legga X. XXXXXXXXXX – A. ZOPPINI, Regolazione indipendente dei servizi pubblici e garanzia dei privati, cit., p. 131, in cui si afferma che il tratto caratteristico della regolazione appare “quello di conciliare principi e valori ‹‹di sistema››, in una prospettiva market oriented, con diritti e interessi contrapposti, ma equiordinati, dei privati”. Cfr. anche X. XXXXX, Autorità semi –indipendenti e autorità di garanzia, cit., p. 659.
quel mercato, sia all’interesse politico – economico ad un certo sviluppo dell’economia nazionale. Se, infatti, gli uni o l’altro assurgessero ad interesse primario dell’azione amministrativa, la regolazione sarebbe solo il nome per una nuova declinazione del tradizionale dirigismo che ha caratterizzato la vecchia costituzione economica.
Poiché, dunque, l’azione regolatoria deve essere intesa come risposta ai fallimenti del mercato, diviene di primaria importanza l’applicazione del principio di proporzionalità, in modo che l’intervento si mantenga nei limiti strettamente necessari per ridare efficienza al mercato, senza sacrificare il primato della libertà d’iniziativa economica e dell’autonomia negoziale. Proporzionalità che, sul piano operativo, può essere perseguita anche mediante il confronto dell’autorità113 con le categorie di quegli attori economici, la cui autonomia negoziale è destinata a subire i condizionamenti dell’atto regolatorio.
Ritornando all’affermazione che ha introdotto queste riflessioni, dunque, non è affatto contraddittorio ritenere che la limitazione dell’autonomia privata che discende dall’operato delle autorità indipendenti sia funzionale proprio alla garanzia di tale autonomia. E questo perché l’azione amministrativa di regolazione vuol consentire alla libertà economica di svilupparsi in armonia con il principio di uguaglianza114.
1.4.3 – Il caso dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. In particolare, il potere di accettare impegni di cui all’art. 14-ter della legge
10 ottobre 1990, n. 287, tra discrezionalità tecnica e amministrativa.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è un’amministrazione
113 Cfr. X. XXXXXXX, Negoziazione e trasparenza nel procedimento davanti alle autorità indipendenti, in Il procedimento davanti alle autorità indipendenti, Torino, 1999, p. 37 ss.
114 In questo senso anche X. XXXXXX, Il potere normativo delle autorità indipendenti, in
L’autonomia privata e le autorità indipendenti, cit., p. 45.
indipendente non di tipo settoriale ma trasversale. Gli interessi affidati alla sua cura si compendiano nel valore della concorrenzialità del mercato (o meglio, di tutti i mercati) e, dunque, non sono propri di un particolare settore dell’economia.
Per poter svolgere la propria missione l’Autorità (d’ora in poi Agcm) è stata dotata dal legislatore di numerosi poteri.
In primo luogo, per quanto non si tratti di un vero e proprio potere che rientri nell’ambito dell’agire amministrativo in funzione di regolazione tipico delle autorità indipendenti, l’Agcm è dotata di un importante potere di segnalazione, che le è stato attribuito dall’art. 21 della legge 10 ottobre 1990, n. 287. In base alla citata norma, l’Autorità ha il potere di segnalare al Parlamento e al Governo tutti quei casi in cui atti legislativi, regolamentari o anche atti amministrativi di carattere generale determinano conseguenza dannose per l’assetto concorrenziale dei mercati. In più, oltre alla segnalazione, è possibile indicare anche i possibili rimedi, sollecitando un pronto intervento da parte del potere (legislativo o esecutivo) di volta in volta interessato. Questa funzione viene tradizionalmente indicata con il nome di advocacy e consente all’Agcm di svolgere quella funzione d’impulso necessaria per adeguare l’ordinamento interno agli standards di concorrenzialità richiesti dalla normativa comunitaria, evitando, così, il rischio di sanzioni da parte della Commissione e favorendo un costruttivo dialogo con il potere politico al fine di dar vita a riforme strutturali in chiave pro-concorrenziale.
Il secondo, e più tipico, potere dell’Agcm si concreta nell’attività di repressione degli illeciti anticoncorrenziali115 che, per larga parte, trova la
115 Ai sensi dell’art. 101 TFUE, costituiscono illeciti anticoncorrenziali innanzi tutto le c.d. intese che possono assumere la triplice connotazione di accordi tra imprese, pratiche commerciali concordate e decisioni di associazioni di imprese che abbiano per oggetto o
sua disciplina nel regolamento CE n. 1 del 2003 concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato CE (oggi artt. 101 e 102 TFUE). L’art. 5 del regolamento, nello specifico, attribuisce alle autorità garanti dei vari paesi membri gli stessi poteri di cui dispone la Commissione116, fermo restando il potere di coordinamento delle funzioni antitrust spettanti alla stessa Commissione che si manifesta in una serie di obblighi gravanti sulle autorità nazionali: obbligo di informazione circa le istruttorie aperte e i provvedimenti che si intendono adottare; obbligo di astenersi dal procedere se la Commissione ha già avviato un procedimento sulla medesima infrazione; obbligo di non adottare provvedimenti in contrasto con quanto deciso dalla Commissione117.
Prima di occuparci in maniera diffusa del potere di accettare impegni, che rientra nell’ambito dell’attività repressiva degli illeciti anticoncorrenziali, ritengo opportuno analizzare brevemente un ulteriore, interessante, potere recentemente attribuito all’Agcm dall’art. 35 del d.l. n. 201 del 2011, convertito con legge 22 dicembre 2011, n. 214. La norma in questione ha introdotto nella legge n. 287 del 1990, istitutiva dell’Agcm, l’art. 21-bis che attribuisce all’autorità la legittimazione ad agire in giudizio “contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”. Laddove l’Agcm, a seguito di un’apposita attività istruttoria,
per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza. A questa figura di illecito deve poi aggiungersi l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese nell’ambito del mercato interno o di una sua parte sostanziale (c.d. relevant market).
116 Le autorità nazionali possono, infatti, adottare le seguenti decisioni in esito ad un’istruttoria su illeciti antitrust: a) ordinare la cessazione di un’infrazione; b) disporre misure cautelari; c) accettare impegni; d) comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale; e) decidere di non aver motivo di intervenire.
117 Sul punto si legga X. XXXXXXX, Diritto del mercato unico europeo, Milano, 2006, p. 227 ss..
ritenesse che un atto emanato da qualsiasi p.a. sia in contrasto con le norme poste a tutela della concorrenza e del mercato, potrebbe quindi adottare un parere motivato contenente le ragioni che sostengono la sua valutazione negativa e, nell’ipotesi in cui l’amministrazione in questione non si dovesse conformare al parere entro sessanta giorni, sarebbe legittimata ad agire in giudizio nei successivi trenta giorni. Questo potere, al di là dei numerosi problemi che solleva sul piano strettamente processuale118, rappresenta un formidabile strumento per garantire, in concreto, una puntuale vigilanza su tutti i provvedimenti amministrativi e specialmente su quelli – anche a contenuto particolare – che producono effetti nelle relazioni economiche tra amministrazione e operatori di mercato. Si pensi alle ipotesi in cui venisse aggiudicato un appalto o affidata la gestione di un servizio pubblico locale in esito ad una procedura di gara non rispettosa dei principi dell’evidenza
118 Il più rilevante tra questi problemi consiste nella difficoltà di individuare una posizione giuridica soggettiva riferibile all’autorità garante che giustifichi il suo interesse ad agire in giudizio. Poiché l’Agcm non farebbe valere in giudizio situazioni giuridiche proprie, la norma aprirebbe la strada ad una giurisdizione di diritto oggettivo, a tutela dell’interesse alla legalità e non a tutela delle posizioni soggettive eventualmente lese dall’azione amministrativa, in contrasto con quanto previsto dagli artt. 103 e 113 Cost. (così F. XXXXXXX, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e sulla legittimazione a ricorrere delle autorità indipendenti, in xxx.xxxxxxxxxxx.xx n. 12/2012, p. 3 ss.). Una prima soluzione interpretativa in grado di superare il pericolo di una pronuncia di illegittimità costituzionale potrebbe essere quella di riconoscere in capo all’autorità garante la titolarità di una posizione sostanziale riconducibile all’interesse “di sistema” all’assetto concorrenziale del mercato, assimilabile, proprio perché si tratta di un bene della vita appartenente a tutti gli operatori di mercato, alla categoria degli interessi diffusi. Questi ultimi, infatti, pur non essendo del tutto equiparabili ad un interesse legittimo perché privi di uno specifico titolare, cioè un soggetto portatore di una posizione differenziata rispetto alla massa indistinta dei consociati, sono certamente tutelabili dinanzi al giudice amministrativo. Si è schierata a favore del riconoscimento in capo all’Agcm di un interesse sostanziale M.A. XXXXXXXX, Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21-bis l. n. 287 del 1990, in xxx.xxxxxxxxxxx.xx, n. 12/2012, p. 8.
pubblica o, in ogni caso, violando il divieto di non discriminazione tra gli operatori economici. In questi casi il provvedimento di aggiudicazione e tutti i provvedimenti della procedura, illegittimi perché contrari alle regole poste a tutela della concorrenza, sarebbero esposti al peculiare potere di impugnazione riconosciuto all’Agcm. In più, considerando che il concorrente leso dall’atto viziato potrebbe anche non averlo impugnato autonomamente nel termine di decadenza di trenta giorni (termine dimidiato in quanto, nell’esempio proposto, sarebbe applicabile il rito speciale degli appalti di cui all’art. 120 c.p.a.) l’azione dell’autorità garante, magari sollecitata proprio dal concorrente incorso nella decadenza o da un soggetto escluso dalla procedura competitiva, finirebbe per consentire l’annullamento degli atti di gara anche in un momento successivo rispetto ai pochi giorni che la legge processuale mette a disposizione per la tutela delle posizioni soggettive dinanzi al giudice amministrativo. L’impugnazione promossa dall’Agcm, pertanto, anche se finalizzata alla tutela di un interesse obiettivo (giuridicamente rilevante e non di mero fatto119) come quello della concorrenzialità del mercato, si affianca e implementa, sia pur indirettamente, gli strumenti di difesa che l’ordinamento riconosce ai soggetti che vengono pregiudicati nelle loro posizioni soggettive dall’azione amministrativa.
Rimane da analizzare un ulteriore e assai particolare potere che l’art. 14- ter della legge n. 287 del 1990 attribuisce all’autorità garante: quello di accettare gli impegni presentati da imprese che sono coinvolte in
119 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell’AGCM nell’art. 21-bis legge n. 287/1990, in xxx.xxxxxxxxxx-xxxxxxxxxxxxxx.xx, secondo cui “l’interesse al corretto funzionamento del mercato non è un mero interesse di fatto, ma un interesse giuridicamente rilevante, la cui violazione consente, appunto, l’attivazione dei rimedi giurisdizionali. Se si trattasse un interesse di mero fatto, invero, esso non potrebbe essere mai fatto valere in giudizio, perché la lesione di interessi di fatto non è fonte di danno ingiusto ex art. 2043
c.c. e non giustifica la proposizione di ricorsi innanzi al giudice amministrativo”.
un’istruttoria antitrust, nei limiti in cui siano in grado di far venir meno i profili anticoncorrenziali che giustificherebbero l’irrogazione di una sanzione.
Un esempio concreto potrà essere d’aiuto per comprendere meglio in cosa consista il potere in questione. Nell’ottobre del 2008 l’Agcm ha avviato un’istruttoria nei confronti dell’Enel e delle sue società controllate Enel Servizio Elettrico S.p.a. ed Enel Distribuzione S.p.a., volta ad accertare la violazione dell’art. 82 del Trattato CE (abuso di posizione dominante). Il gruppo facente capo all’Enel, ex monopolista pubblico, aveva ostacolato il passaggio degli utenti ad altro gestore (nel caso di specie Exergia S.p.a.) fornendo a quest’ultimo, in modo incompleto o errato, informazioni che, tuttavia, erano indispensabili per portare a termine l’operazione120. L’autorità garante invece di sanzionare Enel S.p.a., ha reso obbligatorio l’impegno proposto da quest’ultima a comunicare ai propri concorrenti, con tempistiche e modalità adeguate, tutte le informazioni indispensabili per la fornitura di energia elettrica agli utenti121. La decisione dell’Agcm ha quindi ottenuto, in tempi rapidi, l’effetto di consentire ai gestori concorrenti dell’Enel la possibilità di entrare nel mercato dell’energia elettrica senza subire limitazioni alle proprie chances competitive e, agli utenti, di godere di un vantaggioso regime concorrenziale.
L’esempio riportato consente di comprendere quanto il potere di accettare impegni consenta all’autorità garante di influire sui rapporti di forza tra gli operatori di mercato e, conseguentemente, di condizionare i loro rapporti negoziali e gli equilibri del settore economico in cui si trovano ad operare.
120 Per un’analisi diffusa del caso in questione si rinvia a L. XXXXXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXX, La tutela della concorrenza nei mercati regolati: le decisioni dell’Agcm in materia di servizi di interesse economico generale (secondo semestre 2009 e 2010), in Concorrenza e mercato, 2011, p. 214 ss..
121 Agcm, provv. n. 20549 del 10 dicembre 2009 (Exergia/Enel – Servizio di salvaguardia).
Ciò premesso, la domanda che l’interprete deve porsi è se il potere in questione può essere esercitato facendo uso di sola discrezionalità tecnica o se vi sia spazio per l’esercizio di vera e propria discrezionalità amministrativa. A seconda della risposta saranno ben diverse le conseguenze in termini di capacità di condizionamento dell’autonomia privata.
L’art. 14-ter della legge n. 287 del 1990 non offre indicazioni sufficienti per poter dare una risposta univoca; si limita ad affermare che l’autorità valuta l’idoneità degli impegni a far venir meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria e che può renderli obbligatori nei limiti previsti dall’ordinamento comunitario. Visto il richiamo dell’ordinamento comunitario, l’analisi dei procedimenti dinanzi alla Commissione, peraltro non molto numerosi, fa emergere un uso molto accurato della discrezionalità nel valutare gli impegni, tanto che la decisione finale viene sottoposta ad un iter procedimentale aperto nel quale viene effettuato un minuzioso market test con l’audizione degli operatori di mercato interessati.
Alla luce della vaghezza dei criteri indicati dal diritto interno ai quali si dovrebbe ispirare l’azione dell’Agcm, potrebbe sembrare ragionevole una ricostruzione della discrezionalità di cui gode in termini di discrezionalità amministrativa. Tuttavia, nel caso in cui si propendesse per questa impostazione, sarebbe ineludibile affrontare il problema di quale sia l’interesse pubblico sottostante, dal momento che laddove c’è discrezionalità amministrativa vi è anche un fine da perseguire corrispondente alla causa del potere attribuito dalla norma di legge (che giustifica l’esercizio della discrezionalità).
Xxxxxxxx il fine meramente sanzionatorio, così come quello di operare una restitutio in integrum in relazione alla lesione inferta alla concorrenza e al danno subito dagli operatori economici interessati, si potrebbe pensare che