DISPENSA DEL LIBRO
DISPENSA DEL LIBRO
“Il contratto”
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CAP. 1°: INTRODUZIONE
I concetti di fatto giuridico e di atto giuridico sono utilizzati dall’art. 1173 c.c. (fonti delle obbligazioni: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”), per indicare quali sono le fonti delle obbligazioni e specificando che il contratto appartiene al genere dell’atto giuridico ed il fatto illecito a quello del fatto giuridico. Ma andiamo nel dettaglio.
Si suole definire fatto giuridico ogni accadimento, naturale od umano, al verificarsi del quale l’ordinamento giuridico ricollega un qualsiasi effetto giuridico, costitutivo o modificativo od estintivo di rapporti giuridici. Fatto giuridico può essere:
- un accadimento naturale, del tutto indipendente dall’opera dell’uomo (es. l’alluvione, art. 941 c.c.);
- un fatto umano, quando la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto giuridico si produce come effetto di un consapevole e volontario comportamento dell’uomo (es. il “fatto illecito”, di cui all’art. 2043).
E’ possibile distinguere poi fra:
- fatti leciti, se conformi al diritto, e
- fatti illeciti, se contrari al diritto;
- comportamenti o fatti umani discrezionali, se il soggetto è libero di compierli, e
- comportamenti o fatti umani dovuti, se il soggetto è obbligato a compierli, come nel caso dell’adempimento dell’obbligazione.
Tutti i fatti umani discrezionali producono effetti nei confronti del soggetto che li ha posti in essere sul solo presupposto che questi goda della capacità naturale d’intendere e di volere. Ciò si desume dall’art. 2047 c.c. (danno cagionato dall’incapace: “in caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto”), che esonera da responsabilità per fatto illecito l’incapace d’intendere e di volere. Quanto ai fatti dovuti, per essi non è richiesta neppure la capacità naturale, a norma dell’art. 1191.
Gli atti giuridici compongono una sottocategoria dei fatti umani e li si può definire come fatti umani destinati a produrre effetti giuridici. Per essi, affinché possano produrre effetti giuridici, non basta la sola capacità naturale d’intendere e di volere, come per i fatti umani discrezionali, ma occorre anche la legale capacità d’agire. Gli atti giuridici si distinguono in:
- atti o dichiarazioni di volontà, qui bisogna fare una precisazione,
ci sono alcuni fatti umani che, consapevolmente compiuti dall’uomo, producono i loro effetti giuridici anche senza la volontà dell’uomo stesso. E’ il caso del fatto illecito, che produce l’effetto giuridico di obbligare al risarcimento del danno cagionato, chi lo ha commesso per il solo motivo di essere un fatto doloso o colposo, anche se l’autore non l’ha voluto.
Ci sono altri fatti che producono effetti giuridici solo perché effettivamente voluti, che necessitano sia della volontarietà del comportamento umano che della volontarietà degli effetti. Non basta, come per i primi, che il soggetto abbia voluto il fatto, ma qui occorre anche che il soggetto abbia altresì voluto l’effetto. È il caso del contratto, che è atto giuridico risultante dall’accordo di due (contratto bilaterale) o più parti (contratto plurilaterale), diretto a costituire, regolare od estinguere un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 c.c.). La differenza specifica è, perciò, questa: mentre il fatto umano in genere produce gli effetti che il diritto gli ricollega, purché fatto consapevole e volontario, l’atto o dichiarazione di volontà, al contrario, non produce effetti se risulta che il soggetto non li aveva voluti;
- atti o dichiarazioni di scienza, con i quali il soggetto dichiara di avere conoscenza di un fatto giuridico (es. la dichiarazione con cui il creditore dichiara di avere ricevuto il pagamento del proprio credito, c.d. quietanza di pagamento). L’effetto delle dichiarazioni di scienza non è, come per le dichiarazioni di volontà, di costituire o modificare o estinguere rapporti giuridici, ma di provare l’esistenza di fatti giuridici, di per sé costitutivi o modificativi od estintivi di rapporti;
- partecipazioni e comunicazioni, riguardano
da un lato le dichiarazioni permissive, quelle proibitive (opposizioni), quelle determinative (le istruzioni del mandante al mandatario) e,
dall’altro le notificazioni (es. la notificazione della cessione del credito al debitore ceduto), le denunce, le diffide, ecc.
CAP 2°: IL CONTRATTO E L’AUTONOMIA CONTRATTUALE
Al contratto il codice civile assegna due specifiche funzioni:
- l’art. 922 (modi di acquisto: “la proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte e negli altri modi stabiliti dalla legge”) lo annovera, anzitutto, fra i modi d’acquisto della proprietà (e degli altri diritti reali), quale strumento per la circolazione dei beni;
- l’art. 1173 (fonti delle obbligazioni: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”), lo include fra le fonti delle
obbligazioni, attribuendogli l’ulteriore funzione di strumento mediante il quale ci si procura il diritto alle altrui prestazioni.
Le due funzioni sono svolte congiuntamente nei contratti traslativi a titolo oneroso, come la vendita, con la quale si trasferisce la proprietà ed al tempo stesso, è fonte di obbligazione per il venditore di consegnare la cosa venduta e, per il compratore di pagarne il prezzo; altri contratti invece sono solo fonti di obbligazioni come la locazione, il contratto di lavoro, ecc. Infine va considerato che per contratto si possono trasferire, oltre che diritti reali, anche diritti di credito, come nel caso della cessione dei crediti, regolata dagli artt. 1260 ss.
Premesso ciò il codice civile dà all’art. 1321 una nozione generale, che unifica le due distinte funzioni in una sola, e allude ad ulteriori funzioni che il contratto può svolgere.
Definisce il “contratto come l’accordo di due o più parti per costituire, regolare od estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Non è però una sintesi molto felice visto che l’effetto traslativo di un preesistente diritto da un soggetto ad un altro, non può essere ricompreso nella “costituzione” di un rapporto giuridico; con qualche sforzo lo potremmo ricomprendere nella funzione di “regolare” un rapporto giuridico patrimoniale. Proprio la capacità del contratto di “regolare” rapporti giuridici patrimoniali si coordina con la libertà riconosciuta alle parti di determinare il contenuto dei contratti tipici (art. 1322) e delle figure contrattuali atipiche. Le determinazioni mediante le quali si manifesta la funzione regolatrice del contratto si prestano una triplice classificazione:
a) determinazioni concrete, suscettibili di una sola applicazione, come nei contratti che prevedono, per i contraenti, un unico atto d’esecuzione (es. la clausola del contratto di vendita che regola le modalità di consegna della cosa venduta, troverà una sola applicazione all’atto della consegna della cosa);
b) determinazioni astratte, suscettibili di applicazioni ripetute, come nei contratti di durata che prevedono, per i contraenti, più atti d’esecuzione (es. la clausola del contratto di somministrazione che regola le modalità d’esecuzione delle prestazioni periodiche o continuative di cose, troverà applicazione ogni qualvolta il somministrante eseguirà le prestazioni dovute);
c) determinazioni astratte, suscettibili di applicazioni solo eventuali, come nei c.d. contratti normativi o contratto preparatorio, e nei contratti-tipo. La caratteristica principale del contratto normativo sta nel fatto che le parti determinano, in tutto: contratto tipo o in parte: contratto normativo in senso stretto, il contenuto di futuri ed eventuali contratti, che però restano libere di concludere o non concludere. Solo se e solo quando il contratto particolare sarà da esse concluso, il contratto normativo produrrà su di loro effetti vincolanti e li produrrà, secondo l’opinione più diffusa, direttamente (c.d. efficacia reale del contratto normativo), senza bisogno di una loro apposita dichiarazione di volontà in tal senso (c.d. efficacia obbligatoria del contratto normativo).
Il rapporto giuridico del contratto
Il rapporto giuridico, che il contratto costituisce, regola od estingue, deve essere un rapporto giuridico patrimoniale, cioè deve avere ad oggetto cose o prestazioni personali suscettibili di valutazione economica.
Il requisito della patrimonialità delimita l’area del contratto, escludendo ad es. che sia qualificabile come contratto il matrimonio. Se è vero che contratto e matrimonio vengono presentati quali specie di un medesimo genere (negozio giuridico) e che nel matrimonio il rapporto giuridico o il rapporto di famiglia si costituisce “per accordo delle parti”, come nel contratto, non è altrettanto vero che si tratta di un rapporto giuridico patrimoniale.
Ma ancora l’area del contratto, per quanto circoscritta ai rapporti giuridici patrimoniali, non coincide però con la sfera degli interessi patrimoniali o degli scopi economici. La patrimonialità del rapporto non dipende, secondo il criterio desumibile dall’art. 1174 c.c. (carattere patrimoniale della prestazione: “la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore”), dalla natura dell’interesse perseguito dalle parti, che può essere “anche non patrimoniale”, ossia non economico, ma si determina in ragione del fatto che le prestazioni, cui le parti si sono obbligate, siano suscettibili di valutazione economica. Perciò, l’atto costitutivo delle associazioni a scopo ideale è un contratto perché le parti si obbligano con esso ad eseguire apporti economicamente valutabili, mentre la natura non economica degli interessi, che tali apporti tendono a soddisfare, non influisce sulla natura contrattuale del vincolo.
Le parti del contratto
Il contratto è, per l’art. 1321, l’accordo di “due o più parti”. Il contratto è bilaterale quando le parti sono due (es. nella vendita), è plurilaterale quando le parti possono essere più di due (es. il contratto di società). Si parla, tradizionalmente, anche di contratto unilaterale, come il contratto a titolo gratuito, dal quale sorgono le obbligazioni a carico di una sola parte.
Il concetto di parte del contratto non coincide con quello di persona, in quanto per parte si deve intendere un “centro d’interessi” e ciascuna parte di un contratto può essere formata anche da più persone, c.d. parte complessa o plurisoggettiva (es. i comproprietari di una cosa comune, che decidono di venderla, rappresentano una delle due parti del contratto, e quindi un unico centro di interessi). Perciò la vendita resta un contratto bilaterale anche se ad essa partecipano più di due persone.
Parti di un contratto possono essere, oltre che privati, anche enti pubblici, che con lo strumento del contratto perseguono le loro finalità istituzionali e realizzano interessi generali, in sostituzione dei precedenti e privilegiati atti amministrativi.
Le norme generali sui contratti
La disciplina del contratto si articola, nel codice civile, in due serie di norme:
- norme che riguardano i “contratti in generale” (artt. 1321-1469 bis), comuni a tutti i contratti e si applicano a ciascuno di essi (art. 1323 c.c. norme regolatrici dei contratti: “tutti i contratti, ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo”);
- norme che riguardano i “singoli contratti”, ossia quei contratti che trovano nel codice civile, o in altre leggi, una disciplina particolare, specifica di quei determinati tipi contrattuali. Esse sono contenute in gran parte, nel IV libro del c.c. (delle obbligazioni) ma anche nel II libro (come la donazione) o nel V libro (come il contratto di lavoro).
Ciò però non vale in assoluto poiché alcune norme dettate per i “singoli contratti” risultano applicabili anche ad altri tipi, e alcune norme dettate per i “contratti in generale” non sono applicate a tutti i contratti, rimanendone esclusi alcuni.
Quando poi ad una medesima fattispecie (es. inadempimento del contraente) risulta in astratto applicabile sia una norma sui “contratti in generale” sia una norma sui “singoli contratti”, si stabilisce che quest’ultima, in linea di massima, è destinata a prevalere sulla prima, in applicazione del principio che le norme speciali derogano a quelle generali.
Può accadere infine che la norma generale e la norma speciale si integrino fra di loro formando una nuova norma, che risulta dalla combinazione di entrambe, come nel caso dell’art. 1662 c.c. (verifica nel corso di esecuzione dell’opera: “il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato. Quando, nel corso dell’opera, si accerta che la sua esecuzione non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il contratto è risoluto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno”), che:
- permette la risoluzione dell’appalto in corso d’opera, qualora questa non proceda in conformità del contratto e l’appaltatore non vi si conforma nel termine fissatogli dal committente;
- deroga ai principi generali sui contratti, che non ammettono la risoluzione se non è scaduto il termine per l’adempimento.
Ma la norma speciale viene integrata con le norme generali quando si decide che il committente può agire per la risoluzione ex art. 1453 c.c. (risolubilità del contratto per inadempimento: “nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”) senza alcun invito all’appaltatore. Qui ci si avvale della norma speciale e, ad un tempo, della norma generale per formare un’ulteriore norma: l’appalto può essere risolto anche in corso d’opera (secondo la norma speciale) con l’azione di risoluzione (secondo la norma generale) quando la difformità dell’opera in corso sia insanabile (ipotesi non prevista né dalla norma speciale, né da quella generale).
Detto ciò due punti sono evidenti:
1) non tutte le norme che l’art. 1323 c.c. definisce come “generali” sono realmente tali, risultando quindi in un numero più limitato di quanto lo stesso articolo faccia supporre;
2) non tutte le norme che riguardano i singoli tipi sono realmente relative solo a quel tipo contrattuale cui sono riferite, risultando quindi in un numero più esteso di quanto lo stesso articolo faccia supporre.
Autonomia contrattuale e limiti alla stessa
per l’art. 1321c.c. ciò che costituisce o regola od estingue un rapporto patrimoniale è l’accordo delle parti, ossia la loro concorde volontà. Ma un rapporto patrimoniale può essere costituito, regolato od estinto in molteplici altri modi: sono molti, infatti, i modi d’acquisto della proprietà diversi dal contratto, così come molti sono i modi da cui le obbligazioni possono sorgere, oltre che da contratto, da fatto illecito o da altri atti o fatti (art. 1173).
In ogni caso, fra i tanti modi di costituzione, regolazione od estinzione dei rapporti patrimoniali, il contratto rappresenta sicuramente quello per eccellenza e con esso fondamentale è il ruolo svolto dalla volontà: le parti contraenti si accordano “per costituire, regolare od estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Per definire questo ruolo della volontà si parla di libertà od autonomia contrattuale, che si manifesta sotto un duplice aspetto, negativo e positivo:
a) libertà od autonomia contrattuale significa, in senso negativo, che nessuno può essere costretto ad eseguire prestazioni a favore di altri contro o senza la propria volontà, a meno che non è vincolato dalla legge. Il contratto infatti vincola solo chi ha partecipato all’accordo;
b) libertà od autonomia contrattuale significa, in senso positivo, che le parti con un proprio atto di volontà, possono costituire o regolare od estinguere rapporti patrimoniali, cioè possono disporre dei propri beni e possono obbligarsi ad eseguire prestazioni a favore di altri. L’autonomia, in senso positivo si manifesta in varie forme:
libertà di scelta fra i diversi tipi di contratto previsti dalla legge, a seconda degli scopi che i privati si prefiggono di raggiungere;
libertà di determinare il contenuto del contratto, entro i limiti posti dalla legge, art. 1322 c.c. (autonomia contrattuale: “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”). Ciascuna determinazione delle parti, inserita in un contratto scritto, si compone di una pluralità più o meno estesa di clausole che nel loro insieme formano il c.d. regolamento contrattuale. Per “clausola o patto” del contratto intendiamo ogni determinazione volitiva/della volontà inscindibile, non frazionabile cioè in ulteriori determinazioni volitive a sé stanti. L’importanza di ciò sta nel fatto che, a determinati effetti, singole clausole possono ricevere una considerazione normativa specifica, diversa da quella relativa al contratto nel suo insieme;
libertà di concludere contratti atipici o innominati (art. 1322 c.c.), ossia di concludere contratti non corrispondenti ai tipi contrattuali previsti dal codice civile o da altre fonti normative, ma ideati e praticati dal mondo degli affari. Molti degli odierni contratti tipici sono infatti nati e diffusi nella pratica degli affari prima che la legge li prevedesse e li regolasse.
Sotto quest’aspetto la libertà contrattuale assume un duplice significato:
è libertà di perseguire finalità diverse da quelle perseguibili con i contratti tipici;
è libertà di perseguire con modalità contrattuali atipiche finalità già perseguibili con contratti tipici.
I contratti atipici sono validi purchè siano diretti “a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” e questo requisito di validità dei contratti atipici è fondamentalmente il requisito essenziale dei contratti che è la causa. Essi sono sottoposti, come i contratti tipici, alle norme sui contratti in generale (art. 1323), eventualmente integrate con le norme dettate per il tipo contrattuale con il quale presentano affinità e sono infine regolati, per il resto, dalle loro clausole contrattuali;
è libertà di utilizzare contratti tipici per realizzare finalità atipiche oppure di combinare fra loro varie figure contrattuali, tipiche o atipiche, per realizzare interessi ulteriori e diversi da quelli sottostanti a ciascun contratto isolatamente considerato.
I limiti all’autonomia contrattuale
Circa i limiti all’autonomia contrattuale lo stesso art. 1322 c.c. stabilisce che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto “nei limiti imposti dalla legge”.
I limiti all’autonomia contrattuale si manifestano essenzialmente sotto due aspetti:
- limiti imposti all’autonomia contrattuale di entrambe le parti. E’ il caso del c.d. contratto isolato, ovvero il contratto che è frutto di trattative avvenute fra le parti contraenti, nel corso delle quali discutono sulle condizioni che formeranno il contenuto del futuro contratto;
- limiti imposti all’autonomia contrattuale di una delle parti e, quindi, a vantaggio dell’altra parte. E’ il caso del c.d. contratto in serie (detto anche contratto standard o contratto di massa o contratto per adesione), contrapposto al primo, ovvero il contratto il cui contento è interamente predeterminato da una delle parti e l’altra non può trattare: può solo “prendere o lasciare”, quindi o concludere il contratto così come è, o rifiutarsi di concluderlo.
Il contratto in serie trova maggiore applicazione nella produzione industriale su scala di bei o di servizi, in quanto così come i beni o i servizi sono prodotti o sono distribuiti secondo procedimenti di produzione o di distribuzione uniformi, così vengono regolati in modo uniforme i rapporti contrattuali con i consumatori dei prodotti o con gli utenti dei servizi. Ciò che però è importante è l’efficacia che la legge attribuisce alle condizioni generali di contratto:
- condizioni predisposte in modo uniforme da uno dei contraenti e destinate a valere per tutti i contratti che verranno conclusi con i consumatori o con gli utenti;
- condizioni efficaci nei confronti dell’altro contraente, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza, art. 1341 c.c. (condizioni generali di contratto: “le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente
decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”). La conoscenza effettiva del regolamento contrattuale è qui sostituita dalla mera conoscibilità, essendo l’altro contraente vincolato anche se, in fatto, non lo aveva conosciuto e non poteva, quindi, averlo voluto.
Ci si domanda quale sorte subisca il contratto qualora il predisponente non abbia reso conoscibili le condizioni generali all’accettante:
a) se viene travolto l’intero contratto, o
b) se viene travolta solo la parte di esso che è retta da condizioni generali.
A favore della prima soluzione a), si potrebbe argomentare che, poiché la conoscibilità sostituisce la conoscenza effettiva, e poiché questa è presupposto necessario del consenso, la non conoscibilità provoca le medesime conseguenze della mancata conoscenza, e quindi della mancata volizione del contratto, cioè impedisce la formazione stessa del contratto. Una simile equiparazione della conoscibilità alla conoscenza non è però sostenibile senza incorrere in artificiose finzioni, perché la conoscibilità non può essere in assoluto equiparata ad una conoscenza presunta, di conseguenza la non conoscibilità non produce necessariamente gli stessi effetti di una mancata conoscenza e di un mancato consenso.
Lo stesso art. 1341 c.c. suggerisce allora l’altra soluzione b), la quale fa riferimento, nel I comma (..le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza..) all’efficacia delle condizioni generali di contratto, e nel II comma (..In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria..) all’efficacia delle “clausole contenenti condizioni generali” c.d. vessatorie.
Secondo l’opinione tradizionale, conforme al generale principio dell’art. 1419 c.c., l’intero contratto dovrà intendersi travolto se l’una o l’altra parte potranno provare che la presenza o l’assenza delle clausole recanti le condizioni generali era circostanza determinante del loro consenso.
Il produttore di beni o di servizi su larga scala è posto dall’art. 1341 nella condizione di “dettare legge” alla massa di consumatori. La sua volontà è unilateralmente vincolante, visto che egli non deve, secondo i principi generali sull’accordo delle parti, ricercare il loro consenso ma ha solo l’onere di far conoscere loro la propria volontà.
Sembrerebbe quindi che il contratto in serie, così come analizzato, cesserebbe di essere espressione dell’autonomia contrattuale di entrambe le parti per diventare qualcosa di molto simile alla legge, ovvero vincolante per i suoi destinatari non appena costoro siano posti in condizione di conoscerne il contenuto. C’è, però, una sostanziale differenza rispetto alla legge, visto che un atto di volontaria adesione al contratto in serie è pur sempre necessario, giacché il consenso del singolo, superfluo per la determinazione del contenuto del contratto, è indispensabile per la conclusione del contratto; anche se è spesso un atto di adesione solo formalmente volontario ma
sostanzialmente non libero: di fronte al contratto predisposto dalla grande impresa l’utente non ha infatti alcuna facoltà di scelta perché dovendo aderire al contratto, per necessità salvo rinunciare ai beni o ai servizi che la grande impresa gli offre. Dunque il consumatore o l’utente è, rispetto al contraente che predispone le condizioni generali del contratto, un contraente debole che la legge si preoccupa di proteggere; e proprio il II comma dell’art. 1341 c.c. prevede alcune eccezioni alla regola posta dal I comma, ovvero le c.d. “clausole vessatorie o onerose”debbono essere specificamente approvate per iscritto (quindi, conosciute e volute, non solo conoscibili). Dobbiamo però precisare che sono soggette all’approvazione espressa non le clausole vessatorie in quanto tali, ma solo quelle predisposte per i contratti in serie e destinate a regolare una serie indefinita di rapporti. L’elenco legislativo delle clausole vessatorie è comunemente inteso come tassativo, suscettibile d’interpretazione estensiva, ma non d’applicazione analogica e le modalità dell’approvazione espressa, non previste dall’art. 1341, II comma, sono state di conseguenza determinate dalla giurisprudenza, la quale ha stabilito che non basta un’unica sottoscrizione onnicomprensiva e priva di riferimenti specifici alle singole clausole vessatorie ma bisogna richiamare le singole clausole onerose espressamente approvate, con l’indicazione del numero e del suo contenuto o anche del solo numero, affinché il contraente debole possa rendersi conto del regolamento contrattuale predisposto dalla controparte.
In mancanza di sottoscrizione, non è ammessa la prova della conoscenza della clausola; mentre in presenza della sottoscrizione, non è ammessa la prova dell’ignoranza della clausola. La mancata sottoscrizione rende inefficace la clausola non sottoscritta e si tratta d’inefficacia assoluta, che può essere fatta valere anche dalla parte che ha predisposto il contratto e può essere rilevata d’ufficio.
Infine per il contratto in serie vengono spesso predisposti moduli o formulari, che al momento della conclusione del contratto vengono riempiti con il nome dell’altro contraente e gli estremi del contratto mancanti nel modulo. Ulteriori e più rigorose norme a tutela del contraente debole, relative alle clausole vessatorie a danno della persona fisica consumatore finale sono state introdotte dal Codice del consumo.
Obbligo a contrarre
Altro limite all’autonomia contrattuale di una delle parti può derivare da norme di legge che, in date situazioni, gli impongono di concludere un contratto, privandolo della libertà di scelta se contrattare o non contrattare. A volte il limite all’autonomia contrattuale è posto a carico del contraente forte ed a protezione del contraente debole: è l’ipotesi, prevista dall’art. 2597 x.x. (xxxxxxx xx xxxxxxxxxxx xxx xxxx xx xxxxxxxxx: “chi esercita un’impresa in condizione di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento”), dell’obbligo di contrattare del monopolista. Chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale “ha l’obbligo di contattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento”. Qui il limite all’autonomia contrattuale non riguarda il contenuto del contratto, ma investe la scelta se concluderlo o no, scelta che è libera per l’utente ma non per l’imprenditore che, di fronte all’altrui proposta, è tenuto ad esprimere la propria accettazione non potendosi rifiutare, come può invece fare il comune privato in forza della propria autonomia contrattuale, senza dover motivare il rifiuto. Egli è tenuto a giustificare le ragioni del diniego di prestazione e, in ogni caso, a rispettare
la parità di trattamento, dovendo soddisfare le varie richieste non secondo il proprio arbitrio, ma secondo l’ordine delle richieste o secondo altri obiettivi criteri, come quelli della maggiore urgenza o della maggiore necessità. Sono principi che proteggono gli utenti di fronte all’imprenditore monopolista: valgono, però, solo nel caso di monopolio legale, ossia autorizzato dalla legge; non, invece, nel caso di monopolio di fatto, anche se pure in questo caso l’utente potrebbe rivendicare uguale protezione.
Il contratto imposto
In altri casi ancora l’autonomia contrattuale può essere limitata per entrambi i contraenti, come quando il limite è posto a tutela di superiori interessi, ad es. la determinazione, da parte dei pubblici poteri, dei prezzi di vendita di beni di largo consumo o delle tariffe di determinati servizi pubblici. L’organo pubblico che, in forza di specifiche norme speciali, provvede alla periodica variazione dei prezzi e delle tariffe è il Comitato interministeriale prezzi (Cip). Gli interessi protetti sono, in questi casi, quelli connessi alla gestione dell’economia pubblica, come il controllo del costo della vita, la lotta all’inflazione, lo sviluppo delle attività produttive, ecc.
Integrazione del contratto e le clausole d’uso
Da quanto detto risulta evidente che, il contenuto del contratto non è solo frutto “dell’accordo delle parti”, ma è piuttosto il risultato di una pluralità di fonti.
Sono essenzialmente quattro le fonti del regolamento contrattuale cui si fa riferimento:
a) la volontà espressa dalle parti;
b) la legge;
c) gli usi o consuetudini, applicati/e per le materie non regolate dalla legge e per le materie dalla legge regolate, ma solo se richiamati espressamente;
d) l’equità, che differisce sia dalla legge sia dagli usi perché non è, come questi fonte di diritto oggettivo, ma è frutto di determinazioni del giudice, destinate al pari della legge e degli usi a formare il contenuto. L’equità cui allude l’art. 1374 c.c. (integrazione del contratto: “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità) è quella cui ricorre il giudice per contribuire a determinare il contenuto del contratto e deve distinguersi fra due diverse funzioni:
- equità integrativa del contratto, che ricorre quando la legge consente al giudice di rimediare ad un’incompleta determinazione del contenuto contrattuale, esprimendo stime, fissando prezzi, assegnando valori alle prestazioni delle parti (es. la determinazione dell’oggetto del contratto, che il terzo ha omesso o eseguito in modo errato; ma anche tutti gli altri casi nei quali la legge, pur senza menzionare il criterio dell’equità, attribuisce al giudice il compito d’integrare il contratto);
- equità correttiva, che ricorre quando il giudice non si limita a rimediare ad un’incompleta determinazione pattizia del contenuto contrattuale, ma si cura di modificare la stessa
determinazione pattizia, ove questa risulti iniqua. Tipico è il caso della riduzione della penale eccessiva di cui all’art. 1384 c.c. (riduzione della penale: “la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte o se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento”), dove la nullità è parziale, in quanto la clausola è nulla nei limiti della sua eccessività, restando invece valida per la misura in cui appare equa. L’equità contrattuale si presenta dunque come uno dei due strumenti principale con cui regolare la discrezionalità contrattuale, assieme a quello della buona fede contrattuale, nelle sue molteplici forme legislative: buona fede nella formazione del contratto, nell’interpretazione del contratto, nell’esecuzione del contratto, ecc.
Infine possiamo distinguere un’ulteriore tipologia di equità che è quella correttiva, con la quale il giudice può correggere il contenuto del contratto, sostituendo la clausola contraria a buona fede con una diversa clausola ad essa conforme.
Tra le diverse fonti del regolamento contrattuale, appena analizzate è possibile stabilire una sorta di gerarchia:
- gli usi e l’equità assumono carattere suppletivo e valgono solo “in mancanza” della volontà espressa dalle parti o di disposizioni di legge;
- la volontà delle parti rispetto agli usi prevale per l’evidente considerazione che le norme consuetudinarie non hanno mai natura imperativa, e sono sempre derogabili per accordo fra le parti. Rispetto all’equità, ed in particolare quella integrativa, la volontà invece desiste/recede;
- la legge invece, se prima lasciava il vertice della gerarchia alla volontà delle parti, adesso è concepita come autonoma fonte del regolamento contrattuale, concorrente con la volontà delle parti su un piano di parità, e vincolante per i contraenti, indipendentemente dal fatto che la conoscessero al momento del contratto.
La generale conseguenza che deriva da tale gerarchia è che la violazione delle norme di legge o consuetudinarie e delle determinazioni equitative del giudice dà luogo a responsabilità contrattuale, e non a responsabilità extracontrattuale, perché chi le viola ha violato il contratto, non già la legge o l’uso o il provvedimento del giudice. Così la violazione della clausola generale sulla buona fede nell’esecuzione del contratto dà luogo, secondo un’ormai costante giurisprudenza, ad un inadempimento contrattuale, e può comportare risoluzione del contratto per inadempimento.
Le clausole d’uso
Diversi dagli sui normativi, prima visti tra le fonti integrative del contratto, sono gli usi contrattuali o clausole d’uso, che si considerano inserite nel contratto se risulta che sono state volute dalle parti (art. 1340 c.c.).
Gli usi normativi sono norme non scritte di diritto oggettivo vincolanti per i contraenti, e vincolanti anche per i contraenti ignari di essi al momento della conclusione del contratto.
Gli usi contrattuali sono invece clausole non scritte del contratto, vincolanti per i contraenti alla stessa maniera delle clausole scritte; sono insomma pratiche contrattuali abituali applicate in un dato luogo o in un dato settore economico (nel caso della vendita se si comperano cose da un
abituale venditore “si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore”).
Ciò che però importante sottolineare è la loro efficacia vincolante che è propria delle clausole contrattuali, e che pertanto, a differenza degli usi normativi, prevale sulle norme dispositive di legge. Tutt’altra cosa sono le clausole di stile, ossia le clausole meccanicamente ripetute in moduli contrattuali a stampa, oppure le clausole che, altrettanto meccanicamente, il notaio ripete nel redigere contratti per atto pubblico.
CAP. 4°: I REQUISITI DEL CONTRATTO: ACCORDO DELLE PARTI, CAUSA, OGGETTO E FORMA
I requisiti del contratto
Il codice civile quattro distinti “requisiti del contratto (art. 1325):
1) l’accordo delle parti,
2) la causa,
3) l’oggetto,
4) la forma. Analizziamoli singolarmente.
L’accordo: totale e parziale
1)L’accordo delle parti è l’incontro delle manifestazioni o dichiarazioni di volontà di ciascuna di esse: il contratto è perfezionato solo se, e solo quando, si raggiunge piena e totale coincidenza fra le dichiarazioni di volontà provenienti dalle diverse parti contraenti. Un accordo solo parziale, che le parti abbiano raggiunto nel corso della trattativa, non ha alcun effetto vincolante, anche se le parti hanno annotato i punti di convergenza in un apposito documento: c.d. minuta di contratto; il mancato accordo sui punti ancora da concordare farà venire meno anche quelli già concordati, salva l’eventuale responsabilità precontrattuale, per violazione del principio di buona fede nelle trattative, art. 1337 c.c. (trattative e responsabilità precontrattuale: “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”), della parte che abbia senza giustificazione interrotto la trattativa contrattuale.
L’accettazione vale come tale, solo se è in tutto e per tutto conforme alla proposta, se non è conforme ha il valore di nuova proposta, art. 1326 c.c. (conclusione del contratto: “il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte. L’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all’altra parte. Qualora il proponente richieda per l’accettazione una forma determinata, l’accettazione non ha effetto se è data in forma diversa. Un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”) e richiede l’accettazione dell’originario proponente. Queste
regole inducono la giurisprudenza a ritenere che il contratto non è perfezionato se l’accettazione escluda un elemento contenuto nella proposta o contenga un elemento in essa non presente, sia che si tratti di elemento accessorio e non essenziale. Di qui la più generale deduzione che non è sufficiente, per la conclusione del contratto, il solo accordo raggiunto sui punti essenziali ma è necessario l’accordo raggiunto su ogni elemento del contratto, sia esso essenziale oppure secondario.
Il giudizio sull’essenzialità o non essenzialità delle singole clausole è normalmente sottratto al giudice, anche se la giurisprudenza glielo concede in sede di ricostruzione della comune intenzione delle parti, ed in tal caso è la volontà delle parti, seppur ricostruita dal giudice, il criterio con cui decidere se il contratto si è perfezionato, avendo le stesse parti valutato come non essenziali gli elementi ancora da negoziare, tali perciò da non impedire la conclusione del contratto.
L’accordo: espresso e tacito
Il contratto può essere concluso:
- in modo espresso, quando la volontà delle parti viene esplicitamente dichiarata, per iscritto o oralmente o con qualsiasi altro segno;
- in modo tacito, quando la volontà delle parti, o di una di esse, non viene dichiarata esplicitamente, ma si desume dal loro comportamento, c.d. “comportamento concludente”. Il loro comportamento corrisponde all’esecuzione di un dato contratto e, perciò, lascia presupporre che esse abbiano voluto concluderlo. La supposizione si basa sull’incompatibilità del comportamento con una volontà contraria e caso tipico di contratto tacito è la società di fatto: più persone si comportano, di fatto, come soci senza avere mai dichiarato, né per iscritto, né oralmente, la volontà di concludere un contratto di società (o più semplicemente contratto tacito è, nell’esperienza quotidiana, prelevare nel supermercato merci che vi sono esposte, concludendo tacitamente un contratto di vendita).
La formazione tacita del contratto o manifestazione tacita dell’accordo può riguardare o tutte le parti del contratto o alcune soltanto; un’ipotesi di accordo modificativo tacito è la proroga tacita della società di persone, la quale interviene “quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali”. A volte, invece, l’ammissibilità di una tacita manifestazione di volontà è dalla legge esclusa: così la volontà di liberare il debitore deve essere espressamente dichiarata nella delegazione, nell’espromissione e nell’accollo (che sono modalità di circolazione dei crediti-debiti).
Alla luce di ciò il silenzio, in sé e per sé, non ha valore giuridico di tacito consenso, può assumerlo solo se le circostanze che lo accompagnano sono tali da attribuirgli il significato di comportamenti concludenti. Caso in cui la legge attribuisce al silenzio valore di consenso è, in materia di contratti in generale, quello del contratto con obbligazioni del solo proponente, art. 1333 c.c. (contratto con obbligazioni del solo proponente: “la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata.
Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso”).
La comune valutazione è quindi quella secondo cui il silenzio vale sempre e comunque come consenso ed è, perciò, sottoposto alle impugnative contrattuali per vizi del consenso o per incapacità. Una diversa opinione, elaborata dalla dottrina, è invece quella secondo cui il silenzio o il comportamento omissivo “non è mai consenso”, ma è stata disattesa.
L’accordo tra persone lontane
Ancora l’accordo si può formare:
- in modo simultaneo fra contraenti presenti,
- per fasi successive fra contraenti xxxxxxx, le dichiarazioni di volontà delle diverse parti prendono, in tal caso, il distinto nome di proposta ed accettazione.
La proposta è la dichiarazione di volontà di chi assume l’iniziativa del contratto, es. la dichiarazione di voler vendere una data cosa per un dato prezzo che l’aspirante venditore rivolge, per lettera o altrimenti, ad un possibile compratore.
L’accettazione è la dichiarazione di volontà che il destinatario della proposta rivolge, a sua volta, al proponente.
Il destinatario della proposta è pienamente libero di accettarla o di respingerla, libertà che è tipica dell’autonomia contrattuale. Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta riceve notizia dell’accettazione dell’altra parte, art. 1326 c.c. (conclusione del contratto: “il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte. L’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all’altra parte. Qualora il proponente richieda per l’accettazione una forma determinata, l’accettazione non ha effetto se è data in forma diversa. Un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”). Ma l’accettazione, per essere tale, deve pervenire entro il termine stabilito dal proponente o, in mancanza, in un tempo che possa ritenersi ragionevole (non certo dopo anni) in relazione alla natura dell’affare o secondo gli usi (art. 1326), deve assumere la forma richiesta dal proponente e deve essere conforme alla proposta valendo altrimenti come nuova proposta.
La conclusione del contratto è retta, nel nostro sistema, dal “principio della cognizione”, che i compilatori del codice civile hanno preferito all’opposto “principio della spedizione”, vigente nei paesi di common law ed in Francia.
Secondo il principio della spedizione il contratto è concluso quando c’è contemporanea presenza di volontà conformi, dunque è concluso nel tempo e nel luogo in cui il destinatario della proposta spedisce la propria accettazione, con la conseguenza che il vincolo contrattuale si perfeziona prima ancora che il proponente ne abbia conoscenza.
Il principio della cognizione richiede, invece, che ciascuna delle parti abbia conoscenza della corrispondente volontà dell’altra e ciò perché non si può ammettere che un soggetto resti
volontariamente obbligato ad un altro, senza avere prima la conoscenza dell’esistenza del vincolo; coscienza che si acquista appunto con la pervenuta notizia della volontà di aderire/accettare alla proposta. Di fatto il principio della cognizione addossa all’accettante il rischio del ritardo nella trasmissione della sua risposta: il ritardo offre al proponente un ulteriore lasso di tempo per pentirsi della proposta e revocarla. In questo lasso di tempo l’accettante è, però, protetto in qualche modo dalla norma secondo la quale, se egli aveva in buona fede intrapreso l’esecuzione del contratto, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione (art. 1328). Un principio intermedio fra principio della cognizione e principio della spedizione è il principio della ricezione, vigente nei paesi dell’area tedesca, in forza del quale il contratto è concluso nel momento in cui l’accettazione è pervenuta all’indirizzo del proponente, mentre è irrilevante che questi ne abbia avuto, o potuto avere, conoscenza. La “conoscenza dell’accettazione”, richiesta dall’art. 1326, è convertita in mera conoscibilità dall’art. 1335 c.c. (presunzione di conoscenza: “la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”), per il quale l’accettazione si reputa conosciuta quando giunge all’indirizzo del proponente, se questi non prova d’essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. Sicché il principio tedesco della ricezione differisce dal principio della cognizione solo perché il proponente non è ammesso a dare la prova che l’accettazione, sebbene pervenuta al suo indirizzo, è stata da lui senza colpa ignorata. Particolari tecniche di formazione dell’accordo riguardano:
a) i contratti con obbligazioni del solo proponente, dove il silenzio del destinatario della proposta è valutato come tacita accettazione ed il contratto si perfeziona se, entro il termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi, il destinatario non rifiuti la proposta (art. 1333);
b) i contratti che ammettono esecuzione prima della risposta dell’accettante. Per l’art. 1327 c.c. (esecuzione prima della risposta dell’accettante: “ qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione. L’accettante deve dare prontamente avviso all’altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno”) il proponente può chiedere o la natura dell’affare o gli usi possono ammettere che la prestazione dell’altra parte sia eseguita senza una preventiva risposta. È, nel linguaggio commerciale, il caso dell’ordine che un’impresa rivolge ad un’altra impresa ed al quale fa senz’altro seguito l’inoltro della merce ordinata. Qui “il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione”. Qui c’è accettazione tacita della proposta per fatto concludente, qual è l’iniziata esecuzione della prestazione e c’è, in deroga al generale principio della cognizione, un’eccezionale applicazione del principio della spedizione, per effetto della quale “non si è più richiesto il requisito dello scambio delle sue dichiarazioni”. S’intende poi che il contratto è sottoposto alla regola generale dell’art. 1326 se, nonostante la natura dell’affare o gli usi, il proponente abbia chiesto espressamente la preventiva accettazione della controparte.
Un più generale contemperamento fra principio della cognizione e principio della ricezione è attuato dall’art. 1335, ai sensi del quale la proposta e l’accettazione, come anche la loro revoca e, in genere, ogni dichiarazione diretta a persona determinata, si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. La conoscenza effettiva del’accettazione è così sostituita dalla
sua conoscibilità ed p imposto al proponente l’onere di provare che l’accettazione, sebbene giunta al suo indirizzo, è stata da lui incolpevolmente ignorata. La proposta contrattuale può essere rivolta ad un destinatario determinato, ma può anche assumere la forma della proposta o offerta al pubblico: chiunque, in tal caso, può esprimere al proponente la propria accettazione, con l’effetto di perfezionare il contratto nel momento in cui questa giunga a conoscenza del proponente (art. 1336). Può accadere che la morte colpisca una delle parti nel corso della formazione del contratto, prima che questo sia concluso. La morte del proponente toglie ogni efficacia alla proposta ( e all’accettazione non ancora pervenuta al proponente): il destinatario di questa non può comunicare all’erede la propria accettazione, giacché la morte ha privato il proponente della possibilità, altrimenti spettante gli, di revocare la proposta. Alla regola fa eccezione la proposta irrevocabile 8art. 1329), che è vincolante per l’erede del proponente defunto. Altra eccezione è relativa al caso in cui proponente o accettante sia un imprenditore non piccolo: se l’imprenditore nuore prima della conclusione del contratto, la sua proposta o la sua accettazione contrattuale conserva efficacia (art. 1330), ed il contratto sarà concluso quando il suo successore avrà ricevuto notizia dell’accettazione dell’altra parte o quando questa avrà ricevuto notizia dell’accettazione dell’imprenditore nel frattempo defunto.
Proposta contrattuale ed invito a proporre, adesione al contratto plurilaterale, revoca della proposta, patto di opzione e patto di prelazione
Dalla vera e propria proposta contrattuale bisogna distinguere il semplice invito a proporre (c.d. invitatio ad offerendum). È tale, anzitutto, una dichiarazione che non contenga tutti gli estremi essenziali del contratto da concludere. Un cartello con la semplice scritta “vendesi”, posto su una casa non può certo vincolare l’aspirante venditore: vale solo come invito, rivolto al pubblico, a formulare proposte contrattuali o, comunque, ad iniziare trattative per la vendita. L’art. 1336 autorizza questa diversa qualificazione della dichiarazione al pubblico come semplice invito a proporre, anche se contenga gli estremi essenziali del contratto: essa vale come proposta contrattuale “salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi”. Una vera e propria offerta al pubblico si deve, piuttosto, ravvisare nella vendita a mezzo di macchine automatiche e nella vendita a self service: qui il sistema di vendita prescelto esclude, esso stessi, ogni possibilità di diniego del venditore. Per le vendite all’asta o al pubblico incanto vale la medesima conclusione. Altro discorso vale per le aste televisive: le offerte espresse per mezzo del telefono attengono alla fase delle trattative precontrattuali e non vincolano ancora l’offerente. Una specifica forma di proposta o d’accettazione contrattuale è l’adesione di nuove parti, quando sia consentita, ad un già formato contratto di scambio o, più frequentemente, plurilaterale: l’adesione di nuovi membri ad un’associazione o di nuovi soci ad una cooperativa, la sottoscrizione delle azioni di nuova emissione nel caso dell’aumento di capitale di una società per azioni. Nei contratti plurilaterali a struttura aperta, destinati per loro natura a successive adesioni l’adesione di nuove parti non implica modificazione del contratto originario. La proposta di adesione, detta anche richiesta d’ammissione, deve essere rivolta all’organo costituito per l’attuazione del contratto deve essere rivolta all’organo costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza, a tutti gli originari contraenti (art. 1332) ed ha la medesima natura dell’originaria partecipazione al contratto: l’aderente si pone, al pari delle parti originarie, nella posizione di contraente. L’adesione si perfeziona nel momento dell’incontro delle dichiarazioni di volontà dell’aderente e
dell’associazione: momento che sarà diverso a seconda che l’iniziativa dell’adesione sia assunta dall’aderente oppure dall’associazione e che coinciderà, nel primo caso, con il momento in cui all’aderente venga notificata la deliberazione di ammissione oppure, nel secondo caso, con quello in cui l’associazione riceva notizia dell’accettazione dell’aderente (art. 1326). A loro volta, l’organo, o gli originari contraenti, sono liberi di accettare o rifiutare la richiesta d’ammissione del nuovo membro, senza essere tenuti a motivare la ragione della scelta, che è atto di autonomia contrattuale, incensurabile ed insindacabile. La clausola dell’atto costitutivo e dello statuto che prevede le condizioni per l’ammissione dei nuovi associati, si rivolge agli organi interni dell’associazione ed impone loro di attenersi, nell’accoglimento o nella reiezione delle domande d’ammissione, ai criteri da essa previsti. La clausola non è, invece, rivolta ai terzi e non vale quale offerta contrattuale al pubblico. Significativo al riguardo è l’art. 2528 c.c., il quale stabilisce, in rapporto alle società cooperative, che “l’ammissione di un nuovo socio è fatta con deliberazione degli amministratori su domanda dell’interessato”; norma, questa, che colloca l’aspirante socio nella posizione di proponente ed attribuisce alla società la facoltà d’esprimere o di non esprimere, attraverso la “deliberazione degli amministratori”, l’accettazione contrattuale. Nel contratto plurilaterale a struttura chiusa l’adesione di nuove parti richiede una previa modificazione del contratto: a norma dell’art. 2252 c.c. (modificazioni del contratto sociale: “il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente”) nelle società di persone; secondo la tecnica dello’aumento di capitale nelle società di capitali (art. 2438 ss. c.c.). La deliberazione assembleare di aumento del capitale è, al tempo stesso, deliberazione modificativa del contratto di società ed offerta al pubblico ex art. 1336. Dall’art. 2439 risulta che l’importo del capitale in aumento è, di regola, determinante della volontà espressa della deliberazione di aumento del capitale: l’offerta al pubblico potrà, perciò, dirsi accettata solo se l’intero aumento deliberato venga sottoscritto. Ne deriva che ciascuna sottoscrizione può rivelarsi o quale accettazione conforme alla proposta contrattuale o quale accettazione non conforme alla proposta. La sottoscrizione dell’aumento di capitale, quando è effettuata da nuovi soci, avendo i vecchi soci rinunciato al diritto di opzione o avendolo ceduto, tuttavia, la medesima forma imposta per la costituzione della società, che a questo modo si rivela quale forma dell’atto costitutivo in quanto tale, non quale forma del contratto di società di capitali.
Fino al momento in cui il contratto non sia concluso, le parti conservano la propria autonomia contrattuale: la proposta e l’accettazione possono, fino a quel momento, essere revocate da chi le ha formulate. La proposta, perciò, può essere revocata fino a che al proponente non sia giunta notizia dell’accettazione, se si tratta di contratti retti dalla regola generale dell’art. 1326; fino a quando il destinatario non abbia iniziato l’esecuzione, se si tratta di contratti assoggettabili alla particolare regola dell’art. 1327. L’accettazione, a sua volta, è revocabile purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione (art. 1328). La proposta di contratto con obbligazioni del solo proponente è, invece, revocabile solo se la revoca giunga a conoscenza del destinatario prima della proposta (art. 1333). Con la revoca della proposta il proponente riacquista la propria piena libertà contrattuale; ma a questi effetti, non è sempre necessaria una dichiarazione di revoca. Così, se il destinatario emette un’accettazione non conforme alla proposta e, perciò, equivalente a nuova proposta, l’originario proponente riacquista la propria libertà contrattuale, essendo libero d’accettare o meno la controproposta, senza necessità di revocare l’originaria proposta. Il medesimo effetto è prodotto dal rifiuto espresso della proposta da parte del destinatario, che dispensa il proponente dall’attesa del termine di cui all’art. 1326, II comma (c.d. caducazione
automatica della proposta per decorso del tempo). Si ammette che la proposta possa essere revocata tacitamente, con l’assunzione di un comportamento concludente, con l’intrapresa trattativa con altre parti. Un moderno sistema di vendita, quello della vendita a domicilio o “porta a porta”, ha sollevato il problema di una più adeguata tutela di chi si è indotto a sottoscrivere un contratto per sollecitazione di un abile venditore che non gli lasci tempo per una ponderata decisione. Per le vendite a domicilio di valori mobiliari la l. 216/1974 aveva posto la regola secondo la quale l’efficacia del contratto resta sospesa per 5 giorni, entro i quali il compratore può comunicare il suo “recesso” dal contratto; tale termine è stato esteso a 7 giorni dal Testo Unico sull’intermediazione finanziaria del 1998. Questo ius poenitendi del compratore è stato poi esteso ad ogni vendita “porta a porta” dal d.lgs. n. 50/1992 relativo ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali. In questa materia ci si esprime impropriamente in termini di recesso: si deve dire piuttosto che la conclusione del contratto è temporaneamente sospesa e che la dichiarazione contrattuale del compratore può, entro 5 o 7 giorni dalla sua formulazione, essere revocata. Altra norma di tutela del consumatore è introdotta, per i contratti a distanza, ossia stipulati con un sistema di vendita o di prenotazione di servizi organizzato dal fornitore con tecniche di comunicazione a distanza, dal d.lgs. n. 185/1999: il consumatore può recedere entro 10 giorni dal ricevimento dei beni nel caso di vendita, o dal contratto nel caso della prestazione di servizi. Infine, l’art. 64 del Codice del consumo ha unificato la disciplina dei contratti negoziati fuori dei locali commerciali e dei contratti a distanza prevedendo per il recesso da entrambi il termine di dieci giorni. Dalla revoca della proposta va distinto il ritiro della stessa: a differenza della revoca, che è successiva alla ricezione della proposta e vale ad avvertire il destinatario di non tenere alcun conto della proposta in itinere. La distinzione fra le due figure assume rilievo sotto questo aspetto: il ritiro, a differenza della revoca, fa decadere anche una proposta dichiarata come irrevocabile a norma dell’art. 1329. La proposta può essere dal proponente dichiarata come proposta ferma o irrevocabile per un dato tempo: il destinatario può, entro questo tempo, accettarla o non accettarla; il proponente, invece, non può revocare la proposta, che rimane per lui vincolante, così come formulata, fino a quando non sia scaduto il tempo fissato (art. 1329). Dalla proposta irrevocabile l’opzione differisce per la sua natura di contratto, e si suole perciò parlare di patto di opzione: ricorre quando una parte del contratto si vincola verso l’altra e l’altra si limita a prendere atto, riservandosi la scelta, appunto l’opzione, se accettare o no. Il patto d’opzione, per essere tale, deve contenere l’intero regolamento contrattuale, in modo che il titolare dell’opzione possa determinare la conclusione del contratto con la sola sua dichiarazione di accettazione, senza necessità d’ulteriori dichiarazioni del proponente. Il patto produce, a carico di chi si obbliga, gli stessi effetti di una proposta irrevocabile (art. 1331), ma con la differenza che è valido anche se non è fissato un termine per l’accettazione, che potrà essere stabilito dal giudice. Se il titolare dell’opzione, anziché accettare semplicemente, formula una controproposta, il meccanismo del patto d’opzione non opera: il contratto di perfezionerà se e quando l’originario proponente accetterà la controproposta. Talvolta chi acquista per contratto la facoltà d’opzione paga all’altro contraente un corrispettivo, che è il controvalore dell’utilità che l’altrui impegno irrevocabile: si dice, in tal caso, che si è “comperata un’opzione” su un bene. L’opzione, essendo un contratto, può essere ceduta: chi la consegue ha, diversamente dal destinatario di una proposta ferma, la possibilità di negoziarla. Il patto d’opzione differisce del c.d. contratto preliminare unilaterale, con il quale solo una delle parti s’impegna a concludere il contratto definitivo: il contratto risultante dal patto d’opzione è già un contratto definitivo, destinato a perfezionarsi con l’accettazione dell’optante, mentre il preliminare unilaterale obbliga il promittente alla conclusione di un futuro contratto, ulteriore rispetto al
preliminare. È qui pertinente ricordare anche il patto di prelazione, con il quale un soggetto si obbliga nei confronti di un altro per l’eventualità che intenda alienare un proprio bene: prima di alienarlo ad un terzo egli dovrà eseguire la c.d. denuntiatio, ossia offrirlo, alle stesse condizioni cui il terzo è disposto ad acquistarlo, a chi ha contrattualmente conseguito il diritto di prelazione. Così è il patto di preferenza nella somministrazione: con esso il somministrato si obbliga, per non altre 5 anni, a dare la preferenza al somministrante nella stipulazione di un successivo contratto per lo stesso oggetto, comunicandogli le condizioni propostegli da terzi (art. 1566). Talvolta un diritto di prelazione è espressamente riconosciuto dalla legge: così, per la locazione d’immobili urbani ad uso diverso di quello d’abitazione, la l. 392/1978, stabilisce che, nell’ipotesi in cui il locatore intenda trasferire a titolo oneroso l’immobile locato, deve darne comunicazione al conduttore, indicando il corrispettivo e le altre condizioni cui la vendita dovrebbe essere conclusa, mentre il conduttore ha 60 giorni per esercitare il diritto di prelazione. Quando un diritto di prelazione è riconosciuto dalla legge (prelazione legale), esso è opponibile ai terzi, ed il suo titolare può riscattare la cosa presso il terzo acquirente. La prelazione legale è, perciò, prelazione reale; la prefazione contrattuale ha, per contro, efficacia meramente obbligatoria, allo stesso modo del patto di non alienare (art. 1379), con la conseguenza che la violazione del patto non attribuisce che il diritto al risarcimento del danno. Tuttavia, il patto di prelazione è fonte di un obbligo a contrarre, suscettibile d’esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932: fino a quando la vendita del terzo non sia opponibile all’avente diritto alla prelazione, questi può agire per l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di alienare alle condizioni offerte dal terzo, e, se trascrive la domanda giudiziale prima che il terzo trascriva il suo acquisto, prevarrà su quest’ultimo. In quanto consentita, sia pure genericamente, dall’art. 2355, III comma, la prelazione tra soci viene considerata come prelazione legale e, dunque, reale. All’offerta in prelazione s’attribuisce, in ogni caso, natura di proposta contrattuale, non di semplice invito a proporre: il contratto si perfeziona, a favore del destinatario dell’offerta in prelazione, nel momento in cui l’accettazione di questo giunge a conoscenza della controparte.
La causa
2)La concorde volontà delle parti è requisito necessario, ma non sufficiente. Occorre altresì una causa, che l’art. 1325 c.c. eleva ad ulteriore requisito essenziale dei contratti e, per il richiamo di cui all’art. 1324 c.c., degli atti unilaterali. La causa è la funzione economico-sociale dell’atto di volontà, è la giustificazione della tutela dell’autonomia privata. Il bene non passa e l’obbligazione non sorge, se manca una giustificazione economico-sociale dell’atto di autonomia contrattuale. Così la causa della vendita (art. 1470 c.c.) è lo scambio di cosa con prezzo. Il trasferimento della proprietà del bene o l’obbligazione di pagare il prezzo sono l’uno la giustificazione dell’altra: il primo giustifica l’esborso di danaro del compratore, la seconda giustifica il fatto che il venditore si spoglia della proprietà di un bene. Ai contratti a titolo oneroso, la cui causa si basa su uno scambio di prestazioni, si contrappongono i contratti a titolo gratuito, nei quali la prestazione di una delle parti non trova giustificazione in una controprestazione dell’altra parte. Ma anche i contratti a titolo gratuito hanno una propria causa: così la causa della donazione, art. 769 c.c. (definizione: “la donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”) è lo spirito di liberalità. I contratti tipici, proprio perché previsti e regolati dalla legge o da altre fonti di diritto oggettivo, hanno tutti
una causa (c.d. causa tipica) e per essi non si pone il problema di accertare la ricorrenza o no di una funzione economico-sociale. Bisogna, però, distinguere fra:
- causa in astratto, e
- causa in concreto.
Altro è il modello astratto, altra la concreta realizzabilità del modello: sotto il primo aspetto, se si tratta di contratto tipico, non può porsi un problema di mancanza di causa, lo si può porre, invece, sotto il secondo aspetto. Un caso emblematico è quello di chi acquista per contratto di vendita una cosa già sua (perché non sapeva, al momento del contratto, di averla ereditata): qui la causa del tipo contrattuale prescelto, che è lo scambio di cosa con prezzo, non può in concreto attuarsi, giacché il compratore non riceve nulla in cambio del prezzo ed il contratto, benché tipico, sarà nullo per mancanza di causa. In altri casi è la stessa legge a comminare la nullità del contratto tipico per mancanza di causa (es. nullità per inesistenza dell’obbligazione originaria, art. 1234). Il problema della causa si pone anche sotto il primo aspetto, quello della causa in astratto, per i contratti atipici o innominati, che “non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare”. Per essi il giudice dovrà accertare se “siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322, attiene alla causa in astratto, è per i contratti atipici, una valutazione sostitutiva di quella effettuata, per i contratti tipici, dal diritto oggettivo.
È così riconosciuto un controllo giudiziario sull’uso che i privati fanno della propria autonomia contrattuale. Ed è un controllo che il giudice non esercita solo in senso negativo, per accertare se si tratta d’interessi illeciti, contrari all’ordinamento giuridico (è il caso della causa illecita, previsto dall’art. 1343), ma esercita anche in senso positivo, per accertare se gli interessi perseguiti dalle parti siano “meritevoli di tutela” (e potrà non ritenerli tali anche se si tratta d’interessi leciti) e, perciò, se il contratto abbia una causa o se questa, invece, manchi. Il giudice, inoltre, deve qui giudicare “secondo l’ordinamento giuridico”: secondo il diritto, cioè, e non secondo equità; si pronuncerà sulla meritevolezza degli interessi perseguiti avendo presenti le norme che regolano casi simili o materie analoghe o, in mancanza, i principi generali dell’ordinamento giuridico (art.
12 delle preleggi). Questo potere di controllo dell’autonomia contrattuale non è attribuito al giudice a protezione d’interessi pubblici. Spetta all’autorità governativa, non all’autorità giudiziaria, provvedere al riguardo. È riconosciuto, invece, a protezione degli stessi contraenti. Per tutelarli “contro il rischio di atti capricciosi od imponderati” e, soprattutto, a protezione del contraente più debole, perché “le dichiarazioni prive di causa generano il sospetto che anche il consenso al vincolo giuridico sia difettoso”. Nella maggior parte i contratti atipici sono normativamente tali, perché non regolati dalla legge o da altre fonti di diritto oggettivo, come i regolamenti o la consuetudine, ma sono socialmente tipici, ossia corrispondono a modelli contrattuali uniformi largamente praticati nel mondo degli affari. Spesso si tratta di modelli a grande diffusione internazionale, come accade per leasing, franchising ecc. In questi casi il giudizio di meritevolezza degli interessi perseguito è influenzato dall’uniformità internazionale del modello contrattuale. Per quanto il nostro giudice debba, a rigore, esprimere quel giudizio sulla base del nostro ordinamento giuridico, ben difficilmente egli riterrà invalido un modello contrattuale ovunque riconosciuto come valido. Egli sarà consapevole dell’isolamento economico nel quale altrimenti collocherebbe il proprio paese nel contesto dei mercati internazionali. Con la recezione giurisprudenziale dei contratti atipici internazionalmente uniformi prende vita una
forma giurisprudenziale, di uniformità internazionale del diritto privato, ulteriore rispetto a quella che si attua con le convenzioni internazionali di diritto uniforme. Altro è la causa del contratto, altri ne sono i motivi. La prima è la sua funzione oggettiva ed è unica per entrambi i contraenti, sempre la stessa per i contraenti di quel determinato tipo. I secondi, invece, sono le ragioni soggettive che inducono le parti al contratto: sono diversi per un contraente e per l’altro e possono essere i più diversi sia per l’uno sia per l’altro. I motivi del contratto sono, di regola, irrilevanti per il diritto, acquistano rilevanza solo in due casi: nel caso di motivo illecito e nel caso di errore di diritto sui motivi.
Bisogna distinguere fra atto gratuito, atto di liberalità, donazione. Non ogni atto gratuito è atto di liberalità, non ogni atto di liberalità è donazione: è tale solo la liberalità che consiste in un dare o nell’assunzione di un’obbligazione di dare (art. 769). Obbligazioni di fare possono essere assunte a titolo gratuito senza che ciò implichi donazione, come nel caso del deposito gratuito. In un sistema come il nostro, retto dal principio di causalità (art. 1325), anche la donazione ha una sua causa, che è appunto la liberalità, non può invece dirsi che la liberalità “sostituisca” la causa e che basti la forma solenne, richiesta dall’art. 782 c.c. (forma della donazione: “la donazione deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità. Se ha per oggetto cose mobili, essa non è valida che per quelle specificate con indicazione del loro valore nell’atto medesimo della donazione, ovvero in una nota a parte sottoscritta dal donante, dal donatario e dal notaio. L’accettazione può essere fatta nell’atto stesso o con atto pubblico posteriore. In questo caso la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione è notificato al donante. Prima che la donazione sia perfetta, tanto il donante quanto il donatario possono revocare la loro dichiarazione. Se la donazione è fatta a una persona giuridica, il donante non può revocare la sua dichiarazione dopo che gli è stata notificata la domanda diretta a ottenere dall’autorità governativa l’autorizzazione ad accettare. Trascorso un anno dalla notificazione senza che l’autorizzazione sia stata concessa, la dichiarazione può essere revocata”), per rendere valida l’attribuzione gratuita di un bene. Le esigenze di controllo giudiziario della funzione del contratto non vengono meno, di fronte all’atto gratuito, neppure quando esso assume la forma solenne. Si è, in dottrina ritenuto che, nonostante l’impiego del nomen iuris della donazione e nonostante la forma solenne, il contratto possa essere ugualmente dichiarato nullo per mancanza di causa quante volte risulti mancare in concreto una causa donandi. Il problema è allora quello della determinazione del concetto di liberalità. Questo esprime anzitutto l’assenza di costrizione, giuridica o anche solo morale, in chi senza corrispettivo dispone a favore di altri di un proprio diritto o si obbliga nei suoi confronti ad una prestazione di dare. La liberalità non è solo spirito umanitario o caritativo, essa non è esclusa dal fatto che il donante, come nel caso della donazione rimuneratoria (art. 770 c.c.), sia animato da riconoscenza (dona, ad es., al comune per esprimere riconoscenza alla città che gli ha dato i natali) o alla considerazione dei meriti del donatario (il comune dono al concittadino illustre, per esprimergli la propria considerazione) o voglia manifestare speciale rimunerazione (ti rimunero con una donazione perché mi hai salvato la vita). La donazione rimuneratoria è atto di liberalità, giacché ognuno si sente libero di manifestare o no riconoscenza, di premiare o no i meriti altrui. Lo spirito di liberalità è, invece, escluso in chi dà senza corrispettivo per osservanza di un dovere giuridico oppure di un dovere morale o sociale, in adempimento cioè di un’obbligazione naturale (art. 2034). Significativa, sotto questo aspetto, è la giurisprudenza che esclude la qualificazione dell’atto gratuito come donazione e lo sottrae all’applicazione delle norme a questa relative, come quella che impone la forma dell’atto pubblico, quante volte il disponente risulti mosso, anziché da spirito di liberalità, dall’esigenza di adempiere un dovere, come nel caso del genitore che dichiara
di donare ai figli volendo con ciò provvedere al loro mantenimento. Ugualmente non sono liberalità le elargizioni che si fanno in conformità agli usi, come i regali fra familiari in occasione delle festività, anche se si tratta di elargizioni fatte in occasione di servizi resi (art. 770), come ad es. la mancia al cameriere. La donazione non esaurisce la categoria delle liberalità fra vivi. Una causa di liberalità può essere presente in atti unilaterali, come la remissione del debito, o in contratti, come la stipulazione a favore di terzo. Le liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione vengono solitamente designate con il nome di liberalità atipiche, ma il concetto di atipicità è assunto nel senso di liberalità diversa dal tipo della donazione, non nel senso in cui si parla di contratti atipici o innominati. Queste liberalità diverse dalla donazione sono dall’art. 809 equiparate alla donazione a due specifici effetti: per assoggettarle all’azione di riduzione e alla disciplina della revocazione. Le si ritiene soggette anche alle norme sulla collazione. Il concetto di liberalità si rapporta, in secondo luogo, alla specifica natura dell’interesse che muove il disponente. Un criterio di distinzione più volte impiegato dalla giurisprudenza per distinguere fra atto gratuito e atto di liberalità è quello che dà rilievo alla natura dell’interesse, patrimoniale o non patrimoniale, che il disponente mira a soddisfare. Così la remissione del debito fatta dal socio alla società è atto gratuito, ma non è atto di liberalità, perché il socio ha un interesse patrimoniale a ridurre i debiti della propria società ed a scongiurarne il fallimento.
Contratti con causa mista e contratti collegati
Spesso il contratto atipico risulta dalla combinazione, in unico contratto, di più contratti tipici. Anche i contratti tipici, d’altra parte, possono risultare dalla sintesi di altri contratti tipici.
Riguardando il fenomeno dal punto di vista della causa si parla, allora, di contratti con causa mista. Così un contratto può essere, ad un tempo, atto a titolo oneroso e atto di liberalità, come nel caso della vendita di un bene ad un prezzo inferiore al valore di mercato, quando il venditore sia a ciò mosso da liberalità verso il compratore (si parlerà di liberalità atipica).
Diverso dal contratto con causa mista è il fenomeno dei contratti collegati, dove non c’è un unico contratto, ma una pluralità coordinata di contratti, che conservano ciascuna un’autonoma causa, anche se nel loro insieme mirano ad attuare un’unitaria e complessa operazione economica.
Il criterio distintivo non è quello, formale, dell’unità (contratto con causa mista) o pluralità (contratti collegati) dei documenti contrattuali, ma è sostanziale, ed è dato dall’unità o dalla pluralità di cause. Così, ad es., locazione e lavoro si combinano per dare vita ad un’unica atipica causa mista del contratto di portierato. Più precisamente i vari contratti collegati conservano la loro individualità, anche se le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro o sugli altri. Naturalmente, le vicende che colpiscono il contratto accessorio non travolgono il contratto principale, ma non sempre è ravvisabile fra i contratti collegati un rapporto “da contratto principale a contratto accessorio”, essendo frequente il fenomeno dell’interdipendenza reciproca fra contraenti.
Anche in materia di contratti collegati si può distinguere tra tipicità ed atipicità. Talvolta il collegamento fra contatti diversi risulta legislativamente fissato è, dunque, tipico: così sono tra loro collegati contratto e subcontratto (sublocazione), ed altrettanto suole dirsi per il contratto
costitutivo dell’obbligazione principale e quello costitutivo dell’obbligazione fideiussoria. Collegamento atipico è, invece, quello che fra più contratti s’instaura in forza dell’autonomia contrattuale, in applicazione dell’art. 1322, e che prende vita da un’atipica clausola – espressa o anche tacita – di più contratti, la quale rende un contratto dipendente da un altro (c.d. collegamento unilaterale o per accessorietà) o rende più contratti fra loro interdipendenti (collegamento con influenza reciproca). La causa che giustifica la validità di questa clausola sta, secondo la giurisprudenza, nelle unità dell’operazione economica che più contratti sono chiamati a realizzare; la volontà che sorregge il collegamento può essere anche presunta e risultare dalla finalità complessiva che le parti hanno perseguito.
Il collegamento può operare fra contratti conclusi dalle medesime parti o anche – il caso della fideiussione lo rende evidente – fra parti diverse. Un collegamento atipico fra contratti conclusi dalle medesime parti viene ravvisato nel collocamento dei c.d. “prodotti misti assicurativo- finanziari”, frutto dell’abbinamento di un contratto d’assicurazione sulla vita con un contratto d’investimento in valori mobiliari. Nell’operazione intervengono tre soggetto: una compagnia d’assicurazione, un gestore di fondi comuni d’investimento, una società di distribuzione di prodotti finanziari, la quale assomma in sé la qualità di agente d’assicurazione e di mandatario del gestore. La giustificazione volontaristica offerta dalla giurisprudenza in tema di collegamento contrattuale non sempre si rivela adeguata. Non risolve il problema sollevato da una clausola che il contraente forte può imporre al contraente debole: quella che, nonostante l’oggettiva interdipendenza delle prestazioni inerenti a contratti separati, fosse esplicita nel dichiarare ciascun contratto insensibile alle vicende relative a ciascuno degli altri. Si dovrà, piuttosto, fare capo al concetto di causa, e considerare il nesso causale intercorrente fra più contratti, ciascuno dei quali appare inidoneo a realizzare da solo la funzione che soltanto nel loro insieme essi concorrono a realizzare. In conclusione, l’autonomia contrattuale può svolgere in questa materia due ruoli ben differenziati: le parti possono, in forza dell’autonomia contrattuale, rendere fra loro collegati contratti altrimenti indipendenti, a norma dell’art. 1322; le parti possono, sempre in forza della loro autonomia contrattuale, scomporre in più contratti un’operazione economica altrimenti realizzabile mediante un unico contratto, dotato di una causa unitaria, tipica od atipica. In tal caso, l’unità della causa agisce come limite dell’autonomia contrattuale: esige il collegamento fra i diversi contratti; rende nulla l’eventuale clausola che avesse escluso la comunicazione delle vicende ad essi relative, non essendo volta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Dal requisito della causa discendente l’inammissibilità di contratti (e di atti unilaterali) astratti, ossia diretti a produrre effetti per sola volontà delle parti, indipendentemente dall’esistenza di una causa, sia essa una causa tipica, corrispondente ad un tipo contrattuale previsto dalla legge, oppure una causa atipica, non prevista dalla legge, ma giudicabile come idonea a soddisfare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Coerente con questo generale principio è l’art. 1988: la semplice promessa di pagamento o il semplice riconoscimento del debito sono dichiarazioni (unilaterali) astratte, dalle quali non emerge la causa in forza della quale si promette il pagamento o ci si riconosce debitori. Perciò la dichiarazione ha solo efficacia processuale, “dispensa colui a favore del quale è fatta all’onere di provare il rapporto fondamentale”. Si suole parlare, a questo riguardo, di astrazione solo processuale dalla causa. Le cose non cambiano se la promessa di pagamento sia “titolata”, ossia se menzioni il rapporto fondamentale: anche in questo caso il promittente potrà sottrarsi al pagamento dando la prova che il rapporto fondamentale era invalido o che si è estinto. L’astrazione processuale è
legislativamente ammessa per la promessa di pagamento e per la ricognizione di debito. La si ritiene, invece, non ammissibile per il riconoscimento del diritto reale: fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (come quello di cui all’art. 969, relativo al riconoscimento, da parte dell’enfiteuta, della proprietà spettante al concedente), la dichiarazione con la quale si riconosce che altri è proprietario, o comproprietario, di un bene – c.d. pronuntiatio contra se – non ha valore giuridico. Il principio di causalità è dalla giurisprudenza portato alle estreme conseguenze per gli atti traslativi della proprietà o di altri diritti reali. Il contratto deve enunciare la causa in forza della quale la proprietà o altro diritto reale è trasferito: l’atto traslativo che manchi della expressio causae, è per ciò stesso nullo; la giurisprudenza esclude ogni possibilità di dare altrimenti dimostrazione della causa. Anche la causa donandi deve essere enunciata perché la donazione sia valida. Natura diversa dalla promessa di pagamento e dal riconoscimento del debito, che sono atti unilaterali, ha il c.d. contratto o negozio di accertamento: con questo atipico contratto le parti non dispongono, l’una a favore dell’altra, di propri diritti, e neppure si limitano a riconoscere preesistenti diritti, aventi la propria fonte in un fatto o un atto antecedente; esse mirano, invece, ad eliminare l’incertezza relativa a situazioni giuridiche fra esse intercorrenti, e si vincolano reciprocamente ad attribuire al fatto o all’atto preesistente gli effetti che risultano dall’accertamento contrattuale, con preclusione di ogni ulteriore contestazione al riguardo. L’esigenza di eliminare l’incertezza è sicuramente interesse meritevole di tutela, essendo la certezza dei rapporti giuridici un valore protetto dall’ordinamento giuridico. Tuttavia, il contratto di accertamento in tanto può assolvere la funzione riconosciutagli in quanto la situazione giuridica che con esso viene accertata effettivamente preesistesse, e fosse una situazione obiettivamente incerta. Perciò, è nullo il contratto con il quale si dichiari, per errore o volutamente, di accertare una situazione inesistente, oppure si dichiari di accertare una situazione in realtà già certa. Promessa di pagamento, ricognizione di debito e contratto di accertamento vengono comunemente qualificati come atti (o negozi) giuridici dichiarativi, in antitesi con atti (o negozi) giuridici dispositivi: questi ultimi costituiscono, regolano od estinguono rapporti giuridici patrimoniali; i primi si limitano a dichiarare o ad accettare un preesistente rapporto giuridico patrimoniale, già prodotto da altra fonte, oppure a dichiarare l’inesistenza, come nel caso dell’accordo di simulazione, di un rapporto apparentemente costituito. Ma anche gli atti dichiarativi sono atti di volontà, non dichiarazioni di scienza, sono fonti di obbligazioni, non mezzi di prova. altro dall’astrazione processuale è la c.d. astrazione materiale della causa, in virtù della quale la dichiarazione di volontà produce effetti giuridici indipendentemente dall’esistenza di una causa. Un fenomeno d’astrazione materiale, e non solo processuale, si ha nei titoli di credito e, in particolare, nei titoli di credito astratti, come la cambiale e l’assegno. La distinzione fra causalità e astrattezza non va confusa con quella che si pone fra contratto accessorio e contratto autonomo. S’insegna che la procura “è un negozio astratto nel caso che è irrilevante di fronte ai terzi sottostante negozio di gestione”; ma il concetto di astrattezza è qui usato impropriamente, volendosi piuttosto alludere al fatto che la procura (che pure ha una propria causa) non è atto unilaterale accessorio al sottostante contratto di mandato.
L’oggetto
3)Bisogna preliminarmente distinguere fra l’oggetto e il contenuto del contratto, anche se la dottrina è stata più volte tentata di sovrapporre le due nozioni. Il contenuto del contratto è il regolamento contrattuale, l’insieme delle clausole volute dalle parti o inserite nel contratto in forza
della legge, degli usi o dell’equità. In questo senso di “contenuto del contratto” parla l’art. 1322, con norma da coordinare con l’art. 1374, che indica le fonti d’integrazione del (contenuto del) contratto. L’oggetto del contratto è la cosa più in generale, il diritto (reale o di credito) che il contratto trasferisce da una parte all’altra oppure la prestazione che una parte si obbliga ad eseguire a favore dell’altra. Il contratto può avere più oggetti: così, nella vendita, sono oggetto del contratto sia la cosa venduta sia il prezzo. All’una come all’altro si applicano le norme degli artt. 1346-49, relative all’oggetto del contratto. Altro è la “prestazione caratteristica” del contratto che nella vendita è solo la cosa venduta. Ma l’oggetto è unico nei contratti che trasferiscono cose o diritti a titolo gratuito o in quelli con obbligazioni di una sola parte. Sotto questo aspetto si può cogliere la differenza fra oggetto e causa del contratto, che sono tra loro in rapporto da mezzo a fine. L’oggetto consiste, da questo punto di vista, nelle cose o nelle prestazioni mediante le quali si attua la funzione economico-sociale del contratto. Parliamo di causa quando consideriamo le cose e le prestazioni dedotte in contratto nel loro rapporto di corrispettività; parliamo di oggetto quando le prendiamo in considerazione a sé, l’una separatamente dall’altra. L’identificazione dell’oggetto può talvolta essere il risultato di un’operazione interpretativa del contratto, diretta a distinguere fra oggetto e contenuto. Così, la clausola del contratto d’assicurazione, che esclude la responsabilità dell’assicuratore per determinati rischi relativi alla cosa assicurata, non attiene al contenuto del contratto e non è clausola di limitazione della responsabilità; vale, invece, ad identificare il rischio assicurato e, dunque, l’oggetto del contratto. La giurisprudenza distingue fra oggetto immediato e oggetto mediato del contratto: così richiede la forma scritta per contratti che abbiano un mediato oggetto immobiliare ed il concetto di oggetto mediato può assumere rilievo anche ad altri effetti, come in materia di vendita di pacchetti azionari, che hanno per oggetto immediato i titoli azionari e come oggetto mediato il patrimonio sociale.
L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346). Il primo di questi requisiti fa riferimento, anzitutto, alla possibilità materiale dell’oggetto: questo è impossibile quando si tratta di una cosa che non esiste oppure di una prestazione materialmente ineseguibile. Ma una cosa, attualmente inesistente, può formare oggetto del contratto se è suscettibile di venire ad esistenza: è il caso delle cose future, che possono essere dedotte in contratto quando la legge non lo vieti (art. 1348). È, inoltre, il caso dell’oggetto impossibile dedotto in contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine: se l’oggetto, inizialmente impossibile, diventa possibile prima dell’avveramento della condizione o della scadenza del termine, il contratto è valido (art. 1347). L’impossibilità che qui viene in considerazione è, ovviamente, l’impossibilità oggettiva, dell’oggetto in sé, non quella derivante da condizioni soggettive del contraente. Il requisito della possibilità dell’oggetto si riferisce, inoltre, alla sua possibilità giuridica: l’oggetto è impossibile, sotto questo aspetto, quando consiste in una cosa che non è, per legge, un bene in senso giuridico, una cosa, cioè, che non può formare oggetto di diritti (art. 810), come le res communes omnium e, in genere, come le cose non valutabili economicamente o come le parti del corpo umano. Sul proprio corpo l’uomo ha un diritto della personalità, non un diritto patrimoniale, ma un diritto del quale l’art. 5 permette di disporre solo se l’atto di disposizione non comporta una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Fra i diritti della personalità c’è però un diritto, il diritto all’immagine protetto dell’art. 10, che si è ritenuto possa formare oggetto di veri e propri atti contrattuali di disposizione: la mercificazione dell’immagine, portato dell’odierna società dei mass media, avrebbe comportato la conseguenza che l’immagine possa essere considerata come oggetto di contratto, con conseguente irrevocabilità del consenso prestato. È tesi
da respingere. Il consenso prestato per l’altrui utilizzazione commerciale della propria immagine è un atto unilaterale, sempre revocabile, salvo l’altrui diritto al risarcimento del danno nel caso di revoca del consenso affatto ingiustificata o capricciosa e, perciò, di abuso del diritto della personalità.
Oggetto giuridicamente impossibile è, ancora, il bene che la legge dichiara inalienabile o fuori commercio: così non può formare oggetto di vendita o di altri contratti traslativi della proprietà un bene demaniale, anche se può però formare oggetto, a norma dell’art. 823 di contratti che permettono a privati l’utilizzazione del bene. L’oggetto deve, inoltre, essere lecito: va chiarita la differenza fra impossibilità giuridica e illiceità dell’oggetto. Che una differenza ci sia lo dimostrano le norme che, come l’art. 2126, danno rilievo all’illiceità dell’oggetto (e della causa), non anche all’impossibilità dell’oggetto. Si deve, perciò, richiamare la tradizionale nozione secondo la quale altro è l’antigiuridicità, altro l’illiceità: la prima esprime la non conformità all’ordinamento giuridico, la seconda, per contro, designa la trasgressione di un divieto posto dall’ordinamento giuridico a protezione di fondamentali valori etici. Oggetto giuridicamente impossibile è la cosa o la prestazione, in sé lecita, che la legge non consente di dedurre in contratto; oggetto illecito è la cosa o la prestazione di per sé riprovevole, che la legge vieta sempre e comunque di porre in essere. L’oggetto del contratto deve essere determinato: la vendita che non contenga elementi che permettano una sicura identificazione della cosa è nulla; salvo che nel contratto non sia stata dedotta una prestazione di genere, dipendendo in tal caso l’identificazione della cosa dall’adempimento del debitore, a norma degli artt. 1178 e 1378. la giurisprudenza non intende il requisito della determinatezza in modo rigoristico. L’oggetto, anche se non determinato nel contratto, può però essere determinabile, in base a criteri d’individuazione enunciati nel contratto stesso o altrimenti ricavabili. Così, per la determinazione del prezzo di vendita, si può fare riferimento a listini o quotazioni ufficiali e neppure l’espresso riferimento a listini o quotazioni ufficiali è necessario quando si tratta di cose che il venditore abitualmente vende (art. 1474). Xxxxx, invece, il requisito della determinabilità dell’oggetto quando la sua determinazione sia rimessa ad un successivo accordo delle parti; ciò che fa regredire il documento al ruolo di semplice minuta contrattuale, non vincolante per i suoi firmatari. Un caso di oggetto non determinato, ma determinabile, è quello del contratto che deferisca ad un terzo la determinazione dell’oggetto. Si parla in questo caso di arbitraggio o arbitrato, ed al terzo, che in genere è un esperto dello specifico settore degli affari cui il contratto si riferisce, si dà il nome di arbitratore. Di regola, il terzo deve procedere alla determinazione dell’oggetto con equo apprezzamento, ma l’arbitramento di equo apprezzamento (c.d. arbitrium boni viri) può dare luogo a controversie: ciascuna delle parti può impugnare davanti al giudice la determinazione del terzo, lamentando che essa è “manifestamente iniqua o erronea” (art. 1349) e queste controversie possono costituire un intralcio all’esecuzione del contratto. Le parti possono, allora preferire d’affidare la determinazione dell’oggetto al mero arbitrio del terzo: in tal caso, la determinazione di questo può essere impugnata solo provando la sua mala fede, ossia il suo intento di favorire una parte a danno dell’altra; e le parti assumono, perciò, il rischio di essere vincolante da arbitramento che risulti iniquo per l’una o l’altra. Le due ipotesi differiscono fra loro anche sotto un altro aspetto: nella prima ipotesi, se manca la determinazione dell’arbitratore e se la sua determinazione è dichiarata dal giudice manifestamente iniqua od erronea, lo stesso giudice provvede a determinare l’oggetto del contratto. Nella seconda ipotesi, invece, l’omissione dell’arbitratore o l’accertamento giudiziale della sua mala fede comporta senz’altro la nullità del contratto (nullo per mancata determinazione dell’oggetto), a
meno che le parti, di comune accordo, non sostituiscano il terzo con altro arbitratore. È discusso se la veste di arbitratore possa essere dal contratto attribuita ad una delle parti: certamente la determinazione dell’oggetto non può essere validamente deferita al suo ,ero arbitrio; non c’è, invece, motivo d’escludere l’arbitrium boni viri della parte. Non c’è, del pari, motivo d’escludere che la determinazione dell’oggetto possa essere per contratto attribuita all’arbitrium boni viri di entrambe le parti, purché il contratto fissi i criteri cui le parti debbano attenersi. Se poi una delle parti rifiuta la necessaria collaborazione, provvederà il giudice, in applicazione dei criteri fissati dal contratto. Qui le parti non rinviano ad un loro successivo accordo, giacché il loro successivo intervento non ha natura volitiva, bensì valutativa. Altro dall’arbitramento è l’arbitrato libero od irrituale. Le parti di un contratto, con apposita clausola compromissoria, deferiscono ad uno o più arbitri la definizione di controversie che possono insorgere circa l’interpretazione, l’applicazione o l’esecuzione del contratto, vincolandosi ad osservare la decisione (il dolo) che sarà da essi adottata siccome “determinazione contrattuale”. A differenza dell’arbitratore, gli arbitri liberi o irrituali sono chiamati ad intervenire su un contratto già formato, ed il compito ad essi demandato è di definire una controversia su di esso insorta, sicché l’efficacia vincolante del contratto sostituisce l’autorità di cosa giudicata, propria della sentenza (art. 2909) o del dolo arbitrale rituale. È discutibile la qualificazione come mandato che la Cassazione suole applicare al rapporto che lega fra loro i contraenti e l’arbitratore o gli arbitri irrituali: a costoro non si richiede di compiere un atto giuridico né, tanto meno, d’emettere una dichiarazione di volontà, destinata a produrre effetti giuridici per i contraenti. Si chiede, piuttosto, di pronunciare un giudizio sulla ragione o sul torto dei contendenti, ossia, d’eseguire un’operazione intellettiva, qualificabile come prestazione d’opera intellettuale (art. 2230). All’idea del mandato consegue, nella prassi giurisprudenziale, il corollario secondo il quale la determinazione del terzo arbitratore è annullabile, ai sensi dell’art. 1390, per i vizi della volontà dell’arbitratore; ma la verità è che non è neppure concepibile un vizio del consenso dell’arbitratore, perché questi non è chiamato a prestare consensi di sorta. Le sue valutazioni potranno essere frutto di minaccia o s’incapacità naturale, ma la parte interessata non farà valere un “vizio del contratto” (che non c’è), bensì la manifesta iniquità o erroneità dell’arbitramento o la mala fede dell’arbitratore. Se le minacce non hanno reso iniqua o l’incapacità naturale non ha reso manifestamente erronea la determinazione del terzo, questa non sarà affatto impugnabile e nell’arbitrium merum le minacce altrui saranno rilevanti non in sé, ma in quanto ne è risultata una determinazione di mala fede. Il lodo degli arbitri irrituali, a sua volta. È impugnabile solo se essi non si siano attenuti alle regole imposte dalla clausola compromissoria o se abbiano violato il principio del contraddittorio.
Una variante dell’arbitramento e dell’arbitrato irrituale è il c.d. bianco segno: le parti consegnano all’arbitratore o agli arbitri un foglio firmato in bianco; un apposito “patto di riempimento”, regola l’incarico conferito al terzo o ai terzi, ossia le remissione all’arbitro o agli arbitri della controversia da risolvere, con la formulazione dei relativi quesiti. La peculiarità del bianco segno sta nella circostanza che la determinazione o il giudizio altrui si presenta, a seguito del riempimento del foglio, come oggetto immediato della dichiarazione di volontà dei contraenti, mentre nel comune arbitramento o come nel comune arbitrato irrituale l’oggetto della dichiarazione di volontà dei contraenti si desume per relazionem dal fatto giuridico altrui. Al bianco segno è sicuramente inapplicabile l’art. 1349: la sua funzione sta proprio nell’evitare ogni possibile controversia sul merito della determinazione o del giudice del terzo. La tecnica della dichiarazione sottoscritta in bianco è utilizzabile, per esplicita previsione legislativa, nella cambiale tratta e nel pagherò
cambiario: si è qui in presenza di una dichiarazione unilaterale il cui oggetto è determinato dal destinatario della dichiarazione, in conformità degli accordi intervenuti fra il dichiarante ed il destinatario. Un riempimento della cambiale non conforme agli accordi è opponibile ai terzi che abbiano acquistato la cambiale in mala fede o con colpa grave. Da queste norme si possono trarre più generali illazioni: anzitutto se ne può ricavare che il bianco segno è valido contratto atipico, in quanto diretti a realizzare interessi che appaiono meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridici; in secondo luogo si desume che l’infedele riempimento della dichiarazione sottoscritta in bianco dà luogo ad annullabilità; diventa, infine, legittimo argomentare che alla nostra fattispecie sarà estensivamente applicabile ogni altra norma dettata per l’annullabilità del contratto, inclusa quella relativa alla decorrenza del termine di prescrizione (art. 1442). Diversa è l’ipotesi in cui un documento firmato in modo incompleto sia arbitrariamente riempito da un terzo cui le parti non avevano conferito l’incarico di completarlo. Qui, al pari di quanto accade nell’ipotesi della cambiale incompleta (mancante cioè di requisiti essenziali), della quale l’emittente “non aveva voluto il riempimento”, dovrà parlarsi di nullità del contratto.
La forma
4) Principio generale del moderno sistema dei contratti è quello della libertà delle forme. I contratti possono risultare da dichiarazioni espresse o essere, invece, contratti taciti e i contratti espressi possono, a loro volta, essere contratti orali (o verbali), oppure contratti scritti. È sufficiente, perché il contratto sia valido e produttivo di effetti, che la volontà delle parti si sia manifestata, qualunque sia il modo o la forma della sua manifestazione. La generale regola dell’ammissibilità di contratti taciti trova talvolta eccezioni: così, per l’art. 1937, la volontà di prestare fideiussione deve essere espressa. Più vasta deroga al principio della libertà delle forme è prevista per una serie di contratti, fra i quali campeggiano i contratti immobiliari (art. 1350). La forma scritta è necessaria anche per altri determinati contratti o per determinati atti unilaterali o per determinate clausole (le clausole vessatorie) non aventi ad oggetto beni immobili, ma si deve, in ogni caso, trattare di contratti o di atti o di clausole specialmente indicati dalla legge. Tra questi rientrano contratti ed atti che, come il contratto preliminare, assumono carattere strumentale rispetto ad altri contratti od atti: così il contratto preliminare deve assumere la stessa forma richiesta per il contratto definitivo (art. 1351); la procura deve essere rilasciata nella stessa forma del contratto da concludere (art. 1392); la ratifica del contratto concluso dal falsus procurator deve osservare le forme prescritte per la conclusione di esso (art. 1399). Ci si domanda se la forma scritta sia richiesta anche per altri contratti o atti che si presentino come aventi un mediato oggetto immobiliare. Il problema si pone: a) per il mandato a vendere o ad acquistare immobili, b) per la cessione del contratto avente ad oggetto immobili, c) per la risoluzione consensuale di un contratto preliminare di vendita immobiliare. Per la soluzione negativa del problema sembra militare l’art. 1350 n. 13, che esige la forma scritta a pena di nullità per i contratti e gli atti “specialmente” indicati dalla legge; ciò che depone nel senso della tassatività. Ma un argomento di segno opposto è fornito dall’art. 1325 che colloca la forma fra i requisiti del contratto quando risulta che dalla legge è prescritta sotto pena di nullità; un simile linguaggio induce a ritenere che la necessità della forma scritta possa essere il risultato di un’indagine interpretativa. Il conflitto può essere superato con un’interpretazione estensiva dell’art. 1350, la quale porti a leggervi che la forma scritta è richiesta per i contratti che abbiano per oggetto immediato o mediato beni immobili. Di fatto, i problemi sopra indicati sub a e sub b
vengono risolti in questo senso da una costante giurisprudenza, mentre sul problema di cui sub c s’alternano le soluzioni nell’uno e nell’altro senso, senza possibilità di ravvisare un indirizzo prevalente. Ma si trascura che lo stesso art. 1350 annovera un caso del genere: le transazioni sono sottoposte alla forma scritta non quando implichino trasferimento di diritti reali immobiliari o rinuncia agli stessi, ma quando “hanno per oggetto controversie relative ai rapporti giuridici menzionati nei numeri precedenti”. Sicché la forma scritta è necessaria anche quando la transazione non muti le situazioni reali immobiliari delle parti. È, perciò, corretto concludere che presentano un mediato oggetto immobiliare no solo i contratti che svolgono una funzione strumentale rispetto ad una futura vicenda traslativa immobiliare, ma anche quei contratti che assolvono l’opposta funzione di escludere una futura vicenda traslativa immobiliare. La forma scritta può consistere in un atto pubblico o in una scrittura privata. Il primo è il documento redatto da notaio (o da altro pubblico ufficiale autorizzato) il quale attesta, con le formalità richieste dalla legge notarile, le volontà dichiarate alla sua presenza dalle parti (art. 2699). La seconda è, invece, il documento redatto e sottoscritto dalle stesse parti, senza la partecipazione di un pubblico ufficiale alla sua redazione. La scrittura privata può essere autenticata da un notaio (o da altro pubblico ufficiale autorizzato): qui il notaio si limita ad attestare che le parti hanno sottoscritto il documento alla sua presenza e, perciò, che le firme sono autentiche (art. 2703).
Il requisito della forma scritta è, di regola, soddisfatto dalla sola scrittura privata, anche se non autenticata. L’atto pubblico o l’autenticazione della scrittura privata sono solo speciali mezzi di prova: il prima fa prova, fino a querela di falso, di quanto il notaio attesta essere stato detto e fatto dalle parti alla sua presenza (art. 2700); la seconda fa prova dell’autenticità delle firme apposte dalle parti in calce al contratto, e serve per impedire che una delle parti possa disconoscere la propria firma, protestandola come falsa. Atto pubblico o scrittura privata autenticata servono, inoltre, per formare il titolo per la trascrizione del contratto nei registri immobiliari (art. 2657). Solo in alcuni eccezionali casi l’atto pubblico è richiesti a pena di nullità del contratto e si parla, allora, di forma solenne. Sono soprattutto, il caso della donazione (art. 782) e quello del contratto di società per azioni (art. 2332 n. 1) e di società a responsabilità limitata (art. 2463). Il principio generale della libertà delle forme asseconda esigenze di massima circolazione e di massima produzione della ricchezza. Per la circolazione dei beni mobili queste esigenze sono protette in massimo grado, mentre per i beni immobili le esigenze di circolazione sono contemperate con un’altra esigenza, che richiede la forma scritta: quella di accertare l’effettiva volontà del proprietario di spogliarsi della proprietà del bene. Ma per i contratti immobiliari l’atto scritto è necessario e sufficiente: la forma solenne ha carattere eccezionale, e il principio generale che vale per i contratti scritti è quello della semplicità delle forme. La forma solenne è richiesta solo per quei contratti per i quali particolarissime esigenze consigliano che la volontà delle parti sia raccolta da un notaio. Oltre che per i contratti immobiliari, la forma scritta è richiesta, a pena nullità, per una serie di figure contrattuali che attengono a rapporti fra un contraente forte ed un contraente debole. È la c.d. forma di protezione: il vincolo di forma è posto a protezione del contraente debole, come nel caso del contratto recante clausole vessatorie (artt. 1341 e 35 del Codice del consumo, che al requisito della forma scritta aggiunge quello della chiarezza e comprensibilità).
La forma scritta di cui si è detto è la forma che la legge richiede per la validità del contratto: in mancanza della forma prescritta il contratto è nullo (art. 1418). Altro è la forma scritta che talvolta la legge richiede per la prova del contratto (c.d. prova documentale): così per il contratto di assicurazione (art. 1888). In alcuni casi la legge richiede che il contratto risulti da atto scritto, ma
non precisa se questo è richiesto per la validità o solo per la prova del contratto (es. per il contratto di lavoro in prova, art. 2096). Convincente è l’argomento che si trae dall’art. 1352: se le forme convenzionali si presumono, fino a prova contraria, richieste per la validità del contratto, non c’è ragione di adottare una diversa soluzione per le forme legali. Il generale principio della libertà di forme non vale per le ipotesi nelle quali la forma risulta prescritta a pena di nullità. L’adempimento del requisito della forma scritta esige modalità diverse a seconda che si tratti di forma richiesta per la validità oppure per la prova del contratto. Riguardo alla prima vale anzitutto la precisazione secondo la quale la forma scritta non postula l’unicità del documento contrattuale: proposta e accettazione possono risultare da uno scambio di lettere, e persino dalla matrice di un libretto di assegni in collegamento con l’assegno staccato da essa; d’altronde, la stessa forma solenne può scomporsi in una pluralità di atti pubblici, che separatamente raccolgono la proposta e l’accettazione. È, tuttavia, indispensabile: che per iscritto risulti la volontà contrattuale delle parti: non è sufficiente una scrittura che, come quietanza, abbia natura di dichiarazione di scienza; che per iscritto risulti la volontà di entrambi o, nei contratti plurilaterali, di tutte le parti, anche se l’esigenza di una volontà espressa per iscritto non implica la necessaria adozione di formule corrispondenti al nomen iuris del tipo contrattuale; che per iscritto risulti l’intero contenuto contrattuale, non soltanto quella parte di essi che reca la clausola traslativa o costitutiva del diritto reale immobiliare e senza possibilità di distinguere fra clausole essenziali e clausole non essenziali.
Un caso controvertibile è quello del contratto preliminare di vendita immobiliare sottoscritto dal solo promittente, in forza del quale il promissario abbia agito in giudizio per ottenere una sentenza produttiva, ai sensi dell’art. 2932, degli effetti del contratto definitivo non concluso. Il fatto è che in questo caso la volontà di concludere il contratto si desume da un fatto concludente, quale la richiesta di adempimento. La volontà d’accettazione non risulta dall’atto, sicché il caso non è diverso da quelli della conferma scritta di un precedente contratto verbale o della quietanza di pagamento. Altro discorso vale per la forma scritta ad probationem: qui lo scritto è forma della prova con la conseguenza che il requisito formale è soddisfatto anche se forma scritta rivesta la confessione scritta dei contraenti o la quietanza recante menzione della causale del versamento. Ciò che, in quest’ultimo caso, risulta per iscritto è una dichiarazione di scienza: essa è prova scritta di un atto esecutivo del contratto, quale il pagamento, come tale accettato dall’altra parte. Perciò la prova scritta del contratto è compatibile con la conclusione orale dello stesso e persino con la sua conclusione tacita, risultante dal comportamento concludente delle parti. A norma dell’art. 2725, quando un contratto deve, secondo la legge o per volontà delle parti, essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa solo quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il documento che gli forniva la prova. Il II comma aggiunge che la medesima regola si applica quando la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità. L’identica regola ha un significato diverso nell’uno o nell’altro caso: quando la forma scritta è richiesta ad substantium, il contraente deve dare, per testimoni, la prova dell’esistenza del documento contrattuale, deve quindi provare la perdita di tale documento, dovuta a causa a lui non imputabile. Xxxxxxxxxxx non può dirsi quando la prova è richiesta ad probationem: ciò che qui si può provare di avere perduto è il documento dal quale risultava la prova, come la confessione scritta dell’esistenza del contratto. Per il contratto di assicurazione l’art. 1888, dopo avere richiesto la prova scritta del contratto, aggiunge che l’assicuratore deve rilasciare al contraente la polizza o altro documento da lui sottoscritto. La polizza non è la forma scritta del contratto di assicurazione: sia perché il suo rilascio presuppone la già avvenuta conclusione del contratto, sia perché è sottoscritta dal solo assicuratore. La sua
funzione è di fornire all’assicurato la prova scritta del contratto e del contenuto contrattuale. Ma spesso accade che le compagnie d’assicurazione rilascino polizze a stampa e che anche la firma del legale rappresentante della compagnia sia riprodotta a stampa. In tal caso la polizza non ha il valore di prova scritta, ma ciò non significa che essa sia priva di ogni valore, se il contraente può comunque dare prova scritta del contratto. In tal caso la polizza a stampa rilasciatagli dall’assicuratore varrà quale prova del contenuto del contratto; ha il valore che gli usi contrattuali assumono a norma dell’art. 1340. Sarà l’assicuratore a dover provare che lo stampato è opera di un falsario oppure che, per quel singolo contratto, si era derogato alle clausole risultanti dallo stampato.
Con la forma del contratto non va confusa quell’ulteriore formalità che è la sua trascrizione negli appositi pubblici registri. Questa è prevista sia per i contratti immobiliari sia per i contratti che hanno per oggetto beni mobili registrati (navi, aeromobili, autoveicoli), ed è il mezzo necessario per dare pubblicità al contratto (artt. 2643, 2683), ossia per portarlo a conoscenza dei terzi. Il contratto è, anche senza la trascrizione, pienamente valido ed è pienamente efficace tra le parti. Solo a seguito della trascrizione, tuttavia, il contratto è legalmente noto ai terzi o, come si dice, è ad essi opponibile. La trascrizione del contratto nei pubblici registri assolve, nella circolazione dei beni immobili o dei mobili registrati, una funzione analoga a quella che il possesso assolve nella circolazione dei beni mobili. Se più persone acquistano, con successivi contratti, la stessa cosa mobile da un medesimo dante causa, ne diventa proprietaria quella tra esse che per prima ne ha conseguito il possesso (art. 1155). Se la stessa situazione si ripete per un bene immobile o per un mobile registrato, prevale quella di esse che ha per prima trascritto il contratto: questa, anche se è stata l’ultima a comperare, può opporre l’acquisto alle altre, il che però non toglie che chi trascrive per primo nella consapevolezza del precedente acquisto altrui e, dunque, in mala fede sia esposto all’azione di danni del primo acquirente. Egli ha acquistato secondo la legge di circolazione degli immobili, ed ha perciò acquistato bene, ma ha, al tempo stesso, integrato la fattispecie del fatto illecito ex art. 2043. Neppure si deve confondere la forma scritta richiesta per la validità o per la prova del contratto con quella richiesta come titolo per la trascrizione. Per trascrivere un contratto nei registri immobiliari occorre che lo stesso risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata. Se il contratto era stato redatto per scrittura privata non autenticata occorrerà che la sottoscrizione delle parti venga giudizialmente accertata (art. 2657). Le parti possono convenire la forma scritta per la conclusione di futuri contratti, forma che, salvo prova contraria, l’art. 1352 presume richiesta per la loro validità. Ma la convenzione sulla prova scritta dei futuri contratti non è atto che richieda la forma scritta e, se redatta per iscritto, può essere modificata o risolta in modo non formale, anche per fatti concludenti. Il caso non è diverso da quello di qualsiasi contratto cui le parti, senza esservi tenute, abbiano dato forma scritta: esse lo possono modificare o risolvere oralmente o tacitamente.
CAP. 5°: IL TERMINE E LA CONDIZIONE
Il termine
La tradizione ci ha consegnato la distinzione fra elementi essenziali, elementi naturali, elementi accidentali del contratto (e del negozio giuridico). I primi sono i generali requisiti del contratto di cui all’art. 1325, oppure sono gli elementi d’identificazione dei singoli tipi contrattuali, in difetto
dei quali il contratto o non è qualificabile come contratto oppure non è qualificabile come contratto appartenente ad un dato tipo oppure, se non è qualificabile come appartenente ad altro tipo, nominato o innominato, è nullo. Elementi naturali sono, invece, quegli elementi, caratterizzanti i singoli tipi contrattuali, che la legge prevede con norme dispositive o suppletive, suscettibili perciò di essere eliminati per volontà delle parti. Per elementi accidentali s’intendono, tradizionalmente, quegli elementi meramente eventuali del contratto, come il termine e la condizione, che nel contratto vengono inclusi per volontà delle parti e che sono destinati ad agire non sula validità, ma sull’efficacia del contratto. Ma il termine finale può essere imposto dalla legge (per la locazione, ad esempio, è imposto dall’art. 1573 il termine finale massimo di 30 anni) ed anche la condizione può configurarsi come condizione legale, cui la stessa legge subordina l’efficacia del contratto. Sicché entrambi possono venire in considerazione anche come elementi essenziali del contratto. La tradizione della teoria del negozio giuridico ha incluso fra gli elementi accidentali anche l’onere o modus, sebbene si tratti di figura ammissibile solo negli atti di liberalità, inter vivos o mortis causa.
L’efficacia iniziale del contratto può essere subordinata dalle parti, con apposita clausola, al raggiungimento di un termine (termine iniziale). Qui il contratto è già perfezionato ma la sua efficacia è ritardata ad un tempo successivo. Il termine finale è, invece, quello che limita nel tempo l’efficacia del contratto. Il termine, iniziale o finale, può essere anche una data assai lontana nel tempo, ma non a tal punto lontana da indurre ad escludere un’effettiva volontà contrattuale delle parti. La distinzione fra termine iniziale e termine finale si coordina con la distinzione fra contratto come atto e contratto come rapporto. Il contratto è, come atto, fonte di obbligazione e, reciprocamente, di diritti delle parti: l’insieme dei diritti e delle obbligazioni reciproche che nascono dal contratto è, appunto, il rapporto contrattuale. Il termine iniziale incide sul primo, sospendendone l’efficacia; il termine finale opera sul secondo, ponendogli fine. Bisogna ancora distinguere fra termine del contratto e termine per l’adempimento delle singole obbligazioni che dal contratto derivano, regolato dalle specifiche norme degli artt. 1183 ss.
La condizione
È un avvenimento futuro ed incerto al verificarsi del quale è subordinata l’iniziale efficacia del contratto, o di una sua clausola (condizione sospensiva), oppure la cessazione degli effetti del contratto o di una sua clausola (condizione risolutiva). Svolge, dunque, una funzione analoga al termine; da questo, tuttavia, si differenzia per il fatto che non si riferisce ad un avvenimento futuro ma certo, bensì ad avvenimento, oltre che futuro, anche incerto, ossia che può verificarsi o non verificarsi (art. 1353). La condizione sospensiva può essere accompagnata dalla previsione di un termine entro il quale l’evento dedotto in condizione debba avverarsi; altrimenti, la parte che abbia alienato sotto condizione sospensiva dovrà, per riacquistare la piena disponibilità del bene, promuovere l’accertamento giudiziale del mancato avveramento della condizione, adducendo che è trascorso un lasso di tempo congruo entro il quale l’avveramento previsto dalle parti si sarebbe dovuto verificare. L’avvenimento futuro deve consistere in un evento che, al momento della conclusione del contratto, non è ancora accaduti, ma può anche consistere nell’accertamento futuro di un fatto che può essere già accaduto, del quale però non si ha ancora notizia o non si ha la certezza quando si conclude il contratto, come nel caso in cui sia dedotta in condizione la sorte di una cosa data per dispersa. L’incertezza, a sua volta, può essere di vario grado: può essere incerto sia il “se” sia il “quando” dell’avvenimento futuro: ma può essere incerto il “se” e certo il
“quando” (certus an incertus quando), come nel caso in cui sia dedotta in condizione la permanenza in vita di una persona ad una determinata data. Si può ancora distinguere fra condizione positiva e condizione negativa: la prima consiste nell’avveramento di un dato evento, la seconda nel mancato avveramento di un dato evento entro un tempo prestabilito. L’autonomia contrattuale consente di sottoporre a condizione, sospensiva o risolutiva, qualsiasi contratto o atto unilaterale, salvo che l’inopponibilità non sia espressamente sancita – ed in tal caso si suole parlare di atto o negozio “puro” – come accade per l’accettazione dell’eredità (art. 475). Consente, inoltre, di sottoporre a condizione sospensiva alcune clausole e non altre e, in particolare, l’obbligazione di una parte e non anche l’obbligazione dell’altra; consente, ancora di pattuire la condizione in favore di una sola delle parti (c.d. condizione unilaterale), la quale può avvalersene o rinunciarvi a propria discrezione, sia prima che dopo il suo avveramento, espressamente o per fatti concludenti.
Può accadere che sotto le apparenti sembianze di una condizione sospensiva si celi un termine per l’adempimento: così è nel caso del contratto avente ad oggetto la progettazione di opere, per la quale sia previsto il pagamento del compenso al momento dell’approvazione del progetto da parte dell’autorità. L’avvenimento futuro ed incerto può essere indipendente dalla volontà delle parti (c.d. condizione casuale), ma può anche dipendere dalla volontà di una di esse. È valida la condizione sospensiva potestativa, ossia quella che dipende dal futuro comportamento volontario di una delle parti (es. ti vendo la mia casa sotto la condizione sospensiva che deciderò di trasferirmi in altra città). È valida, altresì, la c.d. condizione mista, dipendente tanto dalla volontà del contraente quanto di un terzo: tale è il sub ingresso da parte del compratore nel mutuo ipotecario gravante sulla cosa venduta. È nullo, invece, il contratto con condizione sospensiva meramente potestativa, ossia consistente nel semplice arbitrio di una delle parti (art. 1355): ti vendo la mia casa a condizione che deciderò di venderla. La ragione della nullità del contratto è qui equivalente: dichiarare “voglio se vorrò” equivale a dichiarare “per ora non voglio”; manca, dunque, la volontà attuale di disporre di un diritto o di assumere un’obbligazione. L’altra parte, se mai un simile contratto fosse valido, resterebbe in balia dell’arbitrio del suo contraente. Quando, invece, si tratta di condizione (non meramente) potestativa, c’è la volontà attuale, anche se condizionata, di disporre del diritto o di assumere l’obbligazione. È nulla, per l’art. 1355, la condizione sospensiva meramente potestativa, non anche quella risolutiva, che la giurisprudenza ha avuto occasione di giudicare valida: ma, a ben guardare, d’altro non si tratta se non della previsione contrattuale di una più ampia facoltà di recesso, possibile anche quando la controparte abbia dato inizio all’esecuzione del contratto in deroga all’art. 1373, che nulla fa supporre sia norme inderogabile. La condizione contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, sia essa sospensiva oppure risolutiva, rende nullo il contratto (art. 1354).
Così la donazione sottoposta alla condizione sospensiva (potestativa) che il donatario abbracci una data confessione religiosa è illecita. È impossibile la condizione che consiste in un evento che sia naturalmente o giuridicamente irrealizzabile: o irrealizzabile in assoluto ( se i marziani sbarcheranno sulla Terra) o non realizzabile in concreto (quando sia dedotto in condizione un evento che non potrà più verificarsi, come il ritorno di una nave che si sa perita in un naufragio). In questo caso, a differenza che nel caso della condizione illecita, bisogna distinguere: la condizione impossibile sospensiva rende il contratto nulla, la condizione impossibile risolutiva si considera come non apposta (art. 1354). Nella prima ipotesi se è in presenza di un contratto destinato a non avere mai efficacia è, perciò, nullo; nella seconda ipotesi, all’opposto, il contratto è destinato a non perdere mai efficacia e, perciò, si considera come non sottoposto a condizione. Ma, se la condizione
risolutiva impossibile è una condizione negativa, la norma può operare: la condizione risolutiva negativa equivale ad una condizione sospensiva positiva, e la sua impossibilità rende nullo il contratto, giacché le parti sapevano, ab inizio, che la condizione non si sarebbe avverata. Finché perdura l’incertezza sul verificarsi o no della condizione, si dice che questa perde; le parti si trovano, in pendenza della condizione, in una situazione d’aspettativa, che è giuridicamente protetta: chi ha acquistato un diritto sotto condizione sospensiva o chi ha assunto un’obbligazione sotto condizione risolutiva può, in pendenza della condizione, compiere atti conservativi (art. 1356). La stessa aspettativa può formare oggetto di disposizione: chi ha acquistato un diritto con contratto sottoposto a condizione sospensiva può, in pendenza della condizione, alienarlo ad un terzo e gli effetti di questo atto di disposizione sono subordinati, anch’essi, alla medesima condizione (art. 1357). Ma occorre, perché il terzo acquisti un diritto condizionato, che la condizione gli sia opponibile: che il contratto condizionale, in altre parole, fosse menzionato nel contratto con il terzo o, in mancanza, che fosse stato trascritto nei registri immobiliari prima del nuovo contratto. Altrimenti il terzo acquista un diritto incondizionato, e l’alienante dovrà risarcire dei danni al suo contraente per l’inadempimento contrattuale. In pendenza della condizione ciascuna parte deve comportarsi secondo buona fede, ossia con lealtà e correttezza “per conservare integre le ragioni dell’altra parte” (art. 1358). Il che non significa che la parte che ha alienato un diritto o assunto un’obbligazione sotto condizione sospensiva debba adoperarsi affinché la condizione si avveri. Il contenuto che il dovere di buona fede assume in questo contesto è reso palese dall’espressione legislativa sopra riportata: le parti del contratto condizionato sono reciprocamente tenute a conservare integre le rispettive ragioni. Il che comporta conseguenze diverse a seconda che si tratti di condizione casuale oppure di condizione mista, ad un tempo casuale e potestativa. Nel contratto sottoposto a condizione casuale il dovere di buona fede ha contenuto puramente negativo: le parti debbono astenersi da porre in essere atti che possano pregiudicate l’avveramento dell’evento dedotto come condizione. Nel caso, invece, del contratto sottoposto a condizione mista, il dovere di buona fede assume anche, per il segmento non casuale della condizione, un contenuto positivo. Così, nella vendita di area edificabile sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio del permesso di edificazione, l’alienante ha il dovere di provvedere a quanto necessario per conseguire il provvedimento dell’autorità. La violazione di questo dovere ha una precisa conseguenza: se la condizione non si avvera per causa imputabile, anche a titolo di semplice colpa, alla parte che aveva interesse a che non si verificasse, opera la c.d. finzione di avveramento; la condizione, cioè, si considera avverata (art. 1359). In altre parole la condizione si ha per non apposta, e l’altra parte può senz’altro pretendere l’esecuzione del contratto. La finzione di avveramento è applicabile solo alle condizioni casuali e, per la parte non rimessa alla volontà del contraente, alle condizioni miste: è logicamente incompatibile con le condizioni potestative e, per la parte rimessa alla volontà del contraente, con le condizioni miste. Se si tratta di condizione unilaterale, la finzione di avveramento è invocabile solo dalla parte nel cui interesse la condizione risulta apposta. La finzione opera quando la condizione non può più avverarsi: perciò, se per il suo avveramento il contratto non abbia previsto un termine, l’art. 1359 risulterà applicabile solo quando si sia raggiunta l’assoluta certezza che l’evento dedotto in condizione non potrà avere luogo.
Gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono alla data del contratto (art. 1360): il diritto acquistato sotto condizione si considera acquistato fin dal momento della conclusione del contratto. Ma ciò solo in linea di principio: lo stesso I comma dell’art. 1360 fa salva l’eventualità che per volontà delle parti o “per la natura del rapporto” gli effetti dell’avveramento della
condizione debbano essere riportato ad un momento diverso dalla conclusione del contratto. Inoltre, nei contratti di durata, la condizione risolutiva non ha effetto retroattivo, salva diversa volontà delle parti (art. 1360, II comma). Non è tutto: l’avveramento della condizione non pregiudica gli atti d’amministrazione compiuti prima del suo avveramento; i frutti sono dovuti dal momento in cui la condizione si è avverata (art. 1361). Può accadere che la parte, la quale ha acquistato o ha promesso di acquistare un bene sotto condizione sospensiva, si sia in pendenza della condizione resa inadempiente alle proprie obbligazioni, come all’obbligazione di provvedere da subito al pagamento dei ratei di un mutuo ipotecario gravante sull’immobile. Di qui un problema: potrà la risoluzione del contratto per inadempimenti essere pronunciata su domanda dell’altra parte, con condanna dell’inadempiente al risarcimento dei danni, anche qualora la condizione non si avveri? Si può. Per un verso, essere indotti a rispondere negativamente al quesito: il mancato avveramento della condizione priva d’efficacia il contratto e si tratta d’inefficacia che opera ex tunc, facendo cadere ab origine le obbligazioni che ne sono derivate e rendendo giuridicamente irrilevante il loro inadempimento, salve le conseguenze derivanti dalla violazione del dovere di buona fede. Altra soluzione: anche la risoluzione per inadempimento opera ex tunc e, se l’inadempimento di una parte si manifesta in pendenza della condizione sospensiva, la risoluzione del contratto, che consegue all’inadempimento, travolge anche la condizione, rendendo irrilevante tanto il suo avveramento quanto il suo mancato avveramento. A maggior ragione questa conclusione vale in presenza di una clausola risolutiva per il caso d’inadempimento: qui si può dire che il contratto è già risolto, per la dichiarazione della parte adempiente di volersi avvalere della clausola risolutiva, quando scade il termine per l’avveramento della condizione sospensiva. Ancora a favore della prima soluzione si può addurre che il contratto condizionale è stipulato dalle parti nella piena consapevolezza d’avere posto in essere un contratto suscettibile di non produrre alcun effetto. Esse non possono fare legittimo affidamento sull’adempimento delle reciproche obbligazioni, anche se si tratta di obbligazioni previste per il periodo di pendenza della condizione. Xxxxxxx, però, introdurre una distinzione: è legittimo separare le obbligazioni, la cui sorte è subordinata all’evento condizionante, dalle obbligazioni la cui ragion d’essere ne prescinde, avendo la diversa funzione di salvaguardare, in pendenza della condizione, le ragioni dei contraenti, indipendentemente dalla sorte finale che subirà il contratto. Il problema non sta nel decidere sulla prevalenza delle due cause di successiva inefficacia del contratto: se prevalga il mancato avveramento della condizione sospensiva oppure la risoluzione del contratto; decisiva è, invece, la funzione delle obbligazioni nascenti dal contratto condizionale: sono irrimediabilmente travolte dal mancato avveramento della condizione, e non più suscettibili di provocare la risoluzione del contratto per inadempimento, le obbligazioni costituenti l’oggetto caratterizzante il contratto condizionale; producono, invece, i propri effetti, inclusa la responsabilità per i danni cagionati con l’inadempimento, le obbligazioni che, quantunque previste nel contratto condizionale, assolvono una funzione conservativa delle ragioni dei contraenti, analoga alla funzione di comportarsi secondo buona fede.
Il codice civile regola solo la condizione volontaria o condicio facti, ossia quella apposta al contratto per volontà delle parti (art. 1353). Si parla, invece, di condizione legale o condicio iuris quando è la stessa legge a subordinare l’efficacia del contratto al verificarsi di un evento futuro ed incerto. Così si considera condizione legale, rispetto ai contratti conclusi dalle pubbliche amministrazioni, l’approvazione del contratto da parte delle autorità di controllo. La condicio iuris può operare anche rispetto a contratti fra privati: si considera condizione legale l’autorizzazione governativa
all’importazione di determinate merci, richiesta da specifiche leggi. Si suole ripetere che la condizione legale non ha, a differenza di quella volontaria (art. 1360), effetto retroattivo, il che non è sempre vero: non lo è, in particolare, nel caso delle autorizzazioni amministrative cui è subordinata l’efficacia di contratti fra privati. Prevale, inoltre, l’opinione di chi ritiene non applicabile alla condicio iuris la finzione di avveramento, mentre soluzione opposta è accolta dal codice civile tedesco. Anni addietro si era ritenuto che la finzione di avveramento della condicio iuris potesse essere efficacemente utilizzata per combattere l’inerzia degli organi pubblici di controllo, ma si è poi dovuto considerare che l’applicazione dell’art. 1359 in questa materia finiva con il subordinare all’interesse privato l’interesse pubblico a salvaguardia del quale sono legislativamente predisposti i controlli dell’autorità. Analogo discorso vale per i contratti fra privati, sottoposti a pubblica autorizzazione. Per questi va però considerato che, il più delle volte, la condicio iuris partecipa dei caratteri della condizione mista: il mancato verificarsi di essa può essere dipeso, anziché dall’inerzia dell’autorità, dalla colposa condotta del contraente, che si è astenuto dal chiedere l’autorizzazione amministrativa o che l’ha formulata in modo irrituale. Il che solleva il problema se di mancato avveramento della condizione si tratti o non piuttosto d’inadempimento di un’obbligazione contrattuale. La soluzione non muta, ovviamente, se la condicio iuris sia espressamente richiamata nel contratto; ciò che non vale a trasformarla in condicio facti. Diverso è il caso della condizione legale erroneamente supposta: le parti subordinano l’efficacia del contratto all’approvazione di una superiore autorità, ma quest’approvazione si rivela non necessaria; la parte interessata potrà esigere l’esecuzione del contratto anche in difetto dell’autorizzazione. Ancora diverso è il caso in cui l’atto autorizzato dell’autorità superiore sia stato menzionato nel contratto pur nella consapevolezza della sua superfluità: esso diventa, in tal caso, condicio facti, e la mancata autorizzazione rende inefficace il contratto.
Un medesimo evento può, in contratto, essere dedotto come condizione, potestativa o mista e può, altresì, essere dedotto come oggetto di un’obbligazione di una parte nei confronti dell’altra. L’esperienza ha messo in evidenza un triplice ordine d’ipotesi:
a) Può accadere che l’adempimento di una delle obbligazioni caratterizzanti un dato tipo contrattuale, come il pagamento del prezzo nella vendita, sia dalle parti qualificato come condizione sospensiva d’efficacia del contratto con la conseguenza che, in deroga al principio consensualistico, la proprietà non passa fino a quando non sia stato pagato il prezzo; né ci sono, fino a quel momento, consegna della cosa e passaggio dei rischi, come nella vendita con patto di riservato dominio. Di fronte a questo ordine d’ipotesi si può essere indotti a giudicare nullo il contratto, siccome sottoposto a condizione meramente potestativa, o si può essere tentati di assoggettarlo, in quanto contratto con clausola di dubbia validità, ad un’interpretazione conservativa (art. 1367). A ben guardare, tuttavia, si tratta di condizione potestativa, e non meramente potestativa, essendo in gioco, come ha rilevato la Cassazione, una “valutazione di convenienza” del compratore, al quale è contrattualmente rimessa la scelta se pagare il prezzo, dando efficacia al contratto, oppure non pagarlo, rendendo il contratto inefficace. D’altra parte, anche l’interesse del venditore ad un simile contratto si rivela meritevole di tutela. Le parti, dunque, fanno legittimo uso dell’autonomia contrattuale.
b) Xxx accadere che un evento di norma assunto quale condizione venga dedotto in contratto quale oggetto di un’obbligazione. Così il conseguimento di una licenza amministrativa per il cambio di destinazione di un immobile. In linea di principio, la parte di un contratto sottoposto a
condizione non ha alcun obbligo di produrre l’avveramento o di cooperare all’avverarsi della condizione; su di essa incombe solo l’obbligo di cui all’art. 1358, che è obbligo puramente negativo: deve cioè astenersi da ogni atto che pregiudichi le aspettative dell’altro contraente o impedisca l’avveramento della condizione. Quando, invece, la parte sia contrattualmente obbligata a cooperare alla produzione dell’evento, non può parlarsi di condizione. La disciplina da applicare in caso di mancato avveramento darà, di conseguenza, quella dell’inadempimento delle obbligazioni, secondo i principi di cui agli artt. 1218 ss e 1453.
c) Può, infine, accadere che un dato evento possa essere indifferentemente assunto tanto come oggetto di un’obbligazione quanto come condizione, ed è problema d’interpretazione del contratto lo stabilire se si versa nella prima o nella seconda ipotesi. È il caso dei minimi di fatturato annuo previsti dai contratti di distribuzione o dalle licenze di produzione o dalle licenze di marchio.
CAP. 6°: L’EFFETTO TRASLATIVO DEL CONTRATTO
Nel sistema del codice civile il contratto è fonte di obbligazioni (art. 1173) ed è anche modo d’acquisto della proprietà (art. 922) e degli altri diritti, reali o di credito (art. 1376). Si parla di effetti obbligatori del contratto quando si fa riferimento alle obbligazioni che dal contratto derivano; si parla di effetti reali del contratto quando si fa riferimento agli effetti traslativi prodotti direttamente dal contratto, al momento stesso della formazione dell’accordo delle parti. Alcuni contratti sono solo fonte di obbligazioni delle parti, di una di esse o di entrambe; li si classifica come contratti con effetti obbligatori. Altri contratti, invece, producono l’effetto di trasferire la proprietà o altri diritti, oltre ad essere, al tempo stesso, fonti di obbligazioni: a questi contratti si dà il nome di contratti con effetti reali. Il nostro sistema legislativo è retto, in materia di contratti traslativi, dal c.d. principio consensualistico, espresso dall’art. 1376, che per i contratti che hanno per oggetto il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, dispone che “la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”. In virtù del principio consensualistico il nostro sistema differisce sia da antichi sistemi, come quello del diritto romano, per il quale la proprietà passava, di regola, solo al momento della consegna della cosa, sia da sistemi contemporanei, come quello dei paesi dell’area germanica, il quale è rimasto fedele all’antica regola del diritto romano. Il principio consensualistico è quello che esprime il maggior favore per la circolazione della ricchezza e per l’utilizzazione delle risorse. In esso i principi del giusnaturalismo si combinano con quelli del liberalismo economico. Si acquista la proprietà e, con essa, la facoltà di disporre delle cose ancor prima di avere ricevuto la consegna e, perciò, prima ancora di avere pagato il prezzo. Ovunque il creditore può legittimamente rifiutarsi di consegnare la cosa al compratore che non ne paghi contestualmente il prezzo (art. 1498, II comma); ma nei sistemi che subordinano il trasferimento della proprietà alla consegna ciò finisce con il collegare fra loro il pagamento del prezzo, l’effetto traslativo e la facoltà di disposizione. Questi sistemi proteggono in massimo grado il proprietario. Il principio consensualistico opera, per contro, come principio attivatore della circolazione: basti considerare che il compratore può non avere il danaro per pagare il prezzo, e proporsi di procurarselo con la rivendita della cosa (ad un prezzo superiore a quello dell’acquisto, che gli assicura un guadagno) o con i guadagni derivanti dalla sua utilizzazione, se si tratta di cosa
produttiva. Per altro aspetto il principio consensualistico giova all’alienante. Il passaggio dei rischi relativi alla cosa venduta è ovunque retto dal principio res perit domino, sicché il principio consensualistico espone l’acquirente al rischio di dover pagare il prezzo di un bene che non potrà essergli consegnato perché perito prima della consegna (per causa non imputabile all’alienante). La nostra legge protegge l’alienante non pagato in altro modo: nell’alienazione di beni immobili con pagamento del prezzo posticipato il venditore può iscrivere ipoteca legale sul bene venduto a garanzia delle obbligazioni che derivano dal contratto (art. 2817); altrettanto può fare il venditore di beni mobili iscritti in pubblici registri (art. 2810). Per gli altri beni mobili manca un’analoga garanzia per il venditore: le parti possono però adottare le forme di vendita con riserva della proprietà, per le quali il compratore acquista la proprietà della cosa solo con il pagamento dell’ultima rata del prezzo (art. 1523).
È però vero che il principio consensualistico si è affermato nel nostro sistema più come “tendenza” che come “dogma”, perché esso: non si applica a tutti i diritti, sottraendosi ad esso i diritti reali di garanzia, che si costituiscono, come nel caso del pegno, in forza della conseguenza della cosa (art. 2786) o, come nel caso dell’ipoteca, in virtù dell’effetto costitutivo dell’iscrizione, che degrada l’atto del datore d’ipoteca a semplice titolo per l’iscrizione (art. 2808); non si applica a tutte le cose, essendo rimasto ad esso estraneo il trasferimento dei titoli di credito, regolato dagli artt. 1992 ss.; non si applica a tutti gli effetti del trasferimento, giacché l’acquirente di cosa mobile che non ne consegua il possesso rischia di perderne la proprietà per effetto dell’acquisto a titolo originario del successivo acquirente che in buona fede ne abbia conseguito il possesso (art. 1155).
Si deve ancora considerare che, perché operi il principio consensualistico, occorre che il contratto abbia per oggetto il trasferimento di una cosa determinata (art. 1376). Se si tratta, invece, di cose determinate solo nel genere, la proprietà non può, ovviamente, passare al momento del contratto: passerà solo al momento dell’individuazione, fatta d’accordo fra le parti o nei modi da queste stabiliti (art. 1378). L’individuazione avviene all’atto della consegna dell’alienante all’acquirente. È, tuttavia, possibile che l’individuazione avvenga in un momento anteriore alla consegna, purché l’individuazione sia concordata dalle parti o avvenga secondo un criterio da esse concordato. Se oggetto del contratto è una massa di cose (es. tutta la merce contenuta in un dato magazzino del venditore), la proprietà passa secondo il principio consensualistico, e non occorre l’individuazione delle singole cose, anche se determinati effetti (come per determinarne il prezzo) le cose debbano essere numerate, pesate o misurate (art. 1377). Quando oggetto del contratto sono merci da trasportare da un luogo ad un altro, da piazza a piazza, l’individuazione, e quindi il passaggio di proprietà, avviene al momento della consegna la vettore o allo spedizioniere (art. 1378), il che, tuttavia, presuppone che il contratto si fosse già perfezionato prima della consegna: diverso è il caso in cui la consegna stessa operi come tacita accettazione dell’altrui proposta contrattuale. Si dovrà allora distinguere: se il contratto si forma a norma dell’art. 1327, in forza dell’inizio dell’esecuzione senza risposta dell’accettante, la consegna al vettore o allo spedizioniere vale a perfezionare il contratto, oltre che a trasferire la proprietà. Se, invece, il contratto è suscettibile di perfezionamento solo secondo i principi generali di cui all’art. 1326, il contratto è concluso solo nel luogo e nel tempo in cui la merce è recapitata al proponente, non nel luogo o nel tempo della consegna al vettore o allo spedizioniere, giacché solo il finale recapito porta a conoscenza del proponente l’accettazione dell’altra parte. Anche la proprietà della merce, di conseguenza, passerà solo al momento del recapito. Ulteriore problema è sollevato dalla vendita di merci depositate o caricate alla rinfusa. L’ipotesi ricorre quando merci omogenee destinate ad una pluralità di
compratori sono depositate o caricate in unica massa, senza identificazione dei diversi destinatari. Per la giurisprudenza, fino a quando non si attua la materiale separazione delle merci, non si ha individuazione e, quindi, passaggio della proprietà. Secondo una parte della dottrina la clausola pro rata apposta al contratto o gli usi del commercio comportano la conseguenza che le merci passano in comproprietà ai compratori; ma la tesi trova ostacolo nel fatto che una simile comunione non avrebbe bisogno, per sciogliersi, della divisione a norma dell’art. 1111, avendo invece ciascun compratore il diritto alla separazione materiale della quantità di merce spettantegli indipendentemente dal consenso degli altri compratori. Più convincente soluzione è quella che si basa sull’art. 939: se cose appartenenti a diversi proprietari sono “unite e mescolate in guisa da formare un sol tutto, ma sono separabili senza notevole deterioramento, ciascuno conserva la proprietà della cosa sua ed ha diritto di ottenere la separazione”. Stabilire il momento in cui la proprietà passa è rilevante agli effetti del rischio del perimento della cosa: il rischio incombe su chi ne è proprietario; sul venditore, se ne è ancora proprietario, sul compratore se ne è già proprietario (res perit domino). Perciò, se è stata venduta una cosa determinata, già passata quindi in proprietà del compratore al momento del contratto (art. 1376), e la cosa perisce, prima della consegna al compratore, per causa non imputabile al venditore, il rischio incombe sul compratore, che dovrà ugualmente pagarne il prezzo (art. 1465). Se si tratta di cosa di genere, occorrerà accertare se, al momento del perimento, sia già avvenuta l’individuazione (art. 1465).
Il contratto preliminare, la lettera di intenti ed il programma contrattuale
Il contratto preliminare, detto anche pactum de contrahendo, è un contratto con effetti obbligatori: le parti si obbligano a concludere un futuro contratto, che in rapporto al primo si suole definire come contratto definitivo, del quale predeterminano il contenuto. La figura emblematica è il preliminare di vendita: esso è fonte dell’obbligazione, di vendere e di comprare. Il trasferimento della proprietà si avrà solo quando, in adempimento del preliminare, le parti concluderanno il contratto definitivo. Con la conclusione di questo, il preliminare esaurisce la propria funzione: il definitivo può anche non conformarsi ai contenuti predeterminati nel preliminare, è definitivo la fonte esclusiva dei diritti e delle obbligazioni inerenti al tipo contrattuale voluto dalle parti. La figura descritta è il c.d. preliminare puro, contenente la sola obbligazione di concludere il futuro contratto. Nell’esperienza è, però, presente anche il c.d. preliminare ad effetti anticipati: le parti si obbligano reciprocamente all’anticipata consegna della cosa ed all’anticipato pagamento, in tutto o in parte, del relativo prezzo; sicché gli effetti del contratto voluto dai contraenti sono prodotti, in parte, dal contratto preliminare e, per il resto, dal contratto definitivo. Il codice civile si occupa del contratto preliminare sotto un triplice aspetto: ne prescrive la forma, che deve essere, a pena nullità, quella stessa che la legge richiede per contratto definitivo (art. 1351). Prevede, inoltre, l’eventualità che una delle parti non adempia il preliminare nel termine in esso fissato o in quello derivante dalla natura o dall’oggetto del contratto: l’altra parte può rivolgersi al giudice ed ottenere, se il preliminare non lo esclude, l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrarre. Il giudice emetterà una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932). Il contratto preliminare è fonte di vincolo solo personale, non è opponibile al terzo avente causa del promittente alienante, neppure se questi, all’atto dell’acquisto, fosse stato consapevole del precedente contratto preliminare: nel qual caso, tuttavia, la giurisprudenza accorda al promissario
acquirente l’azione di danni anche nei confronti del terzo, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043, per concorso colposo nell’altrui inadempimento contrattuale.
Per i contratti preliminari di contratti traslativi (o costitutivi o modificativi) della proprietà o di altri diritti reali sui beni immobili, l’art. 2645 bis ha tuttavia, introdotto un’opportuna tutela del promissario acquirente, prevedendo la trascrizione del preliminare nei registri immobiliari. Per effetto della trascrizione del preliminare, la successiva trascrizione del contratto definitivo prevale sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del preliminare. Il contratto definitivo produce effetti ex nunc; produce, del pari, effetto ex nunc la sentenza ex art. 2932. Si ricorre, nella pratica, al contratto preliminare in vari casi: quando le parti intendono subito assicurarsi l’una l’impegno dell’altra, ma si riservano alcuni accertamenti tecnici, come le opportune indagini nei registri immobiliari oppure la verifica delle qualità della cosa o, nel caso di trasferimento di pacchetti azionari. Vi si ricorre anche quando le parti non abbiano ancora raggiunto l’accordo su alcune clausole accessorie del contratto, che si riservano di negoziare prima della conclusione del definitivo, ma è dubbio che il mancato accordo su queste potrà ugualmente consentire il ricorso all’art. 2932 se una delle parti si rifiuterà di concludere il definitivo, dovendosi piuttosto ritenere, per la riserva di ulteriore negoziazione, che il preliminare non si sia perfezionato. Coloro che, per professione, si dedicano alle compravendite mobiliari od immobiliari fanno ampio uso dei preliminari. Con il vero e proprio contratto preliminare non va confuso il contratto, nella pratica spesso indicato con lo stesso nome, che è in realtà già definitivo, ma ancora mancante dei requisiti necessari per valere come titolo per la trascrizione. Qui le parti non si obbligano a vendere e a comprare, ma vendono e comprano; solo s’impegnano reciprocamente a ritrovarsi in un secondo momento per riprodurre il contratto già definitivo in un documento avente la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. In questo caso, se una delle parti non adempie, l’altra non deve chiedere al giudice una sentenza e può direttamente agire, se il compratore, per la consegna della cosa o, se è il venditore, per il pagamento del prezzo. L’importanza della distinzione fra vero e proprio preliminare e definitivo da riprodurre documentalmente emerge, fra l’altro, nell’ipotesi di perimento della cosa: nel secondo caso, essendo la proprietà già passata al compratore, il perimento della cosa, per causa non imputabile all’alienante, non libera l’acquirente dall’obbligazione di pagare il prezzo. Quando il preliminare inadempiuto obbliga al trasferimento della proprietà di una cosa determinata o alla costruzione o al trasferimento di altro diritto, la domanda d’esecuzione in forma specifica non può essere accolta se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile. L’applicazione della norma ha dato luogo alla prassi giudiziaria in forza della quale la sentenza traslativa ex art. 2932, viene emessa sotto la condizione sospensiva dell’esecuzione della contro presentazione entro il termine fissato dal giudice. Se il contratto preliminare reca la clausola compromissoria, anche per arbitrato irrituale, avente ad oggetto le controversie relative all’esecuzione del contratto, gli arbitri possono emettere una pronuncia produttiva degli effetti in cui all’art. 2932.
Altro dal contratto preliminare è la c.d. minuta di contratto: le parti concordano su alcuni estremi del futuro contratto, ma non ancora su tutti, rimettendo ad un’ulteriore trattativa l’accordo sui punti non ancora concordati. In questo caso, se non si raggiunge il successivo accordo sui punti mancanti, non si potrà fare ricorso all’art. 2932, dovendosi ritenere che il contratto preliminare non si era perfezionato oppure dovendosi constatare di essere in presenza di un contratto con oggetto non determinato né determinabile, come tale nullo. La c.d. lettera d’intenti non è suscettibile di
qualificazione univoca: sotto questo nome è indicato nell’altro che una minuta di contratto, ma quando il documento contiene tutti gli elementi del contratto e non fa riserva di trattativa ulteriore, si dovrà dire di essere in presenza di un contratto preliminare. Minuta di contratto e lettera d’intenti sono espressioni usate per indicare l’accordo raggiunto da negoziatori autorizzati dalle parti a trattare, ma non investiti del potere di rappresentarle: il documento da essi sottoscritto non vincola le parti fino a quando queste non lo abbiano a loro volta firmato. Resta una minuta di contratto anche il documento, già completo di ogni elemento e già sottoscritto da persone abilitate a rappresentare le parti, nel quale sia fatta riserva di ulteriori approvazioni. Qui si tratta di contratto già perfezionato, ma sottoposto a condizione sospensiva: se così fosse, saremmo in presenza di una condizione meramente potestativa che renderebbe nullo il contratto. Si tratta, per esplicita volontà delle parti, di contratto ancora in formazione, che si perfeziona solo quando le parti si danno reciprocamente notizia delle successive approvazioni. In mancanza d’approvazione di una delle parti potrà esserci solo, ricorrendone i presupposti, responsabilità precontrattuale per recesso ingiustificato dalle trattative (art. 1337), sempre che una tale responsabilità non sia stata espressamente esclusa. Diverso dalla minuta è il programma di contratto, detto anche pactum de tractando, in antitesi al pactum de contrahendo: con questo le parti s’impegnano ad instaurare fra loro trattative per la formazione di un possibile contratto, del quale non hanno ancora concordato alcun punto essenziale, fissando tempi e modalità delle trattative che si sono obbligate a condurre. Secondo una prassi nata nei contratti internazionali questo programma reca alcune clausole caratteristiche: la clausola di riservatezza, con la quale le parti s’impegnano a mantenere segreta la trattativa e segrete le informazioni che si scambiano, oltre che a non fare copie dei documenti ricevuti ed a restituirli in caso di rottura della trattativa, la clausola d’esclusiva, con la quale le parti s’impegnano a mantenere inalterato, durante la trattativa, lo stato di fatto e di diritto della cosa che ne dorma oggetto. Frequente è anche la clausola che prevede un termine entro il quale le parti si sono reciprocamente obbligate a trattare e impone loro, fino alla scadenza di questo termine, di non trattare sul medesimo oggetto con altri contraenti. Minuta di contratto e pactum de tractando possono combinarsi fra loro: le parti concordano alcune clausole del contratto e s’impegnano ad un’ulteriore trattativa per definire, entro un termine prefissato, le clausole non ancora concordate. Il pactum de tractando presenta punti di contatto con il contratto preliminare: è, al pari di questo, la fonte di un’obbligazione ed il rifiuto ingiustificato di proseguire nella trattativa è un inadempimento contrattuale. Ma le conseguenze dell’inadempimento non possono essere le stesse. Certo non si potrà chiedere al giudice di sostituirsi alla parte inadempiente e di emettere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso, si potrà, invece, ottenere il risarcimento del danno.
I contratti reali e la cessione dei crediti e del contratto
Il contratto si perfeziona con l’accordo delle parti: da quel momento esso produce tutti i suoi effetti, siano essi effetti reali oppure effetti obbligatori. In linea generale, l’accordo delle parti è necessario e sufficiente per perfezionare il contratto. In alcuni casi, tuttavia, l’accordo è necessario, ma non sufficiente: occorre, oltre all’accordo delle parti, la consegna della cosa che forma oggetto del contratto. I contraenti che si perfezionano per il solo accordo delle parti sono detti contratti consensuali, agli altri si suole dare, invece, il nome di contratti reali. Sono contratti reali, oltre alla donazione manuale di modico valore, il deposito, il comodato, il mutuo, il contratto costitutivo di
pegno, il riporto, il contratto estimatorio. Nei contratti consensuali, la legge protegge l’interesse alla prestazione di entrambe le parti. Nei contratti reali, invece, il contratto si perfeziona solo con la consegna, la legge giudica meritevole di protezione l’interesse alla prestazione di una sola delle parti: così, se la cosa è stata data in comodato, è protetto l’interesse del comodante alla restituzione (oltre che alla custodia) della cosa; non è protetto l’interesse del comodatario a ricevere la cosa in prestito. La sopravvivenza in epoca moderna di contratti qui re contrahuntur è stata giudicata “un vero scandalo giuridico”; anche se si è dovuto aggiungere che “il codice stesso tiene poi un piede nella staffa della consensualità”: è valida, infatti, la promessa di mutuo (art. 1822), sicché l’interesse del mutuatario a ricevere il prestito, non protetto in linea di principio attesa la realtà del mutuo (art. 1813), trova protezione quando la volontà del mutuante abbia assunto la configurazione di una promessa. Le proporzioni dello “scandalo” si riducono se poi si considera che il mutuo consensuale è giudicato valido solo se è mutuo oneroso, e la medesima condizione è posta alla con sensualità del deposito, mentre il comodato è gratuito per sua essenza. È locazione, e non più comodato, il contratto con il quale si concede ad altri il godimento della cosa propria contro corrispettivo. A questo modo la realità si rivela un essentiale negotii solo nei contratti reali gratuiti, mentre è un naturale negotii nei contratti reali onerosi. Le norme che rendono reali questi ultimi sono norme solo suppletive, che operano in difetto di una diversa volontà delle parti. Non va trascurato che la consegna della cosa svolge una specifica funzione anche nei contratti consensuali. Se, con successivi contratti, una parte aliena un medesimo bene mobile a più soggetti, prevale fra questi quello che per primo consegue il possesso di buona fede del bene (art. 1155); se concede a diversi contraenti un diritto personale di godimento sulla medesima cosa, prevale tra essi quello che per primo ha conseguito il godimento della cosa (art. 1380). È un criterio di soluzione del conflitto fra i più contraenti che s’affianca agli altri criteri: fra più acquirenti di un bene immobile o di un bene mobile registrato prevale quello fra essi che per primo ha trascritto l’acquisto (art. 2644); fra più cessionari di un medesimo credito prevale quello di essi che per primo ha notificato la cessione del debitore (art. 1265).
Anche i crediti, al pari dei beni, possono circolare con l’effetto di sostituire all’originario creditore un nuovo creditore, fino al momento in cui, con l’adempimento da parte del debitore (o con il verificarsi di un’altra causa d’estinzione), l’obbligazione non si sia estinta. La figura giuridica che ne attua la circolazione è la cessione dei crediti: il creditore trasferisce ad altri, a titolo oneroso o a titolo gratuito, il proprio diritto di credito, senza necessità del consenso del debitore (art. 1260). Il primo è il cedente, il secondo è il cessionario, il terzo è il debitore ceduto. Questi è, comunque, tenuto a pagare: è indifferente che adempia a favore di un soggetto o di un altri, è, perciò, superfluo il suo consenso alla cessione. Con la cessione si trasferiscono anche gli accessori del credito ceduto: passano al cessionario i privilegi, le garanzie personali e reali che assistono il credito oggetto della cessione (art. 1263). La cessione del credito può, per l’art. 1260, essere a titolo oneroso o a titolo gratuito; essa non è un contratto a sé stante, ma è l’oggetto di un contratto traslativo di diritti. Il punto, per la verità, non è sempre chiaro alla giurisprudenza, come in passato non era stato chiaro alla dottrina. Talvolta la cassazione muove dall’esatta premessa che “la cessazione dei crediti non è un tipo contrattuale a sé stante”, per poi alludere ad un “sottostante contratto, a titolo oneroso o gratuito, che vi sta a base”; e concludere che “essa non ha una causa tipica, ma costituisce un negozio a causa variabile o generica”. Ma la cessione del credito di cui parla l’art. 1260 equivale al “trasferimento della proprietà” o al “trasferimento di un diritto reale” di cui fa parola l’art. 1376: l’una e l’altra sono “l’oggetto del contratto” e la norma allude
anche alla cessione dei crediti quando fa, subito dopo, onnicomprensivo riferimento al “trasferimento di un altro diritto”. Non c’è un contratto sottostante alla cessione, come non c’è un contratto sottostante al trasferimento della proprietà; la cessione non è un contratto “a causa variabile”, allo stesso modo con cui non si può parlare del trasferimento della proprietà come di un contratto a causa variabile. In quanto “trasferimento di un diritto”, la cessione del credito è retta dal principio consensualistico. Oggetto di cessione può essere un credito futuro. L’art. 1260 non richiede che il credito ceduto abbia i requisiti della liquidità ed esigibilità; pertanto, può formare oggetto di cessione anche un credito non determinato nell’ammontare o un credito non esigibile. Non tutti i crediti sono cedibili, sono esclusi quelli di “carattere strettamente personale”, per i quali non può dirsi indifferente che il debitore adempia a favore di un soggetto o di un altro. In alcuni casi la cessione è vietata in assoluto (anche in presenza del consenso del debitore ceduto); magistrati, avvocati, notai non possono, neppure per interposta persona, rendersi cessionari dei diritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano le loro funzioni (art. 1261). Sono incedibili anche i crediti alimentari (art.
447) e, in genere, quelli inerenti ai rapporti di famiglia. Per patto fra creditore e debitore può essere esclusa la cedibilità del credito, ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo conosceva al momento della cessione (art. 1260).
La cessione del credito attua il trasferimento del diritto dal cedente al cessionario al momento stesso della cessione, in virtù del principio consensualistico, ma è efficace, nei confronti del debitore ceduto, solo dal momento in cui è stata notificata a questo o è stata da questo accettata. Fino a quel momento il debitore si libera adempiendo nei confronti del cedente, salvo che il cessionario non provi che era comunque a conoscenza della cessione, dopo quel momento, se paga nelle mani del cedente, paga male e può essere costretto dal cessionario a pagare una seconda volta (art. 1264). La notificazione ha anche un altro effetto: se il medesimo credito è, con successivi contratti, ceduto a più persone, prevale non la cessione di data anteriore, ma quella che sia stata notificata per prima al debitore ceduto (art. 1265). Per la notificazione della cessione al debitore ceduto non sembrano richiese particolari forme. Il cessionario del credito, allorché agisce verso il debitore ceduto, dovrà dare prova dell’avvenuta cessione, in forza di un atto idoneo a produrre l’effetto traslativa del credito. Ma l’atto traslativo può essere successivamente dichiarato nullo o può essere annullato, con la conseguenza che il debitore ceduto risulterò ex post avere pagato nelle mani di un creditore solo apparente. La cessione fa acquistare il credito a titolo derivativo; è retto, quindi, dal principio per il quale l’avente causa non può acquistare diritti maggiori di quelli spettanti al dante causa. Perciò, il cessionario è esposto alle stesse eccezioni che il debitore ceduto avrebbe potuto opporre al cedente. Questo inconveniente è stato eliminato quando il credito è acquistato a tiolo originario, ma ciò è possibile solo per i crediti che siano rappresentati da titoli di credito, che sono beni mobili, come tali sottoposti alle norme sull’acquisto a titolo originario (art. 1994). Il credito può essere un credito inesistente: es. un credito nascente da un contratto che, successivamente alla cessione, venga dichiarato nullo oppure un credito che si è estinto per effetto della compensazione opposta dal debitore ceduto. Può, inoltre, accadere che, pur trattandosi di credito esistente, il debitore ceduto non adempia per la semplice ragione che non può o non vuole adempiere. La prima ipotesi è regolata in modo corrispondente all’evizione nel trasferimento di cose (art. 1483): il cedente, se la cessione è a titolo oneroso, deve garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione (c.d. garanzia del nomen verum), allo stesso modo con cui il venditore di cose deve garantire il compratore dall’evizione; se, invece, la cessione è a titolo gratuito, la garanzia è
dovuta, come nella donazione di cose è dovuta la garanzia per evizione, se espressamente pattuita (art. 1266). La responsabilità che ne deriva in capo al cedente ha natura oggettiva: prescinde dalla sua colpa o, meglio, non consente la prova liberatoria di cui all’art. 1218, trattandosi di obbligazioni di garanzia. Diverso discorso vale per l’ipotesi di mancato adempimento: il cedente, per regola generale, non garantisce la solvenza del debitore ceduti, l’inadempimento di questo è, dunque, un rischio del quale il cedente si libera addossandolo al cessionario, che avrà inutilmente pagato il corrispettivo della cessione. Ma con apposta clausola (c.d. clausola “salvo buon fine”) si può pattuire che il cedente garantisca la solvenza del debitore ceduto, con la conseguenza che il cessionario, se il debitore non paga, potrà rivolgersi al cedente ed esigere da lui il rimborso di quanto ha ricevuto, con gli interesse e le spese (art. 1267). Nel primo caso si parla, tradizionalmente, di cessione pro soluto, nel secondo di cessione pro solvendo. Più in particolare, la cessione del credito può assolvere una delle seguenti funzioni: può avere una funzione traslativa: è quanto accade nella vendita in senso stretto del credito; può avere una funzione solutoria: è quanto accade nella datio pro solvendo, ossia nella cessione di un credito in luogo dell’adempimento (art. 1198). Può avere, altresì, una funzione di garanzia: il debitore cede al creditore un proprio credito per garantire l’adempimento della propria obbligazione. Si tratta di una garanzia atipica, destinata a svolgere una funzione analoga al pegno di crediti o di titoli. La cessione viene ricondotta alla funzione di garanzia dall’accessorio pactum fiduciae, che è qui fiducia cum creditore, in base al quale il creditore deve ritrasferire il credito al debitore, ove questi rimborsi in anticipo il debito garantito, o deve considerare estinto per compensazione il proprio credito, quando alla scadenza procede all’incasso del credito ricevuto in cessione. In ciò la cessione mostra di assolvere anche una funzione satisfativa, analoga alla datio pro solvendo, ma questa è presente anche nel pegno dei crediti, secondo l’art. 2803 ed è perciò compatibile con la funzione di garanzia, tipica od atipica che sia. Elemento caratteristico della cessione di credito in luogo dell’adempimento è che il credito originario sopravvive alla cessazione, non essendoci qui novazione, ma non è esigibile fino alla scadenza del credito ceduto: vale l’art. 1267, richiamato dall’art. 1198. Caratteristico di questa figura è anche il fatto che l’eventuale surplus realizzato dal creditore deve essere restituito al debitore, mentre nello sconto e in genere nella vendita di crediti esso profitta al cessionario, scontatore o compratore del credito; e le clausole che prevedessero la restituzione del surplus conducono con certezza ad escludere che il contratto di finanziamento includa uno sconto o una vendita del credito. Per decidere se si tratta di datio pro solvendo o di cessione a scopo di garanzia soccorre un preciso criterio: dottrina e giurisprudenza sono dell’avviso che la datio pro solvendo presupponga, necessariamente, l’anteriorità del debito rispetto alla datio, e la giurisprudenza in tema di revocatoria fallimentare insiste nel precisare che, quando c’è contestualità fra costituzione del debito e cessione del credito, la cessione del credito ha funzione di garanzia. Può avere, infine, funzione di “cartolarizzazione” dei crediti ceduti: la società cessionaria dei crediti ceduti si procura il corrispettivo dovuto al cedente attraverso l’emissione di titoli nei quali viene incorporato il diritto di ottenere in via esclusiva quanto pagato dai debitori ceduti alla società stessa, che risponderà nei confronti del sottoscrittore solamente con il portafoglio dei crediti acquistati per quella determinata operazione di cartolarizzazione.
Il contratto può essere, esso stesso, l’oggetto di un contratto traslativo, ossia materia di vicenda circolatoria. È la cessione del contratto: con questa una parte, il cedente, sostituisca a sé un terzo, il cessionario, nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, con la conseguenza che il terzo cessionario assumerà rispetto all’altro contraente, il contraente ceduto, la medesima
posizione già occupata dal cedente. Per perfezionare la cessione è però necessario il consenso del contraente ceduto (art. 1406) e ciò si spiega se si considera che per il contraente ceduto il cessionario del contratto non è solo, come nella cessione dei crediti, un nuovo creditore, ma è anche, in rapporto ai crediti del contraente ceduto, un nuovo debitore, le cui qualità personali o le cui condizioni patrimoniali non sono, di regola, indifferenti per il creditore. Solo in quei contratti dove quelle qualità e condizioni sono irrilevanti, è superfluo il consenso del contraente ceduto. La cessione del contratto è, per l’art. 1406, possibile solo se le prestazioni contrattuali debbano ancora essere eseguite. Ma bisogna al riguardo distinguere fra contratti ad esecuzione istantanea o differita e contratti ad esecuzione continuata o periodica. Nei primi, se uno dei due contraenti ha già eseguito la sua prestazione, non potrà più avere luogo una cessione del contratto: solo, semmai, la cessione del suo credito alla controprestazione: così, in una vendita di merci già consegnate, il venditore non cederà il contratto, ma il suo credito per il prezzo. Occorre che entrambe le prestazioni siano ancora ineseguite. Contratti ad esecuzione continuata o periodica: qui la cessione è possibile anche se è iniziata, da entrambe le parti, l’esecuzione del contratto, ed è possibile fino a quando il contratto non sia sciolto e, perciò, sia ancora suscettibile d’esecuzione. Così è, ad esempio, la cessione del contratto di locazione (art. 1594): il cessionario prende il posto del conduttore originario e, dal momento della cessazione, ne assume verso il locatore le medesime obbligazioni e ne acquista i medesimi diritti. Il cedente è, in linea di principio, liberato dalle obbligazioni verso il contraente ceduto: resta obbligato solo se il contraente ceduto abbia dichiarato, nell’accettare la cessione, di non liberare il cedente. In tal caso, se il cessionario non adempie, il contraente ceduto potrà rivolgersi al cedente (art. 1408). Il contraente ceduto può opporre al cessionario solo le eccezioni basate sul contratto, non anche quelle basate su altri rapporti con il cedente (art. 1409). La regola è coerente con quanto previsto in tema di cessione del credito, giacché qui il contraente ceduto ha accettato la cessione. Le garanzie dovute dal cedente al cessionario sono analoghe a quelle operanti riguardo alla cessione dei crediti: il cedente garantisce la validità del contratto ceduto (art. 1410), ma non garantisce, salvo patto contrario, l’adempimento del contratto da parte del contraente ceduto.
CAP. 7°: IL CONTRATTO PLURILATERALE
La natura contrattuale del vincolo associativo era stata, in passato, disconosciuta; il concetto di associazione era apparso incompatibile con il concetto di contratto. Nell’atto costitutivo delle associazioni si era visto, anziché un contratto, un atto che si volle definire come “atto complesso” e come “atto collettivo”, idoneo a dare vita ad una persona giuridica o, comunque, ad una “istituzione”. Ed alla natura del gruppo associato quale persona giuridica o quale istituzione vennero ricondotte tutte le situazioni giuridiche dell’associazione: sull’idea del rapporto contrattuale, instaurato dai membri con l’atto costitutivo, prevalse quella del rapporto organico, intercorrente fra i membri e la collettività; la concezione del membro quale parte di un contratto fu soppiantata da quella di un rapporto di appartenenza alla persona giuridica o all’istituzione. L’opposta concezione contrattualistica si era, tuttavia, affermata alla vigilia del codice civile vigente. Lo stesso codice civile mostra, all’art. 1420, di prendere posizioni al riguardo, xxxxxxxx definisce come contratto (plurilaterale) quello caratterizzato, oltre che dalla partecipazione di più parti, dal fatto che “le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo
comune”. Concordanza d’interessi ed identità di scopo non sono più riguardate come caratteri incompatibili con il concetto di contratto. La presenza di uno scopo comune alle parti non è, d’altro canto, considerata un ostacolo all’applicabilità dei principi sui contratti. In termini contrattuali vengono nuovamente valutate figure che si erano volute riportare alla teoria dell’istituzione, come l’esclusione dei membri, già concepita come manifestazione del potere disciplinare dell’istituzione, ora ricondotta allo schema della risoluzione del contratto ed assoggettata alle medesime norme. L’essenza del fenomeno associativo si tende ora a ricercare all’interno del concetto di contratto: il fenomeno associativo viene identificato in una particolare categoria contrattuale, detta dei contratti con comunione di scopo; rivela i propri caratteri nel confronto con l’antitetica categoria c.d. dei contratti di scambio. In questi le parti perseguono scopi contrapposti e la prestazione di ciascuna va direttamente a vantaggio dell’altra parte; nei contratti associativi la prestazione di ciascuna è, invece, preordinata al conseguimento d’uno scopo comune a tutte le parti. Da ciò deriva che, a differenza di quanto avviene nei contratti di scambio, l’interesse di ciascuna parte non è senz’altro realizzato dall’esecuzione delle prestazioni cui sono obbligate le altre parti: esso si realizza solo attraverso lo svolgimento di quella ulteriore attività cui le prestazioni delle parti sono preordinate. La nozione di contratto con comunione di scopo ha il merito di avere reso possibile la collocazione dei fenomeni associativi nell’ambito del diritto dei contratti. A quest’importanza storica del concetto non ha, tuttavia, fatto riscontro una sua corrispondente rilevanza normativa: l’individuazione di una categoria contrattuale contrapposta a quella dei contratti di scambio ha, sul terreno tecnico-interpretativo, rivelato il medesimo valore delle altre classificazioni dei contratti. Non si è riusciti ad enucleare una disciplina unitaria dei contratti con comunione di scopo, diversa dalla disciplina dei contratti di scambio ed applicabile ai primi in quanto caratterizzati dalla comunione di scopo.
Si è proceduto, per costruire questa categoria contrattuale, in via di generalizzazione dei caratteri propri della società, cui è stato riconosciuto il ruolo di paradigma della categoria; ma nessuna delle norme, legislativamente dettate per le società, si è rivelata applicabile all’intera categoria dei contratti con comunione di scopo. L’assenza di norme cominci a tutti i contratti nei quali si sono ravvisati i caratteri della comunione di scopo impedisce di parlare di questi contratti come di una categoria unitaria. Le discipline delle diverse figure che si sogliono comprendere nella categoria dei contratti non comunione di scopo, lungi dall’essere riconducibili a principi comuni, appaiono sensibilmente diverse. Risulta diversa, in particolare, la condizione giuridica nella quale, nel corso dell’attività d’esecuzione del contratto, si trovano i beni conferiti dalle parti (ed i loro successivi incrementi). Questi possono dare luogo alla costituzione di un fondo comune o essere, invece, l’oggetto di attribuzione di una parte a favore dell’altra; ed il fondo comune può, a sua volta, sottostare al regime della mera comunione o assumere, invece, i caratteri di un patrimonio autonomo, sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali delle parti e vincolato al perseguimento dello scopo comune. L’attività d’esecuzione del contratto può, d’altro canto, essere esercitata in comune dai contraenti o essere, al contrario, la prerogativa d’uno solo di essi, e l’esercizio in comune può, a sua volta, manifestarsi nei soli rapporti interni o, oltre che in questi, anche nei rapporti esterni. Si parla, nel primo caso, di “associazioni meramente interne”: il vincolo associativo non ha rilevanza per i terzi, i quali acquistano diritti ed assumono obbligazioni nei confronti di quella sola delle parti che abbia con essi contrattato. Si parla, nel secondo caso, di “associazioni con efficacia esterna!: le parti si presentano, di fronte ai terzi, come un gruppo unitario, nel nome del quale vengono posti in essere gli atti inerenti all’attività d’esecuzione del
contratto. Le più elementari modalità di utilizzazione delle prestazioni si riscontrano in una figura bilaterale, l’associazione in partecipazione (artt. 2549-2554), che è al limite, e secondo alcuni supera il limite, dell’opposta categoria dei contratti di scambio: in essa non c’è, neppure nei rapporti interni, l’esercizio di un’attività in comune dei contraenti, essendo la gestione dell’impresa o dell’affare riservata all’associante; né c’è costituzione d’un fondo comune, entrando l’apporto dell’associato nel patrimonio dell’associazione. E la tradizionale collocazione di questa figura tra i contratti associativi si giustifica solo per la comunione d’aspettative esistente, in ordine ai risultati dell’impresa o dell’affare, tra associato e associante e per il carattere strumentale che, rispetto al conseguimento di tali risultati, assume l’apporto dell’associato. Prive di rilevanza per i terzi e con fondo comune sottoposto al regime della mera comunione sono anche alcune figure plurilaterali: i consorzi tra proprietari di cui agli artt. 918-920, i consorzi industriali senza attività esterna di cui agli artt. 2602-2611. Il regime della comunione è, quanto ai primi, esplicitamente richiamato dall’art. 920; l’assenza di un fondo dotato del carattere di un patrimonio autonomo è, quanto ai secondi, desumibile a contrariis dall’art. 2614, che tale carattere attribuisce al fondo comune dei consorzi con attività esterna. Nell’ambito delle associazioni meramente interne si collocano le associazioni professionali, si colloca anche una diffusa figura atipica, il contratto di joint venture o “associazione temporanea d’imprese”, che dà luogo ad una forma d’integrazione orizzontale fra imprese. Più imprese s’impegnano a cooperare fra loro per concludere ed eseguire, ciascuna per la sua parte, un appalto o una fornitura nei confronti di un terzo determinato. Esse conservano la loro autonomia e non danno vita all’esercizio in comune di un’attività economica. Un’ipotesi particolare la joint venture trova nel nostro ordinamento una specifica disciplina legislativa. La legge n. 584/1977, sostituita dal d.l. 406/1991, ha introdotto la figura del raggruppamento d’imprese per l’esecuzione delle opere pubbliche. Lo strumento utilizzato consiste nel conferimento, da parte delle imprese “associate”, di un mandato con rappresentanza ad un’impresa capogruppo, la quale è incaricata di formulare l’offerta. Tale mandato comporta la responsabilità solidale verso l’amministrazione di tutte le imprese del raggruppamento, se l’appalto ha per oggetto opere le cui parti non sono scorporabili; altrimenti risponde in solido solo l’impresa capogruppo. Nelle associazioni in senso stretto, nelle società, siano esse di persone o di capitali, lucrative o cooperative, nei consorzi industriali con attività esterna, le prestazioni delle parti compongono, anche se si tratta d’associazione non riconosciuta (art. 37) o di società di persone (artt. 2267, 2268, 2304), un fondo comune dotato dei caratteri di un patrimonio autonomo. L’attività d’esecuzione del contratto è dalle parti esercitata in comune sia, mediante un’unitaria organizzazione, nei rapporti interni sia, attraverso l’unitaria rappresentanza del gruppo, nei rapporti esterni; e a differenza di quanto accade nei rapporti contrattuali, il vincolo associativo ha comunque - anche quando le parti si propongano, con le interne pattuizioni, di tenerlo occulto ai terzi - rilevanza esterna. La più antica dottrina era solita distinguere, all’interno del fenomeno associativo, tra un elemento contrattuale ed un suo elemento c.d. “organizzativo”, che assumeva come irriducibile allo schema del contratto. Quest’irriducibilità dell’intero fenomeno in termini contrattuali veniva comunemente espressa con la proposizione secondo la quale la società o l’associazione o il consorzio è sì un contratto ma è, al tempo stesso, anche una persona giuridica o, comunque, un soggetto di diritto. Si ammetteva la presenza del contratto, ma limitatamente al momento genetico della società: “venuta la società ad esistenza, il substrato contrattuale”, ha assolto la propria funzione. Un diverso, oggi più diffuso, orientamento è quello che ammette la persistenza, oltre il momento genetico della società, di un vincolo contrattuale fra i soci: contratto e persona giuridica coesistono per tutto il corso dell’esecuzione del rapporto. Quando ancora si
afferma che le situazioni giuridiche proprie dei fenomeni associativi non sono integralmente riconducibili allo schema del contratto, s’enuncia una proposizione che è il portato di un’arbitraria delimitazione del concetto di contratto: si tiene conto di una parte soltanto dei contratti regolati dal codice civile ed, essenzialmente, di quelli che trovano la propria disciplina nel IV libro. L’arbitrio logico si manifesta con tutta evidenza in tema di trasferimento, per atto fra vivi, della qualità di membro del gruppo associato. Se il vincolo associativo ha natura contrattuale, la qualità di membro del gruppo è, per definizione, la posizione di parte di un contratto, e la cessione di essa, quando è consentita, non può non essere che cessione del contratto, nel senso dell’art. 1406. A questa conclusione si è, invece, ritenuto di dovere opporre che la cessione delle azioni o quote di società trova, nel V libro del codice civile, una disciplina diversa rispetto alla disciplina che il IV libro rivolge alla cessione del contratto, e si è, per ciò stesso, escluso che essa sia cessione del contratto. Ma è stato agevole eccepire che “sono, al contrario, i principi ricavabili delle norme societarie che consentono di configurare più ampiamente l’istituto della cessione del contratto”. Questa deve essere ricostruita tenendo conto anche delle norme che disciplinano la cessione della qualità di parte dei contratti associativi. Tanto più importante è la precisazione emersa in materia di cessione della qualità di socio in quanto si è avuto modo di respingere la tradizionale distinzione tra l’elemento “contrattuale” del fenomeno e quell’ulteriore elemento, c.d. “organizzativo”, che si suole ritenere estraneo al diritto dei contraenti. Si è esplicitamente ammesso che anche i diritti amministrativi del socio, come il diritto d’intervenire in assemblea debbono “essere inclusi nel contenuto del contratto di società” e sono, di conseguenza, suscettibili di “essere trasferiti con esso”. Ogni norma che regoli i contratti associativi in modo diverso dagli altri contratti implica solo un ampliamento del concetto di contratto. La Cassazione ha enunciato i seguenti principi:
a) il contratto di società rientra nella categoria, codificata dalle norme sui contratti in generale, del contratto plurilaterale con comunione di scopo ed è, pertanto, un contratto a tutti gli effetti, in quanto tale sottoposto, in forza dell’art. 1323, alle norme sui contratti in generale;
b) ha natura contrattuale non solo l’atto costitutivo della società di capitali, ma anche il rapporto che l’atto costitutivo instaura fra i soci, essendo l’attività degli organi sociali null’altro che attività esecutiva del contratto di società, e ciò quantunque la società acquisti, con l’iscrizione nel registro delle imprese, la personalità giuridica (art. 2331), erigendosi a soggetto di diritto distinto dalle persone dei soci;
c) i soci, nell’esercitare il voto in assemblea, danno esecuzione al contratto di società;
d) il voto deve, di conseguenza, essere esercitato nel rispetto del dovere di buona fede di cui all’art. 1375, e la deliberazione assembleare adottata con il voto determinante di soci mossi da un interesse extrasociale è annullabile a norma dell’art. 2377.
In passato, per reprimere gli abusi perpetrati dalla maggioranza ai danni della minoranza, la giurisprudenza si era mossa all’interno della teoria delle persone giuridiche: fu evocata l’analogia con gli enti pubblici, della figura dell’eccesso di potere, quale vizio dell’atto amministrativo, che in materia societaria diventava l’eccesso di potere della persona giuridica quale vizio della deliberazione assembleare; il suggerimento sarebbe stati per molti anni accolto dalla giurisprudenza, che in termini di eccesso di potere avrebbe più volte motivato l’annullamento delle deliberazioni di aumento di capitali miranti al solo scopo di estromettere dalla società
minoranze ostili. Il mutamento di prospettiva ha proceduto di pari passo con il superamento della concezione della persona giuridica come “entità reale”, appartenente al pari dell’uomo al genere delle persone, e con l’approdo all’opposta concezione riduzionistica, della persona giuridica quale espressione riassuntiva di “una particolare normativa avente ad oggetto pur sempre relazioni fra uomini”. La revisione del concetto di persona giuridica ha molte valenze, e la più importante è senza dubbio la repressione, da essa resa possibile, degli abusi perpetrati dietro lo schermo della persona giuridica.
CAP. 8°: VALIDITA’ ED INVALIDITA’
La nullità
Il contratto (o l’atto unilaterale) è invalido quando è in contrasto con una norma imperativa. L’invalidità può essere di due specie: il contratto che contrasta con norme imperative può essere nullo o, semplicemente, annullabile e la legge può prefigurare, per la violenza di norme imperative, conseguenze diverse dall’invalidità. La nullità è, fra due specie d’invalidità, quella di portata generale: non occorre che la nullità sia prevista dalla legge come conseguenza della violazione di una data norma imperativa, basta che una norma imperativa sia stata violata. L’annullabilità ha, invece, carattere speciale: ricorre quando sia stata espressamente prevista dalla legge come conseguenza della violazione di una norma imperativa. Questa regola fondamentale è posta dall’art. 1418. Le ipotesi per le quali la legge dispone diversamente possono essere: ipotesi per le quali è prevista quella forma d’invalidità diversa dalla nullità che è l’annullabilità del contratto. Sono, per i contratti in generale, l’incapacità di contrarre delle parti (artt. 1425 ss.) e i vizi del consenso (artt. 1427 ss.), il conflitto d’interessi fra rappresentato e rappresentante (artt. 1394 ss); ipotesi nelle quali la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi dall’invalidità del contratto, come la sua inefficacia, o come l’assoggettamento delle parti ad una specifica sanzione amministrativa.
Sono considerate quali norme imperative, le norme non derogabili per volontà delle parti: le s’identifica, generalmente, per il fatto che non contengono l’inciso “salvo patto contrario”, “salva diversa volontà delle parti”. Ad esse si contrappongono le norme dispositive, che invece ammettono una diversa volontà delle parti, e le norme suppletive, che prevedono la disciplina di un dato rapporto per l’ipotesi in cui non vi abbiano provveduto gli interessati, generalmente introdotte dall’inciso “se le parti non dispongono diversamente” o simili. Ma ciò vale solo come criterio di massima: una norma può essere ritenuta dispositiva, e non imperativa, anche in mancanza di un inciso che renda palese la sua natura, se dall’insieme del sistema di norme entro cui opera appare evidente che si tratta di norma derogabile. Talvolta la legge, per rendere certo che una data norma ha natura di norma imperativa, prefigura le conseguenze della sua violazione e formula incisi come “a pena nullità”, o avvertimenti come “altrimenti il contratto è nullo” (es. art. 1351). Fra le norme imperative, la cui violazione rende nullo il contratto, bisogna annoverare, oltre che le norme nazionali, quelle comunitarie. E si deve anche considerare che il giudice nazionale può dichiarare la nullità di un contratto per violazione di norme imperative straniere, quando secondo le preleggi egli debba applicare il diritto straniero. Non comporta invece nullità del
contratto la violazione di norme imperative regionali, essendo l’ordinamento civile (oltre che penale) materia di competenza esclusiva dello Stati, a norma dell’art. 117 Cost. Si deve precisare, però, che il concetto di norma imperativa, rilevante ai fini dell’art. 1418, è più rigoroso di quello ora indicato. Il grado d’imperatività della norma violata è più elevato di quello che s’esprime nella constatazione della non derogabilità per volontà delle parti. Questo più alto grado d’imperatività è postulato dalla riserva finale dell’art. 1418: se la violazione di norma imperativa non comporta nullità quando “la legge dispone diversamente”, e se questa diversa disposizione legislativa non deve necessariamente consistere nell’esclusione espressa dalla nullità, potendo essere “desumibile dalla ragione del divieto”, occorre identificare criteri atti a distinguere norma imperativa da norma imperativa. Questi criteri si sono ormai consolidati in giurisprudenza: deve trattarsi di un comando o di un divieto qualificabile come assoluto, siccome posto a tutela di un interesse generale. In particolare: comando o divieto assoluto è quello che non solo non ammette una diversa volontà delle parti, ma neppure un’eccezione od esonero previsti dalla stessa legge; comando o divieto posto a tutela dell’interesse generale è quello formulato dalla legge o da fonti a questa equiparate, non da fonti normative di grado inferiore. Sono da considerare imperative, in linea di principio, le norme penali; ma ciò vale solo in linea di principio: non vale quando la sanzione penale risulti posta a presidio, anziché dell’interesse generale, delle esigenze di governo di pubblici poteri. Significativo al riguardo è l’art. 2098: il contratto di lavoro concluso in violazione delle norme sul collocamento “può essere annullato, salva l’applicazione delle sanzioni penali”. La giurisprudenza ritiene annullabile, anche se lede un bene sanzionato penalmente, il contratto estorto con truffa. La fattispecie penale della truffa corrisponde a quella civile del dolo, che per l’art. 1439 è causa di annullamento del contratto. Un discorso particolare va fatto per il mutuo usurario. Prima della legge sull’usura n. 108/1996, poteva dirsi, sulla base dell’art. 1448, che un tale contratto, sebbene contrario a norma penalmente sanzionata, era non già nullo, bensì rescindibile a norma dell’art. 1448. Ma il mutuatario poteva rinunciare alla rescissione e avvalersi dell’art. 1815, che comminava la nullità parziale della clausola relativa agli interessi per la misura ultralegale. Il nuovo testo dell’art. 1815, commina la nullità totale della clausola sugli interessi, sicché il mutuo usurario è convertito in mutuo gratuito. Il III comma dell’art. 1418 fa riferimento alla nullità testuale, cioè a quella espressamente comminata dalla legge: ne abbonda, soprattutto, la legislazione speciale, come in materia urbanistica. Alla regola generale della nullità del contratto per contrarietà a norme imperative fa seguito, nel II comma dell’art. 1418, una serie di regole analitiche: produce nullità, anzitutto, la mancanza di uno dei requisiti del contratto, indicati nell’art. 1325: mancanza dell’accordo delle parti o della causa o dell’oggetto o della forma, nonché l’illiceità dell’oggetto, della causa, dei motivi. Il II comma dell’art. 1418, a differenza del I, non contempla la possibilità di eccezioni, sicché la mancanza dei requisiti del contratto e le illiceità indicate operano quali immancabili cause di nullità del contratto, rispetto alle quali non è concepibile una diversa disposizione di legge. L’accordo è il risultato della concorde dichiarazione di volontà delle parti: si compone di duo (o più) dichiarazioni di volontà, mediante le quali ciascun contraente partecipa all’accordo. In ciascuna dichiarazione di volontà si può distinguere fra la volontà, che il soggetto forma entro la propria mente, e la dichiarazione, costituita dallo scritto o dalle parole o da altri segni mediante i quali la volontà si manifesta all’esterno. La volontà del soggetto, finché non è dichiarata all’esterno (c.d. riserva mentale), è irrilevante. L’esterna dichiarazione, a sua volta, produce effetti giuridici non per il fatto in sé che determinate parole vengano scritte o pronunciate o che determinati segni vengano espressi: gli effetti giuridici si producono solo in quanto all’esterna dichiarazione corrisponde una volontà del dichiarante.
Il contratto è nullo per mancanza del requisito dell’accordo delle parti quando, nonostante la dichiarazione contrattuale resa all’esterno, manca l’intera volontà delle parti di produrre effetti giuridici: l’interna volontà dell’una o dell’altra parte oppure di entrambe. I casi ai quali si suole fare riferimento sono, per la verità, alquanto marginali. Un caso è quello della dichiarazione non seria: un contratto viene dichiarato per finzione scenica oppure per esemplificazione didattica e simili. Si esce dai casi di scuola quando si precisa che la volontà contrattualmente significativa è la volontà-decisione, non la volontà-disposizione o la volontà-desiderio: perciò la dichiarazione che denota disponibilità o desiderio di vendere o di comperare non vale né come proposta né come accettazione contrattuale. Un altro caso è quello della violenza fisica, da non confondere con la violenza morale, che è l’ipotesi che comporta non la nullità, ma l’annullabilità del contratto. La violenza fisica è il fatto dell’altro contraente o di un terzo che provoca una dichiarazione non voluta. Qui alla dichiarazione di uno dei contraenti non corrisponde alcuna volontà del dichiarante, ed il contratto è da considerare sicuramente nullo per mancanza di consenso. Xxxxxxxxxxx va detto per il caso del contratto concluso in stato di assoluta incapacità d’intendere e di volere procurato dall’altro contraente. Anche qui, c’è un’esterna dichiarazione del soggetto, ma la dichiarazione non è voluta dal dichiarante. Non è però causa di nullità del contratto la c.d. persuasione occulta che la pubblicità commerciale esercita, con la sistematica ripetizione di ben studiati messaggi, sulla mente dei consumatori, ingegnando in loro il bisogno irresistibile di acquistare beni che, altrimenti, non avrebbero desiderato. Qui la volontà del consumatore, sebbene violentemente coartata, non può dirsi esclusa: egli può non acquistare, anche se è molto probabile che acquisterà. La pubblicità commerciale pone per altri aspetti problemi di protezione della libertà e della dignità dell’uomo, ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, per il quale l’iniziativa economica non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Ancora alla mancanza di volontà si riportano alcuni casi nei quali l’anomalia sembra, a prima vista, investire piuttosto la dichiarazione. Uno è il caso della dichiarazione formata dal dichiarante, ma comunicata al destinatario da terzi, senza il concorso della volontà del dichiarante; l’altro è quello della dichiarazione trasmessa sì dal dichiarante al destinatario, ma per uno scopo diverso dall’accettazione contrattuale. L’anomalia non sta, quanto al primo caso, nella non riferibilità della dichiarazione al volente, ma nel fatto che questi non aveva affatto maturato una volontà contrattuale, xxxxxxx aveva trattenuto presso di sé il testo contrattuale, e non aveva dunque ancora deciso se spedirlo o distruggerlo. Ciò che manca è, dunque, la volontà; come manca la volontà nel secondo caso, giacché la dichiarazione portata a conoscenza del destinatario per scopi non contrattuali ha in sé la riserva di non avere ancora maturato una decisione definitiva. Diversi da quelli ora considerati sono i casi di divergenza fra interna volontà e dichiarazione esteriore: il dichiarante, in questi casi, vuole la dichiarazione, ma questa è, per errore (c.d. errore ostativo), formulata in modo non corrispondente alla sua interna volontà, oppure è inesattamente trasmessa dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato. Anche in questi casi, a rigore, manca il requisito dell’accordo delle parti: ciò che una parte vuole non corrisponde a ciò che dichiara di volere e, pertanto, a ciò che l’altra parte accetta. Tuttavia, la legge non ravvisa in questi casi una causa di nullità, bensì una causa di annullabilità del contratto. Altro caso di divergenza fra volontà e dichiarazione è quello che si determina nel caso di abusivo riempimento di foglio firmato in bianco. Qui vengono in considerazione due distinte ipotesi: quella dell’abusivo riempimento da parte del terzo incaricato del riempimento; quella della dichiarazione cambiaria emessa erroneamente senza indicazione dell’importo (c.d. titolo incompleto) e arbitrariamente completata
da uno dei portatori intermedi del titolo; ipotesi per la quale la giurisprudenza si è pronunciata nel senso della nullità (perché la dichiarazione non è voluta), mentre la dottrina appare divisa.
Oltre che invalido (nullo o annullabile), il contratto o l’atto unilaterale può essere inesistente. L’inesistenza è al di là della stessa nullità: è inesistente il contratto o l’atto neppure identificabile come tale, privo del minimo essenziale che permetta di parlare di un cero accadimento come di un contratto o di un atto unilaterale. L’importanza della distinzione fra nullità ed inesistenza sta in ciò: il contratto o l’atto inesistente non produce neppure quei limitati effetti che il contratto o l’atto nullo produce. Ad esempio, di nullità del contratto per mancanza dell’accordo delle parti si può discutere se entrambe le parti hanno partecipato, con la propria dichiarazione, alla formazione del contratto. Una proposta di vendita non seguita da alcuna accettazione non è un contratto nullo per mancanza di accordo delle parti: è, semplicemente, un’iniziativa di xxxxxxxxx xxxxxxx da un soggetto e non approda ad alcun risultato; si deve dire che il contratto non esiste. L’inesistenza è una categoria di antica origine: i canonisti medioevali, cui si deve la prima elaborazione del contratto inesistente, consideravano tale il matrimonio fra persone dello stesso sesso, e lo consideravano inesistente perché contrario al concetto “naturale” di matrimonio. Oggi si fa largo uso del concetto d’inesistenza, più che per i contratti, per quegli atti unilaterali che sono le deliberazioni assembleari; la giurisprudenza considera inesistente la deliberazione ogni qualvolta ritiene assente quel minimo di elementi che permetta di parlare di essa come di una deliberazione: mancata convocazione dei soci in assemblea, mancato raggiungimento della maggioranza prescritta o raggiungimento di essa con il voto di soggetti non legittimati. C’è una ragione specifica che spiega il largo ricorso al concetto d’inesistenza: se si facesse valere la contrarietà di queste deliberazioni alle norme di legge sul funzionamento dell’assemblea, esse sarebbero semplicemente annullabili, per la speciale regola di cui all’art. 2377, con la conseguenza che, decorso il breve termine per l’annullamento, diventerebbero inattaccabili.
Il contratto è nullo per illiceità della causa, per illiceità dell’oggetto, per illiceità dei motivi. Le tre ipotesi compongono la figura designata come contratto illecito. Il concetto d’illiceità esprime una contraddizione del contratto all’ordinamento giuridico più forte di quella espressa dalla sua contrarietà a norme imperative: la formula denota riprovazione per il risultato che, con il contratto, le parti si propongono di realizzare, sotto il triplice aspetto dell’oggetto che esse hanno dedotto in contratto, della causa del contratto, dei motivi del contratto. Questa più forte contraddizione si manifesta anche nella già rilevata circostanza che il contratto illecito è sempre e comunque nullo ed improduttivo di effetti, mentre la comune contrarietà a norme imperative tollera, per riserva finale di cui al I comma dell’art. 1418, una conseguenza diversa dalla nullità. L’oggetto, la causa o i motivi sono illeciti – secondo una formula che l’art. 1343 utilizza per la causa illecita – quando sono contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Nel suo insieme la formula legislativa esprime un’esigenza di difesa dei valori fondamentali della società: di difesa sia dei valori di natura collettiva, che attengono cioè alla pacifica e civile convivenza fra gli uomini e al loro progresso economico e sociale, sia di irrinunciabili valori di natura individuale, relativi alla libertà, alla dignità, alla sicurezza dei singoli. Dalle comuni norme imperative, la cui violazione di regola rende nullo il contratto a norma dell’art. 1418, le norme imperative, la cui trasgressione rende il contratto illecito ai sensi dell’art. 1343, differiscono sotto almeno due aspetti: sono sempre norme proibitive, che impongono insormontabili divieti, mentre le comuni norme imperative possono consistere tanto in norme proibitive quanto in norme ordinative; sono norme che si collocano al vertice della gerarchia di valori protetti dall’ordinamento giuridico: non sono solo,
come le norme imperative ex art. 1418, norme poste a tutela d’interessi generali; sono, quali le definisce la Cassazione, i “principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento”. La difesa di questi valori fondamentali è realizzata con l’espressa formulazione legislativa di norme che vietano determinati atti o determinare attività. Ma l’espressa formulazione legislativa di un divieto non è necessaria perché il giudice possa considerare illecito un contratto: è necessaria, in sede penale, per l’applicazione di una pena; non è necessaria, in sede civile, per la dichiarazione di nullità del contratto per illiceità. Questo è illecito, oltre che per contrasto con norme imperative, anche se contrario all’ordine pubblico o al buon costume. L’ordine pubblico è costituito da quelle norme imperative, che salvaguardano i valori fondamentali e che, tuttavia, non sono esplicitamente formulate dalla legge, ma che si ricavano per implicito dal sistema legislativo: dai codici e dalle altre leggi ordinarie e, soprattutto, dalla Costituzione. Nessuna esplicita norma di legge, ad esempio, viera il contratto con il quale un soggetto assume l’altrui rischio di essere scoperto e condannato a pena pecuniaria per reati che commetterà. Il buon costume è costituito da quelle norme imperative anch’esse non esplicite, ma ricavabili per implicito dal sistema legislativo, che comportano una valutazione del comportamento dei singoli in termini di moralità o di onestà. Riguardano anche, ma non solo, la sfera sessuale: così i contratti che attengono all’esercizio della prostituzione, alla pornografia ecc. Ma viene in considerazione anche il costume politico, il costume sportivo, il costume negli affari: così il contratto con il quale si accetta un compenso in danaro per rinunciare alla propria candidatura alle elezioni o ad una carica politica. Il contratto contrario al buon costume, sebbene nullo, produce lo speciale effetto di cui all’art. 2035: non si è tenuti, come per ogni contratto nullo, a dare esecuzione al contratto; ma non si può ottenere la restituzione di ciò che si è pagato in esecuzione del contratto e questo principio vale per ogni contratto qualificabile come contrario al buon costume, anche se la sua illiceità sia espressamente prevista dalla legge. L’illiceità del contratto s’articola nelle diverse forme dell’illiceità dell’oggetto, della causa, dei motivi. L’oggetto è illecito quando la cosa dedotta in contratto è il prodotto o è lo strumento di attività contrarie a norme proibitive, all’ordine pubblico o al buon costume, come nella vendita di cose rubate o di sostanze stupefacenti; o quando la prestazione dedotta in contratto è, essa stessa, attività vietata, come il contratto di lavoro per l’esecuzione di una prestazione vietata (art. 2126). Il giudizio d’illiceità non riguarda l’oggetto astratto, identificato dalla definizione legislativa del tipo contrattuale, ma l’oggetto concreto, ossia quello che le parti hanno dedotto quale oggetto di quel determinato tipo di contratto. L’illiceità della causa differisce da quella dell’oggetto perché investe, anziché la cosa o la prestazione dedotta in contratto, la funzione del contratto. Questo può avere un oggetto lecito e, tuttavia, una causa illecita: è il caso del contratto che obblighi le parti ad una prestazione e ad una controprestazione entrambe in sé lecite, ma delle quali è vietato lo scambio. Ciò in teoria: in pratica appare molto difficile, per non dire impossibile, identificare un caso del genere e l’ipotesi della causa illecita finisce con l’essere assorbita da quella dell’oggetto illecito oppure da quella dell’oggetto (giuridicamente) impossibile. La differenza tra oggetto illecito e causa illecita viene, solitamente, indicata con esempi di questo genere: il contratto con il killer, che si obbliga per danaro ad uccidere qualcuno, è nullo per illiceità dell’oggetto (uccidere è illecito); il contratto di “protezione” mafiosa, con il quale la mafia ottiene un compenso in danaro per “non uccidere” qualcuno, è nullo per illiceità della causa (non uccidere è lecito, illecito è lo scambio fra danaro ed obbligazione di non uccidere). Il contratto con il pubblico funzionario, perché compia verso corrispettivo in danaro un atto contrario ai suoi doveri, è nullo per illiceità dell’oggetto; il contratto con lo stesso, perché compia verso corrispettivo in
xxxxxx un atto rientrante fra i suoi doveri di ufficio, è nullo per illiceità della causa (compiere l’atto è lecito, illecito è compierlo per danaro).
Questi esempi non sono corretti: non uccidere, compiere i doveri del proprio ufficio è materia che non può formare oggetto di contratto, neppure a titolo gratuito e la differenza fra le due serie di esempi attiene non all’illiceità dell’oggetto o della causa, ma all’illiceità e all’impossibilità dell’oggetto (non uccidere, compiere gli atti del proprio ufficio sono comportamenti doverosi e, perciò, non suscettibili di formare oggetto di un vincolo contrattuale). È, invece, appropriato parlare di causa in relazione al patto con il quale i coniugi dispongono, in vista del futuro divorzio, del diritto, attribuito alla moglie, di abitare la casa di proprietà del marito. Qui è la funzione del patto che viene in considerazione: viene concesso un diritto di godimento su cosa altrui per assolvere doveri nascenti dal futuro divorzio, sostituendo il patto fra coniugi alla determinazione del giudice circa l’abitazione della casa familiare. Più in generale sono ritenuti nulli per illiceità della causa gli accordi con i quali i coniugi fissano il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, salvo che l’accordo sia subordinato alla condizione che la situazione patrimoniale delle parti resti nel frattempo immutata. Una serie d’ipotesi nelle quali il codice civile considera illecita la causa del contratto è quella dei contratti conclusi in frode alla legge (art. 1344). È in frode alla legge il contratto che costituisce “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”: le parti mirano a realizzare un risultato che la legge vieta; ma, per non incorrere nell’applicazione della norma proibitiva che vieta di realizzarlo, esse utilizzano uno o più contratti in sé leciti in modo da realizzare, in concreto, un risultato equivalente a quello vietato. A rigore, piuttosto che la causa, è in questi casi il motivo ad essere illecito. Sicché la formula dell’art. 1344 (“si reputa altresì illecita la causa”), che ha costituito un inutile rompicapo per gli interpreti, sembra essere null’altro che una non controllata emersione della legislativamente accantonata concezione soggettiva della causa. Così, per aggirare il divieto del pegno o dell’ipoteca con patto commissorio (art. 2744), si fa talvolta ricorso alla vendita a scopo di garanzia, nella forma della vendita con patto di riscatto o con patto di retro-vendita. Il debitore vende al creditore un proprio bene per un prezzo determinato in misura corrispondente al suo debito in capitale ed interessi (ma non pagato perché “compensato” con il preesistente debito). Se, alla scadenza, il debitore potrà pagare il suo debito, eserciterà il diritto di riscatto o di retro-vendita e riavrà la cosa venduta, altrimenti, questa resterà definitivamente al creditore.
In questo caso, la prova del preesistente debito del venditore verso il compratore, la corrispondenza fra prezzo di vendita ed importo del preesistente debito, l’ulteriore prova che il prezzo di vendita non fu pagato, bastano per considerare quella vendita come patto di riscatto o di retro-vendita come un contratto in frode al divieto di patto commissorio, coma tale nulla. Il motivo per il quale le parti hanno concluso il contratto è, di regola, irrilevante per il diritto. Diventa, tuttavia, rilevante quando è illecito, ossia contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Ma il motivo illecito, per rendere nullo il contratto, deve presentare due requisiti: essere il motivo esclusivo del contratto, ed essere il motivo comune ad entrambe le parti (art. 1345). Così noleggiare una nave per esercitare con issa il contrabbando, prendere in locazione un appartamento per destinarlo a casa di appuntamenti, dare a mutuo una somma ad un giocatore d’azzardo. Questi contratti sono nulli solo se entrambe le parti si sono determinate a concluderlo per il motivo illecito; né basta che il motivo illecito di una sia semplicemente noto all’altra. Occorre che l’altra ne sia partecipe e miri a trarre personale vantaggio dall’attività illecita che la prima si propone di esercitare. Nella donazione è, invece, sufficiente il motivo illecito del donante, purché
sia determinante della liberalità e risulti dall’atto (art. 788). Così la donazione fatta per manifestare gratitudine a chi ha prestato un favore illecito.
L’annullabilità
Il contratto è annullabile solo nei casi in cui la legge espressamente ricollega alla violazione di norme imperative, la speciale conseguenza dell’annullabilità. Il che accade in molteplici ipotesi: in tema di delibere assembleari, delle associazioni, della comunione, delle società; in tema di contratto concluso dal rappresentante in conflitto d’interessi con il rappresentato. Ma lacune ipotesi classiche sono dal codice civile collocate sotto un’apposita rubrica dedicata alla “annullabilità del contratto” (artt. 1425 ss.) Un primo ordine di casi è quello dell’incapacità a contrattare di una delle parti, che può essere incapacità legale o solo naturale; il secondo ordine di casi è quello dei vizi del consenso. Sono, legalmente, incapaci di contrattare coloro che non hanno ancora acquistato la legale capacità di agire e coloro che, avendola acquistata, l’hanno successivamente perduta: sono i minori di 18 anni (art. 2) e gli infermi di mente che, con sentenza dell’autorità giudiziaria, siano stati interdetti (art. 14), nonché i condannati all’ergastolo, in stato d’interdizione legale. Sono, ancora, parzialmente privi della capacità di contrattare i minori che, per effetto del matrimonio, abbiano conseguito l’emancipazione (art. 390) e i parziali infermi di mente che, con sentenza, siano stati inabilitati (art. 415): questi possono validamente compiere atti di ordinaria amministrazione; non possono compiere atti di amministrazione straordinaria del loro patrimonio. Il contratto concluso dall’incapace legale di agire è annullabile (art. 1425), e l’annullamento può essere domandato al giudice: a) da chi eserciti la potestà sul minore (genitori o tutore) o sul minore emancipato (curatore) o sull’interdetto (tutore) o sull’inabilitato (curatore); b) dallo stesso minore od emancipato o interdetto o inabilitato, una volta raggiunta la maggiore età o una volta revocato dall’autorità giudiziaria lo stato d’interdizione o d’inabilitazione; c) dagli eredi o aventi causa del minore; d) da qualunque interessato, nel caso dell’interdizione legale (art. 1441). Il contratto del minore non può però essere annullato se il minore ha, con raggiri, occultato la sua età (art. 1426): se il raggiro è stato posto in essere da un terzo, ed il minore, di ciò consapevole, si è limitato a trarne profitto senza concorrere attivamente nella macchinazione, il contratto è annullabile a norma dell’art. 1425. Di fronte a questi casi si potrebbe dire che nel contratto dell’incapace manca del tutto la volontà di una parte e che manca, perciò, il requisito “dell’accordo delle parti”, richiesto dagli artt. 1325 e 1418, a pena di nullità del contratto. Ma qui le esigenze di protezione dell’autonomia contrattuale, che imporrebbero la nullità del contratto non voluto sono coordinate con altre esigenze, che sono attinenti alla sicurezza della circolazione dei beni e che consigliano di contenere il più possibile i casi di nullità del contratto. L’equilibrio fra queste opposte esigenze è realizzato considerando il contratto dell’incapace solo annullabile su istanza dei soggetti espressamente legittimati all’azione e l’annullamento del contratto può essere domandato solo entro 5 anni dalla sua data o, se chiesto dall’incapace, dalla cessazione dello stato d’incapacità. In nessun caso l’annullamento del contratto può essere chiesto, a causa dell’incapacità di una parte, dall’altro contraente capace: l’annullabilità del contratto è prevista a protezione dell’incapace. Diversa dall’incapacità legale è l’incapacità naturale di chi è, giuridicamente, dotato di capacità legale (art. 1425). La capacità d’intendere e la capacità di volere sono previste disgiuntamente: può accadere che il soggetto sia in grado d’intendere, ma incapace di determinarsi coerentemente all’azione. Di fronte a questi casi si potrebbe ancora dire che nel contratto
dell’incapace naturale non c’è maggiore volontà di quanta ce ne sia nel contratto dell’incapace legale, e si potrebbe argomentare che, provata l’incapacità d’intendere o di volere, si possa senz’altro ottenere l’annullamento del contratto. Ma non è così: la legge esige, oltre alla prova dell’incapacità, ulteriori requisiti. Occorre distinguere fra atti in genere e contratti in particolare: gli atti in genere, inclusi fra questi gli atti unilaterali, sono annullabili, su istanza dell’incapace o dei suoi eredi o aventi causa, solo se si prova che dall’atto deriva un grave pregiudizio all’incapace (art. 428); i contratti sono annullabili, su istanza dell’incapace o dei suoi eredi o aventi causa, solo se si prova, oltre al pregiudizio per l’incapace, anche la mala fede dell’altro contraente, il quale conosceva lo stato d’incapacità naturale e il pregiudizio per l’incapace o avrebbe potuto accertarli con l’ordinaria diligenza (art. 428). L’opinione che sembra prevalere nella giurisprudenza si basa su un’arbitraria lettura dell’art. 428, nel quale si legge “atti unilaterali” in luogo di “atti”. Il punto è che l’art. 428 detta, al I comma, una disciplina di specie, relativa ai soli contratti, sicché il requisito del pregiudizio vale anche per i contratti in forza d’applicazione letterale dell’art. 428, e non solo di sua interpretazione logica. Altro problema è se gli atti siano solo dichiarazioni di volontà o siano anche le dichiarazioni di scienza. Il requisito del grave pregiudizio, pensabile solo per gli atti di disposizione, induce a condividere la prima soluzione. La legge considera l’incapacità naturale non come fattore che altera la volontà, ma come fattore d’alterazione della causa dell’atto o del contratto, che è annullabile solo se concluso, per effetto dell’incapacità della parte, a condizioni gravemente pregiudizievoli per essa. Il grave pregiudizio per l’incapace è sufficiente per l’annullamento degli atti unilaterali, ma non basta per i contratti: oltre al grave pregiudizio, occorre provare anche la mala fede dell’altro contraente. È protetto, sotto questo aspetto, l’affidamento di chi, ignorandone l’incapacità, ha contrattato con l’incapace: l’autonomia contrattuale dell’incapace è sacrificata di fronte ad un interesse giudicato prevalente, che è l’interesse generale ad una vasta e sicura circolazione dei beni. Un’eccezione a questa regola vale per la donazione: l’incapacità naturale del donante comporta senz’altro l’annullabilità del contratto, anche se ignota al donatario (art. 775). Un’altra radicale eccezione, non prevista dalla legge, sembra giusto introdurre: se lo stato d’incapacità naturale è stato provocato dall’altro contraente o, questo consapevole, da un terzo, si deve ritenere che il contratto non sia semplicemente annullabile, bensì nullo per violenza fisica; e nullo anche se manchi l’estremo del grave pregiudizio per l’incapace. Lo stato di buona o di mala fede del destinatario dell’atto unilaterale, irrilevante ai fini dell’annullabilità dell’atto, può però essere rilevante ad altri effetti, tali da rendere di fatto inutile l’azione di annullamento. Così l’ordine del correntista alla propria banca, viziato da incapacità naturale del primo, sarà annullabile sulla prova del grave pregiudizio per l’incapace, senza necessità di provare la mala fede della banca.
I vizi del consenso
Il contratto (o l’atto unilaterale) è annullabile se la volontà di una delle parti (o della parte negli atti unilaterali) è stata dichiarata per errore o carpita con dolo o estorta con violenza (art. 1427). Queste tre ipotesi vengono ricomprese entro la generale categoria dei vizi della volontà (o del consenso, con riferimento specifico ai contratti): l’espressione “vizio” della volontà sta qui ad indicare che una volontà della parte è presente, ma il processo formativo della sua volontà è stato alterato; onde la volontà, quantunque presente, è “viziata”. Dell’errore bisogna subito distinguere due specie: l’errore motivo (detto anche errore vizio) e l’errore ostativo. L’errore motivo è l’errore che insorge
nella formazione della volontà, prima che questa venga dichiarata all’esterno: consiste in una falsa rappresentazione della realtà presente che induce il soggetto a dichiarare una volontà che, altrimenti, non avrebbe dichiarato. Si deve trattare di falsa rappresentazione della realtà presente perché l’errore sulla realtà futura, ossia l’errore di previsione, non è errore in senso tecnico e non dà luogo ad annullabilità del contratto, a ma è semmai rilevante sotto altro aspetto e può dare luogo alla figura della presupposizione. L’errore motivo deve essere un errore essenziale (art. 1428): è essenziale l’errore determinante del volere, ossia tale per cui il contraente, se non fosse incorso in errore, non avrebbe concluso il contratto; ed è tale se ricorre una delle quattro serie d’ipotesi che la legge prevede (art. 1429). L’errore è essenziale quando cade:
1) Sulla natura o sull’oggetto del contratto: il primo è l’errore sul tipo di contratto che si conclude, il secondo è il caso dell’aliud pro alio, qui l’errore riguarda la cosa o la prestazione dedotta in contratto;
2a) Sull’identità dell’oggetto: è ancora un caso di aliud pro alio, non facilmente distinguibile dall’errore sull’oggetto. La serie d’ipotesi di cui al n. 1 e l’ipotesi di cui al n. 2 a) presentano questa particolarità: l’errore è sempre essenziale, per il solo fatto di cadere sulla natura o sull’oggetto del contratto o sull’identità dell’oggetto, senza necessità di ulteriore dimostrazione;
2b) Su qualità dell’oggetto che debbono ritenersi determinanti del consenso. È, invece, irrilevante l’errore sul valore in sé considerato: credevo che quel mobile autentico valesse quanto l’ho pagato, invece, ho appreso che vale molto meno. Qui l’errore non cade sulla qualità della cosa, ma sulla convenienza economica del contratto, non suscettibile di riesame giudiziario. Diverso è però il caso in cui ad indurre il contraente in errore sul valore sia stato, con artifici o raggiri, l’altro contraente o, questi consapevolmente, un terzo: il contratto sarà, in tal caso, annullabile per dolo, a norma dell’art. 1439. Diverso dall’errore sul valore è l’errore sul prezzo, che non è errore motivo, bensì errore ostativo. Incorre in errore ostativo l’agente di viaggio che sottoscrive con la formula “a saldo”, anziché con la formula “per acconto”, la ricevuta consegnata al cliente. In questi casi non si è errato sul valore dell’oggetto del contratto, si è incorsi in errore nella dichiarazione contrattuale espressiva del valore. Non è perciò corretto parlare di errore irrilevante, perché relativo alla convenienza del contratto: si dovrà, invece, indagare sull’essenzialità e sulla riconoscibilità dell’errore. Il semplice errore di calcolo (art. 1430) non rende annullabile il contratto, ma dà solo luogo a rettifica, a meno che non si traduca in errore sulla quantità. Ricorre la prima ipotesi, secondo la Cassazione, “quando, posti per xxxxx i dati da computare ed il criterio matematico da seguire, s’incorra in una svista materiale nelle relative operazioni aritmetiche, rilevabili prima facie in base ai dati ed al criterio predetto, ed emendabile con la semplice ripetizione del calcolo, e non è configurabile quando si contestino gli stessi dati numerici posti in base del calcolo”. All’errore di calcolo è equiparato l’errore materiale, come quello relativo all’indicazione dei dati catastali;
3) Sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente. È un errore che può assumere rilievo solo nei contratti intuitu personae, ossia quando l’identità o le condizioni personali dell’altro contraente siano determinanti del consenso, tali per cui non si sarebbe concluso il contratto con quella persona se non si fosse caduti in errore sulla sua identità o sulle sue condizioni personali. Per un’intera serie di tipi contrattuali, detti contratti personali, l’identità o le qualità personali del contraente sono sempre determinanti del consenso: basta, per questi contratti, la sola prova dell’errore sull’identità dell’altro contraente o, esatta l’identità, sulle sue qualità personali; non occorre provare, ulteriormente, che l’errore è stato determinante del consenso, essendo l’identità
del contraente circostanza inerente all’essenza del contratto; così, ad esempio, la locazione o il mutuo o l’appalto.
Nelle ipotesi fin qui considerate si tratta di errore di fatto, determinato cioè da una falsa conoscenza dei fatti o delle cose o delle persone. Ma è possibile anche un errore di diritto, provocato dall’ignoranza o dalla falsa conoscenza di norme di legge o di regolamento. È l’errore che cade:
4) Sui motivi del contratto, se si tratta di errore di diritto. I motivi del contratto sono di regola irrilevanti: assumono, eccezionalmente, rilievo quando sono motivi illeciti comini ad entrambi i contraenti.
L’errore di diritto può consistere nell’ignoranza o nella falsa conoscenza di una norma imperativa quanto di una norma dispositiva o suppletiva. Può, altresì, cadere su una norma imperativa che, a norma dell’art. 1419, sia destinata a sostituire una clausola nulla. La sostituzione automatica impedisce, in tal caso, la dichiarazione di nullità del contratto, ma non ne impedisce l’annullamento per errore di diritto se il contraente prova che il motivo esclusivo e determinante del contratto era inficiato da ignoranza della norma imperativa in questione. All’errore di diritto viene equiparata la sopraggiunta dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma nel vigore della quale si era contrattato: soluzione che si giustifica per la considerazione che le pronunce d’illegittimità costituzionale hanno effetto retroattivo ed eliminano ab origine la norma dichiarata illegittima. L’errore sui motivi è, invece, irrilevante quando si tratta di errore di fatto: chi, nell’imminenza delle nozze, compera una casa non potrà ottenere l’annullamento del contratto adducendo che l’atteso matrimonio non ha avuto luogo. Un’eccezione a questo principio vale per la donazione (art. 787): questa può essere impugnata per errore sul motivo, anche se si tratta di errore di fatto, purché il motivo risulti dall’atto e sia stato il solo motivo che ha determinato la liberalità.
Oltre che essenziale l’errore deve essere riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428): essere tale, cioè, che una persona di normale diligenza, tenuto conto delle circostanze, avrebbe potuto rilevarlo (art. 1431). È un principio di centrale importanza: protegge l’affidamento della controparte sulla validità del contratto e, più in generale, la sicurezza nella circolazione dei beni. Se l’errore di una parte, quantunque essenziale, non è tale per cui l’altra potesse rilevarlo, la prima resta vincolata dal contratto. Vanno considerati, a questi effetti, il contenuto e le circostanze del contratto, nonché le qualità dei contraenti (art. 1431). Ciò che l’errante deve provare è l’astratta riconoscibilità dell’errore da parte dell’altro contraente, non il fatto che questi lo avesse effettivamente riconosciuto. Tuttavia, la prova della conoscenza effettiva assorbe quella dell’astratta riconoscibilità: in tal caso, anche l’errore che l’uso della normale diligenza non avrebbe consentito di riconoscere rende annullabile il contratto. La chiave di lettura dell’art. 1431 non può essere ricercata nell’art. 1337, che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nella formazione del contratto. L’art. 1431 ha riguardo allo stato soggettivo dell’altro contraente, non al comportamento contrattuale dell’errante; corretta chiave di lettura è, piuttosto, quella fornita dall’art. 1147: come questo equipara la buona fede putativa alla mala fede, così l’art. 1431 equipara la riconoscibilità alla conoscenza dell’altrui errore. Altro caso, ricompreso nel precedente, d’irrilevanza della non riconoscibilità dell’errore è quello dell’errore bilaterale (o plurilaterale). Quando l’errore è comune a tutti i contraenti, esso è per ciò stesso conosciuto da ciascuno di essi, rendendo irrilevante la sua eventuale non riconoscibilità. Così, se tutti i coeredi ignorano
l’esistenza del testamento dell’ereditando, ciascuno di essi potrà impugnare per errore la divisione amichevole fra essi intercorsa, senza bisogno di provare che l’inesistenza del testamento era circostanza riconoscibile dagli altri con l’uso della normale diligenza. È richiesto, per l’annullamento del contratto, il duplice estremo dell’essenzialità dell’errore e della sua (conoscenza
o) riconoscibilità da parte dell’altro contraente, non anche, invece, l’estremo dell’incolpevolezza o scusabilità dell’errore da parte dell’errante. Non è, perciò, d’ostacolo all’annullamento del contratto la circostanza che il contraente in errore avrebbe potuto, con l’uso della normale diligenza, rendersi conto dell’errore ed evitare di concludere il contratto o di concluderlo a quelle date condizioni.
L’errore ostativo è l’errore che cade, anziché sulla formazione della volontà, sulla sua esterna dichiarazione, oppure è l’errore commesso dalla persona o dall’ufficio incaricato di trasmettere la dichiarazione. Nel primo caso l’errore è commesso dal dichiarante, nel secondo caso l’errore è commesso da un terzo: è, ad esempio, l’errore dell’ufficio telegrafico che riporta in modo inesatto il prezzo o la quantità della merce venduta. Il codice civile equiparare l’errore ostativo all’errore motivo (art. 1433), con la conseguenza che esso può portare all’annullamento del contratto solo se riconoscibile dall’altro contraente. È, questo, l’estremo limite cui può spingersi la protezione dell’affidamento sull’altrui dichiarazione e della sicurezza nella circolazione dei beni. In questo caso, che è certamente il caso-limite, il soggetto si trova ad essere vincolato da un contratto che non ha voluto e che ha dichiarato di non volere. È qui protetto, e nel modo più energico, l’affidamento del destinatario della dichiarazione erroneamente trasmessa. La nostra legge è, in materia, più rigorosa di ogni altra: in altri paesi la prova dell’errore ostativo dà sempre luogo all’annullamento del contratto, e il destinatario della dichiarazione, se l’errore non era da lui riconoscibile, ha solo diritto al risarcimento dei danni che provi di avere subito per la mancata conclusione del contratto. Ed è questo uno dei punti cruciali della teoria del contratto, tale da mettere in discussione il concetto espresso dall’art. 1321, che definisce il contratto come “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare od estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Qui l’effetto costitutivo, regolatore od estintivo si produce anche se non voluto da una delle parti e, perciò, anche se è mancato ciò che l’art. 1321 definisce come l’accordo fra i contraenti. Va però messo in evidenza che la norma sull’errore ostativo non è però tale da neutralizzare del tutto il ruolo della volontà. La parte non voleva emettere una dichiarazione di quel contenuto, ma voleva pur sempre emettere o trasmettere una dichiarazione significativa nelle relazioni contrattuali: l’art. 1433 rende irrilevante il fatto che la dichiarazione non corrispondesse al suo interno volere; presuppone, tuttavia, che il soggetto avesse voluto immettersi nel traffico giuridico, accettando di porsi in contatto con altri per comunicare qualcosa di contrattualmente significativo. Il ruolo della volontà risulta fortemente ridotto, ma non del tutto annullato: il soggetto potrà sottrarsi all’applicazione dell’art. 1433 tutte le volte in cui potrà provare che la dichiarazione pervenuta alla controparte non era stata da lui voluta o che non era stata da lui voluta la trasmissione della dichiarazione. L’art. 1433 addossa al dichiarante il rischio della divergenza fra l’interna volontà e l’esterna dichiarazione; gli addossa altresì il rischio dell’errore del nuncius, da lui incaricato di trasmettere la propria dichiarazione. Questa è la giustificazione delle norme, ma è al tempo stesso il limite della sua applicazione: quando il soggetto provi di non avere voluto la dichiarazione, il contratto dovrà essere considerato nullo, allo stesso modo in cui è nullo, per mancanza di una dichiarazione voluta, il contratto che derivi da violenza fisica. In questa prospettiva si presta ad essere considerata la discussa figura del dissenso occulto o malinteso, la quale ricorre quando le parti,
nonostante l’apparente concordanza delle rispettive dichiarazioni, sono in realtà animate da volontà non convergenti, avendo ciascuna inteso in modo diverso la propria dichiarazione. L’ipotesi sembra diversa da quanto accade in caso d’errore; la mancanza di consenso non dipende dalla divergenza tra la volontà e la dichiarazione di una parte, le dichiarazioni delle parti sono coerenti, ognuna, alla loro intenzione, ma le intenzioni sono difformi tra loro. Nel dissenso occulto si può incorrere in diversi casi: così nel caso in cui il destinatario della proposta, fraintesa la dichiarazione del proponente accetta mediante ripetizione della proposta, alla quale però attribuisce un significato diverso da quello attribuitogli dal proponente. Per la dottrina tradizionale nelle ipotesi di dissenso occulto si ha errore sulla dichiarazione altrui. La dottrina più recente tende, invece, a collocare il dissenso occulto o malinteso nella teoria dell’errore, ritenendo che anche le ipotesi tradizionalmente ricondotte alla figura del dissenso occulto si risolvano in un consenso dato per errore. Non vale, per questa dottrina, distinguere tra errore sulla dichiarazione propria ed errore sulla dichiarazione altrui: quando il destinatario, avendo frainteso la proposta, l’accetta attribuendole un falso significato, il suo errore sulla dichiarazione altrui si trasforma in errore sulla dichiarazione propria. Ci si trova perciò di fronte ad un vero e proprio errore, causa di semplice annullabilità del contratto. L’argomento della dottrina più antica si basava anche sull’art. 1362, per il quale il contratto va interpretato indagando “quale sia stata la comune intenzione delle parti”. Se l’indagine interpretativa mette capo alla constatazione che non c’era un’intenzione delle parti che potesse dirsi comune si riteneva inevitabile concludere che non si è formato l’accordo delle parti. L’equivocità insuperabile avrebbe così dovuto portare alla nullità del contratto per mancanza dell’accordo delle parti. L’opinione della dottrina tradizionale è, ciò nondimeno, da respingere: il dissenso occulto non dà luogo a nullità, bensì ad annullabilità del contratto per errore ostativo. Anche nei casi certi di errore ostativo l’interpretazione del contratto, condotta secondo il criterio di cui all’art. 1362, mette capo alla conclusione che non c’era una comune intenzione delle parti; e tuttavia il contratto è solo annullabile, ed è annullabile solo se riconoscibile dall’altro contraente.
Si parla di dolo, come vizio del consenso, in un senso corrispondente al concetto comune di “inganno”. Dall’errore motivo il dolo differisce per la specifica causa che ha provocato l’errore: qui un contraente è indotto in errore dai raggiri usati dall’altro contraente oppure da un terzo. Se i raggiri sono stati determinanti del consenso, tali cioè che, senza di essi, la parte non avrebbe contrattato (c.d. dolo determinante), il contratto è annullabile (art. 1439); se, invece, questa avrebbe ugualmente contrattato, ma a condizioni diverse (c.d. dolo incidente), il contratto è valido, e l’altro contraente, “in mala fede”, deve risarcirle il danno subito (art. 1440). Il concetto di mala fede è qui impiegato come sinonimo di dolo. Il raggiro del terzo deve essere noto (non semplicemente riconoscibile) al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439). Xxxxx che quest’ultimo ne fosse a conoscenza, non occorre che avesse cospirato con il terzo nel tramare l’inganno: in questo diverso caso si sarebbe in presenza di un raggiro del contraente, anche se posto in essere con l’altrui complicità. Non è terzo, ovviamente, il mandatario con rappresentanza del contraente: è terzo, invece, colui che, senza rappresentanza del contraente, abbia per conto di questo condotto la trattativa precontrattuale o abbia messo fra loro in contratto i contraenti, come il mediatore o l’agente di commercio. Il dolo è l’altrui induzione in errore, perciò, l’annullamento del contratto per dolo richiede che il raggiro dell’altro contraente o del terzo abbia provocato un errore rientrante nelle previsioni dell’art. 1429: a chi agisce per ottenere l’annullamento del contratto viziato da dolo basterà provare l’errore cui è stato indotto, se l’errore verte sulla natura del
contratto o sull’oggetto del contratto o sull’identità dell’oggetto; ma egli dovrà, ulteriormente, provare che l’errore è stato determinante del suo consenso, se l’errore indotto verte su qualità dell’oggetto o sull’identità o qualità dell’altro contraente. Tuttavia, la fattispecie del dolo è comunemente considerata più vasta di quella dell’errore: include anche l’induzione in errore sul valore dell’oggetto del contratto, mentre un simile errore, se non indotto da dolo, è irrilevante. I raggiri con i quali s’inganna l’altro contraente e se ne carpisce il consenso consistono, generalmente, in comportamenti commissivi. Ma può accadere che un contraente sia indotto in errore da un contegno puramente omissivo dell’altro contraente (c.d. dolo omissivo): è il caso dell’uomo d’affari che vende a caro prezzo le azioni della propria società tacendo al compratore il fatto che, per un improvviso tracollo aziendale, le azioni sono destinate a diventare carta straccia. Tenere segreta una notizia può essere raggiro altrettanto grave quanto il fornire una notizia falsa. Per il contratto d’assicurazione c’è, al riguardo, una norma espressa (art. 1892): la semplice reticenza dell’assicurato è causa di annullamento del contratto. Non si può però ragionare secondo l’antico brocardo “ubi lex voluit dixit”: la norma è esplicita, in materia di assicurazione, perché le imprese assicuratrici hanno da tempo ottenuto una sicura enunciazione legislativa, ma ciò non esclude che questa non possa essere considerata quale espressione, in uno specifico tipo contrattuale, di un più generale principio, destinato ad operare anche fuori dell’ambito dell’assicurazione. Per ogni altro contratto si deve tener conto di un generale principio: quello secondo il quale le parti, nello svolgimento delle trattative, debbono comportarsi secondo buona fede (art. 1337); e ciò comporta un reciproco dovere d’informazione sulle circostanze che ciascuna parte può ritenere determinanti del consenso dell’altra. Il dolo omissivo dovrà considerarsi causa d’annullamento del contratto ogni qualvolta, date le circostanze, si deve ritenere che il contraente avesse l’obbligo d’informare l’altra parte. La giurisprudenza ammette la rilevanza della reticenza, ma la circonda, al pari della menzogna, di molte cautele, mossa dalla preoccupazione di evitare che una qualsiasi mancata informazione possa essere sfruttata dalla controparte, pentita del concluso contratto; ne derivano massime molto elastiche. Ecco come la Cassazione si pronuncia: “la reticenza o il silenzio, al pari del mendacio, non bastano da sole a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze che, se note, avrebbero fatto desistere l’altra parte dal concludere il contratto, e in rapporto alle qualità e condizioni soggettive dell’altro contraente e al complesso del contegno che determina l’errore di questo”. I problemi più ardui, in tema di reticenza, stanno: nel trovare il punto d’equilibrio fra dovere d’informazione e diritto al riserbo; nel tracciare il confine fra il dovere d’informazione gravante su una parte e l’onere di auto informazione incombente sull’altra.
Nella fattispecie che ha dato luogo alla massima riportata si ritrovano entrambi i problemi. Dalla motivazione risulta che la controversia riguardava il contratto di lavoro concluso da una società con un dirigente: era stato chiesto l’annullamento del contratto di lavoro per dolo del dipendente, avendo questi presentato un proprio curriculum nel quale erano indicate le precedenti occupazioni, ma non era menzionato il fatto che l’ultimo rapporto di lavoro era cessati per licenziamento, motivato dall’infamante ragione che il dirigente si era fatto corrompere da un fornitore dell’impresa e che era stato per questo denunciato all’autorità giudiziaria. Con il principio di diritto riportato, il Supremo Collegio ha cassato la sentenza di merito che aveva annullato il contratto per dolo. Appaiono pertinenti queste considerazioni: a) nell’ordinaria prassi il curriculum che il lavoratore presenta le precedenti occupazioni, ma non precisa le ragioni per le quali esse sono cessate, sicché può dirsi essere onere dell’altro contraente, che ritenga rilevanti tali
circostanze, effettuare accertamenti al riguardo; b) se, nel caso di specie, il dipendente avesse taciuto, nel proprio curriculum, l’ultima sua occupazione, per impedire al datore di lavoro di scoprire l’infamante ragione del licenziamento, quest’omissione avrebbe sicuramente integrato gli estremi del dolo; c) l’infamante circostanza formava oggetto di un procedimento penale ancora in corso al momento della nuova assunzione, e non si può esigere da un soggetto la comunicazione di circostanze per lui screditanti, tali da indurre la controparte a non contrattare, se sulla loro sussistenza effettiva non c’è ancora giudicato. Il diritto al riserbo si lega alla presunzione d’innocenza dell’imputato: l’onestà di chi viene assunto come direttore generale è sicuramente qualità personale del contraente, determinante del consenso dell’altra parte, ma nella fattispecie il soggetto non aveva occultato la propria disonestà, bensì una sua vicenda ancora tutta privata, ossia il fatto che la sua onestà era stata messa in discussione davanti all’autorità giudiziaria. Il c.d. dolus bonus consiste nelle esagerate vanterie delle qualità del proprio bene o nella propria abilità professionale che, a volte, accompagnano l’offerta di un bene o di una prestazione. È frequente nel contratto isolato tra il negoziante e il cliente e, soprattutto, caratterizza la pubblicità dei prodotti industriali destinati alla contrattazione in serie. Una persona di media avvedutezza sa che simili qualità vantate dal venditore non corrispondono al vero e sono frutto di esagerazione, e, poiché il diritto tiene conto solo del comportamento dell’uomo di media avvedutezza, nessuno potrà in questi casi chiedere l’annullamento del contratto, neppure chi avesse, per avventura, confidato nella vendita della vanteria. Ma il confine tra dolus bonus e dolus malus tende, nel nostro tempo, ad apparire sempre più incerto. Da un lato, i progressi continui della tecnica fanno apparire credibili, anche agli occhi dell’uomo di media avvedutezza, ritrovati in passato inimmaginabili, dall’altro lato, l’asprezza della competizione commerciale ha enormemente affinato le arti persuasive degli addetti alla vendita.
La violenza della quale si parla come di un vizio del consenso (art. 1427), è la c.d. violenza morale: consiste nell’estorcere il consenso di un soggetto con la minaccia che, se il consenso non verrà prestato, verrà inferto un male alla sua persona o ai suoi beni oppure alla persona o ai beni dei suoi familiari. È diversa dalla violenza fisica: questa esclude del tutto la volontà del dichiarante (che, perciò, dichiara una volontà non sua) e comporta la nullità del contratto; la violenza morale è, invece, il mezzo con il quale si costringe una persona a dichiarare una propria volontà, ponendola di fronte all’alternativa se rifiutare il consenso e soggiacere al male minacciato oppure sottrarsi al male minacciato prestando il proprio consenso. Il male minacciato può essere un male alla persona, può essere un male che minaccia i beni e può riguardare la persona o i beni sia del contraente sia del coniuge o degli ascendenti o dei discendenti. Se riguarda, invece, parenti in via collaterale o affini o, ancora, persone non legate al contraente da rapporti di parentela o di affinità, l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione del giudice, che terrà conto delle circostanze del caso concreto, come il rapporto affettivo esistente con il contraente (art. 1436). Deve trattarsi di un male ingiusto (art. 1435). È tale il male contrario al diritto, ma un male minacciato può non essere contrario al diritto: il cliente che dice alla banca “se non mi concedete il nuovo mutuo che vi chiedo, trasferirò il mio conto presso un’altra banca” minaccia certo un male, ma è la minaccia di un male lecito, di una contromisura che ognuno può adottare nell’esercizio della propria libertà contrattuale. Analoga ipotesi è quella della minaccia di far valere un diritto: questa è causa di annullamenti del contratto solo se è diretta a realizzare vantaggi ingiusti (art. 1438), ossia un vantaggio non dovuto o superiore a quello dovuto, o un risultato non inerente al diritto che si minaccia di esercitare. È il caso del datore di lavoro che al dipendente, che ha brevettato una
propria invenzione, dica “se non mi cedi il tuo brevetto, ti licenzio per riduzione di personale”: qui non c’è alcun rapporto strumentale fra il minacciato licenziamento e la cessione del brevetto e la minaccia di esercitare il diritto di licenziamento, anche se di questo esistono i presupposti di legge, tende a realizzare un vantaggio ingiusto. Il male minacciato deve, inoltre, essere notevole (art. 1435): di gravità superiore, cioè, al danno che il contratto estorto con la minaccia provoca al contraente. Per esprimere questa valutazione si deve tenere conto dell’impressionabilità dell’uomo medio: la minaccia deve essere di tale natura da far impressione su una persona sensata, avuto riguardo all’età, al sesso e alla condizione della persona (art. 1435). La violenza, come i raggiri del dolo, può provenire da un terzo (art. 1434), ma qui, a differenza che per il dolo, non occorre che la violenza del terzo sia nota al contraente che ne ha tratto vantaggio. Di fronte alla violenza si attenua la protezione dell’affidamento dell’altro contraente, che subirà l’annullamento del contratto anche se ignaro della violenza del terzo. Non è causa d’annullamento del contratto il semplice timore riverenziale (art. 1437), tradizionalmente definito metus ab intrinseco: è il non osare di dire no per la condizione di psicologica soggezione nella quale ci si può trovare rispetto ad una persona a causa della potenza o dell’influenza o dell’autorevolezza o della ricchezza di questa, o per la particolare relazione che intercorre con essa. Dal mero timore reverenziale va distinta l’ipotesi in cui il personaggio importante, pur senza pronunciare minacce, lascia intendere senza possibilità di dubbio che dall’accettazione della sua proposta dipende la carriera dell’altra parte o la conclusione dell’affare cui aspira. Diversa dal semplice timore reverenziale è anche l’ipotesi “dell’avvertimento” mafioso. È il caso di xxx, dopo aver respinto una proposta contrattuale, riceve la “visita” di un noto personaggio della mafia, che si limita a raccomandargli, magari con parole garbate, di accettare la proposta. Qui, anche se non sono state pronunciate minacce, il contraente sa che la sua vita è in pericolo, perché è dato di comune esperienza, specie in certe regioni del sud, che gli “avvertimenti” della mafia sono implicitamente gravidi di minaccia. La più antica giurisprudenza, ragionando in termini di metus ab intrinseco, aveva negato la rilevanza dell’avvertimento mafioso; quella successiva ha finito con il riconoscerla.
Le azioni di nullità e di annullamento
Nullità ed annullabilità producono conseguenze diverse. A chiedere la dichiarazione di nullità di un contratto è legittimo chiunque, anche se terzo rispetto alle parti, dimostri di avervi interesse (art. 1421); a chiedere l’annullamento del contratto è legittimata, invece, solo la parte a favore della quale è prevista l’annullabilità (art. 1441): la parte incapace di agire (o il suo legale rappresentante) o chi ad essa subentra come erede o avente causa; la parte vittima dell’errore, del dolo, della violenza, e così via. Alla regola fa eccezione la c.d. annullabilità assoluta: l’incapacità di agire del condannato all’ergastolo o alla pena della reclusione superiore a 5 anni, che è in stato d’interdizione legale, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1441). La nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 1421), l’annullamento, invece, può essere pronunciato dal giudice solo su domanda o su eccezione della parte legittimata. La rilevabilità d’ufficio della nullità deve però essere coordinata con i principi del codice di procedura civile e, in particolare, con il principio della domanda e della corrispondenza fra domanda o eccezione e giudicato, nonché con il principio sulla disponibilità delle prove. Il coordinamento è stato attuato dalla giurisprudenza con le seguenti regulae iuris: il giudice può rilevare d’ufficio la nullità di un contratto se la validità di questo sia elemento costitutivo della domanda e de fra le parti vi sia
contestazione sull’applicazione o sull’esecuzione del contratto; il giudice può rilevare d’ufficio la nullità del contratto anche se la parte interessata abbia contro di esso prospettato un rimedio diverso, come l’annullamento, o se sia stata domandata la dichiarazione di nullità per una diversa causa; il giudice può rilevare d’ufficio la nullità solo se la causa di nullità emerge dagli atti e non richiede ulteriori indagini di fatto; la nullità del contratto può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio: anche in grado d’appello o di cassazione, sempre che il giudice di grado inferiore non abbia pronunciato sulla validità del contratto, comportando ciò il formarsi di un giudicato che preclude il successivo esame della materia.
L’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1422), l’azione di annullamento è soggetta al termine di prescrizione di 5 anni (art. 1442). Alla regola si sottraggono le deliberazioni della comunione (art. 1109), del condominio negli edifici (art. 1137), delle società di capitali (art. 2377): qui vale un breve termine di decadenza (di 30 giorni nei primi due casi, di 90 giorni nel terzo caso), imposto da un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici. La medesima esigenza non è valutata per le deliberazioni delle associazioni: in mancanza di ogni disposizione di legge al riguardo, l’azione di annullamenti si ritiene sottoposta all’ordinario termine di prescrizione. Varia, però, il termine di decorrenza della prescrizione: l’incapace legale e la vittima di un vizio del consenso sono più protetti, giacché la prescrizione decorre dalla scoperta dell’errore o del dolo, dalla cessazione della violenza o dello stato d’interdizione o d’inabilitazione o dal raggiungimento della maggiore età (art. 1142). Minore è la protezione in ogni altro caso, giacché la prescrizione decorre dal momento del contratto e se, la causa di annullabilità è scoperta dopo 5 anni dal contratto, non può più essere fatta valere. La prescrizione riguarda l’azione, non l’eccezione: l’annullamento non può essere domandato se sono trascorsi 5 anni, ma può essere eccepito anche dopo che siano trascorsi, se solo allora l’altra parte chieda l’esecuzione del contratto (art. 1442). La sentenza che dichiara la nullità di un contratto opera retroattivamente sia fra le parti sia rispetto ai terzi, anche se questi sono in buona fede. La sentenza che annulla il contratto, invece, opera retroattivamente tra le parti, ma quanto ai terzi, opera solo rispetto ai terzi di mala fede, che conoscevano la causa di annullabilità del contratto. Essa non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede (art. 1445). Assistiamo ad un conflitto fra opposte esigenze: le esigenze, da un lato, di protezione dell’autonomia contrattuale e le esigenze, dall’altro, di sicurezza nella circolazione dei beni. La legge sacrifica le seconde e protegge le prime nel caso del contratto nullo, mentre, esprime un’opposta valutazione nel caso del contratto annullabile. La regola non vale però per tutti i casi: se il terzo ha acquistato diritti a titolo gratuito, la sentenza di annullamento produce rispetto ai terzi, anche di buona fede, gli stessi effetti di una sentenza di nullità (art. 1445). I drastici effetti che la nullità del contratto produce sulla circolazione dei beni possono essere neutralizzati dai principi che regolano l’acquisto dei beni a titolo originario, mediante il possesso di buona fede o mediante l’usucapione. È vero che l’azione di nullità è imprescrittibile, ma è vero pure che il venditore, o il suo erede o avente causa, otterrà inutilmente una sentenza dichiarativa della nullità del contratto di vendita se, nel frattempo, il compratore avrà, mediante il possesso prolungato per il tempo di legge, usucapito il bene (art. 1442). È vero che la sentenza che dichiara la nullità travolge i diritti contrattualmente acquistati dai terzi di buona fede, ma è vero pure che, se costoro hanno conseguito il possesso del bene, ne diventano proprietari a titolo originario (art. 1153), e non sono tenuti a restituirlo. Bisogna considerare anche gli effetti che sul contratto nullo produce la c.d. transizione sanante: se la domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità, oppure l’annullamento, di un contratto soggetto a trascrizione è trascritta dopo 5 anni dalla data della trascrizione del contratto
impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto od iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (art. 2652). La sentenza che pronuncia la nullità del contratto è una sentenza dichiarativa, mentre è costitutiva la sentenza che lo annulla. Se ne fanno derivare conseguenze circa l’efficacia del contratto: se questo è nullo, esso non produce effetti ab initio, se è annullabile, esso “è per intanto efficace finché eventualmente non segua la pronuncia con cui l’autorità lo pone nel nulla”. La distinzione è equivoca, dal momento che anche la sentenza di annullamento, al pari di quella di nullità, opera retroattivamente fra le parti ed elimina il contratto ab origine. Sicché la posizione di chi è chiamato ad eseguire un contratto affetto da una causa d’invalidità non muta a seconda che si tratti di causa di nullità o di annullabilità. Alla dichiarazione di nullità o all’annullamento del contratto consegue il diritto delle parti di ripetere le prestazioni eventualmente eseguite. La disciplina della ripetizione può frustare quella della nullità: l’azione di ripetizione è soggetta all’ordinario termine decennale di prescrizione, perciò, se quest’azione si è già prescritta, a nulla gioverà l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, e la sentenza che dichiara nullo il contratto non consentirà di ripetere la prestazione eseguita. Un limite all’azione di ripetizione, che può frustare l’annullamento del contratto, è posto dall’art. 1443 (nonché dall’art. 2039): se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, l’altro può ripetere la prestazione eseguita solo se prova che essa è stata “rivolta a vantaggio” dell’incapace, e solo nei limiti di questo vantaggio. La norma è dettata a tutela dell’incapace, legale o naturale: si basa sulla presunzione che l’incapace, in quanto tale, non sia in grado di trarre vantaggio dalla prestazione ricevuta. Il contraente capace deve vincere questa presunzione e provare che la sua prestazione è andata a vantaggio dell’incapace. Il contratto affetto da una causa di annullabilità può essere convalidato, con l’effetto di sanare il contratto e di precludere l’azione di annullamento. Lo si può convalidare in due modi:
a) con un’espressa dichiarazione di convalida, proveniente dalla parte cui spetta l’azione di annullamento (art. 1444). Se l’azione di annullamento spetta a più soggetti, la dichiarazione di convalida che non provenga da tutti sarà inidonea a convalidare il contratto;
b) in modo tacito (art. 1444): la parte cui spetta l’azione dà volontariamente esecuzione al contratto, pur conoscendo la causa di annullabilità.
La convalida è atto unilaterale, dotato di una propria causa: esso non partecipa dei requisiti di forma del contratto da convalidare e produce i suoi effetti dalla data del contratto convalidato. Non può, all’opposto, essere convalidato il contratto nullo (art. 1423): l’eventuale dichiarazione di convalida o la volontaria esecuzione del contratto non preclude l’azione di nullità, salva la diversa regola vigente per la donazione (art. 799). Fuori da questa ipotesi, l’unico rimedio è il rinnovo dell’atto, che è contratto nuovo, produttivo di effetti solo dalla sua data. La rettifica del contratto è prevista dall’art. 1432 per il caso di errore: “la parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere”. L’offerta di rettifica dà luogo ad una modificazione del contenuto del contratto, tale da riportarlo al contenuto contrattuale supposto dall’errante. Poiché questi non può rifiutare l’offerta, si è in presenza di un atto unilaterale (recettizio), di per sé produttivo dell’effetto modificativo. La norma è formulata solo per il caso dell’errore; tuttavia, non se ne può escludere l’applicazione agli altri vizi del consenso. L’offerta di rettifica è ammissibile, tuttavia, solo se essa non possa arrecare pregiudizio all’errante; essa è preclusa dal fatto che l’errante abbia, nel frattempo, perso interesse al contratto, oggettivamente diventato per lui non
più conveniente. Il contratto nullo è, invece, suscettibile di conversione. Ciò accade quando un contratto, nullo come contratto di un dato tipo, presenta tuttavia i requisiti di un altro tipo contrattuale: se si può ritenere, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, che esse avrebbero voluto anche il diverso tipo contrattuale di cui sono presenti i requisiti di forma e di sostanza, il contratto nullo produce gli effetti di questo diverso tipo contrattuale (art. 1424). La conversione del contratto nullo è applicazione di un più generale principio, che è quello della conservazione del contratto: la legge tende, fin che è possibile, ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà; esprime il proprio favore per la conclusione degli affari. La conversione implica un mutamento della causa del contratto: l’art. 1424 lo rende possibile entro un ambito circoscritto dallo “scopo perseguito dalle parti”. L’art. 1424 s’esprime con un linguaggio ambiguo, mosso dalla preoccupazione di contemperare l’accolto principio di conservazione con il rispetto della volontà delle parti: esso subordina la conversione alla presenza della c.d. “volontà ipotetica” dei contraenti, che avrebbero voluto il diverso contratto se avessero conosciuto la nullità di quello concluso. La conversione non può essere pronunciata d’ufficio dal giudice: il giudice la dispone su domanda di una delle parti, diretta a contrastare l’azione di nullità dell’altra. Il giudice non esegue due operazioni, dichiarando prima la nullità di un contratto e poi creando ex novo un diverso contratto; esegue una sola operazione: respinge l’azione di nullità del contratto. La conversione non sostituisce un contratto nullo, effettivamente voluto dalle parti, con un contratto valido, voluto dalle parti solo “ipoteticamente”; essa modifica la causa del contratto originariamente voluto dalle parti. Fra le molteplici ipotesi di mutamento della causa del contratto – alcune volontarie, altre forzose – quella prevista dall’art. 1424 si caratterizza come un mutamento forzoso, legittimo solo nei limiti in cui la diversa causa, che prende il posto della causa originaria, realizza il medesimo scopo perseguito dalle parti. La giurisprudenza ha posto altri limiti alla conversione: non opera se le parti conoscevano la causa di nullità del contratto, se la nullità deriva da illiceità, se si pretende di convertire una donazione nulla per mancanza di forma solenne in una promessa di pagamento, quale atto unilaterale.
Il principio di conservazione ispira molteplici norme in materia di contratti; qui vanno segnalate quelle relative alla nullità parziale. Le cause di nullità che investono solo singole clausole del contratto comportano nullità di quelle clausole, ma non la nullità dell’intero contratto: se risulta che non erano clausole essenziali, tali per cui le parti non avrebbero concluso il contratto senza quelle clausole (art. 1419); se, in ogni caso, le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative di legge (art. 1419). Il secondo principio trova molteplici applicazioni: la nullità delle clausole di esonero da responsabilità per dolo o per colpa grave (art. 1229) non consente mai di accertare se, in loro difetto, le parti avrebbero ugualmente concluso il contratto; comporta, semplicemente, la responsabilità delle parti per dolo o colpa grave. Altro caso risulta dalla legislazione urbanistica: il diritto del proprietario di unità abitativa all’uso dell’area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli passa, in caso di locazione dell’alloggio, al conduttore di questo nonostante la clausola contrattuale che ne esclude il passaggio, affetta da nullità parziale. Il principio di conservazione del contratto si combina con un altro principio che è quello dell’integrazione del contratto (art. 1374); il contenuto di questo è determinato, oltre che dalla volontà delle parti, anche da disposizioni di legge. La giurisprudenza ha precisato che l’indagine sull’essenzialità della clausola “va condotta con criterio oggettivo, con riferimento alla perdurante utilità del contratto rispetto agli interessi con esso perseguiti”; ha, infine, ricercato il giusto punto di equilibrio fra esigenze di conservazione del contratto e protezione dell’autonomia contrattuale,
precisando che la nullità parziale può essere dichiarata “soltanto allorché occorra amputare una parte del contratto senza la quale i contraenti avrebbero ugualmente raggiunto l’accordo e non pure nel caso in cui occorrerebbe procedere, da parte del giudice, ad adeguamento e rettifiche delle complessive prestazioni al fine del loro equilibrio”. Altra applicazione del principio di conservazione è nei contratti plurilaterali con comunione di scopo: la nullità (art. 1420) o l’annullabilità (art. 1446) della partecipazione al contratto di una delle parti non comporta nullità dell’intero contratto se la sua partecipazione al contratto non debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale, e se il contratto, pertanto, può ugualmente avere attuazione con le parti restanti.
Invalidità ed inefficacia
Dall’invalidità del contratto si deve distinguere l’inefficacia del contratto, che a differenza della prima non trova nel codice civile una considerazione unitaria e generale. Il contratto invalido è anche inefficace, improduttivo dell’effetto, proprio del contratto (art. 1321), di costituire, regolare od estinguere fra le parti un rapporto giuridico patrimoniale. La sentenza che dichiara la nullità o che pronuncia l’annullamento del contratto lo rende improduttivo di effetto, tanto fra le parti quanto rispetto ai terzi, ed elimina, di regola, anche gli effetti che si siano nel frattempo prodotti (effetto retroattivo della sentenza), salvi nel caso di annullamento i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (art. 1445). L’inefficacia presenta tuttavia un’estensione maggiore dell’invalidità. Consegue, di regola, all’invalidità del contratto, ma può investire anche contratti in sé validi, ponendosi in tal caso quale categoria concettuale autonoma rispetto a quella dell’invalidità. La sua nota saliente sta nella maggiore elasticità di questa figura, nella sua idoneità a meglio “realizzare il trattamento corrispondente agli interessi in gioco”, in contrasto con la rigidità della disciplina dell’invalidità. Le cause che provocano inefficacia possono essere variamente classificate:
1) A volte sono cause dello stesso ordine di quelle che producono nullità del contratto: così la contrarietà del contratto a norme imperative determina, di regola, la sua nullità; ma la stessa norma che, all’art. 1418, I comma, enuncia questa regola formula la riserva “salvo che la legge disponga diversamente”. Può in tal modo accadere che il contratto contrario a norme imperative sia annullabile anziché nullo, ma può, altresì, accadere che la contrarietà a norme imperative trovi nella legge una sanzione diversa dall’invalidità, quale l’inefficacia del contratto. La giurisprudenza ha avuto modo di avvedersene con riguardo alla vendita immobiliare conclusa in violazione di una prelazione legale. La vendita, sebbene in contrasto con la norma imperativa che impone all’alienante di un fondo rustico od urbano di farne offerta all’affittuario o al locatario, è contratto valido, ma inefficace nei confronti dell’avente diritto alla prelazione, cui è legislativamente concesso il rimedio, diverso dall’azione di nullità, del riscatto dell’immobile nei confronti del terzo acquirente. Del pari, le clausole vessatorie sono “inefficaci” a norma dell’art. 1341 se non approvate per iscritto, ma, non senza contraddizione, sono considerate nulle dall’art. 36 del Codice del consumo, in quanto clausole che contravvengono alla norma imperativa di cui all’art. 33 dello stesso codice;
2) Altre volte le cause che producono inefficacia sono dello stesso ordine di quelle che producono annullabilità del contratto: così gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci nei confronti dei creditori, e ciò quantunque la condizione del fallito, privato dell’amministrazione e della disponibilità del suo patrimonio, si presti ad essere descritta in termini d’incapacità legale;
3) Produce inefficacia, e non nullità, la simulazione del contratto: inefficacia fra le parti (art. 1414), inefficacia rispetto a determinate serie di terzi (art. 1415-1416). Qui il contratto è voluto, sicché non può parlarsi di nullità ai sensi dell’art. 1418; non ne sono però voluti gli effetti, ciò che è legislativamente valutato come compatibile con la validità e come produttivo di una sola relativa inefficacia del contratto;
4) E’ inefficace il contratto in frode ai creditori nei confronti del creditore che abbia esercitato l’azione revocatoria;
5) Altre volte l’inefficacia del contratto consegue al mancato assolvimento di un onere da parte dei contraenti: così i contratti soggetti a trascrizione (artt. 2643, 2645), se non trascritti, “non hanno effetto” riguardo ai terzi che abbiano acquistato diritti in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione dei medesimi (art. 2644);
6) L’inefficacia può, ancora, conseguire al difetto di legittimazione del soggetto che ha posto in essere l’atto, ossia dell’idoneità del soggetto a disporre del rapporto che forma oggetto dell’atto. È il caso del contratto concluso dal falsus procurator, ed impropriamente l’art. 1398 s’esprime al riguardo in termini d’invalidità del contratto;
7) Va, infine, menzionata l’inefficacia dipendente da condizione volontaria o legale: il contratto può essere, in tali casi, temporaneamente inefficace (in attesa del verificarsi della condizione sospensiva) o solo temporaneamente efficace (in attesa del verificarsi della condizione risolutiva).
Caratteristiche costanti dell’inefficacia non dipendente da invalidità sono:
a) La sua relatività, in contrasto con l’inefficacia assoluta del contratto nullo. Sotto questo aspetto si manifesta la maggiore elasticità del concetto d’inefficacia rispetto a quello di nullità, la sua idoneità a meglio rispondere alle esigenze di regolazione degli interessi in gioco. Così la simulazione rende inefficace il contratto solo nei confronti dei terzi indicati negli artt. 1415 e 1416;
b) La sua convalidabilità, in contrasto con l’inconvalidabilità del contratto nullo (art. 1423): così, ammette ratifica il contratto del falsus procurator (art. 1399). Sotto questi aspetti l’inefficacia sembra assimilabile all’annullabilità; da questa, tuttavia, differisce per l’imprescrittibilità dell’azione relativa, in quanto azione di accertamento, in contrasto con la soggezione alla prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento (art. 1442);
c) La sua non convertibilità, per contro, in contrasti con la convertibilità del contratto nullo a norma dell’art. 1424;
d) La non operatività, nel caso d’inefficacia parziale, dell’eccezione di essenzialità della clausola inefficace, in contrasto con il principio espresso per la nullità parziale dell’art. 1419.
CAP. 9°: LA SIMULAZIONE E L’APPARENZA
La simulazione
C’è simulazione quando i contraenti creano, con la propria dichiarazione, solo le parvenze esteriori di un contratto, del quale non vogliono gli effetti (art. 1414), oppure creano le parvenze esteriori di un contratto diverso da quello da essi voluto. La simulazione può, in particolare, assumere tre forme:
a) simulazione assoluta (art. 1414, I comma): ricorre quando le parti concludono un contratto e, con separato e segreto accordo (detto controdichiarazione), dichiarano di non volerne alcun effetto. Il loro intento è di creare, di fronte ai terzi, l’apparenza del trasferimento di un diritto dall’una all’altra o l’apparenza dell’assunzione di un’obbligazione dell’una rispetto all’altra. È un intento che può derivare dalle più diverse ragioni: alla simulazione assoluta ricorre, principalmente, chi vuole occultare i propri beni agli occhi dei creditori per sottrarli alle loro pretese o chi vuole nasconderli al fisco per sottrarli alla tassazione. Alla simulazione si fa ricorso anche per eludere un divieto di legge o un’obbligazione contrattuale di non fare: così chi non può, per legge, esercitare il commercio o chi si è obbligato, per contratto, a non fare concorrenza elude il divieto di legge o il patto di non concorrenza simulando un affitto dell’azienda, che a questo modo appare esercitata dal fittizio affittuario;
b) simulazione relativa (art. 1414, II comma): si ha quando le parti creano l’apparenza di un contratto diverso da quello che esse effettivamente vogliono. Se ne possono distinguere due specie:
b1) la simulazione relativa totale: qui si hanno due contratti, il contratto simulato, che è quello destinato solo ad apparire all’esterno, ed il contratto dissimulato, che è quello realmente voluto dalle parti. Il primo può essere diverso dal secondo per il tipo contrattuale: si simula, ad esempio, una vendita, mentre in realtà si fa una donazione;
b2) la simulazione relativa parziale: qui la simulazione investe solo una clausola contrattuale, sicché il contratto dissimulato è (parzialmente) diverso per il suo contenuto: così in una vendita può essere simulato il prezzo, che nel contratto simulato è indicato in una somma inferiore a quella reale;
c) interposizione fittizia di persona: è una particolare specie di simulazione relativa, che investe l’identità di una delle parti: nel contratto simulato appare come contraente un soggetto (detto interposto) che è persona diversa dal reale contraente (interponente). Così, chi si accinge ad acquistare un bene, ma non vuole che il bene che sta per acquistare appaia suo agli occhi dei terzi (dei suoi creditori, del fisco, ecc.), fa figurare come compratore un compiacente parente od amico. E così si dà vita ad una vendita simulata, nella quale appare compratore l’interposto, e ad una sottostante vendita dissimulata, nella quale il compratore è l’interponente, ossia il compratore effettivo. Nel linguaggio della pratica si parla, in questi casi, d’intestazione fittizia di un bene, alludendo al fatto che il bene acquistato appare, a seguito della trascrizione del contratto simulato nei registri immobiliari, come appartenente ad un fittizio proprietario. L’interposizione fittizia è solo una delle molteplici tecniche mediante le quali risulta attuabile l’interposizione di persona, ossia la frapposizione di uno scherma fra l’interessati ed i terzi. Si deve distinguere, fondamentalmente, fra interposizione fittizia ed interposizione reale di persona, e quest’ultima, a sua volta, può presentarsi nella forma del contratto fiduciario oppure in quella della
rappresentanza indiretta (o mandato senza rappresentanza). La volontà di concludere un contratto simulato o, nel caso dell’interposizione fittizia, di farlo concludere da altri risulta da un apposito accordo di simulazione, detto anche controdichiarazione: nel caso della simulazione assoluta le parti dichiarano di non volere affatto gli effetti del contratto fra esse concluso; in quello della simulazione relativa dichiarano di volere, in luogo del contratto simulato, un diverso contratto. L’accordo di simulazione è (quanto meno) un accordo a due nella simulazione assoluta e in quella relativa deve essere (quanto meno) un accordo a tre nell’interposizione fittizia di persona, giacché qui partecipano alla controdichiarazione sia le parti del contratto simulato sia il terzo interponente. Non basta un accordo a due fra interposto e interponente: occorre la partecipazione del terzo o, quanto meno, la sua adesione successiva all’accordo. Il diretto contraente dell’interposto, se non fosse partecipe della controdichiarazione, potrebbe esigere dall’interposto, anziché dall’interponente, l’esecuzione del contratto.
La natura dell’accordo di simulazione è controversa: per alcuni si tratta di un patto, non di un contratto, mentre per altri non si tratta neppure di un atto di volontà, ma di una dichiarazione di scienza, contenente riconoscimento dell’inesistenza di un contratto apparentemente stipulato, nel caso della simulazione assoluta; dell’esistenza di un contratto diverso, realmente voluto dalle parti, nel caso della simulazione relativa; e da ciò la Cassazione desume l’inammissibilità della risoluzione dell’accordo di simulazione per mutuo dissenso. Ma si tratta di posizione incoerente, giacché la Cassazione conferisce natura di contratto al contratto d’accertamento, che ha natura solo dichiarativa, e considera dichiarazione di volontà, fonte di obbligazione, la ricognizione di debito. Si deve dire piuttosto che il mutuo dissenso è concepibile per i contratti dispositivi, non anche per quelli dichiarativi.
Ragionando con logica astratta si dovrebbe pervenire alla conclusione che il contratto simulato sia nullo: non c’è valido contratto senza volontà delle parti, e il contratto simulato è, per l’appunto, un contratto non voluto. Ubbidendo a questa logica astratta la giurisprudenza in passato prevalente ha parlato di nullità del contratto simulato, ed alla medesima conclusione sono pervenute anche accorte dottrine. Questo modo di argomentare ha radici culturali alquanto evidenti, le quali risiedono nella premessa che il contratto è un negozio giuridico e questo è, per definizione, la dichiarazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici, sicché la dove manca, come manca nella simulazione, la volontà degli effetti, non si può dire di essere in presenza di un negozio giuridico né, di conseguenza, di un contratto. È però un fatto che, nel sistema del vigente codice civile, il requisito dell’accordo delle parti, prescinde dalla volontà degli effetti, come è reso palese dalla norma che, all’art. 1433, subordina l’annullamento del contratto per errore ostativo alla riconoscibilità da parte dell’altro contraente, rendendo così inattaccabile e vincolante per l’errante, se l’errore non è riconoscibile da parte dell’altro contraente, un contratto non voluto. È del pari un fatto che il codice civile qualifica non come nullo, bensì come inefficace, il contratto simulato (art. 1414), distingue l’azione di simulazione dall’azione di nullità (art. 2652) e regola la simulazione in modo affatto diverso dalla nullità: se mai l’inefficacia di cui parla l’art. 1414 fosse nullità, essa sarebbe una ben singolare nullità, essendo una nullità in opponibile ai terzi protetti dagli artt. 1415-16. Anche chi si esprime in termini di nullità finisce poi con il contrastare che la simulazione, a differenza della nullità, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, che è insuscettibile di conversazione e che, per contro, ammette convalida. Al pari dell’azione di nullità, l’azione di simulazione è imprescrittibile, ma ciò non deriva dall’appartenenza della seconda al genere della prima, bensì all’appartenenza di entrambe ad un più vasto genere, che è quello delle azioni di
accertamento. Talora si è ritenuta soggetta a prescrizione ordinaria l’azione di simulazione relativa, ma poi si è chiarito che non l’azione di simulazione è, in tal caso, soggetta a prescrizione, bensì l’azione diretta ad ottenere l’adempimento del contratto dissimulato. Si coglie in verità l’essenza della simulazione se si considera la duplice direzione lungo la quale si muove la volontà dei contraenti, che da un lato vogliono il contratto simulato e dall’altro dichiarano che il contratto così posto in essere è tra loro inefficace, o che è tra loro efficace un contratto diverso. Il contratto simulato resta pur sempre un contratto. La simulazione è causa d’inefficacia solo relativa del contratto: determina conseguenze profondamente diverse fra le parti e rispetto ai terzi. Fra le parti il contratto simulato è inefficace (art. 1414) e, se si tratta di simulazione relativa o d’interposizione fittizia di persona, l’inefficacia del contratto simulato comporta l’efficacia del contratto dissimulato, sempre che sussistano i requisiti di sostanza e di forma necessari per la sua validità (art. 1414). L’art. 1414 non si pronuncia sulla forma richiesta per la controindicazione nella simulazione assoluta. Al riguardo la giurisprudenza ritiene di poter trarre argomento dalla premessa che la controdichiarazione sia dichiarazione di scienza e non dichiarazione di volontà e conclude che “l’intesa simulatoria non è necessario che risulti da controdichiarazione scritta”, anche quando si riferisce a contratto simulato che richiede la forma scritta a pena di nullità, sicché “la relativa prova soggiace alle normali limitazioni legali ed, in particolare, al divieto di prova testimoniale ed a quello per presunzione”, mentre sono ammesse la confessione ed il giuramento. Il punto è che la controdichiarazione, se non è espressione di volontà dispositiva, è pur sempre espressione di volontà dichiarativa e dà luogo ad un contratto, come è tale il contratto di accertamento. E, se il contratto simulato è un contratto immobiliare, la controdichiarazione è un contratto avente indiretto oggetto immobiliare, in quanto tale soggetto alla stessa forma richiesta per contratto simulato. Tutt’altro discorso vale rispetto ai terzi. Nei loro confronti il contratto simulato può, a seconda dei casi, essere inefficace oppure efficace: è inefficace rispetto a quei terzi i cui diritti sono pregiudicati dal contratto simulato (art. 1415), è, invece, efficace per quei terzo che, in buona fede, hanno fatto affidamento sull’apparenza creata dal contratto simulato (artt. 1415 e 1416). Entrambe le regole proteggono i terzi, ma sono ispirate da esigenze tra loro diverse. La prima mira a sventare il danno che, con il contratto simulato, si vuole arrecare ai terzi; la seconda regola è applicazione, in materia di simulazione, di quel generale principio, che domina l’intero codice civile, che è la sicurezza nella circolazione dei beni. Proprio perché si tratta di regole poste a protezione di diverse serie d’interessi, può accadere che gli interessi protetti dall’una vengano a trovarsi in conflitto con gli interessi protetti dall’altra. Così, l’interesse protetta dalla prima regola può venire in conflitto con l’interesse, protetto dalla seconda regola. Quale dei due interessi prevale sull’altro? La risposta è nell’art. 1415: la simulazione non può essere opposta dai creditori del simulato alienante ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente. Prevale, in altre parole, il principio, sommo, della sicurezza nella circolazione dei beni. Altro possibile conflitto può insorgere fra diversi creditori: fra i creditori del simulato alienante e i creditori del simulato acquirente. Prevalgono i primi, se il loro credito è anteriore all’atto simulato (art. 1416): il criterio ispiratore della norma è che l’affidamento fondato sulla realtà deve prevalere sull’affidamento fondato sull’apparenza. Gli artt. 1415-16 hanno lasciato margine per una serie di casi dubbi:
a) può la simulazione della vendita essere opposta al locatario o all’affittuario con diritto di prelazione dal proprietario, che abbia agito in giudizio per ottenere la dichiarazione d’inefficacia della vendita? Può la simulazione della vendita di quota ereditaria essere opposta al coerede che
vuole esercitare il retratto? Gli artt. 1415-16 si esprimono in termini di “simulato alienante” e di “titolare apparente”, con ciò mostrando di fare riferimento solo alla simulazione assoluta e solo a quella concernente i contratti traslativi. È, tuttavia, comune opinione che essi siano applicabili anche alla simulazione relativa e che valgano, oltre che per i contratti traslativi, anche per quelli con effetti solo obbligatori. Di qui ulteriori problemi applicativi:
b) può la simulazione del prezzo di vendita essere dal compratore opposta al legittimario dell’alienante, che sulla base del prezzo dichiarato nel contratto ritenga lesi i propri diritti?
c) può la simulazione del prezzo di vendita, in caso di fallimento del venditore, essere dal compratore opposta al curatore che abbia agito in revocatoria?
La serie di casi sub a, variamente decisa in giurisprudenza, va risolta alla luce della considerazione che il codice civile non dice che la simulazione non è opponibile ai terzi, bensì dice che non è opponibile a determinati terzi, giudicati meritevoli di protezione in rapporto a specifiche situazioni. Se mai esistesse una regola di genere inopponibilità della simulazione ai terzi, l’avente diritto alla prelazione o al retratto ne trarrebbe ingiustificato profitto, giacché acquisterebbe l’altrui proprietà nonostante la volontà del proprietario di non alienare. La soluzione legislativa del problema dell’opponibilità della simulazione ai terzi rivela come al vigente codice civile sia estraneo un giudizio di riprovazione della simulazione, giudizio che, all’opposto, sembra ispirare alcune soluzioni giurisprudenziali. Così può dirsi per l’ingiustificata soluzione negativa del caso di cui sub b, prima che la Cassazione mutasse indirizzo come, per la corrispondente soluzione del caso di cui sub c. la prova che il prezzo effettivo era diverso da quello dichiarato vale ad escludere ogni pregiudizio per il legittimario come per la massa dei creditori consensuali, e rende del tutto ingiustificata l’applicazione estensiva delle norme in esame.
La prova che un contratto è simulato è una prova che l’art. 1417 rende molto rigorosa per le parti; più agevole per i terzi in genere, cui è concesso di darne prova per testi “senza limiti”. Le parti non possono dare prova per testimoni dell’accordo di simulazione tra esse intervenuto; i terzi possono, invece, provare la simulazione, oltre che per testimoni, per presunzioni. Anche le parti, tuttavia, possono provare per testimoni la simulazione quando il contratto dissimulato sia illecito, ossia un contratto con oggetto o causa o motivo illecito o in frode alla legge, o quando ricorra una delle eccezioni al divieto di prova testimoniale di cui all’art. 2724. Qui la più agevole prova della simulazione anche fra le parti è resa opportuna dall’esigenza di favorire la dichiarazione di nullità del contratto illecito o discende dalla presenza di uno dei presupposti richiesti dall’art. 2724. I successori delle parti si considerano terzi se sono succeduti a titolo particolare, sono sottoposti al medesimo onere probatorio delle parto se successori a titolo universale. Diverso è però il caso dei legittimati che impugnano per simulazione gli atti del de cuius, non potendo soddisfare sul relictum il loro diritto alla quota di riserva, e che vanno considerati quali terzi agli effetti della norma in esame. Più complesso problema si pone per il curatore fallimentare. In linea di principio si deve dire che egli è terzo per le azioni che nascono dal fallimento, come l’azione revocatoria, e per le quali agisce quale rappresentante della massa dei creditori, mentre è parte per le azioni o le eccezioni che trova nel patrimonio del fallito e per le quali agisce quale rappresentante o sostituti processuale di quest’ultimo, come quando agisce per il recupero di un credito del fallito. Le norme sulla simulazione, oltre che ai contratti, si applicano anche agli atti unilaterali che siano destinati a persona determinata (cioè agli atti unilaterali recettizi), se sono simulati per accordo fra il dichiarante ed il destinatario della dichiarazione (art. 1414). Così può essere simulata, ad esempio,
una promessa di pagamento (art. 1988) per accordo fra promittente e promissario. Non è, invece, possibile parlare di simulazione per gli atti unilaterali non recettizi, come la promessa al pubblico (art. 1989), mancando un destinatario determinato della dichiarazione, con il quale stabilire l’accordo di simulazione. L’eventuale controdichiarazione unilaterale (c.d. riserva mentale) non ha alcun valore giuridico, neppure se redatta per iscritto. La giurisprudenza applica le norme sulla simulazione anche agli atti unilaterali diversi dalle dichiarazioni di volontà: è il caso della c.d. ricevuta di comodo, che il debitore, pur non avendo pagato, si fa rilasciare dal creditore per ottenere un rimborso o per detrarre fiscalmente il relativo importo. Se poi, alla richiesta di pagamento, il debitore oppone al creditore la quietanza in suo possesso, il creditore farà valere l’accordo di simulazione ed otterrà, in giudizio, la dichiarazione d’inefficacia della simulata quietanza.
Si può parlare di quietanza simulata solo quando la quietanza sia emessa dal debitore sulla base di un accordo di simulazione con il debitore, precedente o contemporaneo all’emissione della quietanza. Non ogni quietanza rilasciata in contrasto con la realtà è quietanza simulata, soggetta al relativo regime probatorio. Se per errore di fatto il creditore dichiara di avere ricevuto il pagamento e dà in giudizio la prova per testi della non rispondenza al vero della propria dichiarazione e dell’errore in cui è incorso nel rilasciarla, non potrà il debitore eccepire che, a norma dell’art. 1417, non è ammessa la prova per testi della simulazione. Qui il creditore ha errato, non già simulato, nel rilasciare la quietanza, sicché la sua prova dell’errore non incontra limitazioni di sorta. Non si può invece ritenere, come è dato di leggere in una sentenza della Cassazione, che la confessione può essere resa inefficace solo per errore di fatto e per violenza, a norma dell’art. 2732, “per cui sono da ritenersi irrilevanti il dolo e la simulazione”. Perciò, chi ha emesso una ricevuta di comodo non potrebbe limitarsi a dare la prova dell’accordo di simulazione intervenuto con il debitore; dovrebbe, invece, affrontare la più difficile prova della non veridicità della sua dichiarazione, ossia del fatto negativo del mancato pagamento. Ma l’art. 2732 ammette, oltre che l’impugnazione per errore di fatto, che richiede la dimostrazione della non veridicità del fatto confessato, anche l’impugnazione per violenza, la quale prescinde dalla predetta dimostrazione. Non può perciò dirsi accolta dal codice civile la concezione della confessione qui postulata dalla Cassazione.
Il principio dell’apparenza giuridica
Si perpetua nella nostra dottrina il luogo comune secondo il quale la giurisprudenza farebbe costante applicazione di un generale principio dell’apparenza, concepito come clausola generale atta a proteggere l’affidamento altrui in una serie potenzialmente illimitata di casi. La tutela dell’affidamento suscitato dall’apparenza è sicuramente la ratio di singole norme: dell’art. 534 che protegge il terzo che, in buona fede, abbia a titolo oneroso acquistato diritti dall’erede apparente, dell’art. 1189, che libera il debitore che abbia pagato nelle mani del creditore apparente, degli artt. 1415 e 1416 che rendono in opponibile la simulazione a chi abbia in buona fede acquistato diritti dal titolare apparente ed ai creditori di questo. Un esame attento dell’enorme produzione giurisprudenziale in materia mette, tuttavia, in evidenza, due dati: la tendenziale tipizzazione delle fattispecie giurisprudenziali cui il principio dell’apparenza viene applicato, sostanzialmente circoscritte ai casi della società apparente, della procura apparente, della cessione d’azienda non pubblicizzata; la presenza di importanti sentenza del Supremo Collegio che respingono la generica
invocazione del principio generale in discorso adducendo che “la c.d. apparenza di diritto non integra un istituto a carattere generale con connotazioni definite e precise, ma, al contrario, opera nell’ambito dei singoli negozi giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi in ordine alla prevalenza dello schema apparente su quello reale”.
La precisazione è stata formulata con riferimento alla procura apparente. La Cassazione chiarisce che “l’apparenza colposa può assumere rilievo nel caso in cui si accerti un malizioso o negligente comportamento del rappresentato apparente tale da far presumere la volontà di conferire al procuratore i suddetti poteri”. L’apparente rappresentato è vincolato verso il terzo quando ha assunto un comportamento concludente dal quale si desume la tacita volontà di conferire una procura. Aggiunge il Supremo Collegio che la tutela dell’apparenza non opera quando sussista “una colpa inescusabile”, nel soggetto che versa in errore; colpa la quale sussiste sia qualora l’errore avrebbe potuto essere evitato mediante l’impiego della normale prudenza nella condotta degli affari, sia nell’ipotesi in cui il conferimento dei poteri rappresentativi debba assumere la forma scritta ad substatiam. Xxxxxx, con la prima precisazione siamo ancora sul terreno della valutazione di concludenza del comportamento dell’apparente rappresentato, non potendo dirsi concludente il comportamento che appaia tale solo agli occhi di chi lo esamini “colpa inescusabile”; la seconda precisazione fa (inavvertito) riferimento al ben noto principio per il quale la volontà non può essere tacitamente manifestata quando per la sua espressione sia richiesta la forma scritta. Questa seconda precisazione è la ratio decidendi della sentenza: la Cassazione ritiene “non invocabile la tutela dell’apparenza al fine di ritenere sussistente una procura a vendere un bene immobile”. Procura apparente altro non è, allora, se non procura tacita simulata. Che la procura possa essere tacita, quando non debba assumere la forma scritta, è fuori discussione, altrettanto incontrovertibile è che la procura, in quanto atto unilaterale, recettizio nei confronti del rappresentante, possa essere simulata per accordo fra il dichiarante ed il destinatario, a norma dell’art. 1414.
Di qui un’illazione: la tutela dell’apparenza altro non è se non l’inopponibilità della simulazione ai terzi di buona fede; la negata tutela, per l’ipotesi di procura a concludere un contratto immobiliare, altro non è se non nullità della procura per mancanza di forma, opponibile in quanto nullità a qualsiasi terzo, anche di buona fede. Come la procura apparente, così anche l’ipotesi della cessione d’azienda non pubblicizzata è riconducibile ai principi della simulazione. L’ipotesi è quella dell’imprenditore individuale che cede la propria azienda pur conservando la titolarità della licenza di commercio: ipotesi sulla quale viene costruita la massima secondo la quale, “in forza del principio della tutela dell’affidamento nell’apparenza del diritto, il terzo che abbia contrattato con il cessionario dell’azienda nel ragionevole convincimento, derivante da errore scusabile, di entrare in rapporto con il cedente, può pretendere l’adempimento degli obblighi contrattuali anche dal cedente quale obbligato solidale”. Tuttavia, fin dalle prime sentenze, il Supremo Xxxxxxxx ha tenuto a precisare che non basta il non colposo convincimento della coincidenza fra titolare attuale della licenza e imprenditore attuale. Esso ha aggiunto che “il terzo che intenda far dichiarare il titolare della licenza responsabile delle obbligazioni contratte verso di lui dal gestore dell’azienda deve provare con fatti concludenti di avere ragionevolmente ritenuto per particolari circostanze che il suo contraente non ha contrattato in proprio, bensì in rappresentanza della persona che risulta intestataria”. La Cassazione dà rilievo alla circostanza che il cessionario, presente nei locali dell’impresa, dichiarava al terzo fornitore di agire come factotum del cedente. Con il che riemerge, sotto le mentite spoglie della non codificata apparenza del diritto, la codicistica figura della
simulazione; in particolare, la preposizione institoria simulata: i comportamenti del cedente e del cessionario debbono essere univocamente interpretabili, agli occhi del terzo, come attuativi di una preposizione institoria.
Il linguaggio giurisprudenziale spesso impiega come sinonimi le locuzioni “società di fatto”, “società occulta” e “società apparente”. La prima attiene propriamente alla formazione del contratto di società: fuori dalle ipotesi del conferimento d’immobili in proprietà oppure in godimento ultranovennale o a tempo indeterminato, il contratto di società può formarsi anche oralmente e può, altresì, formarsi tacitamente, ossia desumersi dal comportamenti concludente delle parti. È quest’ultimo, appunto, il caso della c.d. società di fatto: due o più persone si comportano, in fatto, come soci senza che tra esse sia intervento alcun esplicito contratto di società. La società occulta, per contro, non può non essere, e normalmente non è, una società di fatto: il contratto di società occulta viene, di solito, stipulato per iscritto, solo che l’esistenza del contratto non viene esteriorizzata; una persona agisce, nei rapporti con i terzi, quale imprenditore individuale, e, tuttavia, egli ha uno o più soci, che restano occulti ai terzi. La mancata esteriorizzazione del rapporto sociale è, però, irrilevante: ai terzi è dato di provare che i debiti assunti, in nome proprio, dall’imprenditore apparentemente individuale sono, in realtà, debiti di una società della quale egli è l’amministratore, e d’invocare, conseguentemente, la responsabilità illimitata e solidale degli altri soci e la loro soggezione al fallimento. Dalla società occulta va tenuta distinta la società apparente: questa ricorre quando due o più persone, fra loro non legate da alcun contratto di società, si comportano in modo da ingenerare nei terzi l’opinione che esse agiscono come soci, e da indurle a fare affidamento sull’esistenza della società e sulla responsabilità solidale degli uni per le obbligazioni assunte dagli altri. Un simile comportamento potrebbe essere assunto solo come fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043, o di responsabilità precontrattuale ex art. 1398, di chi ha ingenerato nel terzo il falso convincimento dell’esistenza della società, ma la nostra prevalente giurisprudenza nega al socio apparente la possibilità di eccepire al terzo l’inesistenza della società, e lo assoggetta alle medesime conseguenze che sarebbero derivate dall’effettiva esistenza della società, compresa, nel caso di apparente società commerciale, la dichiarazione di fallimento della società e dei suoi apparento soci. In queste decisioni si parla dell’esteriorizzazione del rapporto sociale come condizione sufficiente, e non già come condizione necessaria, per l’assoggettabilità al fallimento: la società può essere dichiarata fallita anche se non esteriorizzata, ma se esteriorizzata, può essere dichiarata fallita anche se non esiste. I concetti di società occulta e di società apparente esigono ulteriori precisazioni. Società occulta non significa società segreta: la società resta occulta anche se i terzi sono a conoscenza della sua esistenza, resta occulta fino a che nei rapporti esterni agisce, con la spendita del proprio nome, un sedicente imprenditore individuale. Perciò, i segni rivelatori del rapporto sociale non trasformano una società occulta in una società palese. Essi sono, semmai, proprio i segni in forza dei quali può essere dai terzi provata, al di là di un’apparente impresa individuale, l’esistenza di un’impresa sociale. Simmetrica precisazione deve essere formulata per la società apparente. Questa non è la società riconoscibile dai terzi, sulla base del comportamento dei soci, ma è la società dichiarata dai soci negli atti posti in essere con i terzi, o comunque, nelle comunicazioni a terzi. C’è società apparente, secondo il tradizionale concetto che ha elaborato la giurisprudenza, solo quando c’è esteriorizzazione del rapporto sociale, quantunque inesistente nei rapporti interni, e l’esteriorizzazione del rapporto sociale è, per questa tradizionale giurisprudenza, la spendita del nome sociale. I contratti di società occulta e di società apparente sono logicamente contrapposti e
non ammettono sovrapposizioni: o la società è occulta, perché esistente quantunque non esteriorizzata, oppure è apparente, perché esteriorizzata quantunque non esistente.
Nella soggezione al fallimento della società e dei soci apparenti si è spesso ravvisato un equitativo principio di creazione giudiziaria, non giustificato da regole legislative. Un attento riesame della questione induce a disattendere questo diffuso giudizio; rivela che una ragione di stretto diritto sarebbe necessaria per escludere, non già per fondare, la responsabilità e la soggezione al fallimento della società e dei soci apparenti. La società apparente è, tecnicamente, una società simulata, retta dagli specifici principi della simulazione nei contratti. Come ogni contratto simulato il contratto di società apparente è voluto dalle parti contraenti, quanto meno tacitamente. Ma nulla esclude che il contratto simulato, quando non sia un contratto per il quale la legge esige la forma scritta, possa essere tacitamente concluso. Il punto è che le esigenze di protezione dei terzi che siano entrati in rapporti con la società simulata sono soddisfatte dai principi comuni di cui agli artt. 1415 e 1416. La simulazione è in opponibile da parte dei soci ai creditori sociali; può, tuttavia, essere fatta valere dai creditori particolari dei soci e, nel conflitto con i creditori chirografari della società, i primi sono preferiti se il loro credito è anteriore alla costituzione della società. Quest’ultima proposizione, tratta del II comma dell’art. 1416, comporta la conseguenza per la quale il creditore particolare del socio apparente, le cui ragioni di credito siano anteriori alla costituzione della società apparente, sarà preferito ai creditori sociali nella ripartizione dell’attivo del fallimento personale del socio non debitore. Il fenomeno della società apparente non è dissimile da quello che si manifesta quando un imprenditore occulto si avvale di un prestanome, sotto il cui nome l’impresa viene esercitata. In tal caso il prestanome assume la qualità d’imprenditore ed è assoggettabile al fallimento. La circostanza che egli sia imprenditore solo in apparenza è giudicata irrilevante; egli è l’imprenditore agli effetti dell’art. 1 legge fall., essendo il soggetto nel cui nome gli atti d’impresa vengono compiuti; egli è, ai sensi dell’art. 5 legge fall., l’imprenditore insolvente, avendo speso il proprio nome, e non quello dell’occulto preponente, nei rapporti con i terzi. Si può discutere se al fallimento sia sottoposto anche l’imprenditore occulto, ma nessuno nega che il prestanome fallisca, quantunque imprenditore solo apparente. Nel caso della società apparente c’è di diverso solo questo: un imprenditore tiene occulta ai terzi la propria qualità d’imprenditore individuale avvalendosi, quale apparente socio, di uno o più prestanomi. Xxxxxx, costoro o hanno speso il proprio nome quali soci oppure hanno consentito che altri lo spendesse. In entrambi i casi essi hanno posto in essere atti giuridici idonei ad obbligarli nei confronti dei terzi ad imputare a sé gli atti dell’impresa. L’imprenditore apparente non può opporre ai terzi – perché glielo impedisce l’art. 1705 – l’intero patto che lo lega all’imprenditore occulto e che fa del primo un semplice mandatario del secondo. Una regola analoga, ma non identica, impedisce ai soci apparenti di opporre ai terzi l’interno accordo di simulazione: regola non del tutto identica perché i soci apparenti possono sottrarsi all’azione del terzo di mala fede, ossia consapevole della simulazione; mentre all’imprenditore apparente non può giovare, perché lo esclude l’art. 1705, il fatto che il terzo avesse conoscenza del mandato. Ad essere simulato, nel caso della società, non già i singoli atti posti in essere in nome della società apparente. Questi vengono in considerazione quali atti di esecuzione del simulato contratto di società, quali comportamenti concludenti rivelatori del tacito contratto intervenuto fra gli apparenti soci. Perciò non basta il compimento sporadico di uno o più atti in nome della società, occorre una loro interazione, con la spedita del nome sociale nei confronti della generalità dei creditori, non di alcuni soltanto, al punto che la società si riveli notoria. Raggiunta la sicura prova della tacita
conclusione di un tale contratto, la società apparente ed i suoi soci saranno assoggettabili al fallimento. Tuttavia, ciascuno dei soci apparenti potrà, nel suo fallimento personale, contestare il credito del terzo in mala fede, allegando la prova della sua conoscenza dell’accordo di simulazione, ed altrettanto potranno fare i suoi creditori particolari. Diverso è però il caso di chi è sì apparente socio, ma è reale imprenditore, titolare di una dissimulata impresa individuale: a costui non potrà giovare la conoscenza della simulazione da parte del terzo; egli non potrà contestarne il credito né nel fallimento sociale, né nel proprio fallimento personale. Le norme sulla simulazione offrono, a questo modo, giusti criteri di contemperamento degli interessi dei creditori sociali e di quelli dei creditori particolari dei soci; e, se non evitano che del fallimento possano trarre profitto creditori che non avevano fatto affidamento sul patrimonio dei soci apparenti, impediscono però che possano trarne indebito vantaggio i terzi di mala fede, consapevoli della natura solo apparente della società e dei soci falliti.
CAP. 10°: LA RAPPRESENTANZA
Di norma le parti del contratto sono, al tempo stesso, le parti del rapporto giuridico patrimoniale da costituire, regolare od estinguere. Questa coincidenza fra le parti del rapporto e parti del contratto viene meno, in tutto o parzialmente, quando le prime utilizzano la figura della rappresentanza: un soggetto, il rappresentante, partecipa alla conclusione del contratto una propria dichiarazione di volontà; un altro soggetto, il rappresentato, subisce gli effetti giuridici della dichiarazione di volontà del rappresentante, acquistando i diritti e assumendo le obbligazioni che dal contratto derivano. L’art. 1387 indica due fonti della rappresentanza: il potere di rappresentanza può essere conferito dall’interessato (c.d. rappresentanza volontaria) oppure derivare dalla legge (c.d. rappresentanza legale, dei genitori rispetto ai figli minori o del tutore rispetto all’incapace affidato alla sua tutela). Nel primo caso il conferimento ad altri del potere di rappresentanza è manifestazione di autonomia del soggetto, nel secondo caso, invece, manca un atto di autonomia del rappresentato: qui un soggetto è posto, indipendentemente dalla sua volontà, in balia del suo legale rappresentante, che conclude contratti produttivi di effetti nei suoi confronti. Si ha, perciò, una situazione antitetica all’autonomia: si suole parlare, a questo riguardo, di eteronomia. Sulla distinzione tracciata dall’art. 1387 bisogna sovrapporne un’altra: la rappresentanza legale è specie di un più ampio genere, che è quello della rappresentanza necessaria. Vi rientra la rappresentanza legale degli incapaci, ma vi rientra anche la c.d. rappresentanza organica degli enti collettivi. In tutti i casi, il contratto concluso del rappresentante “produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato” (art. 1388): se il rappresentante dichiara di comperare o di vendere, compra o vende il rappresentato. Perché ciò accada è però necessaria una preliminare condizione: il rappresentante deve concludere il contratto “in nome del rappresentato”. Non basta che egli abbia agito per conto altrui; non basta che l’altro contraente sapesse che egli non contrattava nel proprio interesse, bensì nell’interesse di altra persona. Occorre la c.d. spendita del nome o, secondo il linguaggio tradizionale, la contemplatio domini: il contratto deve essere concluso in nome del rappresentato e, se si tratta di contratto scritto, deve essere formato con la menzione del suo nome. Se un soggetto agisce in nome proprio, quantunque per conto altrui, omettendo di spendere il nome di colui per conto del quale agisce, il contratto produrrà effetti nei suoi confronti: sarà lui ad acquistare i diritti e ad assumere le obbligazioni che
derivano dal contratto, e ciò anche se l’altro contraente sapeva che egli agiva non per conto proprio, ma per conto altrui, e sapeva per contro di chi agiva. Lo si desume dall’art. 1705, I comma.
Può però accadere che un soggetto sottoscriva il contratto con il solo proprio nome, senza ulteriore specificazione, ma in presenza di circostanze che non lasciano dubbi sul fatto che egli agisse in nome altrui: ad esempio, perché l’altrui procura, anche se non menzionata nel contratto, era stata a questo allegata. Si può configurare una contemplatio domini tacita? A questo interrogativo la giurisprudenza dà risposte uniformi: talora esige che la spendita del nome risulti dal contratto, talaltra ammette che possa risultare aliunde. La chiave di lettura della giurisprudenza in materia può essere questa: i giudici hanno disatteso l’eccezione del rappresentato, che per sottrarsi alle conseguenze del contratto concluso dal suo rappresentante faceva valere la mancata menzione del proprio nome, tutte le volte che una simile eccezione appariva, date le circostanze, un formalistico pretesto contrario alla buona fede. In linea di principio può dirsi che una spendita del nome tacita o presunta è sicuramente ammessa per i contratti verbali. La quotidiana contrattazione dei commessi di negozio prescinde da una formale spendita del nome dell’imprenditore. La tradizionale giustificazione, del resto, che si dà alla valida contrattazione dei minori dotati di capacità naturale d’intendere e di volere, considerati quali rappresentanti dell’esercente la potestà su di essi, si regge proprio sull’ammissibilità di una contemplatio domina presunta. Se tutto ciò è vero, sarà difficile sostenere che la spendita del nome altrui debba necessariamente essere espressa quando il contratto abbia forma scritta. Un punto, tuttavia, dovrà essere ben chiaro: i fatti concludenti o gli elementi presuntivi utilizzabili non potranno mai riferirsi alla mera altruità dell’interesse gestito, essendo perfettamente ammissibile contrattare in nome proprio per un interesse altrui. Dovranno riferirsi, invece, all’altruità del rapporto giuridico dedotto in contratto: essere tali, cioè, da indurre con sicurezza ad escludere che il contraente avesse inteso acquistare per sé i diritti o ad assumere su di sé le obbligazioni formanti materia del contratto.
L’effetto rappresentativo si attua solo se il rappresentante è investito del potere di rappresentanza. Nella rappresentanza legale questo potere più che derivare dalla legge è prerogativa inerente ad una qualità del rappresentante quella di genitore esercente la potestà, o è inerente all’ufficio di tutore del rappresentato. Nella rappresentanza organica, esso si ricollega ad una specifica funzione, quella di amministratore, che al soggetto è attribuita entro l’organizzazione collettiva. Nella rappresentanza volontaria, il potere rappresentativo talora inerisce al contenuto legale di uno specifico tipo contrattuale che lega il rappresentante al rappresentato, come nel caso della rappresentanza commerciale. Fuori da queste specifiche ipotesi, nelle quali il potere rappresentativo costituisce elemento di una più complessa posizione soggettiva, la rappresentanza trova la propria fonte in una tipica dichiarazione di volontà del rappresentato: la procura. Questa è un atto unilaterale, con il quale un soggetto investe un altro soggetto del potere di rappresentarlo, ed è un atto unilaterale recettizio nei confronti del rappresentante, non recettizio nei confronti dei terzi: sotto questo aspetto non può dirsi rivolto ad un destinatario determinato, ma a tutti coloro con i quali il rappresentante si troverà a contrattare in nome del rappresentato. La procura può essere speciale, ossia riguardare un singolo determinato affare, oppure generale, relativa ad una serie determinata di affari o relativa a tutti gli affari del rappresentato. Si ritiene generalmente che la procura generale non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono espressamente indicati nella procura, in analogia con quanto l’art. 1708, dispone per il mandato. Al pari del mandato, la procura può avere per oggetto, oltre che la conclusione di contratti, anche il compimento di altri “atti giuridici” (art. 1703), siano essi l’oggetto esclusivo della procura oppure
atti accessori al contratto da concludere (art. 1708). La procura deve avere la stessa forma del contratto o dell’atto giuridico da concludere (art. 1392). Quando non sia dalla legge richiesta la forma scritta per la validità o per la prova dell’atto da compiere, la procura può anche essere tacita, ossia desumersi dal comportamento concludente del rappresentato e del rappresentante nei loro interni rapporti e nei confronti dei terzi, e può essere tacita anche quando per l’atto da compiere siano state le parti, a norma dell’art. 1352, a richiedere la forma scritta.
Può accadere che qualcuno contratti come rappresentante altrui senza averne i poteri, può, ancora, accadere che qualcuno, pur investito di poteri rappresentativi, ecceda i limiti di questi poteri: si parla, in entrambi i casi, di falsus procurator. Il falso rappresentante ha agito in nome altrui: il contratto, perciò, non può produrre effetti nei suoi confronti. Tanto meno il contratto potrà produrre effetti nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito, non avendogli questa conferito il potere di rappresentanza (o avendogli conferito un potere minore di quello che il falso rappresentante si è arrogato). Si tratta, dunque, di contratto invalido (art. 1398) o, come si preferisce qualificarlo, inefficace per difetto di legittimazione del contraente, improduttivo di effetti nei confronti del dominus. Quest’inefficacia può essere fatta valere solo dal dominus o dai suoi eredi, esclusa l’azione del terzo contraente o di altri terzi interessati; né può essere rilevata d’ufficio dal giudice. La relativa azione, come ogni azione di accertamento, è imprescrittibile. La persona in nome della quale il falso procuratore ha contrattato o gli eredi di essa possono però ratificare il contratto (art. 1399), con una successiva dichiarazione unilaterale di volontà, la ratifica appunto, avente la stessa forma richiesta per la procura e diretta a sanare l’originario difetto di potere rappresentativo di chi ha contratto. La ratifica è atto unilaterale recettizio, produttivo di effetti in quanto portato a conoscenza del terzo contraente; può anche essere sollecitata dal terzo contraente (ma, nel silenzio dell’interessato, s’intende negata: art. 1399) e, se, dichiarata, ha effetto retroattivo: il contratto ratificato, cioè, diventa efficace dalla sua data, non da quella della ratifica, che dunque assume a posteriori lo stesso valore giuridico di un’originaria procura. Come la procura, così la ratifica può essere tacita. L’art. 1399, II comma, fa salvi i diritti dei terzi. Il che vale quanto a dire che la ratifica non produce effetti: nei confronti degli aventi causa del dominus, che abbiano da lui acquistato diritti in epoca successiva al contratto del falsus procurator e anteriore alla ratifica; nei confronti dei creditori che, nel medesimo periodo, abbiano compiuto atti di esecuzione sui beni del dominus.
È controverso se la norma valga:
c) nei confronti degli aventi causa del terzo contraente che, nel medesimo periodo, abbiano acquistato diritti da quest’ultimo e che, per effetto retroattivo della ratifica dell’acquisto del falsus procurator, verrebbero a trovarsi nella condizione di acquirenti a non domino. La questione, se mancano i presupposti di un acquisto a non domino mediante il possesso di buona fede, è in ogni caso risolto secondo il criterio dell’anteriorità dell’acquisto e della sua opponibilità all’acquirente successivo.
L’inefficacia del contratto protegge adeguatamente il soggetto il cui nome sia stato falsamente speso. Non altrettanto può dirsi del terzo contraente, il quale contava nell’efficacia del contratto (altrimenti non lo avrebbe concluso): l’inefficacia del contratto sacrifica il suo interesse. Il rischio d’imbattersi in un falso rappresentante è dalla legge addossato al terzo contraente, anziché al soggetto il cui nome sia stato falsamente speso. Il terzo contraente può solo rivolgersi al falso rappresentante e pretendere da questo il risarcimento dei danni per avere senza colpa confidato
nell’efficacia del contratto (art. 1398), ma deve avervi confidato senza colpa. La legge gli addossa l’onere, oltre che il diritto (art. 1393), di accertare l’esistenza e l’estensione dei poteri rappresentativi di colui con il quale contratta: se egli poteva, con l’uso dell’ordinaria diligenza, rendersi conto di contrattare con un falso rappresentante, non ha neppure diritto al risarcimento del danno. La responsabilità del falsus procurator s’inquadra nella più generale figura della responsabilità precontrattuale. Il danno risarcibile è, in questi casi, il c.d. interesse contrattuale negativo: questo non consiste nel guadagno che l’altro contraente sperava di ricavare dal contratto e che, per l’invalidità di questo, non ha ricavato; consiste nel danno subito a causa dell’infruttuosa contrattazione: una somma corrispondente alla diminuzione patrimoniale che il terzo contraente non avrebbe subito (danno emergente) e al vantaggio che il terzo contraente avrebbe ottenuto (lucro cessante) se non avesse contrattato con il falsus procurator. Sotto il primo aspetto vengono in considerazione le spese sostenute per la contrattazione, sotto il secondo aspetto assume rilievo il danno, c.d. danno delle occasioni perdute, che è derivato al terzo contraente dalla rinuncia ad altri vantaggiosi contratti. La ratifica dell’interessato esclude, di regola, la responsabilità del falsus procurator nei confronti del terzo contraente. Principi affatto diversi valgono in materia di cambiale e di assegno: chi appone la firma sulla cambiale o sull’assegno bancario quale rappresentante di una persona per la quale non ha il potere di agire è obbligato per la cambiale o per l’assegno “come se avesse firmato in proprio”, e la medesima norma vale per il rappresentante che abbia ecceduto dai poteri conferitigli. Il diverso principio per cui il falsus procurator anziché porre in essere un atto inefficace, obbliga se stesso s’incontra anche in recenti riforme societarie. Così il d.p.r. 30 del 1986, dopo avere vietato ai soci fondatori e agli amministratori di società per azioni di sottoscrivere azioni, in sede di costituzione della società o di aumento del capitale sociale, in nome della società, non fa seguire alla violazione del divieto la conseguenza di diritto comune dell’inefficacia della sottoscrizione, bensì la conseguenza per cui le azioni sottoscritte in nome della società s’intendono sottoscritte in proprio dai soci fondatori e dagli amministratori. I principi cambiari e societari sono entrambi principi “d’importazione”: il primo deriva dalla convenzione internazionale di diritto cambiario uniforme, il secondo è attuazione della seconda direttiva comunitaria di armonizzazione del diritto delle società. Il rappresentato può sempre revocare la procura e modificarne il contenuto. La revoca della procura o la sua modificazione è anch’essa, come la procura, un atto unilaterale, che il rappresentato ha però il difficile onere di portare a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Altrimenti il contratto concluso dall’ex rappresentante è efficace nei suoi confronti, salva solo la prova che il terzo era a conoscenza della revoca o della modificazione della procura al momento della conclusione del contratto (art. 1396). Qui la situazione è invertita rispetto all’ipotesi prima esaminata.
Il rappresentante deve contrattare “nell’interesse” del rappresentato (art. 1388): non può utilizzare il potere di rappresentanza che gli è stato conferito per realizzare, anziché quello del rappresentato, il proprio interesse (o l’interesse di un terzo). Il che può accadere quando il rappresentante concluda un contratto in una situazione di conflitto d’interessi con il rappresentato: quando l’interesse dell’uno e dell’altro, cioè, si trovino in concorrenza fra loro, e la realizzazione del primo comporti il sacrificio del secondo. Il contratto conclusa dal rappresentante in conflitto d’interessi con il rappresentato è annullabile su domanda del solo rappresentato (art. 1394), secondo le norme generali sull’annullabilità del contratto (il termine quinquennale di prescrizione decorre, secondo la regola generale dell’art. 1442, II comma, dalla data del contratto, non da quella della successiva scoperta de4l conflitto d’interessi). La situazione obiettiva di conflitto d’interessi è
da sola causa di annullabilità del contratto: basta, per ottenere l’annullamento, la prova dell’esistenza della situazione di conflitto in cui il rappresentante versava al momento della conclusione del contratto; non occorre l’ulteriore prova che il rappresentante ne abbia tratto effettivo profitto, realizzando il proprio e sacrificando l’interesse del rappresentato. La situazione di conflitto d’interessi deve però essere influente sul contenuto del contratto. Un limite di annullamento è posto nell’interesse del terzo contraente: il conflitto d’interessi doveva essere noto o riconoscibile da questo (art. 1394). Così, il contratto non potrà essere annullato se il rappresentante compratore era socio occulto della società venditrice, e partecipava a questa attraverso un prestanome. Ipotesi tipica di contratto concluso dal rappresentante in conflitto d’interessi con il rappresentato è quella del contratto che il rappresentante conclude con se stesso: ha, ad esempio, una procura per vendere e, giovandosi di questa, vende a se stesso. L’autorizzazione del rappresentato è, in linea di principio, sufficiente, non dovendosi, in presenza di essa, fornire l’ulteriore prova dell’impossibilità del conflitto d’interessi. Tuttavia, l’art. 1395 richiede un’autorizzazione “specifica”, al fine di evitare che il rappresentante abusi dell’autorizzazione ricevuta, contrattando con se stesso a condizioni di netto sfavore per il rappresentato. Questo requisito di specificità viene interpretato dalla giurisprudenza in modo rigoroso: l’autorizzazione, per essere valida, deve predeterminare il contenuto del contratto.
Il rappresentante agisce per procura del rappresentato, conclude contratti i cui effetti si producono non nei propri confronti, ma nei confronti del rappresentato. Ciò spiega perché la capacità legale di agire, richiesta per la conclusione del contratto, debba essere presente nel rappresentato: è questi, e non il rappresentante, che dispone dei propri diritti; questi, dunque, deve essere legalmente capace di disporre (art. 1389). Se la procura è stata conferita da persona legalmente incapace di agire, il contratto sarà annullabile, anche se concluso da un rappresentante pienamente capace. La stessa ragione spiega perché non sia necessaria la capacità legale di agire del rappresentante: questi non dispone dei propri diritti, ma dei diritti altrui, e il contratto è valido anche se il rappresentante è un minorenne, privo di capacità legale di agire. Basta, per la validità del contratto, la capacità naturale di agire, avuto riguardo al contenuto ed alla natura del contratto (art. 1389). Il rappresentante è investito dal rappresentato del potere di determinare, trattando con l’altro contraente, il contenuto del contratto da concludere. Se la procura non pone limiti, questo potere comprende ogni elemento del contratto: scelta della persona dell’altro contraente, determinazione dell’oggetto del contratto, del corrispettivo contrattuale e cos’ via. Il rappresentante dichiara, in nome altrui, la propria volontà, e ciò produce una conseguenza: i vizi del consenso renderanno annullabile il contratto solo se sono vizi della volontà del rappresentante (art. 1390). Ugualmente, gli stati soggettivi, come lo stato di buona o di mala fede, di conoscenza o di riconoscibilità di circostanze rilevanti, debbono essere considerati con riguardo alla persona del rappresentante (art. 1391). Ma può accadere che alcuni degli elementi del contratto siano predeterminati nella procura. In questo caso a determinare il contenuto del contratto concorrono la volontà del rappresentato (per gli elementi da questo predeterminati) e la volontà del rappresentante. Il rappresentante, perciò, dichiara una volontà solo in parte sua, e da ciò deriva una specifica conseguenza: i vizi del consenso, che riguardino elementi del contratto predeterminati dal rappresentato renderanno annullabile il contratto solo se risulta viziata la volontà del rappresentato (art. 1390); altrettanto vale per gli stati soggettivi. Può, infine, accadere che tutti gli elementi del contratto da concludere siano stati predeterminati dal rappresentato, e che il rappresentante si limiti a dichiarare una volontà in tutto e per tutto altrui. In quest’ultimo caso siamo fuori dal campo della rappresentanza vera e propria;
siamo, piuttosto, in quello della c.d. ambasceria o nunciatio. Chi agisce in nome altrui è qui semplice portavoce della volontà di un altro soggetto; è, secondo un’altra espressione, un messo o, con espressione tradizionale, un nuncius, incaricato di dichiarare la volontà altrui. In questo caso i vizi della volontà e gli stati soggettivi che vengono in considerazione sono sempre e soltanto quelli del rappresentato. È però rilevante l’errore ostativo del portavoce, in quanto errore nella dichiarazione: se questi sbaglia nel dichiarare la volontà del rappresentato, il contratto è annullabile, sempre che l’errore, s’intende, sia riconoscibile dall’altro contraente (art. 1433). Diversa da quella del portavoce è la figura della persona o dell’ufficio incaricato solo di trasmettere la dichiarazione; il portavoce è, pur sempre, parte del contratto, emette in nome altrui una propria dichiarazione, anche se con essa dichiara una volontà in tutto altrui. L’altra non partecipa al contratto: è solo lo strumento mediante il quale una delle parti trasmette all’altra la propria dichiarazione e, perciò, conclude essa stessa il contratto.
La procura è l’atto mediante il quale il rappresentato investe il rappresentante del potere di agire in suo nome. Essa è atto unilaterale del rappresentato, in forza del quale il rappresentante si legittima come tale di fronte ai terzi. Non riguarda l’interno rapporto fra il rappresentato ed il rappresentante: questo interno rapporto è regolato da un contratto, dal quale nasce l’obbligazione del rappresentante di agire in nome e nell’interesse del rappresentato. Fonte di questa obbligazione può essere un contratto di lavoro, un contratto d’agenzia, può essere, infine, un contratto di mandato. Questa è l’ipotesi di portata generale: quando l’interno rapporto in base al quale un soggetto riceve una procura da un altro soggetto non è altrimenti qualificabile, si dovrà concludere di essere in presenza di un mandato, ossia del contratto con il quale un soggetto, il mandatario, si obbliga nei confronti di un altro, il mandante, a compiere uno o più atti giuridici per conto di questo (art. 1703). Xxxxxxx e procura svolgono funzioni diverse: in forza del mandato, che può essere mandato espresso oppure tacito, il mandatario è obbligato ad agire per conto del mandante, e questi, a sua volta, è obbligato a corrispondergli il compenso; in virtù della procura, il mandatario è altresì legittimato ad agire, di fronte ai terzi, in nome del mandante (art. 1704). E però possibile che un soggetto conferisca ad un altro un mandato, e non anche una procura, secondo il modello del mandato senza rappresentanza. In questo caso, il mandatario agirà per conto del mandante, ma in nome proprio, con la conseguenza che lui, e non il mandante, acquisterà i diritti ed assumerà le obbligazioni derivanti dal contratto concluso con il terzo (art. 1705). L’interno contratto di mandato, che lo lega al mandante, con un nuovo contratto, i diritti che ha acquistato; ed ha il diritto di essere rimborsato dal mandante per quanto, essendosi obbligato in proprio nome, ha dovuto pagare al terzo contraente. Del mandato senza rappresentanza si suole parlare anche come di rappresentanza indiretta, alludendo al fatto che, indirettamente, si perviene ad un risultato corrispondente a quello della rappresentanza. Si parla d’interposizione reale di persona per distinguere questa ipotesi da quella della simulazione per interposizione fittizia di persona. L’interposizione è qui reale perché il mandatario senza rappresentanza è un reale contraente e non, come nell’interposizione fittizia, un contraente simulato. In entrambi i casi, tuttavia, si crea un’interposizione: un soggetto (il mandante o il contraente interponente) frappone tra sé ed i terzi un altro soggetto (il mandatario senza rappresentanza o il contraente interposto); e lo scopo è, spesso, lo stesso: il mandante si avvale del mandatario senza rappresentanza come prestanome, per lo svolgimento di attività che, per legge o per contratto, gli sono vietate, oppure è un imprenditore occulto. Il terzo contraente non può, in nessun caso, agire nei confronti del mandante e pretendere da lui l’adempimento del contratto concluso dal mandatario senza rappresentanza,
neppure se ha “avuto conoscenza del mandato” (art. 1705). L’interesse del mandante è, invece, intensamente protetto. Per le cose mobili acquistate dal mandatario senza rappresentanza non occorre neppure un contratto di ritrasferimento: il mandante può direttamente rivendicarle come proprie anche nei confronti dei terzi, salvi naturalmente i diritti del terzo possessore di buona fede (art. 1706). Al mandante è, inoltre, concesso di esigere direttamente i crediti derivanti dal contratto concluso dal mandatario senza rappresentanza (art. 1705). Il diritto del mandante sui beni mobili acquistati per suo conto dal mandatario senza rappresentanza è, infine, protetto contro le pretese dei creditori del mandatario, i quali non possono agire su di essi, se il mandato risulta da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento (art. 1707). Le norme degli artt. 1705 e 1706, si presentano come il prodotto della combinazione dei principi sul mandato senza rappresentanza con il principio consensualistico, codificato all’art. 1376. Gli uni comportano che il mandante non può esercitare i diritti che derivano dal contratto concluso, in proprio nome, dal mandatario. L’altro principio permette, tuttavia, allo stesso contratto di mandato di produrre l’effetto traslativo, dal mandatario al mandante, dei diritti che il primo ha acquistato per conto del secondo: un effetto che è ritardato ad un momento successivo all’espressione del consenso contrattuale, ma che, quando è in grado di prodursi. Perciò le azioni ex contractu spettano al mandatario, ed a lui soltanto; le azioni ex re spettano al mandante, come appunto l’azione di rivendica. Se altrettanto non accade nel mandato ad acquistare beni immobili o beni mobili registrati, ciò è per la contraddizione nella quale incorrerebbe un mandato senza rappresentanza sottoposto all’onere della pubblicità: esso perderebbe la sua ragion d’essere, che sta nella segretezza dell’incarico, se dovesse procedersi alla sua trascrizione nei pubblici registri. Per gli immobili registrati non vale neppure la segnalata norma che, all’art. 1707, sottrae le cose mobili all’azione esecutiva dei creditori del mandatario: se per le cose mobili la norma si spiega per la considerazione che esse non sono nel patrimonio del mandatario, per gli immobili e mobili registrati è coerente l’ulteriore norma dell’art. 1707, che sottrae le cose all’azione de creditori del mandatario solo per l’epoca successiva alla trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della relativa domanda giudiziale. Non solo la procura è un atto (unilaterale) distinto dal (contratto di) mandato; la diversa funzione dell’una e dell’altro fa si che possa configurarsi, oltre che un mandato senza procura, anche una procura senza mandato. Le condizioni di validità della procura sono diverse da quelle del mandato: così, è annullabile il mandato conferito ad un minore, secondo i principi generali sui contratti, se in suo nome non lo aveva concluso il suo legale rappresentante; ma l’annullamento del mandato per incapacità di uno dei contraenti non pregiudica la validità della procura, se il minore aveva la capacità naturale d’intendere e di volere, e non fa del rappresentante un falsus procurator. Il difetto di (valido) mandato produce queste conseguenze: il rappresentante ha, in forza della procura, il potere di agire in nome del rappresentato, ma, in mancanza di un sottostante rapporto di mandato, non sarà obbligato ad agire per il rappresentato, non risponderà per inadempimento se omette di agire né, se agisce, avrà diritto al compenso.
La rappresentanza organica
Il concetto di organo trae la propria origine dall’ottocentesca concezione organica della persona giuridica, quale entità sociale che, a somiglianza dell’uomo, forma una propria volontà (entro l’assemblea) e la porta ad esecuzione (mediante gli amministratori). L’uso di questo concetto,
entrato anche nel linguaggio legislativo, prescinde ormai da ogni adesione alla teoria organica: indica, semplicemente, coloro che hanno il potere di compiere atti giuridici vincolati per un’organizzazione collettiva, siano essi atti interni, come le deliberazioni assembleari, oppure atti esterni, come i contratti conclusi dagli amministratori. Al rapporto definito, in contrapposizione con la rappresentanza, come rapporto “organico” si è tradizionalmente attribuita la virtù di “rendere alieno l’atto rispetto al suo autore” permettendo che l’atto sia attribuito ad un soggetto diverso; esso ha consentito l’imputazione, all’ente collettivo, di tutti “in genere i comportamenti giuridicamente rilevanti, leciti ed illeciti, esterni ed interni, e persino i fatti di coscienza, come la buona fede”; e, perciò “oltre i confini in cui il nostro diritto positivo riconosce operante il fenomeno della rappresentanza”. L’individuazione di questo concetto ha assolto, nella ricostruzione del più ampio concetto di persona giuridica, una funzione di grande importanza: ha rimosso tutta una serie di “immunità” delle quali le persone giuridiche avevano goduto per il passato. Ma al concetto di “organo” si era, al tempo stesso, fatto ricorso per giustificare una nuova “immunità”: esso implicava “l’alienità” dell’illecito rispetto al suo autore e, per ciò stesso, rendeva quest’ultimo personalmente irresponsabile nei confronti del danneggiato. Quest’ultima “immunità” è stata eliminata dal diritto positivo. Per le società di capitali l’art. 2395 stabilisce che le disposizioni dei precedenti articoli, relativi alla responsabilità degli amministratori verso la società e verso i creditori sociali, “non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori”. La disposizione si applica agli illeciti commessi dagli amministratori nell’esercizio delle loro funzioni: l’articolo successivo l’estende ai direttori generali, che sono dipendenti dalla società. Gli artt. 2395 e 2396 sono formulati riguardo alle società: essi non tardano, tuttavia, a rivelarsi espressione di più generali principi, destinati ad operare in ogni ente collettivo. La norma dell’art. 2395 ha indotto taluno ed escludere la qualità di “organi” degli amministratori: se costoro rispondono direttamente verso il danneggiato, ciò significa che l’atto illecito non può dirsi “alieno” rispetto al suo autore e che costui, pertanto, non è legislativamente considerato quale “organo” della persona giuridica. La disciplina legislativa, che espone a responsabilità diretta l’autore dell’illecito, ha richiamato il concetto di rappresentante: si è concluso che gli amministratori sono rappresentanti della persona giuridica, mentre la concorrente responsabilità di quest’ultima è stata qualificata come “responsabilità indiretta”, ossia come responsabilità ex art. 2049. La conclusione desta notevoli perplessità: l’art. 2049, relativo alla responsabilità di “padroni e committenti”, può spiegare perché la persona giuridica, sebbene agente per mezzi di rappresentanti, sia responsabile per l’illecito degli amministratori; essa esaurisce, tuttavia, la propria sfera di applicazione nel campo della responsabilità, c.d. indiretta, per il fatto illecito dei “commessi”. Altri comportamenti degli amministratori sarebbero, invece, improduttivi di effetti per la persona giuridica: questa non subirebbe gli effetti degli stati soggettivi degli amministratori, quali la mala fede o l’ignoranza, verserebbe in una situazione di “incapacità” rispetto agli atti, i c.d. “atti personalissimi”, che non possono essere posti in essere per mezzo dei rappresentati. L’inaccettabilità delle conseguenze induce a rivedere le premesse del ragionamento: una di queste risiede nella considerazione che, se gli amministratori fossero “organi”, l’illecito commesso sarebbe ad essi “alieno”; essi non ne sarebbero, giuridicamente, gli autori e non potrebbero, pertanto, essere chiamati a risponderne. Una seconda premessa attiene al modo di concepire la responsabilità civile: si ragiona sul presupposto che debba, in linea di principio, rispondere del danno chi possa esserne definito come l’autore, e che solo in via di eccezione gli artt. 2047 ss. xxxxxxxxx, in modo tassativo, le ipotesi in cui risponde altri che non l’autore del danno. Sarebbe,
perciò, conforme ai principi la responsabilità della persona giuridica per l’illecito del suo “organo”, ma contraria agli stessi principi la responsabilità personale dell’organo, il quale non è l’autore dell’illecito, né occupa posizione corrispondente a quella dei soggetti, diversi dall’autore dell’illecito, che sono dichiarati responsabili dagli artt. 2047 ss. Sarebbe, ancora, conforme ai principi la responsabilità personale degli amministratori, se concepiti quali rappresentanti e, perciò, quali autori, giuridicamente, del fatto dannoso; e conforme ai principi, da questo punto di vista, anche la concorrente responsabilità della persona giuridica, dal momento che questa, sebbene soggetto diverso dall’autore del danno, occupa la medesima posizione di quei soggetti, non autori del danno, che sono dichiarati responsabili dall’art. 2049. Si postula, insomma, la persistenza, nell’ordinamento vigente, di un sistema “chiuso” della responsabilità civile, fondato sulla tipizzazione d’ipotesi definite. Ma il vigente sistema della responsabilità civile è, tutto all’opposto, un sistema aperto: gli artt. 2047 ss. indicano alcuni, ma non tutti, i possibili criteri di collegamento di un fatto dannoso ad un soggetto chiamato a risponderne. Ciò che si è detto per la società di capitali vale anche per le società di persone, come è reso palese da una norma significativa: nel regolare la restituzione ai soci dei beni conferiti in godimento, l’art. 2281 dispone che, “se i beni sono periti o deteriorati per causa imputabile agli amministratori, i soci hanno diritto al risarcimento del danno a carico del patrimonio sociale, salva l’azione contro gli amministratori”. Non c’è dubbio che il diritto del socio al risarcimento del danno sia un diritto che al socio compete nella qualità di proprietario della cosa conferita in godimento, e cioè come “terzo”; è indubbio, pertanto, che questa norma presuppone la responsabilità della società per gli illeciti commessi dagli amministratori. La norma fa, inoltre, “salva l’azione contro gli amministratori”: essa mostra, in tal modo, che la materia non è diversamente regolata nelle società con e nelle società senza personalità giuridica; rivela che, nel sistema vigente, il concetto di organo è ormai disancorato da quello di persona giuridica e vale per ogni organizzazione collettiva con attività esterna, anche se non elevata al rango di persona giuridica. Si può dire, in conclusione, che il concetto di rappresentanza organica ha in parte perduto e in parte conservato la sua valenza originaria: ha perduto quel suo carattere che rendeva il fatto o l’atto dell’organo “alieno” rispetto all’autore, ha, tuttavia, conservato quell’ulteriore carattere originario che consente l’imputazione all’ente, oltre che degli atti giuridici, anche dei fatti illeciti e, in generale, dei fatti giuridici posti in essere dall’organo nell’esercizio delle sue funzioni: che consente, inoltre, l’imputazione all’ente anche degli stati soggettivi, di buona o di mala fede, di scienza o d’ignoranza, come la buona e la mala fede rilevante agli effetti dell’acquisto a non domino delle cose mobili (art. 1153), come lo stato di scienza o d’ignoranza rilevante agli effetti dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901) o fallimentare. Per altri aspetti può dirsi che la rappresentanza organica ha guadagnato ulteriore terreno rispetto al passato: un tempo si riteneva che il dolo dell’organo, in particolare del pubblico dipendente, interrompesse il rapporto organico; oggi, per contro, si afferma che all’ente sono riferibili anche i fatti dolosi dei propri organi, sempre che posti in essere nell’ambito delle loro attribuzioni e per realizzare i fini dell’ente. La norma dell’art. 1388 vale, per regola generale, anche per i contratti conclusi all’organo: l’ente ne resta vincolato solo se l’organo abbia agito in suo nome, salva la possibilità di ammettere, in rapporto alle circostanze, una contemplatio domini tacita oppure presunta. La regola trova, tuttavia, una rilevante eccezione nelle società di persone, in forza dell’interpretazione estensiva che la nostra giurisprudenza dà all’art. 147. Secondo un naturale negotii del contratto di società di persone ciascun socio è, disgiuntamente dagli altri, amministratore della società (art. 2257) e ciascun socio amministratore è, in quanto tale, rappresentante della società (art. 2266). Il potere rappresentativo ha, dunque, la propria fonte nel
contratto di società: un’apposita clausola è necessaria non per fondare, ma per escludere il potere del socio di amministrare la società o il suo potere di rappresentarla. Xxxxxx, perché un socio obblighi la società è, di conseguenza, gli altri soci illimitatamente responsabili non è affatto necessario che egli spenda il nome della società. Xxx può il socio agire in nome proprio: egli ugualmente obbligherà la società e gli altri soci, se i creditori potranno provare che il loro contraente è socio di una società commerciale di persone e che egli non ha agito nel (solo) proprio interesse, ma nell’interesse della società. A tanto la giurisprudenza arriva applicando estensivamente l’art. 147, II comma, legge fall., che prevede testualmente l’estensione del fallimento ai soci occulti di società palese. Alla base di questa giurisprudenza operano due premesse incontestabili: il potere rappresentativo del socio non deriva, nella società di persone, da un apposito atto, bensì è inerente al contenuto legale dello stesso contratto di società, come emerge dai citati artt. 2257 e 2266; perché l’effetto rappresentativo si verifichi non occorre, nelle società di persone, la contemplatio domini: se in una società di tre soci, uno dei quali occulto, questo fallisce quantunque il suo nome non sia stato speso, si dovrà concludere che fallisce anche il socio occulto di una società di due soci, non potendosi ammettere che la conclusione debba mutare per il solo fatto che i soci siano due anziché tre.
Per provare la responsabilità della società occulta e dei suoi soci è, dunque, sufficiente dare la prova dell’esistenza del rapporto sociale: si è, con ciò stesso, data la prova del potere rappresentativo di colui che ha agito come apparente imprenditore individuale.
CAP. 11°: L’INTERPRETAZIONE E LA QUALIFICAZIONE
Criteri soggettivi ed oggettivi di interpretazione del contratto
Il contratto, quando non è un contratto tacito, è fatto di parole, scritte in un documento (contratto scritto) o dette a voce (contratto verbale), ed il senso delle parole può dare luogo a controversie. Di qui l’opportunità di criteri di legge per l’interpretazione del contratto: sono criteri che vincolano le parti, allorché dal testo contrattuale desumono i diritti loro spettanti o le obbligazioni loro derivanti; e sono, soprattutto, criteri dei quali si avvale il giudice, allorché è controversa fra le parti l’interpretazione del contratto dedotto in un giudizio. I criteri d’interpretazione enunciati dalla legge sono di duplice ordine: alcuni, detti criteri d’interpretazione soggettiva, si basano sulla ricerca della comune intenzione delle parti 8artt. 1362-65); altri, detti d’interpretazione oggettiva, si rifanno al concetto di buona fede contrattuale o ad altri oggettivi elementi non riconducibili all’intenzione delle parti (artt. 1366-70). Il primo ordine di criteri muove dal principio fissati dall’art. 1362, I comma. La norma enuncia due concetti: il senso letterale delle parole, al quale non ci si deve limitare e la comune intenzione delle parti, che si deve ricercare al di là del senso letterale delle parole. Ma anche le norme sull’interpretazione sono, a loro volta, oggetto d’interpretazione; e l’interpretazione che la Cassazione dà dell’art. 1362 è tutt’altro che univoca. Coesistono, anzitutto, due orientamenti generali:
a)l’orientamento secondo il quale il senso letterale delle parole è criterio “fondamentale e prioritario”, con la conseguenza che, “ove le espressioni usate nel contratto siano di chiara ed in equivoca significazione, la ricerca della comune volontà è esclusa”;
b)l’orientamento secondo il quale il giudice “non può mai prescindere dalla ricerca della comune intenzione delle parti, rispetto alla quale il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone come il primo degli strumenti d’interpretazione”. Secondo questo orientamento, la ricerca della comune intenzione delle parti può dirsi “conclusa”, ma non “esclusa”, quando le espressioni usate siano di chiara ed univoca significazione.
L’orientamento sub a si rifà all’antico brocardo “in claris non fit interpretatio”, ma è tutt’altro che coerente con l’art. 1362, che esorta a non limitarsi al senso letterale delle parole. Le parole, prese a sé, possono tradire l’intenzione dei contraenti. Come scoprire, al di là delle parole, la reale intenzione delle parti? La legge fornisce alcuni criteri: un primo criterio, di carattere storico, è quello secondo il quale occorre valutare il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, II comma). In virtù del criterio storico può venire in considerazione, quale comportamento anteriore, la corrispondenza intercorsa fra le parti durante le trattative o, se si tratta d’interpretare un contratto definitivo, si possono trarre lumi dal contratto preliminare, quantunque il primo resti l’unica fonte di diritti ed obbligazioni fra le parti. Quale comportamento posteriore può assumere rilievo il comportamento delle parti in sede di esecuzione del contratto: se esse hanno costantemente attribuito, in sede d’esecuzione, un dato significato al contratto, non potrà una parte successivamente insorgere pretendendo che le parole del contratto vadano diversamente interpretate. Ma a questo riguardo si delinea un ulteriore contrasto negli ordinamenti della Cassazione:
c) solidale con l’orientamento sub b è l’indirizzo che qualifica il criterio basato sul comportamento posteriore delle parti come “criterio concorrente e non sussidiario rispetto al tenore letterale della convenzione menzionato al I comma dello stesso articolo, atteso che un testo apparentemente chiaro non può esserlo più di fronte al comportamento diverso dei contraenti che hanno inteso concretamente il loro rapporto in altro senso”.
Altri tre criteri d’interpretazione soggettiva hanno carattere logico. Per l’art. 1363 occorre interpretare le singole clausole le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso dell’atto: a questo modo l’intenzione delle parti viene ricostruita considerando il contratto nel suo insieme, e il significato letterale di una clausola può apparire contrario all’intenzione delle parti se la clausola viene intesa alla luce dell’intero regolamento contrattuale. Per l’art. 1364 le espressioni usate, per quanto generali, non comprendono che gli oggetti sui quali si sono proposte di contrattare; l’art. 1365, infine, adotta simmetrico criterio per le espressioni esemplificative, in quanto tali non preclusive dell’applicazione delle clausole che le utilizzano ad altri casi, “secondo ragione”. Un generale criterio d’interpretazione oggettiva è quello secondo il quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede (art. 1366): esso impone di dare al contratto il significato che gli attribuirebbero contraenti corretti e leali, anche se in concreto entrambe o una delle parti del contratto da interpretare non lo sono affatto. Il più delle volte l’interpretazione secondo buona fede serve proprio per vincere l’atteggiamento cavilloso della parte che invoca, a proprio vantaggio, ciò che il contratto testualmente dice o testualmente non dice. Altri criteri oggettivi, che prescindono dall’intenzione delle parti, valgono per le clausole ambigue, ossia per le clausole contrattuali alle quali si possono attribuire più sensi. Significativa è la norma dell’art. 1369: le espressioni che possono avere più sensi debbono, nel dubbio, “essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”, ossia dando rilievo all’oggettiva funzione economico sociale di quel dato tipo contrattuale e all’oggettiva destinazione
economica del bene dedotto in contratto. Vale, ancora, il principio di conservazione del contratto: la clausola s’interpreta nel senso in cui è valida o è efficace, anziché in quello per il quale sarebbe invalida o inefficace (art. 1367). Xxxxxxx, inoltre, i c.d. usi interpretativi, che non sono usi in senso tecnico (art. 8 prel.), ma pratiche contrattuali: la clausola ambigua s’interpreta secondo ciò che generalmente si pratica nel luogo in cui il contratto è stato concluso (art. 1368). Una regola diversa vale per l’ipotesi in cui una delle parti sia un imprenditore: il II comma dell’art. 1368 dispone, in deroga al primo, che “nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa”; luogo che può essere diverso da quello in cui il contratto è stato concluso. La norma assolve, in sede d’interpretazione del contratto, una funzione corrispondente a quella assolta, in sede di determinazione del regolamento contrattuale, dell’art. 1341: essa assicura all’imprenditore un’uniformità d’interpretazione dei contratti sa lui stipulati in luoghi diversi e soddisfa l’esigenza propria di un sistema di produzione o di distribuzione di massa, di un’attività contrattuale condotta secondo schemi uniformi. S’intende poi che, se entrambe le parti del contratto siano imprenditori, si applicherà il I comma: ciò rende evidente come la norma del II comma dia destinata a regolare i rapporti fra imprenditori e consumatori o utenti. Ancora: le clausole che pongono condizioni generali di contratto s’interpretano, nel dubbio, contro l’autore della clausola, ossia nel senso più favorevole all’altro contraente (art. 1370), che è il contraente più debole. Il concetto è stato reso esplicito dall’art. 35 del Codice del consumo, con riferimento ai contratti fra professionista e consumatore. Infine, se il contratto rimane ancora oscuro, si applicano questi estremi criteri: il contratto a titolo oneroso s’interpreta nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, ossia il migliore equilibrio possibile tra prestazione e controprestazione; il contratto a titolo gratuito s’interpreta nel senso meno gravoso per il contraente obbligato (art. 1371). Qui il favore per il debitore prende il posto, trattandosi di atti gratuiti, del più generale favore del creditore. In quale rapporto i criteri d’interpretazione oggettiva si pongono rispetto ai criteri d’interpretazione soggettiva? Nel rispondere a questo interrogativo la più antica giurisprudenza della Cassazione si mostrava sensibile ad un’esigenza di massimo rispetto della volontà delle parti; timorosa che il giudice di merito “venga a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti”: essa attribuiva a tutti i criteri interpretativi di cui agli artt. 1366-70 carattere sussidiario rispetto ai criteri basati sulla ricerca della comune intenzione delle parti. Il che non sembra controvertibile per i canoni interpretativi di cui agli artt. 1367-70, ciascuno dei quali è legislativamente formulato per l’ipotesi di “dubbio “ o di “ambiguità” o di “oscurità” del contenuto contrattuale; mentre è da respingere per il canone dell’interpretazione secondo buona fede, e non solo perché l’art. 1366 non subordina affatto l’applicazione di questo criterio alla sussistenza di dubbi o ambiguità o oscurità. Vale, soprattutto, la considerazione che il dovere di buona fede, come viola le parti nella formazione e nell’esecuzione del contratto, così non può non vincolarle in sede d’interpretazione del contratto. In questo senso ha finito con il pronunciarsi la più recente giurisprudenza della Cassazione, facendo del canone della buona fede nell’interpretazione del contratto un criterio d’interpretazione correttiva del testo contrattuale, e ciò “anche quando l’interpretazione delle clausole che concorrono alla formazione del testo negoziale, compiuta sulla base del senso letterale delle parole, conduca a risultati di certezza”.
Qualificazione del contratto
La qualificazione è l’operazione mirante ad identificare l’astratto tipo contrattuale cui sussumere il concreto contratto, in vista dell’assoggettamento del secondo alla disciplina particolare del primo. La Cassazione suole scomporre l’operazione in due fasi, “l’una consistente nell’individuazione della comune intenzione delle parti, l’altra concernente l’inquadramento, della fattispecie nello schema legale corrispondente”. Questa seconda fase viene ulteriormente scomposta in “descrizione del modello della fattispecie giuridica” e giudizio sulla “rilevanza giuridica qualificante degli elementi di fatto in concreto accertati”. Il tutto per concludere che solo la prima fase è di pertinenza esclusiva del giudice di merito, mentre la seconda è suscettibile di riesame in sede di legittimità anche per ciò che attiene alla “rilevanza giuridica qualificante”. Un problema di qualificazione sorge in molteplici ordini di casi: anzitutto quando nessun nomen iuris è fornito dalle parti, come nel caso del contratto tacito. Un problema di qualificazione sorge, in secondo luogo, quando c’è uno scarto fra il nomen iuris dato dalle parti al contratto e l’effettivo contenuto di questo: le parti, ad esempio, hanno scritto di volere l’una “vendere” e l’altra “comperare” l’edificio che sarà costruito dalla seconda, ma la seconda risulta obbligata verso la prima ad eseguire la costruzione. Maggiore gravità il problema di qualificazione presenta quando il concreto contratto oppone resistenza alla sua riconduzione ad un dato tipo legale: o per la presenza in esso di elementi estranei alla fattispecie del tipo legale o per la contemporanea presenza di elementi caratterizzanti più tipi legali. In questo ordine di casi l’operazione di qualificazione del contratto concreto può condurre ad esiti clamorosi, addirittura drammatici. Una società a responsabilità limitata, con clausola statutaria che prevedeva un’illimitata partecipazione dei soci alle perdite della società, è stata qualificata come società in nome collettivo, con soci esposti a responsabilità illimitata nei confronti dei terzi. Analoghi esiti drammatici l’operazione di qualificazione può avere nel caso delle società di comodo. Sempre in questo ordine di casi l’operazione di qualificazione ammette una soluzione ulteriore rispetto alla scelta di uno tra i diversi tipi contrattuali aventi una disciplina particolare: ammette, a norma dell’art. 1322, la qualificazione del contratto come contratto atipico. È però un fatto che il codice civile, mentre pone le condizioni di validità dei contratti atipici, che debbono essere “diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, non offre criteri per la loro disciplina. Ad essi sono certamente applicabili le norme sui contratti in generale (art. 1323), ma è altrettanto certo che queste non possono da sole soddisfare le esigenze di disciplina normativa del contratto atipico. Ciò fa comprendere perché la nostra giurisprudenza abbia imboccato una drastica, ma non condivisibile, strada, che l’ha condotta ad approdare a questo duplice principio:
a) ”la qualificazione di un contratto nominato non è alterata dalla presenza di elementi estranei a quello che caratterizzano lo schema tipico, ove gli stessi rimangono preminenti, con la conseguenza che per la sua regolazione occorre far capo alla disciplina dello schema negoziale prevalente”;
b) ”un contratto nel quale siano commisti e combinati elementi di due tipi contrattuali potrà essere qualificato come contratto misto, ma andrà sottoposto alla disciplina di uno dei due tipi di contratto, in base al criterio della prevalenza degli elementi distintivi dell’una o dell’altra figura negoziale”.
A questo modo, il contratto traslativo della proprietà di un immobile contro un corrispettivo costituito in parte da una somma di danaro e in parte dall’esecuzione di un’opera viene qualificato come contratto misto di vendita e di appalto, ma viene al tempo stesso sottoposto interamente alle
norme sulla vendita, in base alla valutazione di preminenza del “carattere traslativo del contratto”: si esclude, in particolare, l’applicazione dell’art. 1667 e del relativo termine di prescrizione. C’è un’evidente contraddizione fra la qualificazione del contratto come contratto con causa mista e la sua sottoposizione alla disciplina relativa alla causa giudicata prevalente. Si finisce, a questo modo, con il frustare lo stesso principio di atipicità, giacché “contratto complesso e contratto misto si riducono sempre a contratto tipico, secondo la regola della prevalenza”. Un criterio rispettoso dell’autonomia contrattuale è quello dell’integrazione, anziché della prevalenza, delle discipline relative alle diverse cause che si combinano entro il contratto misto. Nel contratto misto di vendita ed appalto, alla prestazione del compratore-appaltatore si addice la disciplina propria dei vizi dell’opera, anche sotto l’aspetto del termine di prescrizione dell’azione di cui all’art. 1667. Anche il codice civile, del resto, suggerisce il criterio dell’integrazione allorché detta, all’art. 1677, che all’appalto-somministrazione si applicano, in quanto compatibili, le norme sull’appalto e quelle sulla somministrazione. Analoghe valutazioni vanno formulare per i contratti associativi atipici, che si collocano in posizione intermedia fra l’associazione (della quale presentano l’elemento dello scopo non lucrativo) e la società (della quale hanno gli elementi della struttura chiusa o del voto rapportato alla quota di partecipazione al contratto, come nel caso dei consorzi di urbanizzazione). Esse vanno ripetute anche per il caso della qualificazione della società a responsabilità limitata come associazione non riconosciuta: qui non si potrà assoggettare il rapporto a tutte le norme sulle associazioni, si dovrà qualificare il contratto come contratto associativo atipico e, secondo il criterio dell’integrazione, “salvare” quelle fra le norme sulla società che risultano confacenti all’atipico rapporto posto in essere dalle parti. Il tema della qualificazione del contratto rende necessario un chiarimento ulteriore. C’è la tendenza a vedere dovunque contratti atipici a causa mista, anche laddove c’è un contratto tipico a causa semplice. Se un simile ragionamento fosse esatto, qualsiasi contratto di vendita sarebbe contratto misto, perché l’obbligazione di consegnare la cosa implica quella di custodirla fino alla consegna (art. 1177); sarebbe un contratto misto di vendita e di deposito. Una prestazione accessoria e strumentale rispetto alla prestazione che caratterizza il tipo contrattuale non trasforma il contratto tipico in contratto atipico. Decisiva è la causa: quando il venditore adempie l’obbligazione di custodire la cosa fino alla consegna, questo non fa per una causa di deposito ulteriore e diversa rispetto alla causa della vendita, ma sempre sulla base della causa della vendita. La sua custodia trova causa nella vendita, e solo in questa.
CAP. 12°: LA FIDUCIA
Il concetto di fiducia è impiegato dal linguaggio giuridico per indicare due diversi fenomeni: per indicare una particolare specie di proprietà, definita come proprietà fiduciaria e caratterizzata dalla peculiarità che le facoltà di godere e di disporre di un dato bene sono attribuite al proprietario non per soddisfare un interesse proprio, bensì un interesse altrui; per indicare una particolare specie contrattuale, definita come contratto (o negozio) fiduciario, in forza della quale la proprietà di un bene viene trasferita da un soggetto ad un altro con il patto, il c.d. pactum fiduciae, che il secondo se ne serva per un dato fine, raggiunto il quale deve ritrasferire il bene al primo. Fra i due fenomeni non c’è un nesso di necessaria consequenzialità: la proprietà fiduciaria, nei limitati casi in cui risulta ammissibile nel nostro sistema, non necessariamente nasce da un contratto fiduciario; il contratto fiduciario, d’altra parte, non produce, di regola, l’effetto costitutivo
di una proprietà fiduciaria. Si può parlare di proprietà fiduciaria in senso tecnico solo quando il vincolo di destinazione del bene al servizio di un interesse altrui presenta il carattere di un vincolo reale, come nel trust del common law: il bene è sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali del proprietario fiduciario; il vincolo di destinazione è opponibile ai terzi aventi causa del proprietario fiduciario e così via. A questo modo la proprietà fiduciaria dà vita ad una dualità di situazioni proprietarie su un medesimo bene: la proprietà di diritto comune coesiste con una diversa proprietà di più ridotto contenuto. Non si può, invece, parlare di proprietà fiduciaria in senso tecnico quando il vincolo di destinazione del bene al servizio di un interesse altrui sia, come accade nel caso del contratto fiduciario, oggetto di un rapporto puramente obbligatorio fra il titolare dell’interesse e il proprietario del bene, in quanto tale inopponibile ai terzi creditori del proprietario e ai suoi aventi causa. Nel nostro sistema, dominato dal principio della tipicità dei diritti reali, la proprietà fiduciaria non può essere il prodotto dell’autonomia contrattuale. Può però derivare dall’applicazione del c.d. trust interno, ammesso dalla convenzione dell’Aja, ratificata in Italia dalla legge 364/1989; può derivare, inoltre, dalla ricorrenza di speciali figure presenti anche nel nostro ordinamento. Forme legislativamente ammesse di proprietà fiduciaria vengono comunemente individuate:
a) nelle società fiduciarie, regolate da diverse leggi speciali: sono le società che, “comunque denominate, si propongono, sotto forma d’impresa, di assumere l’amministrazione di beni per conto di terzi”. Vale la regola secondo la quale “le società fiduciarie che abbiano intestato al proprio nome titoli azionari appartenenti a terzi sono tenute a dichiarare le generalità degli effettivi titolari dei titoli stessi”. C’è, dunque, un affidamento di titoli in “amministrazione”, e, tuttavia, la società che li amministra ne diventa “intestataria al proprio nome”, senza che l’affidante cessi di essere “effettivo titolare” degli stessi. Qui è certo che i creditori della società fiduciaria non possono aggredire i titoli ad essa intestati per conto altrui, che “l’effettivo titolare” può rivendicarli presso i terzi aventi causa della società fiduciaria, che si tratta, insomma, di una proprietà fiduciaria. Altrettanto indubbio è che la peculiare situazione giuridica dei beni affidati alle società fiduciarie trova la propria giustificazione, ed il proprio limite di applicazione, nei particolari controlli pubblici cui sono sottoposte queste società, oltre che nella circostanza che esse si presentano istituzionalmente ai terzi come società “fiduciarie”, intestatarie di beni per conto altrui;
b) nelle società di gestione dei fondi comuni d’investimento mobiliare, regolate dal T.U. dell’intermediazione finanziaria;
c) nella c.d. fondazione fiduciaria, costituita per atto fra vivi o a causa di morte. Qui emergono due particolarità: l’interesse altrui, al cui perseguimento è vincolato il proprietario fiduciario, deve corrispondere ad un fine di pubblica utilità; c’è sul bene una proprietà vincolata al perseguimento di un simile fine, ma non c’è, come nelle altre figure di proprietà fiduciaria, il contemporaneo diritto di proprietà di un altro soggetto (c’è, invece, una serie indeterminata, seppure determinabile, di beneficiari della gestione fiduciaria). Sicché l’ipotesi appare sensibilmente diversa dalle altre, oltre che lontana dalla struttura trust; in essa l’impiego del concetto di fiducia ci deriva, piuttosto, dalla tradizione della pandettistica tedesca. Fuori dei casi nei quali la legge consente di configurare una proprietà fiduciaria, il contratto traslativo attribuisce al fiduciario una proprietà di diritto comune; il vincolo fiduciario resta un vincolo puramente interno, non opponibile ai terzi. Ne deriva che la violazione del patto da parte del fiduciario attribuisce al
fiduciante solo un’azione di danni per inadempimento, e che le cose fiduciariamente trasferite al fiduciario non sono sottratte all’azione esecutiva dei suoi creditori.
Secondo la concezione classica, attinta dalla dottrina tedesca dell’800, si è in presenza di un contratto fiduciario quando la causa del contratto eccede lo scopo che le parti perseguono attraverso il contratto. Questo eccesso della causa rispetto allo scopo dei contraenti risulta da uno specifico patto fra essi intercorso, il patto fiduciario, figurante quale clausola del medesimo contratto oppure formante oggetto di una separata scrittura, che ha la funzione di riportare il contratto entro i limiti dello scopo dei contraenti. La teoria dell’eccesso della causa rispetto allo scopo non è, tuttavia, idonea a dare piena ragione del contratto fiduciario. Il trasferimento della proprietà dal fiduciante al fiduciario non è, di regola, un “eccesso” rispetto allo scopo perseguito dalle parti, giacché lo scopo delle parti non può concretamente realizzarsi se non investendo il fiduciario della formale proprietà del bene del fiduciante. Si pensi all’ipotesi, che è statisticamente la più frequente, dell’intestazione fiduciaria di beni: qui è vero che il fiduciario è incaricato di agire, sostanzialmente, quale mandatario del fiduciante, giacché si è vincolato ad eseguire le sue istruzioni, in ordine al godimento o alla disposizione del bene, ma è vero pure che l’intento perseguito dal fiduciante, e concordato con il fiduciario, è di non apparire di fronte ai terzi quale proprietario del bene. Il mandato ad amministrare è un minus rispetto allo scopo delle parti; il quale non può compiutamente realizzarsi se non con il trasferimento della proprietà del bene dal fiduciante al fiduciario. Più corretto è, dunque, qualificare il contratto fiduciario come il contratto mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo perseguito. In rapporto ai casi fin qui menzionati si parla di fiducia cum amico; si parla, invece, di fiducia cum creditore quando il contratto fiduciario intercorre fra debitore e creditore: il primo vende al secondo un bene con il patto che, all’atto dell’estinzione del debito, il creditore rivenderà il bene al debitore. È la vendita a scopo di garanzia, mirante a realizzare un risultato analogo al pegno o all’ipoteca. Si distingue, ancora, fra fiducia dinamica, implicante un atto traslativo dal fiduciante al fiduciario, e fiducia statica: qui il fiduciario è già proprietario del bene, ma in forza del pactum fiduciae si obbliga verso il fiduciante ad esercitare il proprio diritto secondo le istruzioni di quest’ultimo ed a ritrasferirglielo su sua richiesta. Il contratto fiduciario si distingue dal contratto simulato per il fatto che, a differenza di questo, mira a realizzare effetti che sono voluti dalle parti: queste vogliono sia il trasferimento della proprietà da un contraente all’altro sia, in forza del patto fiduciario, il suo ritrasferimento. Esso è, in linea di principio, valido ed efficace (salvo che non rivesta gli estremi del contratto in frode alla legge) e, nel caso d’inadempimento del patto fiduciario, si potrà agire in giudizio per l’adempimento, anche in forma specifica. Tuttavia, il patto fiduciario ha efficacia meramente obbligatoria, non efficacia reale: vincola le parti fra loro, ma non è opponibile ai terzi. Chi acquista un bene con contratto fiduciario ne acquista la piena proprietà, non una proprietà limitata, e può validamente disporne. Se il fiduciario, violando il patto, vende ad un terzo, questi acquista validamente, ed il fiduciante avrà perduto il bene. Xxxxx non potrà ottenere se non la condanna del fiduciario infedele al risarcimento dei danni. Si è più volte tentato, in passato, di costruire il contratto fiduciario come un unitario contratto, avente una propria causa, la causa fiduciae, ma è tentativo da tempo abbandonato. La costruzione oggi accreditata è quella secondo la quale il contratto traslativo ed il patto fiduciario costituiscono contratti separati, anche se tra loro collegati e la nozione di cause fiduciae altro non esprime se non il collegamento fra i due contratti.
Gli autori che hanno dubitato della validità del contratto fiduciario ritenendo che l’atto traslativo sia un atto traslativo astratto, in quanto tale incompatibile con il nostro sistema, non hanno considerato che l’atto traslativo ha una propria causa, di per sé idonea a trasferire la proprietà, e a trasferire una proprietà piena, che abilita l’acquirente a disporre validamente del diritto acquistato. I limiti alla facoltà del proprietario-acquirente non sono intrinseci al contratto traslativo, ma derivano dal superato patto fiduciario, avente efficacia puramente interna. Bisogna richiamare, per comprendere il fenomeno, la distinzione fra causa in astratto e causa in concreto. Negli interni rapporti fra fiduciante e fiduciario la causa della vendita opera solo in astratto: il prezzo della cosa, la cui menzione nel contratto vale a qualificare questo come vendita, non potrà essere preteso. In concreto opera la causa del mandato: se il venditore, ad esempio, agisce ex vendita per il pagamento del prezzo, il compratore gli eccepirà vittoriosamente il pactum fiduciae, in forza del quale la sua posizione è, in concreto, quella di un mandatario. Nei confronti dei terzi, invece, la causa della vendita opera anche in concreto, non soltanto in astratto, e il fiduciario è, a tutti gli effetti, un compratore: i suoi creditori possono agire sul bene a lui trasferito senza che il fiduciante possa in alcun modo impedirlo. La causa in astratto della vendita domina tutti i rapporti fra le parti e i terzi; la causa in concreto del mandato vale solo per gli interni rapporti fra le parti. Unico rimedio può essere, di fronte ai terzi, l’exceptio doli: se il rapporto fiduciario è inconfondibile, e il terzo creditore non può avere fatto alcun ragionevole affidamento sui beni fiduciariamente affidati al fiduciario, l’azione del terzo creditore potrà essere vittoriosamente contrastata da un’exceptio doli. Diverso discorso vale nel caso di affidamento di titoli a società fiduciarie: qui la legge ammette, in capo alla società, una vera e propria proprietà fiduciaria; non c’è una duplicità di contratti collegati, ma un unico contratto, e questo è contratto costitutivo, in capo alla società, di una proprietà fiduciaria. È, perciò, contratto tipico, avente una propria causa riconosciuta dalla legge. Qui non c’è ragione di parlare di mandato: le modalità di uso della cosa fiduciariamente trasferita sono regolate da questo stesso contratto, non da un separato mandato. Il contratto fiduciario è nullo quando costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa e si rivela, perciò, un contratto in frode alla legge (art.1344). Ipotesi esaminata in giurisprudenza di contratto fiduciario illecito per frode alla legge è quella dell’unico socio di società di capitali che, per eludere l’applicazione dell’art. 2362 o dell’art. 2497, trasferita fiduciariamente una frazione minima del capitale sociale ad un compiacente intestatario, e in questi casi la prova della frode alla legge – e dello stesso pactum fiduciae – può essere data anche per presunzioni. Dichiarata la nullità del trasferimento delle azioni o delle quote al fiduciario, il fiduciante si trova ad essere unico socio, come tale illimitatamente responsabile delle obbligazioni sociali. Altrettanto rigore la Cassazione manifesta in materia di fiducia cum creditore. Sia la vendita con patto di riscatto, sia quella con patto di retrovendita, utilizzate come vendite a scopo di garanzia, vengono considerate nulle perché dirette ad aggirare il divieto del patto commissorio (art. 2744).
Contratto indiretto
Si parla di contratto indiretto quando un determinato contratto viene utilizzato dalle parti per realizzare non la funzione che corrisponde alla sua causa, ma: a) la funzione corrispondente alla causa di un diverso contratto, oppure b) uno scopo non realizzabile mediante alcun contratto. A differenza che nel contratto fiduciario, il diverso scopo risulta realizzabile in forza del solo contratto utilizzato, senza necessità di un separato patto che lo pieghi alla funzione voluta dalle
parti. Il limite di validità del contratto indiretto è lo stesso del contratto fiduciario: esso è nullo se risulta concluso in frode alla legge. Emblematica del caso sub a è la vendita per una lira o, comunque, per una somma assolutamente irrisoria, dove la causa della vendita appare utilizzata per realizzare la funzione propria della donazione. Altrettanto netta è la differenza rispetto al contratto simulato, caratterizzato dall’antitesi fra dichiarazione e controdichiarazione delle parti, fra la volontà che costoro ostentano ai terzi e la contraria o diversa volontà che essi esprimono nei loro interni rapporti. Se Xxxxx, volendo donare a Xxxx, stipula con lui una vendita, indicando il prezzo di una lira, non si potrà dire di essere in presenza di una vendita simulata che dissimula una donazione. Qui non c’è una volontà delle parti, consacrata nel contratto, difforme dalla volontà che essi celano nel loro interno rapporto. La volontà dei contraenti non si dissocia in dichiarazione e controdichiarazione, ma si manifesta mediante un unico atto di volontà. Si sarà in presenza di un contratto indiretto e, in particolare, di una donazione indiretta: le parti hanno utilizzato un tipo contrattuale, avente quale causa lo scambio di cosa con prezzo, per realizzare la funzione propria di un altro tipo contrattuale, avente causa la liberalità. Emblematica del caso sub b è la società di comodo, che ha rappresentato la prima ipotesi intorno alla quale si è discusso di contratto indiretto. L’art. 2248 contrappone alla società “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose”; assolve all’interno del sistema la funzione di delimitare gli ambiti di applicazione rispettivi delle norme sulla comunione, contenute nel III libro del codice civile, e delle norme sulle società, contenute nel V libro. Esclude, in particolare, l’ammissibilità di una società di solo godimento: se due o più persone concludono un contratto, che definiscono come società, in base al quale “conferiscono beni”, ossia mirano a formare un patrimonio sociale, ma non si obbligano ad esercitare, con questo patrimonio sociale, un’attività d’impresa, allora il contratto dovrà, nonostante il nome datogli dalle parti, essere considerato come costitutivo di una comunione volontaria. L’art. 2248 è esplicito nell’assoggettare alle norme del III libro “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose”. La norma si propone, fra l’altro, di sventare un abuso quanto mai diffuso: quello di sottrarre ai propri creditori e, fra questi, al fisco tutti o parte dei propri beni. Si costituisce una “società” . c.d. società di comodo – e si conferiscono, in essa, i propri beni, ma la si costituisce al solo scopo di trarre vantaggio dalla condizione giuridica dei beni conferiti quale patrimonio autonomo, sottratto alle pretese dei creditori dei singoli conferenti. D’altra parte, la pretesa società non svolge alcuna attività economica, ed i beni “conferiti” non sono, perciò, esposti ad alcun rischio. Ma le “società di comodo” esistono, nonostante la norma dell’art. 2248. Alla repressione di questi abusi si è accinta la giurisprudenza: la Cassazione ha giudicato irrilevante la prospettazione dell’esercizio di un’attività imprenditoriale nell’atto costitutivo di società per azioni, quando risulti che la società non abbia svolto attività di tal genere, ma si sia limitata al godimento di un bene immobile. Ne ha tratto la conseguenza che questo bene deve considerarsi oggetto di comproprietà, con l’ulteriore illazione che la cessione delle azioni è cessione dell’immobile, e con il corollario secondo il quale, l’immobile essendo un fondo rustico dato in affitto, l’affittuario può opporre al terzo acquirente il suo diritto di prelazione. La frode alla legge è, in questa fattispecie, di tutta evidenza e tuttavia bisogna superare le strettoie della tassatività dei casi di nullità della società per azioni (art. 2332). La Cassazione ha preferito argomentare in termini di simulazione del contratto di società: essa ha ritenuto che le norme sul contratto simulato possono trovare applicazione al contratto di società tutte le volte in cui le parti, pur avendo indicato, nell’atto costitutivo, quale oggetto sociale, una determinata attività imprenditoriale, si siano accordate per svolgere non già un’attività
imprenditoriale, bensì solo ed esclusivamente un’attività di concessione a terzi, in locazione o in affitto, dei beni strumentalmente intestati alla società medesima.
Successivamente la Cassazione ha corretto il tiro: la semplice in esecuzione dello scopo sociale non basta, di per sé, ad integrare la prova della simulazione dell’atto costitutivo, essendo a tal fine necessario dimostrare che l’inattuazione di esso è stata preordinata da tutte le parti dell’asserito accordo simulatorio. Bisogna dire, in verità, che neppure l’idea della simulazione permette di superare le strettoie dell’art. 2332: è difficile ritenere che manchi l’atto costitutivo, ai sensi del n. 1, o che manchi la pluralità dei fondatori, ai sensi del n. 8, quando l’atto costitutivo risulta essere simulato, o quando risulta essere simulata la pluralità dei fondatori, essendo stata la società costituita da una sola persona insieme con uno o più compiacenti prestanomi. In casi per qualche aspetto analoghi la Cassazione aveva battuto altra strada. Essa aveva posto non già un problema di simulazione, bensì di qualificazione del contratto, suscettibile di essere risolto con il superamento del senso letterale delle parole usate dai contraenti e qualificando il contratto in modo coerente con la volontà effettiva dei contraenti emergente dal contenuto contrattuale. Il caso presenta però una rilevante differenza. Negli altri casi ricordati il giudice utilizzava, per correggere il nome iuris di società, oppure di società di capitali, le clausole stesse del contratto, rivelatrici della volontà di costituire un’associazione, oppure di costituire una società di persone, anche se l’operazione di riqualificazione comportava che veniva disatteso un intento elusivo dell’applicazione di norme imperative perseguito dai contraenti. Nel caso in discussione veniva, all’opposto, in considerazione un asserito accordo fra i contraenti, esterno rispetto all’atto costitutivo della società e desumibile, sul piano probatorio, dal loro successivo comportamento, consistente nello svolgimento di un’attività di mero godimento, in contrasto con l’imprenditoriale oggetto sociale enunciato nell’atto costitutivo. C’era, dunque, la disarticolazione della volontà dei contraenti in due separati atti di volontà, dichiarazione e controdichiarazione, propria della simulazione. Alla tecnica del contratto indiretto è riconducibile l’ipotesi, frequente nell’esperienza, del contratto di società utilizzato in funzione traslativa della proprietà di un bene produttivo. Tizio intende trasferire a Caio un’azienda, ma, anziché stipulare una vendita, costituisce con Caio una società, nella quale conferisce l’azienda; quindi vende a Caio le quote da lui sottoscritte. Ci può essere, in questa ipotesi, un intento di elusione fiscale, giacché il conferimento in società, seguito dalla cessione delle quote sociali, non ha altra giustificazione economica se non il risparmio d’imposta che a quel modo si realizza. Ma una giustificazione economica è presente quando fra le parti sia pattuito che il prezzo debba essere pagato a rate: avendo le parti sostituito all’azienda le quote di una società conferita ria della stessa, è possibile convenire che l’alienante ceda le quote in più tranches, in corrispondenza del pagamento delle singole rate. Qui non c’è simulazione: non c’è un meccanismo contrattuale formato da più contratti collegati che dissimula una compravendita. Le parti vogliono produrre gli effetti propri dei contratti che concludono, vogliono, in particolare, dare vita ad una società, per poi cedere le relative quote. Le parti pervengono, alla fine, ad un risultato sostanzialmente corrispondente alla vendita del bene produttivo, ma pervengono ad un risultato che è, a ben guardare, solo sostanzialmente corrispondente, giacché il compratore non avrà nel proprio patrimonio, alla fine, un bene produttivo, ma le quote di una società proprietaria del bene produttivo.
CAP. 13°: GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
Il contratto è, come atto, fonte di obbligazioni e di diritti delle parti: l’esercizio dei diritti e l’adempimento delle obbligazioni che nascono dal contratto è il rapporto contrattuale. L’adempimento, da parte dei contraenti, delle obbligazioni assunte con il contratto prende il nome di esecuzione, o attuazione, del contratto stesso. L’esecuzione può esaurirsi rapidamente e può, all’opposto, protrarsi nel tempo; il rapporto contrattuale può costituirsi e, simultaneamente, estinguersi e può, invece, avere una lunga durata. Sotto questo aspetto assume rilievo la distinzione tra contratti ad esecuzione istantanea, contratti ad esecuzione differita, contratti ad esecuzione continuata o periodica. Sono ad esecuzione istantanea i contratti il cui adempimento si esaurisce, per ciascuna delle parti, nel compimento di un solo fatto, simultaneo alla conclusione del contratto o senza apprezzabile intervallo di tempo rispetto ad essa (es. la vendita si esegue, da parte del venditore, con il solo fatto della consegna della cosa e, da parte del compratore, con il solo fatto del pagamento del prezzo). Ma può accadere, nella stessa vendita, che per l’adempimento dell’obbligazione di pagare il prezzo o per quella di consegnare la cosa, o per entrambe, sia fissato un termine: avremo, in tal caso, un contratto ad esecuzione differita; differita, rispetto alla conclusione del contratto, al momento della scadenza del termine pattuito. In questi contratti può accadere che l’adempimento, anziché esaurirsi nel compimento di un solo fatto, si frazioni in una pluralità di fatti: è il caso della vendita con pagamento del prezzo a rate. Del termine si parla, in questi casi, come di termine per l’adempimento delle singole obbligazioni contrattuali, non già come termine del contratto. I contratti ad esecuzione istantanea o differita ammettono un termine contrattuale iniziale; non ammettono, per loro stessa natura, un termine finale. Sono ad esecuzione continuata o periodica, invece, i contratti che obbligano le parti, o una di esse, ad una prestazione continuativa o che dev’essere periodicamente ripetuta nel tempo. Continuativa o periodica può essere una prestazione di dare (es. la somministrazione ex art. 1559 differisce dalla vendita per il fatto che il somministrante si obbliga ad una prestazione di dare continuata nel tempo); può essere una prestazione di fare (es. contratto di lavoro); può essere, infine, una prestazione di non fare (es. contratto che obbliga un imprenditore a non fare concorrenza ad un altro imprenditore). Si tratta di contratti la cui esecuzione si protrae nel tempo, a volte per molti anni: li si definisce, sotto questo aspetto, come contratti di durata. Il contratto, una volta concluso, ha forza vincolante per le parti. Il
c.c. esprime questo concetto dicendo che, per esse, il contratto ha “forza di legge” (art. 1372): è sì,
per ciascuna della parti, un atto di autonomia privata, che esse possono compiere o non compiere; ma, una volta che l’accordo si è perfezionato, le parti sono tenute a rispettarlo allo stesso modo con cui sono tenute ad osservare la legge.
Per sciogliere il contratto occorre un nuovo atto di autonomia contrattuale, uguale e contrario al precedente: è necessario, in linea di principio, il c.d. mutuo dissenso (art. 1372), ossia un nuovo accordo fra le parti diretto ad estinguere il già costituito rapporto contrattuale. Il mutuo dissenso è figura contrattuale a sé stante, che non partecipa del tipo contrattuale cui appartiene il contratto da risolvere: lo si può definire come il contratto avente la funzione di risolvere un precedente contratto. Quanto alla forma del mutuo dissenso, un problema si pone per il caso in cui il contratto precedente avesse richiesto la forma solenne. In tal caso si afferma che il contrarius consensus non partecipa della medesima causa del rapporto da sciogliere. Se questo era una donazione immobiliare, la sua risoluzione consensuale, essendo contrato con mediato oggetto immobiliare, richiederà la forma scritta. Se invece si trattava di una donazione mobiliare, varrà il principio generale della libertà di forme. Resta da dire della trascrizione. Secondo una remota
giurisprudenza il contrarius consensus di una vendita immobiliare andrebbe trascritto a norma dell’art. 1643. Ma si è ragionato sull’erroneo presupposto che il contrarius consensus equivalga a retrovendita. Si dovrà, invece, applicare, l’ultimo comma dell’art. 2655: l’atto va annotato a margine del precedente atto, siccome convenzione risolutiva di esso. Al pari della risoluzione giudiziale del contratto, la risoluzione consensuale ha fra le parti effetto retroattivo, ma non pregiudica i diritti acquistati dai terzi. Non è equiparabile ad una sentenza dichiarativa della nullità del contratto, il cui effetto retroattivo travolge anche i diritti acquistai dai terzi. Che un atto di autonomia privata possa produrre effetto retroattivo è attestato dall’art. 1399, il quale attribuisce effetto retroattivo alla ratifica del contratto del falsus procurator; ma tale norma ha cura di fare salvi i diritti dei terzi.
Come per risolvere un precedente contratto, così per modificare il contenuto del contratto è necessario, in linea di principio, il consenso dei contraenti, che può anche desumersi dal loro comportamento concludente quando non sia richiesta la forma scritta. Una modificazione del contratto per volontà unilaterale di uno dei contraenti è possibile solo se prevista dal contratto originario (es. l. 154/1992: la banca può variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse ed ogni altro prezzo o condizione del contratto bancario solo se questa eventualità è espressamente indicata nel contratto con clausola approvata specificatamente dal cliente). Il contratto può anche consentire ad una delle parti o ad entrambe la facoltà di sciogliere lo stesso con il recesso unilaterale (art. 1373), in deroga al principio per il quale il contratto non può essere sciolto che per mutuo consenso (art. 1372). Questo è l’atto unilaterale di una parte e non richiede l’accettazione dell’altra: basta che venga portato a sua conoscenza e produce l’effetto di sciogliere il contratto secondo la regola propria degli atti unilaterali (art. 1334), nel momento stesso in cui viene comunicato. Naturalmente, se il contratto dal quale si recede ha forma scritta ad substantiam, anche la dichiarazione di recesso deve assumere questa forma. La giurisprudenza sottopone la validità della clausola che introduce la facoltà di recesso ad una condizione molto rigorosa: dev’essere previsto il termine entro il quale il recesso può essere esercitato, giacché altrimenti l’efficacia del contratto resterebbe in definitivamente subordinata all’arbitrio della parte titolare di tale diritto, con conseguente irrealizzabilità delle finalità perseguite con il contratto stesso. Nei contratti ad esecuzione istantanea ed in quelli ad esecuzione differita la facoltà può essere esercitata, salvo patto contrario, solo prima che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione (art. 1373): se la parte ha già eseguito o ha cominciato ad eseguire la sua prestazione, non può più recedere né può recedere l’altra parte. Al contrario, nei contratti ad esecuzione continuata o periodica il recesso è possibile anche se è già iniziata l’esecuzione, ma, salvo patto contrario, non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. In ogni caso, il recesso scioglie il rapporto contrattuale senza effetto retroattivo: il contratto conserva piena efficacia per tutto il tempo anteriore alla data di efficacia del recesso e le parti non possono pretendere la restituzione di ciò che, fino a quella data, hanno prestato. Il carattere proprio dei contratti di durata, che instaurano fra le parti un vincolo destinato a protrarsi nel tempo, pone problemi di protezione della libertà contrattuale dei contraenti e, in particolare, del contraente più debole. Il c.c. è ispirato da un principio di sfavore per i rapporti contrattuali perpetui che vincolino le parti per tutte la loro esistenza. All’ammissibilità di vincoli perpetui si oppongono, d’altra parte, anche esigenze di protezione dell’interesse generale: lo sviluppo dipende dal più proficuo impiego delle risorse materiali ed umane; e vincoli contrattuali perpetui, impedendo il mutamento della destinazione delle risorse, sarebbero un ostacolo al loro impiego più proficuo. Per soddisfare queste esigenze la
legge utilizza due figure: il termine (finale) xxxxxxx, il recesso legale. Per alcuni contratti ad esecuzioni continuata o periodica è considerato requisito essenziale del contratto la previsione di un termine di durata (così per il contratto di società di capitali, l’art. 2328), per altri è direttamente stabilito un termine massimo di durata: così la locazione non può durare oltre 30 anni (art. 1573). Un più elastico concetto è utilizzato per il patto di non alienare, che deve essere “contenuto entro convenienti limiti di tempo” (art. 1379). Per altri contratti è ammessa, invece, una durata a tempo indeterminato, ma riconoscendo alle parti la facoltà di recesso. Bisogna al riguardo distinguere fra due forme di recesso: a volte è concesso alla parte il recesso puro e semplice, quale mero atto di autonomia del singolo, che non richiede giustificazione, altre volte è riconosciuto solo il recesso per giusta causa, che deve essere giustificato dal contraente che recede. Il recesso puro e semplice è concesso talvolta a ciascuna delle parti, come nella somministrazione (art. 1569), talaltra ad una sola parte: solo al lavoratore nel contratto di lavoro (legge 604/1966). Resta il problema se siano ammissibili contratti atipici perpetui. A rigore, questi sarebbero soggetti alla regola generale dell’art. 1373, per il quale il recesso unilaterale è ammissibile solo se previsto dal contratto; né si potrebbero applicare loro, per analogia, le norme sui singoli contratti dai quali è espressamente ammesso il recesso unilaterale, trattandosi di norme che fanno eccezione a principi generali. S’impone però l’opinione che l’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui sia un principio di ordine pubblico: il contratto perpetuo è, perciò, nullo o può, tutt’al più, convertirsi a norma dell’art. 1424 in contratto a tempo indeterminato, con facoltà di recesso delle parti.
Gli effetti del contratto rispetto ai terzi
Il contratto vincola le parti ma, per regola generale, non produce effetto rispetto ai terzi (art. 1372). È quanto si è definito come l’aspetto negativo dell’autonomia contrattuale. Le eccezioni alla regola debbono essere previste per legge e sono di duplice ordine: a) casi nei quali il contratto produce effetti per i terzi come atto, essendo la volontà delle parti diretta a procurare effetti per un terzo estraneo al contratto: è il caso del contratto a favore di terzo; b) casi nei quali il contratto produce effetti per i terzo quale semplice fatto giuridico. Li si può così classificare:
1) contratti traslativi o costitutivi di diritti: il contratto che trasferisce la proprietà o che trasferisce o costituisce altro diritto reale o che cede un diritto di credito ha, per l’art. 1376, effetto reale: produce una modificazione delle situazioni giuridiche preesistenti rilevante anche per i terzi. Di regola, i contratti con effetti obbligatori vincolano solo i contraenti. Ci sono tuttavia:
2) contratti con effetti obbligatori attributivi di diritti opponibili ai terzi; come nel caso della prelazione legale, che attribuisce all’avente diritto il potere di riscattare la cosa presso il terzo acquirente;
3) contratti, sempre con effetti obbligatori, che sono contratti opponibili ai terzi. È il caso contemplato dall’art. 1380, che risolve il conflitto fra più diritti personali di godimento.
In linea di principio, il contratto che attribuisce un diritto personale di godimento è fonte di un diritto di credito al conseguimento del godimento, che il creditore può vantare nei confronti del debitore suo diretto contraente, ma che non può far valere nei confronti del terzo che abbia successivamente conseguito dal medesimo xxxxx causa un uguale diritto sulla medesima cosa. A rigore, egli avrebbe azione nei confronti del suo diretto contraente, non anche nei confronti del
terzo. Sennonché, l’art. 1380 stabilisce un rapporto di diretto conflitto fra più diritti personali di godimento, e pone criteri per la soluzione del conflitto fra i rispettivi titolari. Chi ha, per contratto, conseguito il diritto al godimento di una cosa può fare valere questo diritto nei confronti di un terzo al quale il proprietario abbia successivamente concesso il godimento del medesimo bene. A norma del II comma egli può, sulla base di documento avente data certa anteriore, opporre il contratto al terzo. Ricorre, dunque, uno dei casi nei quali la legge consente di opporre il contratto ai terzi. Non può, invece, farlo valere se il terzo abbia già conseguito il godimento del bene. Vale allora il criterio posto dal I comma: fra i due aventi diritto al godimento del bene prevale quello che per primo lo abbia conseguito. Chi ha un contratto di data successiva potrà vittoriosamente eccepire, nel giudizio promosso dall’altro, che egli ha per primo conseguito il godimento. La soluzione di cui al II comma è in linea con l’art. 1599, che consente al conduttore di opporre il contratto di locazione al terzo acquirente della cosa, se il suo contratto ha data certa anteriore all’acquisto del terzo. La soluzione di cui al I comma rievoca, per contro, l’art. 1155, relativo al conflitto fra più aventi causa del diritto di proprietà sul medesimo bene trasmesso loro dal medesimo dante causa. Il criterio preferenziale è, per l’art. 1380, il conseguimento della detenzione, come per l’art. 1155 è il conseguimento del possesso. C’è però questa rilevante differenza: l’art. 1155 opera solo a vantaggio del possessore di buona fede, per l’art. 1380 la buona fede è, invece, ininfluente e prevale chi ha per primo conseguito il godimento, anche se in mala fede. Una parziale simmetria c’è anche con l’art. 1599, che impedisce al conduttore di opporre il contratto al terzo acquirente della cosa che ne abbia conseguito il possesso in buona fede. Ma la simmetria è solo parziale, essendo qui necessaria la buona fede. L’art. 1380 si riferisce a contratto consensuali attributivi di diritti personali di godimento; non risulta applicabile ai contratti reali. Tuttavia, il criterio di cui al I comma fa sì che colui il quale acquisti per contratto un diritto personale di godimento può dirsi sicuro del proprio diritto solo dopo avere conseguito il godimento della cosa, e ciò finisce con l’attribuire un certo carattere di realità ad ogni contratto che abbia per oggetto il godimento di una cosa. Se si tratta di locazione ultranovennale, come tale soggetta a trascrizione, la prevalenza fra i diversi acquirenti del diritto personale di godimento è assegnata dalla priorità della trascrizione, che supera l’eventuale priorità nel conseguimento del godimento. Sul conflitto di diritti il codice civile detta molteplici criteri: per i diritti reali mobiliari vale il criterio dell’art. 1155, basato sul conseguimento del possesso di buona fede; per i diritti reali immobiliari vale il sistema della trascrizione, che fa prevalere chi ha per primo trascritto, per i diritti di credito vale il criterio di cui all’art. 1265, che fa prevalere il cessionario che abbia per primo notificato la cessione al debitore ceduto o la cui cessione sia stata per prima accettata da quest’ultimo. Ed anche in questo caso il criterio di preferenza opera indipendentemente dallo stato soggettivo di buona fede del cessionario preferito.
Le regole ora rievocate riguardano specifiche fattispecie, ma non esauriscono ogni possibile ipotesi di conflitto di diritti. Il problema si è posto, in giurisprudenza, per il caso di doppia attribuzione di diritti su opere dell’ingegno, come il contratto di edizione concluso dall’autore con più editori per una medesima opera, ma può porsi per i beni immateriali in genere, come nel caso della doppia licenza di marchio in esclusiva e in altri casi simili. Per i beni immateriali il problema non può essere risolto in base alla considerazione che essi sono oggetto di un diritto reale e ne seguono la disciplina. Neppure può valere il più generale principio che esprime l’art. 1380, facendo prevalere chi ha un contratto di data certa anteriore. Questa norma attribuisce, eccezionalmente, efficacia esterna la contratto. Una norma che fa eccezione a regole generali non è suscettibile di applicazione