Traccia n. 2
Traccia n. 2
Recesso e risoluzione per inadempimento: tra identità di presupposti e differenze disciplinari
█ 1. La forza di legge del contratto. █ 2. Lo scioglimento del vincolo contrattuale: le cause ammesse dalla legge. █ 3. Il recesso e la risoluzione per inadempimento tra identità e differenze. █ 4. Inadempimento imputabile e recesso. █ 5. Conclusioni.
SOMMARIO
█ 1. La forza di legge del contratto.
L’art. 1372, comma 1 c.c., riprendendo la formulazione contenuta nell’art. 1123 del codice civile del 1865 sancisce che il contratto ha forza di legge tra le parti: la formula vuole significare che il contratto vincola le parti, così come la legge vincola i suoi destinatari.
Viene così codificato il principio di “relatività del contratto”, posto a fondamento della sicurezza nella circolazione giuridica, volta a garantire la protezione dell’atto di scambio desumibile dalla causa del contratto e la relativa intangibilità: il vincolo negoziale - quantomeno in via di prima approssimazione - produce i suoi effetti limitatamente, cioè, alle parti contraenti le parti sono obbligate all’impegno assunto (cfr. anche Cass. civ., Sez. lav., 23 luglio 2012, n. 12781). Dal comma 1 dell’art. 1372 c.c. discende, dunque, l’idea del contratto come “vincolo”: quale soggezione alle modificazioni che esso determina nelle posizioni giuridiche delle parti che lo subiscono.
Il contratto, dunque, rappresenta un regolamento (o meglio, un autoregolamento) di tipo privato, condividendo con la legge la sua impegnatività, garantita dall’azionabilità in sede giudiziaria, ove rimanga inadempiuto: le parti dunque non possono revocare unilateralmente la loro adesione all’impegno assunto che, anzi, devono eseguire rispettandone correttamente le statuizioni (cfr. l’art. 1175 cod. civ.); ne consegue che a questa prima regola fissata dall’art. 1372 cod. civ. possono essere ricondotti tre distinti e concorrenti significati: la resistenza del contratto al pentimento della parte, l’immodificabilità del regolamento ad opera del singolo contraente e l’irretrattabilità degli effetti consumati
Il principio de quo è sancito anche a livello internazionale, assumendo così rilievo nel nostro ordinamento non solo a livello di legislazione ordinaria ma anche a livello costituzionale. Invero, l’art. 26 della Convenzione sul diritto dei trattati stipulata a Vienna nel 1969 eleva il principio in oggetto a principio fondamentale sul quale si basano le relazioni internazionali tra gli Stati, sancendo che ogni trattato in vigore
vincola le parti e deve essere seguito secondo buona fede; una previsione conforme a quella contenuta nel comma 1 dell’art. 1372 c.c. è poi contemplata dall’art. 1.3 dei principi Unidroit rubricato “Carattere vincolante del contratto”, il quale sancisce che il contratto validamente concluso è vincolante per le parti.
Il vincolo contrattuale ha anzitutto una ragione etica. Esso, infatti, viene espresso sovente con la locuzione latina “pacta sunt servanda” e si sostanzia nell’imperativo morale di tenere fede alla parola data, di non tradire l’impegno preso. Esso, tuttavia, ha anche - e soprattutto - una ragione funzionale: il contratto rappresenta uno strumento insostituibile di organizzazione e funzionamento dei rapporti sociali ed economici giacché, in assenza di una sua cogenza, tale funzione sarebbe irrimediabilmente compromessa. Invero, se il contratto non rappresentasse un vincolo per le parti che lo concludono, esse non potrebbero fare affidamento sulla certezza e sulla effettività dei propri diritti, i quali sono legati alla stabilità degli effetti nati dal contratto stesso.
La cogenza del vincolo contrattuale si giustifica anche in ragione del fatto che esso non nasce se non c’è accordo e, dunque, volontà comune delle parti: il vincolo, infatti, sorge per volontà stessa delle parti che lo subiscono, essendo è espressione dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. (intesa come libertà stessa di addivenire alla conclusione di un accordo negoziale), e la forza di legge che esso assume si giustifica in quanto è la legge che le parti stesse si impongono di rispettare.
Il principio pacta sunt servanda, tuttavia, non ha portata assoluta ed inderogabile poiché, in ipotesi eccezionali e tassative, esso incontra limiti ed attenuazioni di varia natura ed intensità: lo stesso art. 1372, comma 1 c.c., dopo aver enunciato che il contratto ha forza di legge tra le parti sancisce, infatti, che esso non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge.
█ 2. Lo scioglimento del vincolo contrattuale: le cause ammesse dalla legge.
Quanto alla prima evenienza, ove l’accordo volto allo scioglimento del vincolo sia raggiunto, si discorre di “mutuo consenso” (o di mutuo dissenso), da intendersi alla stregua di una vera e propria controvicenda, opposta ed incompatibile con quella del contratto precedente, alternativamente inquadrata, in dottrina, in un’ipotesi di risoluzione del contratto precedentemente stipulato dalle parti, ovvero in una vicenda incidente sugli effetti derivanti dal contratto ovvero, ancora, in un caso di revoca o recesso.
La medesima varietà di posizioni si registra anche in giurisprudenza. Così Xxxx. civ. 30 agosto 2005, n. 17503 chiarisce che il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario; per Cass. civ. 6 ottobre 2011, n. 20445, invece, il mutuo dissenso, quale atto di risoluzione convenzionale (o accordo risolutorio) costituisce espressione dell’autonomia negoziale dei privati, i quali sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, anche indipendentemente dall’esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute, impeditivi o modificativi dell’attuazione dell’originario
regolamento di interessi, dà luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo (anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali); Cass. civ., n. 3753 del 1975, infine, individua nell’art. 1372 cod. civ. un’ipotesi di esercizio del diritto di recesso.
Se, poi, in dottrina si ritiene che il mutuo consenso non possa sciogliere i contratti che abbiano già prodotto i loro effetti traslativi, costitutivi o abdicativi di diritto, come accade per i contratti ad efficacia reale, in senso opposto si pone la giurisprudenza per la quale lo schema del negozio solutorio è applicabile anche in tale frangente: tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto “ex lege” dall’art. 1458 c.c. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetto reale, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell’onere della forma scritta ad substantiam (Cass. civ. 6 ottobre 2011, n. 20445).
In relazione alla seconda evenienza contemplata dall’art. 1372, comma 1, c.c., invece, le cause di scioglimento del vincolo contrattuale possono essere previste direttamente dalla legge ovvero possono derivare da una previsione delle parti, ma autorizzata dalla legge. Appartengono al novero delle previsioni legali di scioglimento del vincolo contrattuale quelle disposizioni che, in presenza di determinati presupposti, riconoscono ad entrambe le parti o ad una sola di esse il potere di sciogliere unilateralmente il vincolo, recedendo dal contratto; si tratta dei cd. recessi legali. Alla medesima categoria appartengono, inoltre, anche quei casi in cui la legge, in presenza di eventi sopravvenuti rispetto alla conclusione del contratto, riconosce alla parte il potere di chiedere la risoluzione nonché, più in generale, di chiedere l’annullamento o la rescissione del contratto. Le cause ammesse dalla legge e che, tuttavia, derivano da una previsione delle parti sono, invece, quelle in cui i contraenti hanno la facoltà di pattuire una clausola che renda possibile sciogliere unilateralmente il vincolo contrattuale, tra cui rientrano le clausole di recesso convenzionale.
In sintesi, dunque, possono considerarsi cause ammesse dalla legge a sciogliere il contratto tutte quelle che legittimano una parte, contro cui l’altra rivolga una pretesa fondata sul vincolo contrattuale, a respingerla, eccependo la propria liberazione dal vincolo medesimo a causa di fatti che privano il contratto dell’idoneità a produrre o a mantenere il vincolo stesso.
█ 3. Il recesso e la risoluzione per inadempimento, tra identità e differenze.
Il recesso e la risoluzione per inadempimento rappresentano cause che colpiscono il rapporto, privandolo di efficacia e provocandone l’estinzione e non il contratto come atto, il quale rimane valido: si tratta di strumenti in cui, all’esito di una ponderazione comparativa di valori ed interessi, è riconosciuta la preminenza a valori ed interessi che rendono desiderabile attenuare il rigore del principio pacta sunt servanda, ammettendo che gli effetti del contratto vengano preclusi o rimossi. Prima di soffermarsi sull’oggetto specifico della presente trattazione appare dunque opportuno tratteggiare i principali profili disciplinari dell’uno e dell’altro istituto.
Quanto al recesso, esso rappresenta l’atto unilaterale con il quale una parte comunica all’altra la propria volontà di sciogliersi da un vincolo contrattuale in precedenza
assunto: si tratta di un negozio causale e di cd. secondo grado, rinvenendo la propria funzione nel fare cessare gli effetti di un negozio già concluso tra le parti. Esso costituisce esercizio di un diritto potestativo (Cass. civ., 18 marzo 2010, n. 6558), che trova la propria fonte nella legge ovvero in una specifica previsione negoziale e che consente eccezionalmente, ex uno latere, di risolvere il contratto (Cass. civ., 7 maggio 1984, n. 2759).
L’istituto è stato generalizzato nell’ordinamento italiano solamente con l’entrata in vigore del codice del 1942, posto che la previgente codificazione del 1865 conosceva solo casi specifici di recesso ma non ne dettava una disciplina unitaria; così, ad esempio: 1) l’art. 1165 regolava la “condizione risolutiva” - che peraltro richiedeva, per la sua operatività, una pronuncia giudiziale avente carattere costitutivo e “corrispondeva all’attuale risoluzione per inadempimento”; 2) l’art. 1641, la risoluzione del contratto di locazione, d’opera, d’appalto secondo l’ “arbitrio” del committente - sostanzialmente corrispondente all’attuale recesso ad nutum; 3) gli artt. 1757-1761, la “rivocazione” del mandato o la rinunzia del mandatario. Nel codice del 1942, invece, la norma di riferimento è rappresentata dall’art. 1373 c.c. cui va, però, aggiunta la disposizione contemplata dall’art. 1385, comma 2, c.c., alla cui stregua “se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.
Sulla scorta delle menzionate previsioni, la più moderna ricostruzione dottrinaria dell’istituto tende, ad attribuire allo stesso una funzione unitaria e “tridimensionale”, distinguendo le ipotesi di recesso ordinario ovvero c.d. determinativo, quale termine finale nei contratti di durata, da quella di recesso c.d. straordinario, quale scioglimento del rapporto a seguito di impugnazione per vizi genetici (cfr., ad es., l’art. 1893, comma 1, cod. civ.) o sopravvenuti ovvero oppure a causa di un inadempimento imputabile alla controparte, ed il recesso come espressione del diritto di pentirsi (ius poenitendi) della regola contrattuale originariamente concordata.
Dal punto di vista disciplinare, in conseguenza dell’esercizio del recesso (il quale produce i suoi effetti secondo il regime proprio degli atti recettizi e, dunque, può essere revocato fino a quando non pervenga a conoscenza del destinatario) e trascorso
- ove previsto - il termine di preavviso legalmente o convenzionalmente fissato, si produce l’effetto di scioglimento automatico del vincolo contrattuale, tanto che si tratti di contratti ad esecuzione istantanea (cfr. art. 1373, comma 1, c.c.) quanto di contratti ad esecuzione periodica o continuativa (cfr. art. 1373, comma 2, c.c.): mentre per questi ultimi - analogamente rispetto a quanto disposto in tema di risoluzione del contratto per inadempimento dall’art. 1458, comma 1, c.c. ovvero in tema di avveramento della condizione dall’art. 1360, comma 2, cod. civ. - è lo stesso codice civile a chiarire che il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione (art. 1373, comma 2), per i contratti ad esecuzione istantanea si è chiarito che, per quelli che non abbiano ancora avuto un inizio di esecuzione, la questione è assolutamente irrilevante mentre, laddove un inizio di esecuzione vi sia stato, difettando una indicazione univoca del legislatore, apparirebbe coerente con la finalità perseguita - ed analogamente a quanto avviene in caso di avveramento della condizione risolutiva meramente potestativa - dalle parti ritenere l’efficacia retroattiva