Contract
Il patto di sponsorizzazione è un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, di origine anglosassone, atipico o innominato, cioè non previsto e regolamentato dalla legge, ma creato dall’autonomia privata (art. 1322, co. 2, c.c.), che va ricompreso nell’ambito delle attività, dirette o indirette, finalizzate alla commercializzazione dei prodotti o del marchio dell’impresa.
È molto diffuso nella pratica commerciale mediante il quale un’impresa (sponsor) paga un corrispettivo in cambio della pubblicizzazione del suo marchio o prodotto da parte di soggetti estranei (sponsorizzati o, con terminologia anglosassone, sponsee ) scelti in base alla loro attività e notorietà (ad esempio sponsorizzazione di un marchio da parte di un campione di sci, gare automobilistiche, ecc).
L’attività di sponsorizzazione è certamente più ampia del significato del termine sponsor e comprende un fenomeno notevolmente più complesso, a seconda dei vari settori di operatività, nell’ambito dell’azione pubblicitaria diretta alla diffusione di un marchio o di un prodotto attraverso l’utilizzazione di un evento, di cui sono protagonisti uno o più soggetti estranei rispetto all’impresa cui il messaggio è riferito.
In particolare, la pubblicità può manifestarsi mediante:
• diffusione del messaggio direttamente dall’impresa cui il messaggio è riferito: annunci, inserzioni su giornali e riviste, mezzi audiovisivi, cartelloni pubblicitari, ecc;
• collegamento del prodotto o del marchio da pubblicizzare con determinati eventi: avvenimento sportivo (partite di calcio, basket, gare automobilistiche, ciclistiche, ecc.), mostre d’arte, avvenimenti culturali politici, scientifici, ecc.
La dinamica della diffusione del messaggio di sponsorizzazione e l’effetto sull’audience dei consumatori sono sensibilmente diversi rispetto a quelli tipici dell’azione pubblicitaria tradizionale, quanto meno per la circostanza che la durata e frequenza del messaggio dipendono dall’evento cui è collegato (sportivo, culturale, ecc.) e non dall’impresa sponsor.
Indeducibilità dei costi di sponsorizzazione
Al fine della deducibilità fiscale dei costi di sponsorizzazione, la prima questione che si pone all’interprete è data dal genere di contestazione che si oppone alla loro deducibilità.
Vale a dire se la deducibilità sia contestata per l’inesistenza delle operazioni ovvero se è posta esclusivamente sotto il diverso profilo della mancanza di inerenza.
Il caso contestato dall’Ufficio nell’atto impugnato è evidentemente quello della mancanza di inerenza, posto che non è mai stata messa in dubbio l’esistenza delle operazioni e la loro natura di costi per sponsorizzazioni.
Costi non inerenti
Se la questione, più che in termini di inesistenza, è posta sotto il diverso profilo dell’inerenza, occorre tener conto che la regola dell’inerenza richiede necessariamente un giudizio sulla relazione tra il costo e l’attività d’impresa esercitata (ovvero le spese in funzione preparatoria della futura attività).
L’inerenza dipende, quindi, non tanto dai beni o servizi acquistati ma dall’attività o
programma che l’impresa intende attuare (cfr. art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986 ).
Anche le spese di pubblicità, pertanto, non sfuggono al criterio di inerenza quale strumento di verifica della deducibilità del costo dal reddito d’impresa .
L’inerenza c’è o non c’è e l’onere della prova incombe sul contribuente che potrà argomentare sulla necessità di un bene o di un servizio, sull’utilità, sul potenziale vantaggio apportato dal costo, sul rapporto tra la spesa e l’incremento del fatturato, ecc. Anche l’Amministrazione finanziaria, del resto, ha sempre affermato che l’onere probatorio sulla sussistenza dei requisiti per la deducibilità delle spese di pubblicità grava sul contribuente che deve anche provare l’esistenza di un contratto sinallagmatico tra le parti nel caso di sponsorizzazioni (R.M. 5.11.1974, n. 2/1016 e 17.6.1992, n. 9/204; C.M. 34/E/ 2009, par. 3.1).
In sostanza, anche le spese di pubblicità non sfuggono e sono deducibili solo se
inerenti all’attività d’impresa, ex art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986.
Tanto premesso, è la stessa Corte a chiarire che i costi di sponsorizzazione sono
«fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale» in quanto «la sponsorizzazione si traduce in una forma di pubblicità indiretta, consistente nella promozione del marchio o del prodotto (…) e sotto tale profilo l'inerenza (…) dei costi della sponsorizzazione all'attività di impresa, qualora lo sponsor sia lo stesso titolare del marchio o il produttore del bene da promuovere, non pare seriamente dubitabile. In siffatta ipotesi, è, invero, di chiara evidenza che la pubblicizzazione del marchio o del prodotto si traducono innegabilmente in un potenziale vantaggio economico diretto per l'impresa sponsorizzante, potendone derivare, in conseguenza, un incremento della propria attività commerciale. E, in tale prospettiva, va tenuto conto (…) del fatto che la deducibilità di un costo dal reddito di impresa non postula che esso sia stato necessariamente sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, essendo sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all'impresa in quanto tale, ossia che tale costo sia stato sostenuto al fine di svolgere un'attività potenzialmente idonea a produrre utili» (Cass. 27.4.2012, n. 6548 ed anche
Cass. 22.12. 2014, n. 27198; Cass. 25.2.2015, n. 3770; Cass. 16.3.2016, n. 5195; Cass.
24.9.2014, n. 20054; Cass. 24.9.2014, n. 20055; Cass. 20.5.2015, n. 10319).
Principio di inerenza e costi di sponsorizzazione
Il citato art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986 dispone che «le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi (…)».
Vale a dire, come già detto, che il concetto di inerenza dei costi va riferito, non ai ricavi, ma all'oggetto dell'impresa e, quindi, la deducibilità di costi non è necessariamente collegata alla realizzazione di ricavi (cfr. ex multis, Cass. 16.3.2007, n. 6194; Cass. 21.1.2011, n. 1389; Cass. 24.9.2014, n. 20054; Cass. 24.9.2014, n. 20055).
Orbene, come riconosciuto dalla stessa Corte, i costi di sponsorizzazione, traducendosi per lo sponsor in una forma di pubblicità consistente nella promozione del marchio e
del prodotto, vanno considerati, di per sé, inerenti all'attività d’impresa senza che rilevi la non congruità tra la spesa ed i ricavi realizzati nell'anno di imposta in quanto non occorre vi sia un immediato riscontro, ma che tale costo sia proiettato ad utilità future (cfr. Cass. 22.12. 2014, n. 27198; Cass. 27.4.2012, n. 6548; Cass. 20.5.2015, n. 10319;
Cass. 16.3.2016, n. 5195).
Va detto, inoltre, che, in xxx xx xxxxxxxxx, xxxxxxx xxxxxxx nei poteri del Fisco la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi, anche se non risultano irregolarità delle scritture o vizi degli atti giuridici, tale sindacato non può certo spingersi sino alla
«verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa l’opportunità di tali costi rispetto all'oggetto dell'attività (…) perché il controllo attingerebbe altrimenti a valutazioni di strategia commerciale riservate all'imprenditore» (cfr. Cass. 20.5.2015, n. 10319).
Il richiamo dell’Ufficio al giudizio di congruità dei costi, basato sul ritorno economico, tipologia degli spettatori e ambito territoriale ove si svolgono gli eventi sponsorizzati, merita delle, se pur brevi, osservazioni sui profili di irragionevolezza, sproporzione e difetto di economicità indagati alla luce del principio di inerenza.
Territorialità e tipologia di spettatori
Uno degli argomenti sul quale fa leva il Fisco per negare la deducibilità dei costi di sponsorizzazione è quello della territorialità (cfr. Cass. 25.9.2014, n. 25100; Cass. 27.5.2015, n. 10913; Ctp di Reggio Xxxxxx, Sez. I, 5.3.2008, n. 23).
La tesi pare fondata sulla presunzione che il ritorno economico delle spese pubblicitarie sia strettamente dipendente dal luogo ove è svolta la pubblicità e dai soggetti che quel territorio abitano.
È il caso, ad esempio, di sponsorizzazioni, da parte di un’impresa operante in Italia, di gare automobilistiche svolte in parte in Italia e in parte all’estero; in tal ipotesi difetterebbe l’interesse economico e, quindi, l’inerenza dei costi per quelle gare svoltesi all’estero.
L’errore è manifesto.
Si tratta, all’evidenza, di visione arcaica dei contratti di sponsorizzazione che non tiene conto che il messaggio pubblicitario non dipende affatto dal luogo ove si svolge l’evento sportivo, ma dai sistemi di informazione che in relazione a tale evento sono attivati.
È noto, infatti, che il mezzo pubblicitario, abbinato ai moderni sistemi di comunicazione (televisione, radio, Internet, ecc.), consente di indirizzare il messaggio, oltre che ad un pubblico indistinto, ai potenziali soggetti interessati ovunque situati.
Conta poco ove si svolge la manifestazione, ma conta come viene «portato» all’esterno il messaggio pubblicitario che, tramite giornali, Internet, trasmissioni televisive, telefoni cellulari, non ha più confini territoriali e può raggiungere anche persone geograficamente lontane (è il caso delle partite di calcio, delle gare automobilistiche, trasmesse per televisione, ecc.; le nuove tecnologie consentono di esaminare con precisazione ingrandire, ruotare le immagini, ecc.).
In conclusione, ovunque siano svolti gli eventi (in Italia o all’estero), il marchio può essere visto ovunque e non solo dagli spettatori presenti nel luogo ove si svolge la manifestazione.
Orbene non è dubbio che i soggetti concretamente interessati siano un numero distinto dalla massa di spettatori.
È manifesta, pertanto, l’irragionevolezza dell’Ufficio che riconosce la congruità e l’inerenza solo dei costi di pubblicità riferentesi a prodotti per i quali tutti i potenziali destinatari del messaggio possano essere concretamente interessati all’acquisto, escludendo quei costi che pubblicizzano beni diretti solo ad un target determinato (ad esempio la pubblicità delle auto di lusso, borse da donna, ecc.).
Secondo questa opinione dovrebbero, ad esempio, essere considerati indeducibili i costi sostenuti dalla FAAC (nota società che produce cancelli automatici) per sponsorizzare una blasonata squadra di calcio (Bologna) in quanto i potenziali acquirenti sono certamente in numero limitato rispetto alla massa indistinta, e ovunque collocata, dei soggetti raggiunti dal messaggio pubblicitario anche attraverso trasmissioni televisive, ecc.
Sul punto delle spese di pubblicità, deducibili anche per zone geografiche fuori dall’ambito territoriale di operatività dell’impresa, definitivo dovrebbe essere il chiarimento della stessa Suprema Corte secondo cui «considerando l’evoluzione del c oncetto di messaggio pubblicitario all’epoca della globalizzazione, deve ritenersi che lo stesso non sia più soltanto finalizzato a promuovere le vendite di prodotti già esistenti, ma anche a sensibilizzare i potenziali clienti su beni o servizi non ancora offerti (…). In
questa prospettiva devono considerarsi inerenti all’attività le spese di pubblicità (…) sostenute in aree geografiche in relazione alle quali non sussista ancora alcun legame
con l’attività aziendale» (Cass. 25.2.2015, n. 3770; e cfr. Cass. 22.12.2014, n. 27198;
Cass. 16.3.2016, n. 5195).
Economicità
Con riguardo all’economicità delle operazioni di sponsorizzazione può osservarsi che si tratta di spese che per loro natura potrebbero non produrre mai dei ricavi; infatti le spese di pubblicità sono sostenute per una attività potenzialmente idonea e nella prospettiva di aumentare i ricavi, senza la minima garanzia che tale obiettivo sia davvero conseguito (cfr. Cass. 27.5.2015, n. 10913; Cass. 26.11.2014, n. 25100).
Può, quindi, ritenersi che quale indizio rivelatore dell’attendibilità dei costi di
sponsorizzazione può ben essere assunto il rapporto di proporzionalità, cioè al rapporto
tra l’ammontare complessivo dei costi di pubblicità ed il volume di affari
dell’impresa.
Va, pertanto, censurato il comportamento dell’Ufficio che, senza distinguere e senza tener in alcun conto le prove documentali di effettuazione dell’attività di sponsorizzazione, riprende a tassazione costi di sponsorizzazione che, se rapportati al volume d’affari dell’impresa, sono assolutamente modesti.
Pur a fronte di una corretta contabilità, pagamenti effettuati, prova dell’effettuazione delle manifestazioni pubblicitarie, come si giustifica la ripresa fiscale effettuata dall’Ufficio che nega, tout court, la deducibilità dei costi pur avendo la società fornito la prova di un ritorno commerciale diretto?
Comportamenti, questi dell’amministrazione finanziaria, contrari a quella stessa rigorosa giurisprudenza invocata che affida al criterio di economicità, ovvero ad un congruo rapporto tra l’ammontare delle spese di pubblicità ed il volume di affari dell’impresa, il giudizio di congruità dei costi.
Aspettativa di ritorno commerciale
Si osserva inoltre che la prova fornita dal ricorrente circa il ritorno commerciale derivato dall’attività di sponsorizzazione, è stata prodotta “ad abundantiam”, in considerazione del fatto che gran parte della giurisprudenza della stessa Corte non condivide
l’orientamento che impone un concetto di strettissima correlazione fra costi e specifico ricavo. Secondo i giudici ermellini, infatti, la deducibilità di un costo non postula che sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma è sufficiente che sia inerente in senso ampio all'attività d'impresa ovvero che sia stato sostenuto per svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass. 24.9. 2014, n. 20054 e 20055; 20.5.2015, n. 10319; 16826/2007).
Inoltre, come la stessa Amministrazione finanziaria ha posto in evidenza (cfr. Parere Comitato antielusivo 19.2.2001, n. 1), le spese di pubblicità (o di sponsorizzazione) non presentano un collegamento diretto con i ricavi, tanto è vero che il Legislatore fiscale, proprio per eliminare ogni possibile dubbio sulla loro inerenza, ne ha sancito espressamente la deducibilità (art. 108, co. 1, D.P.R. 917/1986 ).
Sorge allora il dubbio che la pretesa della prova del ritorno commerciale diretto sia propria figlia di quel sospetto, inizialmente accennato, di sponsorizzazioni fittizie ovvero per corrispettivi «gonfiati» che induce il Fisco a rifiutare la deducibilità dei costi sotto il profilo della sua antieconomicità e non congruità ogni qualvolta presentino elementi di incoerenza rispetto all'attività d'impresa esercitata, ossia non si giustifichino in termini di ritorno pubblicitario.
Le contraddizioni e l’irragionevolezza generate da tale percorso argomentativo sono palesi.
Una volta che il messaggio pubblicitario sia portato all’attenzione del pubblico nessuno, infatti, può escludere che un qualsiasi operatore contatti lo sponsor per stipulare nuovi contratti, che nasca disponibilità ad una nuova collaborazione economica, ecc.; né rileva che lo sponsor operi in un settore diverso di quello del soggetto sponsorizzato (ad esempio, impresa alimentare che sponsorizza una squadra di calcio o gare automobilistiche).
Ne consegue che la diretta aspettativa di ritorno commerciale non può che essere insita nel messaggio pubblicitario mediante il quale si comunica ad un pubblico indistinto l’esistenza del marchio o del prodotto.
In conclusione, non pare possibile negare l’inerenza del costo in quanto è la stessa pubblicità, ovvero lo strumento impiegato per la comunicazione al pubblico, che rivela, ex se, il collegamento con il programma economico dell’imprenditore richiesto per la deducibilità del costo.
Valga l’esempio già proposto di una blasonata squadra di calcio (Bologna) sponsorizzata da una società che produce cancelli automatici (FAAC), ebbene non può certo negarsi che è lo stesso mezzo di comunicazione che genera l’aspettativa di un incremento della clientela anche se manca qualsiasi legame, neppure potenziale, tra l’attività dello sponsor (cancelli e ferramenta) e l’attività sponsorizzata (partite di calcio).