CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE E INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA DEL LAVORO.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola di Alta formazione Dottorale
Corso di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro Ciclo XXXIV
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE E INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA DEL LAVORO.
IL CASO TENARIS DALMINE
Supervisore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
Tesi di Dottorato di Xxxxxx Xxxxxxxxx (matricola) 1058467
INDICE
CAPITOLO I
POSIZIONE DEL PROBLEMA, IMPOSTAZIONE METODOLOGICA E INDICAZIONE DELLE FONTI
1. Introduzione e posizione del problema……………………………………….......
2. Un atteggiamento critico aperto per guardare al diritto del lavoro e alle relazioni industriali…………………………………………………………………………
3. Lo studio di caso presso Tenaris Dalmine………………………………………...
4. Le fonti…………………………………………………………………………….
CAPITOLO II
LITERATURE REVIEW
1. Il contratto collettivo come mezzo di composizione del conflitto industriale: la concezione pluralista……………………………………………………………...
2. Lo studio giuridico del contratto collettivo aziendale e la peculiarità del settore siderurgico…………………………………………………………………..........
3. Il contratto collettivo aziendale per la regolazione della tematica organizzativa……………………………………………………………………...
4. L’aggiornamento della nozione giuridica di subordinazione: il lavoratore subordinato come “professionista”: dal conflitto redistributivo al riconoscimento della professionalità?..............................................................................................
CAPITOLO III
SVILUPPO DEL CASO DI STUDIO
1. Contestualizzazione del caso nel sistema contrattuale dell’industria metalmeccanica e del mercato siderurgico: variabili economiche e di relazioni industriali …………………………………………………………………….......
2. Una proposta di ricostruzione del sistema di relazioni industriali in Tenaris Dalmine: “accordo Ilva” dell’89 e integrativo Dalmine del ’98…………………..
3. Il Progetto Prisma del 1993: valorizzare la professionalità nella collaborazione….
4. Le regole per contrattare sulla tematica organizzativa…………………………….
5. La contrattazione presso il reparto TRT2 di FAS……………………………………………………………………..............
6. L’Integrazione premiale per i risultati produttivi del Laminatoio………...………………………………………...................................
7. Il progetto industriale A tutto FAS: la contrattazione aziendale per l’innovazione organizzativa……………………………………………………………………...
CAPITOLO IV
CONCLUSIONI
1. Il ruolo della contrattazione collettiva aziendale e delle relazioni industriali, fra problema e opportunità…………………………………………………………...
2. La fabbrica come “bene comune” ...………………………………………………
BIBLIOGRAFIA
Posizione del problema, impostazione metodologica e indicazione delle fonti
Sommario. 1. Introduzione e posizione del problema – 2. Un atteggiamento critico aperto per guardare al diritto del lavoro e alle relazioni industriali – 3. Lo studio di caso presso Tenaris Dalmine – 4. Le fonti
1. Introduzione e posizione del problema
Attraverso lo studio di caso, la presente ricerca intende analizzare le dinamiche di relazioni industriali e della contrattazione collettiva nell'azienda siderurgica Tenaris Dalmine. In particolare, si vuole approfondire la funzione giocata dalla contrattazione collettiva in un contesto produttivo segnato da profonde trasformazioni: e ciò, nell’ottica di ragionare sui problemi di sistema che riguardano l'evoluzione dell'autonomia collettiva nel suo complesso. A questi fini, lo studio di caso è parso la metodologia di analisi appropriata. Si tratta di un tipo di ricerca di riconosciuta tradizione per la disciplina delle relazioni industriali. In Inghilterra, nel Paese pragmatico della Common Law, gli studi di caso degli Xxxx ( 1 ) hanno giocato un ruolo pioneristico. In America, lo sprono dell’economista istituzionale Xxxx Xxxxxxx al look and see (2) ha formato la pietra d’angolo di una scuola (e di un metodo) che per decenni ha influenzato il management delle relazioni di lavoro nelle aziende statunitensi. Il valore dello studio di caso, del resto, è forse riassunto dalla seguente considerazione: esso consente dapprima di conoscere il particolare, quindi di sondare se quel particolare possa riuscire quale termine di rifrazione per tendenze più generali.
Anche in Italia, lo studio nell’ambito delle relazioni industriali ha avuto dietro di sé, storicamente, questa attitudine a guardare il concreto: a farsi analisi sulla realtà, per individuare i problemi del lavoro e suggerire soluzioni pertinenti. Sul tema, Xxxxxxx Xxxxxxx (3) ha evidenziato il ruolo fondamentale giocato dai giuslavoristi. Ha ricordato la frequentazione di Xxxx Xxxxxx con l’ambiente nordamericano, e poi la funzione seminale dello stesso Xxxxxx per una teoria delle relazioni industriali italiane. Fra quanti hanno seguito le orme di Xxxxxx, Xxxxx Xxxxx ( 4 ) ha senz’altro rilanciato il senso della contrattazione collettiva come metodo di bilanciamento degli interessi del lavoro: e ciò, in una logica non fissata sulla conservazione come valore, ma aperta all’innovazione e alla sperimentazione. Anche in campo sindacale, fra l’altro, nel corso degli anni sono stati
(1) S. e X. XXXX, Le leghe operaie dal 1890 al 1920, in C. Arena, Lavoro, (a sua volta in) La nuova collana di economisti – stranieri e italiani, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1936.
(2) J. R. COMMONS, Industrial Goodwill, Mcgraw-Xxxx Book Company, New York, 1919.
(3) X. XXXXXXX, Introduzione, in Idee per il lavoro, Laterza, 2020, passim.
(4) X. XXXXXXXXXX, Morte di un riformista, Marsilio Editori, 2003, passim.
proposti cambiamenti profondi, in grado di investire la teoria e la pratica dell’azione sindacale. La Cisl ad esempio, a partire dagli anni ’60, ha contribuito a riconoscere l’importanza del discorso sulla pluralità dei livelli contrattuali. Ma la stessa Cgil ha avuto personalità del calibro di Xxxxx Xxxxxxx (5) a invocare per il sindacato nuove forme di attenzione ai problemi concreti del lavoro: quei problemi che emergono in aderenza ai “vecchi” e “nuovi” processi di produzione del valore. Insomma, in Italia il pragmatismo ha animato il pensiero di prestigiosi teorici, come pure di importanti attori del sistema delle relazioni industriali. In quest’ordine di idee, produrre uno studio di caso di diritto delle relazioni industriali può essere letto come il tentativo di collocarsi all’interno di una tradizione significativa: un po’ come provare a essere “nani sulle spalle di giganti”. Questo tentativo, pare, richiederà di rimanere fedeli all’obiettivo di realizzare una convergenza all’interno dell’ambito teoretico del diritto del lavoro: la convergenza dovrà riguardare, da un lato, il pragmatismo necessario per la ricerca, dall’altro l’ambizione a individuare concetti e linee di analisi con cui far avanzare la domanda del ricercatore.
La domanda di ricerca
Il contratto collettivo aziendale, oggi, è adatto a definire le regole del gioco per bilanciare il legame d’interesse fra lavoratori e azienda entro il cambiamento dell’organizzazione? È questa la domanda di ricerca da cui parte lo studio. La domanda è nata dall’osservazione delle dinamiche di relazioni industriali in Tenaris Dalmine. È maturata poi assieme ai problemi affrontati nella dialettica fra rappresentanza sindacale e azienda. In un certo modo, la domanda è nata dall’esigenza di trovare una visuale sui perché di un compito quotidiano faticoso: quello appunto delle relazioni industriali. L’indagine sulla sistemazione giuridica della contrattazione è così divenuta parte integrante dell’impegno per trovare chiavi di lettura. Ci si è chiesti in che termini la contrattazione collettiva s’inserisca nell’ordinamento; in che modo contribuisca a dare razionalità giuridica alle dinamiche attuali del lavoro. Questi interrogativi sono poi stati declinati con riguardo alla contrattazione aziendale. È parso infatti di doversi approfondire se essa sia o meno un “tipo” speciale di contrattazione; soprattutto è parso di doversi comprendere come essa si collochi nel sistema delle fonti. Interpretare in termini generali la funzione della contrattazione (e della contrattazione aziendale in particolare) ha però costituito il primo passo. Proseguendo con la posizione del problema, s’è poi subito imposto il tema dell’organizzazione e del cambiamento dell’organizzazione. Ci si è domandati infatti se l’asimmetria nella relazione di potere fra lavoratori e azienda (asimmetria rispetto a cui è provocata funzionalmente la contrattazione aziendale) non provenga essenzialmente dall’inserimento dei primi nel progetto organizzativo dell’imprenditore. E visto che questa domanda è sembrata “cogliere il punto”, è stata
(5) X. XXXXXXX, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, 1997.
individuata una traccia su cui far progredire l’indagine. Il tema del cambiamento dell’organizzazione è stato utilizzato criticamente per considerare l’attualità della tecnica della contrattazione aziendale. Fra l’altro, il collegamento tra organizzazione e contrattazione è sembrato fin dall’inizio “biunivoco” nel senso che ora si va a dire. La contrattazione non può essere concettualizzata solo in termini di “reazione” di fronte al cambiamento organizzativo. In quanto tecnica volta a conferire razionalità all’inserimento del lavoro nell’organizzazione (consideratone poi il fondamento volontaristico) la contrattazione va apprezzata come uno strumento ambivalente: tecnica per il raggiungimento di istanze di efficienza oltre che di equità. In questo senso la contrattazione (a parte rivelarsi opportuna “a valle”) potrà pure essere scelta “a monte” per avviare il cambiamento organizzativo. Questa scelta sarà tanto più frequente quanto più parrà positiva la risposta al seguente quesito: la contrattazione è capace di farsi ponte per avvicinare il lavoro all’organizzazione?
Il “lavoro” considerato nello studio di caso
Lo studio di caso condotto in Tenaris Dalmine, fra l’altro, ha imposto una precisazione riguardo al lavoro come termine concreto dell’indagine. Nell’azienda, s’è infatti riscontrato che la contrattazione decentrata è praticata assiduamente, ma riguarda per lo più l’ambiente industriale e la popolazione degli operatori. Ad esempio, la strada della contrattazione è percorsa nei reparti di laminazione, della finitura a freddo, del colaggio acciaio… Al contrario, la contrattazione è una pratica quasi “straniera” in ambienti differenti. Si faccia il caso degli uffici commerciali, dei laboratori di ricerca e sviluppo, dei locali della direzione tecnica. Per questi luoghi e funzioni l’azienda (per perseguire obiettivi specifici, come l’engagement delle persone o la retention dei talenti) utilizza tecniche riconducibili al filone del HR management. Riconosce nel lavoro allora, comunque un fronte d’impegno peculiare. E però su detto fronte d’impegno non è avvertita (o se si vuole, non è fatta avvertire) un’esigenza contrattuale collettiva paragonabile a quella degli ambienti industriali. Quanto abbozzato potrà offrire materiale per vari ragionamenti nel corso dello studio. Ma al di là di questo, rimane che la ricerca ha fatto i conti con il caso concreto. Si sono considerati allora i contenuti attuali dei lavori degli operatori e delle squadre negli ambienti di fabbrica. Inoltre, nella visuale di ricerca, s’è imposta la questione della subordinazione giuridica: infatti negli ambienti operativi di Tenaris Dalmine, la contrattazione interessa solamente lavoratori subordinati. Quindi, se si deve scandagliare la funzione giuridica della contrattazione aziendale, nel senso di strumento per razionalizzare la relazione tra lavoro collettivo e organizzazione e scoprirla equilibrata, la subordinazione giuridica sta a chiave di volta nella posizione del problema.
Il “lavoro” come termine della domanda di ricerca, è stato dunque apprezzato nei contorni formali “classici” della subordinazione. E ciò, seppure la questione della autonomia nella prestazione – in altri termini, la flessibilità dell’apporto individuale –
abbia senz’altro costituito uno snodo di analisi per connettere le attuali forme di contrattazione ai contenuti concreti delle collaborazioni individuali. La domanda di ricerca su contrattazione e organizzazione e sul bilanciamento della relazione d’interesse fra questi due termini, appare perciò riproponibile con il tema della subordinazione giuridica a fare da perno del ragionamento e ad aiutare a scoprire una visuale di senso per la ricerca. La contrattazione aziendale è in grado di conferire effettiva resilienza allo statuto della subordinazione giuridica nel cambiamento organizzativo?
Il discorso sulla subordinazione è un’altra faccia di quello sulla funzione della contrattazione decentrata, perché l’innovazione organizzativa scuote il baricentro della subordinazione. La prospettiva ampia consentita dal collegamento tra la stessa prestazione subordinata individuale e l’organizzazione ha fatto sì, peraltro, che l’esame della casistica contrattuale presso Tenaris Dalmine non si limitasse alle questioni “organizzativistiche” in senso stretto. Non s’è badato quindi soltanto ai documenti contrattuali sull’orario di lavoro, sulle turnazioni, o anche sull’inquadramento e classificazione del personale. Per la ricerca s’è apprezzato anche il materiale insistente su temi ulteriori, riconducibili (per usare espressioni diffuse) alle parti economica e obbligatoria del contratto. Ad esempio, non sono state poste preclusioni sui contratti istitutivi di premi di risultato. Il collegamento fra risultati e remunerazione, del resto, è stato colto quale soluzione di sistema per indirizzare nel segno dell’effettività alcuni comportamenti dei lavoratori. In tal senso, un premio di risultato può essere scoperto come una risorsa organizzativa con cui si tenta la convergenza tra gli interessi delle parti. Insomma, è stato lo stesso pragmatismo richiesto dallo studio di caso a far apprezzare le tradizionali catalogazioni dei contenuti contrattuali (parte normativa, economica, obbligatoria del contratto…) quali descrizioni che aiutano a orientarsi e a riconoscere i vari aspetti di un documento collettivo. Allo stesso tempo però s’è voluto evitare che dette catalogazioni assurgessero a criterio per una distinzione formalistica, con cui poi circoscrivere il campo d’indagine. Infatti (proponendosi un’immagine semplice) come le regole di uno sport hanno una propria fisionomia e rispondono a vari scopi ma non possono essere slegate le une dalle altre per potersi fare “la partita”, così le regole del gioco nella relazione tra lavoratori e azienda non possono per lo studio essere separate artificiosamente. Al contrario, concorrono tutte a fornire il quadro d’insieme e a far ricavare un’idea complessiva sulle soluzioni approntate. D’altronde, con tali avvertenze sul piano del metodo, non s’intende presupporre nulla di nuovo sul piano del merito. L’interpretazione sistemica dei contratti collettivi; la loro stessa comparazione non fissata su singole clausole o tematiche, ma aperta ad apprezzarne il carattere complessivo; la riflessione sulla clausola d’inscindibilità del contratto collettivo come implicita nel tessuto contrattuale; infine, la valorizzazione del contratto collettivo come contratto di scambio e perciò lo stesso studio dell’obbligo sociale di tregua dal conflitto collettivo; sono tutti argomenti utili per affermare che se sul piano del merito è ormai
invalsa una “visione d’insieme” sul contratto collettivo, sul piano del metodo dev’essere messo in campo un approccio conseguente e coerente.
C’è un’ultima avvertenza per apprezzare la posizione del problema e la visuale di ricerca che ci si propone. L’interesse d’indagine per la funzione della contrattazione aziendale entro il cambiamento organizzativo si spiega senz’altro, con l’esigenza di affrontare un aspetto dirimente per sostenere o negare l’attualità delle relazioni industriali nei luoghi di lavoro. Del resto, s’è detto che stare dentro l’organizzazione è un fatto sociale complesso, sul quale le regole del lavoro provano a dare risposte di bilanciamento. È così impostata una visuale di ricerca per lo studio di caso su Tenaris Dalmine, nel tentativo di andare al cuore degli aspetti teorici e pratici della contrattazione nell’azienda. E però, non si vuole affermare che l’attualità della funzione delle relazioni industriali si possa misurare soltanto nel rapporto di lavoro. Cioè: che la solidità delle soluzioni normative offerte dalla contrattazione sia indagabile solo sul fronte della relazione tra individuo e organizzazione. Senza dubbio il ruolo delle relazioni industriali oggi è da più parti approfondito anche rispetto all’individuo nel mercato del lavoro. Fra le altre, ad esempio, la prospettiva dei mercati transizionali del lavoro richiede proprio il superamento della divaricazione degli studi sulla persona e il lavoro, in modo da portare a unità la misura e la valorizzazione del percorso professionale dell’individuo. Insomma: le relazioni industriali per la sperimentazione di come si può dare ordine al fatto economico-sociale del lavoro, possono essere studiare in un’ottica differente (e complementare) a questa ricerca. E però, lo studio di caso che si presenta è figlio delle sollecitazioni ricevute dall’ambiente studiato. La curiosità per un’indagine d’altronde, probabilmente muove da una corrispondenza tra sensibilità scientifiche di partenza e quanto l’esperienza sa mostrare. Con riguardo a Tenaris Dalmine e alla sua comunità aziendale, ha colpito l’occhio da un lato il carattere “ampio” dell’organizzazione, richiesto prima di tutto dalla dimensione “ampia” dei processi produttivi, degli spazi di lavoro, delle squadre di persone impegnate. Dall’altro lato, la diffusa stabilità dei rapporti individuali di lavoro, oltre che la tradizione pluridecennale in fatto di relazioni industriali con alto tasso di formalizzazione e riconoscimento da parte degli attori coinvolti, hanno sollecitato a chiedersi che effetti il cambiamento nelle sue varie accezioni (tecnologico, di mercato…) abbia su una realtà del lavoro del genere, e se quindi la contrattazione aziendale giochi a riguardo una funzione di resilienza.
2. Un atteggiamento critico aperto per guardare al diritto del lavoro e alle relazioni industriali
Un’indagine volta a sondare se la contrattazione aziendale oggi sappia o meno bilanciare la relazione d’interesse tra lavoratori e azienda, richiede un atteggiamento critico aperto. Soprattutto, pare che la domanda di ricerca inviti a sgombrare il campo da
un certo modo di considerare il diritto del lavoro. Il diritto del lavoro è senz’altro “diritto del contraente debole”. Eppure esso è anche diritto del capitale (6) o della produzione (7). Questa affermazione non vuole negare il principio essenziale del diritto del lavoro e delle relazioni industriali: che il lavoro non è una merce (8). Tuttavia, si vuole aggiungere che il diritto del lavoro e le relazioni industriali sono stati costruiti di modo che riconoscessero rilievo pure alle esigenze dell’efficienza economica. L’iniziativa economica privata perciò rientra nell’orizzonte di significato del diritto del lavoro: il diritto del lavoro e le relazioni industriali non sono una forza “esterna” al sistema capitalistico. Piuttosto, formano un modo d’intervento con cui al sistema economico è data una forma coerente a dei valori di fondo (9). È quindi la coerenza della costruzione economico-sociale rispetto ai valori condivisi dalla comunità politica (ad esempio il lavoro non è una merce) che serve a quel modello per essere accettato da quella comunità politica. L’accettazione aiuta il carattere di effettività e la resilienza nelle trasformazioni del modello economico- sociale. È per tutte queste ragioni che il diritto del lavoro e le relazioni industriali non stanno fuori ma interessano il mercato e l’economia. Aiuta questa spiegazione il concetto di limite. Il formante giuslavoristico limita le potenzialità offensive del capitale nei confronti delle persone; allo stesso tempo però delimita, nel senso che preserva l’impresa dalla contestazione radicale e dall’eventualità del collasso. Ecco allora che la salubrità delle condizioni di impiego, la proporzionalità e sufficienza della retribuzione, le fondamentali libertà personali dei dipendenti assurgono a caratteri di preservazione dello schema capitalistico. Sotto questa luce il diritto del lavoro si può leggere anche come “diritto del capitale” e l’efficienza si rivela un’altra faccia dell’equità (e non suo contrario dialettico).
Pare che queste considerazioni si possano applicare sia alla norma lavoristica posta dallo stato, sia alla norma nata dal gioco della contrattazione collettiva. Pare anzi che si adattino con particolare intensità alla contrattazione collettiva osservata secondo l’impostazione pluralista (l’impostazione inaugurata dai coniugi Xxxx) e ciò per le seguenti ragioni. Fin dagli albori, la visione pluralista s’è dimostrata una visione di senso utile ai dipendenti coalizzati per organizzarsi di fronte alla moderna produzione industriale. Nell’ottica pluralista, la forza del collettivo è servita a negoziare con il capitalista norme di efficace gestione del conflitto sociale (si pensi al nodo della redistribuzione della ricchezza). L’invito insomma a un atteggiamento critico “aperto” s’inserisce a pieno titolo nella tradizione pluralista: è stata questa infatti a valorizzare la contrattazione come leva per la riforma del capitalismo.
(6) X. XXXXXXXXX, Quel diritto che dal lavoro prende il nome, in LD, n. 4, 2018, 690.
(7) M. G. XXXXXXXX, Unità e pluralità del lavoro nel sistema costituzionale, in DLRI, n. 1, 2008, 21.
(8) B. E. XXXXXXX, Il principio essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni industriali, in I. SENATORI (a cura di), Teoria e Prassi delle Relazioni Industriali. Letture di Diritto delle Relazioni Industriali, ADAPT University Press, 6.
(9) X. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx, regole, valori, relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Udine, 13-14 giugno 2019, 7.
La riforma è la tendenza pratica che fa da contrappunto a un atteggiamento teorico “aperto” nel campo del lavoro. Riforma significa che per il tramite della contrattazione si possono raggiungere conquiste strategiche su entrambi i versanti del tavolo. Per avverare le richieste del movimento dei lavoratori. Per irrobustire e “normalizzare” il paradigma economico-produttivo nei Paesi più centrali del sistema-mondo capitalistico. Sotto questa luce, la contrattazione è culmine (e per converso limite) della mobilitazione in chiave “pluralista” dei lavoratori. Nel momento contrattuale in tal senso, può individuarsi un punto di rifrazione dell’adeguatezza della mobilitazione sociale sui temi del lavoro, della funzione cioè giocata dalle relazioni industriali.
3. Lo studio di caso presso Tenaris Dalmine
L’obiettivo è che la presente ricerca produca interesse nei luoghi dove la pratica contrattuale costituisce bisogno quotidiano e irrinunciabile (aziende, sindacati, associazioni di rappresentanza datoriale). Poiché peraltro, l’esito di un percorso riceve sostanza dal modo in cui esso è stato condotto, la presente ricerca è stata impostata come impegno sul campo. È stato scelto (come dichiarato nell’introduzione) il metodo dello studio di caso. Questo è stato portato avanti durante una consistente esperienza di apprendistato di alta formazione presso l’azienda siderurgica italo-argentina Tenaris Dalmine. Durante questo apprendistato, si è cercato di offrire supporto alle maggiori progettualità contrattuali-collettive dello stabilimento di Xxxxxxx; inoltre, è stato dedicato impegno quotidiano per la gestione delle relazioni individuali e collettive di lavoro presso l’area organizzativa “FAS”, Fabbrica Tubi Grande Diametro, la quale possiede una popolazione di circa 110 persone.
Sebbene lo studio di caso in generale sia metodologia di ricerca più usuale in ambiente anglosassone che non in Italia – e ancor meno, lo studio di caso è frequente nell’ambito degli studi giuridici – s’è considerato che la vitalità del fenomeno contrattuale collettivo non potesse abbracciarsi se non a partire dalla prassi. Detta prassi, peraltro, è stata osservata con gli occhi del giurista. È in forza della tecnica giuridica, del resto, che le relazioni industriali assurgono a metodo di ingegnerizzazione sociale dei processi economici italiani. S’è considerato quindi, che partire dal basso, dalla prassi, potessero comprendersi gli interrogativi quotidiani dei luoghi del lavoro e della produzione. L’umiltà del dato reale, nella sua contraddittorietà, s’è ritenuto potesse servire per irrobustire le fondamenta dell’elaborazione teorica. D’altronde, maestri come Xxxx Xxxxxx hanno indicato proprio nei documenti ricavati dalla prassi, il materiale di costruzione per il ragionamento dottrinale nel campo delle relazioni industriali.
Fra i maestri che hanno rinunciato agli imbrigliamenti del formalismo, pur riuscendo a proporre le proprie idee e ad affermare la propria reputazione al massimo livello, figura senz’altro il nome di Xxxxxxx Xxxxxxxxx. Xxxxxxxxx, da giurista, ha
condotto sul finire degli anni ’60 uno studio di caso ( 10 ) “sul campo”, presso lo stabilimento industriale dell’azienda tessile Bassetti. La sua opera costituisce oggi un esempio per il metodo usato. Pare infatti che nella propria analisi, Xxxxxxxxx abbia realizzato con successo una convergenza: gli strumenti dell’interpretazione giuridica in suo possesso sono serviti a comporre su base razionale le osservazioni svolte sul piano di realtà, attraverso il dialogo con gli stessi protagonisti delle relazioni industriali alla Bassetti e l’attenzione quasi filologica ai documenti prodotto della loro interazione. È senz’altro molto significativo, poi, che la ricchezza di analisi apportata dal giurista, si sia innestata su un terreno di conoscenze preparato da un’altra indagine scientifica. Lo stabilimento tessile della Bassetti è stato infatti abbracciato, sul finire degli anni ’50, dallo studio di caso di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx: “Comunità e razionalizzazione” (11). Detto studio, condotto con strumenti di analisi e metodi di raccolta delle informazioni della sociologia, ha tentato di ricostruire le modalità dell’interazione fra processo di riorganizzazione aziendale alla Bassetti (processo ispirato da istanze di efficienza) e i comportamenti sociali e il benessere individuale dei cittadini della comunità di Rescaldina, comune dove si collocava lo stabilimento tessile. Pare allora di potersi notare che il fatto che Xxxxxxxxx, forte della lettura del sociologo Xxxxxxxx, abbia rivolto il proprio impegno di ricerca alla Bassetti di Rescaldina, sia emblematico della capacità generativa della contaminazione fra saperi. L’opera d’interpretazione e messa a sistema giuridica, infatti, è stata sorretta e resa più solida dalla conoscenza di un dato di realtà “sminuzzato” e ricomposto grazie alla ricchezza di un’altra scienza sociale. Il contributo di Xxxxxxxxx all’innovazione del metodo di ricerca, oltre che le sue riflessioni capaci di muovere dal particolare degli impianti di Rescaldina per assumere una valenza generale nello studio delle relazioni industriali, sono stati riconosciuti dallo stesso Xxxx Xxxxxx. Nella sua Introduzione a Contrattazione e partecipazione ( 12 ), Xxxxxx ha allora evidenziato tre punti nodali. Innanzitutto, che non potrebbe “ingaggiarsi” il sindacato solamente grazie al richiamo al valore dell’efficienza; al più, sarebbe opportuno argomentare persuasivamente che l’efficienza ha ricadute positive per i lavoratori organizzati. In secondo luogo, che sul piano di realtà non potrebbe cogliersi alcuna “associazione partecipativa” fra sindacato e azienda; una effettiva cooperazione, piuttosto, dovrebbe essere “conflittuale” per poter essere rintracciata. Infine, che la positività dell’esperienza di relazioni industriali raccontata, è consistita nell’aver “preparato la terra” per il “seme” della contrattazione decentrata; che anzi, per certi versi s’è trattata di un’occasione persa, le cui potenzialità sono state sminuite per il timore sindacale di “prestare il fianco” all’impresa allargando le tematiche della contrattazione. Giugni sul tema ha anche chiosato: “È proprio la logica
(10) X. XXXXXXXXX, Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana, Il Mulino, 1968.
(11) X. XXXXXXXX, Comunità e razionalizzazione. Ricerca sociologica su un caso di sviluppo industriale, Marsilio Editore, 2010 (1a edizione: 1960).
(12) X. XXXXXX, Introduzione, in X. XXXXXXXXX, Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana, Il Mulino, 1968, 7-26.
della contrattazione, invece, che spinge sempre più a monte, nella frontiera mobile tra le prerogative direzionali e potere negoziale del sindacato” (13). E tale ragionamento – con evidenza dotato di forte peso specifico ai fini dell’indagine circa che cosa sia un contratto collettivo e che opportunità detto contratto saprebbe dischiudere – sembra ben esemplificare la capacità dell’opera di Romagnoli di arricchire chi è disposto a misurare la propria ispirazione teorica con l’esperienza pratica di un caso reale. L’ambizione di generare conoscenza teorica grazie alla valorizzazione di dati della prassi, è d’altronde stata rivendicata dallo stesso Xxxxxxxxx nella Prefazione al proprio saggio. Non per caso, Xxxxxxxxx ha descritto Contrattazione e partecipazione come uno strumento grazie al quale mettere a confronto lo sviluppo reale di alcune vicende di relazioni industriali e un modello teorico di riferimento; per l’autore infatti, si trattava di stabilire se l’esperienza della c.d. “Consultazione Mista” alla Bassetti costituisse o meno uno spaccato paradigmatico dell’evoluzione dell’ideologia e della pratica sindacali nel Paese. Per realizzare il proprio impegno programmatico – contaminare la teoria valorizzando risorse cognitive ricavate dalla prassi – Xxxxxxxxx ha scelto di studiare gli atti prodotti nel contesto istituzionale della Consultazione Mista: accordi collettivi istitutivi della medesima, verbali d’incontro… In aggiunta a tali documenti – documenti giuridici di relazioni industriali – il ricercatore ha anche svolto numerose interviste con la direzione aziendale, gli impiegati direttivi, i quadri sindacali e gli stessi lavoratori. Dette interviste sono servite per comprendere il dato effettivo, il “diritto vivente” connesso alla Consultazione Mista, e quindi per valutare meglio i contenuti dei documenti. A riguardo, forse non è scorretto descrivere il processo gnoseologico seguito da Xxxxxxxxx come “circolare”. In detto processo, si parte dal materiale di contratti, verbali e interviste, per poi guardare con più consapevolezza alle regole; queste (è il diritto delle relazioni industriali) possono quindi assurgere a prisma di rifrazione con cui tornare alla realtà, e distinguere compiutamente gli interessi e i conflitti che le hanno prodotte.
Metodologicamente, col presente studio ci si è voluti rifare a quella tradizione che in Romagnoli ha avuto un interprete significativo: la tradizione degli studi di caso, in cui il particolare vissuto in un certo luogo e in un certo tempo, è scelto a spazio d’indagine meritevole di attenzione e passione. Il presente studio di caso, del resto, è nato all’interno di un periodo di più di due anni trascorso presso lo stabilimento di Tenaris Dalmine. Un periodo, peraltro, non scivolato ai margini della grande macchina industriale. Ma al contrario, vissuto pienamente negli uffici e nei reparti: in quei reparti scossi dalle tonnellate d’acciaio scaricate dai carroponti, attraversati dalle sirene che indicano il transito degli automezzi, tagliati dai segnali di accensione dei forni di trattamento. La stessa emergenza pandemica, imposta dal virus Covid-19, non ha sospeso se non per un breve tempo la frequentazione degli ambienti di lavoro e di produzione. La metodologia dello studio di caso, quindi, ha fatto da contrappunto allo sforzo di entrare nel vivo delle
13 X. XXXXXX, Introduzione, in X. XXXXXXXXX, Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana, 23.
relazioni di lavoro individuali e collettive. La stessa lettura del materiale contrattuale collettivo, così, è riuscita illuminata dagli episodi avvenuti e dai rapporti intrattenuti con la RSU e i responsabili d’area. In Tenaris Dalmine, è stato possibile partecipare attivamente alle negoziazioni sindacali e procedere alla redazione dei contenuti contrattuali.
4. Le fonti
I CCNL
Occorre, a questo punto, un riferimento puntuale ai documenti consultati per fondare le osservazioni della presente ricerca. Nell’elenco, occorre senz’altro citare i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da Federmeccanica e Assistal insieme alle organizzazioni sindacali Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil, per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata e alla installazione di impianti. In particolare, l’esperienza di ricerca è stata svolta durante la vigenza di due testi: l’uno siglato dalle parti sociali in data 26 novembre 2016, l’altro in data 5 febbraio 2021. Il richiamo a questi due CCNL pare giustificato in ragione della perdurante centralità ricoperta dalla contrattazione di primo livello nell’ambito delle relazioni industriali italiane. Questa affermazione di carattere generale pare corroborata guardandosi al piano quantitativo. I dati più aggiornati dicono che, nel settore privato italiano, la contrattazione collettiva nazionale è applicata a più di tredici milioni e duecentosettantamila persone (14). Il che, senz’altro, dà una prima misura dell’importanza della contrattazione di categoria quale risorsa cognitiva di cui tenere problematicamente conto. Tenere in dovuta considerazione i CCNL è richiesto, fra l’altro, se si sta alle regole che le parti sociali “storicamente” più affermate nel panorama italiano, si sono date per ordinare gli assetti della contrattazione collettiva. Nell’ancor fondamentale “Testo Unico sulla Rappresentanza” del 2014, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, all’inizio della “Parte terza” dell’accordo, affermano a chiare lettere che: “(i)l contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”. A tale affermazione, fra l’altro, esse aggiungono che “(l)a contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge”. In tutta evidenza, queste prescrizioni disegnano un assetto per le relazioni industriali italiane che fa perno sul CCNL, considerato strumento adatto a salvaguardare lo statuto protettivo della contrattazione collettiva. Tale impostazione di fondo, peraltro, non può considerarsi significativamente variata in occasione del c.d.
(14) Il numero è stato ricavato dal CNEL e si può leggere nella seguente pubblicazione: CNEL (con Xxxxxxx XXXX relatore), XXII Rapporto sul Mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, 2021, 26.
“Patto della fabbrica” stipulato, il 9 marzo 2018, nuovamente da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Soprattutto, il contratto nazionale di categoria è confermato quale sede preposta alla definizione di standard di trattamento (economici e normativi) comuni, eventualmente derogabili al livello decentrato secondo le aperture che eventualmente stabilite dal CCNL stesso.
I contratti integrativi della Dalmine S.p.A.
Vista l’impostazione della ricerca, i contratti collettivi aziendali della Dalmine
S.p.A. costituiranno importante materiale per l’indagine. Questi, d’altronde, sono un bacino cognitivo complesso, il cui esame può spingere ben indietro negli anni. Del resto, una vera e propria contrattazione integrativa presso il principale stabilimento dell’azienda (collocato nella cittadina di Dalmine) ha almeno cinquant’anni di storia. Questa contrattazione, senz’altro, ha giocato d’anticipo rispetto alla diffusione di significati accordi di secondo livello nella metalmeccanica privata del Paese.
Con riguardo quindi ai contratti integrativi aziendali, concernenti in generale le relazioni di lavoro in Dalmine, ha innanzitutto rilievo il contratto c.d. “Ilva”, stipulato a Roma il 20 maggio 1989. Il contratto (come s’avrà occasione per osservare) ha costituito una sorta di impalcatura comune, per costruzioni giuridiche di relazioni industriali in vari siti-simbolo della produzione d’acciaio in Italia (fra gli altri: Dalmine, Terni, Taranto). La sua lettura critica, di conseguenza, può servire in modo particolare per comprendere i successivi sviluppi della contrattazione. Senz’altro poi, il passato di Xxxxxxx all’interno della siderurgica pubblica (fra Italsider e Xxxx) può aiutare a capire che tipo di “eredità” sia stata ricevuta dall’azienda al momento della sua completa privatizzazione per opera del gruppo Techint nell’anno 1996. Altra considerevole “eredità” di diritto delle relazioni industriali, fra l’altro, è stata di sicuro offerta dal contratto collettivo stipulato il 15 settembre 1993, denominato “Accordo Prisma”. Questo contratto, a tutt’oggi, è molto importante (ad esempio per comprendere le dinamiche di riconoscimento e valorizzazione delle professionalità individuali nell’impresa). Ulteriore documento contrattuale di grande importanza è l’integrativo della Dalmine S.p.A. siglato il 22 luglio del 1998. A riguardo potrà argomentarsi, che le sue previsioni obbligatorie hanno stabilito un ordine poi mantenuto nel tempo come schema di senso, e traccia politico-organizzativa per l’indirizzo dei rapporti fra l’azienda e le rappresentanze dei lavoratori. Ad alimentare di nuova linfa le soluzioni del ’98, sono poi seguite le norme contrattate negli integrativi della Dalmine (ormai, Tenaris Dalmine) del 15 gennaio 2003, del 26 giugno 2012, del
c.d. accordo ponte del 1° marzo 2017. Pure tali contratti concorrono a formare il quadro delle fonti consultate. Questo novero di contratti integrativi, infine, va senz’altro completato riferendosi all’ultimo che è stato stipulato, in data 9 gennaio 2019.
I contratti collettivi di area o funzione
La ricchezza del materiale contrattuale collettivo, in Tenaris Dalmine, deriva pure dalla significativa produzione di norme in rapporto alle differenti aree organizzative o funzioni. Spesso infatti, le previsioni contrattuali non disciplinano una certa tematica rispetto all’intero stabilimento in Dalmine, o entro ogni sito produttivo dell’impresa in Italia. Piuttosto si ha che i responsabili aziendali e i sindacalisti, legati a una certa area organizzativa, contrattano soluzioni regolative particolari da applicarsi a un numero di dipendenti circoscritto. Ciò avviene nel rispetto, anzi, in forza delle disposizioni obbligatorie stabilite nell’azienda per la conduzione delle relazioni industriali. Sono del resto gli stessi integrativi aziendali, che offrono indicazioni procedurali e di merito per la trattazione “sussidiaria” di varie materie presso singole aree organizzative o funzioni. Questa opzione (per articolare la contrattazione all’interno della stessa Tenaris Dalmine) probabilmente vuole rispondere alla stessa complessità industriale che caratterizza l’azienda. Gli alti numeri dei rapporti di lavoro, ma soprattutto la specificità delle tecnologie impiegate e dei processi operativi declinati per area o funzione, richiedono che il diritto delle relazioni industriali (per rendersi effettivo, efficace e davvero condiviso) non rimanga “distante”, ma sia variamente elaborato in aderenza a quelle macchine, a quegli spazi, evolvendo vicende differenti di relazioni industriali. Alla luce di quanto detto, vari documenti contrattuali di area o funzione costituiranno materiale cognitivo utile per la ricerca. Soprattutto, hanno assunto rilievo gli accordi sulle questioni organizzative. Fra le c.d. ODL (“Organizzazioni del Lavoro” secondo la sigla di solito usata in Tenaris Dalmine) vanno dapprima citate per lo spazio di approfondimento che sarà loro dedicato: la ODL del reparto TRT2, fabbrica (cioè, area organizzativa) FAS, il 5 giugno 2020; la ODL del reparto laminatoio MPM, fabbrica FTM, siglata in data 25 settembre 2019. In aggiunta a questi contratti collettivi, vanno quindi richiamati fin d’ora: l’accordo per una “Integrazione premiale per i risultati produttivi del Laminatoio”, siglato il 25 settembre 2019 e poi aggiornato da una “Nota integrativa” del 6 marzo 2020; il progetto industriale A tutto FAS, presentato alla negoziazione sindacale nella primavera del 2021 e poi condiviso come “ipotesi di accordo” il 29 giugno 2021. Fra l’altro, per una piena comprensione del ragionamento organizzativo sottostante a A tutto FAS, varrà il pur sintetico riferimento ad alcune ODL siglate per i reparti di Expander e Linea veloce. Del resto, proprio queste ODL hanno assunto una valenza particolare durante la ricerca presso Tenaris Dalmine: e ciò, ai fini dell’impegno quotidiano profuso per la cura delle relazioni di lavoro presso FAS. Esse hanno costituito, in altre parole, un termine di riflessione costante e attuale per l’interazione con i delegati sindacali, i responsabili d’area, e in generale le persone presenti sugli impianti. Rispetto al reparto Expander, occorre quindi considerare la ODL firmata l’8 luglio 2008. Questa va letta insieme ad altri contratti, fra cui il “Verbale di riunione del 27 novembre 2012” sulle “Regole gestione turni non produttivi FAS EXPANDER”. Sempre rimanendosi all’interno della fabbrica FAS, ma volgendo lo sguardo all’area della finitura e controllo, bisogna citare fra le altre
l’ODL dell’11 dicembre 2015 riferita complessivamente ai reparti Linea veloce, TRT2, e GSN (reparto per le riparazioni fuori linea). Proprio questa ODL si sarebbe rivelata cruciale punto di riferimento per l’elaborazione di A tutto FAS.
Literature review
Sommario. 1. Il contratto collettivo come mezzo di composizione del conflitto industriale: la concezione pluralista – 2. Lo studio giuridico del contratto collettivo aziendale e la peculiarità del settore siderurgico –
3. Il contratto collettivo aziendale per la regolazione della tematica organizzativa – 4. L’aggiornamento della nozione giuridica di subordinazione: il lavoratore subordinato come “professionista”: dal conflitto redistributivo al riconoscimento della professionalità?
1. Il contratto collettivo come mezzo di composizione del conflitto industriale: la concezione pluralista
Le relazioni industriali – secondo un’importante definizione che ne è stata offerta ( 15 ) – sono scienza sociale, pratica per la risoluzione dei problemi, e statuto etico- ideologico riguardanti il lavoro e le persone. Il diritto delle relazioni industriali, a sua volta, è stato indicato come un formante di prima importanza (16) per la regolazione, o meglio, l’ordinamento del fenomeno economico-sociale del lavoro. Occorre dire, che un primissimo contributo volto a scoprire l’autonomo rilievo delle relazioni industriali, è provenuto dagli studi empirici dei coniugi Xxxx (17). Questi hanno proposto, a partire dalle proprie osservazioni sui movimenti operai, una teoria della dinamica di conflitto tra lavoratori e proprietari delle fabbriche. Hanno riconosciuto una basilare divergenza degli interessi in gioco. E però, hanno al contempo individuato nella contrattazione collettiva la tecnica per la gestione del conflitto e la composizione del quadro sociale del lavoro. È stato questo genere di lettura a tracciare il solco dell’approccio c.d. pluralista. Da un lato è stata evidenziata la contraddizione sperimentata dal lavoro nel sistema capitalistico; dall’altro è stata individuata nella contrattazione collettiva una pratica per la sostenibilità del lavoro e la riforma delle condizioni sociali.
Quasi in parallelo cronologico con gli Xxxx, la questione sociale del lavoro nel contesto della produzione capitalistico-industriale era sollevata anche oltreoceano. Alti dirigenti d’azienda si mettevano in ricerca di soluzioni concrete per dare sostenibilità e continuità ai processi produttivi di fronte al conflitto industriale. In proposito è stata emblematica la figura di Xxxxxxx Xxxx Xxxxxxxxx Xxxx (18), ingaggiato come primo
(15) B. E. XXXXXXX, Il principio essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni industriali, in I. SENATORI (a cura di), Teoria e Prassi delle Relazioni Industriali. Letture di Diritto delle Relazioni Industriali, pp.3-38, ADAPT University Press.
(16) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, Xxxxxxx Editore, 1974, 17.
(17) S. e X. XXXX, Le leghe operaie dal 1890 al 1920, in C. Arena, Lavoro, (a sua volta in) La nuova collana di economisti – stranieri e italiani, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1936.
(18) B. E. XXXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXX, X. XXXXXXXXX, Evaluating the State of the Employment Relationship: A Balanced Scorecard Approach Built xx Xxxxxxxxx Xxxx’x Model of an Industrial Relations System, in Relations Industrielles 73-4, PP. 664-701, 2018.
esperto di relazioni di lavoro da Xxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx Xx.. Avrebbe poi rivestito la carica di primo ministro canadese fra gli anni venti e quaranta del novecento.
In questo contesto di cambiamenti per le aziende e per il lavoro, giungeva la riflessione di Xxxx X. Xxxxxxx (19). Questa avrebbe acquisito un valore seminale per la fondazione degli studi economico-istituzionali sul lavoro. Sul lato etico-ideologico Commons non ha negato la questione basilare del conflitto. Piuttosto, ha elaborato un pensiero complesso sulla possibilità di organizzazioni dove le relazioni di lavoro tendessero all’equilibrio: organizzazioni, cioè, qualificate da una tensione istituzionale per il bilanciamento degli interessi in gioco. Del resto, secondo Xxxxxxx la concreta vicenda del lavoro, calata in uno scenario economico-sociale storicamente dato, può diventare opportunità per le persone di innalzamento reciproco. Questa opportunità, sia anche impegnativa da realizzare ed esigente per essere mantenuta, può tradursi in esperienza reale nell’ambito di quella democrazia industriale che sia elaborata nella direzione della benevolenza. A riguardo, l’autore ha riconosciuto il contributo di sistema ricavabile dalla rappresentanza autonoma del lavoro e parimenti dalla contrattazione. E però, probabilmente, egli ha ripensato l’approccio pluralista, riproponendolo in una chiave differente aperta all’orizzonte cooperativo e alla realizzazione di un’intesa comune. È su questo punto forse, che Commons s’è più originalmente distinto rispetto alla tradizione avviata dalla scuola pluralista europea. Gli europei – pare – non hanno raccolto il particolare input teorico della benevolenza, o concordia, fra lavoratori e proprietari- imprenditori. E però, hanno comunque riflettuto su come raggiungere assetti bilanciati per la regolazione del lavoro e la stabilizzazione economico-sociale. In particolare è stata
assegnata importanza fondamentale alla libertà sindacale di contrattazione e organizzazione. Su questo genere di riconoscimento del resto, potrebbe registrarsi la convergenza di autori dai percorsi scientifici e umani differenti. Potrebbe farsi il caso di un giurista pienamente dedicato al lavoro e alle sue regole, come l’anglo-tedesco Xxxx Xxxx-Xxxxxx ( 20 ). Come pure, potrebbero citarsi personaggi la cui riflessione ha connotato il loro iter politico e istituzionale: si pensi all’italiano Xxxxx Xxxxxxx (21). È chiaro allora, che idee scientifiche e anche proposte politiche differenti (si citi quella liberale nonché liberista di Xxxxxxx) hanno alimentato il ragionamento sul conflitto sociale e i problemi del lavoro. Questi non sono stati disconosciuti ma approfonditi. Il che senz’altro, è stato un atteggiamento ben differente da quello oggi proposto da pensatori
c.d. neoliberal, desiderosi di collocare il tema della protezione del lavoro al di fuori della progettazione del miglior “modo” economico (22).
(19) J. X. XXXXXXX, Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxx-Xxxx Xxxx Xxxxxxx, Xxx Xxxx, 0000.
(20) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la Legge, Xxxxxxx Editore, 1974.
(21) X. XXXXXXX, Le lotte del lavoro, Xxxxx Xxxxxxx Editore, 1924.
(22) A riguardo, soprattutto si valorizzi lo sforzo ricostruttivo contenuto in X. XXXXXXX, X. XXXXXX, Trajectories of Neoliberal Transformation: European Industrial Relations Since 1970s, Cambridge University Press, 2017.
Come accennato, invece, la tradizione liberale ha costituito una risorsa culturale importante per le relazioni industriali. Non a caso, questa tradizione è stata valorizzata dai giuristi impegnati sia nel campo dell’elaborazione dogmatica, che in quello della proposta di politica del diritto del lavoro. Ecco allora, che nel solco tracciato dagli studi di Xxxx-Xxxxxx (il primo probabilmente, ad aver teorizzato il rapporto fra legge e contrattazione collettiva nell’ambito anglosassone) autori comparatisti come Xxxx Xxxxxx hanno svolto un ruolo decisivo per la progettazione di importanti testi di riforma. Su tutti, probabilmente, lo Statuto dei lavoratori ha assunto un rilievo paradigmatico: esso, ancora oggi, testimonia in che modo la legge possa promuovere l’organizzazione sindacale. Xxxxxx ha approfondito per anni la questione scientifica del posizionamento della contrattazione nel sistema giuridico italiano. Soprattutto egli è giunto a individuare il diritto delle relazioni industriali come il prodotto di un ordinamento intersindacale (23): come il prodotto cioè di un sistema normativo autonomo e originario, sia pure poi “riconosciuto” (e quindi per certi versi “creato”) dall’ordinamento statale (24).
Bisogna dire peraltro, che nella storia del pensiero sullo statuto epistemologico nonché sulla ragion d’essere delle relazioni industriali, gli autori radicali marxisti hanno occupato una posizione molto diversa da quanti, come Xxxxxx, erano pure vicini al movimento dei lavoratori. I marxisti, infatti, hanno criticato che proprio dall’approccio pluralista provenisse un sostegno al capitalismo. La contrattazione collettiva del resto, ricomponendo il conflitto d’interessi fra capitale e lavoro, non farebbe altro che preservare l’ingiusta asimmetria nella ripartizione del potere sociale (asimmetria caratteristica del capitalismo). Per converso questi autori hanno preferito mantenersi fedeli all’osservazione di Xxxx, secondo cui i sindacati “indicherebbero la malattia” ma non potrebbero “offrire la cura” al morbo dello sfruttamento. Essi hanno quindi riconosciuto nei contratti collettivi un segno della capacità organizzativa della classe degli sfruttati; tuttavia, non sono giunti a valorizzarli come obiettivo della mobilitazione proletaria (25). Xxxxxxx Xxxxx (26), che fra questi pensatori ha costituito un punto di riferimento, ha espresso radicalmente il dubbio, anzi, che grazie alla contrattazione potesse davvero ricomporsi alcunché rispetto alla relazione fra lavoratori e proprietari.
Giova inoltre il riferimento a B. E. XXXXXXX, Il principio essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni industriali, in I. SENATORI (a cura di), Teoria e Prassi delle Relazioni Industriali. Letture di Diritto delle Relazioni Industriali, pp.3-38, ADAPT University Press.
(23) X. XXXXXX, Introduzione allo studio della autonomia collettiva, X. Xxxxxxx, 1960.
(24) Proprio quest’ultimo snodo concettuale è stato oggetto di polemica da parte Xxxxxxx Xxxxxxx, che ha deprecato il perno trovato da Giugni nella teoria dell’ordinamento giuridico di Xxxxx Xxxxxx. (X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene Editore, 1984). Diversamente (ma assumendo anch’egli una posizione distinta rispetto a Xxxxxx) Xxxxxxx Xxxxxxx ha riconosciuto nell’idea dell’ordinamento intersindacale uno strumento analitico, funzionale all’individuazione genuina del diritto delle relazioni industriali (X. XXXXXXX, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, Xxxxxxx Editore, 1986, 94).
(25) B. E. XXXXXXX, Rethinking Industrial Relations, or at least the British radical frame, in Economic and Industrial Democracy (EID), PP. 577-598, n. 4, 2018.
(26) X. XXXXX, Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxx. X Xxxxxxx Xxxxxxxxxxxx, XxxXxxxxx, 0000.
Non è un caso allora, che la scuola marxista delle relazioni industriali abbia costituito bersaglio polemico all’interno della comunità scientifica dei lavoristi. Xxxxx Xxxxxxx ( 27 ) in particolare, ha voluto mettere in evidenza la contraddizione di chi propone l’approfondimento delle relazioni industriali contestandone, al contempo, i maggiori risultati pratici. Xxxx Xxxxxxx (28), dal canto suo, ha criticato l’idea secondo cui l’entità dello sfruttamento capitalistico corrisponderebbe alla quota intera del valore ricavato dall’imprenditore. Piuttosto, sarebbe del tutto giustificabile la remunerazione dell’assunzione del rischio economico: e ciò, per via dell’utilità sociale dell’attività d’impresa. Il profitto, quindi, sarebbe in una certa misura pensabile come il “premio” dell’assunzione del rischio. Inoltre, bisognerebbe anche dovutamente apprezzare l’apporto che l’imprenditore stesso può dare al processo economico (soprattutto facendo attività di organizzazione, oltre che di raccordo fra l’impresa e i rimanenti agenti del mercato). Tali considerazioni, comunque, sono state innervate da Xxxxxxx con spunti critici, utili a difendere i portati del riformismo, e quindi i portati delle stesse relazioni industriali e della contrattazione. In proposito, prendendo a prestito un’espressione dell’economista inglese Xxxx Xxxxxxxx, egli ha chiosato che peggio dell’essere sfruttati, è l’essere sfruttati male: espressione che, indirizzata ai pensatori radicali, costituisce in tutta evidenza un forte tema dialettico.
Negli ultimi anni diversi autori pur convinti della positività storica dell’esperienza delle relazioni industriali, hanno tuttavia coltivato il dubbio circa la perdurante efficacia delle soluzioni normative nate nel Novecento industriale. Questi autori hanno provato allora a spingere in là la propria riflessione. Hanno ricercato proposte per conferire nuova capacità generativa alle relazioni industriali. Fra gli altri, l’italiano Xxxxx Xxxxxxx è stato una figura notevole. Egli ha coniugato la curiosità per la riflessione teorica alla passione dell’agire, esprimendo entrambe queste tensioni nella propria testimonianza di vita. Trentin, importante dirigente sindacale, non ha negato la complessa problematicità dei rapporti di lavoro. Non ha negato, inoltre, che le relazioni industriali potessero continuare a fare da campo di gioco per portare a misura il confronto fra gli interessi delle parti. D’altro canto, egli s’è interrogato se le “progressive sorti” del movimento dei lavoratori potessero realizzarsi, pur a fronte del mantenimento degli indirizzi strategici che il suo stesso sindacato, per lungo tempo, aveva reso ragione identitaria. Questo in Trentin, significava soprattutto il dubbio che potesse persistersi (soltanto) sulla strada della rivendicazione redistributiva, intesa nel senso di lotta di “risarcimento” o di “indennizzo” nei confronti dei capitalisti. Al contrario, Xxxxxxx chiedeva l’invenzione di un diritto allo sguardo, che servisse a ciascun singolo lavoratore per esprimere scelte significative al lavoro. Si sarebbe così favorita, per l’individuo, la traduzione del lavoro da sacrificio a espressione della propria personalità fra gli altri. Detto questo, è senz’altro giustificato
(27) B. E. XXXXXXX, ibidem.
(28) X. XXXXXXX, Conflict in the Workplace: The Concept of Structured Antagonism Reconsidered, in Warwick Papers in Industrial Relations, n. 110, 2018.
chiedersi se l’ispirazione riformista dell’esponente sindacale sia stata recepita dal suo sindacato-organizzazione. Xxxxx Xxxxxxx ha sì raggiunto la posizione di segretario generale della Cgil. Tuttavia il forte peso della carica potrebbe averne affaticato lo slancio progettuale, attenuando gli aspetti di rottura del suo pensiero (un contemporaneo honoratur ac removeatur?).
Una sorta di diritto allo sguardo – bisogna dire – è stato pure suggerito da uno studioso diversissimo da Trentin per storia personale e collocazione geografica: l’accademico americano Xxxx X. Xxxx. Nei propri studi ( 29 ) volti a proporre un framework teorico per valutare gli esistenti sistemi di governo delle questioni del lavoro, Xxxx pare aver espresso una preferenza. Pare che egli opterebbe per un’organizzazione sindacale in grado di rendersi soggetto abilitante per i singoli lavoratori: un’organizzazione, che abbia l’obiettivo di creare spazio per l’espressione di ciascuno, liberando effettivamente potenzialità di partecipazione diretta. Questo genere di pensiero (che appunto, sembra riecheggiare il diritto allo sguardo di Trentin) è come un punto di collegamento fra la riflessione di Xxxx e quella di ulteriori studiosi. Xxxxxxx Xxxxxxxxx ad esempio (animatore del dibattito italiano sul diritto del lavoro e delle relazioni industriali per oltre 50 anni) non sembra distante quando nota polemicamente che il sindacato in Italia s’è atteggiato più a tutore che a mandatario dei propri iscritti (30). Sono considerazioni di particolare peso quando riferite alle odierne dinamiche del lavoro. Le quali starebbero mettendo duramente alla prova le strategie di rappresentanza poco attente alla sfera dell’“individuale”. Di fronte alla diffusa professionalizzazione del lavoro, come pure di fronte all’affinamento delle tecniche di HR Management (grazie magari agli strumenti di HR Analytics) l’organizzazione sindacale potrebbe mancare tante sfide. Per tornare a Xxxx Xxxx, l’auspicio nei confronti del sindacato non sarebbe quindi altro che questo. Che esso in un certo modo “organizzi la disintermediazione” aiutando la persona stessa ad avere voce sulla propria condizione di lavoro
Sembra possibile, a questo punto, tracciare un parallelo fra i ragionamenti in corso e le idee di chi, negli ultimi anni, ha tentato la seguente cosa: arricchire la riflessione di teoria generale del diritto del lavoro innestandovi i portati della ricerca filosofica sulle c.d. capability. A riguardo, potrebbe senz’altro citarsi l’accademico Xxxxxxxx xxx Xxxxx. il quale ha mosso dai testi di Xxxxxxx Xxx and Xxxxxx Xxxxxxxx. Xxx Xxxxx s’è chiesto se l’approccio della “capacitazione” della persona non potesse magari applicarsi per lo studio critico del diritto del rapporto di lavoro, e quindi per lo studio critico del diritto delle relazioni industriali. La prospettiva è parsa promettente. Una (c)apability for voice (31)grazie a cui aprire alle potenzialità partecipative della persona, potrebbe allora essere individuata non solo come termine dommatico per l’interpretazione del diritto positivo:
(29) J. W. XXXX, Employment with a Human Face. Balancing Efficiency, Equity, and Voice, Xxxxxxx University Press, 2004.
(30) X. XXXXXXXXX, Dal diritto del lavoro al diritto delle persone, in E&L, 2018.
(31) X. XXX XXXXX, Labour Law and the Capability Approach, in International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, n. 4, 2016, 392.
ma anche come spunto progettuale per un ripensamento della rappresentanza a tutto tondo. Tale prospettiva pare coerente alle idee di chi ha invocato maggiore attenzione e riconoscimento di centralità dell’“individuale” per il “collettivo”.
Di recente, in aggiunta alla riflessione sulle capability, sono state avanzate ulteriori idee per un profondo ripensamento teorico di temi generali del diritto e del diritto del lavoro in particolare. Si tratta di idee proposte per capovolgere le consuete prospettive di analisi. Fra le altre, la teoria c.d. dei commons s’è candidata a offrire chiavi di lettura inedite. I commons, ossia i “beni comuni”, rappresentano uno spazio di senso giuridico poco battuto. Questo “spazio” si collocherebbe infatti al di là del dualismo fra pubblico e privato (dualismo consegnatoci in precisa epoca storica (32)). Il docente di Cambridge Xxxxx Xxxxxx ha fatto della prospettiva dei commons una risorsa: l’ha usata per ridefinire giuridicamente l’azienda. Questa sarebbe qualcosa d’altro, di più complesso e ulteriore, rispetto al mero dato di un oggetto proprietario in mano agli azionisti. Xxxxxxxxx, si tratterebbe del luogo di convergenza di un insieme problematico di interessi, rapporti, aspirazioni. Il buon governo dell’azienda non potrebbe quindi essere tale, senza attenzione per i tanti portatori d’interesse coinvolti (stakeholder). Per questa via, l’innesto della prospettiva dei commons consentirebbe di riguadagnare la questione del pluralismo degli interessi al ragionamento sulla migliore forma di governance per l’azienda. I commons quindi, oltre a motivo di riflessione teorica, esigerebbero un coerente sviluppo pratico: l’impegno per definire regole sull’azienda-bene comune. In questo senso, essi sarebbero in grado di contaminare le ragioni della ricerca alla base delle relazioni industriali.
2. Lo studio giuridico del contratto collettivo aziendale e la peculiarità del settore siderurgico
Lo studio giuridico del contratto collettivo aziendale deve servire ad acquisire coordinate tecniche adeguate per orientarsi di fronte ai temi sollevati dal caso di studio. In aggiunta a questo, peraltro, si vuole pure che siano proposti testi che aiutino a capire le particolarità della contrattazione collettiva nel settore siderurgico. Un contratto collettivo di lavoro, infatti, stabilisce regole la cui comprensione è agevolata dalla conoscenza di dati extra-normativi (33). Leggere allora alcune scelte contrattuali tenendo a mente (per esempio) certe condizioni ineliminabili di una lavorazione industriale, può consentire ragionamenti più consapevoli. Per queste ragioni nella prospettiva dello studio giuridico del contratto collettivo aziendale, non sarà rimandato il collegamento al settore siderurgico.
(32) Al riguardo si consenta il rinvio in generale all’opera di Xxxxx Xxxxxx: P. GROSSI, Un altro modo di possedere, Xxxxxxx, 2017.
(33 ) X. XXXXXXXXX, Prefazione, in X. XXXXXXXXX, Contrattazione e Partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana, Il Mulino, 1968.
Preliminarmente, non può non notarsi che il contratto collettivo aziendale è un atto giuridico molto significativo nel sistema delle fonti del diritto del lavoro italiano. L’attuale comprensione delle regole del lavoro pare richiedere attenzione all’interazione fra differenti livelli contrattuali. Il che naturalmente, è cosa che si aggiunge al già complesso impegno interpretativo sull’interazione fra norma contrattuale e norma legislativa. L’interprete del diritto delle relazioni industriali, insomma, pare sempre più un pontiere fra ordinamenti complessi (quello statuale e quello intersindacale).
Il contributo di Xxxxxx
Xxxx Xxxxxx è forse l’autore che per eccellenza si è cimentato nello studio giuridico del contratto collettivo di lavoro ( 34 ). Metodologicamente egli ha alimentato la ricostruzione teorica con la valorizzazione degli stessi contenuti contrattuali collettivi (un modo di costruire senso che parte “dal basso”). Questo genere di approccio, del resto, sarebbe a maggior ragione consigliabile in Italia vista la tradizionale astensione del legislatore sulla tematica contrattuale collettiva. Manca in Italia una tipizzazione legislativa del contratto collettivo nello scenario post-corporativo. Manca, come noto, l’attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione. Restare fedeli all’osservazione delle pratiche contrattuali, insomma, può fornire importanti risorse per l’interpretazione.
Sul versante qualificatorio, bisogna dire che Xxxxxx ha comunque accolto l’opzione più classica: quella del contratto di diritto comune secondo la celebre formulazione di Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx. Bisognerebbe allora innanzitutto rifarsi alle norme generali sul contratto e sulle obbligazioni contenute nel codice civile. L’aggettivazione di collettivo poi, dipenderebbe dal carattere dell’interesse versato dalla parte dei lavoratori. Sul lato datoriale, infatti, l’imprenditore contraente potrebbe ben essere soltanto uno (è il caso di un integrativo aziendale): non per tale ragione il contratto cesserebbe di essere collettivo. A tale argomento se ne accosterebbe poi un altro, riferibile alle norme fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. La Costituzione assegnerebbe rilievo speciale, e quindi fisionomia distinta, proprio all’interesse dei lavoratori (come gruppalità): non parimenti all’interesse dei datori di lavoro. Ciò si ricaverebbe soprattutto dal riconoscimento del diritto di azione in autotutela per i soli lavoratori organizzati. A completare il discorso, Xxxxxx ha ragionato sulla qualificazione del contratto collettivo come di lavoro. Per essere riconosciuto come tale, dunque, il contratto collettivo di lavoro dovrebbe produrre effetti nei confronti di persone prestano la propria opera con professionalità e abitualità, abbisognando fra l’altro di uno strumento giuridico per riequilibrare la propria posizione socio-economica.
(34) X. XXXXXX, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in Atti del terzo congresso nazionale di diritto del lavoro sul tema del contratto di lavoro, Pescara Teramo, 1-4 giugno 1967”, 1968.
La qualificazione del contratto collettivo di lavoro da parte di Xxxxxx è servita a chiarire i termini del mezzo giuridico. Rimane però da indagare la funzione, o meglio, le funzioni giocate dal contratto collettivo. Del resto questo non è un monolite nel panorama ordinamentale italiano: cambiano i livelli della stipula e variano i contenuti. Per queste ragioni, l’osservazione generale secondo cui un singolo rapporto giuridico può essere regolato da una pluralità di fonti, è presa d’atto di ancor maggiore peso specifico nel diritto del lavoro. A caratterizzare il discorso lavoristico c’è l’autonomia collettiva con la sua varietà fenomenica e funzionale. Cambiando i piani d’incontro e i contesti di riferimento, cambiano le norme pattuite. Lo stesso perché retrostante alla definizione di una certa questione sul primo o sul secondo livello di contrattazione, ha rilievo per capire i modi dell’ordinamento intersindacale. Muovendo – come detto – dall’osservazione dei contenuti contrattuali e dallo studio della loro interazione con le altre fonti del diritto del lavoro, Xxxxxx ha personalmente indicato la propria preferenza per il diritto delle relazioni industriali nato a stretto contatto con i luoghi di lavoro (35).Probabilmente, il suo favore per la contrattazione realizzata a contatto con le produzioni, è stato giustificato dalla consapevolezza del senso democratico dell’attività sindacale svolta proprio dove emergono i problemi del lavoro. Xxxxxx, quindi, s’è reso conto che il mantenimento “in stato di minorità” dei lavoratori a livello decentrato sarebbe spiegabile più per ragioni ideologiche che per un’effettiva (e non redimibile) immaturità dei lavoratori direttamente interessati. I quali anzi, proprio in forza del supporto organizzativo delle strutture sindacali, sarebbero abilitati a misurarsi efficacemente nei confronti delle direzioni aziendali. Per l’autore, in conclusione, i confini della contrattazione collettiva non sono stabiliti una volta per tutte. Piuttosto essi rispondono a dinamiche concrete di interesse, di lotta e di visione strategica (“È proprio la logica della contrattazione (…) che spinge sempre più a monte, nella frontiera mobile tra le prerogative direzionali e potere negoziale del sindacato”).
Lo studio del rapporto tra legge e contrattazione collettiva per l’indagine sulla funzione del contratto collettivo
Per arrivare a comprendere la funzione giuridica del contratto collettivo, quindi, si considera che a monte occorra una conoscenza del sistema delle fonti del diritto del lavoro in Italia. Xxxxx a riguardo la lettura dell’opera di Xxxxxxxx Xxxxxxx. Docente pavese e allieva di Xxxxxxx Xxxx, nei propri testi Xxxxxxx è stata in grado di dare ordine alla materia (non per caso spesso, s’è trovata impegnata nell’elaborazione della manualistica di diritto sindacale e diritto delle relazioni industriali).
Nel 2017 Xxxxxxx ha dedicato uno scritto al rapporto tra legge e contrattazione collettiva (36). Innanzitutto, l’accademica ha osservato che non è mai stato messo in
(35) X. XXXXXX, Introduzione, in X. XXXXXXXXX, Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana, Il Mulino, 1968.
(36) X. XXXXXXX, Il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, in DRI n. 1/2017.
dubbio che la contrattazione potesse derogare la legge in xxxxxx. Questa capacità, anche se non sancita esplicitamente nell’ordinamento, sarebbe ricavabile dallo stesso statuto protettivo al fondamento del diritto del lavoro. Se quindi la derogabilità in melius è regola generale, la derogabilità in peius ovvero l’assoluta inderogabilità della legge da parte della contrattazione dovranno essere eccezioni. Per essere configurabili necessiteranno dunque di una norma espressa di diritto positivo. Chiarito in questo modo lo schema di base dell’interazione tra legge e contrattazione collettiva in Italia, Xxxxxxx ha studiato le evoluzioni funzionali della contrattazione a fronte delle scelte via via praticate dal legislatore del lavoro. In particolare, in riferimento agli anni ’80 e ’90, l’autrice ha riconosciuto una tendenza a flessibilizzare la normativa imperativa del lavoro per il tramite di rinvii espressi alla contrattazione (flessibilità contrattata o controllata). L’autrice ha poi segnalato, rispetto all’inizio degli anni 2000, una generale conferma delle istanze di flessibilizzazione strutturale della disciplina del rapporto di lavoro. E tuttavia secondo la sua lettura, l’intervento legislativo della 276 del 2003 pur aumentando la flessibilità “tipologica” od “in entrata” del lavoro, non avrebbe comportato un profondo mutamento nel sistema giuslavoristico. Al contrario, sul piano delle fonti, avrebbe avuto portata e significato del tutto diversi l’approvazione dell’art. 8 della Legge 148 del 2011. Questa norma (che come noto, ha disposto che rispettate certe condizioni la contrattazione “di prossimità” sarebbe stata in grado di derogare alla legge e al CCNL) ha scompaginato il quadro. L’art. 8 ha infatti reso “semi-imperative” vastissime parti della legislazione ordinaria. Xxxxxxx a riguardo, ha però pure segnalato che l’innovazione dell’art. 8 è stata rifiutata nella pratica dagli stessi attori delle relazioni industriali. L’autrice, infine, ha indagato il senso sistemico degli interventi riformatori prima della Legge 92 del 2012, poi del c.d. Jobs Act. Xxxxxxx andando al cuore della questione e vista la nuova tecnica legislativa, ha segnalato il ridimensionamento della funzione derogatoria della contrattazione. Infatti i frequenti e significativi rinvii alla contrattazione da parte del legislatore (fra gli altri, quello contenuto nella nuova disciplina delle mansioni) assegnerebbero al contratto collettivo soprattutto una funzione adattativa/integrativa del precetto legale. L’autrice ha inoltre riflettuto sull’art. 51 del decreto legislativo 81 del 2015, articolo considerato da diversi commentatori alla stregua di norma baricentrica del nuovo sistema giuslavoristico. Xxxxxxx, pur prendendo atto della riaffermazione del concetto di maggiore rappresentatività comparata, ha peraltro ridimensionato l’affermazione di alcuni rispetto a un’inedita “valorizzazione della contrattazione decentrata” per il tramite dell’art. 51. Pragmaticamente e con forte attenzione ai termini giustificativi dell’attività contrattuale collettiva, Xxxxxxx ha piuttosto osservato che il rinvio alla contrattazione nei suoi vari livelli di realizzazione, sarebbe in ogni modo stato ricavabile sulla base del principio di libertà dell’organizzazione sindacale di cui all’art. 39 Cost.. Con questa osservazione, Xxxxxxx ha ribadito che la norma costituzionale deve essere mantenuta a termine di riferimento con cui guardare al rapporto tra legge e contrattazione nello studio sulla varietà del fenomeno contrattuale.
Il dibattito in letteratura sulla (funzione della) contrattazione aziendale
Ulteriori autori in parallelo a Giugni o seguendone le orme, hanno assunto posizioni di favore rispetto alla contrattazione nelle aziende e nei luoghi di lavoro. E però la questione del decentramento contrattuale è rimasta problema divisivo ancor oggi. Pare che due tendenze dottrinali fondamentali possano essere evidenziate. La prima tendenza, seppure non spinta fino alla radicale messa in discussione del “diritto di cittadinanza” del contratto collettivo aziendale nel sistema di relazioni industriali italiano, è favorevole soprattutto alla dimensione nazionale del contratto collettivo. Detta dimensione nazionale, infatti, consentirebbe di esprimere la solidarietà di classe, grazie a cui incidere significativamente sui rapporti di forza fra aziende e forza-lavoro organizzata. Di conseguenza, la classifica funzione del diritto del lavoro (togliere determinati standard di trattamento dei lavoratori dal gioco della concorrenza economica) non potrebbe che fare perno sul CCNL (oltre che, s’intende, sulla norma inderogabile stabilita dall’autorità pubblica). E però in questo ordine di idee, il caso italiano (come altri d’altronde) sarebbe emblematico di una tendenza trans-nazionale alla trasformazione dei sistemi economici e di relazioni industriali in senso neoliberale. Si starebbe realizzando un’espansione mano a mano maggiore dell’area del potere dell’imprenditore nei confronti dei lavoratori. Questa espansione si spiegherebbe in forza della progressiva perdita di crucialità dei sistemi di regole centralizzati (come quelli dei CCNL) in favore di sedi negoziali decentrate. Questa tesi, sostenuta da Xxxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxxxx nei propri studi comparatistici (37), porterebbe a individuare nelle tendenze e nella dialettica in atto fra i diversi assetti contrattuali italiani, il segno di una trasformazione intesa alla messa all’angolo del valore dell’equità.
Queste considerazioni, peraltro, devono pure misurarsi con le implicazioni dirompenti della globalizzazione. L’allargamento della visuale d’indagine impone una presa d’atto anche a chi, oggi, comunque a riconosce ragioni importanti per confidare nella preminenza del livello nazionale di contrattazione. Ebbene, questi non può non considerare problematicamente la messa in competizione dei sistemi normativi statuali gli uni con gli altri. Proprio a fronte del fatto che l’eventualità della delocalizzazione è oramai risorsa negoziale in mano agli imprenditori, l’accademico milanese Xxxxxxx Xxxxxxx s’è quindi interrogato (38) sulla flessibilità connessa dal decentramento contrattuale per la competitività dei sistemi di regole. Egli ha evidenziato il rischio di “corse al ribasso” (dumping) favorite da organizzazioni sindacali pressoché assenti al livello aziendale. Queste considerazioni peraltro l’hanno portato a optare per l’adozione di tecniche di decentramento organizzato grazie al coinvolgimento della sede nazionale di
( 37 ) X. XXXXXXX, X. XXXXXX, Trajectories of Neoliberal Transformation: European Industrial Relations Since 1970s, Cambridge University Press, 2017.
(38) X. XXXXXXX, Italian Industrial Relations: Toward a Strongly Decentralized Collective Bargaining?, in COMPARATIVE LABOR LAW & POLICY JOURNAL, 2016.
contrattazione. In questo modo potrebbe darsi sfogo a specifiche istanze di competitività in una cornice comunque ispirata alla tutela del lavoratore.
Dal suo canto ha affermato forte perplessità rispetto agli attuali modi del decentramento contrattuale Xxxxxxxxx Xxxxxxx ( 39 ). Xxxxxxx, soprattutto, s’è cimentato nell’analisi delle implicazioni di sistema connesse all’introduzione nel quadro legale italiano dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011. Secondo Xxxxxxx, l’articolo 8 costituirebbe un vero e proprio vettore di decostruzione del diritto del lavoro. Ne rovescerebbe infatti lo statuto epistemico (statuto assiologicamente connotato, giacché inteso alla salvaguardia della persona al lavoro) dando luogo piuttosto, a un “individualismo metodologico” funzionale a trasfigurare il diritto delle relazioni industriali da metodo di tutela, a occasionale strumento al servizio della competitività dell’impresa.
In generale quindi, quanti auspicano più prudenza nello spostamento dei baricentri contrattuali collettivi dal livello nazionale a (fra gli altri) quello aziendale, tendono a individuare nel decentramento un trend di deregolazione delle tutele collettive. E però, questa sensibilità culturale costituisce solo uno dei poli dottrinali attorno a cui è stato ed è svolto il dibattito sull’evoluzione del diritto del lavoro e delle relazioni industriali. È possibile infatti passare in rassegna una serie di studi, nei quali s’invita a superare visioni di senso troppo incentrate sulla dicotomia “regolazione” vs. “deregolazione”. Esisterebbe al contrario ampio spazio (teorico e pratico) per esplorare vie mediane fra questi opposti. Queste vie mediane potrebbero dimostrarsi capaci di valorizzare le potenzialità dello sviluppo della contrattazione su più livelli, allo stesso tempo salvaguardando ragionevolmente il bilanciamento degli interessi in gioco. Fra quanti sostengono dunque, che occorra guardare al decentramento senza perdere di vista le modalità con cui questo si realizza (essendo le modalità decisive per la buona riuscita del cambiamento) si colloca il giuslavorista Xxxxxxx Xxxxxxxxx (40). Nelle proprie riflessioni peraltro, l’accademico pare aver assunto un tono di disincanto rispetto a certe narrazioni e parole d’ordine usate dagli attori delle relazioni industriali. Piuttosto, egli pare animato da un certo piglio antiretorico: dalla consapevolezza che ogni strumento, per quanto potenzialmente innovativo e benefico, può comunque essere impiegato secondo schemi infruttuosi, incapaci cioè, di imprimere movimento nella ricerca di equilibri giuridici con cui ordinare e comporre socialmente bisogni economici. Con tale atteggiamento, Vallebona ha sostenuto che per realizzare un “buon” decentramento, al di là dei dati istituzionali del caso, è decisiva la cultura alla base delle scelte delle parti. Di conseguenza il decentramento indirizzato solo a migliorare il trade-off competitività / redistribuzione riuscirebbe poco promettente. Al contrario, sarebbe salutare una messa al centro del valore del lavoro. Da un lato questo non dovrebbe essere considerato solo in termini di
(39) X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva “di prossimità”: teoria, comparazione e prassi, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Anno XXXII Fasc. 4, 2013.
(40) X. XXXXXXXXX, Dimensione degli interessi e decentramento regolativo, in RIDL, 2006, n. 1, 443- 446.
costo; dall’altro, non dovrebbe essere elaborato come momento altro dal lavoratore e dalle sue aspirazioni. Andrebbe piuttosto ripensato come modalità di partecipazione a un bene comune: significativa risorsa dialettica nel mondo economico e industriale. In altro momento storico, ma in un certo modo in interessante parallelo con Xxxxxxxxx, scriveva Xxxxx Xxxxxxxx ( 41 ), autore della c.d. scuola di Oxford, considerato fra i padri delle relazioni industriali britanniche e, in particolare, della tradizione pluralista inglese, imperniata sull’idea del sindacato dei lavoratori come balancing power nei confronti dei datori di lavoro. Flanders in particolare, ha dedicato alcune riflessioni al caso della raffineria della società “Esso” presso la cittadina di Fawley, nell’Inghilettera meridionale. Fra gli anni ’50 e ’60 del novecento, presso tale stabilimento industriale erano siglati degli accordi decentrati fortemente innovativi all’interno del panorama contrattuale del Regno Unito. In anni ambigui per l’economia britannica, segnati da strutturale scarsa produttività del lavoro, gli esperti dell’azienda erano riusciti a ingaggiare una composita compagine di interlocutori sindacali, arrivando a definire insieme numerose regole. Queste hanno riguardato l’aumento dei minimi retributivi, la semplificazione delle voci salariali, la riduzione dell’orario normale del lavoro e in aggiunta, soluzioni per il calmieramento del (troppo) ricorrente ricorso a prestazioni lavorative straordinarie. Xxxxxxxx, chiamato a fornire la propria valutazione sull’ambizioso progetto di riforma dei trattamenti normativi ed economici presso lo stabilimento, ha consegnato la seguente idea. Che per il successo dell’esperienza negoziale, in verità fosse stata decisiva la disponibilità dei sindacati a parlare e costruire insieme con l’impresa pur a fronte di posizioni di partenza differenti: l’assunzione, in altri termini, di un “habit of discussion”. Xxxxxxxx allora, pur scrivendo nell’Inghilterra di più di 60 anni fa, ha affermato al pari di Vallebona il carattere qualificante dell’ispirazione culturale delle parti per la buona realizzazione della contrattazione decentrata. A Fawley sarebbe stata una forte visione di fondo a consentire di ritrovare, nelle regole contrattuali decentrate, un contemperamento ragionevole fra interessi nel senso dell’efficienza, dell’equità e della partecipazione: ogni altra complessa variabile in gioco si aggiungeva poi.
Ancora, fra quanti hanno portato in là la propria ricerca, convinti personalmente che il decentramento contrattuale sarebbe stato un’opportunità per la buona regolazione del lavoro, va citato il professor Xxxxx Xxxxx. L’accademico, attivo presso la Facoltà di Economia dell’Università di Modena e Reggio Xxxxxx fino ai primi anni del 2000, ha studiato il tema dei livelli contrattuali e dei sistemi di relazioni industriali. Nel suo pensiero, fra l’altro, lo studio del diritto del lavoro e delle relazioni industriali non doveva riguardare soltanto aule universitarie e tribunali. Xxxxxxxxx, doveva contaminare la realtà economica e sociale, dicendo qualcosa di progettuale a fronte dei complessi cambiamenti
(41) X. XXXXXXXX, Management and Unions: Theory and Reform of Industrial Relations, Faber & Faber, 1970.
del mercato e produttivi in corso. Nell’ultimo saggio (42) preparato prima dell’assassinio per mano di estremisti politici (43), Xxxxx ha mosso da un documento di studio proveniente dall’ambiente istituzionale europeo, considerandolo risorsa utile per alimentare la riflessione su come innovare le relazioni industriali. Xxxxx ha quindi scritto che per cambiare in meglio le relazioni industriali, occorreva tentare la riforma della contrattazione collettiva all’insegna della crescita del suo tono qualitativo. Occorreva puntare sulla contrattazione perché la considerava “più importante istituzione di regolamentazione dei rapporti di lavoro nelle economie di mercato dei Paesi democratici”. E però, nello scenario corrente, le relazioni industriali si sarebbero dovute interrogare e farsi carico di aiutare la competitività delle imprese. Questa posizione in Biagi non discendeva da una pregiudiziale “scelta di campo” a favore delle imprese. Piuttosto per lui si trattava di riconoscere continuità alla funzione tradizionalmente giocata dalla contrattazione. Nel dare soluzioni per la riduzione dell’incertezza in materia di relazioni di lavoro, per l’agevolazione della governance aziendale, per contribuire a legittimare le scelte organizzative. Peraltro perché la funzione di supporto alla competitività delle imprese potesse trovare spazio, era necessario che fossero riformati i livelli e i modelli della contrattazione collettiva. Soprattutto, anche nelle relazioni industriali doveva essere applicato il principio di sussidiarietà. Ogni materia avrebbe dovuto potersi trattare al livello più adeguato, e possibilmente vicino ai problemi da risolvere. L’applicazione del principio di sussidiarietà (applicazione magari da consentire tramite forti clausole di deroga all’interno dei contratti nazionali) avrebbe permesso una riuscita liberalizzazione del II livello di contrattazione. Questo sarebbe stato in grado di porsi nei confronti del I livello in termini non già complementari, ma alternativi. Questo cambiamento richiesto da datori di lavoro per fronteggiare le dinamiche della globalizzazione, non sarebbe stato necessariamente svantaggioso per i lavoratori. Gli stessi i sindacati avrebbero potuto trovare nuove opportunità a condizione di riconoscere alla contrattazione decentrata un ruolo cruciale per la job creation.
L’impegno che Xxxxx si riproponeva, di offrire visione culturale, argomentazioni giuridiche e metodi d’intervento, in un’ottica di modernizzazione del mercato del lavoro e messa al centro delle relazioni industriali, ha offerto la base teorica e morale per la convergenza di altri autori. Seppure in modo differente e a fronte di ragionamento differenti, sono stati infatti vari i nomi di coloro che in Italia, hanno creduto nel decentramento come a un’opportunità di rafforzamento democratico. Ciò (in linea con la sensibilità di Xxxxx circa il principio di sussidiarietà) si sarebbe giustificato in virtù della seguente possibilità. Trovare, nella contrattazione di II livello e nella rappresentanza presso i luoghi di lavoro, le soluzioni regolative appropriate per l’adeguamento del
(42) X. XXXXX, Cambiare le relazioni industriali. Considerazioni a margine del Rapporto del Gruppo di Alto Livello sulle relazioni industriali e il cambiamento nella Unione Europea, in RIDL, n. 2, 2002, 150.
(43) X. XXXXXXXXXX, Morte di un riformista, Marsilio Editori, 2003.
rapporto di lavoro con lo specifico contesto vissuto. Soluzioni di questo genere sarebbero al contrario state difficilmente raggiungibili per mano dell’intervento di autorità centrali. Senz’altro Xxxxxxx Xxxxxxxxxx è stato fra quanti hanno raccolto l’eredità scientifica e ideale di Xxxxx Xxxxx. Da allievo impegnato a continuarne lo sforzo di ricerca, ne ha rilanciato soprattutto il metodo. Anche in Xxxxxxxxxx è riconoscibile forte fiducia nella comparazione. Anche in Tiraboschi poi, è evidente la passione progettuale, vale a dire la tensione a valorizzare la tecnica giuslavoristica per trasformare l’esistente. In uno studio per la rivista Diritto delle Relazioni Industriali (44), l’autore bergamasco ha riflettuto sull’art. 8 del decreto legge 138 del 2011 (il quale sarebbe poi stato convertito dalla legge 148 dello stesso anno). Egli ha riconosciuto nella norma un’innovazione il cui studio avrebbe consentito di andare al cuore delle dinamiche in corso nelle relazioni industriali italiane. È giunto così a considerazioni opposte rispetto, ad esempio, a quelle di Xxxxxxxxx Xxxxxxx (il quale, come visto, ha considerato l’articolo 8 un “vettore di decostruzione” per il diritto del lavoro nel Paese). Xxxxxxxxxx ha preso posizione contro l’idea che la contrattazione di prossimità potesse definirsi un’esperienza di “deregolazione”. Al contrario, essa sarebbe dovuta essere individuata in modo pragmatico come un’alternativa ai processi di smantellamento puro e semplice delle tutele predisposte per i lavoratori durante il novecento. L’articolo 8 consentirebbe infatti una “derogabilità presidiata” del II livello nei confronti del I livello. Sarebbe, in altri termini, un ragionevole canale di devolution, ossia di riconduzione delle tematiche del lavoro alle sedi più appropriate per la discussione, fuori da sbarramenti stabiliti a priori. Sotto questa luce, l’articolo 8 costituirebbe un’applicazione ragionata di quel principio di sussidiarietà che lo stesso Xxxxx Xxxxx aveva invocato nel sistema di relazioni industriali. La disposizione non sarebbe allora un vulnus destrutturante per lo statuto protettivo del diritto del lavoro. Xxxxxxxxx, andrebbe interpretata come la tessera significativa di un più ampio mosaico progettuale, volto a modernizzare le norme sul mercato e il rapporto di lavoro. Xxxxxxxxxx a riguardo, ha rintracciato una forte coerenza tra l’ispirazione culturale alla base dell’articolo 8 e quello “Statuto dei lavori” che di Xxxxx Xxxxx, ha finito per rappresentare eredità scientifica e proposta di riforma per il futuro.
Nelle proprie opere, autori come Xxxxxxxxxx e Xxxxx hanno sempre testimoniato fiducia nella capacità generativa di un metodo. Questo ha nella valorizzazione del diritto delle relazioni industriali un’apertura di sguardo necessaria per ancorare saldamente l’indagine scientifica lavoristica al dato di realtà. Solo tramite questo carattere di saldezza, di radicamento conoscitivo nel reale, la ricerca diverrebbe in grado di fornire una base critica e problematizzante da cui trarre idee di riforma. L’insegnamento di fiducia, prima di Xxxxx e poi di Xxxxxxxxxx, pare sia stato accolto nel recente studio degli autori Xxxxx
(44) X. XXXXXXXXXX, L’articolo 8 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138: una prima attuazione dello “Statuto dei lavori” di Xxxxx Xxxxx, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 1, Xxxxxxx, 2012.
Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx (45).Questo studio infatti pare fondato su un’esigenza di pragmatismo: abbandonare schemi “confortanti” e fare i conti con le tante sfumature e complicazioni delle pratiche reali della regolazione del lavoro. La domanda di ricerca che hanno proposto è la seguente: se nonostante le differenze ordinamentali e di funzionamento fra relazioni industriali italiane e australiane, gli output normativi lavoristici nei due Paesi non potessero comunque riuscire somiglianti. L’esigenza di scendere nel concreto, quindi, li ha spinti a ricercare risorse cognitive associando all’apertura di orizzonti propria del metodo comparatistico, l’analisi degli interventi regolativi effettivamente realizzati – vuoi grazie alla contrattazione, vuoi grazie a pratiche di HR Management – all’interno di tre multinazionali operanti sia in Italia che in Australia. Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx hanno provato ad avvicinare questo materiale di regole senza pregiudizio. Le istanze di competitività e di contenimento dei costi, di cui sono portatrici le aziende multinazionali all’atto dell’intervento normativo sul lavoro, non direbbero nulla di decisivo riguardo al fatto se le soluzioni definite a livello decentrato abbiano il senso di una "deregolazione" a tutto svantaggio del valore dell'equità. Per smascherare, allora, l’apparente fondatezza della presunzione di equivalenza fra decentramento e deregolazione, gli autori hanno fatto propria la prospettiva teorica della responsive delegation. Questa si fonda su due concetti-chiave: il tripartism, che consiste nel soppesare il ruolo d'interazione giocato da un soggetto terzo (ad esempio, il sindacato) per la comprensione del rapporto intercorrente fra due altri centri d’imputazione d’interessi (l’azienda e il personale); e la delegation, concetto secondo il quale possono prodursi regole significative anche qualora la fonte di primo livello faccia posto a fonti di secondo.
Individuate da un lato le risorse cognitive su cui fondare l’analisi, e proposto un metodo con cui oltrepassare l’alternativa secca fra regolazione e deregolazione, Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx hanno concluso che, nonostante le differenze fra i due Paesi, gli standard di trattamento dei dipendenti (nelle multinazionali considerate) erano paragonabili e che il valore dell’equità non risultava sproporzionatamente sacrificato. Le conclusioni del loro studio, fra l’altro, dischiudono a considerazioni utili per colmare la distanza culturale fra i “critici” del decentramento e chi, piuttosto, sostiene le ragioni di un decentramento “critico”. Esistono numerosi elementi istituzionali che apprezzati sistemicamente (cioè facendosi portatori di una visione olistica dell’ordinamento intersindacale e del diritto delle relazioni industriali) aiutano a mettere da parte il presunto carattere sfavorevole di ogni decentramento nei confronti dei dipendenti. Che ad esempio, per l’Italia non sia riconosciuto peso al particolare contesto delle relazioni industriali in azienda, così come prodotto anche in base a norme di legge ordinaria (si pensi all’art. 28
(45 ) X. XXXXXXXXXX, A. XXXXXXX, Different Legal Systems, Same Normative Contents? Collective Bargaining at Apple, Ikea and Tiffany Stores in Australia and Italy, in Australian Journal of Labour Law (AJLL) Vol. 32 Part. 2, pp.192-218.
dello Statuto per la repressione della c.d. condotta antisindacale) è errore prospettico. Questo errore impedirebbe una visuale chiara sull’effettiva situazione di bilanciamento dei poteri contrattuali a livello decentrato. In altri e più semplici termini, occorre che le dinamiche della contrattazione non siano studiate in modo slegato dal più ampio contesto di regole e interessi con cui i contraenti devono fare i conti.
A questo punto, vale passare a considerare un autore che, fra gli altri, è probabilmente riuscito ad offrire una prospettiva di senso originale sulla contrattazione collettiva, valorizzando i termini fondamenti del diritto del lavoro italiano. Xxxxxxx Xxxxxxx si è interrogato sulla giuridicità del fenomeno contrattuale, indagandone i profili qualificatori e funzionali. L’autore milanese ha colto nelle relazioni industriali decentrate un’opportunità di partecipazione (46) e, per certi versi, uno spazio eticamente positivo. Poco affezionato al formalismo ma acceso dallo studio comparatistico, egli ha innanzitutto cercato di svincolare lo studio della contrattazione collettiva dal solco mainstream del contratto di diritto comune. Non ha al riguardo respinto questa classica ipotesi qualificatoria. E però della contrattazione ha inteso evidenziare il tratto dinamico. La contrattazione, infatti, non potrebbe pensarsi come una mera collezione di contratti, di singole tappe contrattuali. Sarebbe descrivibile piuttosto come un processo continuo, mai esaurito, vivace nella stessa misura in cui sono vitali le situazioni del lavoro. Ogni giorno al lavoro potrebbe contenere episodi di contrattazione. Nell’ottica di Xxxxxxx, per farsi un esempio, si potrebbero scorgere significati contrattuali nella quotidiana richiesta di informazioni da parte dei rappresentanti sindacali rispetto alle scelte gestionali dei responsabili. Potrebbe darsi, infatti, che queste scelte siano considerate in contrasto con regole fissate per iscritto o affermate dall’uso nell’ambiente di lavoro. Xxx Xxxxxxx, inoltre, la contrattazione deve sempre essere verificata sul piano dell’effettività dei rapporti. Il criterio dell’effettività, anzi, diviene tanto cruciale nell’opera dell’autore, da arrivare ad essere evocato per l’interpretazione delle questioni di antinomia fra livelli contrattuali collettivi differenti. Sembra fra l’altro che questa proposta non abbia carattere neutro. Essa apre un importante spazio argomentativo per quanti sono favorevoli a regole stabilite a livello decentrato.
Sul piano della scienza del diritto poi, il criterio di effettività sarebbe ricavato dalla lettura delle garanzie fondamentali dell’ordinamento italiano in tema di lavoro. In particolare il dato dell’autotutela (sancito in Costituzione con il riconoscimento del diritto di sciopero) sarebbe da ricollegarsi non già all’art 24 Cost. (sulla tutela dei diritti e degli interessi legittimi presso l’autorità giudiziaria) ma agli articoli 1 e 2. Lo sciopero costituirebbe innanzitutto una questione civile; la partecipazione sindacale, coerentemente, sarebbe un’attività aggiuntiva e complementare rispetto a quella politico- rappresentativa. Non per nulla Xxxxxxx ha distinto fra organizzazione / attività sindacale
( 46 ) X. XXXXXXX, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, Xxxxxxx Editore, 1986.
e organizzazione / attività politica non già a partire dagli obiettivi, ma a partire dai mezzi messi in campo.
Un focus sui rapporti fra I e II livello di contrattazione
Quale snodo ulteriore dell’approfondimento sul contratto collettivo di lavoro, pare importante il richiamo ad alcune riflessioni dottrinali. Negli anni queste sono state indirizzate alla questione problematica del rapporto fra differenti livelli di contrattazione: se e in che termini il secondo livello potesse “superare” il primo, derogandolo o comunque ampliandone i temi regolati. Per trovare una traccia con cui leggere l’evoluzione del pensiero giuslavorista italiano su queste tematiche, è probabilmente d’aiuto la lettura di un’opera di Xxxxxxxx Xxx Xxxxx (realizzata fra l’altro, in una fase ancora giovanile della sua produzione scientifica). Nel saggio Il contratto collettivo aziendale (47) del 1990, il docente toscano ha offerto una cronaca dei mutamenti interpretativi nei confronti della contrattazione di II livello.
Fin dagli anni ’50, è stato riconosciuto che la “nazionalità” del contratto collettivo costituiva un dato accessorio, non essenziale per l’atto giuridico. Ciò nonostante per un certo lasso di tempo, s’è comunque ritenuto che il contratto aziendale dipendesse per la propria validità dalla contrattazione nazionale. A partire da questa idea basilare, era stato sviluppato il sistema c.d. della contrattazione articolata. In base a questo sistema, ogni pattuizione collettiva realizzata al livello più basso doveva costituire l’esercizio di un’apposita delega contenuta al livello più alto. Negli anni però, questa modalità di coordinamento tra fonti contrattuali s’è fatta sempre meno sostenibile sul piano del fondamento interpretativo: non sembrava che potesse essere la delega nel CCNL a fondare la validità del contratto aziendale. E ciò, per il fatto che in Costituzione mancava un’apposita eccezione al principio della libertà dell’organizzazione sindacale, che riguardasse il II livello di contrattazione. La contrattazione articolata comunque (se anche superata dopo non lungo tempo) ha costituito un esempio emblematico della reciproca influenza fra politica sindacale e riflessione giuslavorista. Lo strumento civilistico della delega, infatti, ha ben rappresentato in che modo le proposte interpretative dei giuristi del lavoro potessero rendersi congeniali a peculiari obiettivi di politica del diritto – obiettivi, a loro volta, collegati a varie sensibilità culturali e ideologiche –.
Oltrepassata quindi la stagione della contrattazione articolata, si apriva un momento di incertezza per i sindacati, seguito dal grande mutamento della promulgazione dello Statuto dei lavoratori. Nonostante a quel punto riuscisse evidente che il governo degli assetti contrattuali sarebbe dipeso non più da meccanismi di delega verso il secondo livello, ma magari da forme di coordinamento politico-sindacale, interpretativamente il criterio gerarchico non era dismesso. Xxxxx Xxxx (48) ad esempio, ha sostenuto che le
(47) R. DEL PUNTA, Il contratto collettivo aziendale, in AA.VV., Letture di diritto sindacale, p. 281-338, Jovene Editore, 1990.
(48) X. XXXX, Contrattazione collettiva e controllo del conflitto, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 449 ss., 1998.
xxxxxxxx di rinvio dei contratti nazionali avessero efficacia obbligatoria nei confronti dei contratti aziendali. Si trattava di una proposta che facendo perno sul criterio gerarchico, mirava a gestire interpretativamente la questione dell’antinomia fra differenti livelli contrattuali: antinomia specialmente problematica nella casistica della deroga in peius della contrattazione decentrata nei confronti del CCNL. Xxxx, insomma, provava a dare una soluzione tecnico-giuridica con cui evitare “fallimenti” nei nuovi modi della tutela. Del resto altri autori si sono mossi nella sua stessa direzione. Si sono chiesti, in particolare, se fosse possibile rinunciare all’operatività di quella sorta di principio di favore che indirizzerebbe l’esercizio dell’autonomia collettiva nell’ordinamento. In forza di questo principio, sarebbe consentita la deroga solo in senso migliorativo del secondo livello di contrattazione nei confronti del primo (c.d. inderogabilità in peius). Si tratta peraltro di un discorso non pacifico, contrastato con vari argomenti: l’inderogabilità in peius non sarebbe mai stata affermata dal legislatore, né sarebbe ricavabile dalla lettura dei principi costituzionali (in particolare, di quello sulla libertà dell’organizzazione sindacale).
Insomma, la questione dell’antinomia e soprattutto della deroga in peius fra livelli contrattuali ha diviso i pensatori. Non per nulla, il dibattito così innescato ha finito coll’interessare pure la questione della rappresentatività del sistema sindacale. Soltanto di fronte a un sistema sindacale rappresentativo, con in più sostanziale omogeneità degli attori contrattuali sui vari livelli, sarebbero percorribili soluzioni interpretative nuove. All’inizio degli anni 80, ad esempio, l’accademico Xxxxxxxx Xxxxxxx (49) ha proposto di valorizzare il criterio temporale: far prevalere in caso di antinomia la previsione più recente ma (appunto) nel quadro di un sistema multi-livello di relazioni industriali rappresentativo e coerente al proprio interno. A sua volta, nella medesima direzione ha avanzato una proposta il docente xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxx (50). Sulla base degli stessi presupposti, egli ha suggerito l’adozione del criterio di specialità aprendo così alla possibilità della deroga in peius del II livello. Parimenti anche Xxxxxxx X’Xxxxxx (51) ha voluto sostenere teoreticamente la regolazione decentrata. E però l’ha fatto tracciando una soluzione originale. Si sarebbe dovuta riconoscere al singolo lavoratore una sorta di facoltà di rinunzia rispetto ai prodotti del II livello di contrattazione. Così si sarebbe tenuta assieme la possibilità dell’innovazione da parte del livello decentrato con la garanzia della tutela secondo la sensibilità del diretto interessato.
Del Punta, peraltro, non ha concluso la propria indagine con D’Xxxxxx, ma ha sondato un’ultima ulteriore proposta dottrinale. Egli ha ragionato sul pensiero di Xxxxxxx Xxxxxxx (52). E anzi, pare che ne abbia abbracciato l’intuizione. La quale ha riguardato la valorizzazione del dato della “effettività”. Nel contesto ordinamentale italiano, visto soprattutto il riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero, l’effettiva applicazione
(49) X. Xxxxxxx, Ordinamenti, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Jovene, 1981.
(50) X. Xxxxxx, Relazione, in Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, atti del convegno AIDLASS di Arezzo del 15-16 maggio 1981, Xxxxxxx, 1982.
(51) M. D’Xxxxxx, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione¸ in Rivista Giuridica del lavoro e della previdenza sociale, I, 3 ss., 1986.
( 52 ) X. XXXXXXX, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, op. cit..
delle pattuizioni contrattuali da parte dei soggetti collettivi interessati costituirebbe la prima indicazione per l’interprete. Questa indicazione, infatti, sarebbe in grado di dire qualcosa di decisivo circa il grado di accettazione nei confronti della norma espresso nel gioco delle relazioni industriali: se la norma sia considerata o meno in grado di bilanciare gli interessi toccati.
Tra contrattazione di settore e contrattazione aziendale: uno sguardo alle dinamiche concrete
Prima di proseguire oltre nella rassegna di literature review (snodandosi il ragionamento fra contrattazione collettiva nel settore siderurgico, organizzazione e contratto di lavoro, riconoscimento della professionalità) si vogliono proporre delle ulteriori righe. Queste saranno dedicate non tanto a una ricostruzione teoretica sulla pluralità dell’azione contrattuale, quanto alla concretezza oggi dell’interazione fra livelli contrattuali. A riguardo, è d’aiuto il riferimento a uno studio (53) proposto in tema di contrattazione aziendale nella metalmeccanica, dal docente Xxxxx Xxxxxxx e dall’ex- funzionario Cisl Xxxxxx Xxxx. I due autori sono partiti dalla consultazione degli accordi di II livello contenuti nella Banca dati OCSEL (Osservatorio nazionale sulla Contrattazione di SEcondo Livello). Hanno quindi condotto un’analisi quantitativa tramite la tipizzazione dei contenuti degli accordi: hanno individuato materie generali trattate e per ciascuna di queste, hanno stilato delle voci per l’ulteriore catalogazione.
Imberti e Moia, da principio, hanno esposto una lettura di massima sulla relazione tra i CCNL metalmeccanica del 2012 e del 2016 e lo sviluppo della contrattazione aziendale. Essi hanno preso nota (muovendo dalle dichiarazioni dei sottoscrittori) della riaffermata centralità del CCNL quale “strumento universale e generale di tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro”. Al contempo però, hanno registrato l’irrobustimento del livello decentrato. In conseguenza, per tenere assieme questi due elementi, essi hanno suggerito che la contrattazione decentrata (di crescente importanza) stia svolgendo una funzione adattatrice delle norme contrattuali nazionali e non un’alternativa a queste. La cosa sarebbe comprovata dal riscontro con gli stessi contenuti della contrattazione. La materia del salario, ad esempio, ha costituito di gran lunga la questione più trattata nel secondo livello contrattuale (c.a. il 67% dei contratti consultati). Questo dato sarebbe comunque ricollegabile alla puntualizzazione del CCNL del 2016, sul carattere integralmente variabilità del premio di risultato. Ecco quindi una ricaduta concreta dell’interazione fra norme di differente livello. Pare interessante, poi, accostare al tema del salario due altre materie rispetto a cui i dati mostrerebbero tendenze chiaroscurali. La materia della formazione continua è stata più diffusamente trattata dopo dell’introduzione delle 24 ore pro-capite di training da erogare ai lavoratori metalmeccanici (in forza dell’art. 7 del Titolo VI del CCNL 2016) nel triennio a partire dal 1° gennaio 2017. Allo stesso tempo però, il dato sulla materia formazione (riscontrato in c.a. il 15% dei contratti
( 53 ) X. XXXXXXX, X. XXXX, Ccnl metalmeccanici 2016 e contrattazione aziendale: un tentativo di tipizzazione, in DLRI n. 167, 3, 2020.
consultati fra quelli post-2016) ancora non permetterebbe di parlare di una tematica ampiamente diffusa nel secondo livello di contrattazione. Per quanto poi sta alla materia dell’inquadramento, in costanza del mancato intervento di riforma nel 2016 a livello nazionale, pare che essa abbia seguito una dinamica stagnante. La sua trattazione a livello decentrato è infatti scesa di c.a. un punto percentuale sotto la vigenza del CCNL 2016. In attesa della riforma del sistema d’inquadramento registratasi nel 2021, RSU e aziende avrebbero allora per lo più provveduto a un adeguamento delle regole nazionali: non a un loro più profondo ripensamento.
In prospettiva, questo genere di rilievi sarà utile dovendosi trattare il tema organizzativo in rapporto alla contrattazione di Tenaris Dalmine. Si vedrà di capire se queste considerazioni (sia anche riportate per necessità sinteticamente) abbiano conferma nel caso di Tenaris Dalmine: e se sì, in che modo particolare.
La peculiarità del settore siderurgico
Sempre in preparazione allo sviluppo dello studio di caso, per acquisire ancora ulteriori chiavi di lettura, si considera opportuno svolgere un affondo non già sulla metalmeccanica in generale, ma sullo specifico settore della siderurgia. Questo settore infatti ha caratteristiche particolari e ha richiesto, di conseguenza, particolari soluzioni normative nel corso del tempo. Senza fra l’altro, che qui si possano illustrare le ragioni storiche alla base del posizionamento dell’Italia ai vertici della produzione di acciaio (54), basti dire che il forte coinvolgimento finanziario e di governance dello Stato nei confronti della siderurgia è stato cruciale. E ciò, non solo perché la siderurgia è stata individuata come un asset industriale strategico. Ma anche perché si sono realizzate certe condizioni per un’inedita evoluzione della contrattazione collettiva. Il testo scelto per orientarsi nello studio è la pubblicazione di Xxxx Xxxxxx: L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e mineraria (55) (pubblicazione fra l’altro, allora promossa e supportata dalla CECA – Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio). L’autore ha notato, senz’altro, che a livello nazionale nell’ambito della metalmeccanica sono state definite norme appositamente rivolte agli addetti delle lavorazioni siderurgiche presso stabilimenti siderurgici (fra queste norme, è stata citata quella sulla “paga di posto”). E però, le ragioni del rilievo storico della contrattazione nella siderurgia non hanno
(54) Si consideri che secondo la World Steel Association, nel 2019 la produzione italiana di acciaio nella prima forma solida, come prodotto semi-lavorato (billette, lingotti…) o nella versione liquida ha raggiunto le 23.190 migliaia di tonnellate; che, soprattutto, nel 2019 l’Italia s’è posizionata settima a livello mondiale con riguardo ai livelli di esportazioni in prodotti lavorati e semi-lavorati in acciaio (17.948 migliaia di tonnellate). Tali dati, peraltro, sono solo in parte indicativi. Maggiore peso avrebbe piuttosto la comparazione sui valori economici delle produzioni, collegati alle tipologie di acciaio e di prodotto finito (rileva a riguardo la composizione chimica della lega d’acciaio, il processo di lavorazione, l’entità e il numero dei trattamenti a caldo…). La complessità del prodotto, dunque, ha dietro di sé una complessità di processo industriale che dice molto sui prezzi dei beni.
Per uno sguardo sull’entità quantitativa di produzioni e commerci: WORLD STEEL ASSOCIATION, Steel Statistical Yearbook 2020. A cross-section of steel industry statistics 2010 – 2019, 2020.
55 X. XXXXXX, L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e mineraria, op. cit..
riguardato tanto la predisposizione di certi trattamenti normativi o economici. Piuttosto, queste ragioni vanno ricercate nel rinnovamento degli assetti contrattuali realizzato proprio in seno alle relazioni industriali siderurgiche. A questo proposito, probabilmente è lo Stato ad aver svolto un ruolo fondamentale: s’intende ora dire il perché.
Nei primi decenni del dopoguerra, Confindustria si è occupata direttamente delle contrattazioni di categoria. Per vario tempo, allora, essa ha mantenuto una forte contrarietà nei confronti dell’eventuale articolazione del sistema contrattuale collettivo. L’idea era che l’allargamento formale della contrattazione alle sedi di lavoro, alle fabbriche, avrebbe consentito un rafforzamento dei sindacati. Questi, dal canto loro, si collocavano su posizioni differenti. Giugni ha evidenziato che la Cisl, per prima, ha maturato una cultura e una strategia d’azione favorevoli alla contrattazione aziendale. Già nel 1953 (a tre anni dalla propria nascita) in momento congressuale in Cisl sono stati chiariti i “contro” di una strategia rivendicativa appiattita, sul lato salariale, unicamente sui CCNL. Le trattative sui “minimi” avrebbero sempre dovuto tenere conto della bassa redditività delle imprese marginali. Il che avrebbe prodotto un costante effetto di contenimento delle possibilità negoziali sprigionate dalla progressione economica delle aziende di punta. Queste argomentazioni erano destinate ad essere ascoltate. Non per caso nel 1956 (anche qui in sede congressuale) la Cgil ha abbracciato la prospettiva del decentramento. Ha mantenuto tuttavia un atteggiamento guardingo, precisando che se si fosse avuta contrattazione aziendale, questa avrebbe svolto una funzione “integrativa” rispetto al CCNL. Questa posizione programmatica, allora, significava che il I livello di contrattazione sarebbe dovuto essere gerarchicamente superiore al II.
Nello scenario di stallo, quindi, imposto dall’apparente inconciliabilità dell’apertura sindacale al decentramento e dalla profonda avversione di Confindustria a questa prospettiva, s’inseriva una fondamentale iniziativa dello Stato. Nel 1958, era realizzato lo “sganciamento” delle aziende a prevalente partecipazione statale dal sistema confindustriale. Era così costituito un soggetto datoriale diverso: Intersind. Questa, nel giro di poco, avrebbe dimostrato maggiore favore per l’innovazione degli assetti contrattuali, di quanto non ne avesse dimostrata fino allora Confindustria. È in questo scenario, che s’è inserito un passaggio importante per il diritto delle relazioni industriali italiane: un passaggio che, non a caso, ha riguardato il settore siderurgico. Nel 1960 la Italsider (colosso dell’acciaio nato dalla fusione delle società controllate statali Cornegliano e Ilva) ha stipulato con i sindacati un contratto integrativo aziendale. Con il che è stata realizzata un’innovazione altrimenti impensabile, visti i timori di Confindustria. L’integrativo Italsider ha testimoniato la sperimentabilità in Italia soluzioni inedite nell’ambito della contrattazione: sia con riguardo ai contenuti normativi che con riguardo al livello della negoziazione.
Probabilmente, tutto ciò non sarebbe accaduto senza l’opera di alcuni giuslavoristi appassionati del metodo comparativo. Sul tema una riflessione emblematica è stata svolta contenuta da Xxxxxxx Xxxxxxx nella propria Introduzione (56) a una raccolta antologica di
56 X. XXXXXXX, Introduzione, in Idee per il lavoro, Laterza, 2020.
scritti di Xxxx Xxxxxx (Idee per il lavoro (57)). L’accademica e giudice costituzionale, infatti, ha raccontato quanto lo stesso Xxxxxx fosse stato influenzato dal contatto con le relazioni industriali nordamericane e, in generale, quanto avesse confidato nel metodo comparativo approfondito con tanti colleghi stranieri. Giugni del resto ha mosso i propri primi passi di giurista progettuale presso quell’istituto IRI a cui Xxxxxxxxx faceva capo. Egli in prima persona, insieme ad altri professionisti, ha dunque contribuito a tradurre nella pratica alcune idee per il lavoro e le relazioni industriali: idee alternative rispetto agli equilibri raggiunti da Confindustria e sindacati nel primo dopoguerra.
Queste idee, come accennato, hanno riguardato non solo la questione degli assetti contrattuali ma pure il campo dei contenuti normativi. Nell’integrativo Italsider del 1960, ad esempio, è stata inserita nella parte obbligatoria del contratto una clausola espressa di tregua sindacale. Nella parte normativa poi, è stato elaborato uno schema retributivo fondato sulla c.d. job evaluation. Il funzionamento alla base di questo schema richiedeva, fra l’altro, la condivisione sindacale di manuali valutativi delle mansioni richieste nell’ambito della società. La job evaluation offriva così un’opportunità di metodo. Apriva spazio per la specificazione “negoziale” di aspetti di organizzazione del lavoro. Il che evidentemente, ne faceva un aspetto significativo entro il disegno contrattuale Italsider. A livello di sistema, rendeva pensabile la negoziazione su ancora ulteriori tematiche (gestione dei rapporti individuali, formazione continua, dinamiche di carriera).
Il diritto delle relazioni industriali dunque era profondamente riformato fra anni ’50 e ’60. Questa riforma, come illustrato, aveva a termini significativi sia una maggiore apertura all’innovazione degli assetti contrattuali da, sia una certa funzione laboratoriale assunta dal settore siderurgico. Rispetto a questo quadro, tracciato da Xxxx Xxxxxx nel 1964, è interessante farsi delle considerazioni sull’oggi. Senz’altro, Confindustria non è più da annoverarsi tra le organizzazioni “scettiche” nei confronti del decentramento contrattuale. A riguardo basti citare i punti programmatici inseriti nel c.d. Patto della Fabbrica, firmato dagli industriali insieme con Cgil, Cisl e Uil il 9 marzo 2018. Pur ripetuta nell’accordo la garanzia che il contratto nazionale sarebbe rimasto cruciale nel sistema di relazioni industriali, aspirazioni quali “l’incremento della competitività delle imprese”, o “il rafforzamento del legame tra produttività del lavoro e retribuzioni” hanno evidenziato la propensione fondamentale per dare più incisività al contributo “integrativo” del secondo livello. Nel documento in esame, le parti sociali hanno fra l’altro affermato di voler adottare nelle relazioni industriali un modello di “governance adattabile”. È evidente, allora, che questa definizione risulterebbe inconferente con qualsiasi chiusura “a prescindere” rispetto al decentramento tout-court. Appare invece più problematico stabilire, oggi, se e in che misura il settore siderurgico conservi una funzione laboratoriale simile a quella individuata a suo tempo da Giugni. Probabilmente, anche da questa prospettiva può apprezzarsi la ragion d’essere di uno studio di caso su Tenaris Dalmine. Del resto, le relazioni industriali di Tenaris Dalmine sono “fatte d’acciaio”. Studiarle significa di certo instaurare un dialogo problematico con le retrostanti condizioni e cambiamenti nei processi produttivi, nelle tecnologie applicate, nei mercati di riferimento.
57 X. XXXXXX, X. XXXXXXX (curatrice), Idee per il lavoro, Laterza, 2020.
3. Il contratto collettivo aziendale per la regolazione della tematica organizzativa
Il contratto collettivo aziendale è un atto giuridico qualificato socialmente dal processo di partecipazione che lo origina. La questione della partecipazione, del resto, assume speciale rilievo nel sistema giuridico italiano proprio rispetto al tema del lavoro (basti considerare le norme costituzionali sulla libertà di organizzazione sindacale e sul diritto di sciopero). Nella partecipazione i lavoratori ritrovano un elemento di libertà, e forse proprio nel concetto di libertà è individuabile la cifra critica con cui considerare il problema della relazione fra lavoratore e datore di lavoro. È stato detto infatti che la libertà è l’alta espressione della condizione umana “pregiudicata dal vincolo di subordinazione tipico del lavoro nell’impresa” ( 58). Di conseguenza per esplorare la ragion d’essere della contrattazione nell’impresa, bisognerà altresì studiare il vincolo di subordinazione in quanto regola sulla libertà della persona nello speciale ambito del lavoro. Questo passaggio è avvertito come non rinunciabile, ai fini dell’indagine sulla contrattazione in quanto meccanismo di bilanciamento del rapporto di potere connesso al lavoro. Pare fra l’altro, che in questo modo non possa non giungersi fino al tema dell’organizzazione. Si ritiene infatti, che la subordinazione sia strumento giuridico preposto all’inserimento organizzativo del lavoro nell’impresa: così, il suo studio può essere riformulato in termini di approfondimento delle caratteristiche funzionali di una categoria giuridica in rapporto all’organizzazione dell’impresa. L’approfondimento su contrattazione e subordinazione, insomma, è l’approfondimento su lavoro e organizzazione (nell’ambito del diritto delle relazioni industriali). In questo ordine di pensiero, la questione organizzativa diventerebbe non solo ambito tematico, ma risorsa critica trasversale per l’analisi della contrattazione collettiva nel caso di studio.
Assetto della subordinazione lavorativa e questione organizzativa
Xxxxxx Xxxxxxxx ha indagato il significato del contratto individuale di lavoro subordinato. La sua indagine (59) è stata svolta sulla base di criteri analitici e risorse culturali di rigorosa impronta privatistica. Persiani ha respinto le ricostruzioni di stampo istituzionalista, volte a riconoscere il fondamento dell’obbligazione lavorativa nella condizione istituzionale del lavoratore (… in un certo senso, nello status che questi viene a occupare). L’accademico ha piuttosto constatato che i termini costitutivi del rapporto lavoristico stanno nel contratto di lavoro. L’analisi dell’art. 2094 c.c., fra l’altro, l’ha spinto a riconoscere nel contratto individuale di lavoro l’atto giuridico col quale l’imprenditore della modernità valorizza il proprio interesse a prestazioni coordinabili: prestazioni, cioè, che possano riuscire coerenti nel disegno organizzativo con cui è condotta l’iniziativa d’impresa. In tale ordine di idee, l’oggetto del contratto consiste
(58) X. XXXXXXXXX, Lavoro e spirito, Xxxxxxxxxxxx, 2011.
(59) X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, CEDAM, 1966.
nell’organizzazione dell’offerta lavorativa individuale. Il contratto di lavoro si rivela allora contratto di organizzazione, grazie a cui si innerva funzionalmente il corpo dell’impresa. Secondo questo ragionamento, in sintesi, l’organizzazione non preesiste al contratto di lavoro ma si sostanzia con esso.
L’accademico Xxxxxx Xxxx (60) ha proposto un ragionamento differente, dissentendo dalle conclusioni di Persiani. Liso ha negato che l’utilità attesa dal datore, nel contratto di lavoro, consista nel coordinamento in concreto della singola prestazione insieme alle altre offerte nell’impresa. Il contratto di lavoro, piuttosto, servirebbe a obbligare il prestatore a un risultato meramente parziale: servirebbe a organizzare una prestazione. L’interesse dell’imprenditore a un’efficiente organizzazione aziendale, sarebbe esterno alla causa del contratto. Starebbe a lui, al titolare dell’iniziativa economica, realizzare il disegno organizzativo con cui fare sintesi degli apporti individuali. Liso (che come Persiani, ha rifiutato la prospettiva istituzionalista) ha quindi inteso evitare che il contratto di lavoro fosse caricato di funzioni ulteriori e dissonanti rispetto a quelle ricavabili dai termini dello scambio fra le parti. Nel suo ragionamento, poiché il prestatore, soggetto al vincolo di subordinazione, manca di poter effettivamente decidere in ordine al processo organizzativo e al contributo degli altri lavoratori, non può collocarsi sul suo capo l’attesa del successo imprenditoriale e organizzativo.
La ricostruzione di Xxxx potrebbe forse fare da significativo appiglio teorico, per chi caldeggi una strategia contrattuale del sindacato ispirata a logiche difensive, guardinghe rispetto all’istanza organizzativa interna all’impresa capitalistica. Poiché il capitalista ragiona in una logica di appropriazione, occorre presidiare il confine della sua richiesta creditoria nei confronti del prestatore di lavoro. Detto confine dev’essere in primis determinato e riconoscibile. I sistemi di classificazione e inquadramento tradizionalmente contenuti nella contrattazione collettiva, sono allora di solito imperniati su elencazioni mansionarie. Le mansioni esprimono l’unità fondamentale del che cosa a cui si obbliga il prestatore. Detta unità fondamentale poi, ripetuta in modo standard per l’estensione del tempo di lavoro, offre un parametro oggettivo in rapporto al quale stabilire l’entità dell’obbligazione corrispettiva del datore di lavoro. Pare, così, che alla retribuzione si conferisca una valenza redistributiva: redistributiva del valore che è stato consentito ricavare, grazie all’inserimento del lavoratore nel processo di produzione.
La prudenza della ricostruzione di Liso costituisce un valore. Sulla base dell’accordo contrattuale, le parti regolano l’incontro dei propri vicendevoli interessi patrimoniali; e però, perché così sia, occorre che l’oggetto del contratto sia determinato con nettezza. Del resto, una sorta di indefinito coinvolgimento della persona del prestatore entro l’oggetto del contratto di lavoro riuscirebbe dommaticamente irricevibile. Osservata la “prudenza” di Liso, pare che la ricchezza della proposta di Persiani consista piuttosto nella capacità di intercettare il contorno effettivo della pretesa datoriale. Più che una prestazione parziale, che rispetti standard astratti e statici, pare infatti che un datore di lavoro attenda una collaborazione utile a fronte delle condizioni concrete in cui essa si realizza.
(60) X. XXXX, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Xxxxxx Xxxxxx, 1982.
A rinfrancare tale posizione, sta l’insegnamento proveniente da una certa dottrina internazionale. Xxxxxxx Xxxxx, fra gli altri, è giunto a individuare l’esecuzione di mansioni e protocolli di lavoro alla lettera come una potenziale forma di lotta collettiva, di sciopero (61). Può d’altronde essere, che l’osservazione pedissequa delle prescrizioni organizzative contrasti con l’obiettivo di realizzare la pertinente fase del processo produttivo secondo termini e tempi ragionevoli. La condotta in parola potrebbe rivelarsi oggetto di una scelta consapevole da parte di lavoratori organizzati. Questi conflittualmente opterebbero per tale strategia, puntando ad arrecare un danno alle produzioni, magari senza perdere brani della propria retribuzione.
Che un autore militante come Xxxxx, marxista e schierato comunque dalla parte dei lavoratori, giunga sociologicamente a riconoscere l’osservazione pedissequa di mansioni e protocolli di lavoro come una potenziale forma di sciopero, dice molto dei contorni reali dello scambio consacrato col lavoro subordinato. Il dato dell’inserimento organico dell’attività di lavoro in un’organizzazione più ampia, tesa verso obiettivi concreti, è ineludibile. Da Xxxx, allora, potrà anche ricavarsi – in quanto consistente per argomentazione giuridica – che l’organizzazione del lavoro oltre i limiti dell’apporto del singolo, non è cosa che sta all’oggetto del contratto individuale. E però al contempo, perché la ricostruzione dell’assetto giuridico della subordinazione non si atteggi a fictio scarsamente funzionale, occorre rinvenire una prospettiva ulteriore. La quale sappia ricevere l’insegnamento di Persiani circa il raccordo fra organizzazione del lavoro individuale e organizzazione nell’impresa.
Per fare un passo in avanti, sembra allora di potersi richiamare la lezione di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx ( 62 ). Xxxxxxxxxx ha indagato il contenuto giuridico della subordinazione adottando una visione allargata. Egli ha valorizzato sistemicamente l’esperienza della democrazia industriale. Ha cioè affermato, che il dato del consenso individuale vada integrato con quello del consenso collettivo. Tale “integrazione” giuridica – da apprezzarsi considerando la pluralità delle fonti del diritto del lavoro – riuscirebbe essenziale per valutare l’ambito di legittimità del vincolo di subordinazione. In base a queste considerazione, in Pedrazzoli la mediazione collettivo-sindacale assumerebbe un significato centrale per la ricostruzione del contratto di lavoro alla stregua di contratto di organizzazione. Tramite la mediazione collettivo-sindacale infatti, si definirebbero i limiti e le regole in base a cui richiedere legittimamente al prestatore di lavoro una collaborazione effettivamente funzionale per l’organizzazione d’impresa. Ecco dunque, per che strada la rilettura del corretto adempimento a fronte dell’effettivo interesse organizzativo del datore – detto altrimenti: la rilettura dell’assetto giuridico della subordinazione – porterebbe a ritrovare nella contrattazione collettiva, la dimensione peculiare per l’adeguamento del dato contrattuale applicato all’individuo-prestatore. Sarebbe questo adeguamento a rendere proporzionato il rapporto individuale di lavoro. In questo modo, l’autore Xxxxxxxxxx ha tentato di saldare l’affermazione del diritto privato
(61) X. XXXXX, Xxxxxxx (XX Xx.), Xxxxxxxxx, 0000.
(62) X. XXXXXXXXXX, Democrazia industriale e subordinazione. Poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Xxxxxxx, 1985.
secondo cui la subordinazione giuridica discende dal contratto individuale di lavoro, con la valorizzazione sistemica del dato di democrazia industriale.
Alle idee tratte dalla lettura di Xxxxxxxxxx, pare di potersi accostare criticamente le pagine del giurista anglo-tedesco Xxxx Xxxxxx (63). Il quale certo, ha riflettuto riguardo un contesto ordinamentale – quello inglese – del tutto differente dal contesto italiano. Le relazioni industriali nel Paese della Common Law, erano state per lungo tempo non toccate significativamente dalla legge. La fondamentale abstention del legislatore era spiegata da Xxxx Xxxxxx a partire da considerazioni di storia del diritto del lavoro e del diritto pubblico inglesi. E però si considera giustificato il richiamo a questo autore perché, sia anche “dall’esterno”, egli ha offerto una riflessione sul potere nella relazione di lavoro. Questa riflessione possiede un vigore dialettico che è opportuno misurare nel ragionamento sulla subordinazione giuridica. Secondo Xxxx Xxxxxx, nelle società industriali “(d)al lato dei lavoratori (…) il potere è un potere soltanto collettivo” (64). Di conseguenza, è una finzione del diritto che il potere normativo (e in verità unilaterale) del datore di lavoro sia fondato nel contratto individuale (65). Xxxx Xxxxxx ha preso posizione, in un certo modo proponendo uno “smascheramento” della teoria del contratto come libero incontro di volontà individuali nell’ambito lavorativo. La subordinazione giuridica sarebbe il frutto dell’inserimento interessato del prestatore di lavoro nell’impresa. Al contempo però, l’evoluzione della regola sociale ha fatto sì che soprattutto tramite la contrattazione, fossero ritrovati gli elementi di libertà altrimenti minorati sul piano dell’incontro individuale. Contrattazione e legge costituirebbero allora modalità espressive del countervailing power (66) in grado di ricondurre a misura la condizione di subordinazione giuridica. Il contatto con Xxxxxxxxxx, nel senso che per conoscere l’assetto della subordinazione giuridica occorre “allargare lo sguardo”, è evidente. Tuttavia, Xxxx Xxxxxx pare più tranchant, non legato dalla necessità di salvaguardare per l’indagine il contratto individuale.
Le idee di Xxxx Xxxxxx sono state prodotte in un contesto economico-sociale profondamente diverso da quello attuale. Tuttavia, pare che ciò non abbia tolto vigore teoretico alla sua riflessione. Questa soprattutto, vale a tutt’oggi per riguadagnare la fondamentale ragion d’essere degli esistenti sistemi di protezione del lavoro. Non solo. Essa è pure risorsa critica per la progettazione di nuove soluzioni di tutela nei confronti di chi, al di là della categoria della subordinazione – al di là cioè, della fictio della forma del contratto – vive l’esperienza del lavoro senza poter contare sulle proprie sole forze per misurarsi con le controparti nel mercato e nel rapporto di lavoro. E però, sembra che il discorso di Xxxx Xxxxxx vada in un certo modo xxxxxxxxx. Soprattutto, l’affermazione secondo cui il potere dei lavoratori è soltanto potere collettivo andrebbe moderata. Anche senza riferirsi a lavoratori in possesso di altissime e rare specializzazioni, non può nascondersi che le dinamiche generali di professionalizzazione del lavoro abbiano modificato il quadro. La tutela dei “lavoratori della conoscenza”, come segnalato ormai
(63) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit..
(64) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit., 14.
(65) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit., 22.
(66) X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit., 82.
da molti anni (67), propone degli interrogativi alla rappresentanza. È sollecitata la ricerca di appropriati canali di voice, come pure è sollecitata la riflessione sulle migliori soluzioni per le relazioni di lavoro. Per certi versi, la professionalizzazione del lavoro dipendente e la richiesta di flessibilità da parte delle organizzazioni, hanno riattivato i ragionamenti sui termini fondamentali del contratto di lavoro (oggetto e causa del contratto) portando, in conseguenza, a una riconsiderazione del contributo offerto dalla contrattazione per conferire razionalità formale (68) e coerenza funzionale al tutto. Per queste ragioni, prima di cominciare il capitolo di studio di caso su Tenaris Dalmine, è stato deciso di proseguire la literature review ragionando sul concetto di professionalità e sulla sua valenza seminale per il rinnovamento delle relazioni di lavoro.
4. L’aggiornamento della nozione giuridica di subordinazione: il lavoratore subordinato come “professionista”: dal conflitto redistributivo al riconoscimento della professionalità?
È stato individuato in Xxxxx Xxxxxx l’autore grazie a cui subito addentrarsi nel ragionamento sulla subordinazione in rapporto al tema della professionalità del lavoro. Muovendo dal suo saggio “Contratto e rapporti di lavoro, oggi” (69), può innanzitutto annotarsi che secondo l’allievo di Xxxxx Xxxxxxx il rapporto di lavoro è originato nel contratto e non al di fuori di questo. In tal senso egli ha rifiutato, al pari di Persiani e Liso, ogni “tentazione” istituzionalista. Al contempo egli ha voluto dimostrare che, pur essendo presenti molte tipologie di rapporto di lavoro, queste sono in verità riconducibili all’unico tipo giuridico di cui all’art. 2094 c.c.. Perciò, l’indagine sull’assetto della subordinazione lavorativa non potrebbe che prendere a riferimento questa disposizione codicistica. In questo senso, Xxxxxx ha preso atto criticamente dell’atteggiamento giurisprudenziale teso a “frantumare” lo statuto giuridico della subordinazione tramite l’elaborazione di indici con cui individuarla (si pensi, ad esempio, all’eterodirezione dei tempi della prestazione). Parimenti, sarebbe necessario superare l’abitudine a guardare la subordinazione in rapporto con quel prototipo, offerto dalla pratica sociale, del lavoro nella fabbrica fordista. Bisognerebbe, diversamente, tentare di riconsiderare la subordinazione andando al cuore del suo significato normativo. Con questo proposito, Xxxxxx ha affermato la centralità sul piano logico dell’inserimento della persona nell’organizzazione dell’imprenditore, ai fini della lettura della funzione giuridica dell’art. 2094 c.c.. Egli ha così riecheggiato la posizione di Xxxxxx Xxxxxxxx il quale – come apprezzato – ha riconosciuto nel contratto di lavoro un contratto di organizzazione di lavoro. E però l’autore, messo anch’egli di fronte al problema della giustificazione della pretesa organizzativa nei confronti di prestazioni
(67) X. XXXXXX, I lavoratori della conoscenza: il lavoro, la formazione, la rappresentanza, in X. XXXXXXX (a cura di), Il sapere e il lavoro, Xxxxxx Xxxxxx, 1999.
(68) Rispetto a questo passaggio, si consenta il rimando alla ricostruzione teoretica di X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene Editore, 1984, riguardo l’apporto razionalizzante offerto dalla contrattazione nei confronti del sistema giuridico.
(69) X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, Diritto del lavoro – Diritto commerciale, tomo II, Xxxxxxx, 1995.
lavorative coordinabili, ha trovato risorse critiche per l’argomentazione all’interno del codice civile. Egli ha valorizzato il dato normativo connesso alle clausole generali di correttezza e buonafede, oltre che ai doveri di diligenza e lealtà nell’esecuzione della prestazione. Così, egli ha recuperato termini di senso per spiegare la subordinazione giuridica nel quadro più ampio dell’organizzazione d’impresa. Non a caso il legislatore all’art. 2094 c.c. parlerebbe di collaborazione. Proprio questo termine consentirebbe di rilevare il tratto qualificante del lavoro subordinato. Esso risiederebbe nella relazione ispirata a correttezza e diligenza, da instaurarsi fra l’individuo e l’organizzazione in cui è inserito: collaborazione, allora, come “lavorare con”, “lavorare insieme”. Nella relazione, secondo Napoli, il singolo avrebbe la possibilità di esprimere sé stesso attraverso il lavoro. E in questo ordine di idee la professionalità (occasione di arricchimento reciproco e di affermazione del lavoro della persona) diventerebbe la pietra d’angolo della relazione lavorativa. Xxxx, essa potrebbe essere considerata il vero oggetto del contratto di lavoro secondo il disegno dell’art. 2094. Servirebbe a realizzare, infatti, sia l’interesse del singolo alla propria espressione nel lavoro, sia il corrispondente interesse organizzativo nei confronti del lavoro: interesse verso prestazioni comunque coordinabili.
Rispetto all’impostazione interpretativa, diretta a riconoscere nel contratto di lavoro il mezzo giuridico per il coinvolgimento “relazionale” della persona nel progetto imprenditoriale del datore di lavoro, ha messo in guardia l’accademico Xxxxxxx Xxxxxxxxx (70). Xxxxxxxxx ha svolto un’ampia analisi su organizzazione del lavoro e professionalità. Egli ha preso atto del vigore argomentativo assunto dalle posizioni di Persiani, riguardo il contratto di lavoro come modalità dell’organizzazione. E però ha svolto alcune considerazioni critiche. Innanzitutto ha osservato che oggi alcune tutele sono discusse in quanto accusate di aggiungere elementi di inefficienza economica. Ebbene, a riguardo Xxxxxxxxx ha chiosato affermando che lo spostamento tout court del rischio d’impresa sulle spalle del lavoratore – e ciò sotto la bandiera della “flessibilità” – contrasterebbe assiologicamente e logicamente con lo statuto protettivo del diritto del lavoro. In aggiunta a questo, l’autore ha preso atto che le attuali dinamiche di trasformazione hanno comportato lo sviluppo del mondo del lavoro verso una maggiore professionalizzazione. In genere fra l’altro (come pure visto con Napoli) l’argomentazione giuslavoristica utilizzata a sostegno della pretesa datoriale di collaborazioni più adattive, complesse e autonome, ha fatto perno sull’art. 2104 x.x., xxxx xxx xxxxxx xx xxxxxxxxx. Al riguardo però, Xxxxxxxxx ha affermato che quando si tratta di dovere relativo di cooperazione, ci si dovrebbe riferire a entrambi gli attori del contratto di lavoro e non già solo ad uno; che senza adeguati contrappesi, il richiamo all’art. 2104 c.c. varrebbe soltanto da spinta teorica per condurre all’espansione dell’area del debito del lavoratore. Quel che è interessante a questo punto, è che Xxxxxxxxx non ha avversato a prescindere la tendenza verso lavori più impegnativi sul lato professionale. Ma se così dev’essere, alla maggiore complessità e autonomia richieste al lavoratore si dovrebbero accompagnare retribuzioni proporzionate. Ed è qui, pare, che Carabelli aiuta a svolgere un passo ulteriore. Di fronte
(70) X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post – taylorismo, in DLRI, 2004.
ai mutamenti di scenario connessi alla professionalizzazione del lavoro, l’equilibrio sinallagmatico consacrato dalla fattispecie della subordinazione all’art. 2094 c.c., dovrebbe essere preservato dal coerente sviluppo della contrattazione collettiva sul versante del trattamento economico. Allo stesso modo, per presidiare la determinatezza dell’oggetto del contratto (pur in un’ottica di ricezione dei trend per la maggiore complessità e autonomia delle prestazioni) occorrerebbe la messa al centro e la riforma dei sistemi di classificazione e inquadramento predisposti in sede collettiva. Non a caso essi sarebbero sistemicamente interconnessi alla questione della retribuzione. In Carabelli, insomma, la valorizzazione della causa sinallagmatica del contratto di lavoro, e soprattutto la consapevolezza dei fondamentali elementi di conflitto potenzialmente innescati dall’istanza della professionalizzazione, hanno condotto a individuare nel processo contrattuale, comunque, l’appropriata sede per il riequilibrio della relazione fra le parti.
Si considera che il discorso di Xxxxxxx Xxxxxxxxx sia stato per certi versi raccolto e portato avanti da Xxxxxxx Xxxxxxx. In un’ancora recente relazione alle giornate di studio AIDLASS (71), Xxxxxxx ha studiato l’interazione fra legge e contrattazione sul peculiare versante della relazione fra clausole generali e autonomia collettiva. Pare allora ai nostri fini, che egli abbia trovato una chiave interpretativa utile a dare sostegno teoretico all’intuizione di Xxxxxxxxx (quella sul ruolo della contrattazione di fronte al mutamento dei dati di tipicità sociale). Questa chiave interpretativa fa perno, appunto, sulle clausole generali. Xxxxxxx ha osservato in modo critico che gli ambiti di applicazione delle clausole generali e della contrattazione collettiva, tradizionalmente, sono stati considerati in termini di alternatività. Questa impostazione andrebbe finalmente superata. Infatti, dopo una ricognizione delle proposte definitorie avanzate nel tempo per chiarire il concetto di “clausola generale”, Xxxxxxx ha fatto propria l’idea di Xxxxx Xxxxxx (72) volta a riconoscere nella clausola generale una “meta-norma”. Essa sarebbe norma che rinvia ad altra norma. In altre parole, consisterebbe in un’espressione linguistica in grado di ricollegarsi ad uno standard etico, o norma di condotta, esistente nel gruppo sociale di riferimento; potrebbe anzi rinviare alla norma di altro ordinamento (come quello intersindacale). Ebbene nell’ambito lavoristico, per riempire di contenuto – concretizzandole, specificandole – clausole generali come quella sulla diligenza nella prestazione di lavoro, sarebbe opportuno riferirsi ai prodotti della contrattazione (si pensi alle norme organizzative in senso stretto, ai sistemi di classificazione e inquadramento). Questo dato dell’opportunità del rinvio al sistema intersindacale, discenderebbe sia dalla competenza tecnica riconosciuta agli attori della contrattazione, sia dallo stesso processo contrattuale. Sarebbe quindi difficilmente argomentabile il discostamento dai risultati normativi offerti dalla contrattazione. Le clausole generali, secondo Xxxxxxx, svolgerebbero insomma una funzione “omeostatica”: consentirebbero di dare dinamismo a norme di legge nel frattempo non mutate, di fronte all’evolvere dei dati della tipicità
(71) X. XXXXXXX, Autonomia collettiva e clausole generali, relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Roma, 29-30 maggio 2014.
(72) X. XXXXXXX, Autonomia collettiva e clausole generali, relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Roma, 29-30 maggio 2014, 20.
sociale. L’appropriata valorizzazione di questa tecnica legislativa, in ambito lavoristico, non potrebbe che costituire un valido sostegno interpretativo per l’utilizzo di quell’innovazione dei trattamenti economici e normativi invocata da Carabelli.
Qui è forse utile un riassunto. Ragionando sui cambiamenti del lavoro, Xxxxx Xxxxxx ha messo al centro la questione della professionalità nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 2094 c.c.. Xxxxxxx Xxxxxxxxx, pure, ha preso atto della centralità della questione; tuttavia, nella prospettiva del bilanciamento della relazione fra prestatore e datore di lavoro, egli ha invocato l’intervento della contrattazione collettiva. Xxxxxxx Xxxxxxx a sua volta, con la propria riflessione sulle clausole generali, pare abbia offerto un valido sostegno teoretico all’idea di Xxxxxxxxx: sul carattere adattivo e generativo della specificazione della disciplina della subordinazione da parte dei sistemi contrattuali collettivi.
Ciò riassunto, resta ora da vedere in che modo oggi la contrattazione potrebbe procedere verso il riconoscimento della professionalità nello scenario dell’innovazione organizzativa; in che modo, poi, questo riconoscimento influenzi o possa influenzare la disciplina del rapporto di lavoro. Del resto che in buona misura le sorti della contrattazione e la sua resilienza si giochino su questo fronte, è stato affermato da varie parti. Su tutti, è forse significativo il richiamo a un autore che ha riflettuto sulla regolazione del lavoro nell’ottica della competitività: l’accademico anglosassone Xxxx Xxxxxxx. Questi ha affermato con forza la necessità di un nuovo pensiero istituzionale (73). Secondo Xxxxxxx, il contratto di lavoro dovrebbe consentire di ordinare relazioni di lavoro improntate alla flessibilità (consone, quindi, all’economia della conoscenza e dell’innovazione) al contempo gestendo il rischio di abusi ed eccesso di discrezionalità. Anche questo autore, dunque, ha affermato l’urgenza della questione del bilanciamento degli interessi nell’ambito della professionalizzazione del lavoro.
Per spostare allora l’esame di questa questione nello scenario della contrattazione italiana, vale da ultimo richiamo il riferimento allo studio di Xxxxx Xxxxxxxxxx. Questi, appunto, s’è interrogato (74) sulla posizione occupata dal concetto di professionalità negli attuali sistemi contrattuali. Ha preso atto che il concetto non è univoco nel sistema giuridico. Non per nulla, varie definizioni ne sono state offerte soprattutto presso il secondo livello di contrattazione. Il che comproverebbe, fra l’altro, che la professionalità è una nozione “a contenuto variabile”, mutevole a seconda del contesto tecnico- produttivo, organizzativo e di relazioni industriali di riferimento. L’autore ha riflettuto sul tema della professionalità indagandone il rilievo in rapporto alla causa del contratto di lavoro: in rapporto, cioè, allo scambio tipizzato all’art. 2094 c.c.. Durante questa indagine, Xxxxxxxxxx è giunto a riconoscere il carattere “estrinseco” della professionalità rispetto al corretto adempimento della prestazione – almeno, avendosi riguardo ai contorni che del “corretto adempimento” sono consegnati dallo stesso diritto delle relazioni industriali –. La professionalità, infatti, troverebbe poco posto nei sistemi di
(73) XXXX XXXXXXX, Regulating the Employment Relation for Competitiveness, in Industrial Law Journal, pp. 17-47, Vol. 30, n. 1, 2001.
(74) X. XXXXXXXXXX, Dalle mansioni alla professionalità? Una mappatura della contrattazione collettiva in materia di classificazione e inquadramento del personale, in DRI, N. 4/XXIX, 2019.
classificazione e inquadramento, poco inclini a considerare il dato qualitativo della prestazione lavorativa. La sua valorizzazione, così, non avrebbe peso decisivo nel ragionamento sulla corrispettività fra prestazione e remunerazione secondo i termini contrattuali collettivi. Una limitata eccezione, a riguardo, potrebbe magari ravvisarsi in rapporto al capitolo dell’incentivazione variabile, così come gestito in certi integrativi aziendali. E però, questo genere di incentivazione non sarebbe giunto a formare una componente qualificante per il bilanciamento fra prestazione e trattamento economico. Cosicché, rispetto al tema della retribuzione, non potrebbe argomentarsi di alcun capovolgimento nella tradizionale logica redistributiva perseguita dalla contrattazione.
Queste considerazioni sono utili per indirizzare la riflessione sul posizionamento della professionalità individuale nei sistemi normativi di relazioni industriali. E ciò, seppure non sia in discussione che questo posizionamento possa dipendere non già solo dalle previsioni economiche, ma pure dal più ampio contesto di disposizioni relative a organizzazione e ambiente di lavoro. Le relazioni industriali sono sollecitate con particolare intensità dall’esaminato trend verso collaborazioni più adattive, autonome, corresponsabili dei risultati finali: pare anzi sia delineato un ambito di sfida per la rappresentanza. Al sindacato sembra chiedersi, se fare proprio il discorso delle professionalità individuali, rischiando di abbandonare soluzioni contrattuali consolidate (di abbandonare delle “conquiste”); o se piuttosto, lasciare la gestione del cambiamento, connesso al discorso della professionalità, principalmente all’impresa magari tramite logiche di HR Management, concentrandosi in chiave più difensiva sulla salvaguardia e l’innalzamento degli standard minimi di trattamento. Il dilemma (senz’altro suggestivo teoreticamente) non pare peraltro potrà ricevere soluzioni univoche nella pratica. La varietà, infatti, delle situazioni reali da governare e la stessa logica della rappresentanza (connessa a relazioni di lavoro concrete, e alla vitalità del conflitto di interessi) non potranno che condurre a soluzioni contrattuali mai del tutto “chiuse” su sé stesse. Più che un “sistema” di soluzioni contrattuali, insomma, ci si attende di toccare con mano singole risposte “di sistema” – risposte, cioè, in grado di reggere alla duplice alla prova dei fatti e del tempo –. Mantenendo questo punto a risorsa critica, si va ora a sviluppare il caso di studio.
Sviluppo del caso di studio
Sommario. 1. Contestualizzazione del caso nel sistema contrattuale dell’industria metalmeccanica e del mercato siderurgico: variabili economiche e di relazioni industriali – 2. Una proposta di ricostruzione del sistema di relazioni industriali in Tenaris Dalmine: “accordo Ilva” dell’89 e integrativo Dalmine del ’98 –
3. Il Progetto Prisma del 1993: valorizzare la professionalità nella collaborazione – 4. Le regole per contrattare sulla tematica organizzativa – 5. La contrattazione presso il reparto TRT2 di FAS – 6. L’“Integrazione premiale per i risultati produttivi del Laminatoio” – 7. Il progetto industriale A tutto FAS: la contrattazione aziendale per l’innovazione organizzativa
1. Contestualizzazione del caso nel sistema contrattuale dell’industria metalmeccanica e del mercato siderurgico: variabili economiche e di relazioni industriali
Lo studio di caso costituisce un’occasione grazie a cui porre a confronto lo sviluppo reale di un’esperienza di diritto relazioni industriali con un modello teorico. Nel presente lavoro, il modello teorico si ottiene dal procedere delle idee rappresentato in sede literature review. Il diritto delle relazioni industriali è allora emerso come risorsa grazie a cui potenzialmente conferire lineamenti di razionalità giuridica alle dinamiche del lavoro. Tali dinamiche poi mutano in concreto in base alla realtà materiale cui sono riferite. È una constatazione coerente con pragmatismo proprio dello studio delle relazioni industriali. Infatti, se si guarda e si vede – look and see – si può constatare che: l’inserimento del lavoro nel processo economico di un certo bene o servizio comporta l’insorgere di interessi; questi però variano in base alle caratteristiche del processo medesimo, come dell’inserimento del lavoro. È a partire da questi fatti e dalle connesse esigenze di gestione (manageriali e sindacali) che lo studio delle relazioni industriali ha denunciato l’insufficienza della scienza economica liberale. Ne ha soprattutto contestato la volontà di fornire interpretazioni “perfette” a prescindere del contesto concreto analizzato (dalla fiera di paese al livello della borsa e del mercato finanziario (75)).
Lo studio di caso su Tenaris Xxxxxxx ha richiamato l’attenzione sul dato di realtà. Tenaris Dalmine è un’azienda siderurgica che s’inserisce nell’ampio e importante settore italiano della metalmeccanica. Il contratto nazionale dell’industria metalmeccanica stipulato dalle associazioni Fiom Fim e Uilm e da Federmeccanica e Assistal, è chiamato a dare delle regole in risposta a esigenze peculiari del settore. Senz’altro, è d’obbligo il richiamo al diritto soggettivo triennale alla formazione professionale (quantificato in
(75) A riguardo, si rimanda alla godevole lettura de X. XXXXXXX, Lezioni di politica sociale, Corriere della Sera, 2011.
ventiquattro ore) introdotto con la contrattazione nazionale del 2016. Detto diritto soggettivo ben si ricollega a un settore interessato dallo sviluppo tecnologico e dai paradigmi manageriali e d’investimento di Industria 4.0. Oltre al tema della formazione professionale (che pare senza tema di smentita di potersi collegare alle evoluzioni di processo e prodotto impresse nell’odierna economia della conoscenza) sembra che ulteriori aspetti strutturali del settore metalmeccanico possano mettersi in collegamento con le risposte contenute nella normativa contrattuale nazionale.
Le produzioni metalmeccaniche sono tra loro fortemente interconnesse sia su un piano territoriale e nazionale, sia in ragione del loro inserimento nelle catene globali del valore (si pensi per l’automotive al legame con la Germania e la mitteleuropa, o al mondo produttivo nordamericano). La forte interconnessione e la vocazione all’export impongono la tempestività delle consegne come un fattore competitivo chiave. Al riguardo, da un lato le soluzioni di rinnovamento dei processi in senso lean e di miglioramento continuo senz’altro possono ancora ricollegarsi a Industria 4.0 e ai fondamentali temi delle competenze abilitanti, della formazione delle professionalità. Dall’altro lato però, si evidenzia una delle probabili ragioni del perché nel CCNL sia dedicata tanta e buona parte al tema dell’orario di lavoro e alle modalità bilanciate per la sua flessibilizzazione. Il tema sarà anche ripreso più in avanti, ma pare che anche a livello generale nella metalmeccanica si richieda forte attenzione all’orario di lavoro e all’organizzazione delle turnazioni, viste le necessità di stare sugli impianti e farli funzionare. Peraltro non va dimenticata la particolarità della questione siderurgica nello scenario della metalmeccanica. L’industria siderurgica è fortissimamente capital intensive e tale caratteristica (condivisa con altre produzioni-chiave della metalmeccanica) senz’altro ne influenza il diritto delle relazioni industriali. La produzione a caldo in particolare impone due problematiche di fondo: una che concerne l’efficienza, l’altra qualità e sicurezza. Innanzitutto, la produzione a caldo (cioè la trasformazione del metallo dove il calore è elemento essenziale nel processo) richiede altissimi consumi di energia. Il che incide in misura preponderante sui costi, consigliando soluzioni a ciclo continuo con le quali massimizzare le capacità di riscaldo dei forni per la fusione del rottame, per la laminazione… Il ciclo continuo quindi importa molta attenzione alle turnazioni e ciò s’è riverberato sul piano del trattamento economico stabilito nel contratto azionale in tema di corrispettività per il tempo delle prestazioni. Basti pensare, esemplificativamente, all’amplissimo capitolo della retribuzione degli straordinari nel CCNL metalmeccanica. Al fine di determinare l’entità delle maggiorazioni, occorre distinguere lo straordinario a seconda che si riferisca a turnisti o diurnisti, a seconda che lo straordinario si sia avuto di notte o di giorno, in data festiva o meno… Come si vede, una caratteristica economica connessa ai cicli continui ha fatto in modo che l’intessuto di regole in tema di maggiorazioni per lavoro straordinario divenisse molto accurato. S’è anche detto che la produzione a caldo rende particolarmente critico il tema qualitativo e di sicurezza. D’altronde essendo alto il costo di produzione, il difetto prodotto durante la lavorazione
a caldo può rilevarsi molto dispendioso; inoltre se nascono dei problemi al processo viste le alte temperature toccate, compare il rischio di eventi gravi, come incendi, esplosioni… Tali basilari constatazioni aiutano a leggere il CCNL. Ad esempio, è agevole mettere in collegamento la problematicità della produzione a caldo (sotto il duplice profilo della qualità e della sicurezza) con la forte attenzione contrattuale all’istituto della reperibilità. Le figure di manutenzione sono particolarmente preziose. Il loro intervento tempestivo su impianti che procedono a ciclo continuo è perciò regolato con cura. Per i datori di lavoro, si tratta di stabilire le condizioni per la piena esigibilità di interventi tempestivi. Per i sindacati, si tratta invece di compensare dovutamente la persona e definire delle garanzie a suo favore.
Tante norme nel CCNL metalmeccanica possono ricondursi a particolarità del settore come pure possono collegarsi ad aspetti di primo piano delle lavorazioni siderurgiche. Fra l’altro occorre anche aggiungere che la stessa siderurgia non costituisce un insieme omogeno, ma un comparto differenziato a valle per prodotti e a monte per processi produttivi. La fondamentale differenza a riguardo è quella tra lavorazione di prodotti piani in acciaio e lavorazione di prodotti tubolari. Se si studia Tenaris Dalmine, che è un’azienda che produce tubi, ad esempio non ha per nulla senso ragionare su eventuali interferenze concorrenziali tra Dalmine e Taranto, dove l’ex-ILVA realizza prodotti piani dedicati a mercati radicalmente differenti da quelli praticati da Tenaris. Questa distinzione su prodotti e processi interni alla siderurgia ha effetti riscontrabili nel CCNL metalmeccanica? La domanda probabilmente ha esito negativo. Ma ciò nonostante, le distinzioni nella siderurgia non vanno sottaciute, perché se non influenzano in modo evidente la contrattazione nazionale, costituiscono senz’altro un termine di riferimento di primo piano per la contrattazione aziendale. Ci sono infatti le concrete condizioni di lavoro dei reparti. Ci sono poi, quando le relazioni industriali prendano una xxx xxxxxxxxxxxxxxx “xxxx” (xxxxxx perché capace di intersecare le strategie dell’alto management) le scelte di politica industriale e dei prodotti da discutere e da tenere a mente per riformare questioni lavoristiche quali le turnazioni o i premi di risultato. Si pensi, per rimanere al caso di Tenaris Dalmine, alle dinamiche concorrenziali sui mercati dei tubi d’acciaio. Tenaris Dalmine produce tubi senza saldatura, ottenendoli grazie a un processo di laminazione a caldo dalle billette d’acciaio. Il processo è dispendioso in termini di costi ma dà consistenti benefici. Ad esempio consente di raggiungere standard altissimi di accuratezza qualitativa, permettendo l’applicazione dei prodotti là dove la loro affidabilità è dato dirimente; consente poi di trattare gamme dimensionali e di spessore che il tubo saldato storicamente non riesce a raggiungere. Si faccia allora l’ipotesi (tutt’altro che astratta) che le condizioni in parole in una certa misura cambino, ad esempio in ragione dell’avanzamento tecnologico e impiantistico delle fabbriche che producono tubi saldati. Può darsi che detto avanzamento segni l’avvento di nuovi concorrenti, in grado di aggredire particolari gamme dimensionali prima fuori dalla loro portata, magari gestendo costi più bassi rispetto a realtà come Xxxxxxx. Se di fronte a
questo genere di novità industriali e di mercato l’azienda riconosce l’opportunità di rafforzare il proprio business valorizzando le proprie caratteristiche di processo, può darsi (si è nel campo dell’ipotesi) che la concorrenza si scelga di impostarla soprattutto sul versante dell’affidabilità qualitativa e della customizzazione dei prodotti. Tale strategia potrebbe dare il là a particolari istanze gestionali nei confronti della forza lavoro, da gestire in seno alla contrattazione aziendale. Lo stress sul versante qualitativo potrebbe incoraggiare le parti a rivedere al rialzo le formule inserite nel sistema economico incentivante e collegate alla qualità del prodotto. Oppure, l’esigenza di sviluppare sempre nuove soluzioni personalizzate sulle esigenze dei clienti, potrebbe comportare l’approntamento di regole innovative. Si pensi all’esigenza sindacale di salvaguardare il potenziale guadagno degli operatori, guadagno connesso a certi parametri di produzione, quando le performance in vista del premio di risultato possano essere influenzate negativamente dalle lavorazioni a carattere sperimentale su nuove tipologie d’acciaio. Da un lato c’è l’esigenza di medio-lungo termine di sviluppare nuovi prodotti. Dall’altro l’interesse collettivo a percepire premi di risultato alti. La creatività che caratterizza la contrattazione decentrata intende dare risposta a questo genere di problematiche.
Decentramento contrattuale in ambito siderurgico e carattere della domanda di lavoro
Insieme a Xxxx Xxxxxx, in fase di literure review, è stato fatto riferimento alla particolarità della siderurgia per lo sviluppo contrattuale. Questa particolarità, come appena visto, continua a segnare di sé le regole del CCNL metalmeccanica, arricchendo lo scenario di situazioni reali e di interessi che sono considerati dalle parti ai fini dell’accordo. Con Xxxx Xxxxxx però s’è anche analizzato la questione dello specifico siderurgico sul versante della sotria del diritto delle relazioni industriali. A riguardo, soprattutto ha assunto rilievo il riferimento alla stipulazione già nel 1960 di un contratto integrativo per Italsider. S’è detto quindi del carattere di avanguardia della siderurgia (pubblica) ai fini del decentramento contrattuale e dell’ampia possibilità che si realizzasse una tradizione contrattuale decentrata, nella quale potessero maturare sia le rappresentanze sindacali che i funzionari per le relazioni industriali delle aziende. Pare opportuno quindi, ribadire ancora una volta che la particolare precocia della contrattazione collettiva di secondo livello nel comparto siderurgico e poi la sua progressiva maturità in quanto a contenuti e alle complessità trattate, non sono slegate dalle concrete esigenze di raccordo fra assetti economico-produttivi e fattore umano del lavoro. Per le aziende siderurgiche pare altresì di potersi ragionare nel senso di una certa adeguatezza di un modello di relazioni industriali sfaccettato: un modello nel quale il decentramento coincide non solo con il momento strettamente contrattuale – quello, s’intende, in cui si addiviene a un documento contrattuale – ma pure con un discorso “relazionistico” più ampio. Tale direttrice per una maggiore apertura del processo
contrattuale, e dunque per una sua variegata declinazione, entro forme di partecipazione composite, ha costituito opportunità di metodo da più parti colta, per il contemperamento di due istanze della siderurgia in qualche modo divergenti. Da un lato si ha l’istanza di flessibilità della risposta operativo-produttiva (e quindi la variabilità quantitativa della domanda di lavoro) di fronte alle discontinuità – accelerazioni e ripiegamenti – dei mercati; dall’altro si ha l’istanza di flessibilità nel rapporto subordinato degli addetti siderurgici, nel senso di una certa indeterminatezza della loro area di compito che lungi dal poter essere esattamente precisata tramite catalogazione mansionaria, costituisce campo nel quale la persona è chiamata a interpretare mutevolmente un ruolo, stabilito dalla posizione occupata nei processi e nella squadra. Tale seconda istanza di flessibilità potrebbe essere definita quale domanda per un’offerta di lavoro professionalmente qualificata. Così le due istanze descritte (l’una incidente sulla quantità, l’altra sulla qualità della forza lavoro domandata) percorrono traiettorie divergenti. La maturazione professionale del lavoratore, richiesta dalla complessità della produzione siderurgica, abbisogna di forte stabilità del rapporto; la variabilità degli scenari di mercato invece, consiglia l’utilizzo in misura consistente di tipologie contrattuali come lavoro a termine e lavoro somministrato, sia per poter contenere il numero dei dipendenti, sia per far fronte a situazioni di particolare intensità di lavoro. L’esaminata divergenza, tuttavia, riesce poco controllata e anzi caotica, quando non si riesca a offrirne una ragionata ricomposizione. È in tal senso che si spiega, in seno ai sistemi di relazioni industriali delle aziende siderurgiche, la presenza di soluzioni di carattere sostanziale (banche delle ore, incentivi alla produzione, remunerazione delle variazioni nei programmi di lavoro) nonché (e in un certo modo soprattutto) procedure e diritti della c.d. parte obbligatoria dei contratti collettivi.
Parte obbligatoria del contratto e considerazioni sulla relazioni industriali
L’attivazione della partecipazione sindacale day-by-day, del resto, poggia sul riconoscimento di diritti che – se ne si apprezza il senso profondo – consentono soprattutto di colmare alcuni gap informativi nei confronti della proprietà. In tal senso, la “visione” sindacale, e quindi la possibilità di agire in concreto, utilizzando della propria consistenza organizzativa e influenzando sul piano effettivo le scelte del management, è potenziata proprio grazie all’acquisizione (e alla garanzia) di prerogative giuridiche in fatto di informazione e consultazione; i diritti che a riguardo siano riconosciuti, consegnano al sindacato come delle lenti di ingrandimento, le quali possono essere rivolte a questioni quali condizioni dell’ambiente di lavoro, orari, servizi. Seppure i diritti di informazione e consultazione siano spesso raccontati come i meno significativi fra quanti possono attribuirsi con la contrattazione, proprio detti diritti possono essere valorizzati nella riflessione scientifica, come dimensione particolare, in cui il processo contrattuale (che esponenzialmente affiora nel contratto aziendale) prosegue in pieno, senza soluzione
di continuità. La portata di tali ragionamenti pare potersi cogliere a pieno, quando si apprezzino quelle dinamiche intuite durante le negoziazioni presso Tenaris Dalmine. Per l’interlocutore sindacale, ci si potrebbe spingere a dire che il dato contenuto nei testi degli integrativi aziendali, oltre che nei testi dei verbali operativi sottoscritti dagli stessi rappresentanti dell’azienda e dei lavoratori, non riesce “naturalmente” accolto perché stabilito una volta per tutte. Al contrario, ciò che solitamente risulta “cristallizzato”, se si sta alle logiche privatistiche (il contratto ha “valore di legge fra le parti”) può riuscire messo in discussione, almeno in una certa misura. Portando questo ragionamento a un punto quasi estremo, si potrebbe affermare che ha valenza in prima battuta persuasiva che certe previsioni siano state sottoscritte dalle parti e quindi, sulla carta, esista una certa regola o un certo potere in capo al datore di lavoro; piuttosto, ciò che conta è l’effettività di dette previsioni: se cioè, nel concreto, quanto forma oggetto di informazione e consultazione sia accolto pacificamente e non in via conflittuale. Ancora meglio: ciò che conta, è se la rappresentanza sindacale in modo compatto valuti qualcosa come accettabile, ovvero come irragionevolmente sfavorevole ai lavoratori. In tale seconda evenienza, se con forza e autorevolezza e in stretta aderenza al sentito dei lavoratori, o almeno avendo la capacità di influenzarne la visione, i rappresentanti sindacali esprimono dissenso o scontentezza rispetto a ciò su cui verte l’informazione, invero mettendo in discussione, così, lo stesso assetto regolatorio raggiunto in precedenza dalle parti (76) e presidiato con l’attribuzione dei diritti di informazione e consultazione, non accettare l’ingaggio della discussione sui punti controversi può costituire errore strategico per chi porta avanti l’interesse della produzione e dell’operatività aziendali: l’ostilità sindacale origina conflitto e il conflitto, nella misura in cui rifletta un’insoddisfazione consistente e diffusa fra i lavoratori, può culminare nello sciopero, ossia nella forma fondamentale dell’autotutela collettiva del lavoro la quale è costituzionalmente garantita ( 77 ). Nell’esempio proposto, dunque, messa da parte la possibilità, del tutto ineffettiva, che la direzione aziendale si rifaccia a un incertissimo, oneroso, lento sindacato giudiziale (il mero accesso a tale possibilità costituirebbe segno indiscutibile del fallimento del dialogo con il sindacato), si mostra come l’esercizio degli stessi diritti sindacali di informazione e consultazione (s’è detto, comunemente considerati poco “forti”) imponga che delle relazioni industriali non sia sottovalutata la peculiare valenza di processo (78).
76 X. XXXXXXX, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, op. cit., 128.
77 X. XXXXXX, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, op. cit., 18-19.
78 Non per caso, si trova affermato che soprattutto lo studio delle norme contrattuali, volte a regolare i rapporti fra le organizzazioni sindacali e gli imprenditori o le loro associazioni (le norme, quindi, che ordinano la dimensione dinamica e di processo della contrattazione) consente di comprendere in che modo le differenti posizioni d’interesse si calmierano equilibrandosi l’una con l’altra (X. XXXXXX, L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e mineraria (1953-1963), op. cit., 49-50).
(…)
2. Una proposta di ricostruzione del sistema di relazioni industriali in Tenaris Dalmine: “accordo Ilva” dell’89 e integrativo Dalmine del ‘98
L’accordo Ilva
È stato individuato il 1989 come momento a partire dal quale ricostruire il sistema di relazioni industriali presso Tenaris Dalmine. Risale infatti al 1989 il contratto integrativo convenzionalmente ricordato come “accordo Ilva”. Esso è stato realizzato in occasione dell’acquisizione del controllo della Dalmine S.p.A. da parte della società Ilva e allo scopo di dare “regolamentazione uniforme” in tema di relazioni e organizzazione del lavoro. Per ragioni che brevemente si vedranno, l’accordo Xxxx ha avuto importanza per stabilire una traccia per lo sviluppo delle relazioni industriali in Dalmine. Per la prima volta sono stati affermati contrattualmente una serie di temi e di istanze poi ricorrenti nel corso degli anni. La presenza di questi temi e istanze è già ricavabile nelle premesse dell’accordo Xxxx. Qui esempio, è stata sottolineata la crucialità della formazione nell’azienda. L’incremento delle capacità professionali è riconosciuto come valore organizzativo. In tal senso sono disegnate due linee di sviluppo professionale: una consiste nell’integrazione delle competenze “di esercizio” degli operatori con competenze manutentive; l’altra riguarda il rafforzamento delle professionalità sulle tematiche qualitative.
Sempre nelle premesse dell’accordo Xxxx, le parti hanno condiviso il bisogno di avere regole nuove sugli “aspetti gestionali della prestazione” e insieme di introdurre un “sistema incentivante legato ai risultati economici e tecnico-produttivi”. C’è quindi una disposizione di principio sulle relazioni industriali: ne è riconosciuto il “particolare rilievo nella gestione del processo innovativo dell’Ilva”. Infine, si trova sancito il proposito comune di dare soluzione alle “problematiche connesse al computo delle maggiorazioni per lavoro notturno e festivo in turni”. Probabilmente la collocazione di una tematica tanto specifica in sede di premesse (laddove si dà conto di questioni quali la visione per lo sviluppo delle professionalità, la gestione delle prestazioni individuali, il sistema incentivante, il sistema di relazioni industriali…) vale per l’interprete a comprenderne l’importanza. Se ne ricava una suggestione sulla centralità dell’orario di lavoro nell’ambiente siderurgico. L’importanza di avere persone su impianti da utilizzare al massimo (talora in condizioni di ciclo continuo) ha sempre mosso le parti a trovare aggiustamenti nel senso della corrispettività.
Le premesse finora descritte tra l’altro, non esauriscono il novero delle dichiarazioni di principio condivise dalle parti nel maggio 1989. Anche perché, dal punto di vista tecnico, più che di “accordo Xxxx” bisognerebbe parlare di “accordi Ilva”. Si presentano infatti al lettore documenti contrattuali distinti, ciascuno dei quali con
puntuale indicazione delle parti stipulanti e del luogo e della data, ciascuno dei quali provvisto di firme autografe per esteso. L’ampiezza delle pattuizioni, o comunque del discorso contrattuale del maggio 1989 dà la misura della complessità dell’opera di omologazione delle condizioni individuali e collettive di lavoro nella realtà dell’allora Ilva. Peraltro l’accordo Xxxx ha insistito su realtà di fabbrica nelle quali già s’era avuta una consistente storia contrattuale decentrata. Proprio per tale ragione e per fare chiarezza, via via nel testo dell’accordo sono state enumerate varie intese di secondo livello (realizzate presso Dalmine, Piombino, Taranto…) che dovevano considerarsi abrogate perché superate dalle nuove pattuizioni. Grazie a tali enumerazioni, può leggersi ad esempio di contratti integrativi della Dalmine S.p.A. stipulati nell’aprile del 1971 o nel dicembre del 1975. Insomma i vari testi contrattuali in esame (sinteticamente: “accordo Ilva”) hanno avuto l’obiettivo di omogeneizzare la realtà dell’Ilva di fine anni ’80. Di farlo nel segno della sua particolarità siderurgica e relazionistica. L’analisi delle tematiche toccate nell’89 è importante perché tante cose sono state ereditate nella Tenaris Dalmine di oggi.
Un metodo per riformare l’organizzazione
Il primo filone tematico affrontato nell’89 è quello organizzativo. In verità a riguardo, le parti non hanno stabilito regole di merito capaci di conformare le prestazioni individuali nelle fabbriche. Piuttosto, hanno stabilito un metodo e hanno scandito una procedura perché la riforma delle organizzazioni avvenisse presso ciascun sito produttivo, in stretta aderenza alle sue vicende contrattuali. Al di là quindi dei principi di merito che comunque sono stati inseriti in un allegato all’accordo (principi utili a orientare la riforma delle organizzazioni) è interessante l’indicazione di un iter procedurale da seguire nei siti produttivi. Quasi che la contrattazione Ilva del 1989 sia valsa da livello di coordinamento per un decentramento ulteriore, da realizzarsi presso i luoghi di lavoro.
Con riguardo alle norme procedurali, innanzitutto è stato stabilito che si realizzasse una fase “progettuale” per l’innovazione organizzativa. Che cioè fossero individuati lo stato dell’arte egli obiettivi da perseguire, nonché le analisi grazie a cui fondare su considerazioni oggettive le scelte sulle modalità del cambiamento. Doveva poi seguire una fase di sperimentazione nel sito. Va detto che il concetto metodologico e procedurale di “sperimentazione” è cruciale nel quadro della presente ricerca su relazioni industriali e questione organizzativa. Lo snodo di metodo e procedurale della sperimentazione è stato infatti ereditato nell’attuale sistema regolativo di Tenaris Dalmine in proposito per l’ambito della riforma organizzativa. Sul tema è suggestivo il rimando alle osservazioni fatte da Pizzorno (79) negli anni ’60 sulla “razionalizzazione” nell’azienda Bassetti. In Bassetti il cambiamento dell’organizzazione si accompagnava a fasi di sperimentazione
79 X. XXXXXXXX, Comunità e razionalizzazione. Ricerca sociologica su un caso di sviluppo industriale, Marsilio Editore, 2010 (1a edizione: 1960).
in senso ampio: fasi cioè, durante le quali le modifiche organizzative erano inserite progressivamente e si prestava a riguardo molta attenzione sull’informazione. Da un lato si cercava di valorizzare il flusso informativo dal basso verso l’alto. attraverso il sistema della “consultazione mista”, e ciò allo scopo di comprendere come i lavoratori operativi recepissero le innovazioni. Dall’altro lato si tentava pure di spiegare capillarmente il senso della modifica e le sue ricadute positive in termini di efficienza (dinamica “top- down”, si direbbe oggi). Probabilmente la differenza tra la sperimentazione di cui all’accordo Xxxx e l’esperienza ancora meno recente della Bassetti consiste nel fatto che nel disegno Ilva la sperimentazione è inserita in un discorso pienamente contrattuale. Nel caso Bassetti invece, si trattava la sperimentazione aveva l’obiettivo di agevolare l’efficacia del cambiamento organizzativo non contrattato. Il momento della sperimentazione, insomma, non equivaleva all’apertura di vera discussione sulle scelte da prendere, né era dato il là a una formale mediazione sindacale (ancora di là da venire). Per tornare alle regole Xxxx, si ha che dopo la fase progettuale e quella della sperimentazione, doveva seguire il momento della definizione dei programmi di formazione utili a rendere effettivo il cambiamento. Infine, nel rispetto di una deadline temporale, avveniva la verifica a livello “centrale”-Ilva dei cambiamenti organizzativi realizzati presso i singoli siti produttivi. Rispetto a questo iter, è interessante notare che nel testo dell’accordo le parti che hanno ribadito non operare alcun automatismo nella trasformazione organizzativa. Il che significa in fondo, che escludevano l’ipotesi che il cambiamento dell’organizzazione potesse essere raggiunta fuori del percorso contrattuale, fuori cioè dalla condivisione raggiunta tramite concessioni reciproche e la ricerca di punti
di convergenza.
Principi di merito per riformare l’organizzazione
Di pari interesse rispetto allo studio delle regole procedurali per la riforma dell’organizzazione, è l’analisi dei principi condivisi dalle parti per indirizzare il merito delle discussioni organizzative presso i singoli siti produttivi. La struttura stessa dell’allegato all’accordo Xxxx in cui i principi in esame sono versati (l’allegato è denominato “Organizzazione del lavoro e addestramento”) vale una nota. Il documento è costruito con un primo paragrafo denominato: “Caratteristiche dei siti produttivi siderurgici”. Questo paragrafo non aveva un immediato valore precettivo; conteneva invece la descrizione di alcune variabili economiche e industriali caratteristiche della siderurgia. A partire da queste variabili erano individuate delle istanze (“colorate” nel segno dell’efficienza) nell’ambito del lavoro.
È stato evidenziato ad esempio che l’alta “incidenza di costi fissi” comporta la “necessità di massimizzare l’utilizzazione degli impianti”. Inoltre, è stata riconosciuta l’esigenza di raccordare l’andamento dei costi fissi a quello dei ricavi; di adeguare i livelli qualitativi a quanto imposto dalle dinamiche di competizione. Tutto ciò si traduce
nell’istanza all’ottimo utilizzo degli impianti e nell’istanza alla “flessibilizzazione e programmazione delle turnistiche sia in aumento sia in diminuzione in relazione all’andamento del mercato”. È importante in ciò avere “regolarità del ciclo produttivo e standars qualitativi conformi”. In base a queste considerazioni le parti hanno predisposto dei principi per orientare la contrattazione presso i siti produttivi.
Nell’ottica di massimizzare l’utilizzazione degli impianti, è stata indicata una strategia di riduzione dei tempi di fermo. L’indicazione organizzativa è composita: integrare sul personale di esercizio, le competenze legate alla produzione con competenze collegate alla manutenzione; mettere in atto strategie di miglioramento continuo in prossimità agli impianti, per prevenire i segnali di degrado, consentire la programmazione degli interventi di riordino e messa a punto, nonché individuare soluzioni migliorative innovative; concentrare gli interventi manutentivi in archi temporali ristretti, anche grazie all’utilizzo delle fermate annuali; attribuire presidi di manutenzione alle divisioni funzionali di produzione. Tale ultimo punto riesce piuttosto particolare, xxxxxxx era diretto a dare il là a una modifica organizzativa incidente sulla tecnostruttura aziendale. Si trattava del fatto che microstrutture di manutenzione rispondessero a responsabili per la produzione. Un’indicazione particolare appunto: bisogna rinvenire la ragione sindacale per la quale un tema è divenuto materia di contrattazione. Guardando indietro, pare che una ragione potesse individuarsi nella specificità professionale dei manutentori. D’altronde ancora oggi questi formano una popolazione ben distinguibile per quotidianità lavorativa e competenze. L’integrazione di presidi manutentivi entro la competenza funzionale della produzione, quindi, oltre a sollecitare una modifica nelle catene gerarchiche importava un potenziale cambiamento per il lavoro dei manutentori, ricondotti a un mondo segnato sia dall’opportunità di forti programmazioni, sia dall’attenzione quotidiana alla conduzione degli impianti.
In aggiunta a ciò, ossia in aggiunta al principio che microstrutture di manutenzione rispondessero alle funzioni di produzione, nell’allegato s’è insistito sul tema dell’arricchimento professionale delle squadre di esercizio. Nella misura della praticabilità offerta dalle sperimentazioni, si intendeva che le squadre di esercizio svolgessero attività inedite, come la conduzione di ispezioni, “l’esecuzione di operazioni di minuto mantenimento” e addirittura “la partecipazione agli interventi di manutenzione programmata”. Proprio tale ultima attività va evidenziata, perché segnala un cambio di passo rispetto alle tradizionali distinzioni inter-funzionali. Persone di esercizio sarebbero potute essere impegnate stabilmente in corrispondenza con le fermate degli impianti. Infine, sempre con riguardo al tema della convergenza, o meglio, dell’integrazione delle competenze, le parti hanno fatto riferimento all’opportunità che persone di esercizio maturassero anche spiccata professionalità sul controllo qualitativo dei prodotti. E ciò per superare uno stato di cose imperniato sull’esame di eventuali problemi qualitativi fatto a valle e non durante il processo produttivo.
Perché i tanti principi in esame potessero tradursi in sperimentazioni pratiche di successo presso i singoli siti produttivi, è stata pure affrontata dalle parti la questione sulle modalità fondamentali in base a cui impostare addestramento e formazione. Innanzitutto, è dato conto dell’istituzione a livello centrale-Ilva di una commissione paritetica dedicata, cui affiancare eventuali commissioni a livello di sito. Ma in particolare, è affermata la volontà di istituire un “sistema di formazione permanente” da implementare grazie a una serie di accorgimenti organizzativi. Fra gli altri, rileva per la semplicità e insieme l’efficacia dell’idea, la predisposizione di “moduli di formazione di base per figure professionali omogenee”. Moduli di tal genere del resto, sono stati recepiti nell’attuale sistema organizzativo della multinazionale Tenaris. Riesce invece più distante rispetto all’odierna realtà aziendale (italiana e a maggior ragione argentina, messicana, nordamericana…) la previsione circa la predisposizione di moduli di formazione appositamente dedicati ai delegati sindacali e incidenti su tematiche economiche. Pare che previsioni del genere evidenziassero una certa visione positiva della professionalizzazione del delegato sindacale, nell’ottica di un meglio inteso compito di rappresentanza. Ad oggi, nella quotidianità delle relazioni di lavoro di Tenaris Dalmine, capita sì che dei momenti seminariali siano indetti in favore della RSU. Tuttavia, si tratta di indizioni puntuali realizzate con una logica “reattiva”, cioè di reazione a particolari problemi e di risposta rispetto a richieste di chiarimento ad esempio su meccanismi di calcolo dei premi, novità di rilievo per la gestione del personale…
Sempre nell’allegato all’accordo Xxxx (l’allegato riassuntivo dei principi per ispirare la riforma delle organizzazioni del lavoro presso i singoli siti produttivi) è stata affrontata la questione dell’orario di lavoro. Essa è paradigmaticamente introdotta con una rubrica che cita il tema della “flessibilità della prestazione”. Sono stati quindi definiti una serie di principi e di idee i quali – va sottolineato – sono parzialmente riscontrabili a tutt’oggi in alcuni istituti per la regolazione delle relazioni di lavoro in Tenaris Dalmine. Innanzitutto, è significativo il riferimento all’introduzione di orari flessibili in entrata e in uscita per il personale impiegatizio slegato dalla stretta attività produttiva; tale introduzione però non avrebbe dovuto interferire con il rispetto dell’orario normale di lavoro su base giornaliera e settimanale. Altri passaggi notevoli nel segno di una maggiore “elasticità organizzativa” sono quelli con cui si faceva invito: a ricercare soluzioni per contemperare gli effetti della variabilità delle turnistiche; a far realizzare il cambio turno sul luogo di lavoro per le persone coinvolte da sistemi di turni avvicendati.
Sistema incentivante e questione organizzativa nell’accordo Ilva
Esaminati i tratti fondamentali dell’accordo Ilva sulle materie più strettamente organizzative, vale soffermarsi brevemente sul sistema incentivante disegnato nel ’89. Certe idee di fondo di allora, infatti, sono rimaste ancor oggi nel sistema incentivante di Tenaris Dalmine. Inoltre, pare naturale mettere in correlazione la riflessione svolta dalle
parti sulla tematica organizzativa con l’approntamento di un solido sistema per la remunerazione variabile del personale. L’accordo Ilva a riguardo, è emblematico dell’impegno contrattuale per l’effettività dei cambiamenti organizzativi.
È stata concordata l’introduzione di due premi di risultato distinti. Uno è denominato P.R.E. (Premio di Risultato Economico), “collegato al raggiungimento di idonei risultati economici”; l’altro P.R.O. (Premio di Risultato Operativo”) “collegato al raggiungimento di idonei risultati tecnico-produttivi”. Il legame tra mutamento organizzativo in atto e approntamento di un nuovo sistema incentivante è stato sottolineato nell’accordo stesso. Il nuovo sistema incentivante doveva essere utile a “supportare ed accompagnare il processo di ridefinizione organizzativa, tecnica e gestionale in atto”. Il che non valeva soltanto da dichiarazione di principio. È stato infatti previsto che il PRE e il PRO andassero a regime non prima della realizzazione di alcune azioni considerate utili per il recupero, da parte di Xxxx, del proprio gap competitivo nei confronti dei concorrenti. Nel caso del PRE ad esempio, è stato stabilito che prima della sua introduzione fosse raggiunto un certo standard economico tramite la riduzione dei costi fissi. Nel caso del PRO invece, è stato definito che prima si concludessero processi quali revisione dell’organizzazione del lavoro e “attuazione di nuove modalità e pratiche operative”. Questi passaggi normativi sono particolarmente significativi per due ragioni. Aiutano ad apprezzare l’accordo Ilva in senso sistemico, cioè come un insieme organico di disposizioni dove le une qualificano le altre. Ma soprattutto, consentono di comprendere che le parti stesse sancivano uno schema gestionale-sanzionatorio interno all’accordo. L’introduzione di un sistema incentivante (e quindi la concreta probabilità di un innalzamento delle retribuzioni reali all’interno del mondo Ilva) si giustificava solo a fronte del recupero competitivo di Ilva sul mercato. Detto recupero competitivo dipendeva a sua volta (secondo l’intendimento condiviso nell’accordo) dall’attuazione del complesso disegno organizzativo contrattato dalle parti. Disegno del quale erano stati definiti principi e modalità di azione. Peraltro perché detti principi e modalità non rimanessero lettera morta a livello di singoli siti produttivi, le parti hanno raccordato operativamente la loro attuazione con l’introduzione dei premi. È insomma un gioco di pesi e contrappesi, paradigmatico dell’istanza intersindacale a che i patti siano rispettati.
Il PRE
Passando a una veloce analisi dei premi (di cui vanno colte soprattutto le idee alla base) va innanzitutto constatato che il Premio di Risultato Economico doveva calcolarsi non in base a quanto riscontrato per l’intera Ilva, ma a partire dai risultati ottenuti dalle “Divisioni”. Le divisioni sono le unità organizzative dell’impresa individuate in virtù all’assegnazione gestionale di un business o prodotto autonomo sul mercato. Avendosi a riferimento la singola divisione allora, si doveva valutare la performance economica rispetto al parametro del “margine di contribuzione di secondo livello”. Questo margine
era descritto come il risultante dalla differenza tra i ricavi e i costi specifici della divisione al netto dei costi generali non riferibili alla gestione divisionale. Il PRE quindi riguardava la divisione e aveva a termine di riferimento fondamentale il margine esaminato. Ai fini del premio invece, occorreva considerarsi il rapporto tra il margine di contribuzione a consuntivo e il margine preventivato messo a budget per l’anno. Se il rapporto consentiva di dire raggiunto l’obiettivo prefissato, si aveva l’erogazione premiale (su base trimestrale). In più, ci sarebbe stata erogazione di quote aggiuntive qualora si fossero avute riduzioni dei costi specifici divisionali superiori alle previsioni.
Al di là del meccanismo di calcolo e del parametro di riferimento, colpisce un’ulteriore norma volta a caratterizzare il PRE come un premio fortemente collegato alla conduzione cooperativa delle relazioni industriali. È stato infatti previsto che non fosse erogata ai lavoratori la quota di PRE corrispondente al mese in cui fosse mancato il rispetto delle “norme di raffreddamento del conflitto”. È una norma notevole. Da un lato perché (come si vedrà) è stata ereditata nel sistema Tenaris Dalmine. Dall’altro perché serviva a definire un meccanismo di autotutela per il datore di lavoro. È proprio per tale secondo aspetto, che la norma può considerarsi emblematica della capacità della contrattazione di offrire risposte esaurienti (anche sul versante datoriale) per garantire il rispetto del contratto collettivo. Ai lavoratori del resto compete il diritto di sciopero riconosciuto da Costituzione. Per il tramite dello sciopero essi reagiscono in via di autotutela alle mancate applicazioni del contratto collettivo. Per converso, il presente studio di caso e segnatamente l’analisi dell’accordo Ilva del 1989 evidenziano che anche per il datore di lavoro, si possono individuare dei termini per la reazione in autotutela di fronte alle violazioni del contratto collettivo.
La contrattazione è dunque capace di dare risposte sul piano della sanzione applicativa, rendendo non necessario l’intervento del giudice (cioè la mediazione offerta dall’ordinamento statale). La norma dell’accordo Xxxx, con cui si disponeva che il mancato rispetto delle norme di raffreddamento avrebbe comportato un’erogazione parziale del PRE, significa un’occasione per mettere in collegamento il materiale contrattuale in esame con alcune idee teoriche studiate nella literature review. È rappresentata la misura esprimibile dalla contrattazione collettiva in fatto di compiutezza ordinamentale (80). È rappresentato cioè come all’interno del gioco contrattuale, entrambe le parti del contratto collettivo possano individuare delle soluzioni per l’autotutela e quindi, per la risposta efficace alle istanze gestionali-sanzionatorie connesse all’applicazione del regolamento pattizio.
In chiusura dell’analisi sul PRE, è interessante notare una norma indirizzata a valorizzare in modo ancora più consistente il cambiamento promosso e premiato dal PRE. Le parti hanno stabilito che una quota del premio (pari al 25%) sarebbe stato “consolidato non prima dei primi due anni di applicazione per le Divisioni che a fine anno ed in
80 X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene Editore, 1984.
ciascuno dei due avranno conseguito un indice (…) pari o superiore al 100%”. Per “consolidamento” qui s’intende il passaggio (parziale o completo) di una certa somma entro le componenti fisse della retribuzione, sebbene la medesima somma in origine fosse stata giustificata da uno schema retributivo variabile. La questione del consolidamento offre lo spunto per una considerazione doppia, a seconda che si guardi la questione dal lato della rappresentanza sindacale o da quello dell’azienda. Per la rappresentanza sindacale, era importante poter raggiungere un incremento (sia anche ancora non sicuro) delle retribuzioni fisse. Per l’azienda peraltro, si trattava non solo di aggiungere un elemento appetibile al tavolo della trattativa. Il nuovo sistema incentivante in Ilva doveva “supportare ed accompagnare il processo di ridefinizione organizzativa, tecnica e gestionale in atto”. Bisognava dunque che il cambiamento dei comportamenti fosse attivato davvero: al di là delle resistenze o delle perplessità del caso. Grazie al consolidamento allora, il cambiamento dei comportamenti sarebbe stato conveniente a maggior ragione nell’immediato, cioè nei primi due anni. Il consolidamento insomma, oltre a termine di scambio nelle trattative, poteva valere da elemento catalizzatore per il cambiamento organizzativo dei comportamenti.
Il PRO
Accanto al PRE come anticipato, l’accordo Ilva ha introdotto il Premio di Risultato Operativo. Al momento di trattarlo nello specifico, le parti hanno sottolineato nuovamente che la sua istituzione sarebbe avvenuta a valle dell’attuazione delle “diverse azioni di revisione organizzativa e gestionale”. Tale sottolineatura, oltre a rispondere a una logica di relazioni industriali, obbediva del resto pure a esigenze operative molto concrete. Il meccanismo di calcolo per il PRO sarebbe dipeso dall’individuazione di “standard base di produzione”. Si sarebbe dovuti cioè, definire in modo articolato per divisione il livello di produttività atteso su un certo prodotto di riferimento. Per le parti (standosi ai termini impiegati nell’accordo) bisognava con gli standard base di produzione, realizzare una previsione “ottimale” ma “realistica” che concernesse l’entità della “produzione conforme” in rapporto alle “ore disponibili” sull’impianto. È interessante notare la caratterizzazione della produzione in quanto “conforme”: il tema sarà oggetto di commento infra.
Un ulteriore elemento di interesse consiste in un’evidenziazione fatta dalle parti: gli standard base di produzione sarebbero venuti ad avere per l’azienda una valenza organizzativa a tutto tondo. È scritto infatti che gli standard una volta individuati, sarebbero stati impiegati non solo ai fini del sistema incentivante, ma pure per il funzionamento di vari sistemi gestionali quali il “Programma Annuale” per la conduzione dell’impresa; addirittura per la definizione dei prezzi per il mercato. L’evidenziazione appare non secondaria: la credibilità del PRO sarebbe dipesa dall’individuazione (condotta unilateralmente dall’azienda) di standard in grado di rivelarsi effettivi. Essendo
destinati gli standard allora a divenire strumento di lavoro trasversale (utili per la funzione commerciale come per l’alto management) l’interesse alla loro affidabilità sarebbe appartenuto direttamente all’azienda oltre che alla rappresentanza sindacale. Proprio la condivisione di un interesse diretto avrebbe costituito elemento di garanzia in ordine allo sforzo per la corretta individuazione degli standard.
L’accordo Xxxx procede sancendo che per ciascuna divisione, la misura del PRO sarebbe stata ottenuta a partire dal rapporto fra il risultato a consuntivo (numeratore) e il risultato fissato da previsione annuale (denominatore). Le performance produttive delle divisioni sarebbero così state valutate rispetto ad obiettivi previamente assegnati. Lo schema del PRO appare in tal senso come una traccia generale: un “modulo” da articolare in relazione alle singole divisioni. Lo standard base di produzione sarebbe infatti stato individuato per singolo prodotto, cioè in modo differente per singola produzione divisionale. Sul tema dell’articolazione del PRO fra l’altro, gli estensori dell’accordo (consapevoli della vastità industriale dell’Ilva di allora) hanno specificato che anche all’interno della singola divisione, sarebbe stato possibile differenziare il calcolo del PRO per singolo stabilimento produttivo, o addirittura per singola area impiantistica qualora se ne intendesse valorizzare l’autonoma rilevanza organizzativa e industriale (… si pensi a un’area impiantistica dell’acciaieria in un tubificio come quello Dalmine). Il passaggio in parola è notevole, perché ha costituito la premessa per soluzioni poi perseguite presso Tenaris Dalmine: soluzioni di differenziazione e specificazione dei parametri usati per valorizzare le performance di qualità e produttività dei processi produttivi. È accaduto infatti che il sistema incentivante, in fatto di risultati operativi in Dalmine, fosse mano a mano declinato per singola area impiantistica. E ciò allo scopo di premiare risultati in una certa misura più vicini al singolo lavoratore. Maggiore del resto è la “vicinanza” dei risultati premiati, maggiore è la capacità incentivante del sistema di remunerazione collettiva. In tale ottica, sarà ad esempio più effettiva l’incentivazione dei laminatori quando si valorizzi il dato operativo del solo laminatoio, che non quando nei loro confronti si tenuto pure conto delle performance dell’acciaieria.
Nell’accordo Ilva quindi, già è distinguibile uno sviluppo delle contrattazioni successive, concernente l’articolazione del sistema premiale in relazione ai risultati operativi delle differenti aree impiantistiche. Una particolarità che invece è stata prevista nell’89 ma poi non è stata implementata, ha riguardato una certa integrazione per il calcolo del PRO. Le parti hanno sancito che PRO si sarebbe potuto calcolare anche valorizzando il grado di promise ottenuto dalla divisione. Per “promise” s’intende il grado di successo nel rispetto dei tempi di consegna al cliente. Perché questo tipo di integrazione non abbia trovato posto negli anni nel sistema premiale in Dalmine, può dare il là alle più varie considerazioni. Quello che pare evidente però, è che il dato di promise solo in parte è collegato ai comportamenti messi in atto dagli operatori. Esso dipende in buona misura dall’esito di una serie di scelte e azioni fatte dal management e più in generale dalle funzioni di staff. Se si guarda all’oggi, ad esempio, è agevole vedere che il rispetto dei
tempi di consegna già a monte è influenzato dalla strategia commerciale dell’azienda, strategia più o meno aggressiva a seconda delle condizioni di mercato. Molto poi dipende dalla programmazione dei processi realizzata dalle persone di Supply Chain. Infine nella casistica di repentini aumenti di volumi e di turnazioni, occorre che giuste risorse in fatto di capitale umano siano messe a disposizione della fabbrica (tramite processi di selezione, formazione, ovvero grazie all’attivazione degli strumenti contrattuali per la flessibilità dell’orario di lavoro).
Le relazioni industriali per gestire il processo innovativo
Lo studio dell’accordo Xxxx sta mettendo in luce il carattere ampio dell’intervento contrattuale dell’89. S’è avuto modo di apprezzare le indicazioni di metodo e di merito per il cambiamento organizzativo. Inoltre, è stata pure analizzata la valenza duplice dell’istituzione di un sistema incentivante. Questa istituzione ha formato un elemento di scambio nella trattativa fra le parti. Ha poi significato l’innesto di un’importante componente variabile delle retribuzioni, funzionale a cambiare i comportamenti a lavoro nella direzione del recupero di competitività economica e industriale in Ilva. Accanto ai due “pilastri” dell’organizzazione del lavoro e del sistema incentivante, le parti si sono dedicate a definirne un terzo sulle relazioni industriali. Queste sono state ritenute centrali nella “gestione del processo innovativo”. Sono state individuate in altre parole, come strada di governance del lavoro: una strada contraddistinta dal riconoscimento del carattere strategico della mediazione sindacale nell’azienda. Le disposizioni dell’89 sulle relazioni industriali sono state pienamente inserite nella tradizione contrattuale del sistema Iri. Non a caso nell’accordo Ilva è stato richiamato il Protocollo stipulato da Iri e Confederazioni sindacali il 16 luglio 1986 (Protocollo a sua volta, siglato in continuità ad altra pattuizione del 18 dicembre 1984). Senza approfondirne passo per passo i contenuti, è interessante osservare alcuni punti fondamentali del Protocollo. Esso è servito a delineare un ampio sistema di informazione e consultazione. Sono state infatti chiarite sedi e procedure con cui ordinare la dinamica informativa tra azienda e sindacato. In particolare sono stati definiti dei “Comitati consultivi paritetici” di cui sono stati precisati fisionomia, composizione e compiti. Sui comitati poi le parti hanno evidenziato che: “(i) compiti e l'attività dei Comitati non modificano in alcun modo l'autonomia delle parti e le competenze contrattuali delle stesse quali definite ed esercitate ai vari livelli”. Le parti hanno cioè chiarito, che l’evoluzione delle relazioni industriali verso modalità più strutturate, se non anche caratterizzate in senso più cooperativo, non equivale a una sorta di “integrazione” delle posizioni sindacali con quelle dell’azienda (Giugni). Piuttosto, informazione e consultazione debbono considerarsi come parte del processo di contrattazione: come parte quindi, di quella pratica peculiare per il bilanciamento dei differenti interessi al lavoro.
Queste considerazioni hanno valore a maggior ragione quando si tenga conto di altre previsioni di rilievo nel Protocollo: soprattutto di quelle circa le “(p)rocedure e sedi negoziali per prevenire e risolvere i conflitti collettivi aziendali”. Al di là del loro dettaglio, è notevole infatti la scelta per una procedura di raffreddamento trasversale a tutto il gruppo Iri. Pare infatti che la procedimentalizzazione del conflitto collettivo – così come in generale, lo sviluppo degli obblighi delle parti nel segno di un flusso informativo ordinato e continuativo – possa aiutare a rinvenire nella storia di relazioni industriali di Xxxxxxx, la messa in opera di alcune idee studiate nella literature review. Sembra confermata l’idea d’ispirazione pluralista, circa l’auspicabilità di “istituzionalizzare” il conflitto collettivo per il tramite della regolazione contrattuale (Xxxxxxxx). Questo carattere di auspicabilità dipenderebbe dalla seguente constatazione. Lavoratori e datori di lavoro non condividono i medesimi interessi in senso sostanziale. E però partecipano di uno stesso interesse “formale” o “di metodo”: quello per procedure che regolino i loro “necessari e inevitabili conflitti” (81). Ecco quindi che, preso atto della diversità delle posizioni in gioco, le parti possono individuare un vantaggio comune nell’istituire forme e procedure con cui gestire le proprie relazioni.
Nell’accordo Ilva subito dopo il richiamo alle previsioni del Protocollo del 1986, è stata condivisa l’esigenza di un “articolato processo informativo”. È stata prevista a livello di divisione o di comprensorio, la predisposizione di incontri almeno semestrali sugli “aspetti più rilevanti di gestione”. Nel novero degli aspetti considerati, per esempio, è stata inserita la materia dell’andamento economico e dell’andamento operativo dell’azienda. Nell’accordo poi, le parti hanno condiviso l’istanza di “ottemperare ai principi” del Protocollo dell’86 in materia di “procedure di attuazione delle astensioni dal lavoro”. Hanno quindi stabilito regole per il raffreddamento dei conflitti collettivi, recependo l’input normativo dell’86 e versandolo all’interno del contratto collettivo aziendale. Sono così stabilite norme immediatamente obbligatorie.
Alcune considerazioni sulle norme in tema di astensioni dal lavoro
Per quanto sta alle regole sulle astensioni dal lavoro, va senz’altro apprezzata la parte “introduttiva” delle stesse. Questa parte aiuta a capire i termini concreti rispetto ai quali si sono dovuti misurare gli interessi delle parti. È stato allora dato conto di una serie di istanze collegate all’ambiente di lavoro siderurgico. Le parti hanno fatto riferimento alle istanze di “certezze reciproche”, di “affidabilità di programmazione”, nonché all’esigenza “evitare rischi o pregiudizi per la sicurezza degli impianti e delle persone”. Un altro dato di rilievo – sia pure ulteriore rispetto all’analisi dei contenuti dell’accordo Ilva – riguarda il fatto che le regole del raffreddamento dell’89 sono poi state recepite nel contratto collettivo Dalmine del ’98. Ed è appunto in coincidenza allo studio di questo
00 X. XXXX-XXXXXX, Xx lavoro e la legge, op. cit., 29.
contratto collettivo che si proporrà – infra – un’analisi critica dei meccanismi di raffreddamento. Sarà infatti valorizzato il dato dell’ancora perdurante vigenza del regolamento del 98. Basti dire comunque, che le regole per la prima volta introdotte nell’89, si sono contraddistinte per la procedimentalizzazione dell’escalation conflittuale. S’è tentato di valorizzare il confronto fra le parti istituendo dei momenti per tentare la conciliazione. Sono momenti essi stessi “di contrattazione”. Un sistema contrattuale infatti, allo stesso tempo può rispondere a logiche di rule making e decision making (82). Anzi: la distinzione fra il “quando” sono stabilite nuove norme e il “quando” si applicano norme esistenti, nella pratica può apparire molto sfumata (Xxxxxxx). Ecco allora che nel regolamento dell’89 sono stati stabiliti dei termini da rispettare. Questi pare che siano stati individuati perché pur nella celerità della procedura si abbia un effettivo spazio di dialogo.
È stato stabilito nell’accordo dell’89, che prima di qualsiasi iniziativa (di sciopero) occorre aver avanzato una richiesta formale di incontro, da realizzarsi entro tre giorni o nel diverso termine individuato dalle parti. Rispetto poi a ulteriori tentativi di conciliazione – rispetto, cioè, all’individuazione di ulteriori termini e ulteriori sedi per proseguire il confronto nel contesto del raffreddamento – le parti dell’89 hanno richiamato in modo generale le previsioni dell’86. Esse hanno sottolineato, peraltro, che nel caso di insuccesso del raffreddamento per evitare l’iniziativa conflittuale, l’astensione dal lavoro sia dichiarata con un preavviso di almeno 24 ore. Alla base di questo passaggio normativo, senz’altro, può rivedersi la ragionevole istanza a che il momento conflittuale sia gestito. Con il che, chiaramente, non s’intende alludere alla possibilità che siano attuate pratiche non ammesse dall’ordinamento. Piuttosto, si tratta di fare in modo che l’iniziativa conflittuale non abbia ricadute negative sproporzionate. Il che potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso di minaccia alla sicurezza degli impianti e delle persone. Gli obiettivi di tutela in tal senso sono fondamentali. Le regole devono essere stabilite in modo da poter funzionare come risorsa organizzativa, utile per consentire la messa in campo di opportune soluzioni gestionali. Non a caso le parti hanno pure riconosciuto la praticabilità di uno sviluppo successivo della contrattazione, nel senso di una “istituzionalizzazione” ulteriore e più accurata della tematica del conflitto collettivo. Hanno infatti convenuto, che in corrispondenza alle aree dove “per le caratteristiche dei singoli impianti, le astensioni dal lavoro (comportassero) inevitabili amplificazioni degli effetti dello sciopero o delle inattività” fossero individuate “opportune articolazioni” grazie a cui “minimizzare” gli effetti in parola. Ciò, inoltre, si sarebbe dovuto realizzare in modo da “salvaguardare” il diritto dei lavoratori senza “ledere” i “corrispondenti diritti dell’azienda”.
82 Ci si rifà all’analisi proposta da Xxxx Xxxx-Xxxxxx con riguardo alle fondamentali modalità con cui si caratterizzano i sistemi di contrattazione. In particolare, l’a. propone una distinzione fra due modelli (sia pure non riscontrabili esattamente sul piano di realtà ma rinvenibili in modo parziale secondo vari gradi di intensità), modelli che definisce “contrattuale” il primo e “istituzionale” il secondo. La particolarità della norma contrattuale collettiva, costantemente a X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit., 86.
Si tratta di una norma programmatica, in grado di riassumere la complessità dell’intervento regolativo sulle tematiche del conflitto industriale. Da un lato infatti, le parti hanno stabilito una cornice fondamentale di regole per procedimentalizzare l’escalation conflittuale. Dall’altro lato, le parti hanno pure preso atto di non misurarsi con una realtà industriale omogenea, ma variegata per lavorazioni e ambienti. Questa presa d’atto ha formato la base per un ragionamento di contrattazione più ambizioso, diretto a individuare regole ricalcate sulle specificità delle singole fasi del processo. Se da parte sindacale fosse prevalso un approccio radicale sulle relazioni di lavoro, questo ragionamento sarebbe stato improponibile. Sarebbe stata improponibile cioè, l’introduzione di regole volte a moderare gli effetti degli scioperi in corrispondenza degli ambienti dove la lotta potrebbe avere maggiore impatto. Una scelta “contrattualista” sarebbe insomma suonata impropria ad una rappresentanza sindacale orientata in senso radicale. E ciò, perché sarebbe stata negata l’idea che nel conflitto collettivo risiede il momento della massima affermazione sindacale: un’affermazione consistente nel capovolgimento della relazione di potere annidata nel rapporto di lavoro relazione intrinsecamente iniqua (83). La possibilità di dare ulteriori norme speciali in tema di astensioni collettive dal lavoro, ha quindi alla base la convinzione che sia possibile bilanciare i termini del confronto conflittuale temperandone le asperità. Senz’altro da parte sindacale questa apertura alla contrattazione ha portato con sé l’aspettativa di ottenere qualcosa proprio in relazione agli ambienti di lavoro cui dedicare maggiore attenzione. Sarebbe innaturale ritenere che maggiore cooperazione sulle modalità del conflitto collettivo non abbia a contrappunto maggiore cooperazione nella quotidianità delle relazioni sindacali e di lavoro. C’è stata peraltro (come si evince dal passaggio testuale inerente la salvaguardia del diritto di sciopero senza ledere i “corrispondenti diritti dell’azienda”) la consapevolezza che l’astensione dal lavoro serva certo a produrre un danno all’impresa in termini di produzione e possibilità di pianificare i processi. E però, occorre evitare che essa sia effettuata con modalità tali da ledere la stessa capacità dell’impresa di realizzare la propria missione economica, di creare valore. Occorre che nell’azione di lotta, dato il contesto obbligatorio e normativo di relazioni industriali tracciato nell’insieme dell’accordo Ilva e quindi lo stadio di avanzamento del reciproco rapporto nell’azienda, sia mantenuto un elemento di proporzionalità. Il che significa da un lato che l’esercizio del diritto di sciopero deve potersi affermare rispetto alla libertà di iniziativa economica. Ma dall’altro che esso non può tradursi in una lesione irragionevole di diritti collocati sullo stesso piano. Fra questi va considerato il diritto al lavoro, inteso come possibilità effettiva di avere occupazione professionale presso l’azienda. Questa possibilità ha a precondizione che si generi valore. Cioè che l’impresa conservi la propria
83 Secondo l’approccio radicale alle relazioni industriali (connotato o meno in senso marxista) il dato dell’ingiustizia apparterrebbe inestricabilmente al luogo di lavoro. A riguardo, è emblematica l’analisi proposta da Xxxxx Xxxxxxx sul pensiero di Xxxx Xxxxx e il British radical frame: B. E. XXXXXXX, Rethinking Industrial Relations, or at least the British radical frame, in Economic and Industrial Democracy (EID), 577-598, n. 4, 2018, 578.
capacità produttiva e anzi nello scenario competitivo la rilanci tramite l’indirizzo di parte dei guadagni in investimenti.
In sintesi, le poche frasi dell’accordo Xxxx in tema di astensioni del lavoro hanno portato con sé un’intera visione dei rapporti sindacali. Dove è stato riconosciuto che il diritto di sciopero non è leso dalla sua procedimentalizzazione. Ma che anzi in un contesto di concessioni reciproche e a fronte di diritti obbligatori sempre più ampi per la condivisione della conoscenza sui temi fondamentali della strategia d’impresa e delle scelte gestionali, è ragionevole scandire dei termini procedimentali da rispettare prima che si origini il conflitto. È ragionevole ed è coerente, perché l’opzione fondamentale alla base della contrattazione Ilva è risieduta nel tracciamento di procedure e progetti grazie a cui istituzionalizzare la dialettica collettiva rendendola un aspetto peculiare (perché partecipato e mediato sindacalmente) del management dell’impresa. All’interno di questa impostazione fondamentale (costruita tramite la decisione di obblighi reciprochi, la visione circa l’innalzamento del contenuto professionale del lavoro in una logica di competitività e quindi di espressione delle persone e di liberazione delle opportunità redistributive) è stata giustificata pure la disponibilità a discutere su regole ulteriori laddove le astensioni dal lavoro siano tali da comportare inevitabili (e sproporzionate) amplificazioni della lotta. Le quali ad esempio, potrebbero tradursi nella lesione degli impianti e degli ambienti di lavoro, con conseguente perdita di “ricchezza” del luogo- lavoro: perdita di quella ricchezza immobilizzata che costituisce una delle condizioni per la produzione di valore (specialmente in contesto di fabbrica, manifatturiero). Emerge a questo punto chiaro (e a riguardo, potrebbe citarsi la lezione di Xxxxx Xxxxxx (84) vista in literature review) che benché i mezzi di produzione non rientrassero nella proprietà privata dei lavoratori di Ilva, proprio in questi mezzi i loro portavoce sindacali hanno riconosciuto un patrimonio comune. Da difendere per consentire il miglioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione. Ecco dunque, che tramite l’analisi delle regole sulla procedimentalizzazione dello sciopero – l’analisi cioè della disciplina di auto-limitazione del fondamentale mezzo di emancipazione dei lavoratori – si possono scorgere i termini di una fabbrica bene comune. Nella Fabbrica bene comune (con movimento “circolare”) la lotta collettiva è servita a conquistare avanzamenti delle condizioni di lavoro; la minaccia dell’ulteriore prosieguo del conflitto ha consigliato di fare i conti con la specificità delle relazioni di lavoro in un’ottica di governance; i meccanismi obbligatori stabiliti fra sindacato e azienda sono divenuti oggetti di un interesse comune, per comporre e temperare i costi sociali del conflitto, quando questi dovessero ledere irragionevolmente le chance di realizzare in concreto valori di efficienza (economica) ed equità (sociale). Nel commento alla norma, o meglio, al programma normativo contenuto nell’accordo Ilva dell’89, pare di potersi respingere la critica circa la sua fondamentale
84 X. XXXXXX, The Corporation as Commons: Rethinking Property Rights, Governance and Sustainability, op. cit., 2012.
ispirazione “unitarista” (85). Questa critica avrebbe magari colto nel segno, laddove la disponibilità ad auto-limitare lo sciopero fosse stata “concessa” dal sindacato al di fuori di un ragionamento sinallagmatico e contrattuale. E però non è il caso dell’accordo Xxxx, nel quale piuttosto l’opportunità di stabilire ulteriori regolazioni sulle astensioni dal lavoro è stata inserita all’interno di un contesto obbligatorio da apprezzare sistemicamente. L’istituzionalizzazione del conflitto collettivo per la sua gestione fa quindi da contrappunto all’acquisizione di maggiori diritti sul piano obbligatorio durante il “normale” procedere della vita aziendale. Inoltre norme ulteriori per temperare eventuali sproporzionate amplificazioni degli scioperi sarebbero comunque dovuti essere contrattati in stretta aderenza ai singoli luoghi di lavoro e produzione. Aprendosi così spazio inedito per l’affermazione di specifici interessi da parte dei lavoratori.
L’istanza di proporzionalità si ritrova anche in riferimento alle assemblee
I “programmi normativi” connessi alle regole in fatto di astensioni dal lavoro, hanno costituito l’opportunità per svolgere alcune considerazioni sul tipo di approccio alle relazioni industriali tenuto dalle parti. In particolare è sembrato di potersi apprezzare una fondamentale impostazione pluralista. Questa impostazione è stata caratterizzata dalla consapevolezza della diversità degli interessi in gioco. Allo stesso modo, però, sono stati definiti dei termini di accettabilità, valicati i quali il “gioco al rialzo” della contrattazione aziendale sarebbe riuscita frustrata. Nell’impostazione pluralista in genere del resto, pare necessario che si prenda atto della differenza tra le posizioni in campo di modo che, proprio a partire da questa consapevolezza, si scelga la strada della contrattazione, dell’instaurazione di un rapporto dinamico nel segno del bilanciamento degli interessi.
Nell’esempio offerto dalle regole sul diritto di sciopero nell’accordo Xxxx, senz’altro questo diritto di rango costituzionale è stato riconosciuto dalle parti come “clausola di salvaguardia”, sanzione sociale in mano ai lavoratori. E però, è stato pure stabilito che lo sciopero non possa realizzarsi sproporzionatamente (cioè con “inevitabili amplificazioni”). Occorre al contrario preservare la capacità dell’ambiente produttivo di generare valore in modo sostenibile. Quando il segno della proporzionalità (via via da trovare in relazione alle caratteristiche degli ambienti produttivi) fosse superato, lo sciopero da strumento di emancipazione si tradurrebbe in una sorta di arma a doppio taglio. Un ragionamento che (come s’è detto) non equivale a una sorta di “retorica della responsabilità” all’indirizzo del sindacato, perché pienamente calato in un discorso contrattuale e di scambio fra le parti.
85 Una convincente proposta definitoria circa l’ispirazione “unitarista” sulle relazioni industriali e di lavoro, è contenuta nel libro di Xxxxxxxx: “The Reform of Workplace Industrial Relations. Theory, Myth and Evidence”. L’autore definisce “unitarista” quella visione d’impronta manageriale secondo cui la migliore realizzazione dell’interesse dei lavoratori sarebbe dinamicamente subordinata alla migliore realizzazione dell’interesse aziendale. X. XXXXXXXX, The Reform of Workplace Industrial Relations. Theory, Myth and Evidence, Clarendon Press Oxford, 1988, 11 e ss.
Pare che considerazioni del tutto simili possano avanzarsi pure con riguardo alle assemblee sindacali, quando si presti attenzione alle relative regole nell’accordo Xxxx. Nel contesto giuridico italiano il diritto di assemblea è affermato all’art. 20 dello Statuto dei lavoratori. È così sancito entro norma a sua volta riconducibile alla garanzia sulla libertà dell’organizzazione sindacale di cui all’art. 39 Cost.. La necessità del rispetto del diritto di assemblea è stata in più testualmente riconosciuta nel contratto collettivo Ilva. E tuttavia anche qui le parti hanno svolto un ragionamento, teso a garantire l’esercizio del diritto senza provocare conseguenze negative irragionevoli stante il contesto industriale di riferimento. È stato perciò stabilito che le assemblee fossero richieste con almeno ventiquattro ore di preavviso. Non solo. Che di norma fossero organizzate in modo da svolgersi all’inizio o alla fine del turno. È questa del resto una previsione il cui senso è facilmente intuibile. Il turno di lavoro è una sezione di tempo nella quale possono comparire svariate istanze di carattere gestionale. Diverse variabili possono entrare in gioco, a seconda del prodotto lavorato e della disposizione di cicli di lavoro. Di conseguenza, la collocazione di ore non produttive a inizio o fine del turno può rivelarsi funzionale a conferire maggiore ordine alla giornata di lavoro. Un’ultima previsione notevole è consistita nella possibilità che le assemblee fossero tenute “a cascata”. Vale a dire che fossero tenute in modo sfalsato nei contesti produttivi caratterizzati da un lato da un processo “monte-valle”, dall’altro da reparti interdipendenti. In tal modo le parti hanno voluto razionalizzare l’indizione delle assemblee. Hanno voluto evitare che soltanto per il fatto di concentrare in unico slot temporale le ore non produttive per tutta un’area organizzativa, si realizzassero problemi: problemi dipendenti dalla struttura del processo. In coincidenza con l’assemblea riguardante più reparti infatti, le lavorazioni svolte “a monte” potrebbero richiedere a “valle” lavorazioni non rimandabili, da svolgersi subito. O ancora, potrebbe darsi il caso che a fronte del tempo non produttivo del reparto “a monte”, la concomitante ripresa del lavoro a valle comunque richieda di aspettare materiale lavorato.
A conclusione dello studio sull’accordo Xxxx
Pare utile a conclusione sullo studio dell’accordo Xxxx riepilogare alcune evidenze e in tal modo riassumere perché quella tornata contrattuale collettiva abbia avuto tanta importanza per la storia di relazioni industriali di Xxxxxxx Xxxxxxx. L’accordo Ilva innanzitutto, pare che abbia avuto un’importante funzione di chiarificazione e messa in ordine su vari fronti aperti: giuridici e organizzativi. E che così, abbia fornito alle persone impegnate sul fronte delle relazioni di lavoro in Ilva (e quindi in Dalmine) indicazioni importanti di merito e di metodo.
È emersa con l’accordo dell’89 la fondamentale struttura che sarebbe stata mantenuta nei contratti collettivi aziendali nel corso degli anni: da un lato le previsioni sulle materie organizzative e dell’orario di lavoro; dall’altro un ampio capitolo sui sistemi
incentivanti; infine le disposizioni in tema di relazioni industriali. In verità – come s’è potuto apprezzare – sul versante organizzativo le parti hanno sia condiviso una visione di merito sull’evoluzione in senso professionale del lavoro, sia hanno definito il metodo della contrattazione collettiva per raggiungere cambiamenti organizzativi aderenti alle specificità dei singoli ambienti di lavoro. Questo genere d’impostazione si sarebbe poi rivelata gravida di conseguenze. Xxxxx osservare la storia della contrattazione Dalmine e Tenaris Dalmine dopo l’89. Le regole sulle tematiche organizzative, in sede di integrativo, sarebbero venute sempre più a coincidere con la regolazione dell’orario di lavoro. Ad esempio, si sarebbero venute ad avere sempre maggiori e più significative norme sulla corretta remunerazione della flessibilità oraria, sulla gestione multi-periodale dell’orario di lavoro, sui regimi c.d. di quarta squadra e per “l’indennizzo” in caso di particolari cambiamenti di turnazione.
Diversamente, le tematiche organizzative caratteristiche dei singoli reparti produttivi (ci si riferisce ai tempi e ai metodi di lavoro connessi a specifiche postazioni e specifici cicli produttivi, ai ruoli professionali, alla ripartizione delle responsabilità fra gli operatori…) sarebbero state via via gestite con logica “sussidiaria” in seno alla contrattazione. In altri termini, sarebbero state affrontare non già entro la contrattazione di tutta l’azienda o di tutta l’unità produttiva; piuttosto entro la contrattazione della singola area o del singolo servizio produttivo. E tuttavia, con ciò non si vuole dire che alcune tematiche sarebbero state gestite in modo omogeneo, mentre altre sarebbero state “abbandonate” alle sconnesse e (incoerenti) dinamiche di relazione dei singoli reparti. Se si optasse per questo genere di ragionamento, si andrebbe lontani dal vero. Infatti, la contrattazione svolta in un singolo reparto – con i suoi delegati sindacali e il suo management– sarà sempre in qualche modo collegata alle contrattazioni presso le altre parti del sito produttivo. Ciò dipenderà da svariati fattori. Dipenderà dal modo di funzionare della contrattazione, dove raramente un singolo testo d’accordo esaurisce i termini dello scambio fra le parti. Dipenderà inoltre dalla coerenza interna alle organizzazioni: in altri termini, dalla linearità del coordinamento interno al sindacato, oltre che dalla costanza con cui il soggetto aziendale persegue la razionalità di certe opzioni di riforma. Dipenderà infine, dalla capacità dei singoli accordi di farsi “precedente” (86) contribuendo ad arricchire di sé e della propria vicenda un contesto di relazioni industriali caratterizzato in senso istituzionale.
“Dopo Ilva”. Cambia l’azienda, cambiano le relazioni industriali
Per il prosieguo della narrazione, si vuole mettere in evidenza un passaggio particolare. Nel ’96 Dalmine è passata sotto il controllo del gruppo argentino Techint. È uscita dalla compagine Ilva e in questo modo dalla galassia delle società connesse
86 Sull’utilizzo persuasivo del tema del “precedente” in un contesto di relazioni industriali caratterizzato in senso istituzionale: X. XXXX-XXXXXX, Il lavoro e la legge, op. cit., 86-87.
finanziariamente allo Stato italiano. Il passaggio sotto il controllo di Techint ha quindi costituito un turning point rispetto a cui le relazioni industriali sono state sollecitate. È stato infatti necessario trovare soluzioni innovative e adeguate ad affrontare nuove scelte sui mercati di riferimento: soluzioni che in più potessero essere condivise della nuova proprietà. Non è esagerato parlare di un “prima” e un “dopo” il 1996.
In questo contesto, ha acquisito una valenza cruciale il contratto collettivo aziendale stipulato nel 1998. Questo contratto collettivo ha costituito il risultato di uno sforzo contrattuale significativo. Da un lato infatti s’è trattato di salvaguardare il patrimonio contrattuale e di relazioni industriali sviluppato in particolare dall’accordo Ilva in avanti. Dall’altro lato però, s’è trattato di dire quali regole in concreto fossero adatte alla specifica realtà della “nuova” Dalmine. Ormai non più rilevando le complesse dinamiche sindacali e industriali di altri siti Ilva, come Terni e Taranto. Fra l’altro, non pare sbagliato premettere che lo studio della contrattazione del ’98 può consegnare un quadro utile di diversi istituti contrattuali caratteristici di Xxxxxxx. E questo per il fatto che, sebbene poi siano state introdotte varie novità, e certe norme siano state integrate e arricchite, molti “punti di caduta” normativi del ’98 sono rimasti per nulla o poco cambiati. Il contratto del ’98 è dunque ancora oggi un documento contrattuale “operativo”: una risorsa attuale per la governance delle relazioni di lavoro individuali e collettive.
Le premesse dell’accordo del ‘98
Le premesse dell’accordo del ’98 contengono probabilmente delle indicazioni utili per meglio intendere l’intero documento contrattuale. In primo luogo le parti hanno preso atto del profondo cambiamento di contesto vissuto dall’azienda. Ne hanno evidenziato il carattere sfaccettato. Il cambiamento è stato descritto come: “organizzativo, culturale, manageriale, operativo”. Le parti hanno così raccontato il senso dell’ingresso “in un Gruppo industriale operante a livello globale”. Nelle premesse dell’accordo insomma, è stata data la misura di una transizione a tutto tondo: una transizione portatrice di “conseguenze e opportunità”, rispetto a cui l’integrativo aziendale sarebbe potuto assurgere a risorsa di sistema. Del resto le parti hanno pure individuato una generale necessità di “adeguamento” degli “strumenti”, delle “condizioni”, delle “regole di gestione”. Ed è a fronte di questa istanza di gestione del cambiamento che pare di trovarsi nel testo delle premesse, una credibile chiave di lettura con cui affrontare tutto l’integrativo.
Relazioni industriali
Dopo le premesse le parti hanno collocato le norme obbligatorie in tema di relazioni industriali. A riguardo, il passaggio sotto il contro di un gruppo privato non ha scardinato la struttura istituzionale su informazione e consultazione delineata per Ilva nell’89. Anzi,
sembra che in questo campo si sia avuta una forte continuità, se non anche uno sviluppo ulteriore. È stato infatti confermato un impianto di informazione e consultazione su più livelli. Innanzitutto, è stato stabilito l’obbligo di un incontro con le RSU “a livello aziendale”: un incontro da tenersi ogni sei mesi, per condividere le informazioni di rilievo per le strategie di gestione dell’intera Dalmine. Nell’elenco di materie da trattare, infatti, sono stati inseriti punti quali la “evoluzione del mercato e dei suoi riflessi sull’azienda” o le “prospettive produttive di medio/lungo periodo”. Insomma, pare che l’incontro a livello aziendale avrebbe dovuto riguardare quegli aspetti che solitamente sono definiti di “alto management”.
In seconda battuta, è pure stato definito un incontro con cadenza trimestrale da svolgersi invece a “livello di unità produttiva”. Fra le materie indicate per l’informazione e consultazione, si possono leggere questioni quali lo “andamento delle produzioni”, gli “indicatori di produttività e qualità”, lo “andamento degli investimenti”. Qui la prospettiva che pare emergere è molto legata all’attuazione dei disegni tracciati a livelli strategico: come questi erano tradotti presso i singoli siti produttivi. Siti, si noti, dotati di un proprio management specie sul lato operation, variamente messo alla prova dalla specificità industriale di processi e prodotti.
In ultima battuta, le parti hanno stabilito che informazione e consultazione su base formale dovessero aversi pure “a livello di fabbrica”. Cioè in corrispondenza con quelle aree organizzative facenti parti del medesimo sito, che però potessero dirsi fortemente omogenee in quanto a cicli produttivi in carico, oppure a organizzazione aziendale e responsabilità budgettarie. Senz’altro, questa ulteriore declinazione dell’informazione e consultazione in Dalmine, da gestirsi fra management e RSU di quella fabbrica / area organizzativa, dice qualcosa di significativo sul rilievo sindacale delle specifiche questioni di reparto, e sulla considerazione riconosciuta all’istituzionalizzazione delle relazioni industriali in stretta aderenza alla conduzione quotidiana del lavoro. Non per nulla, fra le materie oggetto dell’informazione a livello di fabbrica, informazione da tenersi con cadenza mensile, le parti hanno citato da un lato il generale “andamento della fabbrica, in termini di produttività, qualità, sicurezza”, dall’altro (soprattutto) “i carichi impianto e le marce programmate per il mese successivo”. Ecco perciò che nel sistema di informazione e consultazione tracciato nel 98 comare forte la tematica dell’orario di lavoro e della programmabilità dello sforzo produttivo richiesto nei reparti. Il carattere sensibile di queste questioni è comprovato da un’ulteriore passaggio normativo, laddove è stato previsto che in caso di modifiche alla turnistica comunicata, queste fossero comunicate “tempestivcamente” alle RSU, di norma “almeno due settimane prima”.
Le commissioni paritetiche nell’ambito dell’informazione e consultazione
Accanto alla definizione di regole procedurali per tre “livelli” di informazione e consultazione fra azienda e RSU, nell’integrativo del ‘98 è stata pure prevista la
prosecuzione dell’esperienza delle commissioni bilaterali ereditate della precedente contrattazione Ilva. Sul tema le parti hanno chiosato sul possibile contributo proveniente dalle commissioni “in termini progettuali di analisi e ricerca di soluzioni a problemi condivisi e di comune interesse”. È stata pure evidenziata la loro strumentalità per la “prevenzione della conflittualità”. Si tratta di affermazioni che confermano la ricostruzione finora proposta circa l’intendimento fondamentale della contrattazione di Xxxxxxx – almeno standosi alle importanti tornate dell’89 e del 98 –. Da un lato si conferma la caratterizzazione delle relazioni industriali in termini pragmatici e pluralisti. La relazione di lavoro, che è relazione di potere (OKF), porta con sé dei problemi specifici (Xxxxxxx) rispetto a cui la contrattazione può costituire una possibile risposta. L’istituzionalizzazione della relazione tra le parti tramite la definizione di obblighi e termini procedurali, d’altro canto è funzionale a comporre e ordinare una dialettica altrimenti potenzialmente disaggregante (Xxxxxxxx). Più controversa invece, è stata forse la ripetizione entro l’accordo del ’98 di un principio espresso anche nell’accordo Ilva. È stato “confermato” infatti che le commissioni non avrebbero posseduto “natura negoziale”, ma soltanto “consultiva” e “di proposizione di soluzioni”. Il che senz’altro, è valso a evidenziare che le commissioni non avrebbero costituito delle sedi di realizzazione di accordi formali: di contratti di secondo livello dotati di tutti i crismi. E però (fermo questo punto) appare che il distinguo non abbia gran peso laddove a una visione strettamente contrattuale-formale del fenomeno della contrattazione, se ne associ pure una di carattere istituzionale (OKF) sulle relazioni industriali. In parole semplici, non occorre avere il contratto per riconoscere la contrattazione. E questo con maggiore evidenza quando essa è svolta secondo i termini di una procedura e obblighi reciproci, senza soluzione di continuità, in aderenza alla vitalità delle situazioni di lavoro.
Svolte queste considerazioni analitiche, si ha che nell’accordo sono state elencate cinque commissioni. Le prime due citate sembrano le prime due anche per importanza. Si tratta della commissione “O.d.L. (ndr “organizzazione del lavoro”), Formazione, Professionalità e Miglioramento continuo” e della commissione “Ambiente e sicurezza”. Questa seconda, fra l’altro, è stata l’unica per cui è stata indicata la costituzione “anche a livello locale”, cioè per singolo sito produttivo. Le altre invece sono state pensate per svolgere i propri compiti rispetto all’intero contesto aziendale. Alle due già citate, si aggiungono all’elenco le commissioni “Pari Opportunità”, “Appalti”, “Opere sociali e mensa”.
Le parti hanno anche formulato due principi volti a ispirare l’operatività delle commissioni. Si sono riferite alla “elasticità di funzionamento” e alla “efficacia dell’attività”. Questi principi sono stati sviluppati attraverso norme procedurali piuttosto rigorose. Rispetto all’elasticità di funzionamento, le parti hanno stabilito che le commissioni si sarebbero dotate di un calendario d’incontri per l’anno, di regola con cadenza trimestrale. Rispetto alla “efficacia”, è stato prescritto che al termine di ogni incontro fosse definito l’ordine del giorno e la data del successivo.
Fra le ulteriori norme dedicate alle commissioni bilaterali, paiono di rilievo le regole sulla commissione O.d.L., Formazione, Professionalità e Miglioramento continuo. Paiono di rilievo in particolare laddove le parti hanno specificato la funzione e quindi la ragion d’essere della commissione. Le sue attività sono state definite propedeutiche per le discussioni (negoziali) di area. In altre parole (per arrivare poi alla riforma di regole organizzative del lavoro) lo sforzo progettuale della commissione avrebbe consegnato una “base tecnica per il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali”. Dalla lettura dell’accordo, pare allora che il senso della funzione attribuita alla commissione, sia stato individuato nella possibilità di “rendere comuni linguaggi e metodi”. La visione cioè, è stata che la commissione potesse contribuire alla coerenza e alla omogeneità metodologica dei processi di riforma organizzativa. Il che – si aggiunge – avrebbe anche consentito di far maturare una specifica professionalità per le relazioni industriali in seno alla commissione. Sarebbe stato infatti in questa sede, che tutte le discussioni sui temi organizzativi del lavoro sarebbero state impostate. Insomma, alla base dell’istituzione dell’organo, pare anche si sia avuta come un’istanza di razionalità tecnico-sindacale per l’impostazione (coerente e professionale) dei processi di cambiamento del lavoro.
Assemblea
Le parti hanno stabilito degli obblighi in tema di assemblea sindacale. Secondo quanto apprezzato anche in relazione all’accordo Xxxx, pare che il senso dell’intervento normativo possa essere ritrovato nella volontà di tracciare una strada mediana. Si trattava di stabilire delle regole volte, a un tempo, a garantire l’esercizio di un diritto di partecipazione e a contenere il collegato dato di inefficienza per le produzioni e l’ambiente di lavoro. Come nell’accordo Xxxx, è stata confermata l’opzione per lo svolgimento delle assemblee a inizio o a fine turno. E però è stato pure aggiunto che le assemblee del primo e del secondo turno si svolgessero attigue. Una soluzione organizzativa utile per ridurre gli stop&go durante la giornata.
Le parti quindi hanno stabilito che presso ogni singola area, ci si sarebbe incontrati per definire delle regole puntuali sul lavoro del “personale comandato”. Con questa espressione, s’è inteso riferirsi ai lavoratori cui è richiesto di non partecipare all’assemblea sindacale insieme alla squadra di appartenenza: e ciò per potersi dedicare a specifiche attività sugli impianti durante il turno. Per garantire anche al personale comandato la partecipazione all’assemblea, di solito è disposto che sia trattato economicamente alla stregua di straordinario il sovra-orario del singolo che si sia trattenuto più a lungo per l’assemblea del turno successivo, o abbia fatto ingresso prima per l’assemblea del turno precedente.
Comunque, la decisione che il discorso contrattuale sulle regole riguardanti il personale comandato continuasse presso le singole aree, va anche qui ricollegata alla peculiarità dell’ambiente siderurgico e alla complessità industriale di Dalmine.
Nell’ambiente capital intensive, le interruzioni operative e produttive possono non solo comportare conseguenze per la “salvaguardia degli impianti e dei prodotti”, ma anche realizzare “effetti amplificatori dell’interruzione della produzione”. Ecco quindi la questione della proporzionalità. Le parti poi hanno preso atto che questa misura di proporzionalità non poteva essere tracciata allo stesso modo per tutti gli ambienti produttivi. Questi possiedono la loro identità tecnologica, organizzativa e di processo: quindi il giusto bilanciamento va cercato in concreto, e le regole debbono essere pensate in modo da per “aderire” al reparto interessato.
Rispetto a questa impostazione, riesce forse eterodosso il fatto che nell’accordo siano già stabilite delle regole specifiche sui comandati ad attività di lavoro durante l’assemblea per il reparto del laminatoio di FTM e per l’area di Acciaieria. Pare del resto, che la volontà di portare queste regole nell’integrativo, sia dipesa dalla delicatezza degli snodi produttivi presso questi ambienti. Laminatoio di FTM e acciaieria erano (e sono) i “cuori pulsanti” dello stabilimento di Dalmine: presso questi ambienti si determinano per ampia misura la questione dell’efficienza sugli ingenti costi dell’energia, e la questione della qualità degli acciai e della laminazione del prodotto.
La gestione del conflitto collettivo in Dalmine
Un aspetto della normativa del ’98 da evidenziare è quello che concerne il conflitto. Un paragrafo dell’accordo è stato dedicato alla procedimentalizzazione dell’esercizio del diritto di sciopero. Le parti hanno recepito gli obblighi reciproci stabiliti nell’accordo Ilva dell’89, secondo lo schema fondamentale contenuto nei protocolli Italsider di metà degli anni 80. Pare che il recepimento dell’eredità di Xxxx abbia dimostrato la capacità del sindacato in Dalmine di proseguire sulla strada precedentemente tracciata. Strada – s’è visto – caratterizzata nel segno della professionalizzazione del lavoro; della scelta del metodo contrattuale sui temi organizzativi; dell’incentivazione collettiva per la competitività dell’azienda; di relazioni industriali fortemente istituzionalizzate.
Pare che la (rinnovata) scelta in tema di procedimentalizzazione del conflitto dia il là a due considerazioni. Da un lato se la scelta non fosse stata mantenuta, sarebbe magari riuscita sbilanciata la struttura obbligatoria definita nell’accordo. Il flusso informativo avrebbe funzionato solo su un versante: quello delle notizie in ambito gestionale e organizzativo condivise dal management all’indirizzo della RSU. Sull’altro lato invece, l’impostazione contrattuale-cooperativa sarebbe rimasta inespressa. Una seconda considerazione riguarda il modo in cui il sindacato ha interpretato il proprio ruolo nel ‘98. La procedura di raffreddamento poteva forse essere avvertita come una norma caratteristica degli ambienti di lavoro Ilva. Non per questo, era scontato che non fosse messa in discussione. In verità a riguardo il sindacato ha considerato in modo particolare la propria posizione. Si è percepito abbastanza confidente da continuare a giocare sul piano dello scambio contrattuale la propria disponibilità a procedimentalizzare il conflitto.
Ha dimostrato così di non ritenere che il proprio ruolo dovesse essere immancabilmente, sistematicamente confermato dalla “prova” dello sciopero: dalla dimostrazione della propria capacità di mobilitazione. In tal senso, dalla lettura dell’accordo lo sciopero emerge come uno strumento fondamentale del sindacato: un dato ineliminabile della relazione nei confronti dell’azienda, senza l’esistenza del quale l’intero sistema tracciato riceverebbe un senso diverso, in un certo modo paternalistico e di decisione unilaterale. Come invece chiosato paradigmaticamente da Xxxx Xxxxxx, la contrattazione è soprattutto dimensione per ordinare il confronto fra poteri sociali (nota). Lo sciopero – sia anche “sospeso” da clausole di tregua o disciplinato per la sua proclamazione entro procedure specifiche – è chiave di senso per guardare a tutto quanto realizzato.
Con riguardo alle norme della procedura di raffreddamento, come anticipato, è stata confermata pienamente la precedente articolazione nata presso Italsider e affermata in Ilva. È stato perciò scritto che la procedura si applica per quelle casistiche conflittuali non riguardanti i rinnovi di contratto nazionale o di integrativo aziendale. Fra l’altro questa eccezione è sempre stata applicata pure rispetto alle mobilitazioni nazionali o territoriali non strettamente connesse al rinnovo del CCNL. Lo si può affermare in base all’osservazione della prassi. Possono infatti citarsi alcuni esempi. Fra questi: la proclamazione di otto ore di sciopero dei metalmeccanici lombardi per il giorno 25 marzo 2020 di di fronte al deflagrare dell’emergenza pandemica; oppure la proclamazione di due ore di sciopero mercoledì 12 maggio 2021, perché fosse dato un “segnale chiaro” sul tema degli infortuni mortali sul lavoro in Lombardia e in tutta Italia.
Per quanto riguarda il merito della procedura, le parti hanno continuato a stabilire (stavolta però nell’integrativo Dalmine) che prima di qualsiasi azione diretta bisognasse avanzare “richiesta formale di incontro” da svolgersi nel giro di tre giorni lavorativi o nel diverso termine concordato dalle parti. Inoltre hanno aggiunto che a seguito del primo incontro, quando concluso in senso negativo, si dovesse convocare un ulteriore tavolo di confronto: in queste occasione, le delegazioni sarebbero potute essere integrate dalle rispettive rappresentanze territoriali o nazionali. Anche per questo secondo passaggio, bisognerebbe rispettare i tre giorni lavorativi per la convocazione, o il diverso termine stabilito dalle parti. Chiaramente, il senso della procedura è contenuto nella seguente affermazione: che nel frattempo, le parti si sarebbero trattenute dall’esperimento di azioni dirette.
Di passaggio, può tentarsi un’osservazione sul tema dell’integrazione delle delegazioni in occasione del secondo incontro. Pare una scelta coerente nell’ottica della descalation. Da un lato infatti, il coinvolgimento di funzionari esterni può aiutare a ridurre il “carico relazionale” connesso al contendere. Le parti del resto conducono in azienda un rapporto continuo. Che per varie ragioni, può deteriorarsi, fino alla difficoltà di comprendere le reciproche ragioni – o meglio, fino a rendere sistematicamente più complesso il tentativo di trovare un bilanciamento fra i reciproci interessi –. In tal senso, l’aggiunta di persone “esterne” può eventualmente aiutare a ricondurre la discussione
entro un quadro di maggiore razionalità. Il che, s’intende, vale a considerare e misurare con maggiore chiarezza il dato dell’interesse collettivo: non già a disconoscerlo. In seconda battuta, non può non osservarsi che soprattutto sul lato del sindacato dei lavoratori, l’intervento dei funzionari esterni può servire a integrare l’approccio politico- sindacale alla questione del contendere, stabilendo le condizioni per aversi un maggiore equilibrio rispetto all’impostazione generale delle organizzazioni.
Comunque, in tema di sciopero e conflitto le regole obbligatorie non cessano con la definizione della procedura di raffreddamento. È stata anche definita la modalità con cui si deve proclamare lo sciopero. Occorre a riguardo che l’astensione dal lavoro sia proclamata con congruo preavviso, “correlato alle caratteristiche della struttura produttiva” e “comunque non inferiore a 48 ore”. È stato inoltre ripresa la “norma programmatica” dell’89, rispetto alla definizione in aderenza ai singoli impianti, di opportune “modalità di minimizzazione” laddove le “astensioni dal lavoro comportino inevitabili amplificazioni”. S’è detto anche in precedenza, che probabilmente questa norma intesa a promuovere la contrattazione sui temi del conflitto, invece che costituire un minus per il sindacato, può aiutare a realizzare un quadro fair di relazioni industriali, nell’ottica sia dello scambio fra le parti, che della preservazione dell’integrità degli ambienti e della capacità produttiva
Il tempo di lavoro
L’accordo del ’98 ha costituito un strumento organizzativo fondamentale sul “tempo di lavoro”. Questa affermazione è giustificata innanzitutto dall’ampio numero di istituti in materia; quindi, dal rilievo che questi hanno assunto per la regolazione di numerosissimi aspetti. Occorre però una precisazione: il tempo delle prestazioni trattato è quello delle aree operative e del lavoro operativo. E proprio rispetto a questo vale una premessa. Il ragionamento sullo sfondo dei vari istituti è che la direzione e il controllo rigoroso sul lavoro operativo sia valore organizzativo. Questa premessa senz’altro non diminuirà la valutazione sulla complessità e la consistenza delle soluzioni contrattuali trovate dalle parti. E tuttavia, non può nascondersi che l’idea di tempo del lavoro operativo che si trae dalla lettura dell’accordo, risponde a logiche di coordinamento rigoroso e forte flessibilità funzionale secondo le esigenze della produzione. Xxxxx accennare che nel testo del 98 è stato introdotto un meccanismo incentivante sulla “continuità produttiva”, per premiare il rispetto degli orari di lavoro insieme al regolare funzionamento degli impianti. Ma altri esempi sono offerti dalla puntuale regolazione organizzativa delle prestazioni di ripartenza dopo le fermate produttive, o ancora dalle norme in materia di regimi di quarta squadra.
Gli istituti sul tempo di lavoro che si stanno per approfondire hanno inoltre mostrato la centralità del tema del “collettivo”. Il tempo di lavoro assurge nell’accordo a termine di senso complesso. Se ne si studia la regolazione, pare di potersi ricavare un’idea sulla
visione organizzativa espressa contrattualmente. La dimensione “collettiva” allora sembra riferirsi: sia all’interesse per l’efficienza insito nella specifica realtà industriale e tecnologica dell’azienda; sia a quelle soluzioni di relazioni industriali realizzate nel segno (anche) di equità e partecipazione. Lo studio dell’accordo mostra insomma due “facce” della questione, l’una legata all’altra. Appunto, in altre parole: da un lato l’interesse dell’impresa a che le regole sul tempo di lavoro operativo consentano di aversi a disposizione professionalità “collettive” per il coordinamento in un dato tempo, in un dato luogo, in relazione a dati obiettivi; dall’altro lato, la funzione della contrattazione perché si abbiano delle “regole del gioco”, nel rispetto delle quali svolgere l’etero-direzione.
Ulteriori riflessioni su tempo di lavoro e relazioni di lavoro
Il primo citato aspetto della dimensione collettiva del tempo di lavoro operativo, dipende dal convincimento che per fare tubi perseguendo efficienza, qualità e sicurezza, è necessario che le prestazioni siano indirizzate con rigore rispetto al quando. Senz’altro questa affermazione soffrirà di margini di critica, nella misura in cui la si consideri risentire di una specifica cultura datoriale: quella secondo cui lo stretto controllo sul quando delle prestazioni operative è valore organizzativo. E però allo stesso modo, sembra difficilmente controvertibile il fatto che l’attuale realtà degli impianti siderurgici pone delle questioni problematiche rispetto al presidio costate e professionale dei luoghi di lavoro, sia per ragioni di produzione che di salute e sicurezza.
A questi ragionamenti si aggiunge il secondo aspetto della questione su tempo del lavoro operativo e dimensione collettiva: quello riguardo il contributo della contrattazione per definire le “regole del gioco”. Aiuta qui il richiamo ad alcune idee emerse nella literature review: in particolare la lezione di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx. S’è detto, che lo studio di Xxxxxxxxxx ha consentito di fondare un percorso teorico grazie a cui indagare il tema della subordinazione al lavoro valorizzando sistemicamente l’esperienza della contrattazione collettiva. Secondo l’autore, le relazioni industriali costituirebbero la peculiare dimensione partecipativa in forza di cui riguadagnare al rapporto individuale adeguati termini di bilanciamento. Insomma, organizzazione sindacale e diritto di sciopero consentirebbero di avere regolazioni equilibrate. E per tale strada e con tali risultati si troverebbe espressa una democrazia industriale. Portando questo ragionamento in là, si vuole dire che la contrattazione aziendale può costituire la sede appropriata per tracciare correttamente uno scambio. Da un lato, nella norma contrattuale è sancita l’aspettativa a che il singolo dipendente sia efficacemente coordinato all’interno di un complesso organizzativo. Così il contratto collettivo diviene contratto di organizzazione. Dall’altro, ci sono il recupero di partecipazione insito nella stessa pratica di contrattazione, oltre che il dato del miglior favore che caratterizza il trattamento economico e normativo nel complesso contrattuale (dato, sia pure, da apprezzare con prudenza). Preso lo spunto da queste suggestioni, per introdurre le norme contrattuali del 98 sul tempo di lavoro, non
pare scorretto dire che tramite la contrattazione sia possibile ottenere un framework normativo presuntivamente proporzionato. E che in tal modo si giochi il secondo livello di significato dell’incontro fra dimensione collettiva e del lavoro e termini del lavoro operativo.
Queste considerazioni, peraltro, saranno ulteriormente approfondite infra anche provando a guadagnarsi maggiore solidità sul lato civilistico grazie all’utilizzo pure del sostegno teorico offerto da Xxxxxxx Xxxxxxx con la sua relazione (studiata in literature review) su autonomia collettiva e clausole generali.
La “continuità produttiva”
Il primo istituto in analisi è denominato della “continuità produttiva”. È un premio volto a incentivare comportamenti necessari per la “continuità dell’attività produttiva sui turni e il rispetto dell’orario giornaliero di lavoro”. Gli aspetti di efficienza evidenziati dalle parti riguardano la corretta gestione dei cambi turni (“senza interruzioni”), il rispetto in generale dell’orario nonché lo svolgimento entro i termini contrattuali della pausa mensa. A condizione che i descritti aspetti di efficienza siano curati dagli operatori, è quindi stata prevista l’erogazione di un premio “a livello di specifica area produttiva”. Una nota interessante inserita nel testo contrattuale, ha previsto che “(a) fronte dei risultati positivi” non sarebbero stati messi in funzione “orologi timbratura di reparto”. Poiché fra l’altro i “risultati positivi” sono arrivati, dal finire degli anni 90 in poi gli operatori hanno registrato la propria presenza a lavoro in prossimità degli spogliatoi o, in alternativa e a seconda dei casi, al momento dell’ingresso nello stabilimento. Così il controllo sull’esatto rispetto dell’orario s’è fatto in un certo modo più flessibile; inoltre è stata incentivata la collaborazione fra gli operatori per il c.d. cambio a vista. Fra l’altro il valore del premio, qualora fossero stati raggiunti gli obiettivi prestabiliti dagli operatori, è stato deciso confluisse nel PQP a partire dal 2001.
In sintesi, sul lato dei lavoratori il premio sulla continuità produttiva ha significato un aumento economico, dove la logica dell’incentivazione ha guadagnato spazio su quella tradizionale e non condivisa della sanzione. Sul lato dell’azienda, nel contesto sinallagmatico del contratto collettivo, si ha che è stato introdotto un meccanismo incentivante nell’ottica dell’efficienza. Senza contare che (grazie alla continuità produttive) sono state superate alcune annose discussioni in tema di “tempo tuta”.
La minimizzazione delle perdite produttive
Segue alle disposizioni sulla continuità produttiva, un paragrafo dedicato ai modi con cui minimizzare l’inefficienza a seguito di fermate della produzione, oppure a conclusione dei cicli produttivi. Questo paragrafo contiene regole speciali sugli impianti di acciaieria e del laminatoio di FTM. Queste regole sono state presentate come delle
esemplificazioni, sulle strade percorribili per minimizzare le perdite produttive in tutti i reparti di Dalmine. In verità, che in sede di integrativo ci si occupasse di stabilire dei punti di sintesi con riguardo ai due impianti citati è facilmente spiegabile. È dipeso dalla posizione da questi occupata all’interno dei processi produttivi svolti da Dalmine, oltre che dal loro carattere estremamente “energivoro”, tale da rendere centralissimo il tema del controllo dei costi e della minimizzazione dell’inefficienza. Insomma, le parti hanno colto occasione sia per stabilire delle regole con riguardo ad acciaieria e laminatoio di FTM, sia per esemplificare delle modalità di gestione applicabili, mutatis mutandis, dalla contrattazione in tutta la fabbrica.
Sul tema delle “ripartenze dopo la fermata domenicale”, è stato disposto per il Laminatoio che nel turno precedente a quello della ripartenza (in seguito si sarebbe detto: nel “turno di montaggio”) fossero presenti un certo numero di operatori. Questi si sarebbero occupati della messa in opera delle attrezzature e dei settaggi occorrenti alla ripartenza. Avrebbero poi goduto nel xxxxx xxxxx xxxxxxxxx xx xxxxxx compensativi. Il loro numero sarebbe stato quello “necessario” secondo “prassi da verificare in area”. Per l’acciaieria invece (ecco il secondo schema di gestione della ripartenza post-domenicale) è stato prevista la possibilità che un numero “adeguato e definito” di persone facessero ingresso anticipato di “massimo due ore” nell’area. Inoltre, è stato disposto che queste due ore fossero trattate sotto ogni aspetto secondo le condizioni normative delle prestazioni straordinarie.
Sul tema delle ripartenze dopo le fermate infrasettimanali, il dato da rilevare non consiste nell’individuazione di ulteriori e peculiari modalità di gestione. Per l’acciaieria ad esempio, sono state semplicemente confermate le regole viste per la casistica di ripartenza post-domenicale. Piuttosto, quel che colpisce l’occhio dell’interprete è il riconoscimento nel testo dell’integrativo aziendale della “agibilità” o “lavorabilità” di alcuni specifici giorni festivi nell’anno. In base alle espressioni usate, peraltro, pare che le parti abbiano fatto riferimento a un dato già acquisito nel contesto di relazioni industriali Xxxxxxx. Pare cioè che abbiano soltanto ribadito un elemento del complesso gioco di scambio nel sistema-Dalmine, senza che il passaggio testuale introducesse un consistente cambiamento rispetto alla realtà contrattuale di allora.
Fra l’altro come noto, il riconoscimento in sede contrattuale collettiva della “lavorabilità” di alcuni specifici giorni festivi, non comporta di per sé il venir meno per il singolo lavoratore del diritto di astenersi dal lavoro nella festività. Sul tema s’è pronunciata a più riprese la giurisprudenza (87). La quale ha precisato che il diritto di astensione è sì disponibile ma su base individuale; che la rappresentanza sindacale potrà impegnare i singoli solo qualora abbia ricevuto pertinente e specifico mandato. Queste considerazioni sollecitano il ragionamento sul perché del passaggio contrattuale sull’agibilità dei giorni festivi. Un passaggio del resto, quasi “nascosto” nel testo
87 Fra le altre, si citi la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 18887 del 15 luglio 2019.
contrattuale, “imbevuto” fra le disposizioni sull’organizzazione del lavoro nei casi di ripartenza degli impianti. Il riconoscimento delle parti sembra aver confermato che il lavoro festivo in Xxxxxxx è un’evenienza accettata dal sindacato. Che a riguardo sono stati definiti dei termini di scambio. Che se anche poi “l’ultima parola” sta all’individuo, nel gioco sistemico della contrattazione aziendale il lavoro festivo ha “diritto di cittadinanza” e ragion d’essere.
Il paragrafo intitolato “minimizzazione delle perdite produttive” si conclude con alcune righe sul “fine ciclo settimanale”. Righe cioè, dedicate all’organizzazione del lavoro prima dello stop del fine settimana (o della festività infrasettimanale). A riguardo del resto, negli impianti più complessi, lo spegnimento di un forno o la messa in ordine delle attrezzature chiedono diverse ore: si parla perciò anche di “turni di smontaggio”. L’indicazione del testo del 98 sul fine ciclo è consistita nel prescrivere la presenza dello “stretto numero di presenze indispensabili”. Un passaggio che con ogni evidenza, ha implicato il prosieguo del discorso contrattuale a livello di area. Giacché ogni reparto ha caratteristiche tecnologiche e di processo differenti e cambiando le esigenze del lavoro, variano pure l’ampiezza e lo stesso concetto di “presenze indispensabili”. Svolte queste considerazioni tuttavia, rimane da osservare che la disposizione in parola di per sé ha poco a vedere con la rubrica del paragrafo: “minimizzazione delle perdite produttive”. Piuttosto sembra essere stata giustificata da un’istanza di efficienza connessa al controllo dei costi di manodopera.
Flessibilità della turnistica
Il paragrafo sulla “flessibilità della turnistica” rappresenta uno dei cuori pulsanti del contratto del 98. La sua centralità organizzativa è resa evidente dalla prima riga. Dove è stata affermata la “piena esigibilità aziendale di tutte le turnistiche settimanali richieste su qualsiasi impianto, anche per le giornate di sabato e domenica”. Si tratta di una vera norma-perno. La quale obbliga tutti i lavoratori della Dalmine al rispetto degli schemi del lavoro per turni, in accordo alle concrete esigenze di processo e produzione. Chiaramente il potere aziendale a riguardo deve obbedire alle clausole generali di “correttezza” e “buonafede”. Ma per riprendere delle idee inserite in Literature review, proprio il rispetto dei termini contrattuali collettivi stabiliti fra azienda e sindacato in tema di giusta remunerazione e osservanza del sistema obbligatorio di informazione e consultazione, pare servire a concretizzare le clausole generali citate (88). La esigibilità di ogni regime di turnistica, quindi, sarebbe piena nell’ambito del sistema di relazioni industriali della Dalmine. Questa affermazione avrebbe sia consistenza sindacale, nel senso che il
88 X. XXXXXXX, Autonomia collettiva e clausole generali, relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Roma, 29-30 maggio 2014. Particolarmente paradigmatico è il passaggio a pagina 32 della relazione, dove si dice: “(…) rispetto ai possibili dati ricavabili dalla realtà sociale che permettono la concretizzazione della clausola generale, il contratto collettivo costituisce la sede in cui le generiche indicazioni del legislatore vengono tradotte in contenuti specifici che presentano particolare attendibilità”.
mancato rispetto degli obblighi reciproci sarebbe innanzitutto sanzionato dall’azione collettiva; sia avrebbe consistenza civilistica, o del diritto dei privati, in base all’apertura di senso proposta e perciò al buon esercizio del potere organizzativo.
Riprendendo il filo del testo del 98, si legge innanzitutto che sono state disposte specifiche indennità per il lavoro a turni prestato di sabato o domenica. L’ammontare più alto è stato riconosciuto per il secondo turno della domenica: considerato il più “impattante” sui bisogni famigliari, le pratiche comunitarie e gli interessi ricreativi dei dipendenti.
Riguardo il lavoro per turni, è stato poi aggiunto che “(d)i norma l’orario (…) decorre dalle ore 6.00 del lunedì” e che “eventuali variazioni” sarebbero dovute “essere convenute fra le parti”. Molto probabilmente queste disposizioni hanno recepito una pratica maturata negli anni: una pratica che s’è attestata sui profili 6-14, 14-22, 22-6, tanto solida da richiedere un accordo per ogni discostamento. Il passaggio del contratto in parola, del resto, è opportunità ulteriore per ribadire quanto il tema dell’orario di lavoro sia cruciale per gli operatori. L’orario influenza i loro ritmi di vita, le loro scelte famigliari, la possibilità di organizzarsi. In tal senso regolarità della cadenza dei turni e condivisione di aspetti quali il profilo applicato, contribuiscono a introdurre elementi di equilibrio nella relazione, rendendo più “leggero” il vincolo obbligatorio connesso all’orario – un vincolo imposto alla libertà personale in base alle esigenze di lavoro per turni –. Nel sistema di relazioni di Xxxxxxx, non è allora “normale” che i profili orari siano cambiati senza che sia svolto un intenso confronto con la RSU oltre, magari, agli operatori turnisti individualmente interessati (89).
Sempre nel paragrafo sulla “flessibilità della turnistica” le parti hanno stabilito una riduzione d’orario per le persone impegnate in regimi di quarta squadra. Come noto, questi regimi consistono in schemi organizzativi utili a distribuire il lavoro per sette giorni la settimana e tre turni al giorno, puntando sull’impiego di quattro squadre che ruotano in alternanza. È così possibile avere lavorati fino a 21 turni dal lunedì alla domenica (o dal diverso giorno individuato per l’inizio della settimana). I regimi di quarta squadra in Dalmine, costituiscono la modalità organizzativa grazie a cui sono sostenuti cicli di lavoro continuo. E ciò senza che le persone debbano di norma trattenersi oltre la soglia
89 A riprova della peculiare delicatezza della questione trattata, potrebbe citarsi l’esperienza avuta durante l’emergenza pandemica. Con il Protocollo aziendale anti-contagio del 6 maggio 2020 (poi aggiornato lo stesso giorno dell’anno seguente) sindacato e azienda hanno affermato (punto 5., lett. d)) che sarebbero state “favorite” le revisioni degli orari di inizio turno, intese a ridurre l’eventualità di assembramenti. Questa possibilità è stata quindi usata soprattutto per ridurre la compresenza nei medesimi locali di spogliatoio, di squadre appartenenti a reparti diversi. Un esempio significativo è stato offerto dai lavoratori dei reparti di Linea Veloce – FAS e OCTG2. Questi lavoratori sono stati coinvolti nell’alternanza dei profili orari 6-14 e 7-15 ogni quattro settimane. Ebbene, l’esperienza di gestione ha mostrato l’insorgere di un diffuso malcontento rispetto al cambio dei profili orari. E ciò nonostante la fondamentale accettazione delle ragioni alla base dell’accorgimento; nonostante poi la condivisione con la RSU di ogni passo sulla questione. Come riportato dalla RSU FAS negli incontri di area, il malcontento ha riguardato il prolungamento verso mattina del turno notturno (terminante alle sette e non alle sei) e più in generale l’interferenza con dinamiche famigliari consolidate, circa il governo degli impegni e l’accudimento dei figli.
quotidiana delle otto ore. Sul tema dei giorni di riposo poi, per garantirne il godimento e assicurarne la cadenza prevedibile, sono previsti dei meccanismi “a scalare”. Ad esempio, un regime a 21 turni prevede quattro turni notturni seguiti da due giorni di riposo; quindi quattro turni pomeridiani e un giorno di riposo; infine quattro primi turni e un giorno di riposo. Fra l’altro, perché le persone inserite nei 21 turni godano dello stesso numero di riposi dei loro colleghi di altri reparti, è prevista l’assegnazione di giorni di riposo “compensativi”, ulteriori rispetto a quelli citati, da pianificarsi a calendario a cura dei responsabili di reparto.
In aggiunta ai meccanismi esaminati, volti a far funzionare i regimi di quarta squadra nel rispetto di alcuni principi organizzativi (continuità della presenza sui reparti, prevedibilità delle cadenze della turnistica, normale fruizione dei riposi…) nel 98 le parti hanno contrattato una norma in favore degli operatori interessati. È infatti stato deciso che alle persone inserite nei sistemi a 19 turni, fossero attribuite annualmente ulteriori 16 ore di riposo di cui poter fruire; 48 ore nel caso di sistemi a 20 turni; 64 ore per quelli a 21 turni. Pare che la logica alla base di questa norma contrattuale, sia consistita nel compensare il disagio connesso alla turnazione. Turnazione la quale, senz’altro, richiede una particolare disponibilità nei confronti delle esigenze produttive e di processo.
L’indennità variazione turni
Il paragrafo sulla “flessibilità della turnistica” è chiuso da una previsione che, a dispetto della sua “semplicità”, forse vale da norma di sistema nel quadro delle disposizioni su orario e organizzazione del lavoro in Dalmine. Pare che questa affermazione possa fondarsi sia sull’importanza della norma per l’attuale pratica delle relazioni collettive di lavoro, sia sulla sua attitudine a farsi cifra, paradigma dell’intera impostazione contrattuale sul tempo di lavoro. La norma riguarda la c.d. “indennità variazione turni”. È stata prevista la corresponsione di una certa cifra di denaro per le persone coinvolte in particolari cambiamenti della turnistica. Il termine di ragionamento rispetto a cui misurare questi cambiamenti, è stato individuato nelle comunicazioni fatte al sindacato sulla marcia degli impianti, all’interno degli incontri di informazione e consultazione disegnati nella parte obbligatoria del contratto.
Alla luce di questi elementi, sembra di poter così riassumere gli aspetti della questione. Da un lato, si ha la pianificazione delle turnistiche ispirata a logiche di efficienza. Dall’altro si ha la partecipazione sancita nel contratto collettivo: la rappresentanza sindacale riceve informazioni, differenti in dettagli e scopo a seconda della sede dell’incontro: ad esempio, i turni da seguire in concreto in un certo reparto, devono essere comunicati di norma su base mensile alla RSU d’area, cioè nella sede del sistema informativo maggiormente “vicina” allo shop-floor. Il sistema così disegnato salvaguarda allora l’istanza di efficienza. E però, al contempo, ai lavoratori è fatto “subire” meno l’andamento della turnistica: e ciò grazie alla ricezione per tempo di notizie, alla
conseguente possibilità di gestire i propri impegni personali, alla chance in generale di avere monitorate le fasi storiche vissute dalla fabbrica. Questo meccanismo pare una sorta di empowerment collettivo collegato all’informazione e alla consultazione sindacali (sia pure non a forme partecipative ancora più penetranti, quali la cogestione in fatto di turnazioni).
Nel contesto di questa importante infrastruttura obbligatoria, è stato quindi aggiunto che di fronte al realizzarsi di particolari condizioni, fosse corrisposta al lavoratore (anche su base individuale) un’apposita indennità. Il che sarebbe avvenuto nel caso in cui il programma operativo comunicato al sindacato, desse origine per il singolo a cambiamenti sulla sequenza dei turni o sul giorno per godere del riposo. Ancora, sarebbe avvenuto qualora fosse intervenuta una variazione rispetto a quanto condiviso nell’apposito processo informativo sindacale. Nel tempo, la vitalità dell’istituto dell’indennità variazione turni è stata comprovata: dagli adeguamenti al rialzo della voce economica da corrispondere; dai ripetuti interventi di riforma delle regole. Questi interventi, del resto, sono stati in generale ispirati dall’istanza del sindacato di ampliare le possibilità di erogazione dell’indennità.
Questa, infine, ha fornito un chiaro esempio nella storia della contrattazione di Xxxxxxx, di come la leva retributiva sia servita per bilanciare il sistema di relazioni industriali, offrendo elementi di scambio per compensare il disagio e la maggiore disponibilità offerti dagli operatori. In tal senso, l’indennità variazione turni ha probabilmente sintetizzato l’esigenza di avere un punto di caduta condiviso per i casi di “stress” del sistema relazionistico.
Per il miglioramento del sistema manutentivo
Fra gli istituti contrattuali dedicati all’orario di lavoro, è stata collocata una disposizione con a rubrica la dicitura: “per il miglioramento del sistema manutentivo”. Nel testo è stato fatto riferimento all’implementazione del “Progetto organizzativo di manutenzione” (progetto di cui, in certa parte, è stato dato conto nelle pagine sull’accordo Ilva). In questa sede le parti hanno richiamato le strutture dei “Gruppi base” di manutenzione. I Gruppi base sono squadre di manutentori impegnati in attività di “riparazione programmata”, “per migliorare significativamente l’affidabilità e qualità della prestazione degli impianti”. I Gruppi base, a differenza delle squadre di manutenzione d’emergenza, non sono stati pensati per garantire il permanente presidio degli impianti. Piuttosto essi sono venuti a costituire “cellule” specializzate, ingaggiate su ispezioni, progetti e interventi mirati. Per la natura del loro lavoro, le parti hanno fin dal 98 preso atto che è loro richiesta una “strutturale variabilità della propria turnistica”. Ed è per questa ragione, che nel paragrafo in analisi è stata prevista in loro favore un’indennità mensile. Questa indennità sarebbe stata pagata a prescindere da ogni verifica sulla contingente “variazione” di turnistica per la persona. È stato insomma stabilito un
aumento retributivo in forma fissa, in accordo alla specificità del lavoro manutentivo. Per i Gruppi base di manutenzione del resto, sarebbe stato difficilissimo argomentare circa la fattibilità di un collegamento di senso tra istituti della retribuzione e dell’orario di lavoro e parte obbligatoria del contratto (come nel caso dell’indennità variazione turni). In materia di manutenzione, ogni rigida pianificazione avrebbe poi nel concreto dovuto soffrire di importanti margini di scarsa effettività.
Per la flessibilità annuale e pluriennale dell’orario di lavoro
La lettura del contratto del 98 conduce quindi verso un paragrafo estremamente significativo e articolato. Sotto la rubrica: “(p)er la flessibilità annuale e pluriennale dell’orario di lavoro” le parti si sono impegnate nel tracciare un accurato schema di regole. È stato implementato uno strumento di Banca ore. A un primo sguardo, risalta la precisione delle disposizioni nel paragrafo. Pare di potersene cogliere soprattutto il carattere immediatamente operativo: l’ambizione a queste sottostante, a che fosse fornita una risorsa organizzativa fruttuosa. Non a caso, nel paragrafo in esame le parti hanno fin da subito specificato gli obiettivi perseguiti. È possibile leggere l’istanza per lo “avvicinamento tendenziale tra l’orario di fatto e l’orario contrattuale”; e poi il conferimento tramite la mediazione contrattuale e le soluzioni condivise, di dosi strutturali di flessibilità all’orario di lavoro, per la gestione ordinata degli andamenti dei carichi impianto. Ancora, le parti hanno fatto riferimento alla migliore “programmazione” di organici e professionalità, oltre alla “programmazione” più efficiente, da parte dei singoli, della fruizione dei propri istituti di riposo. Se tra i vari obiettivi dichiarati si tenta di ricavare un unico disegno finale, questo probabilmente sta nel dotare l’orario di lavoro annuale e anche pluriennale, di maggiore organizzazione intrinseca. Nel contratto collettivo cioè, le parti hanno provato a diminuire i margini di aleatorietà nella gestione del tempo di lavoro e di riposo nel corso dell’anno, senza tuttavia che tale intento si traducesse in un impianto troppo rigido, inadatto a “vestire” in modo flessibile gli andamenti ciclici e la discontinuità nell’intensità dei carichi di lavoro e delle marce impianto. In tal senso, lo strumento della Banca ore ha costituito un espediente tecnico, una forma con cui ordinare la fruizione sociale dei riposi e dotare l’orario annuale e pluriennale di elementi di flessibilità e razionalità. Invero, lo strumento dev’essersi rivelato soddisfacente per le parti: è tutt’oggi in vigore, e anzi è stato ampliato di ulteriori previsioni.
La Banca Ore è stata suddivisa nel 98 in tre Conti ore “con diversi criteri e regole di funzionamento”. È stato dapprima regolato il “Conto A”. Subito ne è stata precisata la fruizione “certa e programmata” (caratteristica che lo contraddistingue). Il Conto A è composto da “20 giorni di ferie contrattuali” e 10 giorni di “RP (riduzione di orario contrattuale programmato)”. Questa distinzione nominale fra istituti di riposo – come risaputo – affonda le proprie radici nella storia italiana del diritto del lavoro e delle
relazioni industriali degli ultimi decenni. In particolare, ci si riferisce all’evoluzione delle norme di settore per il lavoro dipendente verso gli attuali regimi normali di settimana lavorativa. Per la fruizione, dunque, delle ore di ferie e di RP componenti il Conto A (fruizione, si rammenti, “certa e programmata”) è stato proposto il seguente schema. 40 ore sarebbero dovute essere usate per gestire la fermata annuale degli impianti. 80 ore sarebbero dovute servire per l’utilizzo su settimane intere “nel periodo estivo / autunnale”. 80 ore sarebbero dovute essere godute per giorni singoli, secondo una programmazione proposta dal lavoratore in sede di reparto “con cadenza mensile escluso luglio e agosto”.
40 ore sarebbero state fruibili per esigenze personali, secondo distribuzione “da concordare col (…) superiore con congruo anticipo”.
Una nota molto significativa sul Conto A può essere spesa sulle 80 ore (o 10 giorni) da usare per giorni singoli a cadenza mensile. Ebbene, questa norma nel tempo ha formato
– soprattutto nei periodi di forte contrazione dei carichi di lavoro, una volta esauriti gli istituti di riposo degli anni precedenti – una copertura contrattuale per richiedere l’utilizzo di un giorno di RP sul mese (esclusi luglio e agosto) all’indirizzo dei dipendenti (90). Si tratta di un esempio emblematico del carattere di resilienza della regolazione del 98, in grado non solo di rimanere nel tempo, ma pure di farsi insieme strumento giuridico e dato di relazioni industriali per l’ordinata gestione di numerose contingenze problematiche.
Dopo il Conto A, le parti hanno brevemente normato il Conto B. È stato deciso che questo fosse composto da 32 ore di ex-festività (anche qui, evidentemente, è possibile ritrovare il dato dell’evoluzione storico-giuridica degli istituti di riposo) e dalle 20 ore di ferie non già inserite nel Conto A. Le parti, inoltre, hanno specificato le modalità di fruizione del Conto B. Sarebbe innanzitutto dovuto essere esaurito il Conto A. Quindi i dipendenti avrebbero potuto attingervisi in base alle proprie esigenze personali, e a fronte di comunicazione e accordo condivisi con congruo anticipo col proprio responsabile.
A seguito del breve passaggio normativo sul Conto B, è stato regolato l’ultimo conto previsto nel 98: il Conto C (91). Questo è stato pensato per essere “il principale strumento che consente la flessibilità dell’orario annuale in relazione alle esigenze di utilizzo degli impianti”. Al di là peraltro del riferimento ai “giorni di ferie extra contrattuali (…) spettanti (…) ai dipendenti assunti prima del maggio ‘89” o della “festività del S. Patrono accantonata”, il rilievo di sistema riconosciuto al Conto C pare sia stato insito nelle disposizioni in tema di prestazioni straordinarie e accantonamento
90 In tema di regole ordinarie sull’utilizzo delle ferie, e con particolare riguardo alla possibilità per il datore di lavoro di organizzare piani di smaltimento (questione fortissimamente sentita nelle aziende), basti rimandare all’aggiornato stato dell’arte collocato all’inizio seguente articolo: X. XXXXXXXXXXX, Sulla promozione delle ferie e dei congedi ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. e) del DPCM dell’8 marzo 2020 dopo l’entrata in vigore del Decreto “Cura Italia”, in Bollettino speciale ADAPT 18 marzo 2020, n. 3.
91 Peraltro, è interessante fin da ora premettere che successivamente – e più di preciso nel 2014 con l’accordo del 14 giugno – il sistema della Banca ore è stato arricchito di un’ulteriore Conto. Questo – “Conto D”, evidentemente – sarebbe servito a sviluppare ulteriormente l’elemento di flessibilità dell’orario annuale e pluriennale di lavoro, e ciò in base a regole e meccanismi riferibili ai sistemi di orario multi- periodalo o plurisettimanale.
ore. È stato infatti disposto che le ore di straordinario svolte oltre una certa soglia – diversa per operai e impiegati, oltre che progressivamente diminuita negli anni ‘99, 2000 e 2001
– sarebbero state non già liquidate nella loro componente “ordinaria”, ma accantonate come ore di riposo possibilmente utilizzabili. A mo’ di esempio, si dica che a partire dall’anno 2001, le ore di straordinario prestate da un operaio oltre le 32 su base annua, sarebbero state retribuite nel mese di competenza soltanto rispetto alla maggiorazione. Al contempo, detto operaio avrebbe però accumulato ore di riposo, eventualmente utilizzabili in fasi di contrazione dei carichi di lavoro. È proprio in questo passaggio, del resto, che pare annidarsi quel carattere di flessibilità riconosciuto dalle parti al Conto C al principio della sua regolazione. È interessante fra l’altro, che le parti abbiano previsto che in caso di mancato utilizzo delle ore accantonate in Conto C, all’interno di incontri periodici da tenersi in gennaio e giugno sarebbero state valutate le opportunità di smaltimento, in linea con l’andamento delle produzioni o secondo termini di fruizione individuale. In ultima battuta e in modo interessante, le parti hanno quindi precisato che qualora fosse riuscita ostacolata la programmazione del godimento delle spettanze del Conto C oltre i due anni dalla prima verifica sul possibile smaltimento, sarebbero stati approfonditi in sede congiunta aspetti quali l’adeguatezza di organici e strutture. Si tratta di un dato di particolare interesse. Esso infatti pare che denoti la consapevolezza che l’accumulo di ore in Conto C e la difficoltà che queste siano smaltite per tempi prolungati, possono costituire segnali di sofferenza dell’organizzazione: sia perché mancano alcune professionalità in numero sufficiente, sia perché il ricorso al lavoro straordinario è fin troppo frequente, sia perché intere squadre debbano essere rafforzate in base alle specificità del lavoro e alla fase industriale vissuta dal reparto.
La regolazione sulla Banca ore qui riportata si conclude (a parte alcune disposizioni di deroga per impiegati e lavoratori dell’Acciaieria) con una soluzione – se si vuole – di relazioni industriali. È stato previsto infatti, che a fronte di “eventi di comprovata ed eccezionale portata, sia individuali (…) che aziendali (…)” le parti si sarebbero incontrate per esaminare modalità condivise “dell’utilizzo dei 3 conti (…) in osservanza delle normative vigenti”. È questa una norma, evidentemente, con cui al sistema di Banca Ore è stato conferita come una valvola di sfogo. In circostanze a sé stanti ed eccezionali, la contrattazione sindacale sarebbe istituzionalmente stata in grado di percorrere soluzioni appropriate e puntuali, senza perciò che fosse messo in dubbio in tempi ordinari il funzionamento differenziato dei vari Conti Ore.
Cenni sui sistemi premianti
L’impostazione sottostante a questi paragrafi è stata diretta a evidenziare le ragioni per identificare nel contratto collettivo del 98 un turning point per la storia contrattuale di Dalmine. In effetti, pare che le considerazioni svolte sulla parte obbligatoria del contratto e sugli istituti economici e normativi relativi al tempo di lavoro siano state
significative. Non per nulla, nonostante negli anni si siano registrati vari interventi di riforma e modifica (si pensi all’accennata introduzione di un Conto D nel sistema della Banca ore), l’impianto del 98 su queste tematiche è rimasto.
Senz’altro anche i sistemi premianti stabiliti allora hanno dimostrato un certo grado di resilienza nel tempo. Eppure invece che considerarli in dettaglio (del resto, essi hanno soprattutto ricevuto e rilanciato la tradizione contrattuale inaugurata dell’accordo Ilva sul tema) pare più opportuno rievocarne la ragione sistemica nella complessa impalcatura normativa del 98. Il “Premio della qualità e produttività del processo produttivo (PQP)”, il “Premio di redditività aziendale (PRA)”, il “Premio sulla professionalità espressa” (di cui si dirà meglio infra), il “Premio formazione” e il “Premio assiduità” rispondono a fondamentali logiche di incentivazione e redistribuzione. Da un lato le parti hanno acconsentito a stabilire meccanismi premiali volti a indirizzare i comportamenti verso obiettivi funzionali al disegno d’impresa (il miglioramento dei risultati qualitativi e degli indici di utilizzo delle macchine, la professionalizzazione crescente del lavoro, la riduzione dell’assenteismo…). Dall’altro lato a fronte della forza industriale dell’azienda e considerata la sua redditività, ha pure giocato un certo ruolo un’istanza rivendicativa tesa alla ridistribuzione di quanto ottenuto grazie al contributo decisivo del lavoro collettivo.
Entrambe le ispirazioni d’incentivazione e di redistribuzione stanno poi nel gioco di scambio realizzato col contratto, tale che non si potrebbe, ad esempio, comprendere fino in fondo la disponibilità a elaborare un sistema per la fruizione “certa e programmata” degli istituti di riposo se dall’altra parte, non si tenesse in dovuto conto dell’istituzione di un premio per la riduzione dei fenomeni di micro-assenteismo (Premio assiduità). Senz’altro, la possibilità di mettere in correlazione istituti contrattuali differenti, i quali si trovano in parti del contratto differenti, non segue necessariamente criteri di chiara e piena “omogeneità tematica”. Ad esempio, l’affermazione circa l’esigibilità di tutte le turnistiche e l’esigibilità del lavoro il sabato e la domenica, può certo aver fatto da uno fra i termini di scambio rispetto all’adozione di un ampio e ricco sistema premiante riguardo i risultati di qualità e produttività.
Quello comunque si vuole evidenziare, è che i premi collettivi hanno essi stessi consistenza in senso “organizzativistico”. Nel senso che fanno da leve per ottenere certi comportamenti e progressi costanti oltre i ragionamenti sull’esatto adempimento e sulla sanzione in caso di violazioni. Allo stesso tempo, le concessioni redistributive possono realizzare condizioni di maggiore equità nel trattamento economico, facendo da contro- altare per l’adozione di soluzioni ispirate all’efficienza, cioè all’ottimale predisposizione per l’ottenimento di valore aggiunto. Ecco dunque che, pur senza considerarne i meccanismi di calcolo e gli aspetti nevralgici, per concludere il breve studio sul contratto del 98 si ritiene non possano totalmente mettersi da parte nel ragionamento, il peso sinallagmatico e la significatività organizzativa dei sistemi premianti.
3. Il Progetto Prisma del 1993: valorizzare la professionalità nella collaborazione
La storia contrattuale in Dalmine ha dunque avuto negli anni 1989 e 1998 due snodi cruciali. È stato spiegato come nei contratti siglati in quegli anni, siano stati delineati i termini di fondo del sistema di relazioni industriali. Specie nelle materie degli obblighi fra le parti del contratto, dell’orario di lavoro e delle turnazioni, dei premi di risultato, è stara eretta un’impalcatura sistemica: un insieme di regole da apprezzare in quanto frutto di una tensione verso l’equilibrio degli interessi coinvolti. Occorre dire peraltro, che un ulteriore documento contrattuale è stato stipulato nel 1993, nel mezzo del decennio intercorrente fra i contratti studiati. Si allude al c.d. “Progetto Prisma” condiviso fra azienda e sindacato. Esso pare tanto peculiare da valere una (sia pure sintetica) trattazione a sé stante.
La prima ragione alla base di questa scelta è stata individuata nell’origine del documento siglato da azienda e sindacato. Il documento ha tratto le mosse da una ricerca scientifica applicata, commissionata presso Dalmine. Questa complessa ricerca probabilmente potrebbe definirsi di matrice “organizzativistica”. S’è trattato di consegnare una visione per l’evoluzione delle risorse umane in azienda, in coerenza ai mutamenti del lavoro, del mercato, della stessa Xxxxxxx. La seconda ragione per cui s’è inteso dedicare al Progetto Prisma un capitolo a sé stante, consiste nella specificità di alcuni suoi contenuti di cui si darà conto brevemente. Il Progetto Prisma infatti, appare allo stesso tempo un contratto collettivo contenente idee e regole per il lavoro, e un documento di visione per lo sviluppo industriale e nel territorio di Dalmine. Infine, si considera giustificato un capitolo a sé stante per il Progetto Prisma in ragione del sistema di retribuzione della “professionalità” del personale operativo. Gli istituti retributivo- premiali della professionalità richiesta e soprattutto della professionalità espressa (introdotti in Dalmine grazie a Xxxxxx) sono stati apprezzati entro vari studi (92). Questi studi si sono proposti di indagare e riflettere sui modi offerti dalla contrattazione per valorizzare ciò che, pur stando oltre la “mansione”, comunque apparterrebbe (secondo
(92) L’esperienza contrattuale di Dalmine è significativamente citata in X. XXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in DLRI, n. 101, 1, 2004, pp. 174-5. Ulteriore esempio in cui Tenaris Dalmine vale da caso-studio sulla questione della valorizzazione della professionalità, si ha con D. MOSCA, X. XXXXXXXXXX, La valorizzazione economica della professionalità nella contrattazione aziendale, in DRI, 2016, n. 3, 791 ss., pp. 805-7.
una certa linea di pensiero) alla collaborazione corretta e in buonafede (93), ovvero alla collaborazione “flessibile” (94) nello scenario dell’economia della conoscenza.
Oggi – in base ad alcune considerazioni che seguiranno – probabilmente il sistema retributivo-premiale della professionalità non può più dirsi “perno” dell’approccio contrattuale per l’incentivazione del lavoro operativo in Tenaris Dalmine. Ciò nonostante, questo sistema è senz’altro un’eredità rispetto a cui interrogarsi. Xxxx chiedersi come si posizioni sul piano del diritto delle relazioni industriali, e se conservi dei termini innovativi per l’attuale realtà organizzativa del lavoro.
Il Progetto Prisma come documento di visione industriale
S’è accennato che una delle ragioni per trattare in modo a sé stante il Progetto Prisma, consiste nella peculiarità di alcuni suoi contenuti. Nel Progetto Prisma è evidente la volontà di gestire alcune circostanze “eccezionali” nell’ambito delle relazioni industriali. Si trovano perciò alcune proposizioni di carattere strategico. Esse parlano all’interprete del radicale mutamento vissuto in Dalmine negli anni novanta del Novecento: mutamento coerente con la fondamentale istanza per una nuova competitività della siderurgia proclamata nell’accordo Ilva dell’89. Ma soprattutto, nel Progetto Prima si trovando delle idee con cui il processo sindacale ha cercato di offrire soluzioni a problemi nuovi.
Nel Progetto Prisma, per la prima volta nella contrattazione Dalmine, ha ricevuto organica regolazione la questione dell’appalto. Non s’è trattato allora (come nel caso dell’accordo Ilva o del contratto del 98) soltanto di stabilire in che direzione si sarebbe dovuto organizzare e sviluppare il lavoro alle dipendenze dell’azienda. Pure, sono state stabilite delle regole per governare le implicazioni lavoristiche e i problemi sindacali connessi all’esternalizzazione delle attività. Il ripensamento dell’organizzazione aziendale ha insomma sollevato il tema del lavoro prestato “dall’esterno”, tanto che il primo dato di relazioni industriali che si può registrare consiste in questo: nella presa d’atto che nuove forme organizzative sarebbero state percorse, e che ciò avrebbe significato la diminuzione dell’occupazione diretta in Dalmine. Non a caso, nel 93 è stato affermato che sarebbe stata seguita una “impostazione pragmatica in materia di make or buy”, con cui erigere un sistema “integrato e aperto” per il coinvolgimento dei fornitori alla stregua di partner della missione industriale. A contrappunto della percorribilità delle nuove formule organizzative, sono stati stabiliti dei limiti di varia natura. Questi, più che volti a offrire prescrizioni puntuali, pare che siano stati progettati per servire da termini orientativi
(93) Sulla funzione giocata dai sistemi di contrattazione collettiva per la “concretizzazione” delle clausole generali di correttezza e xxxxxxxxx, si rimanda anche qui al testo-chiave di Xxxxxxx Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Autonomia collettiva e clausole generali, relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Roma, 29-30 maggio 2014).
( 94 ) XXXX XXXXXXX, Regulating the Employment Relation for Competitiveness, in Industrial Law Journal, pp. 17-47, Vol. 30, n. 1, 2001.
dell’organizzazione: termini tramite cui contenere i caratteri più dirompenti connessi al progressivo utilizzo dell’appalto in Dalmine. È stato ad esempio chiarito che sarebbero stati “evitati gli appalti nelle lavorazioni di produzione e di manutenzione ordinaria”; oppure, che sarebbero state evitate le “situazioni di sovrapposizione tra personale Dalmine e di terzi”. Insomma, le parti hanno offerto varie regole, sia sulle prospettive dell’utilizzo dell’appalto, sia per il disinnesco di eventuali conseguenze negative quali quelle nel campo di salute e sicurezza.
Un ulteriore riferimento paradigmatico per mostrare la peculiarità delle regole del 93, può ritrovarsi nelle affermazioni in tema di modifica del layout dello stabilimento di Xxxxxxx. Per le parti, anche qui, s’è trattato di prendere atto che le cose erano cambiate. È stato infatti riconosciuto che vaste zone dello stabilimento dalminese erano venute degradandosi a causa dall’inutilizzo e dell’abbandono. La ridefinizione organizzativo- tecnologica di processi e prodotti aveva reso in certa parte obsoleto il “gigantismo” degli spazi di fabbrica (95). Tutto ciò aveva senz’altro sollecitato la rappresentanza sindacale. Nell’accordo del 93, è stato allora fissato l’impegno dell’azienda per meglio distribuire spazialmente le attività operative, riqualificando gli effettivi ambienti di lavoro e procedendo ad ampio piano di ristrutturazione degli stabili. Inoltre le parti si sono pure impegnate per individuare principi e percorsi di elaborazione progettuale, per la nuova destinazione di ampi spazi “liberati” dall’attività industriale (nel dettaglio: circa quarantamila metri quadri, di cui diecimila coperti). L’accordo a riguardo è notevole. Giacché per esempio, è stata prospettata la collaborazione con le “Amministrazioni Pubbliche”. E sono state formulate delle “idee guida” circa: il rispetto della vocazione industriale degli spazi, la possibilità che la loro messa a disposizione consentisse nuove opportunità di occupazione, l’istanza a che non fossero aumentate le volumetrie esistenti, l’aspirazione a tracciare “un nuovo rapporto di equilibrio tra l’area industriale e l’area urbana”. A prescindere dall’intensità del discorso contrattuale alla base di queste affermazioni di principio o suggestioni progettuali, pare di potersi sintetizzare alcuni punti. Il sindacato, di certo, ha avuto interesse a introdurre in un proprio contratto collettivo, delle disposizioni che sollecitassero gli iscritti non solo in quanto lavoratori, ma anche come cittadini e utenti nel Comune di Dalmine. L’azienda poi, ha senz’altro inteso gestire il proprio cambiamento prestando attenzione al territorio e alla comunità cittadina circostanti. Insomma: se in questa sede è difficile avanzare delle ipotesi sulla consistenza e l’intensità della discussione sindacale alla base dell’esaminata sezione dell’accordo del 93, comunque sembra difficilmente controvertibile che il contratto collettivo è stato reso uno strumento complesso per la fondazione e promozione di consenso, attorno all’istituzione-sindacato come attorno all’istituzione-azienda (96).
(95) È significativo che nel marzo 2014, una lezione-testimonianza sul passato industriale in Dalmine tenuta a Bergamo presso l'Università per anziani Xxxxxx Xxxx, sia stata intitolata: “Eravamo diecimila”. Oggi la popolazione di operatori Tenaris presso lo stabilimento di Dalmine, si conta nell’ordine di dieci volte meno.
(96) Per dare ulteriore consistenza al discorso, comunque si dica che oggi la biblioteca del Comune di Dalmine è ospitata in edificio prima appartenente alla fabbrica; che i locali e gli ambienti del polo di
La valorizzazione delle professionalità individuali
Si ritiene che i ragionamenti proposti sui temi dell’appalto e della modifica del layout dello stabilimento di Dalmine, siano paradigmatici della peculiarità del Progetto Prisma e dell’accordo del 93. Invero, altri esempi sarebbero potuti essere proposti. Molte questioni sono state oggetto d’intervento: dalla education, declinata in quanto intervento eccezionale per elevare la formazione di base dei dipendenti, nonché come progettualità per la formazione professionale continua, alle materie delle pari opportunità e del controllo a distanza connesso all’affermazione dei personal computer come strumento di lavoro. Allo stesso modo, nel 93 sono stati affrontati anche temi pienamente inseriti nella tradizione contrattuale inaugurata nell’89: fra gli altri, vari aspetti della materia delle relazioni industriali e dell’organizzazione del lavoro. D’altronde pare che proprio queste parti del contratto, oggi, suggeriscano la natura anche di “ponte” del passaggio contrattuale del 93, rispetto all’accordo Ilva e all’integrativo del 98. Le relazioni industriali, ad esempio, sono state tratteggiate in modo che le fasi di informazione e consultazione e la bilateralità ne fossero termini baricentrici. Riguardo l’organizzazione del lavoro, poi, è stata dettagliata una fondamentale formula per il calcolo della forza- lavoro da assegnare in via normale presso i singoli reparti. Questa formula (che fra le altre cose, considera la marcia-impianto attesa per l’anno) prende a input i numeri di persone dei c.d. “organici tecnologici”. Un organico tecnologico non è altro che l’insieme di persone adeguatamente formate, necessario per la regolarità di un certo ciclo produttivo. La sua consistenza è individuata per il tramite delle relazioni industriali di reparto. Ed è a partire proprio dall’organico tecnologico che, applicato il calcolo condiviso nel 93, si arriva quindi a stabilire l’entità della “forza”(-lavoro) da assegnare in via normale al singolo reparto. E ciò nell’ottica di contemperare vari principi affermati nell’89, quali il “maggior utilizzo degli impianti”, la “continuità produttiva”, la realizzazione delle condizioni per fruire delle “spettanze ferie e riposi”.
Sia che si considerino le tematiche più “eterodosse”, oppure quelle che hanno segnato una linea di piena continuità facendo da ponte fra gli interventi contrattuali dell’89 e del 98, pare che alla base dell’accordo del 93 ci sia stata una certa tensione: fare fronte a un mondo in cambiamento. In tal senso per la lettura dell’accordo, si vuole proporre un possibile trait d’union, che soddisfi l’ambizione “strana” di tenere assieme i vari termini del discorso: dalla diminuzione degli spazi fisici dello stabilimento dalminese, ai compositi progetti per l’accrescimento del capitale umano. Questo trait d’union si ritiene di riconoscerlo nella trasformazione funzionale del lavoro all’interno dell’organizzazione. In particolare, l’istanza di competitività e innovazione, che era stata alla base dell’accordo Ilva ed è stata raccolta dai progettisti di Xxxxxx, si ritiene sia stata tradotta in uno slancio:
Ingegneria dell’Università degli Studi di Bergamo, a loro volta sono stati in parte ricavati dall’ex area di fabbrica – specie l’ex palazzina commerciale dell’azienda –.
superare un approccio verso le prestazioni individuali poco adatto a valorizzarne gli aspetti dinamici di flessibilità, autonomia e responsabilità. La ridefinizione industriale realizzata presso Dalmine (tramite il ripensamento dei processi e gli interventi di razionalizzazione) ha quindi significato un passaggio a tutto tondo riguardo il significato e la valorizzazione del lavoro nell’organizzazione. Per misurare e apprezzare il lavoro, non sarebbero più bastate le coordinate delle “mansioni” e del “tempo” (in altri termini: il discorso sui minimi svolto dal contratto nazionale (97)). Piuttosto (sia pure in una logica integrativa) avrebbe trovato posto un meccanismo compensativo ulteriore, affiancato a quello dei premi collettivi e fondato sul concetto elaborato contrattualmente di professionalità individuale (98).
È alla luce di queste varie considerazioni, che si considera che nella valorizzazione delle professionalità individuali secondo il sistema eretto nel ’93, si abbia l’esempio emblematico della trasformazione del lavoro e delle relazioni industriali sperimentata dall’azienda negli anni 90.
“Professionalità richiesta” e “professionalità espressa”
Si propone ora una descrizione molto sintetica dei meccanismi della professionalità richiesta e della professionalità espressa.
La professionalità richiesta è un istituto contrattuale per la remunerazione integrativa della singola persona, dal seguente funzionamento. È soppesato il contenuto professionale del ruolo ricoperto dal lavoratore. Ciò avviene tramite indicatori specifici, che servono a oltrepassare il termine statico della mansione: ad esempio, sono considerati le “capacità relazionali” e il grado di “autonomia” attesi dall’organizzazione perché il ruolo sia ben interpretato. In base al punteggio ottenuto tramite i vari indicatori il ruolo – che si noti, a sua volta è stato individuato in documenti organizzativi prodotti in seno alla contrattazione – è associato a una fra diverse “fasce di professionalità” (descritte “A”, “B”, “C”…). Questa associazione infine, comporta il riconoscimento per il singolo di un superminimo individuale, volto ad adeguare la remunerazione fissa alla richiesta di professionalità proveniente dallo specifico ambiente industriale.
( 97 ) Xxxxx “sostanziale estraneità della professionalità declinata in termini di competenze, ruoli e comportamenti organizzativi” nella “quasi totalità dei sistemi di classificazione e inquadramento del Personale” nazionali, ha scritto recentemente Xxxxx Xxxxxxxxxx in: X. XXXXXXXXXX, Dalle mansioni alla professionalità? Una mappatura della contrattazione collettiva in materia di classificazione e inquadramento del personale, in DRI, N. 4/XXIX, 2019, 1155.
(98) Sempre Xxxxxxxxxx ha dovuto prendere atto dell’assenza di una nozione condivisa di professionalità nell’ambito giuslavoristico. Al contempo, però, ha rilevato la frequente “spinta” a livello decentrato per raggiungere contrattualmente una definizione pratica di professionalità: una definizione collegata a un certo ambiente di lavoro, che possa valere da termine di riferimento per valorizzare il “come” della prestazione lavorativa (X. XXXXXXXXXX, Dalle mansioni alla professionalità? Una mappatura della contrattazione collettiva in materia di classificazione e inquadramento del personale, op. cit., 1161 ss.).
La professionalità espressa, contrariamente alla richiesta, non insiste sul piano della remunerazione fissa. Si tratta infatti di un istituto premiale, che serve a incentivare da parte dei singoli, condotte coerenti agli obiettivi di miglioramento ed eccellenza industriale dell’organizzazione. L’istituto è stato oggetto di interventi di modifica negli anni; questi interventi però non hanno toccato impianto e significato di base. S’intende, per questa ragione, offrire qui una descrizione della professionalità espressa dando conto all’occorrenza anche di novità successive al 93: e ciò per fornire al lettore ogni elemento di riflessione. L’istituto prevede che la professionalità “concretamente espressa” dal singolo sia misurata annualmente secondo “criteri predeterminati” e “schede formalizzate” (queste le espressioni del 93). Le “schede”, invero, sono state riviste in condivisione con la RSU in più occasioni e da ultimo nel 2017, in occasione della firma dell’integrativo denominato “accordo ponte”. Pare del resto, che l’analisi della scheda (per convenienza sarà considerata proprio quella in uso) sia cruciale per capire che cosa di preciso sia misurato e apprezzato. Nella scheda, oggi, sono racchiusi quattro campi “tematici”: “Ambiente, Salute e Sicurezza”, “Qualità”, “Conoscenza tecnica”, “Iniziativa, Autonomia e Lavoro di Squadra”. Ogni campo esprime una dimensione della professionalità, così come individuata da azienda e RSU. Entro ciascun campo tematico, sono elencate varie condotte (99). Annualmente per misurare la performance del singolo, il valutatore opterà per un giudizio “Ok-”, “Ok” od “Ok+” a seconda del grado di aderenza fra testo descrittivo della condotta e comportamento della persona nell’anno. Nella prassi, la compilazione è innanzitutto affidata al responsabile diretto, di solito Capo turno o Capo gruppo base; in caso d’eccezione, interviene il Capo reparto o Capo funzione. Del resto, occorre precisare che oggi in Tenaris Dalmine il sistema della professionalità espressa è applicato soltanto agli operatori. Impiegati e quadri, diversamente, sono destinatari di politiche d’incentivazione a sé stanti (seppure per certi versi debitrici della progettualità di Prisma). Detto questo, per tornare subito ai meccanismi di valutazione e incentivazione della professionalità espressa, si ha che dopo la compilazione della scheda da parte del responsabile diretto, è ricavato un punteggio complessivo della performance nell’anno della persona. Questo risultato è inserito in una “curva”, ottenuta via via dalla messa in ordine dei punteggi di quanti appartengono alla medesima area organizzativa. A questo punto il processo non è ancora concluso. Gli score scaturiti dalla compilazione delle schede sono presi in carico da un apposito comitato, composto da responsabili diretti, di funzione e membri dell’ufficio HR. Bisogna infatti che la distribuzione dei punteggi, relativi alle performance individuali, sia “normalizzata”. In altre parole occorre che la distribuzione ricalchi uno standard: il 5% sul totale delle valutazioni dovrebbe occupare il range minimo (c.d. range 1); il 15% quello medio-inferiore; il 40% quello medio; il 30%
(99) Nel campo rubricato “Ambiente, Salute e Sicurezza” ad esempio, si può leggere di condotte quali: “Utilizza gli appositi DPI in area di lavoro”; “(è) proattivo nel segnalare anomalie (…)”.
quello medio-superiore; il 10% il range massimo (100). La “normalizzazione” costituisce un espediente istituzionale per evitare eccessivi squilibri nella misurazione delle performance. Peraltro, la distribuzione nei cinque range non è realizzata in modo generico per tutti coloro che siano inquadrati presso la stessa area organizzativa. È invece distinto, a seconda della fascia di professionalità richiesta associata al ruolo della persona. Ciò pare, del resto, facilmente spiegabile: non saranno del tutto comparabili le performance espresse da persone ingaggiate su posizioni con differente grado di complessità e criticità. Di norma, sarà dunque più impegnativo raggiungere la parte “alta” della curva di professionalità espressa, per chi sia titolare nella squadra operativa di un ruolo che per responsabilità e compiti da eseguire, è ricondotto a una fascia parimenti alta di professionalità richiesta. Questa distinzione si riflette pure sull’entità del premio erogato
– erogato a conclusione del processo di misurazione e valorizzazione della professionalità espressa –. Riceverà un maggiore importo in denaro chi, inquadrato nella fascia professionale x, abbia raggiunto il raggruppamento y; rispetto a chi, inquadrato nella fascia professionale (x-1), abbia raggiunto il medesimo raggruppamento.
Last but not least nello studio della questione, nella prassi il processo di professionalità espressa sfocia nel feedback del responsabile diretto nei confronti dell’operatore. Con questi è condivisa la scheda di valutazione e sono evidenziati punti di forza e aspetti di miglioramento. Il feedback è un atto aggiuntivo rispetto all’erogazione del premio. Esso non è citato nei testi contrattuali che negli anni, hanno aggiornato il sistema della professionalità espressa. Quindi, può argomentarsi che non è considerato rientrare tra i termini di scambio pattuiti. Ciò nonostante, proprio il feedback ha acquisito un’attenzione crescente nel corso del tempo, probabilmente in linea con l’evoluzione della cultura HR nell’azienda. A riprova di questo basti dire che il software gestionale oggi a disposizione, per supportare il processo di misurazione delle professionalità espresse, offre ai responsabili diretti la possibilità di registrare commenti sulla performance, oltre a suggerimenti per la crescita della persona interessata (interventi di formazione, cambi nel ruolo assegnato…). Insomma, è consentito di tracciare i temi fondamentali trattati con il feedback. Il che consente, anno dopo anno, che sia costruito un archivio di informazioni, dando traccia del processo di valutazione come opportunità di riflessione oltre che di incentivazione di comportamenti concreti connotati nel senso della professionalità.
Criticità connesse al sistema di professionalità espressa
Il sistema di professionalità espressa per il personale operativo è ormai in vigore da quasi trent’anni presso Dalmine. L’impressione tuttavia è che non abbia mantenuto centralità e forza: che cioè non possa considerarsi, oggi, un tratto tanto qualificante delle relazioni industriali dell’azienda, da poter servire a paradigma delle tendenze in atto. Al
100 Nello schema originario del 93, erano individuati soltanto tre “raggruppamenti” (“elevato”, “medio”, “minimo”).
di là del momento di feedback, il quale senz’altro possiede un certo significato organizzativo ma – si ribadisce – è collocato fuori dal discorso contrattuale collettivo, s’intende giustificare queste considerazioni nel seguente modo.
Se si presta attenzione alla tabella dell’integrativo 2019 circa gli importi economici del premio professionalità espressa – è la tabella più aggiornata –, si possono notare due cose. Innanzitutto la relativa scarsa incidenza dell’incentivazione economica se comparata con quella di altri premi inseriti nel contratto. Si dica, per aversi un termine di confronto, che una persona che occupa il livello d’inquadramento C3 del CCNL (ex 5° livello) alla quale è assegnato un ruolo con fascia professionale C, riceve in caso di valutazione “media” della sua performance, venti euro e rotti da moltiplicare per dodici mesi: in totale, poco più di duecentoquaranta euro sull’anno. Ebbene, quella medesima persona quando appartenga a un reparto che non sia riuscito in alcun modo a centrare gli obiettivi di qualità e produttività remunerati tramite il sistema premiale PQP, ottenendo “zero” sull’anno, comunque riceverà a titolo di somma annuale garantita più di mille e trecentotrenta euro. È evidente allora, anche soltanto in base a questo confronto episodico e parziale, che nell’insieme della contrattazione Tenaris Xxxxxxx potrebbe scoprirsi un certo sbilanciamento. L’esempio illustrato, d’altronde, racconta di una certa maggiore consistenza dell’elemento redistributivo nell’assetto premiale, rispetto al dato dell’incentivazione su base individuale di comportamenti operativi caratterizzati nel segno della professionalità.
Non solo. Il discorso appena svolto ha ragion d’essere. E però, si ritiene che non sia ancora quello decisivo, per spiegare l’attuale ridotto rilievo del premio della professionalità espressa nella pratica delle relazioni industriali Tenaris Dalmine. Occorre considerare, infatti, che la differenziazione negli importi premiali fra chi performa collocandosi alla base della curva di professionalità espressa, e chi invece all’apice, è estremamente ridotta. Si faccia in proposito nuovamente il caso della persona titolare di fascia di professionalità C. Quando questa persona realizzi un punteggio medio, tale da farle centrare il raggruppamento di metà curva, per l’anno le saranno liquidati soltanto centoventi euro in meno che non se avesse centrato il raggruppamento massimo. Questo esempio racconta di una somma di denaro relativamente piccola per distinguere nell’ambito della valorizzazione economica delle performance. A nota di contesto, si consideri che di solito ogni dipendente Tenaris Dalmine supera di buona misura il tetto annuo dei 3000 euro lordi stabilito dalla disciplina sulla detassazione dei premi di risultato. Insomma, l’ammontare della retribuzione variabile è importante per tutti. E però, chi è valutato meglio riguardo la professionalità espressa, non guadagna una paga sensibilmente diversa da chi non ha fatto altrettanto bene.
Queste note vogliono valere da analisi critica della situazione corrente, senza peraltro significare un giudizio di valore o una presa di posizione. Agli attori concreti delle relazioni industriali è lasciato di valutare, all’interno del gioco della contrattazione, se l’attuale stato di cose sia o meno desiderabile. Si può immaginare, ad esempio, che il
sindacato o almeno una sua parte consideri sfavorevolmente un cambio di passo in tema di premio della professionalità espressa, all’insegna di una più evidente differenziazione fra meritevoli e no. Il discorso del merito, del resto, è un discorso politicamente sensibile, che solleva una serie di interrogativi rispetto all’adeguatezza delle regole del processo di valutazione, ovvero dei contenuti della scheda in mano ai responsabili. Ancora più alla radice, una certa voce sindacale può farsi critica della discriminazione fra i lavoratori in base ai dati di performance, considerando questo tipo di pratica potenzialmente dirompente rispetto al valore dell’equità e dannosa per la strategia di rivendicazione sindacale nel suo complesso. Sia come sia, rimane che in questa sede è possibile la presa d’atto riguardo un certo arretramento del premio della professionalità espressa per quanto sta la sua ragion d’essere e il suo senso di sistema. Sul lato aziendale, poi, è indubbio che si rappresenta problematica la questione dell’incentivazione delle professionalità in campo, soprattutto laddove un operatore abbia probabilmente già raggiunto il livello più avanzato della propria crescita professionale. L’apparente inadeguatezza del premio della professionalità espressa sul lato dell’incentivazione evidentemente (come in un gioco di vasi comunicanti) “stressa” la funzione potenzialmente svolta dagli altri premi del sistema decentrato Tenaris. Al modo in cui sono costruiti, pare che nel complesso sia affidato la finalità di incentivazione dei comportamenti individuali.
4. Contrattare sulla tematica organizzativa
La contrattazione in Tenaris Dalmine ha nella discussione e innovazione delle organizzazioni del lavoro (ODL) di fabbrica, reparto o servizio, un fronte di ingaggio costante e complesso. Si tratta – come già argomentato – di un’esperienza che provoca a domandarsi se e in che misura la contrattazione decentrata costituisca, oggi, il mezzo giuridico idoneo per il bilanciare il legame d’interesse fra le parti, coniugando elementi di efficienza ed equità nell’ambito del cambiamento (lavoristico e non) dell’organizzazione.
Le regole dell’integrativo
Come già illustrato nel corso della ricerca, esiste un’ampia tradizione contrattuale collettiva in azienda riguardo le norme sull’organizzazione del lavoro. Potrebbe anzi ben argomentarsi, che fin dall’accordo Ilva dell’89 la contrattazione abbia riflessivamente scelto sé stessa quale sede appropriata per affrontare questi temi. Non a caso, l’opzione contrattuale “inventata” più di trent’anni fa – l’opzione secondo cui non si sarebbero avuti automatismi per la modifica delle condizioni organizzative del lavoro – è stata confermata nell’integrativo aziendale attualmente in vigore. In particolare, il paragrafo del contratto del 2019 che qui interessa è rubricato “(m)odifiche all’organizzazione del lavoro di area,
metodi e pratiche operative”. Le parti hanno innanzitutto scritto che “(g)li investimenti e le migliorie (…) tutte finalizzate al miglioramento dell’efficienza e della produttività, costituiscono il quadro di riferimento sul quale si devono sviluppare l’attività di analisi”. Questa affermazione pare far intendere un dato pratico: che solitamente, la discussione negoziale seguirà o accompagnerà un’iniziativa del datore di lavoro. D’altronde, si ritiene che “investimenti” o “migliorie” che facciano da “quadro di riferimento”, non possano che provenire dall’azienda. Il che non esclude, certo, che a monte si sia potuta avere una qualche dinamica di relazioni industriali: con l’avallo, o l’aperta richiesta della rappresentanza sindacale nei confronti dell’iniziativa di investimento o miglioria del datore. Comunque, al di là di questi possibili retroscena, rimane che l’integrativo ha fotografato una condizione “normale”: investimenti e migliorie sono il dato pratico in rapporto al quale di dire la nuova discussione organizzativa si presenta come “agibile” per entrambe le parti.
Il paragrafo dell’integrativo del 2019 prosegue dando conto della procedura per la riforma delle regole organizzative. Sono stati innanzitutto individuati i soggetti della discussione. In particolare, sono stati citati i rappresentanti sindacali “di (a)rea”, coadiuvati dai tre “distaccati”. I distaccati sono i dipendenti dell’azienda, esponenti delle tre associazioni firmatarie dell’integrativo (Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil) esonerati del tutto dall’obbligo di prestare attività di lavoro. Essi, per “antica” regola contrattuale, hanno la possibilità di dedicarsi esclusivamente all’attività sindacale, senza fra l’altro che il loro monte ore sia addizionato al montante totale dei permessi sindacali concessi in Tenaris Dalmine. Dall’altro lato del tavolo, possono sedersi alla discussione fino ad “altrettanti” rappresentanti aziendali (sei). Pare allora, che il primo dato ricavabile dall’individuazione dei partecipanti alla contrattazione per la modifica organizzativa “di area”, consista nel coinvolgimento dei membri RSU più “vicini” al tema trattato. Per dirla in modo a-tecnico, l’integrativo aziendale fonderebbe un ambito formale di discussione il più aderente alle dinamiche trasformative in corso. I membri RSU d’area, d’altronde, sono quanti saranno personalmente coinvolti dalla modifica; lo saranno poi i loro stretti colleghi, vale a dire (presuntivamente) i loro primi elettori. In questo quadro, la partecipazione dei distaccati dovrebbe permettere inoltre che il processo modificativo – come si vede dotato, di massimo grado di sussidiarietà – sia condotto coerentemente con le complessive strategie sindacali in Tenaris Dalmine.
Dopo l’individuazione dei partecipanti alla discussione, l’integrativo aziendale si è occupato di definire alcune fasi metodologiche tramite cui giungere alle nuove regole. Innanzitutto è stato dato conto di una fase di analisi, in cui le caratteristiche del cambiamento organizzativo dovrebbero sollecitare la riflessione su riflessi possibili per i “ruoli professionali” esistenti nell’area. In seconda battuta occorrerebbe procedere alla definizione del “come”: “contenuti, tempi e modalità applicative”. È stata fra l’altro sottolineata la questione dell’addestramento e formazione. Sarebbe da analizzare, cioè, la possibile insorgenza e in che termini di istanze di adeguamento delle competenze e del