LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE NEI RAPPORTI FAMILIARI(*)
Xxxxxxx XXXXXX
LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE NEI RAPPORTI FAMILIARI(*)
Sommario: 1. Introduzione. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla «stagione della negozialità» nei rapporti familiari. – 2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio. – 3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c. – 4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi. – 5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare. – 6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto. – 7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione. – 8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Xxxxxxxx e restituzioni ex art. 192 c.c. – 9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare. – 10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge, oppure in assenza sia di mandato che di opposizione (rinvio). – 11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità. – 12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro. – 13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale. 14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori. – 15. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi. – 16. Segue. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.
(*) Testo di una delle due relazioni presentate dall’autore all’incontro di studio sul tema «Rapporti patrimoniali ed effettività delle tutele nella famiglia legittima e di fatto», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale, svoltosi a Roma dal 12 al 14 giugno 2006.
1. Introduzione. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla
«stagione della negozialità» nei rapporti familiari.
Gli studi che, nel corso degli ultimi anni, a partire da una celebre monografia di Xxxxxxxxx Xxxxx (1), sono andati affastellandosi sul tema dei rapporti tra famiglia e responsabilità civile (2) sembrano prediligere la trattazione dei profili aquiliani, lasciando, per così dire, un po’ in ombra i temi della responsabilità contrattuale. Il che, sia chiaro, appare più che ovvio, attesa la vivacità che caratterizza, da ormai svariati anni a questa parte, il settore dell’illecito extracontrattuale e la velocità con la quale si espandono le sempre più mobili frontiere del danno ingiusto (3), nonché il superamento di atavici pregiudizi sulla condizione femminile, che avevano in buona sostanza determinato l’idea che la famiglia si trovasse, rispetto all’area della responsabilità civile, in una situazione di vera e propria immunità (4). D’altro canto, la maggior lentezza del cammino percorso della responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c. all’interno del territorio familiare si spiega con le peculiarità di un contesto, come quello dei rapporti giuridici endofamiliari, rispetto a cui
(1) PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984.
(2) Cfr. ad esempio X. XXXXXXX XXXXX XXXXX, Violazione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità?, in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 605 ss.; XXXX, BESSONE e CARBONE, Atipicità dell’illecito, I, Persone e rapporti familiari, Milano, 1993; LENTI, Famiglia e danno esistenziale, in AA. VV., Il danno esistenziale, a cura di Xxxxxx e Xxxxx, Milano, 2000, p. 253 ss.; DE XXXXXX, Violazione del dovere di fedeltà e separazione personale dei coniugi, nota a Cass., 17 luglio 1999, n. 7566, in Fam. dir., 2000, p. 131 ss.; XXXXXXXX, L’infedeltà: quanto può costare? Ovvero è lecito tradire solo per amore, in Studium juris, 2000, p. 524 ss.; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, nota a Trib. Milano, 10 febbraio 1999, in Fam. dir., 2001, p. 185 ss.; DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, in Danno e resp., 2001, p. 741 ss.; XXXXXXXXX, La famiglia e l’ “altro” diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, nota a Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, p. 159 ss.; CENDON e SEBASTIO, Xxx, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, in Resp. civ. prev., 2002, p. 1257 ss.; FRACCON, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003; AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Xxxxxx, Padova, 2004; AA. VV., Rapporti familiari e responsabilità civile, a cura di Xxxxx, Torino, 2004; BREDA, Il danno non patrimoniale da violazione dei doveri sponsali, in AA. VV., Il nuovo danno non patrimoniale, a cura di Xxxxxxxxxx, Padova, 2004, p. 173 ss.; XXXXXX, Dov’è che si sta meglio che in famiglia, in AA. VV., Xxxxxxx e danno, a cura di Xxxxxx, Milano, 2004, III, p. 2720 ss.; PILLA, Gli obblighi coniugali e la responsabilità civile, in AA. VV., Xxxxxxx e danno, a cura di Xxxxxx, III, cit., p. 2910 ss; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004; CONTIERO, I doveri coniugali e la loro violazione. L’addebito. Il risarcimento del danno, Milano, 2005, p. 140 ss.; XXXXXXX, Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale, Padova, 2006.
Per la giurisprudenza sul tema v. Trib. Roma, 17 settembre 1989, in Giur. merito, 2001, p. 754, con nota di XXXXXXXX; in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, p. 559, con nota di PALETTO; in Xxxxxxxxx e impresa, 1990, p. 607, con nota di CENDON; Trib. Monza, 15 marzo 1997, in Fam. dir., 1997, p. 462, con nota di XXXXXXXX; Trib. Milano, 10 febbraio 1999, in Fam. dir., 2001, p. 185, con nota di BONA; Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001, p. 741, con nota di DE MARZO; Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, p. 2290, con nota di XXXXXXXXXX; in Vita notar., 2003, p. 720, con nota di XXXXXXX; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 278, con nota di XXXXXX; Trib. Milano, 24 settembre 2002, in Resp. civ. prev., 2003, p. 486, con nota di FACCI; in Corr. giur., 2003,
p. 1205, con nota di DE MARZO; Trib. Savona, 5 dicembre 2002, in Fam. dir., 2003, p. 248, con nota di XXXXX.
(3) Come rilevato da FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 4, la recente attenzione rivolta ai rapporti esistenti tra la responsabilità civile e le relazioni tra coniugi non è occasionale; essa deriva, innanzi tutto, dai mutamenti avvenuti, negli ultimi anni, all’interno della responsabilità civile. A tal proposito, si può rilevare come soltanto con la pronuncia delle Sezioni unite, n. 500 del 19991, che riconosce la risarcibilità degli interessi legittimi, viene respinta la tradizionale interpretazione dell’art. 2043, che identificava il «danno, ingiusto», esclusivamente, con la lesione di un diritto soggettivo; con tale pronuncia si sottolinea come l’area della risarcibilità non sia definita da norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito, in quanto fatto lesivo di situazioni determinate, ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì sia caratterizzata dalla «clausola generale», espressa dalla formula «danno ingiusto». In base a tale clausola generale, pertanto, è risarcibile il danno, che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in mancanza di una causa di giustificazione, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento.
(4) Quando, ormai oltre vent’anni fa, Xxxxxxxxx Xxxxx inaugurava il tema della responsabilità civile in ambito familiare notava che nel sistemi giuridici di common law l’immunità di cui in passato godeva il marito per gli illeciti recati alla moglie (interspousal immunity) aveva salde radici nella giurisprudenza delle Corti, collegandosi alla dottrina della unity of persons, formulata da Xxxxxxxxx nella seconda metà del XVIII secolo, per cui «con il matrimonio il marito e la moglie diventano una persona sola e quella persona è il marito», al punto che in Inghilterra si rese necessario l’intervento del legislatore [Law Reform Act (Husband and Wife) Act 1962] per attribuire espressamente a ciascun coniuge il diritto di agire nel confronti dell’altro per il risarcimento dei danni «come se essi non fossero sposati» (cfr. XXXXX, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 61 ss.). Da noi, invece, nell’assenza pressoché totale di interventi giudiziali, il principio di immunità si radica non nella giurisprudenza, ma nel costume. Sono le regole del costume, prima ancora di quelle del diritto a rendere operante il principio secondo cui «le questioni economiche tra coniugi uniti non si risolvono davanti al giudice» (XXXXX, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 67). E quando si giunge alla separazione è in quella sede che si fanno valere le rispettive pretese (FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, in AA. VV., Rapporti familiari e responsabilità civile, a cura di Xxxxx, cit., p. 47).
l’accostamento di concetti quali quello di «obbligazione» o di «contratto» poteva sembrare – quanto meno sino a non molto tempo addietro – ardito (5).
Ma il quadro di cui sopra non può non risultare oggi influenzato da quella «stagione della negozialità» che – come ampiamente segnalato dallo scrivente in svariate altre sedi – da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul matrimonio (6). Il passaggio, invero, dalla
«concezione istituzionale» (7) alla «concezione costituzionale» della famiglia (8), ha spianato la via ad una nozione di negozio giuridico familiare cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe normative) la disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo quell’insegnamento di Xxxxxxxxx Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx (9) che può ormai dirsi recepito – e da tempo – anche dalla giurisprudenza. Quest’ultima, per esempio, riconosce da svariati anni a questa parte il carattere negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di divorzio su domanda congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere patrimoniale concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della separazione personale, della separazione di fatto, del divorzio o dell’annullamento del matrimonio, qualificate dallo scrivente come «contratti della crisi coniugale» (10).
(5) Su questo accostamento si fa rinvio per tutti a OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 28 ss. ss.; ID.,
Riflessioni sul patto di famiglia, Padova, 2006, in xxxxx xx xxxxxx, xxx. X, § 0.
(0) Xxx xxxx xxx, per i suoi multiformi profili, non è richiamabile neppure per sommi capi in questa sede, si fa rinvio per tutti a OBERTO, Contratto e vita familiare, in AA. VV., Trattato del contratto, a cura di Xxxxx, Milano, 2006 (in corso di stampa). L’argomento è stato sviluppato in particolare dallo scrivente nei seguenti lavori: ID., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 13 ss.; ID., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato da Xxxxxxxxxxx e continuato da Xxxxxxxx, Milano, 2005, p. 64 ss. (e ivi per ulteriori rinvii).
(7) Su tale concezione v., anche per gli ulteriori rinvii, SESTA, Il diritto di famiglia tra le due guerre e la dottrina di Xxxxxxx Xxxx, in CICU, Il diritto di famiglia. Teoria generale, Lettura di Xxxxxxx Xxxxx, Momenti del pensiero giuridico moderno. Testi scelti a cura di Xxxxxx Xxxxxxxx. Redattore Xxxxxx Xxxxxxxxx, Sala Bolognese, 1978, p. 1 ss., p. 47 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori rinvii alle opere del Cicu e agli autori intervenuti nel dibattito sulla «concezione istituzionale» della famiglia, XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 103 ss.
(8) Sul tema cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 103 ss., 116 ss. cfr. inoltre BOCCHINI, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 446 ss, p. 437 ss.
(9) Si veda in particolare il contributo, pubblicato per la prima volta nel 1945, dal titolo L’autonomia privata nel diritto di famiglia (XXXXXXX-XXXXXXXXXX, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 381 ss., già in Dir. giur., 1945, p. 3 ss.). Per un’illustrazione del pensiero dell’insigne Autore cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit.,
p. 113 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto di Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx cfr. anche ZOPPINI, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 213 ss. Per un tentativo di sminuire l’importanza e l’innovatività del contributo di Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx cfr. X. XXXXX, Le convenzioni matrimoniali, Artt. 159-166-bis, in Il codice civile. Commentario fondato da Xxxxxxxxxxx e continuato da Xxxxxxxx, Milano, 2004, p. 31 s., secondo il quale la proposta applicazione ai negozi giuridici familiari delle disposizioni codicistiche di cui alla parte generale del contratto non implicherebbe un superamento delle posizioni di Cicu, ma si limiterebbe ad indicare l’ «adozione di una nozione più ampia di negozio giuridico». Peraltro, se è vero che, come già messo in luce dallo scrivente (cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 115), «nella formulazione proposta da Xxxxxxx- Xxxxxxxxxx, il negozio giuridico familiare risentiva ancora fortemente degli influssi della dottrina dallo stesso Autore contrastata, al punto che in essa vi si trova ancora il richiamo alla ‘funzione d’interesse superiore che debbono genericamente adempiere i vari negozi del diritto di famiglia’», ciò non deve stupire più di tanto, «se si considera che stiamo qui parlando del medesimo giurista secondo cui ‘la famiglia, come qualunque altro organismo, e più di ogni altro, per la sua particolare struttura, non vive senza un capo’». Sta però di fatto che, «al di là di questo tributo pagato all’autorevolezza della dottrina del Cicu, nella tesi testé esposta sono presenti in nuce tutte le premesse per un pieno sviluppo della autonomia privata anche nel campo familiare». Sarà sufficiente pensare al carattere sicuramente rivoluzionario della (da Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx) proposta tendenziale applicazione al negozio giuridico familiare della disciplina generale del contratto. E tanto basta per segnare un decisivo «salto di qualità», una netta rottura rispetto al passato, che avrebbe generato negli anni a seguire una sterminata messe di frutti nel campo della negozialità tra coniugi (si vedano, tanto per citare solo alcuni esempi, i riferimenti di cui alla nota seguente).
(10) Cfr., anche per gli ulteriori rinvii dottrinali e giurisprudenziali, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss.; in particolare, sulla natura contrattuale dell’accordo di separazione consensuale, per ciò che attiene alle intese d’ordine economico, v. ID., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili, in Fam. dir., 1999, p. 601 ss.; ivi, 2000, p. 86 ss. Così, per esempio, un espresso rimando all’art. 1322 c.c. compare per ben due volte in una nota decisione sulla validità degli accordi preventivi tra coniugi in materia di conseguenze patrimoniali dell’annullamento del matrimonio (Cass., 13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur., 1993, p. 822 con nota di XXXXXXXX; in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1670, con nota di CASOLA; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 950, con note di XXXXXXX e di RIMINI; in Vita notar., 1994, p. 91, con nota di XXXXX; in Xxxxxxxxx, 1993, p. 140, con nota di XXXXXXX), mentre espliciti o impliciti riferimenti all’autonomia contrattuale punteggiano tutta o quasi la complessa vicenda in tema di trasferimenti immobiliari e mobiliari in sede di separazione personale tra coniugi (sul tema cfr. per tutti OBERTO, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam. dir., 1995, p. 155 ss.; ID., I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1211 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, passim, in partic. p. 69 ss.; v. anche X. XXXXXXXXXX, Separazione consensuale e contratti tra
Lo stesso vale per gli accordi costituenti il «contenuto eventuale» (11) dell’accordo di separazione consensuale, laddove nemmeno la dottrina sembra ormai più dubitare della natura non solo negoziale, bensì addirittura contrattuale di questi atti, allorquando gli stessi (come per lo più accade) abbiano ad oggetto prestazioni di carattere patrimoniale (12). Anche qui l’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto vivente» a determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di quegli angusti limiti in cui alcuni autori lo avrebbero voluto inquadrare (13): si è così deciso, per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti patrimoniali anche «non immediatamente riferibili, né collegati in relazione causale al regime di separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal matrimonio» (14). L’affermazione della negozialità tra coniugi (in crisi e non) è giunta al punto che non destano neppure più stupore, nell’osservatore della giurisprudenza di legittimità, affermazioni del genere di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano nella loro autonomia privata» (15).
In un crescendo che conosce ormai ben poche battute d’arresto (16) si sono così fondati i rapporti personali e contributivi dei coniugi sulla regola dell’accordo (17), si è consolidata la tesi
coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 378 s.; XXXXX, Trasferimenti immobiliari a scopo di mantenimento del figlio nel verbale di separazione: causa, qualificazione, problematiche, nota a App. Genova, 27 maggio 1997, in Dir. fam. pers., 1998, p. 576; per una successiva analisi del tema, cfr. anche T.V. XXXXX, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio, Napoli, 2001; XXXXXX, I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione). Ancora, al concetto di «convenzione di diritto familiare» fa richiamo la Cassazione in una decisione del 1983 per affermare l’applicabilità all’accordo di riconciliazione dei principi generali degli artt. 1326-1328 c.c. in tema di formazione del consenso (Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233; in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; per una pronuncia più recente che applica l’art. 1371 c.c. ad una «convenzione accessoria alla sentenza di divorzio» x. Xxxx., 14 luglio 0000, x. 00000; per l’applicazione, poi, delle regole in tema di vizi della volontà all’accordo omologato di separazione consensuale x. Xxxx., 4 settembre 2004, n. 17902; Cass., 29 marzo 2005, n. 6625). Per non dire poi dell’evoluzione più recente in materia di accordi non omologati successivi alla separazione, ove la Cassazione riconosce effetto, ormai da alcuni anni a questa parte, al pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi, in forza del principio sancito dall’art. 1322 c.c., ritenuto senza riserve applicabile al caso di specie, addirittura anche per quanto concerne le pattuizioni concernenti la prole minorenne; conclusione, quest’ultima, che conferma l’espansione dell’operatività della sfera dell’autonomia privata anche nel settore di quei negozi del diritto di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità (Cfr. per esempio Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270, in Corr. giur., 1993, p. 820, con nota di LOMBARDI; in Giust. civ., 1994, I, p. 213, con nota di SALA; in Giust. civ., 1994, I, p. 912; in Dir. fam. pers., 1994, p. 554, con nota di XXXXX; Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Dir. fam. pers., 1994, p. 868; in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 710, con nota di FERRARI; in Giur. it., 1994, I, 1,
c. 1476; in Foro it., 1995, I, c. 2984; in Fam. dir., 1994, p. 148, con nota di X. XXXXXXX; Cass., 11 giugno 1998, n. 5829; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20290, in Fam. dir., 2006, p. 147, con nota di OBERTO).
(11) Su questo concetto cfr. per tutti OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss.
(12) In questo senso cfr. XXXXXXXX, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, in Commentario del codice civile a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 147 s.; X. XXXXXXXXXXX, Xxxxx pretesa inefficacia di accordi non omologati diretti a modificare il regime della separazione consensuale, in Giust. civ., 1985, I, p. 1659 s.; METITIERI, La funzione notarile nei trasferimenti di beni tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, in Riv. notar., 1995, I, p. 1177; X. XXXXXXXXXX, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 407; XXXXXX, Sull’annullamento del verbale di separazione consensuale per incapacità naturale, nota a App. Milano, 18 febbraio 1997, in Fam. dir., 1997, p. 441.
(13) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss.
(14) X. Xxxx., 00 marzo 1991, n. 2788, in Foro it., 1991, I, c. 1787; in Corr. giur., 1991, p. 891, con nota di X. XXXXXXX; sempre in materia di transazione cfr. Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. dir., 1994, p. 660, con nota di CEI; in Vita notar., 1994, p. 1358; in Giust. civ., 1995, I, p. 202; in Dir. fam. pers., 1995, p. 105; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 882, con nota di XXXXXXXX; in Riv. notar., 1995, II, p. 953.
(15) Così Xxxx., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, p. 459.
(16) Per una vicenda in cui la Corte Suprema, dopo avere ribadito con dovizia di particolari in motivazione la tesi della negozialità della separazione consensuale, con un finale «a sorpresa» ha negato l’impugnabilità del relativo accordo per simulazione cfr. Cass., 20 novembre 2003, n. 7607, in Corr. giur., 2004, p. 309 ss., con nota di OBERTO. Si vedano peraltro le successive Cass., 4 settembre 2004, n. 17902, cit., e Cass., 29 marzo 2005, n. 6625, cit., che hanno invece ammesso l’impugnabilità delle medesime intese per vizi del consenso.
(17) Cfr., anche per i rinvii, RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, Milano, 2000, p. 63 ss.
della natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali (18), si è ammessa una rimarcabile sfera di autonomia con riguardo ai regimi patrimoniali (19), si è concessa la più ampia libertà negoziale nei momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi coniugale (20), mentre, sul versante della famiglia di fatto, si è venuta affermando la validità dei contratti di convivenza e, più in generale, di tutte le intese patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché rispettose dei canoni previsti per il contratto in generale (21). Ciò, del resto, conformemente a un’evoluzione che sta caratterizzando le legislazioni di ogni parte d’Europa, se è vero come è vero che proprio nella direzione della negozialità e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage de fait, si muovono le soluzioni normative che di recente, in vari paesi del nostro continente, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali. Questa stessa impostazione sembra ormai destinata a lasciare tracce sempre più profonde anche nella normativa sovranazionale (22).
Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione italiana, possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta evoluzione, il legislatore non solo ha espressamente riconosciuto l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal diritto di famiglia» (23), ma si è spinto ad introdurre, quale nuovo tipo negoziale, un «patto di famiglia» idoneo a disattivare, in relazione a determinati tipi di intese, la tutela riconosciuta da secoli ai legittimari, così «blindando» alcuni negozi volti alla trasmissione endofamiliare della ricchezza, rendendoli impermeabili alla possibile incidenza delle mutevoli vicende che, nel corso degli anni, possono interessare la compagine familiare (24). Quasi contemporaneamente, altri interventi legislativi sono venuti a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c. (25), o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi
(18) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 684 ss.; ID., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.
(19) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 155 ss.; ID, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 636 ss.
(20) Cfr, anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss., 179 ss., 321 ss., 634 ss., II, cit., p. 1212 ss., 1413 ss.
(21) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 8 ss., 151 ss. e ora ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss.
(22) XXXXXX, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 27 ss.
(23) Cfr. l’art. 11, d. legis. 9 aprile 2003, n. 70 «Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui natura contrattuale v. per tutti OBERTO, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è dimostrato in altra sede (OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.), rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.
(24) Sul tema v. per tutti OBERTO, Riflessioni sul patto di famiglia, cit., Cap. II, § 2.
(25) In proposito andrà menzionato che l’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative») ha introdotto l’art. 2645-ter c.c., secondo il quale «Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo xxxxx, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Il più grave dei tanti problemi posti da uno degli ultimi «regali» dell’agonizzante XIV legislatura consiste nell’accertare se ci si trovi o meno di fronte ad un nuovo tipo di negozio, qualificabile come «atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (riferibili a persone con disabilità)»: con la precisazione che l’eventuale risposta positiva dovrebbe indurre a ritenere che, forse per la prima volta, il legislatore è riuscito ad introdurre un nuovo tipo negoziale operando esclusivamente sulle norme concernenti la pubblicità! Sul punto tre sono le possibili risposte. La prima consiste nel disapplicare puramente e semplicemente l’art. 2645-ter c.c., in quanto diretto all’attribuzione di rilievo sul piano delle sole formalità pubblicitarie ad un fenomeno (atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela) che non è regolato dal diritto «sostanziale» (inteso come contrapposto al «diritto pubblicitario»). La seconda via è quella di cercare di individuare quali, tra gli istituti vigenti, sarebbero astrattamente idonei a dar luogo ad atti qualificabili come «di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela», pur non potendo gli stessi concretamente produrre tali effetti, per la presenza di disposizioni in senso contrario. Disposizioni che dovrebbero dunque ritenersi derogate dall’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. Ragionando in questi termini si dovrebbe allora
nell’ambito delle famiglie legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e dissennato contesto di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica, dell’istituto dell’affidamento congiunto, ribattezzato «condiviso», secondo l’italico costume, che s’illude di risolvere i problemi mutando nome alle cose (26).
In quest’ottica non desta stupore che la giurisprudenza non esiti a riferirsi sempre di più a concetti propri del diritto delle obbligazioni anche con riguardo a tipici doveri di carattere personale inter coniuges: così, con riguardo al tema della fedeltà coniugale, mentre nella giurisprudenza di merito (27) non manca chi richiama per i coniugi il concetto di correttezza reciproca, di matrice
«obbligatoria» (cfr. art. 1175 c.c.) e negoziale (28), la Cassazione afferma che il dovere di fedeltà consiste nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca, ossia di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, dedizione che non va quindi intesa soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali (29).
dire che tanto il testamento che il contratto sarebbero istituti potenzialmente idonei a stabilire effetti di vincolo su determinati beni per tutta la vita di un disabile, ma, in concreto, non lo possono fare per via di principi quali il divieto di sostituzione fedecommissaria (al di là degli angusti limiti di cui all’art. 692 ss. c.c.) o il divieto dei patti successori. In quest’ottica si potrebbe, a titolo d’esempio, scorgere nella nuova norma il riconoscimento della validità di disposizioni testamentarie o di patti successori diretti, per l’appunto, a vincolare per il periodo successivo al decesso del disponente e per tutta la durata della vita di un determinato soggetto disabile, uno o più beni. Ne conseguirebbe che gli eredi si vedrebbero costretti a rispettare siffatti vincoli, ancorché eventualmente disposti a suo tempo dal de cuius, magari con manifestazione di volontà inter vivos. Se e come tali norme dovrebbero poi interagire con i diritti attribuiti ai legittimari appare un vero e proprio mistero, per la soluzione del quale si potrebbe forse ricorrere alle disposizioni in tema di cautela sociniana (art. 550 c.c.).
L’ultima soluzione è quella di ipotizzare che il legislatore abbia implicitamente inteso dar vita ad un’autonoma figura negoziale, come appare del resto confermato dal rilievo che la norma in esame contiene anche disposizioni che con il sistema della pubblicità nulla hanno a che vedere (si pensi al principio per cui «per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso»), nonché dall’espresso richiamo al principio di libertà contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. Una figura negoziale che potrebbe dunque costituire il primo esempio di trust «tricolore», in cui la destinazione alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela viene attuata tramite una forma di separazione patrimoniale quanto mai accentuata, estrinsecantesi nel principio per cui «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». In questo senso sembra deporre anche il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2377, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e agevole fruibilità per i soggetti interessati.
Naturalmente, che la nuova figura negoziale possa contenere, oltre ad un profilo di vincolo, anche un vero e proprio momento dispositivo, come nel caso del trust (sulla cui ammissibilità nel nostro ordinamento e sui cui risvolti giusfamiliari si fa rinvio per tutti a OBERTO, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 183 ss.; ID., Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web:
xxxx://xxxxxx.xxxxx.xx/xxxxxxx000000/xxxxxx00xxxxxx0000xxxxx/xxxxxxxxxxxxxxx.xxx), è questione ancora tutta da discutere, posto che il concetto di vincolo non sembra, di per sé, in grado di abbracciare anche il ben diverso fenomeno traslativo del diritto dominicale (sul tema, e per perplessità analoghe a quelle qui espresse, si veda Trib. Trieste, 7 aprile 2006, disponibile al seguente indirizzo web: xxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xxx/xxxxx.xxx?xxxxxxxxxxxxxxxxx&xxxxxx000; in un’ottica invece molto diversa si colloca LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts att. fid., 2006, p. 169 ss.).
(26) Si pensi (ma l’argomento è sviluppato dallo scrivente in altra sede: cfr. OBERTO, Contratto e vita familiare, cit. cap. I, §§ 1, 6) alle disposizioni del nuovo art. 155, cpv. c.c. (estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», o al nuovo quarto comma dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». Va rilevato che quest’ultima disposizione viene addirittura a porsi (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost. L’accordo delle parti può pure derogare ai parametri di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole (cfr. art. 155, quinto comma, c.c.).
(27) Cfr. i richiami in CENDON e XXXXXXXX, Xxx, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1290.
(28) Tramite il rinvio al concetto di buona fede in senso oggettivo, in cui è ovviamente insita l’idea della correttezza (v. su questo tema per tutti DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, nel Commentario del codice civile a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 290 ss.): cfr. artt. 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.
(29) Cass., 18 settembre 1997, n. 9287, in Giust. civi., 1997, I, p. 2383.
2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio.
Per affrontare il peculiare profilo dei rapporti tra dinamiche familiari e responsabilità contrattuale, occorre partire dal dato per cui siffatto tipo di responsabilità costituisce l’obbligo di risarcimento del danno conseguente all’inadempimento di un’obbligazione, secondo quanto descritto dall’art. 1218 c.c. (30), che prevede l’ipotesi del «debitore» che non esegue esattamente «la prestazione dovuta». In effetti, nel linguaggio legislativo, il termine «debitore» indica esclusivamente il soggetto passivo dell’obbligazione, e il termine «prestazione» esprime tipicamente l’oggetto del rapporto obbligatorio. Il fatto dell’inadempimento è così letteralmente riferito all’inesecuzione dell’obbligazione, come risulta anche dalla intitolazione del capo in cui è contenuta la norma e dalla sua collocazione nel titolo che disciplina l’obbligazione in generale (31).
Sarà poi il caso di sottolineare come, dal punto di vista terminologico, la denominazione invalsa per descrivere il fenomeno in questione, vale a dire «responsabilità contrattuale», sebbene confortata da un lungo uso, sia imprecisa: il contratto, invero, non è che una delle fonti di obbligazione e pertanto non è corretto assegnare l’attributo contrattuale alla responsabilità che può derivare dall’inadempimento di qualsiasi obbligazione, nascente da contratto o da altra fonte, secondo quanto stabilito dall’art. 1173 c.c. (32).
La questione è dunque quella di vedere se e in che misura possano darsi, nell’ambito dei rapporti familiari o parafamiliari, vere e proprie obbligazioni (33). Il quesito rileva in modo particolare avuto riguardo al necessario requisito della patrimonialità della prestazione, secondo
(30) La letteratura sul tema – nonché sull’irrisolta questione dei rapporti tra gli artt. 1218 e 1176 c.c. – è, ovviamente, immensa. Cfr. ex multis (e per gli ulteriori, necessari, rinvii) XXXXXXX, La teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1948, p. 422 ss., III, Milano, 1948, p. 252 ss.; XXXXXXX, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, II, Torino, 1955, p. 49 ss.; COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore. Problemi generali, Milano, 1955, p. 29 ss.; XXXXXXXXXX, L’inadempimento, Milano, 1959, p. 183 ss.; BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, nel Commentario del codice civile a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1967, p. 1 ss.
(31) Cfr. BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, cit., p. 2.
(32) Su questo rilievo v. per tutti DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1946, p. 38 s.
(33) Il nostro codice civile, che in generale non sembra mostrarsi poi così restio a fornire definizioni di istituti giuridici (dal testamento alla proprietà, al contratto, a buona parte dei contratti speciali, all’azienda, ecc.), non presenta la nozione di obbligazione; esso si limita invece, nelle «disposizioni preliminari» (capo I) del titolo del libro quarto, a dettare tre disposizioni (artt. 1173, 1174 e 1175), delle quali una soltanto (il principio della patrimonialità della prestazione) può aiutare l’interprete nella definizione del concetto in esame.
Il progetto ministeriale del codice civile, libro delle obbligazioni, del 1940 definiva l’obbligazione come «un vincolo in virtù del quale il debitore è tenuto verso il creditore ad una prestazione positiva o negativa». Nel secondo progetto ministeriale la definizione sparì e la Relazione al Re (n. 557) chiarì che la soppressione era stata deliberatamente effettuata, dovendo la definizione degli istituti giuridici «essere lasciata alla dottrina».
Ora, la dottrina si è tradizionalmente rifatta alle definizioni romanistiche, contenute in due passi delle fonti. Il primo, tratto dalle istituzioni di Giustiniano (I, 3, 13 pr.), suona nella maniera seguente: «obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis iura». Il secondo è tratto dal digesto (D, 44, 7, 3) ed afferma che «obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum, vel servitutem nostram faciat; sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum». Come si vede, l’art. 1 del citato progetto ministeriale del codice civile manifestava l’evidente influsso dei suddetti passi, nonché del § 241 BGB che, sotto la rubrica «Natura del rapporto obbligatorio», prevede che
«Per effetto del rapporto obbligatorio il creditore è autorizzato a pretendere dal debitore una prestazione, che può anche consistere in un comportamento negativo».
In conseguenza di quanto testé illustrato può dunque dirsi che l’obbligazione è un vincolo, cioè un rapporto giuridico (diritto soggettivo patrimoniale e relativo) in virtù del quale un soggetto, il debitore, deve tenere un dato comportamento nell’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Il comportamento, detto prestazione, può consistere a sua volta in un dare, in un fare o in un non fare una determinata cosa. Gli elementi costitutivi dell’obbligazione possono essere sinteticamente individuati nei seguenti cinque: (a) i soggetti, più precisamente il soggetto attivo (creditore) e quello passivo (debitore); (b) il contenuto, che nel caso di specie consiste nella prestazione, cioè nel comportamento (dare, fare o non fare) che il debitore deve tenere nell’interesse del creditore; (c) l’oggetto, che è dato dal bene, dall’utilità, o dal vantaggio che il creditore intende ottenere con l’adempimento dell’obbligazione; (d) il vincolo giuridico (che riunisce i precedenti tre elementi), in forza del quale il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione dovuta ed il creditore ha il diritto di pretenderne l’esecuzione; (e) l’interesse del creditore, cui deve corrispondere la prestazione dovuta. Sulla definizione del concetto di obbligazione si potranno vedere – ex multis – XXXXXXX, La teoria generale delle obbligazioni, I, cit., p. 9 ss.; CICU, L’obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, p. 1 ss.; BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 9 ss., 45 ss.; XXXXXXX, op. cit., p. 1 ss.; DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 1 ss.; BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1990, p. 1 ss.
quanto disposto dall’art. 1174 c.c. E’ noto che la ratio di tale norma – secondo cui la disciplina dell’obbligazione è applicabile a quelle sole prestazioni-comportamenti che possono essere valutate in termini pecuniari – è quella di raccordare le regole sulle obbligazioni a quella che è la realtà dei rapporti di mercato, nel senso che i valori tutelati sono quelli di scambio: dunque, non quelli che quel bene o utilità ha per se stesso, ma il valore che esso ha in quanto mezzo di scambio (34).
In linea di principio potrebbe apparire dunque problematico reperire obbligazioni
«endofamiliari», essendo la famiglia luogo d’elezione per rapporti che, sebbene caratterizzati dalla giuridicità e dalla vincolatività, non sono suscettibili di valutazione economica (35).
Si pensi, ad esempio, all’impegno che due innamorati si prestassero l’un l’altro di rimanere reciprocamente fedeli o ad analogo vincolo che due conviventi more uxorio intendessero assumere nell’ambito di un contratto di convivenza: promesse di tal genere non potrebbero dar luogo ad un’obbligazione, in quanto la fedeltà ad una persona è un bene che non può essere valutabile in denaro, esattamente come l’impegno a convivere o l’obbligo di non mutare le proprie convinzioni politiche o religiose. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, ad esempio, di adottare una certa persona (36); né la soluzione potrebbe essere reperita mediante la pattuizione di una penale, come pure si dirà oltre (37).
E’ vero, peraltro, che non fanno difetto autorevoli opinioni dottrinali che, anche in relazione ai doveri giuridici non caratterizzati dalla patrimonialità ammettono, in difetto di un’apposita disciplina legislativa, la possibilità di un’estensione analogica dei principi in tema d’inadempimento, ciò che dovrebbe dirsi anche con riferimento alla sanzione del risarcimento del danno, la quale prescinde dalla patrimonialità dell’obbligo violato (38).
E questa conclusione potrebbe anche parere confermata dal fatto che non mancano certo norme codicistiche che espressamente prevedono la sanzione del risarcimento del danno per violazioni di obblighi del diritto di famiglia non sempre qualificabili alla stregua di obbligazioni: si pensi al disposto dell’art. 382 c.c. (39), correlato al dovere del tutore (nonché degli altri soggetti indicati dall’art. 424 c.c.) avente ad oggetto quella «cura della persona del minore» (art. 357 c.c.), che non può certo ritenersi limitata ai profili di carattere patrimoniale (40).
Resta però il fatto, incontestabile, che riconoscere e trattare come inadempimento di un’obbligazione qualsiasi violazione di un dovere giuridico inter coniuges, anche se non caratterizzato dalla patrimonialità, farebbe perdere di vista la possibilità stessa di configurare fattispecie di responsabilità aquiliana tra marito e moglie. Infatti, ogni violazione di un diritto soggettivo assoluto compiuta da un coniuge contro l’altro (si pensi all’integrità fisica, all’onore, al patrimonio, ecc.) rappresenta sempre, inevitabilmente, anche la violazione di uno dei doveri scolpiti nell’art. 143 c.c. (41), con conseguente «contrattualizzazione» di tutte queste ipotesi. Appare dunque più corretto ritenere che il fenomeno descritto dall’art. 1218 c.c. trovi applicazione solo con
(34) Così DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 91 ss., 250 ss.; cfr. inoltre sul tema CIAN, Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1968, I, p. 232 ss.; XXXXXXXXX, Il problema della patrimonialità della prestazione con riferimento all’attività di culto e di assistenza spirituale svolte dal religioso per contratto in casa di cura privata, nota a Cass., 20 ottobre 1984, n. 5324, in Quadrimestre, 1986, p. 176 ss.; XXXXXX, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 77 ss.
(35) XXXXXXXXXX, L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, cit., p. 23 ss., 68 ss. secondo cui non erano obbligazioni gli obblighi ex artt. 144 e 145 c.c. 1942 (obbligo della moglie di accompagnare il marito ovunque egli credesse opportuno di fissare la sua residenza; obbligo del marito di proteggere la moglie e di mantenerla presso di sé); DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 91 s., che nega la natura di obbligazione, ad esempio, agli obblighi di collaborazione esistenti nell’ambito familiare o a quello di coabitazione, ex art. 143 c.c. Per una disamina dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio si rinvia, per tutti, a PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in Il codice civile. Commentario a cura di Xxxxxxxxxxx, Milano, 1990, p. 32 ss.; RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, cit., p. 205 ss.
(36) Sull’argomento cfr. Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604.
(37) Xxx. xxxxx, § 00.
(38) BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, cit., p. 3; nello stesso senso v. anche XXXXXXXXXX,
L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, Lezioni tenute nell’anno accademico 1944-45, Catania, 1946, p. 29 ss.
(39) Per questo richiamo v. anche XXXXXXXXXX, L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, cit., p. 23 ss.
(40) Sul concetto di «cura della persona del minore» v. per tutti JANNUZZI, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, p. 134.
(41) Sui rapporti tra violazioni dei doveri coniugali (con particolare riguardo al dovere di assistenza) e illecito aquiliano cfr. anche XXXXXX e SEBASTIO, Xxx, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1288 ss.
riguardo a quei doveri giuridici tecnicamente qualificabili come «obbligazioni» e dunque caratterizzati dalla patrimonialità, secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c., laddove le violazioni degli altri doveri lasceranno aperto il campo alla valutazione di ingiustizia del danno per una possibile applicazione dell’art. 2043 c.c.: problema, questo, da risolvere tenuto conto dell’opinione che si intenda seguire sui concetti di «danno ingiusto» e di «meritevolezza di tutela» degli interessi in gioco.
Si vedrà tra breve quali effetti siffatto criterio restrittivo è in grado di produrre concretamente, avuto riguardo alle situazioni e ai rapporti giuridici che possono venirsi a creare nell’ambito delle relazioni tra i componenti il nucleo familiare. Per il momento appare invece opportuno accennare brevemente ad un altro degli ostacoli che vengono usualmente frapposti alla possibilità di ravvisare fattispecie di responsabilità endofamiliari, vale a dire la sussistenza (con particolare riferimento al caso dei coniugi) di specifiche sanzioni per violazioni di doveri familiari previste da apposite norme di legge.
3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.
E’ innegabile che molti dei doveri endofamiliari a contenuto sia patrimoniale che non patrimoniale siano già muniti di una propria «speciale» sanzione, diversa dal risarcimento del danno, ciò che potrebbe indurre ad escludere il rimedio descritto dall’art. 1218 c.c. anche in relazione a doveri qualificabili alla stregua di obbligazioni ex artt. 1173 ss. c.c. Quanto mai significativa è la vicenda della violazione degli obblighi di carattere personale nascenti dall’art. 143
c.c. e, tra questi – tanto per portare un celebre esempio – il dovere di fedeltà tra coniugi (42).
Sul punto vi è infatti da chiedersi se i rimedi e le sanzioni che l’ordinamento appresta con riguardo alle violazioni dei doveri coniugali e, in primo luogo, l’addebito – istituto, questo, peraltro guardato, come noto, da tempo con un certo sfavore – possano inibire il ricorso del danneggiato al rimedio risarcitorio (43).
L’orientamento tradizionale tende ad escludere in tali casi l’azione risarcitoria (44). Anche la Corte di Cassazione si è espressa in senso negativo, affermando che «dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento dei figli e della casa coniugale), solo un diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro, quando ne ricorrono le circostanze specificatamente previste dalla legge. Tale diritto
(42) Come rileva XXXXXXXX, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità xxxxxx, xxx., x. 00 xx., xx Xxxxxxx, l’art. 266 del Code civil prevede espressamente che in caso di divorzio il coniuge possa ottenere la condanna dell’altro al risarcimento dei danni per il pregiudizio materiale o morale conseguenti alla dissoluzione del matrimonio. Si tratta di una norma che, nel momento in cui afferma espressamente la responsabilità del coniuge, sembrerebbe coprire un’area di responsabilità altrimenti non riconducibile alla clausola generale di responsabilità civile. In Italia, in assenza di una norma analoga, la dottrina appare divisa tra chi prospetta una sorta di «immunità» della famiglia rispetto alle regole del diritto comune, e chi, invece, ritiene che l’era dell’immunità sia finita e che la responsabilità civile possa essere uno strumento in più offerto ai coniugi a tutela dei propri diritti; questa seconda posizione è ben rappresentata da PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit.; X. XXXXXXX XXXXX XXXXX, Violazione dei doveri coniugali, immunità o responsabilità?, cit., p. 605 ss.; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, cit., p. 189; XXXXXXXXX, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, cit., p. 164; DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, cit., p. 745 ss.; XXXXXXXX, op. loc. ultt. citt. La prima tesi è sostenuta invece da XXXXXXXX, L’infedeltà: quanto può costare? Ovvero, è lecito tradire solo per amore, cit., p. 524; ID., Adulterio e risarcimento dei danni per violazione dell’obbligo di fedeltà, in Fam. dir., 1997, p. 463; XXXXX, La famiglia e il danno esistenziale, cit., p. 253; XXXXXXXX, I rapporti personali tra i coniugi, cit., p. 335 ss.). Sul tema specifico della violazione del dovere di fedeltà v. per tutti CENDON, Non desiderare la donna d’altri, nota a Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Contratto e impresa, 1990, p. 357; cfr. anche Trib. Monza 15 marzo 1997, cit.; XXXXX, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 23 ss.; XXXXXXX, op. cit., p. 135 ss.
(43) Sul tema cfr. XXXXXX e XXXXXXXX, Xxx, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1257 ss.; v. inoltre FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 50 ss.
(44) Per i rinvii x. XXXXXXX, La responsabilità civile fra coniugi: questioni generali e singole fattispecie, in AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Xxxxxx, III, cit., p. 2806 ss.
esclude la possibilità di richiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa» (45).
Secondo la Corte, ciò dipende non tanto dal fatto che «l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno soltanto dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi – proprio in omaggio al principio secondo cui inclusio unius, exclusio alterius – che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.». Considerazioni, queste, che – ove ritenute accettabili –ben potrebbero estendersi alla responsabilità contrattuale.
In proposito si è però obiettato (46) che una posizione di così netta chiusura non tiene conto delle profonde trasformazioni che hanno investito il diritto di famiglia e la responsabilità civile. Nel passaggio dalla separazione per colpa alla separazione per intollerabilità della convivenza l’istituto ha perso la connotazione «sanzionatoria» che possedeva nel precedente sistema, per acquistare quella di rimedio al fallimento del matrimonio. La pronuncia di addebito ha un carattere meramente eventuale ed intende colpire solo quelle condotte che hanno svolto un ruolo determinante, causale, nel provocare il fallimento dell’unione. D’altro canto, non ogni violazione dei doveri del matrimonio è causa di addebito, ma soltanto quelle che hanno determinato la crisi, dal momento che una violazione anche grave, ma commessa dopo che la vita comune era già irrimediabilmente deteriorata, non costituisce causa di addebito.
Ancora, occorre tenere presente che l’evoluzione giurisprudenziale ha variamente circoscritto e marginalizzato il ruolo dell’addebito, sia dando rilevanza solo a condotte che abbiano questa efficacia causale sul fallimento dell’unione, sia sancendo la fine del «mutamento di titolo» della separazione, sia, da ultimo, decretando l’ammissibilità della sentenza «parziale di separazione», vale a dire l’ammissibilità di una pronuncia di separazione con rinvio a separato giudizio della questione relativa all’addebito (47).
Può dunque dirsi che, per quanto attiene all’obiezione fondata sull’esistenza, per la violazione dei doveri specifici esistenti inter coniuges, di sanzioni speciali, che, come tali, impedirebbero il ricorso a rimedi di carattere generale e, segnatamente, alle fattispecie della responsabilità civile, non pare esservi un ostacolo di principio al concorso tra i diversi tipi di
(45) Cass. 6 aprile 1993, n. 4108; cfr. inoltre Cass., 21 marzo 1993, n. 3367 (che nega la presenza di una situazione qualificabile come di danno ingiusto, «che presuppone una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto»).
(46) XXXXXXXX, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 51 ss. Anche per FRACCON, La responsabilità civile fra coniugi: questioni generali e singole fattispecie, cit., p. 2807 non vi è alcuna incompatibilità tra rimedi tipici giusfamiliari e tutela risarcitoria, operando essi su piani distinti, «allo stesso modo in cui nessuno si sognerebbe di escludere la tutela penale degli stessi fatti che giustificano l’addebito (o le altre conseguenze tipiche della violazione dei doveri familiari)». In senso critico nei confronti della tesi che nega la possibilità di ravvisare fattispecie di responsabilità civile in relazione a situazioni che si sostanziano nella violazione di doveri coniugali v. anche XXXX, BESSONE e XXXXXXX, Atipicità dell’illecito, I, Persone e rapporti familiari, Milano, 1993, p. 1 ss.; VILLA, Gli effetti del matrimonio, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Xxxxxxxx e Xxxxxxxx, I, Famiglia e matrimonio, Torino, 1997, p. 319; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, cit., p. 196.
(47) XXXXXXXX, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 51 ss. L’Autrice rileva ulteriormente a tale riguardo che «che le ragioni dell’abbandono del principio della colpa e del successivo scolorire dell’addebito si riassumono sinteticamente nell’idea per cui il momento della crisi del matrimonio, il giudizio di separazione, non costituisce il luogo più adatto per fare i conti con il passato. L’accentuarsi del conflitto, che inevitabilmente ne consegue, costituisce un danno ulteriore per i coniugi, e soprattutto per i figli, i cui interessi finiscono per essere strumentalizzati. Di qui la prassi invalsa nei tribunali di indirizzare il tentativo di conciliazione non tanto ad un’improbabile riconciliazione dei coniugi ma, più realisticamente, alla trasformazione della separazione giudiziale in consensuale; di qui non solo le ripetute proposte di eliminare del tutto l’addebito, ma anche e soprattutto quelle di incentivare il ricorso a interventi di mediazione familiare intesi a ridurre le punte più alte del conflitto, a valorizzare l’accordo ancora possibile, per trovare una soluzione condivisa ai problemi di gestione delle responsabilità parentali ed, eventualmente, anche a quelli di natura economica. L’addebito, d’altra parte, influisce solo marginalmente sulle conseguenze economiche della separazione in quanto incide esclusivamente sulla posizione del beneficiario, ma non su quella dell’obbligato al pagamento dell’assegno. La perdita dei diritti successori, poi, anticipa solo di alcuni anni quelle sarebbero comunque le conseguenze del divorzio». Nel senso che la negazione della possibilità di azionare la tutela aquiliana significherebbe addossare al coniuge adempiente i pregiudizi ulteriori rispetto a quelli considerati dalla disciplina della separazione e del divorzio e in genere rinvenibili nel deterioramento delle condizioni economiche cfr. DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, cit., p. 746.
rimedio, come dimostrano, del resto, in ambiti molto diversi tra loro, l’art. 129-bis c.c. e l’art. 6, ult. cpv., 1. div., l’art. 49 cpv., 1. adoz. In particolare, ha sicuramente natura risarcitoria l’ «indennità» che spetta al coniuge in buona fede nel caso in cui l’annullamento del matrimonio sia imputabile all’altro (art. 129-bis c.c.): il che conferma che rimedio giusfamiliare e rimedio risarcitorio non sono, in linea di principio, tra loro incompatibili (48) e analogamente può rilevarsi che pure nell’ambito della promessa di matrimonio l’obbligo risarcitorio previsto dall’art. 81 c.c. – sulla cui natura molto si discute (49) – tranquillamente convive con il rimedio «tipico» della restituzione dei doni, ex art. 80 c.c. (50).
Quanto sopra appare, poi, ulteriormente confermato da altre considerazioni. Non sembra infatti che, anche al di fuori del campo specifico del diritto di famiglia, la presenza di una sanzione specifica per determinate violazioni impedisca i rimedi generali previsti per l’istituto di riferimento. Così è del tutto pacifico che, ad esempio, la presenza del rimedio speciale ex art. 2932 c.c. non impedisce certo al creditore di un’obbligazione avente ad oggetto l’impegno a stipulare un contratto definitivo di xxxxxxxsi dal domandare la sentenza costitutiva, e di chiedere invece il risarcimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. Non solo: la giurisprudenza ammette, correttamente, il concorso tra rimedio specifico ed azione risarcitoria, riconoscendo che non ogni forma di danno può essere risarcita dall’esecuzione forzata in forma specifica (51).
Ai rilievi sin qui svolti potrà infine aggiungersi il dato fornito dall’introduzione, ad opera dell’art. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, dell’art. 709-ter c.p.c. In forza di tale disposizione, il «giudice del procedimento in corso» può, «in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» (oltre che modificare i provvedimenti in vigore, e/o ammonire il genitore inadempiente, e/o condannare tale genitore ad una sanzione amministrativa pecuniaria)
«disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore» e/o
«disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro».
Xxx, a parte le gravissime questioni processuali che la norma in oggetto solleva (52), rimane il fatto che il legislatore ha inteso chiaramente mostrare che l’inadempimento ai doveri relativi alla
(48) XXXXXXXX, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 57. Per una disamina delle questioni relative alle fattispecie risarcitorie legate all’invalidità del matrimonio, impossibile in questa sede, si fa rinvio, per tutti, a FERRANDO, Il matrimonio, Milano, 2002, p. 707 ss.
(49) Per tutti cfr. XXXXXX, La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 201 ss.
(50) Per tutti cfr. XXXXXX, La promessa di matrimonio tra passato e presente, cit., p. 107 ss.
(51) Cfr. Cass., 13 dicembre 1980, n. 6482.
(52) Si pensi solo, tra i tanti, ai problemi seguenti.
(a) Individuazione del giudice competente in caso di filiazione naturale: qui, atteso che l’art. 38 disp. att. c.c. non ha subito modifiche, appare logico ritenere che permanga la competenza del tribunale per i minorenni.
(b) Individuazione del giudice competente, in relazione ad ogni «tipo» di crisi familiare (separazione, divorzio, nullità del matrimonio, filiazione naturale), nel caso il «giudice del procedimento in corso» sia la corte d’appello o la Corte Suprema di Cassazione: se la lettera della norma induce a ritenere che anche di fronte a tali uffici si potranno discutere le questioni in oggetto, rimane il fatto che nel primo caso si perdere un grado di giudizio, mentre nel secondo non è addirittura ammessa alcuna impugnazione.
(c) Determinazione dell’organo, in ogni caso, competente per siffatto tipo di provvedimenti: il riferimento al «giudice del procedimento in corso» – contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Modena, con suo provvedimento in data 7 aprile 2006 (in D&G, 14 aprile 2006, con commento di XXXXXXXXXX) – non può che far pensare al collegio e non certo all’istruttore.
(d) Accertamento della natura che deve assumere il provvedimento di condanna: contrariamente, anche in questo caso, a quanto ritenuto dalla decisione di merito appena citata, dovrà riconoscersi che l’idoneità della misura ad incidere su diritti soggettivi impone il rispetto della forma non già del decreto o dell’ordinanza, ma della sentenza; nella specie si tratterà di una sentenza parziale emessa
«congiuntamente» (come richiesto dall’art. 709-ter cit.) all’eventuale ordinanza di modifica dei provvedimenti in vigore, ma comunque da essa distinta e (sempre come richiesto dall’art. cit.) impugnabile «nei modi ordinari», cioè, appunto, come una sentenza (inutile aggiungere che le medesime conclusioni andrebbero predicate anche se il provvedimento avesse una veste formale diversa, atteso il noto principio, costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, della prevalenza della sostanza sulla forma).
(e) Carattere «esclusivo» della procedura delineata (si fa per dire…) dalla norma in oggetto, ovvero sua possibile alternatività rispetto ad un’azione risarcitoria proposta in via autonoma con rito ordinario: la lettera dell’art. 709-ter c.p.c. sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) imporre per l’azione risarcitoria il ricorso al procedimento speciale solo allorquando la pretesa sia strettamente legata a (e dipendente da) una «controversia sull’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento», insorta nel corso di una procedura, attualmente ancora pendente, di separazione, divorzio (o di modifica delle relative condizioni), di annullamento del matrimonio, o, ancora, tra genitori naturali ex art. 317-bis c.c. Negli altri casi dovrebbero invece valere le regole di competenza ordinarie.
potestà genitoriale può essere fonte di danno risarcibile e che siffatto risarcimento ben può accompagnarsi agli usuali rimedi (modifica dei provvedimenti in vigore), così come a quelli novellamente introdotti (ammonimento, sanzione amministrativa pecuniaria).
Concludendo sul punto non sembra possa dirsi che la presenza di sanzioni specifiche di tipo giusfamiliare ostacoli di per sé, e in linea di principio, il riconoscimento di una responsabilità inter coniuges, aquiliana o contrattuale che sia. Semmai, occorrerà insistere sulla necessità di riconoscere, per la responsabilità contrattuale, l’esistenza di un rapporto obbligatorio e dunque di contenuto patrimoniale, laddove i doveri coniugali, eccezion fatta per quello di contribuzione ai bisogni della famiglia, hanno, invece, un contenuto di natura personale, il che spiega perché gli artt. 1218 ss. c.c. non possano, in linea di massima, trovare applicazione in questo campo (53).
Sarà d’uopo intrattenersi dunque brevemente sul dovere di contribuzione, per passare successivamente alla responsabilità contrattuale da violazione delle obbligazioni previste dalle disposizioni in tema di regimi patrimoniali, dalle regole (di fonte legale o convenzionale) relative alla crisi coniugale, o da quelle concernenti i profili patrimoniali del rapporto con la prole, per concludere questo studio con la disamina di possibili ipotesi di responsabilità contrattuale in seno alla famiglia di fatto.
4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi.
L’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia, che l’art. 143, terzo comma, c.c. pone a carico di entrambi i coniugi, si presenta come l’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra di essi (54). Per quanto attiene alla sua concreta determinazione si discute in dottrina se esso possa essere inteso solo alla stregua di un dovere di mantenimento reciproco non subordinato alla mancanza di mezzi dell’altro coniuge (55), o non piuttosto una forma di specificazione del dovere reciproco di assistenza materiale (56).
I coniugi hanno, come noto, il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia «ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Tale dovere, anche se riguarda prestazioni di carattere economico e costituisce, dunque, una vera e propria obbligazione, in stretto collegamento con i doveri di assistenza e di collaborazione nell’interesse della famiglia, rappresentando un completamento di questi ultimi, sia come supporto economico in chiave solidaristica, sia come già ricordata espressione del principio di uguaglianza all’interno della comunità familiare.
Si è rilevato che la violazione del dovere di contribuzione può assumere caratteristiche diverse, come ad esempio, il rifiuto di svolgere un’attività lavorativa confacente, oppure lo sviamento di sostanze proprie o dell’altro coniuge (o dei proventi realizzati attraverso la propria capacità di lavoro o professionale) dal loro naturale impiego, in vista del soddisfacimento delle comuni esigenze familiari, per essere destinate ad attività estranee ai bisogni della famiglia (57). In
(53) Per un’analoga constatazione x. XXXXXXXX, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 58 s., la quale nota che, tuttavia, in termini di «induzione all’inadempimento», per i profili di responsabilità dell’amante della moglie nei confronti del marito (responsabilità però esclusa nel caso di specie), si è espressa Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1989, p. 559, con nota di PALETTO; sul tema v. inoltre il commento di CENDON, Non desiderare la donna d’altri, cit., p. 357 ss.; cfr. anche Trib. Monza 15 marzo 1997, cit.
(54) Così FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, p. 614 ss.; cfr. inoltre ZATTI, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato di diritto privato, diretto da Xxxxxxxx, III, Torino, 1982, p. 45 ss.; ALAGNA, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1979, p. 318; PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in Il codice civile, cit., p. 74 ss.; RUSCELLO, Diritti e doveri nascenti dal matrimonio, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Xxxxx, I, Famiglia e matrimonio, 1, Milano, 2002, p. 773; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 38.
(55) Questo è l’avviso di XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Note introduttive agli articoli 24-28 Nov., in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Xxxxxxx, Oppo e Xxxxxxxxx, I, 1, Padova, 1977, p. 221. Contra, FALZEA, op. loc. ultt. citt.; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, Milano, 1979, p. 25.
(56) Cfr. IRTI, Il governo della famiglia, in AA. VV., Il nuovo diritto di famiglia. Atti del convegno organizzato dal Sindacato Avvocati e Procuratori di Milano e Lombardia, Milano, 1976, p. 42.
(57) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 38.
realtà, ciò che rileva ai fini in discorso non sono tanto le manifestazioni di scarso attaccamento al lavoro o di affezione ad uno stile di vita «dissoluto», quanto l’obiettiva mancata corresponsione (in denaro o in natura) della contribuzione. E il rimedio in questo caso non può essere rinvenuto in
«un’azione extracontrattuale al fine di riparare i danni cagionati in violazione del dovere di contribuzione» (58), posto che la citata presenza di un’obbligazione ex lege deve invece qui indurre a riconoscere l’esperibilità dell’azione ex art. 1218 c.c.
A determinare il carattere di vera e propria obbligazione del dovere di contribuzione contribuisce l’idea, condivisa quanto meno da una parte della dottrina (59), secondo cui un coniuge può convenire in giudizio l’altro per chiederne la condanna ad adempiere. Né in senso contrario sembra possano valere le obiezioni di chi vorrebbe argomentare il distacco della materia in esame dal diritto comune delle obbligazioni sulla base di considerazioni di tipo puramente terminologico (60). Proprio su questo piano potrà, anzi, notarsi che il termine «obbligazione» compare non solo negli artt. 148 e 186, lett. c), ma anche nell’art. 218 c.c., così rendendosi chiaro che i rapporti tra coniugi, laddove abbiano ad oggetto una prestazione patrimoniale, ben possono ricadere sotto il disposto degli artt. 1173 ss. c.c. Inoltre, non sembra possano dispiegare soverchio rilievo le preoccupazioni mosse in tema di esecuzione coattiva (61), posto che la coercibilità in forma specifica non è certo elemento imprescindibile del rapporto obbligatorio (ché, altrimenti, non potrebbe considerarsi alla stregua di un’obbligazione l’impegno assunto da un celebre pittore di eseguire il mio ritratto) e dunque anche forme di contribuzione «in natura» (si pensi all’attività lavorativa domestica) ben possono essere sostituite da una prestazione pecuniaria, mercé la condanna al risarcimento del danno.
A conforto della soluzione qui proposta circa la natura di vera e propria obbligazione, propria del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., giungono del resto, e da tempo, svariate prese di posizione della giurisprudenza. Così, già nel 1939, una corte di merito ammetteva l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria – vale a dire di un tipico rimedio a tutela del creditore di un rapporto ex artt. 1173 ss. c.c. – da parte della moglie contro atti di disposizione del marito tendenti a diminuire la garanzia patrimoniale del credito dalla donna vantato a titolo di mantenimento ai sensi degli abrogati artt. 132 c.c. 1865 e 145 c.c. 1942 (62). Avviso, questo, successivamente per implicito ribadito dalla Corte di legittimità nel 1971 (63), la quale, in epoca ancora più recente, ha mostrato di dare siffatta soluzione per scontata, stabilendo che «Ai fini dell’azione revocatoria promossa nei confronti di un atto con cui il debitore, a seguito della separazione dal coniuge, abbia trasferito a
(58) Così, invece, FACCI, op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre CASSANO, op. cit., p. 159 ss.
(59) Cfr. ad esempio CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 29 ss., cui si fa rinvio anche per un’illustrazione degli altri rimedi specifici per l’inadempimento del dovere in discorso.
(60) «Sicuro è dunque il distacco dal diritto comune delle obbligazioni, e di ciò si rinviene già un riflesso nelle oscillazioni che caratterizzano la terminologia, che parla ora di doveri (art. 30 Cost.; 143, 315, rubrica, ecc.), ora di obblighi (143, comma 2°, 147 c.c.), ora di obbligazioni (148, 186, lett. c), c.c.), talvolta contraddicendo nel testo la rubrica dell’articolo (ad es., nell’art. 147 c.c.). Si conferma così la loro natura composita e la partecipazione a caratteri che ne impediscono la traduzione in vere e proprie obbligazioni se non nell’ipotesi patologica di inadempimento o con riguardo alle singole prestazioni concrete in cui tale obbligo, di volta in volta, si specifica»: cfr. PARADISO, op. cit., p. 75 s. In una posizione, per così dire, intermedia tra l’opinione qui riferita e quella sostenuta nel testo sembra collocarsi la tesi di XXXXXXXXX, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 170 s., secondo cui «un’impostazione formalmente rigorosa vorrebbe che per le implicazioni di carattere patrimoniale derivanti dall’obbligo di contribuzione si configurasse un terzo ordine di rapporti intermedio tra quelli puramente personali e ciò che costituisce regime patrimoniale in senso stretto. Non può d’altra parte trascurarsi il fatto che l’esistenza in tal caso di un potere in senso tecnico non contraddice al criterio di distribuzione del diritto e dell’obbligo valido in generale nei rapporti personali tra i coniugi, ma ne rappresenta piuttosto l’adattamento in considerazione delle immediate possibilità di tutela, derivanti a favore dei singoli, dal carattere patrimoniale di una prestazione. È quindi per sottolineare un aspetto fondamentale di continuità e valorizzarne il rilievo in ordine all’intendimento di un’ipotesi “eccezionale” che manteniamo la considerazione di quest’ultima nell’àmbito dei rapporti personali».
(61) Così XXXXXXXXX, Doveri familiari e obbligazioni alimentari, Milano, 1994, p. 37 s. cfr. inoltre CONTIERO, op. cit., p. 135 ss.
(62) App. Venezia, 10 luglio 1939, in Giur. it., 1940, I, 2, c. 114.
(63) Cfr. Cass., 18 marzo 1971, n. 755: «L’obbligazione del marito del mantenimento della moglie, a seguito della decisione della Corte costituzionale del 24 giugno 1970, n 133, declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art 145 cod. civ., è subordinata alla condizione che ella non abbia mezzi sufficienti per provvedere a se stessa. Non essendo perciò incondizionato e immanente il credito per mantenimento a favore della moglie, xxxxxx non è legittimata per la sola sua qualità di coniuge a proporre azione revocatoria nei confronti di atti di disposizione effettuati dal marito». La Cassazione respinse dunque la domanda non già perché la moglie non potesse qualificarsi, in astratto, come «creditrice», ma sol perché tale credito era condizionato alla ricorrenza di determinate circostanze non presenti nel caso di specie.
quest’ultimo la proprietà di un bene, in adempimento del proprio obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge e dei figli, l’attribuzione deve qualificarsi a titolo oneroso, salvo che non sia intervenuta, anteriormente al trasferimento, una riconciliazione tra i coniugi, nel qual caso si è in presenza di un’attribuzione a titolo gratuito» (64).
5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare.
Rinviando all’analisi svolta in altra sede circa l’ammissibilità e la rilevanza di accordi tra coniugi sull’indirizzo della vita familiare, conformemente, del resto, a quanto disposto dall’art. 144 c.c., potrà rilevarsi, in linea generale, che dottrina e giurisprudenza si presentano divise sull’attribuzione del carattere negoziale a siffatto accordo (65).
Peraltro, qualunque sia la soluzione che si vuole dare a tale problema, è comunque innegabile che, con la formulazione attuale dell’art. 144 c.c., il legislatore ha aperto alla regola del consenso (66) e dunque alla sfera dell’autodeterminazione dei coniugi, interi «territori dove regnavano il potere autoritario e la sottomissione» (67), fissando una regola fondamentale, al punto che può veramente concordarsi con chi afferma che l’art. 144 c.c. costituisce, in sostanza, la fonte di legittimazione di ogni manifestazione negoziale dei coniugi: l’accordo dei coniugi pone le regole del ménage e, per ciò stesso, determina e concretizza il contenuto degli obblighi inderogabili incidendo, quindi, su di essi (68).
La dottrina che ha inteso approfondire il tema della rilevanza interna ed esterna degli accordi in esame si è posta l’interrogativo, da un lato, sulla vincolatività di queste intese e, dall’altro, sulla legittimazione del coniuge, sia in costanza di matrimonio, che una volta promosso il giudizio di separazione, a promuovere azione per ottenere il risarcimento dei danni per il mancato rispetto dell’accordo rimasto inattuato per fatto o colpa dell’altro coniuge (69).
Sul punto si è correttamente rilevato che i coniugi, una volta operate le scelte di fondo, debbono ritenersi ad esse obbligatoriamente vincolati, pur potendo agire liberamente nell’ambito delle direttive concordate; i medesimi accordi sono peraltro privi di rilevanza esterna (70). La conclusione deve essere senz’altro condivisa, anche se dall’esame dei dati prevalenti si potrebbe trarre l’impressione che la vincolatività e l’insorgere di responsabilità relative al mancato adempimento dell’accordo abbia in sostanza rilevanza solo al momento dello scioglimento del matrimonio. Tuttavia, da tempo, la dottrina si chiede se la responsabilità nei confronti del coniuge non possa essere fatta valere anche in costanza di matrimonio, senza che tale atteggiamento possa determinare la fine del vincolo (71).
Coloro che sostengono la non vincolatività dell’intesa nella fase di normale svolgimento del rapporto matrimoniale escludono la possibilità per il coniuge di avvalersi dell’accordo e ravvisano il contenuto dello stesso in una sorta di facoltà di agire, atta a qualificare come lecita l’attuazione dell’indirizzo concordato: mancherebbe in tal modo il presupposto necessario a legittimare l’azione
(64) Cass., 26 luglio 2005, n. 15603.
(65) Cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 133 ss.; sulla rilevanza dell’autonomia privata in questo settore cfr. anche TOMMASINI, Indirizzo della vita familiare e governo della famiglia, in AA. VV., Trattato di diritto privato, diretto da Xxxxxxx, IV, Il diritto di famiglia, I, Torino, 1999, p. 132 s.
(66) Di «regime consensuale permanente» parla significativamente FALZEA, op. cit., p. 614.
(67) Così XXXXXXXX, Appunti sull’autonomia negoziale, in Giur. it., 1978, IV, c. 117.
(68) Cfr. XXXXX, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996 p. 76 ss.
(69) XXXXXXXXX, op. cit., p. 142 ss.
(70) XXXXXXXXX, op. cit., p. 142. Sul tema della rilevanza esterna delle intese sull’indirizzo della vita familiare, con particolare riguardo al tema della sorte delle obbligazioni contratte da un solo coniuge (o convivente) nei confronti di terzi cfr. per tutti OBERTO, la responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di xxxxx, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione).
(71) Tra gli altri cfr. PARADISO, op. cit., p. 201 con ampia nota bibliografica di richiamo; XXXXXXXX XXXXXXX, L’indirizzo della vita familiare: rilevanza dell’inattuazione, Padova, 1986, p. 206.
di risarcimento danni (72). Altri studiosi, avendo soprattutto in mente l’ipotesi degli accordi non patrimonialmente rilevanti – si pensi, ancora una volta, al tema della fedeltà – hanno posto l’accento sull’incoercibilità della pretesa, concludendo nel senso che tale situazione non implica ancora la necessaria irrilevanza dell’intesa ma, con ogni probabilità, la diversa operatività della sua vincolatività (73).
Gli Autori che sostengono invece la vincolatività dell’accordo da far valere in costanza di matrimonio, e dunque la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni, in caso di inadempimento o mancato rispetto dello stesso, fondano la loro teoria sul principio che l’atto illecito, rilevante nell’ambito del diritto di famiglia come sintomo dell’intollerabilità della convivenza, può essere posto a fondamento di un’azione tendente ad ottenere il risarcimento del danno (74).
In ogni caso a chi scrive sembra che la vincolatività dell’intesa sia insita nel concetto stesso di accordo normativamente previsto, con inevitabile riferimento al canone scolpito nell’art. 1372
c.c. Parafrasando un celebre rilievo di Jemolo, con riguardo alle intese di separazione consensuale, l’accordo non vincolante finirebbe con il diventare una «figura metagiuridica, una inutilità per il diritto, se ad un certo momento le parti non restassero vincolate, in quello che sarà l’apprezzamento dei propri interessi convergenti» (75). Da tale vincolatività discenderanno dunque effetti che, se patrimonialmente apprezzabili (si pensi all’impegno a contribuire alle necessità materiali della famiglia mediante messa a disposizione di determinati beni o versamento di determinate somme) non potranno considerarsi se non alla stregua di obbligazioni, con la conseguenza che il coniuge interessato sarà legittimato a richiederne coattivamente l’adempimento e, in caso di violazione dell’impegno, a domandare il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.
6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto.
Anche le norme in tema di comunione legale tra coniugi contengono svariate disposizioni che possono prestarsi a individuare l’esistenza di vere e proprie obbligazioni, di fonte legale, la cui violazione può dar luogo a responsabilità contrattuale. Tali obbligazioni possono situarsi sia nel contesto delle norme attinenti all’individuazione dell’oggetto dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c., che (in particolare) in quello delle disposizioni sull’amministrazione del patrimonio comune, che, ancora, nella fase dello scioglimento.
Per quanto attiene al primo momento ci si deve chiedere, innanzi tutto, se determinati comportamenti tenuti dai coniugi all’atto della stipula di negozi che portino alla determinazione quantitativa della massa in comunione legale rispetto a ciascuna delle altre due masse qui rilevanti, vale a dire i beni personali e quelli in comunione de residuo, possano ritenersi in violazione di doveri di fonte legale o convenzionale qualificabili come obbligazioni e, come tali, generatori di responsabilità ex art. 1218 c.c.
In linea generale potrà dirsi che la legge provvede ad individuare in maniera obiettiva le situazioni che determinano la ricaduta o meno in comunione legale, a prescindere da comportamenti cui i coniugi possano reputarsi in qualche modo astretti.
Nella giurisprudenza di merito si è però posto il problema circa l’esistenza di un obbligo di prestare il proprio assenso all’acquisto che l’altro intenda effettuare ex art. 179, lett. f) e cpv., c.c.,
(72) Cfr. DE CUPIS, Efficacia dell’accordo coniugale circa l’indirizzo della vita familiare, in Xxx. xxx. xxx., 0000, X, x. 000.
(73) Cfr. RUSCELLO, Diritti e doveri nascenti dal matrimonio, cit., p. 785 s. L’Autore si chiede «che senso avrebbe (…) vincolare i coniugi al principio dell’accordo, alla ricerca comunque di un accordo sull’indirizzo della vita familiare se, poi, si desse la possibilità di violare l’accordo stesso senza incorrere in qualche conseguenza sanzionata dall’ordinamento?».
(74) Cfr. XXXXX, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 32 ss., il quale rileva (p. 33) che «proprio il carattere patrimoniale del conflitto (…) rende (…) istituzionalmente idoneo ed adeguato l’intervento del giudice, e ciò non soltanto nelle ipotesi in cui la famiglia si avvia verso la dissoluzione e lo scioglimento (…). L’interesse individuale dei membri della famiglia esiste e deve essere tutelato in ogni momento della vita del gruppo»; nello stesso senso v. anche XXXXXXXXX, op. cit., p. 143.
(75) Cfr. JEMOLO, Il matrimonio, Torino, 1950, p. 376 s.; condivide espressamente tale conclusione XXXXXXXX, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 340; sul tema cfr. inoltre XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 204 ss.
qualora di tale fattispecie ricorrano, obiettivamente, gli estremi. Nella specie, dopo il provvedimento del presidente del tribunale, urgente e provvisorio, che autorizzava i coniugi (in regime di comunione legale) a vivere separati, il coniuge non assegnatario dell’abitazione familiare intendeva acquistarne un’altra con fondi di sua esclusiva titolarità. Si rendeva, tuttavia, necessaria la partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge, ai sensi delle disposizioni citate, al fine di qualificare come personale il bene; in caso contrario, il bene sarebbe entrato in comunione, non essendo ancora intervenuta una sentenza definitiva di separazione, ma soltanto l’ordinanza interinale di cui all’art. 708 c.p.c. Xxxxxx, l’ingiustificato rifiuto, da parte del coniuge assegnatario della casa coniugale, di partecipare all’atto di acquisto (rifiuto che ha, poi, determinato la rinuncia al bene), è stato ritenuto contrario a buona fede e come tale fonte di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c. Al riguardo, è stato accordato il risarcimento per le spese sostenute per la trattativa (danno emergente), mentre, a causa della mancanza di prova, è stato negato il risarcimento del lucro cessante (76).
Ad avviso dello scrivente, la soluzione del problema, anziché in un generico richiamo al concetto di buona fede, va piuttosto trovata nell’accertamento dell’esistenza o meno di un preciso dovere per il coniuge non acquirente di partecipare all’atto (77). Inutile dire che, se la risposta al quesito dovesse essere positiva, tale (supposto) dovere giuridico specifico, di contenuto patrimoniale, andrebbe considerato alla stregua di un’obbligazione ex lege e pertanto la relativa violazione darebbe luogo a responsabilità non già aquiliana (come ritenuto dal giudice di merito nel caso testé mentovato), ma contrattuale. Peraltro si può convenire con chi conclude nel senso che tale dovere non è previsto da alcuna delle disposizioni in tema di comunione legale (78) e, d’altra parte, chi scrive ha cercato in altra sede di dimostrare che – contrariamente a quella che è ormai l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza – la partecipazione del coniuge non acquirente non è in alcun modo necessaria per l’acquisto personale ai sensi dell’art. 179 cpv. c.c. (79).
Un’ipotesi di responsabilità contrattuale potrebbe invece darsi nel caso in cui i coniugi, in regime di separazione, mediante apposito accordo si fossero impegnati a non compiere acquisti di un certo tipo prima della stipula di una convenzione di comunione convenzionale. Il compimento dell’acquisto in violazione del patto impedirebbe la caduta del bene in comunione (a meno che, ovviamente, i coniugi non si accordassero per la stipula di una convenzione comprendente anche tale bene), con conseguente danno per violazione di un’obbligazione ex contractu, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.
Per quanto attiene alla comunione de residuo non vi sono certamente doveri ex lege di conservazione dei beni nel patrimonio di ognuno dei coniugi sino al momento dello scioglimento (80), ma potrebbero esservene ex contractu. In tal caso, però, le parti dovrebbero prevederli con il rispetto dei requisiti formali ex art. 162 c.c., venendosi così ad alterare una delle caratteristiche
(76) Trib. Terni, 3 febbraio 1993, in Rass. giur. umbra, 1993, p. 369, con nota di PALMA; sul tema v. anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 47 ss.
(77) Per quest’impostazione v. anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 47 s.
(78) Cfr. FACCI, op. loc. ultt. citt.
(79) Xxx. XXXXXX, xxx xxx. 000 x.x., §§ 00 xx., xx XX. VV., Codice della famiglia, a cura di Xxxxx, Milano, 2006 (in corso di stampa), in cui si cerca di legare l’acquisto personale del bene all’obiettiva sussistenza dei presupposti di legge di cui alle lettere c),
d) ed f) dell’art. 179 c.c., a prescindere dalla partecipazione all’atto del coniuge non acquirente. Si tenga, in ogni caso, in considerazione che, anche se la dottrina (tra gli altri, XXXXXXXXXXX, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Xxxx, Oppo e Xxxxxxxxx, II, Padova, 1992, p. 158; XXXXXXXXX e XXXXXXX, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 89) è orientata, prevalentemente, a ritenere che la partecipazione del coniuge sia necessaria, secondo altri (cfr. ad esempio XXXXXXXXX, Acquisto in proprietà esclusiva di immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita notar., 1984, p. 664) l’intervento in questione non sarebbe essenziale, con la conseguenza che, anche in caso di acquisto senza la partecipazione dell’altro coniuge, il bene rimarrebbe personale, ma spetterebbe all’acquirente l’onere di provarlo. La Cassazione, peraltro, dopo alcune oscillazioni, è approdata alla tesi della necessaria partecipazione dell’altro coniuge, così concedendo a quest’ultimo un vero e proprio (potenzialmente anche capriccioso) diritto di veto: cfr. Cass. 24 settembre 2004, n. 19250, in Fam. dir., 2005, p. 12, con nota di BOLONDI.
(80) Il tema è stato approfondito in dettaglio in altra sede: cfr. OBERTO, Comunione de residuo e tutela della parte debole: la Cassazione abbandona la teoria del «coniuge virtuoso», nota a Cass., 7 febbraio 2006, n. 2597, in Corr. giur., 2006, in corso di stampa; sull’argomento v. inoltre FACCI, op. cit., p. 60 ss.; XXXXXXXXX, La c.d. comunione de residuo fra garanzia dell’autonomia individuale e «vanificazione» dei fini della comunione, in Familia, 2005, p. 109 ss.
proprie dell’istituto in esame, data dalla libera disponibilità dei beni sino al momento dello scioglimento del regime. In tal caso l’alienazione dei beni medesimi, ancorché non sanzionabile ex art. 184 c.c., esporrebbe il coniuge agente a responsabilità contrattuale verso l’altro.
7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione.
Venendo al profilo dell’amministrazione dei beni in comunione legale, va osservato come un’ipotesi specifica di responsabilità sia rinvenibile nella fattispecie disciplinata dall’art. 184 c.c., che riguarda gli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge relativamente a beni immobili o mobili registrati. La norma prevede che il coniuge non consenziente possa agire nei confronti del terzo per l’annullabilità dell’atto, così ripristinando la precedente situazione patrimoniale. Tuttavia, se l’atto riguarda un bene mobile non registrato, e quindi l’azione di annullamento non è esperibile, il coniuge che lo ha compiuto è obbligato, ad istanza dell’altro coniuge, a ricostituire la comunione nello stato precedente all’atto non consentito, e, se ciò non è possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti.
La disposizione si pone quale sanzione per il mancato rispetto di quanto stabilito dall’art.
180 c.c., che prevede il consenso di entrambi i coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (81).
Come rimarcato in dottrina (82), la norma si occupa, curiosamente, dei soli profili «esterni», per quanto attiene agli atti concernenti i beni immobili o mobili registrati (cfr. i commi primo e secondo), e dei soli rapporti «interni» per quanto riguarda gli altri beni (cfr. il terzo comma). Con particolare riguardo a questi ultimi è previsto un particolare obbligo risarcitorio «in forma specifica» descritto, per l’appunto come segue: «Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione».
L’art. cit. prevede dunque un vero e proprio risarcimento in forma specifica e, subordinatamente all’impossibilità di questo, un ristoro patrimoniale consistente, per l’appunto, nel
«pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione». Nulla è detto, invece, relativamente al risarcimento dell’eventuale danno ulteriore. Sul punto si ritiene da parte di taluno che l’obbligo di recuperare alla comunione il bene alienato senza il consenso dell’altro coniuge – quando questo era necessario – od il suo corrispondente valore economico, esaurisce, se adempiuto, ogni ulteriore conseguenza a carico del coniuge autore dell’atto illegittimamente dispositivo. Ad analoga conclusione perviene parte della dottrina anche nell’ipotesi che il bene non sia più recuperabile e sia corrisposto il pagamento dell’equivalente (83). Si deve, tuttavia, dare atto della contraria opinione fondata sulla considerazione che il compimento di un atto di disposizione compiuto da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro,
(81) Sulla distinzione tra atti di straordinaria e di ordinaria amministrazione, tra gli altri, DETTI, Oggetto, natura, amministrazione della comunione legale dei coniugi, in Riv. notar., 1976, I, p. 1218; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 123; XXXXXXXXXXX, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 167; XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, p. 228; XXXXXXXXX e DALLA SERRA, L’amministrazione dei beni della comunione legale - Parità di quote parità dei diritti, in AA. VV., La famiglia, a cura di Cendon, Padova, 2000, p. 185; ANELLI, L’amministrazione della comunione legale, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Xxxxx, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002,
p. 235 ss.
(82) Cfr. XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 141 ss.
(83) E’ stato infatti osservato che «per quanto, riguarda il coniuge che ha compiuto l’atto, l’art. 184 comma 3°, detta una norma che disciplina interamente la materia degli obblighi del coniuge che abbia agito senza il necessario consenso: esso non configura una responsabilità né contrattuale, né extracontrattuale, ma ha un significato meramente recuperatorio, per cui il coniuge pretermesso non può pretendere il risarcimento di un danno ulteriore» (cfr. XXXXXXXXXXX e PITTER, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Xxxx, Oppo e Trabucchi, II, cit., p. 224; nello stesso senso cfr. A. e X. XXXXXXXXXXX, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1090).
perpetrando la violazione di un preciso obbligo legale ed arrecando una lesione al diritto di comproprietà dell’altro coniuge sul bene alienato, costituirebbe un atto illecito da cui conseguirebbe un obbligo di risarcire il danno (84).
Questo secondo indirizzo risulta sicuramente preferibile: e ciò non tanto perché l’eventuale appropriazione di un bene mobile non registrato da parte di un coniuge aprirebbe la via alla rivendica da parte dell’altro ex art. 948 c.c., con conseguente applicazione dell’azione risarcitoria ai sensi della disposizione testé citata (85), posto che l’alienazione del bene stesso è, per dottrina e giurisprudenza prevalenti, perfettamente valida ed efficace anche senza la traditio al terzo (86). D’altro canto non può neppure dirsi che tale responsabilità vada affermata perché il regime di xxxxxxxxx sarebbe espressione di un accordo, seppur implicito, tra i coniugi (87): un accordo che, a ben vedere, potrebbe ritenersi esistente solo ricorrendo ad una vera e propria finzione.
La natura contrattuale della responsabilità in esame va invece, e con forza, ribadita, per effetto della constatazione secondo cui il coniuge che ha disposto di un bene comune, anche senza appropriarsene materialmente (88), viola per ciò solo il disposto dell’art. 180 c.c. e dunque un dovere giuridico specifico (ex lege), avente sicuro contenuto patrimoniale e che, come tale, appare definibile alla stregua di una vera e propria obbligazione, con conseguente applicazione dell’art. 1218 c.c. (89).
Si noti che la stessa regola dovrebbe valere non solo per gli atti dispositivi di beni mobili non registrati, ma anche per quelli su beni immobili o mobili registrati, in quanto il coniuge pretermesso non sia riuscito – per una ragione qualsiasi (intervenuto decorso del breve periodo prescrizionale previsto dall’art. 184 cpv. c.c., distruzione del bene stesso, successiva rivendita ad un terzo cui la domanda d’annullamento non sia opponibile) – a recuperare il bene stesso o semplicemente non voglia esperire l’azione d’annullamento. In tal caso si porrebbe peraltro il problema d’un eventuale concorso di colpa, ex art. 1227 c.c., per non avere il coniuge legittimato proposto azione d’annullamento (90).
Per quanto attiene al danno concretamente risarcibile in questa particolare fattispecie si è affermato (91) che qui si potrebbe ipotizzare anche il risarcimento del danno esistenziale per il disagio e lo stress provocato dal comportamento del coniuge che ha effettuato l’atto di disposizione
(84) Cfr. SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobili della comunione, in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 598; nello stesso senso v. anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40.
(85) Come suggerito da XXXXXXXXX, Rapporti economici tra coniugi e risarcimento del danno, in AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Cendon, III, cit., p. 2867.
(86) Per i richiami x. XXXXXX, op. cit., p. 275 x. Xxxx., 19 marzo 2003, n. 4033, in Foro it., 2003, I, c. 2745, con nota di DE MARZO, la quale ha stabilito che, per gli atti di disposizione su beni mobili, «l’art. 184, terzo comma, cod. civ. non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di ricostituire, ad istanza dell’altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace». E’ noto che per una parte della dottrina l’atto dispositivo in oggetto sarebbe valido solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 1153 c.c. (o di alcuni di essi: cfr. per tutti ANELLI, op. loc. ultt. citt.).
(87) Così invece XXXXXXXXX, I rapporti familiari, in AA. VV., La responsabilità civile, a cura di Cendon, VIII, Torino, 1998, p. 69.
(88) E si noti che, come appena ricordato nel testo, l’alienazione del bene stesso è, per dottrina e giurisprudenza prevalenti, perfettamente valida ed efficace anche senza la traditio.
(89) In questo senso cfr. già OBERTO, Acquisti a titolo originario e comunione legale, in Fam. dir., 1994, Allegato, p. 30 s. Aderisce a tale impostazione anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 41 s., secondo cui la soluzione può giustificarsi alla luce anche dell’orientamento che tende sempre più ad ampliare l’ambito di operatività della responsabilità contrattuale sul presupposto che la stessa tuteli in modo più adeguato il danneggiato. Contra, per la tesi della natura aquiliana della responsabilità in discorso, XXXXXX, Gli atti di straordinaria amministrazione, in AA. VV., La comunione legale, a cura di Xxxxxx, I, Padova, 1989, p. 620 s.
(90) Xxx. Xxxx., 00 xxxxxxxx 0000, x. 00000, in Dir. lav., 1995, II, p. 14, con nota di XXXXXXXX, secondo cui «In tema di risarcimento del danno nei rapporti obbligatori, nella nozione di ordinaria diligenza del creditore di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ., rientra anche il tempestivo esercizio del proprio diritto, ossia l’esercizio non differito fino al limite del termine di prescrizione, qualora il trascorrere del tempo possa determinare un incremento del danno».
(91) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40 s.
di un bene di valore affettivo: ma la soluzione appare difficilmente conciliabile con il disposto dell’art. 2059 c.c. (92).
In conseguenza dell’affermata natura contrattuale del danno in oggetto, l’azione risarcitoria sarà sottoposta al termine prescrizionale generale ex art. 2946 c.c., nonché alla sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c., non valendo nella specie il rationale di una decisione di legittimità, risalente al 1987, che ha stabilito l’inapplicabilità di tale disposizione all’azione di annullamento, proposta ai sensi dei primi due commi dell’art. 184 c.c., relativamente a beni immobili o mobili registrati (93)
Sempre rimanendo in tema di responsabilità contrattuale collegata ai profili di amministrazione della comunione legale, va detto che un obbligo risarcitorio può sorgere anche a prescindere dalla violazione del dovere giuridico specifico di ottenere il consenso dell’altro coniuge per l’alienazione dei beni della comunione (così come dell’obbligo di contribuzione), qualora un coniuge abbia male amministrato i beni della comunione. Al riguardo, l’art. 193 c.c. prevede che la separazione giudiziale dei beni possa essere pronunciata anche nel caso di cattiva amministrazione della comunione (primo comma); inoltre, lo stesso articolo dispone che la separazione dei beni possa essere pronunziata quando «il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro o della comunione o della famiglia oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro» (cfr. art. 193 cpv. c.c.) (94).
Appare evidente che, nel caso in cui la cattiva amministrazione, da parte di un coniuge, abbia cagionato un pregiudizio all’altro, quest’ultimo avrà azione per il risarcimento del danno, a prescindere dalla proposizione della domanda di cui all’art. 193 c.c. Tale azione può essere proposta anche quando, a causa della cattiva amministrazione, i creditori, ai sensi dell’art. 190 c.c., agiscono sui beni personali di ciascun coniuge, allorché i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti gravanti su di essa (95).
(92) E’ particolarmente dibattuto se il disagio e lo stress, derivanti da lesioni di interessi non direttamente riconducibili a valori costituzionali, siano risarcibili, alla luce del nuovo assetto del danno non patrimoniale, delineato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 233 del 2003 (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, in Giur. it., 2004, p. 1129, con nota di BONA), attraverso il richiamo al diritto vivente (cfr. Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass., 31 maggio 2003, n. 8828). Al riguardo, si è osservato (cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 41 nota 147) come in Cass. n. 8827/2003 ed in Cass. 8828/2003, la lesione di un interesse costituzionale sarebbe di tutta evidenza: nella prima la lesione dell’interesse costituzionale deriverebbe dallo sconvolgimento delle abitudini di vita e dall’esigenza di provvedere perennemente ai bisogni di un figlio ridotto ad uno stato pressoché vegetativo; nella seconda dall’uccisione di un congiunto. Si deve, tuttavia, considerare come né la Corte costituzionale, né le pronunce dalla stessa richiamate facciano alcun riferimento ad un criterio, come ad esempio la «gravità dell’offesa», per selezionare gli interessi di rango costituzionale, meritevoli di tutela risarcitoria (sul criterio della «gravità dell’offesa», al fine di selezionare gli interessi non patrimoniali meritevoli di tutela risarcitoria, si veda NAVARRETTA, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, p. 350; XXXXXXXXXX, L’art. 2059 c.c. tra esame di costituzionalità e valutazione di opportunità, in Danno e resp., 2002, p. 878; XXXXXXXX, Danno non patrimoniale ed interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059, in Resp. civ. prev., 2003, p. 702; in giurisprudenza x. Xxxx. Xxxxxxx, 00 febbraio 2003, in Resp. civ. prev., 2003, p. 179, con nota di XXXXXXXXXX; in Danno e resp., 2003, p. 547, con nota di XXXXXXXXXX). Secondo FACCI, op. loc. ultt. citt., sarebbe, tuttavia, deprecabile, se, stante l’indeterminatezza del riferimento agli interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, si provvedesse all’invenzione di nuovi interessi di rango costituzionale, al fine di permettere il risarcimento anche dello stress e del disagio esistenziale. L’Autore rileva che tale modo di procedere è già stato respinto dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 500 del 1999, la quale ha censurato il precedente orientamento che, per risarcire danni altrimenti considerati irrisarcibili, inventava nuovi diritti soggettivi. La chiave di lettura dovrebbe, invece, essere spostata sull’ingiustizia del danno, al fine di valutare se lo stress ed il disagio procurato debbano rimanere a carico della vittima oppure debbano essere trasferiti sull’autore del fatto. Rimane però la constatazione, ad avviso dello scrivente, che la chiara scelta di politica legislativa di limitare il risarcimento del danno non patrimoniale al pregiudizio causato da un comportamento che costituisce reato (ovvero nelle altre ipotesi tassativamente prescritte dalla legge) non può essere superata dall’interprete attraverso un’interpretazione, sostanzialmente, abrogatrice dell’art. 2059 c.c.
(93) Cfr. Cass., 22 luglio 1987, n. 6369, in Dir. fam. pers., 1988, I, p. 786; in Giust. civ., 1988, I, p. 135, con nota di X. XXXXXXXXXXX: «Con riguardo all’azione di annullamento proposta da un coniuge contro l’atto con cui l’altro coniuge abbia disposto di un bene immobile, oggetto di comunione legale, senza il necessario consenso di esso istante, il termine di un anno, fissato dall’art. 184 secondo comma cod. civ. con decorso dalla data della conoscenza dell’atto stesso, ed in ogni caso dalla data della sua trascrizione non è soggetto alla sospensione nel rapporto fra coniugi contemplata dall’art. 2941 cod. civ. per la prescrizione in considerazione del carattere speciale della prima delle citate norme, e manifestamente non si pone in contrasto con l’art. 24 della costituzione, tenuto conto che il termine medesimo, nonostante la sua brevità, giustificata dal contemperamento delle esigenze del coniuge leso con quelle del terzo, ha consistenza e decorrenza idonee ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa».
(94) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 39.
(95) In questo senso cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40; v. inoltre FRACCON, Relazioni familiari e responsabilità civile, cit., p. 209, la quale sottolinea come nel caso in cui la cattiva amministrazione di uno dei coniugi abbia
Anche la responsabilità in discorso può dirsi di natura contrattuale, derivando dalla violazione del dovere giuridico specifico, esistente ex lege tra coniugi in comunione legale (e desumibile dal citato art. 193 c.c.), di gestire in maniera «non disordinata» la comunione legale.
8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Xxxxxxxx e restituzioni ex art. 192 c.c.
Precisi rapporti obbligatori aventi contenuto patrimoniale sono poi riscontrabili tra i coniugi nella fase dello scioglimento del regime.
In particolare, l’art. 192 c.c. dispone che «ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186». Ai sensi del secondo comma, ognuno dei coniugi «E’ tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia». Il terzo comma della disposizione citata prevede poi che «ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune». Ai sensi del quarto comma, «I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente». Infine, l’ultimo capoverso prevede che «Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito, in caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili».
Rinviando alle trattazioni monografiche sul tema per i necessari approfondimenti (96), si dovrà precisare che, mentre con il termine «rimborsi» si indicano quelle obbligazioni aventi ad oggetto somme che il singolo coniuge deve rifondere «alla comunione», cioè a dire, in buona sostanza, per metà all’altro coniuge, con l’espressione «restituzioni» vengono designate quelle obbligazioni che vedono il singolo coniuge creditore «nei confronti della comunione» (e dunque, per metà dell’altro coniuge) della rifusione di spese dallo stesso effettuate a vantaggio della massa (già) sottoposta al regime legale.
Ora, il principale problema ermeneutico posto dalla materia dei rimborsi contemplati dai primi due commi dell’art. 192 c.c. concerne i suoi rapporti con l’azione risarcitoria ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 184 c.c.: trattasi di figure i cui reciproci contorni non sembrano poi così nitidi, se è vero che esse vengono da molti presentate come tra di loro fungibili (97). Ora, se nessun dubbio può sollevarsi sul fatto che l’operatività dell’art. 192, primo comma, x.x. x xxxxxxxxxxxx xxxx xxxxx xx xxxxxx, x xxxxxxxxxxx indubbio che tra gli atti per i quali è necessario il consenso di entrambi i coniugi rientrano pure quelli di disposizione del (bene mobile costituito dal) denaro comune: ne deriva dunque una possibilità di sovrapposizione tra le due fattispecie in relazione a tutte le ipotesi in cui un coniuge si sia appropriato di denaro comune.
Due strade appaiono astrattamente percorribili. La prima postula l’esistenza di un rapporto di specialità della disposizione dettata in tema di scioglimento (rispetto a quella in materia di amministrazione), in quanto avente ad oggetto un particolare tipo di bene mobile. Ma le
pregiudicato le ragioni dell’altro sulla comunione, l’eventuale risarcimento dovrà provenire dai beni personali dell’agente; ma qualora essi non bastino, il danneggiato potrà soddisfarsi sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota dell’obbligato, in concorso con gli altri creditori particolari dello stesso soggetto, ma dopo i creditori della comunione, a norma dell’art. 189 c.c.
(96) Cfr. per tutti CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 191 ss.; XXXXXXX, Lo scioglimento della comunione, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Xxxxx, III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 408 ss.
(97) Cfr. TONDO, Sugli acquisti originari nel regime di comunione coniugale, in Foro it., 1981, V, c. 166; DIES, Non cade in comunione l'edificio costruito su suolo personale di un coniuge in regime di comunione legale, in Resp. civ. prev., 1992, p. 591.
conseguenze sarebbero sconcertanti: il prelievo unilaterale di denaro comune dovrebbe ritenersi sempre consentito, salvo un obbligo di rimborso, che maturerebbe (di regola) solo al momento dello scioglimento della comunione (cfr. art. 192, quarto comma, c.c.) (98).
L’altra soluzione, che appare preferibile, assegna invece alle norme due diversi campi d’azione anche in relazione agli atti dispositivi di somme di denaro: l’elemento differenziatore è qui dato dal fatto che l’art. 184, ult. cpv., c.c. prende pur sempre le mosse dal presupposto che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza l’accordo richiesto dall’art. 180 c.c. Ne consegue che la sfera d’azione dell’art. 192, primo comma, c.c. si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge (99).
Sarà appena il caso di rilevare come, da un punto di vista più generale, la delimitazione delle sfere di operatività delle due discipline appaia indispensabile anche in relazione ad una cospicua serie di conseguenze pratiche: si pensi, tanto per fare due esempi, all’individuazione del momento in cui i rispettivi diritti possono essere esercitati (immediatamente quello ex art. 184 c.c., di regola solo al momento dello scioglimento quello nascente dall’art. 192 c.c.), o al termine di prescrizione, se si dovesse seguire la tesi prospettata da una parte della dottrina – ma rigettata dallo scrivente – circa la natura aquiliana dell’illecito di cui all’art. 184 c.c. (100).
Fatte queste precisazioni potrà concludersi sul punto rilevando che, in caso di atto dispositivo di denaro comune compiuto da un solo coniuge senza il consenso dell’altro, a quest’ultimo sarà consentito agire xx xxx. 000, xxx. xxx., x.x. xxx xx xxxx quota di sua spettanza (101), dimostrando (e il relativo onere graverà su di lui) il carattere comune del denaro prelevato (102). Il credito in questione è senz’altro di valore (103). Il coniuge «consenziente» non potrà invece agire se non una volta sciolta la comunione (104), salvo che il giudice autorizzi il rimborso (art. 192, quarto comma, c.c.) «in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente» (105).
(98) La tesi, prospettata in astratto da XXXXXXXXXXX, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Xxxxxxx, Oppo e Xxxxxxxxx, I, 1, Padova, 1977, p. 444 s., viene dallo stesso Autore ritenuta impraticabile.
(99) In questo senso x. XXXXXXXXXXX, Della comunione legale, cit., p. 445; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 192 s.; XXXXXXX, Xxxxxxxx e restituzioni (art. 192 c.c.), in Rass. dir. civ., 1988, p. 38. Nel senso invece che l’obbligo di rimborso sorgerebbe solo nel caso il prelievo integri gli estremi di un mutuo concesso dai due coniugi ad uno di essi, oppure quando un coniuge abbia vietato all’altro di impiegare per fini personali degli utili o dei frutti del patrimonio comune v. A. e X. XXXXXXXXXXX, op. cit., p. 1157.
(100) Cfr. supra, § 7.
(101) Secondo PARENTE, Acquisti in regime di comunione legale e principio dell'accessione, in Giur. it., 1981, IV, c. c. 31 s., invece, il coniuge potrebbe agire per l’intero. La conclusione appare inaccettabile: invero (a parte il problema della sua compatibilità con l’art. 81 c.p.c.), essa postulerebbe necessariamente il riconoscimento alla comunione della natura di persona giuridica, ciò che si tende, invece, a negare.
(102) Dubbi potrebbero invece sussistere in relazione al carattere costitutivo o impeditivo, rispettivamente, dell’assenza o della presenza del necessario consenso del coniuge pretermesso. La costruzione della fattispecie alla stregua di un illecito (contrattuale) per violazione di un’obbligazione ex lege sembrerebbe rendere più plausibile la seconda ipotesi. Per un’applicazione del principio al caso dell’edificazione su terreno di proprietà di uno solo dei coniugi x. XXXXXX, Acquisti a titolo originario e comunione legale, cit., p. 28 ss.
(103) Arg. ex art. 184, ult. cpv., c.c.: «...secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione» (cfr. anche
PARENTE, op. cit., c. 32).
(104) E dunque la relativa domanda non potrà essere proposta in sede di giudizio di separazione personale, secondo il noto principio (su cui v., ex multis, Cass., 11 luglio 1992, n. 8463, in Dir. fam., 1993, p. 83, nonché, da ultimo, Cass., 6 ottobre 2005, n. 19447) per cui né la proposizione del ricorso, né il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c. appaiono idonei a produrre lo scioglimento del regime legale. In questo senso x. Xxxx., 15 settembre 2004, n. 18564, in Giust. civ., 2005, I, p. 70: «In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, cod. civ., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli (in applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la decisione di merito che aveva condannato uno dei coniugi al pagamento, in favore dell’altro, della metà del valore locativo di un immobile, da lui abitato)».
(105) Sulla diatriba circa il carattere contenzioso o volontario di tale giudizio v., rispettivamente, XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 194, nota 91; XXXXXXXXXXX e XXXXXX, op. cit., p. 357.
Ciò detto potrà concludersi sul tema rilevandosi come i rimborsi e le restituzioni ex art. 192
c.c. formino comunque oggetto di una vera e propria obbligazione ex lege da atto (questa volta, e a differenza di quanto stabilito dall’art. 184 c.c.) xxxxxx, con applicabilità, per l’ipotesi di mancata loro effettuazione (e, questa volta, conformemente al caso descritto dall’art. 184 c.c., secondo l’interpretazione proposta dallo scrivente), della disciplina ex art. 1218 x.x., xxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxxx xxxxxxxxx xx xxx. 0000 x.x.
Xx noti che un’altra obbligazione restitutoria, rispetto a quelle descritte dall’art. 192 c.c., può nascere a carico del singolo coniuge al momento della divisione del patrimonio già in comunione legale, a seguito dell’intervenuto scioglimento ex art. 191 c.c., relativamente al corrispettivo pro quota del godimento che un coniuge abbia in via esclusiva avutodi beni fruttiferi comuni. In proposito, infatti, la Cassazione ha stabilito che «All’esito dello scioglimento della comunione legale ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e il coniuge rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi (nel caso, bene immobile) già appartenenti alla comunione legale è tenuto, in base ai principi generali (art. 820, terzo comma, c.c.), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo pro quota di tale godimento, quali frutti spettanti ex lege, a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui. Tali frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (art. 821, terzo comma, c.c.), a far data dalla domanda di divisione, quale momento d’insorgenza del debito di restituzione (pro quota) del bene medesimo (art. 1148 c.c.). (La S.C., dando atto che la corte di merito, facendo esercizio dei poteri ad essa spettanti, aveva nell’impugnata sentenza correttamente interpretato la domanda, dall’appellante incidentale erroneamente qualificata come di risarcimento danni, ha enunciato il principio di cui in massima)» (106).
E’ evidente, dunque, che pure la mancata restituzione dei frutti per il periodo indicato esporrà il coniuge percettore dei medesimi a responsabilità contrattuale per inadempimento di un’obbligazione di fonte legale.
Lo stesso è a dirsi per quanto attiene al già ricordato credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune: credito spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, terzo comma, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale. In relazione a questa ipotesi la medesima sentenza testé citata ha stabilito che tale rapporto è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.), essendo determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., e diventando da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, il credito in questione produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi interessi coperto (art. 1224 c.c.) (107).
9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare.
Azioni per il risarcimento del danno inter coniuges sulla base di ipotesi di responsabilità contrattuale possono derivare anche in regime di separazione dei beni (art. 217 c.c.), oppure in regime di comunione, ma con riguardo all’amministrazione, da parte di un coniuge, dei beni personali dell’altro (art. 185 c.c., che richiama l’art. 217 c.c.). Si tratta di ipotesi destinate ad
(106) Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, in Vita notar., 2005, I, p. 1524. Con la medesima decisione la Corte ha inoltre stabilito che
«In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, terzo comma, cod. civ. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione – totale o parziale – del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione de residuo solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, primo comma lett. a), cod. civ., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, primo comma, cod. civ., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione».
(107) Cfr. Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, cit.
assumere un peso statistico sempre più rilevante, a fronte della vera e propria «fuga» delle nuove coppie italiane dal regime di comunione dei beni, dallo scrivente segnalata in altre sedi (108).
Al riguardo stabilisce l’art. 217 cpv. c.c. che «Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato». Ai sensi del terzo comma, «Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati».
Il capoverso dell’art. 217 c.c. prende dunque in esame il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, mentre nel successivo terzo comma viene contemplata l’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia amministrato i beni dell’altro con procura, ma senza l’obbligo di rendere conto dei frutti.
Le questioni ermeneutiche poste dalle disposizioni in esame sono state approfondite in altra sede (109). Qui sarà d’uopo soffermarsi brevemente su taluni dei dubbi principali, tra i quali spicca la riferibilità dell’art. 217 cpv. c.c. non solo al caso del mandato con rappresentanza, ma, come appare preferibile, anche a quello del mandato senza rappresentanza, come d’altronde induce a ritenere il richiamo all’obbligo a rendere conto di frutti (1713 c.c.) (110). Per quanto concerne invece la forma dell’eventuale procura, dovrà farsi richiamo alla regola generale di cui all’art. 1392 c.c. (111).
In base all’art. 217, secondo comma, c.c., se è stato convenuto l’obbligo di rendiconto, il coniuge amministratore sarà tenuto verso l’altro secondo le regole del mandato. Troverà quindi applicazione in primo luogo l’art. 1710, primo comma, c.c., in base al quale il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia (112): da quanto detto si arriva dunque alla conclusione che il coniuge sarà responsabile qualora ometta colposamente di percepire i frutti dei beni affidatigli, oppure ne cagioni il perimento o il deterioramento (113). Il coniuge sarà anche tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme riscosse (art. 1714 c.c.) e a provvedere alla custodia dei beni (art. 1718 c.c.) (114).
Ai sensi dell’art. 217, terzo comma, c.c., qualora non sia stato convenuto l’obbligo di rendere conto dei frutti, il coniuge amministratore e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o al momento del scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, saranno tenuti a consegnare unicamente i frutti esistenti e non risponderanno invece per quelli che siano già stati consumati (115).
(108) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 6 ss.
(109) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 129 ss.
(110) SESTA e XXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Xxxxx, III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 518; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2002, p. 633.
(111) XXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Xxxxxx, XX, Xxxxxx, 0000, p. 451; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 516; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 633.
(112) XXXXXXXXXXX, Beni ed attività economica della famiglia, Torino, 1995, p. 290; AULETTA, Il diritto di famiglia, Torino, 2000, p. 111.
(113) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Xxxx, Oppo e Xxxxxxxxx, III, Padova, 1992, p. 436; XXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, Milano, 1997, p. 165.
(114) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, p. 274; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 14; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 519.
(115) Il coniuge gestore, anche se esonerato dal rendiconto, risponderà comunque per dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 1713, cpv., c.c. (GIUSTI, voce Separazione dei beni tra coniugi, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 1449; XXXXXXXX, La separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Xxxxxxxx e Xxxxxxxx, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997,
p. 327; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 520; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 634; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, in Commentario del codice civile diretto da Xxxxxxxx e Branca, I, Bologna- Roma, 2003, p. 611). Che il mandatario, anche se coniuge, debba sempre rispondere per dolo o colpa grave, è, secondo alcuni, necessaria conseguenza dell’esistenza di un vincolo obbligatorio tra le parti, la cui stessa esistenza sarebbe contraddetta da un esonero totale della responsabilità (XXXXXXXXX e XXXXXXX, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 310). Questa conclusione non è condivisa da chi osserva che la legge impone unicamente l’obbligo di consegnare i frutti esistenti al momento della richiesta o dello scioglimento del matrimonio, esonerando quindi il coniuge gestore dalla responsabilità per frutti consumati, con conseguente implicito esonero di responsabilità per dolo o colpa grave (V. per tutti PINO, Diritto di famiglia, Padova, 1998, p. 134).
Venendo ai caratteri che il mandato ad amministrare conferito da un coniuge all’altro deve avere affinché possano trovare applicazione le norme di cui all’art. 217, cpv. e terzo comma, c.c., e rinviando anche qui alla apposita trattazione (116), potrà riassuntivamente dirsi che la tesi preferibile appare quella che riferisce la disposizione predetta tanto al mandato generale che a quello speciale eventualmente conferito da un coniuge all’altro, purché si tratti di mandato sempre revocabile (117). E’ poi senz’altro compatibile con l’attuale disciplina del diritto di famiglia l’eventuale conferimento del potere di destinare beni e frutti al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, assolvendo in tale modo al proprio dovere di contribuzione (118), sempre a condizione che di tale sistema di adempimento dei doveri ex artt. 143 e 147 c.c. sia garantita la revocabilità (119).
In base alla norma generale di cui all’art. 1709 c.c. il mandato si presume oneroso: si tratta quindi di stabilire se detto principio possa essere applicato anche relativamente ai casi previsti dall’art. 217, secondo e terzo comma, c.c. Parte della dottrina opta per la soluzione affermativa, dedotta dalla citata regola generale, sostenendo che il coniuge amministratore avrà diritto ad un compenso (120). In senso contrario si è osservato che la presunzione di onerosità può in via generale essere vinta sia offrendo la prova di un patto contrario, sia nei casi in cui il carattere gratuito possa desumersi dalle circostanze e dal comportamento delle parti (121). Visto che normalmente si accetta di amministrare i beni del proprio coniuge per spirito di solidarietà, in adempimento del dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, sembra preferibile presumere che il mandato conferito da un coniuge all’altro sia gratuito (122), tanto più che la presunzione di onerosità fissata dall’art. 1709 c.c. non ha certo carattere assoluto (123), cosicché la responsabilità per colpa andrà valutata con minor rigore ai sensi dell’art. 1710, primo comma, c.c. (124).
10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge, oppure in assenza sia di mandato che di opposizione (rinvio).
L’art. 217, quarto comma, c.c., prende in considerazione l’ipotesi in cui uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministri i beni di questo o comunque compia atti relativi a tali beni, stabilendo che egli risponde dei danni cagionati e della mancata percezione dei frutti (125). Trattasi, come rilevato in dottrina, di previsione superflua, perché pone a carico del coniuge in questione l’obbligo di risarcimento del danno, conformemente ai principi generali in materia di fatto illecito (126).
(116) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 139 ss.
(117) Dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, secondo la dottrina dominante, un mandato irrevocabile inter coniuges deve invece considerarsi sempre inammissibile, perché risulterebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, andando a configurare una situazione analoga ad una costituzione di dote, ora vietata ai sensi dell’art. 166-bis c.c. (per i richiami cfr. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 141 s.).
(118) TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime della separazione dei beni tra coniugi, in Rass. dir. civ., 1996, p. 530; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 522.
(119) XXXXXXXXX, op. cit., p. 142 s.; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 523.
(120) XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario del codice civile, redatto a cura di magistrati e docenti, I, 2, Torino, 1983, p. 351; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia e impresa, Milano, 1984, p. 71.
(121) Cass., 27 maggio 1982, n. 3233, in Rep. Foro it., 1982, voce Mandato, n. 4.
(122) SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 290; XXXXXX, op. cit., p. 1450; TATARANO e XXXXXXXXXX, op. cit., p. 554; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 327; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 523; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.
(123) GIUSTI, op. cit., p. 1450; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 327.
(124) XXXXXXXXX, op. cit., p. 144; XXXXXXXXXX e GORGONI, La separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto di famiglia, II, in Trattato di diritto privato, diretto da Xxxxxxx, XX, Xxxxxx, 0000, p. 551, nota 332; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 523; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.
(125) XXXXXXXXX, op. cit., p. 170, ritiene applicabile in relazione a quest’ultima disposizione l’art. 1148 c.c., riconoscendo al coniuge proprietario il potere di chiedere all’altro la restituzione dei frutti percepiti fin dal momento dell’abusiva occupazione del bene.
(126) XXXXXXXXX e XXXXXXX, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 311 s. La permanenza di questa disposizione si spiega solo storicamente: sul punto x. XXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 146 ss.
La disposizione fa riferimento ad una condotta illecita del coniuge, che può consistere in uno o più atti di amministrazione, di godimento, di disposizione (ad esempio di alienazione di beni mobili, che possono essere efficaci in base all’art. 1153 c.c.), oppure nell’inosservanza della diligenza richiesta per assicurare la custodia o la manutenzione o l’efficienza produttiva dei beni, o ancora nella consumazione o nella mancata percezione dei frutti (127). Trattasi peraltro di ipotesi di responsabilità aquiliana, per violazione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio, anche se l’esistenza di un rapporto di coniugio inter partes viene sicuramente ad agevolare, di fatto, il verificarsi di siffatte situazioni. Ne consegue che all’obbligo di risarcire i danni si applicheranno le usuali regole relative all’illecito extracontrattuale (128). Gli altri danni, diversi dalla mancata percezione dei frutti, cui fa riferimento l’art. 217, quarto comma, c.c., saranno gli eventuali danni materiali che i beni abbiano subito (129).
Analogamente alla fattispecie testé descritta, appartengono alla categoria dell’illecito aquiliano le ipotesi di compimento di atti di amministrazione, da parte di un coniuge in regime di separazione dei beni, in assenza sia di mandato che di opposizione da parte dell’altro, in relazione al quale chi scrive ha ritenuto di dover concludere che – ad esclusione dei casi di mandato tacito – l’ignoranza, da parte di un coniuge, dell’effettuazione di atti di amministrazione da parte dell’altro non potrà dar luogo all’applicazione dell’art. 217, terzo comma, c.c., ma aprirà la via, a seconda dei casi, ai rimedi ordinari in tema di gestione di affari altrui, ovvero di responsabilità aquiliana, ovvero ancora di arricchimento ingiustificato (130).
11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità.
L’art. 218 c.c. si occupa, sempre in relazione ai coniugi in regime di separazione, dell’ipotesi in cui uno goda dei beni dell’altro, stabilendo a carico del primo l’applicabilità delle obbligazioni che la legge pone a carico dell’usufruttuario. Ne consegue che tale coniuge risponderà, in caso di mancato adempimento ad uno o più di tali obblighi, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c. La dottrina rileva in proposito che la prescrizione in commento costituisce il naturale completamento dell’art. 217 c.c.: come, invero, l’art. 217 c.c. attiene al compimento di atti giuridici coinvolgenti il patrimonio dell’altro coniuge, così l’art. 218 c.c. investe il profilo del godimento materiale (131).
Non vi è poi dubbio sul fatto che i coniugi, nell’esercizio dell’autonomia che viene riconosciuta loro dall’ordinamento, possano anche concedersi il diritto d’usufrutto (o di abitazione) su uno o più beni (132): in tal caso si dovrà riconoscere la diretta applicabilità della relativa normativa.
Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro sono, secondo l’opinione prevalente, quelle di cui agli artt. 981, 1001, 1002, 1004, 1005, terzo comma, 1008, 1009, 1012 e 1013 c.c. (133). Il riferimento limitato alle sole obbligazioni – e non anche ai diritti – nascenti dall’usufrutto esclude la possibilità di assimilare la posizione del coniuge a quella di un vero e
(127) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 438; XXXXXXXXXX e XXXXXXX, op. cit., p. 551; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 524; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.
(128) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 275; XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 438; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 329; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 524; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.
(129) SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 524; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 638; cfr. inoltre XXXXXXXXX, op. cit., p. 172, la quale fa riferimento anche ai cosiddetti «danni da usura».
(130) Cfr. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 232 ss.
(131) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; XXXXXXXXX e XXXXXXX, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 308; XXXXXXXXXX e XXXXXXX, op. cit., p. 543; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 526; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 641.
(132) Cfr. XXXXXXX, op. cit., p. 613.
(133) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1977, cit., p. 481; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 330 s.
proprio usufruttuario (134). D’altro canto, in dottrina si afferma che anche le norme dettate in materia di obbligazioni nascenti dall’usufrutto sono applicabili solo in quanto compatibili con la peculiarità della situazione (135). In particolare si ritiene unanimemente applicabile l’art. 1001 c.c., che impone l’obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento del bene (136). Alcuni Autori, invece, ritengono non applicabile l’art. 1002 c.c. sull’obbligo di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia, in considerazione del tipo di rapporto intercorrente fra le parti e della naturale spontaneità che caratterizza tale situazione (137). Altri pervengono ad analoghe conclusioni sulla base del rilievo per cui l’obbligo di redigere l’inventario e quello di prestare garanzia trovano la loro ragione d’essere nella compressione che la posizione giuridica del nudo proprietario viene a subire, laddove la posizione giuridica del coniuge proprietario, al contrario, non subirebbe qui alcuna compressione, poiché la sua situazione sarebbe svantaggiosa solo di fatto e comunque tale situazione di svantaggio potrebbe essere da lui fatta cessare in qualsiasi momento (138).
Più convincente appare peraltro il parere della dottrina maggioritaria, favorevole all’estensione al coniuge degli obblighi di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia (139), di fronte alla evidente assenza sul punto di dati testuali che consentano di pervenire all’opposta soluzione. Né d’altro canto appare possibile escludere l’applicabilità della norma in oggetto sulla base del rilievo per cui la già avvenuta ingerenza del coniuge sui beni dell’altro non lascerebbe spazio né per l’inventario né per la garanzia (140). Il godimento potrebbe, invero, protrarsi anche per un lungo periodo e che il coniuge proprietario potrebbe avere interesse, magari in una situazione in cui i reciproci diritti non appaiono ancora accertati con sufficiente certezza, a premunirsi in tal modo (cioè, appunto, mediante la predisposizione dell’inventario e la concessione di idonea garanzia) contro possibili abusi.
La dottrina reputa altresì applicabili, come si diceva, gli artt. 1004 e 1005, terzo comma, c.c., relativi alle spese (141), gli artt. 1008 (142) e 1009 c.c., in tema di imposte e pesi (143), l’art. 1013 c.c., in tema di concorrenza nelle spese delle liti (144). A parere di chi scrive, neppure la considerazione del particolare rapporto di coniugio esistente tra le parti, con il conseguente
(134) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; MAIORCA, voce Separazione dei beni tra coniugi, in Noviss. dig. it., Xxxxxxxxx, VII, Torino, 1987, p. 102; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 527.
(135) XXXXXXXXX, op. cit., p. 160; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 527; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.
(136) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 69; XXXXXX, op. cit., p. 1451; DE XXXXX, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, op. cit., p. 16; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; XXXXXXXXX, op. cit., p. 163; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 527; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.
(137) XXXXXXXXX, op. cit., p. 164; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 528; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.; cfr. inoltre XXXXXXXXXXX, Beni ed attività economica della famiglia, cit., p. 296, per il quale la già avvenuta ingerenza del coniuge non lascia spazio né per l’inventario, né per la garanzia.
(138) Cfr. XXXXXXXXX e XXXXXXX, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 314; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 330.
(139) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559.
(140) Così GIUSTI, op. cit., p. 1451.
(141) XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 528; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.
(142) In senso contrario XXXXXXXXX, op. cit., p. 160, la quale esclude più in generale, la possibilità di applicare quelle disposizioni che «si giustificano solo alla luce della titolarità di un diritto reale o comunque di un diritto alla percezione dei frutti».
(143) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, cit., p. 16; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559.
(144) DE XXXXX e XXXXX, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; DE XXXXX, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, cit., p. 16; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; XXXXXXXX, La separazione dei beni, cit., p. 331; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 528; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 643.
inderogabile dovere di contribuire ai bisogni della famiglia e la relativa regola dell’accordo, consente di escludere l’applicabilità delle disposizioni da ultimo citate (145), specie di fronte al carattere assolutamente generale del rinvio operato dall’art. 218 c.c. alle disposizioni (tutte, senza eccezione alcuna) in tema di obblighi dell’usufruttuario. Senza dubbio, poi, sarà applicabile l’art. 1012 c.c., in materia di denuncia delle altrui usurpazioni (146). La dottrina pressoché uniforme afferma poi la necessità che venga osservato il disposto dell’art. 981, primo comma, c.c., che impone all’usufruttuario di non alterare la destinazione economica del bene (147).
12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro.
Un’ulteriore forma di responsabilità contrattuale per i coniugi in regime di separazione dei beni può darsi nel caso di inadempimento all’obbligazione ex lege che può gravare su di un coniuge, avente ad oggetto l’indennizzo, in favore dell’altro per i miglioramenti e le addizioni da quest’ultimo apportati a beni del primo. L’art. 218 c.c. non prende in considerazione l’eventualità che un coniuge, godendo dei beni dell’altro, o comunque per effetto di intromissione nella sfera patrimoniale di quest’ultimo, abbia apportato miglioramenti o addizioni. Si pone qui il problema di sapere se per tali miglioramenti o addizioni sia dovuta una qualche forma di indennizzo.
In primo luogo andrà ricordato che tra coniugi esiste un preciso dovere di contribuzione «ai bisogni della famiglia» che l’art. 143, terzo comma, c.c. parametra «alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Si pone dunque il problema se, nell’ipotesi in cui il coniuge sostenga di tasca propria le spese per effettuare migliorie o addizioni sui beni dell’altro, in adempimento del proprio obbligo di contribuzione, sulla base di un accordo precedente circa le modalità di ripartizione fra entrambi dell’onere contributivo stesso (si pensi ad esempio al caso in cui i coniugi abbiano concordato di dividersi le spese per la ristrutturazione della casa coniugale appartenente al solo marito), l’indennizzo debba ritenersi escluso (148).
Applicando questo principio, una decisione di merito ha respinto la richiesta di pagamento per le prestazioni professionali rese, avanzata dal marito architetto il quale si era dato carico di svolgere tutte le attività occorrenti per la ristrutturazione della casa coniugale, appartenente alla sola moglie. Considerando l’attività svolta come prestazione non contrattuale posta in essere nell’interesse della famiglia da ricondursi all’adempimento dell’obbligo di contribuzione, il giudice ne ha così affermato la totale gratuità (149). In precedenza la Corte Suprema aveva invece riconosciuto la possibilità di ottenere un’indennità ex art. 1150 c.c. per il contributo in denaro fornito dalla moglie al marito per il restauro della casa di quest’ultimo adibita a residenza familiare, pur avendo affermato che tale contributo era stato prestato in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (150).
Rinviando anche in questo caso alla trattazione approfondita della questione svolta in altra sede (151), potrà conclusivamente dirsi che la soluzione del problema dovrà trovarsi, in linea di massima, nelle norme in tema di gestione d’affari altrui, salvi i casi in cui nel comportamento tollerante sia eventualmente possibile ravvisare gli estremi di un mandato tacito (nel qual caso
(145) Come invece sostenuto da SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 528; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 643.
(146) XXXXXXXXXXX, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 71; TATARANO e XXXXXXXXXX, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; XXXXXXXX, La separazione dei beni, op. cit., p. 331; XXXXX e XXXXXXXXX, op. cit., p. 528.
(147) XXXXXXXX, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; XXXXX, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 529; XXXXXXXXX, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 643 s.
(148) SESTA e XXXXXXXXX, op. cit., p. 535.
(149) Cfr. Trib. Napoli, 4 luglio 2001, in Fam. dir., 2002.
(150) Cass., 26 maggio 1995, n. 5866, in Dir. fam. pers., 1997, p. 87, con nota di MONTECCHIARI; in Giur. it., 1997, I, p. 843, con nota di XXXXX.
(151) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 232 ss.
dovrebbe essere applicato l’art. 1720, primo comma, c.c.). La norma di riferimento dovrebbe dunque essere costituita, in linea generale, dall’art. 2031, primo comma, c.c., che impone all’interessato, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, di rimborsare al gestore tutte le spese necessarie o utili (152), con gli interessi dal giorno in cui le spese sono state fatte (153). Queste conclusioni paiono ricevere conforto da quella giurisprudenza che riconduce proprio al paradigma della gestione d’affari altrui le spese affrontate da un coniuge che abbia integralmente adempiuto all’obbligo di mantenimento dei figli pure per la quota facente capo all’altro (154).
Sempre secondo la predetta impostazione, se il coniuge abbia agito senza procura o con l’opposizione dell’altro, in virtù dell’art. 2031, secondo xxxxx, c.c. – che esclude che si possa procedere al rimborso integrale con gli interessi qualora gli atti di gestione siano stati eseguiti contro il divieto dell’interessato – non potrà, invece, farsi riferimento alla normativa in materia di gestione d’affari.
E’ dunque chiaro che, ogni qualvolta si dovrà ravvisare nella fattispecie gli estremi di un’obbligazione da gestione d’affari altrui, la relativa violazione seguirà le regole dell’illecito contrattuale, ex artt. 1218 ss. c.c. (Ancora diversa è la questione se tra coniugi, così come tra conviventi more uxorio, possano darsi ipotesi di arricchimento ingiustificato (155). E’ ovvio che, nei casi e per le fattispecie in cui dovessero ritenersi configurabili obbligazioni ex art. 2041 c.c., le relative inadempienze darebbero luogo a responsabilità contrattuale.
13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale.
Svariate sono le fattispecie in cui si può ipotizzare la presenza di una responsabilità contrattuale inter coniuges per violazione di obbligazioni nascenti dalla situazione di crisi coniugale. La mente corre qui, in primo luogo, al contributo per il mantenimento del coniuge separato ex art. 156 c.c., o all’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5 l.div., o, ancora, alle prestazioni patrimoniali dovute ai sensi degli artt. 129 e 129-bis c.c. per il caso di invalidità del vincolo.
Naturalmente non è possibile trattare qui, neppure per sommi capi, delle questioni che attengono a ciascuna delle prestazioni in discorso, sviluppate in altra sede (156). Ciò che preme invece sottolineare è che la natura contrattuale della responsabilità per inadempimento di una qualsiasi di siffatte prestazioni si giustifica non solo nel caso in cui queste siano determinate da un contratto della crisi coniugale, ma anche nell’ipotesi in cui esse siano previste da una statuizione giudiziale, definitiva o provvisoria che sia. Anche qui, invero, si può parlare di obbligazione nel senso proprio del termine, come dimostrato dal fatto che la giurisprudenza non esita a fare applicazione, a tutela della posizione del coniuge titolare del credito a titolo di mantenimento o di assegno divorzile, del più classico degli strumenti a protezione del creditore (di un’obbligazione) nei confronti degli atti fraudolenti posti in essere dal debitore: vale a dire l’azione revocatoria (157).
(152) Sono utili le spese volte a migliorare la cosa o ad accrescerne il reddito; sono invece voluttuarie, e quindi non rimborsabili, le spese che la abbelliscono e ne rendono più piacevole il godimento al proprietario, senza però aumentarne il valore di scambio: cfr. DE SEMO, voce Gestione di affari altrui (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 828; in senso analogo CASELLA, voce Gestione di affari I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1995, p. 7; FERRARI, voce Gestione di affari altrui (dir. priv.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, p. 706.
(153) BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 1989, p. 143, ritiene invece applicabili in via analogica gli artt. 985 e 986 c.c. relativi alle addizioni e alle migliorie effettuate dall’usufruttuario.
(154) Cfr., ex multis, Cass., 11 novembre 1978, n. 5169; Cass., 25 maggio 1981, n. 3416; Cass., 1 giugno 1982, n. 3344; Cass., 8 marzo 1983, n. 1687; Cass., 19 marzo 1984, n. 1862; Cass., 21 giugno 1984, n. 3660; Cass., 16 marzo 1990, n. 2199; Cass., 11 luglio 1990, n. 7211; Cass., 12 marzo 1992, n. 3019; Cass., 5 dicembre 1996, n. 10849; Cass., 4 settembre 1999, n. 9386.
(155) Il tema è stato sviluppato in OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 120 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 49 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit.,
p. 232 ss.
(156) Cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 733 ss.
(157) Cfr. Trib. Milano, 22 luglio 1993, in Gius, 1994, p. 98: «È ammissibile l’azione revocatoria proposta dalla moglie, anche per conto del figlio minore, nei confronti del marito il quale abbia venduto la casa coniugale ad un terzo recando pregiudizio sia al diritto al mantenimento nascente del matrimonio sia al diritto di credito da determinare in sede di separazione. (Nella specie è stato ritenuto
D’altro canto, la stessa giurisprudenza non ha difficoltà ad ammettere la risarcibilità del danno conseguente all’inadempimento di siffatto tipo di obbligazioni (158).
Naturalmente, quanto sopra vale pure con riguardo al caso in cui le parti abbiano eventualmente stabilito che la corresponsione dei contributi in oggetto sia compiuta in una delle svariate modalità «non tradizionali», altrove in dettaglio illustrate (159): dalla fissazione del quantum in misura «fluttuante», legata al reddito dell’obbligato, alla determinazione in termini non monetari, all’attribuzione diretta di redditi o proventi dell’obbligato, all’effettuazione di rimborsi di spese, alla diretta somministrazione dei mezzi di sussistenza, al pagamento diretto del canone di locazione e delle spese accessorie, alla corresponsione di beni in natura.
Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi potrà ricordarsi che il trasferimento di diritti su beni, mobili o immobili, in sede di contratto della crisi coniugale – ormai pacificamente ammesso – ove non attuato con effetto reale, può compiersi per il tramite di un impegno assunto in sede di accordo di separazione o divorzio e successivamente adempiuto con distinto e separato negozio attuativo (160). Anche l’eventuale inadempimento di tale obbligazione può dar luogo a responsabilità contrattuale, salvo il rimedio specifico contemplato nell’art. 2932 c.c. (161). Conformemente a quanto sopra illustrato, deve però ritenersi che la parte in favore della quale l’impegno traslativo era stato assunto, possa optare per il risarcimento del danno (contrattuale) nelle forme ordinarie, rinunziando al rimedio specifico, oppure agire ex artt. 1218 ss. c.c., in concorso con l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., quando il danno di cui si intenda chiedere il risarcimento sia, ad esempio, quello da ritardo, per la mancata disponibilità del bene per un determinato periodo.
A prescindere dai rimedi risarcitori ex artt. 1218 ss. c.c., le obbligazioni qui in discorso sono rafforzate da una serie di garanzie speciali a tutela dell’adempimento degli obblighi di carattere pecuniario derivanti dalla separazione e dal divorzio: obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale, iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818 c.c., sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato, ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di
che al momento della vendita sussistessero da parte del debitore e del terzo sia il consilium fraudis, relativo all’attuale diritto al mantenimento, che la dolosa preordinazione, relativa al futuro diritto di credito nascente dalla separazione, posto che per quanto riguarda il debitore la vendita risultava di quattro giorni successiva all’allontanamento della moglie dalla casa coniugale a seguito di pesanti contrasti familiari, e di un solo giorno antecedente la data apposta in calce al ricorso per separazione personale proposto dal marito e per quanto riguarda il terzo acquirente questi era risultato essere la moglie dell’avvocato che assisteva il coniuge cedente nel giudizio di separazione)».
(158) Cfr. App. Perugia, 8 marzo 1986, in Dir. fam. pers., 1989, I, p. 102: «L’inadempimento dell’obbligazione alimentare, tra coniugi separati, è soggetto alla medesima disciplina che regola l’inadempimento delle obbligazioni in genere. Nel caso in cui detta obbligazione sia consacrata in un titolo esecutivo, quale il provvedimento emesso dal presidente del tribunale nella fase preliminare del giudizio di separazione personale, il coniuge creditore può pertanto, a sua scelta, agire esecutivamente per conseguire l’esatta prestazione di quanto a lui dovuto, oppure agire per il risarcimento del danno, al fine di ottenere una prestazione in denaro equivalente a quella dovuta, qualora la prestazione abbia per oggetto una somministrazione imprecisata e non agevolmente determinabile, al coniuge creditore non rimane che avvalersi dell’azione risarcitoria».
Sul tema v. anche Cass., 19 agosto 2005, n. 17009, secondo cui «Qualora il coniuge assegnatario in sede di separazione della casa familiare abbia proposto azione revocatoria diretta alla declaratoria di inefficacia della vendita dell’immobile oggetto dell’assegnazione da parte del marito, non ricorre il rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica richiesto dall’art. 295 c.p.c. per la sospensione necessaria del processo, tra la predetta causa e il giudizio proposto dal compratore per ottenere la condanna del venditore al rilascio del medesimo bene; infatti, nessuna influenza sull’esito di quest’ultimo procedimento potrà avere il vittorioso esperimento dell’azione pauliana che, non assicurando il rientro del bene nel patrimonio del debitore alienante, produce la declaratoria di inefficacia relativa nei confronti dell’attore-creditore degli atti di disposizione compiuti dal debitore in pregiudizio del credito di cui sia titolare (nella specie, il diritto del coniuge separato all’assegno di mantenimento o al diritto personale di godimento della casa familiare), consentendogli di promuovere l’azione esecutiva e conservativa sul bene distratto; d’altra parte, l’acquirente rimane, a tutti gli effetti, proprietario del bene erga omnes, e, quindi, anche nei confronti del creditore, potendolo alienare a terzi – senza pregiudizio per i diritti da costoro acquistati in buona fede, salvo gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione – o ancora conseguire il rilascio per ottenerne il godimento; d’altra parte, il conflitto fra il diritto del terzo acquirente del bene e il diritto del coniuge di avere la disponibilità del bene in forza del diritto personale di godimento derivante dal provvedimento di assegnazione, va risolto in base all’anteriorità – rispetto all’atto di alienazione – della data o della trascrizione di tale provvedimento rispettivamente a seconda della durata, entro od oltre il novennio, del diritto personale di godimento medesimo».
(159) XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 775 ss.
(160) XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1201 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., passim; ID., I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, cit.
(161) Per le peculiarità di tale rimedio in relazione alla specifica fattispecie in oggetto, x. XXXXXX, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 277 ss.
xxxxxx all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, ex artt. 156, quarto, quinto e xxxxx comma, c.c., 8, xxxxx, secondo e settimo comma, l.div., distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l.div.
Secondo quanto illustrato in altra sede dovrà poi ammettersi che i coniugi, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale, aggiungano alle garanzie predisposte dal legislatore ulteriori mezzi di tutela preventiva e coazione all’adempimento non previsti dalle speciali norme dettate per la separazione o il divorzio. Nulla esclude invero (ed anzi l’esperienza delle controversie in materia di crisi coniugale sembra caldamente suggerirlo) che i coniugi prevedano la dazione di una caparra confirmatoria, ovvero il pagamento di una penale, magari nella forma di penalità di mora determinate sulla base dei giorni di ritardo, in relazione all’adempimento dell’assegno di separazione o di divorzio, ovvero di altre prestazioni di tipo patrimoniale (162).
14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.
Come nei rapporti tra coniugi ex art. 143 c.c., anche nelle relazioni tra genitori e figli i primari doveri che vengono in considerazione in forza degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. presentano eminenti profili di non patrimonialità. Di conseguenza si dovrà fare rinvio a quanto già illustrato circa la non ravvisabilità di una responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c per il caso di eventuale violazione di siffatti doveri (163).
Sarà però necessario rilevare in questa sede come la violazione del dovere di mantenimento della prole, in quanto relativa ad un obbligo eminentemente patrimoniale, ancorché di fonte legale, non possa sottrarsi alla categoria dell’illecito contrattuale, sebbene un precedente di legittimità risalente al 2000 abbia affermato la responsabilità aquiliana del padre naturale che, successivamente alla dichiarazione giudiziale, per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza; al riguardo la Corte ha riconosciuto la «lesione in sé» di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore, affermando che l’art. 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, con la conseguenza che la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) (164).
La lettura della motivazione della pronunzia consente peraltro di accertare che il genitore aveva in effetti corrisposto tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento, seppure in ritardo. La lesione lamentata non riguardava il profilo patrimoniale consistente nel danno da mancata o ritardata corresponsione dei mezzi di sussistenza, quanto il diritto fondamentale del figlio, come persona umana, ad essere, si potrebbe dire, «trattato come tale» (165).
Naturalmente, vere e proprie obbligazioni concernenti la prole minorenne (o maggiorenne, ma non autosufficiente) possono scorgersi anche nella fase patologica del rapporto coniugale, laddove le determinazioni giudiziali o, in alternativa, la volontà delle parti, prevedano la corresponsione di assegni per il contributo al mantenimento dei figli. Il tema è stato approfondito in altre sedi, cui si fa rinvio (166). Basti ricordare qui l’enfasi posta dalla legge sul rilievo, anche in subiecta materia, degli accordi tra i coniugi (o ex tali), al punto che l’obbligo – oggi sussistente a
(162) XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1132 ss., 1178 ss.
(163) Per una panoramica di tali doveri e delle conseguenze della relativa violazione, nonché per i necessari rinvii, v. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 71 ss.
(164) Cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, p. 159, con nota di DOGLIOTTI; in Corr. giur. 2000, p. 873, con nota di DE MARZO; in Danno e resp. 2000, p. 835, con note di MONATERI e di PONZANELLI; in Resp. civ. prev., con nota di ZIVIZ.
(165) Sul tema v. inoltre le argomentazioni di FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 77 ss., nonché Trib. Venezia, 30 giugno 2004, ivi, p. 395.
(166) XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1079 ss; ID., Contratto e vita familiare, cit., Cap. V, §§ 4 ss.
seguito della riforma dell’art. 155 c.c. per effetto della legge sull’affidamento condiviso – per il giudice di «prendere atto», ancor di più di quello, precedente, di «tener conto», sembra tradursi prevalentemente in un dovere di motivazione delle ragioni per le quali l’intesa viene eventualmente disattesa (167), motivazioni che non potranno trovare altro punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei canoni fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. (168), o della regola dell’ «interesse del minore».
Si noti peraltro che il nuovo art. 155, quarto comma, nel prevedere che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti», sembra voler addirittura smentire il criterio di necessaria proporzionalità scolpito nell’art. 148, norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost.
Venendo alle determinazioni specifiche concernenti i profili patrimoniali, è pacifico che gli accordi tra i coniugi potranno concernere la determinazione dell’assegno (169) e delle relative scadenze di corresponsione, mentre non sembra possibile escludere ogni forma di adeguamento automatico (170). Un’altra previsione ritenuta dai giudici inammissibile è quella concernente una rivalutazione dell’assegno in misura inferiore rispetto a quella assicurata dall’ «aggancio» agli indici ISTAT (171), anche se sul punto il nuovo tenore letterale dell’art. 155, quinto comma, c.c. («L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice») sembrerebbe indurre a conclusioni differenti (172).
Il riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia dell’adempimento non solo di doveri di carattere patrimoniale, ma anche di quelli connessi ai profili personali della potestà. Al riguardo, come già suggerito in altra sede, potrebbero ipotizzarsi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo caso in considerazione preoccupazioni
(167) Conforme sul punto, in relazione alla normativa previgente, X. XXXXXXXXXX, I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia e nel fallimento, Milano, 1996, p. 492.
(168) Su cui v., per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 98 ss.
(169) In relazione al quale va affermata – a differenza che nei rapporti tra coniugi – la nullità di ogni rinunzia, atteso che ogni forma di rinunzia pare per definizione contraria all’interesse del minore. Ed è proprio questa la considerazione che impone per la rinunzia un trattamento differenziato rispetto a quello dei normali atti di carattere dispositivo, primo tra i quali quello avente ad oggetto la determinazione del quantum della prestazione dovuta. Mentre in quest’ultima fattispecie, invero, la violazione del criterio dell’interesse del minore è puramente eventuale (e comunque va vagliata caso per caso), nell’ipotesi di rinunzia tout court la violazione dell’interesse del minore è certa, ad eccezione della situazione, peraltro assolutamente straordinaria, in cui l’obbligato si trovi veramente nell’impossibilità di contribuire in alcun modo al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione della prole (per ulteriori approfondimenti sul tema cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1117 ss.).
(170) Il principio di cui un tempo all’art. 6, undicesimo comma, l.div. e ora all’art. 155, quinto comma, c.c. (estensibile al divorzio ex art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54) pareva invero non solo analogicamente applicabile alla materia della separazione (ma la questione è stata risolta dalle norme testé citate), bensì anche munito del carattere dell’inderogabilità, posto che pure in questo caso un’esclusione a priori della possibilità di adeguare l’assegno al reale valore della somma inizialmente pattuita appare in contrasto con l’interesse del minore a vedersi mantenuto quanto meno costante, in termini reali, il contributo del genitore non affidatario. Anche la giurisprudenza sembrava orientata in questo senso, negando – in caso di soluzione contenziosa della crisi coniugale, ma con argomentazioni che paiono estensibili pure alla definizione consensuale – la possibilità di escludere la rivalutabilità dell’assegno per la prole, pure in caso di palese iniquità, a differenza di quanto stabilito invece con riferimento all’assegno di divorzio in favore di uno degli ex coniugi dall’art. 5, ottavo comma, l.div. (cfr. A. Brescia 20 gennaio 1990, in Giust. civ., 1990, I, p. 824; in dottrina v. XX XXXXX, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 333).
(171) Cfr. Cass., 3 novembre 1994, n. 9047, in Giust. civ., 1995, I, p. 743; in Dir. fam. pers., 1995, p. 135.
(172) Anche la materia della decorrenza dell’assegno per la prole sembra, ancor più di quella concernente la determinazione delle scadenze e dell’adeguamento automatico, sottratta ad ogni forma di autonomia dei privati. Proprio in considerazione del principio secondo cui l’obbligo di mantenimento è direttamente connesso al rapporto di filiazione e non a quello matrimoniale, non vi è dubbio che esso vada soddisfatto dal momento della nascita a quello del raggiungimento dell’indipendenza economica (sul tema si rinvia a OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1143 ss.).
attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della prole (173).
Un peculiare obbligo di contenuto patrimoniale, gravante sui genitori, è rappresentato dal dovere di amministrare correttamente il patrimonio dei figli minorenni. Nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato, l’autorità giudiziaria può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334, primo comma, c.c.). Nel caso in cui sia disposta la rimozione di entrambi i genitori, l’amministrazione è affidata ad un curatore (art. 334, secondo comma, c.c.). Si rileva al riguardo che i fatti che possono giustificare l’intervento del giudice non sono sostanzialmente diversi da quelli che legittimano la pronuncia di decadenza dalla potestà; sono soltanto meno gravi, secondo la valutazione discrezionale compiuta dal giudice (174). La diversa gravità dei fatti, inoltre, costituisce il parametro non solo per scegliere tra la pronunzia di decadenza e l’applicabilità dei provvedimenti di cui all’art. 334 c.c., ma anche, nell’ambito di quest’ultima norma, per graduare le misure da adottare. Il giudice, infatti, quando le irregolarità non sono gravi ed appaiono correggibili, può limitarsi a stabilire le condizioni cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione, sotto la vigilanza del giudice tutelare; può, altresì, privare entrambi i genitori o solo uno di essi dell’amministrazione dei beni del minore, lasciandoli nell’esercizio della potestà, quando entrambi o uno solo di essi risultino inidonei al compito che la legge loro affida. La rimozione dall’amministrazione può a discrezione del tribunale, accompagnarsi alla privazione totale o parziale dell’usufrutto legale (175).
(173) Nulla sembra dunque ostare ad un’applicazione delle disposizioni in tema di clausola penale contenute nella disciplina del contratto in generale (artt. 1382 ss.). Sia quindi consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe, quanto meno, assumere il valore d’un ballon d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in un campo così delicato.
Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio (cfr. XXXXXX, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112), è stato criticato da chi (XXXXXX, Letture sull’autonomia privata, Padova, 2005, p. 178 s.) ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi consiste nel focalizzarsi esclusivamente su di una parte del tutto circoscritta di un’opera ben più complessa, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali dall’introduzione di xxxxxxxx xxxxxx. Come evidenziato dall’analisi – significativamente omessa dal citato Autore – del profilo causale delle pattuizioni qui in discorso (cfr. per tutti OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 625 ss., 709 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 91 ss.), la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, sedicesimo comma, l.div.), a fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi (l’argomento è ampiamente sviluppato, nel caso il citato Autore volesse completare la propria indagine, oltre che nelle pagine appena citate, in OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1165 ss.; ID., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. notar., 1999, p. 337). Il richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rimanda il paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche esempio, alle opinioni, ivi riferite, di Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Xxxxx e Xxxxxx, oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233). Ci si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò, evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere. Et de hoc satis.
(174) Cfr. A. e X. Xxxxxxxxxxx, op. cit., p. 2197; XXXXX, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 87.
(175) Su tali aspetti cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 87 s.
Nel caso il patrimonio del minore abbia subito un pregiudizio a causa di atti di cattiva amministrazione compiuti dai genitori, questi ultimi potranno essere chiamati a rispondere dei danni cagionati, non già ex art. 2043 c.c. (176), bensì in forza dei principi in tema di responsabilità contrattuale: i genitori sono invero soggetti passivi di un rapporto obbligatorio ex lege di carattere patrimoniale che li lega ai figli minorenni, quale uno dei profili componenti la potestà genitoriale: un rapporto avente ad oggetto la rappresentanza dei figli stessi e l’amministrazione dei relativi patrimoni (cfr. art. 320, primo comma, c.c.). Ora, questa amministrazione non può svolgersi se non nel rispetto del canone della diligenza (e il richiamo al concetto del «buon padre di famiglia» assume qui un significato quanto mai pregnante!) ex art. 1176 c.c. (177).
Per concludere sul punto dovrà ricordarsi che, in caso di crisi coniugale, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali, ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio di separazione, di divorzio, di modifica delle relative condizioni, ovvero ancora di annullamento del matrimonio – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c. (178).
15. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi.
Nell’attuale sistema normativo italiano, attesa l’inesistenza di un dovere giuridico azionabile di contribuzione tra conviventi more uxorio (179) e la presenza, invece, di una semplice obbligazione naturale (180), sembra impossibile trasfondere in questa materia le conclusioni sopra esposte in tema di dovere di contribuzione tra coniugi. Un’obbligazione ex lege giuridicamente azionabile esiste, per il vero, nell’ipotesi descritta dall’art. 342-ter cpv. c.c., introdotto dall’art. 2, l. 5 aprile 2001, n. 154 («Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»), ai sensi del quale, nel caso di emanazione di ordine ai sensi del primo comma del medesimo articolo (ordine di allontanamento dalla casa familiare), il giudice può disporre «il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante».
Trattasi di disposizione su cui grava il pesante sospetto di contrarietà al canone d’uguaglianza ex art. 3 Cost., atteso che la medesima concede (per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano) un assegno all’ex convivente more uxorio dalla funzione prettamente assistenziale – si noti l’inciso «persone conviventi che (…) rimangono prive di mezzi adeguati – peraltro nel solo caso di cessazione «violenta» del rapporto, nulla prevedendo, invece, nell’ipotesi in cui la relazione venga a terminare in maniera «civile», con un’evidente discriminazione a seconda di come il legame venga a sciogliersi e senza tenere conto del fatto che la mancanza di mezzi adeguati ben può darsi anche quando il convivente «debole» non subisca violenza alcuna. Ma, a parte questi rilievi (che s’accompagnano all’augurio che il legislatore o la Consulta
(176) Come ritenuto, invece, da FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 88.
(177) Si tenga, inoltre, in considerazione che l’art. 570, secondo xxxxx, n. 1, c.p., prevede e punisce la condotta del genitore che
«malversa o dilapida i beni del figlio minore», con la conseguenza che, nel caso in cui ricorrano gli estremi di tale reato, vi potrà essere anche la condanna al risarcimento del danno morale.
(178) Cfr. supra, § 3.
(179) Sul tema cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 47 ss.; per la giurisprudenza più recente, contraria all’esistenza di un dovere giuridico di contribuzione tra conviventi, cfr. Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I, c. 329; Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 501, con nota di MORELLO DI XXXXXXXX. Da segnalare, nel senso dell’applicabilità dell’art. 143 c.c. ai conviventi, Trib. Savona, 29 giugno 2002 in Fam. dir., 2003, p. 596, con nota di XXXXXXXX (e, per le relative osservazioni critiche, v. anche XXXXXX, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 50 s. e nota 88).
(180) Su cui v. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 87 ss.
provvedano quanto prima a colmare la lacuna), non vi è dubbio che la prestazione in oggetto costituisce l’oggetto di un ben preciso rapporto obbligatorio costituito jussu judicis sulla base della norma citata, la cui violazione espone il debitore a responsabilità contrattuale.
Altrettanto è a dirsi in relazione al caso in cui un obbligo di contribuzione o di mantenimento siano stati previsti in base ad un contratto di convivenza: l’ammissibilità di una siffatta pattuizione sembra, invero, oggi fuori discussione – come si è cercato di dimostrare in svariate altre sedi (181) – ed anzi la validità di un contratto di convivenza avente tale oggetto induce anche ad affermare la possibilità che le parti stabiliscano l’impegno reciproco di contribuire alle necessità del ménage mediante la corresponsione (periodicamente, o una tantum) di somme di denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica (182).
La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi (183), così come quella di una promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di necessità (184). Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione» per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).
La dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso (185). Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio (186). Si tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale (187). Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio (188).
(181) XXXXXX, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss.
(182) Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. XXXXXX, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; per la dottrina successiva cfr. XXXXXXXX, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 752 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 982 ss.; XXXXXX, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 114 ss.
(183) Sul punto x. XXXXXXXXX-XXXXXXXX, Le developpement de la famille de fait - Aspectes socio-juridiques - La situation en droit belge, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, p. 65, secondo cui ben può formare oggetto dei contratti in esame l’«obligation de secours et de contribution aux charges du ménage de fait pendant l’union et après sa rupture». Cfr. inoltre il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la direzione del prof. Xxx Xxxxxx da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (in AA. VV., Xxxxxx et modernité, 00xxx xxxxxxx xxx xxxxxxxx xx Xxxxxx, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988 p. 520 ss.), che all’art. 3, c. 1, prevede una contribuzione dei conviventi in parti uguali o in misura proporzionale ai rispettivi redditi, con specificazione, al secondo comma, di quelle spese cui entrambi sono tenuti a contribuire come effettuate nel cadre du ménage commun, quali l’acquisto di generi alimentari, vestiti, elettrodomestici, mobilio, telefono, ecc. Si veda infine anche la formula elaborata dalla Direction de la recherche xx xx x’xxxxxxxxxxx xx xx Xxxxxxx xxx xxxxxxxx xx Xxxxxx, xx XX. VV., Xxxxxx et modernité, cit., p. 514 ss., che prevede la fissazione delle modalità della contribution aux charges du ménage, in proporzione alle proprie rispettive facoltà, ovvero con specificazione delle rispettive misure.
(184) Cfr. XXXXXXXX, Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung Nichtverheirateter, in XXX, 0000, p. 685.
(185) Cfr. XXXXXXXX, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 92; cfr. inoltre GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 165.
(186) E’ il suggerimento di CALO’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, nota a Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1171.
(187) V. per tutti CALO’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., p. 1165; XXXXXXXX, La rendita vitalizia, Torino, 1958, p. 47 ss. Per un caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germania v. BGH, 29 giugno 1973, in XXX, 0000, p. 1645, che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’impegno della convivente di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).
(188) Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1163, con nota di CALÒ; in Riv. notar., 1989, II, p. 647, in cui il vitaliziante si era impegnato verso il
Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. (189). Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto. Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. (190).
Non va trascurato poi che un accordo del genere potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione, ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di certi beni (191), usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne prevista per la donazione.
Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione così fissato (192). Assai più delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage. Una simile clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere
vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però dubbi di validità, tanto con riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174 e 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante.
(189) Per i richiami cfr. XXXXXX, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.
(190) Si tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le prestazioni di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di soccorso» x. XXXXXXXXX, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, cit., p. 468. Nel senso che «è nulla, per difetto di forma, la donazione contenuta in una scrittura privata, denominata “transazione”, con cui la parte si obbliga a versare al beneficiario una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di quest’ultimo» cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Riv. notar., 1987, II, p. 837; in Foro it., 1987, I, c. 805.
(191) Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo, all’automobile, ecc. In relazione alla casa di abitazione è stato proposto di prevedere, nell’ipotesi l’immobile sia di proprietà di uno solo, l’obbligo per l’altro di corrispondere una somma per l’uso del bene (v. il «modello di Leida», cit., art. 4, c. 1). L’operazione finirebbe però con l’assoggettare il rapporto alla disciplina della locazione, a nulla potendo giovare l’esplicita esclusione di tale effetto (pure suggerita dal «modello» cit.: v. art. 4, c. 3).
(192) In proposito, si può innanzitutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi (cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.).
apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata, tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.
Come già suggerito per i rapporti inter coniuges (193), anche in relazione a siffatti contratti sarà opportuno prevedere la stipula di apposite clausole penali, che forniranno al convivente creditore delle prestazioni così garantite un maggior livello di sicurezza sul relativo adempimento.
16. Segue. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.
Il tema delle penali con cui si è chiuso il § precedente induce ad accennare all’argomento piuttosto delicato dei rapporti con i profili strettamente personali, quale quello della procreazione, o dei rapporti con la prole. Per quanto attiene al primo aspetto dovrà senz’altro ribadirsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche il profilo della contrarietà al buon costume (194) – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome (195), la procreazione (eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi (196).
Xx è inutile dire che, con riguardo a siffatte fattispecie, neppure la previsione di una penale varrebbe a salvare il rapporto dalla nullità per violazione del principio della libertà personale (197).
(193) Xxx. xxxxx, §§ 00 s.
(194) Nello stesso senso v. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 119 s.
(195) Si immagini l’impegno di uno o di entrambi i conviventi a esperire il ricorso al Ministero dell’interno per ottenere il cambiamento o la modifica del cognome ex artt. 84 ss. d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), al fine assumere un cognome identico. Contraria alla validità di un impegno del genere è anche la dottrina tedesca (x. XXXXXX, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 306).
(196) X. XXX, 00 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi avevano di comune accordo deciso di non avere figli e all’uopo la donna si era impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da quest’ultima rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era stato condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in giudizio la donna chiedendole il risarcimento danni per la violazione dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale respinse la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo della più intima sfera di libertà personale». Potrà essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano (cfr. Trib. Milano, 19 novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621) ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che non solo aveva proposto l’azione di responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda di responsabilità aquiliana per violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del (preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti sessuali con una donna senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non desiderati.
(197) La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno o più dei doveri ex art. 143 c.c. Sul tema cfr. XXXXXX, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; in senso conforme v. anche XXXXXXXX, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 747.
Significativo è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p. 618. Herr X. e Frau X., conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria vita in comune, nonchè le conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale accordo, redatto per iscritto, prevede testualmente che «per il caso di scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo si impegna a corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000. Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la somma verrà aumentata a DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto diritto di indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà R. a decidere di sciogliere il legame». La Corte afferma la nullità di tale clausola per due distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato concluso quando Herr X. era ancora sposato: la previsione di una penale per lo scioglimento della relazione extramatrimoniale va ritenuta come sittenwidrig ai sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la riconciliazione con la moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La seconda ragione (di carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del genere, anche in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di
«rendere più difficoltoso, se non addirittura impossibile, per il convenuto (K.) lo scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i
Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma anche gli aspetti involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati da norme di carattere imperativo (198). La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para- familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso, fissate dall’art. 262) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.
Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni. Invero, come dimostrato in dottrina (199), dall’art. 317-bis sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale (200). Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non minorenni), nonché sul carattere di vera e propria obbligazione di siffatto tipo di impegno.
Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa in tema di affidamento condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per effetto del citato art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54. In forza di queste norme, invero, il giudice è obbligato a «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, c. 2). D’altro canto, i conviventi possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli (come stabilito dall’art. 000, x. 0), xxxxxxxxxxxxx xxxxx xx xxxxxx xx criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 (e sempre che, come si è visto trattando della materia con riguardo alla crisi coniugale, tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria di incostituzionalità, nel caso si dovesse ritenere il citato criterio munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.).
Il vero problema è, semmai, quello di trovare un sistema che possa «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che garantisca contro il rischio che una di esse cambi successivamente idea. Sul punto varrà la pena riportare in nota gli argomenti in favore della ammissibilità di una vera e propria procedura di omologazione delle intese di «separazione
giudici, la conseguente limitazione della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei suoi diritti personalissimi deve dunque essere considerata intollerabile, oltre che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che, secondo la Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in relazione a una coppia coniugata).
(198) Cfr. XXXXXX, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in senso conforme cfr. ora anche DE XXXXXXX, I patti di convivenza. Considerazioni generali, in AA. VV., Convivenza e situazioni di fatto, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Xxxxx, I, Famiglia e matrimonio, cit., p. 860.
(199) Cfr. XXXXXXXXX, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della «separazione», Nota a Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 613 ss., 630; PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, in Familia, 2002, p. 611 s. Sul tema v. ora anche XXXXXX, Contratti di convivenza e diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240 ss.
(200) Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Xxxx xxx., 0000, x. 000 (xx noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio). Un accenno in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).
consensuale» della coppia di fatto concernenti la prole, ammissibilità che sembra in qualche modo confermata dalle norme in tema di affidamento condiviso (201).
In ogni caso – e concludendo – è chiaro che, anche a prescindere dalla assoggettabilità ad omologazione delle intese tra conviventi, gli accordi attinenti a profili di carattere patrimoniale (ed in primo luogo la previsione del versamento di contribuzioni periodiche o anche solo una tantum) costituiranno vere e proprie obbligazioni, con conseguente applicabilità degli artt. 1218 ss. c.c. in ipotesi di mancato o inesatto adempimento. E’ da notare che, nella crisi del rapporto di fatto, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio ex art. 317-bis c.c. – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c. (202).
(201) Cfr. XXXXXX, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 247 ss.; ID., Contratto e vita familiare, cit., cap. VI, § 5, ove si rileva che la mancanza di un siffatto meccanismo procedurale rende evidente la disparità di trattamento rispetto alla situazione della rottura della coppia coniugata: in quest’ultimo caso, infatti, si arriva a un atto (il verbale di separazione consensuale) munito di forza esecutiva; nel caso invece della famiglia di fatto l’intesa, sottoscritta dalle parti, è racchiusa in un documento che – ancorché vincolante per le parti – non può essere posto alla base di un’azione esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il tribunale non intenda in qualche modo recepire l’accordo in un suo provvedimento o emanare una decisione che assuma i caratteri di una sorta di decreto di omologa analogo a quelli che il tribunale ordinario emana ai sensi dell’art. 158 c.c.
La questione pone un problema di legittimità costituzionale. La Consulta, a dire il vero, si è già occupata della materia, respingendo le questioni che le erano state proposte. Peraltro, come risulta evidente dalla lettura delle sentenze emesse al riguardo nel 1996 e nel 1997 (cfr. Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 23, in Giust. civ., 1996, I, p. 917; in Foro it., 1997, I, c. 61, con nota di XXXXXXXX; in Dir. fam. pers., 1996, I, p. 1327, con nota di BORDONARO; Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 451, in Giust. civ., 1997, I,
p. 913; in Dir. fam., 1998, I, p. 484, con nota di XXXXXX; in Foro it., 1998, I, c. 1377, con nota di XXXXXXXXX), la questione non era stata presentata sotto questo angolo visuale. Ciò che si era chiesto alla Corte costituzionale era di decidere se rispondesse a criteri di razionalità il fatto che i figli legittimi sono, per così dire, «gestiti» dal tribunale ordinario, mentre quelli naturali lo sono (ma solo limitatamente ai profili personali) dal tribunale per i minorenni. E qui la Consulta ebbe buon gioco a dire che si tratta di un problema di discrezionalità del legislatore, il quale può sbizzarrirsi ad individuare varie forme di competenza, attribuendole ora ad un giudice piuttosto che ad un altro. A ciò s’aggiunga che, nel caso dell’assegno per il minore naturale e dei relativi rapporti patrimoniali, l’azione è vista come azione tra genitori e non involge direttamente la posizione, come soggetto processuale, del minore: non deve dunque destare «scandalo» il fatto che ad occuparsene sia il tribunale ordinario, mentre per i profili personali è competente il tribunale per i minorenni.
A ben vedere, la questione potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo visuale: un medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività scaturente dall’art. 1372 (e poco importa se la norma sia espressamente dettata solo per i rapporti patrimoniali, atteso che, come si è visto, il principio è sicuramente estensibile anche ai negozi familiari non patrimoniali), può essere garantito dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158), se concerne la prole legittima, laddove ciò non accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda invece la prole naturale. Naturalmente si potrà obiettare che esistono dei rimedi, miranti a determinare la creazione di un titolo esecutivo: l’accordo sulla prole naturale può (almeno per ciò che concerne i profili patrimoniali) essere fatto valere in sede di procedimento contenzioso ordinario, ovvero essere posto alla base di una richiesta per decreto ingiuntivo. L’intesa potrebbe poi anche essere recepita da un atto notarile (o, secondo quanto disposto dalla l. 80/2005, essere racchiusa in una scrittura privata autenticata), così acquistando efficacia di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., per le obbligazioni aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro. Peraltro, tutti quelli appena indicati sono strumenti costosi, che presuppongono una parte ben assistita ed avvisata, e che comunque marcano una ingiustificata disparità di trattamento, fondata sul solo fatto di appartenere alla categoria dei figli legittimi, piuttosto che a quella dei figli naturali.
La soluzione pratica potrebbe essere reperita sfruttando addirittura alcune indicazioni date dalla stessa Corte costituzionale che, per almeno due volte, ha respinto domande dirette ad ottenere l’estensione – per via di pronunzie di accoglimento – ai figli naturali di rimedi concessi a tutela di quelli legittimi, affermando poi, in buona sostanza (cioè per via di decisioni interpretative di rigetto), l’applicabilità ai primi di norme dettate per i secondi (cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Guida dir., 1998, n. 21, p. 40, con nota di X. XXXXXXXXXXX; in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 678, con nota di XXXXXXXX; in Rass. dir. civ., 1998, p. 880, con nota di XXXXXXXX, sull’attribuzione della casa familiare in sede di separazione giudiziale e Corte cost., 18 aprile 1997, n. 99, in Guida dir., 1997, n. 16, p. 24, con nota di X. XXXXXXXXXXX; in Dir. fam., 1997, I, p. 837; in Giust. civ., 1997, I, p. 2072, in materia di sequestro ex art. 156 c.c.). Una volta tracciata la via dell’«interpretazione adeguatrice» degli artt. 155 (ora art. 155-quater, direttamente applicabile, tra l’altro, alla famiglia di fatto ex art. 4, c. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54), relativamente al diritto di abitazione nella casa familiare, e 156, sullo strumento del sequestro, non si vede perché non si potrebbe ipotizzare una ripetizione del medesimo ragionamento anche per la procedura di cui all’art. 158, riconoscendone la riferibilità anche alla «separazione» della famiglia di fatto ed in tal modo avallando una prassi che nei tribunali ha già preso piede.
A tutto ciò s’aggiunga, infine, che il già mentovato dovere del giudice (anche nel caso di procedure relative alla famiglia di fatto) di «prendere(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, c. 2) viene a munire di ulteriore, difficilmente discutibile, fondamento una siffatta operazione ermeneutica.
(202) Cfr. supra, § 3.