L’arbitrato nella proprietà industriale
Estudios
Arbitraje, vol. III, nº 1, 2010, pp. 15–41
L’arbitrato nella proprietà industriale
Xxxx XXXXXXXX
Xxxxxxxx xx Xxxxxxx xxxxxxxxx x xx Xxxxxxx xxxxxxx
Xxxxxxxxxxx xx Xxxxx
Xxxxxxxx: I. Premessa. II. Monopolio dello Stato per la costituzione di un diritto di proprietà industriale. III. Arbitrato e brevetti. IV. Arbitrato e marchi. V. La clausola di non–contestazione e la transazione delle liti. VI. Contratti aventi ad oggetto un diritto di proprieta` industriale restrittivi della concorrenza. VII. L’eccezione di nullità come strumento per il tentativo di bloccare l’arbitrato. VIII. Gli accordi di coesistenza dei marchi (e di delimitazione del brevetto). IX. L`arbitrato nel Codice della Proprietà Industriale. 1. Le norme rilevanti. 2. L’art. 64. 3. L’art. 194. 4. Il (vecchio) art. 134. X. La nuova legge sull’arbitrato con riferimento alla proprietà industriale. XI. Le norme della legge sullo sviluppo e l’energia (n.99 del 23 luglio 2009).
I. Premessa
Ogni campo del diritto esige una giustizia rapida da parte di giudici specializzati. Ciò è tanto più vero per quanto concerne la proprietà industriale1; infatti in questo campo le procedure di urgenza si sono
1 Con questa espressione ci riferiamo alle materie ed ai diritti elencati nell’art. 1 D. lgs. 10 xx xxxxxxx xx 0000, x. 00 (Xxxxxx della Proprietà Industriale); ne rimangono dunque fuori le controversie in tema di diritti d’autore dove peraltro (non essendoci la costituzione del diritto ad opera dello Stato, in quanto esso nasce dalla creazione dell’opera) lo spazio per l’arbitrato circa le questioni patrimoniali è abbastanza ampio, eccetto per le determi- nazioni riservate al Presidente del Consiglio o al Ministro, seppure talvolta dopo aver esperito un tentativo di conciliazione. Per un precedente x. Xxxx. 1 luglio 2004, n. 12089, in Dir. e giust., 2004, f. 37, 15 nota Grassi, Se il dipendente inventa, il titolare utilizza.
sviluppate in modo molto più precoce e rapido che in altri campi e le controversie sono affidate assai spesso a giudici specializzati.
Le ragioni di questo fenomeno, universalmente riconosciute, vanno ricercate nei rapidi cambiamenti dei mercati, nell’esigenza di lottare contro la contraffazione, come pure nella esigenza di una migliore efficienza del diritto, necessaria per permettere la realizzazione degli investimenti richiesti per sviluppare nuove tecnologie e per differenziare agli occhi dei consumatori i segni distintivi dei propri prodotti.
Sono queste le ragioni per le quali si pensa sempre di più all’arbitrato come al modo preferibile per la soluzione delle controversie in materia di brevetti, marchi ed altri diritti di proprietà industriale.
Ma il ricorso sempre più frequente all’arbitrato può essere ricondotto–crediamo– anche ad un’altra ragione e cioè alla segretezza della procedura. Tutti sappiamo infatti che la giustizia ordinaria è pubblica, mentre l’arbitrato (ivi compreso il lodo)2 è caratterizzato dalla confidenzialità. Una tale caratteristica dell’arbitrato riveste una importanza particolare in materia di brevetti e/o di know–how e di contratti di licenza oppure di contratti di ricerca e sviluppo in comune, posto che una buona difesa esige talora di svelare dettagli tecnici di cui converrebbe garantire in modo assoluto la riservatezza.
Infine non si può dimenticare l’attrattiva dell’arbitrato rappresentata dalla competenza degli arbitri, che le parti possono scegliere fra i più eminenti specialisti della materia (e che la materia della proprietà industriale esiga tale specializzazione è confermato dal fatto che in Italia, come in molti altri Paesi, le controversie davanti al giudice ordinario sono affidate a giudici “specializzati”).
II. Monopolio dello Stato per la costituzione di un diritto di proprietà industriale
Esiste tuttavia un ostacolo all’espansione dell’arbitrato in questo settore, rappresentato dal monopolio che lo Stato concede al titolare di questi diritti: e cioè l’ottenimento di un brevetto o di un marchio
2 In particolare la pubblicità del lodo sarebbe in contrasto con le caratteristiche essen- ziali dell’arbitrato, concependosi solo se ambedue le parti sono d’accordo nella pubblica- zione dello stesso
registrato, la sua estensione, come pure la sua validità, la durata, la decadenza non costituiscono un diritto di cui le parti possano “disporre”.
A questo proposito, va richiamato il vecchio articolo 806 c.p.c. secondo il quale:
“Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli articoli 409 e 442, quelli che riguardano questioni di stato e di separazione personale tra coniugi e le altre che non possono formare oggetto di transazione”.
Tralasciamo l’esegesi generale di questa norma per esaminarla solo sotto questa specifica angolatura.
Come punto di partenza va segnalato che il fatto generatore di un diritto di proprietà industriale è un atto pubblico rilasciato dalla amministrazione statale (concessione: art. 2591 c.c.; brevettazione o registrazione: art. 2 CPI)3, che le parti non possono cambiare a piacimento. Si comprende perciò che una sentenza sulla validità, sulla estensione o sulla decadenza di un tale diritto produrrà degli effetti che non sono limitati alle sole parti in causa, ma si estenderanno erga omnes.
Questa “origine” e l’interesse pubblico che circonda il conseguente “monopolio legale” è l’ostacolo principale alla libertà delle parti di risolvere i loro conflitti in questa materia mediante arbitrato piuttosto che per la via giudiziaria ordinaria. E pur tuttavia attorno ai diritti di proprietà industriale ruotano interessi i cui conflitti, per la loro natura privata, non si vede come possano essere sottratti alla volontà delle parti di devolverne la soluzione a degli arbitri. In proposito non è sempre facile tracciare le linee di confine che separano gli interessi pubblici dagli interessi privati, benché si registri un generale consenso sulla natura pubblica dell’interesse rappresentato dall’esistenza o dalla validità di un brevetto o di un marchio, mentre è generalmente riconosciuto che il pagamento di royalties a fronte di una licenza o l’estensione temporale o geografica della licenza stessa presentano un interesse privato. In altri termini, si può affermare che i diritti patrimoniali che discendono da un diritto di proprietà industriale
3 Il documento, rilasciato dall’UIBM, è un atto amministrativo a natura mista con effet- ti dichiarativi e costitutivi: cf. Vanzetti, Xx Xxxxxxx, Manuale di diritto industriale, 4° ed., 2003, 351; Scuffi, Diritto processuale dei brevetti e dei marchi, Milano, 2001, 53
costituiscono una materia di cui le parti possono “disporre” e che pertanto sono arbitrabili4.
Poiché la materia della proprietà industriale, come del resto quella arbitrale, hanno subito negli ultimi anni una profonda evoluzione riteniamo utile innanzitutto ripercorrerne le tappe più rilevanti fino al Codice di Proprietà Industriale e successivamente illustrare il regime attuale.
III. Arbitrato e brevetti
I motivi per i quali le azioni di nullità dei brevetti erano sottratte agli arbitri erano di natura processuale, benchè non siano state mai veramente approfondite. L’art. 78 della legge sui brevetti del 29 giugno 1939 n. 1127 disponeva che
“L’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un brevetto per invenzione industriale può essere promossa anche d’ufficio dal pubblico ministero”, mentre l’art. 79 stabiliva “Le decadenze o le nullità anche parziali di un brevetto di invenzione hanno efficacia nei confronti di tutti quando siano dichiarate con sentenze passate in giudicato”. Infine l’art. 70 del Codice di procedura civile diceva “Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d’ufficio: a) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre”… [omissis].
La conseguenza era che il P.M. era considerato un litisconsorte necessario, il cui mancato intervento in primo grado obbligava il giudice a disporre l’integrazione del contradditorio (art. 102 c.p.c.) ed in appello a rimettere il giudizio al primo giudice (art. 354). Una sentenza senza il contradditorio del P.M. produceva nullità rilevabile d’ufficio5.
In effetti era proprio l’intervento del P.M. ad essere considerato dalla giurisprudenza come un ostacolo all`arbitrabilita` dei litigi
4 Cf. Xxxxxxx, “Nouvelles questions constitutionnelles sur les droit de propriété indus- trielle et l’arbitrage en Italie”, Rev. arb., 1977, 97; Aghina, “Appunti in tema di arbitrabilità delle controversie sulla validità dei brevetti per invenzione”, Riv. dir. ind., 1973, I, 58; De Xxxxx, “L’arbitrato e i contratti di trasferimento della tecnologia”, Rass. Arb., 1977,75; Xxxxxxxxxx, “Motivi che impediscono la definizione arbitrale delle controversie in mate- ria di brevetti”, Rass. arb., 1985, 123; Xxxxxxx, “Invenzioni industriali. Modelli di utilità e disegni ornamentali”, Commentario Scialoja–Branca, Bologna, 1987, 158; Fiammenghi, “Brevetti ed arbitrato: una penalizzazione che andrebbe eliminata”, ivi, 1990,151; Xxxxxx, “Arbitration and Intellectual Property in the Italian Legal System”, 13 Int’l Arb., 1996, 65.
5 Cass 30 maggio 1997, n.4847, Dir. ind., 1997, 825; id., 21 maggio 1998, n. 5067, iGi- urisprudenza annotata di diritto industriale (GADI), 1998, n. 3727.
aventi ad oggetto la validità o la decadenza dei brevetti. Secondo la Cassazione del 19566
“Le azioni per la nullità o la decadenza dei brevetti per invenzioni industriali, pur non rientrando fra quelle che, a norma dell’art. 806 c.p.c., non possono formare oggetto di compromesso, sono tuttavia sottratte alla competenza degli arbitri perché nel relativo giudizio è obbligatoria la partecipazione del Pubblico ministero”.
La dottrina a questo proposito aveva parlato di “incompatibilità strutturale” tra l’arbitrato ed il diritto dei brevetti, derivante dal fatto che al P.M. è proibito prendere parte ad una procedura che si svolga al di fuori dell’ordine giudiziario7. Ma il problema secondo noi andava affrontato da un altro punto di vista. Se i privati non hanno la facoltà di porre in essere o di estinguere un monopolio di cui solo lo Stato ha il “potere” bisogna concludere che esiste una regola di ordine pubblico che rende indisponibile il diritto che ha ad oggetto questo monopolio. Era questo il vero motivo per il quale il legislatore italiano dell’epoca aveva conferito ai Procuratori della Repubblica il potere (ed il dovere) di partecipare ad un’azione di nullità o di decadenza, e addirittura di procedervi d`ufficio: era infatti considerato un interesse pubblico fare eventualmente scomparire un monopolio che non ha alcuna valida giustificazione pratica o, all`opposto, confermarlo se presenta tutti i requisiti stabiliti dalla legge.
La pratica tuttavia presenta un risvolto un po’ diverso: in questa materia non esiste infatti alcuna sentenza pubblicata che sia stata resa in seguito ad una iniziativa del P.M. e l`intervento di quest`ultimo nelle cause promosse dalle parti private dinnanzi ai tribunali e` per un verso molto raro e per altro verso limitato a qualche riga di conclusione formale8, assai spesso senza alcuna vera motivazione. La funzione che il legislatore aveva attribuito al P.M. si e` dunque a poco a poco trasformata in un formalismo senza una incidenza reale sulla sentenza del giudice.
6 Cass., 3 ottobre 1956, n. 3329, Giust. civ., 1956, I, 1625.
7 Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 3° ed., Milano,1960, 629. Di opinione opposto Greco, Vercellone, Le invenzioni e i modelli industriali, Torino, 1968, 359 i quali argomentavano che la preoccupazione della giurisprudenza non aveva ragione di essere, perché il lodo arbitrale ha efficacia solo inter partes restando l’interesse della collettività ugualmente protetto dalla legittimazione del P.M: ad agire autonomamente per ottenere un sentenza sulla nullità o decadenza con efficacia erga omnes. Fra i giudici di merito qualcuno seguiva tale tesi (App. Milano 4 marzo 1980, GADI, 1980, n. 1287).
8 Per una rara eccezione si veda la requisitoria del P.M. nel caso deciso dalla Cass. 3 ot- tobre 1956, n. 3329, cit.
In conclusione la protezione dell`interesse pubblico e` affidata ai giudici ordinari piuttosto che al Pubblico Ministero. Infatti i giudici sono aditi per una domanda di nullita` del brevetto in due occasioni: vuoi quando un singolo (in generale, un concorrente) agisce per distruggere un monopolio ingiustificato del titolare del diritto, vuoi quando il convenuto in causa solleva l`eccezione di nullita` (o comunque di invalidita`) per ottenere il rigetto delle domande contro di lui indirizzate. Nel primo caso la decisione del giudice– se conclude per la nullita`– avra` un effetto erga omnes, mentre nel secondo la sentenza produrra` effetti solo tra le parti.
La (scarsa) giurisprudenza edita riserva dunque ai giudici ordinari le sole questioni che attengono all`esistenza stessa del diritto di brevetto, mentre la totalita` delle altre questioni possono essere sottoposte ad arbitrato.
Spia di questa possibilita` era la stessa legge brevettuale del 29 giugno 1939, n. 1127 la quale, anche nelle successive modifiche, gia` prevedeva l`intervento degli arbitri per regolare contenziosi di carattere patrimoniale:
a) era il caso, per esempio, della competenza del tribunale arbitrale per stabilire l`ammontare e le condizioni di pagamento della remunerazione spettante al dipendente–inventore (art.25)9;
b) lo stesso era previsto per il compenso o le royalties nel caso di licenza al pubblico (art. 50, 2° comma);
c) nel caso di licenza obbligatoria (art.54 quater);
d) oppure per stabilire l`ammontare dell`indennita` in caso di espropriazione dei diritti di brevetto per motivi di interesse nazionale o per altre cause di pubblica utilita`(articolo 63).
In relazione alle norme sopraccitate si discuteva della natura dell’attività affidata agli “arbitri” o “arbitratori”, ma non del fatto che le uniche questioni a loro affidabili fossero quelle di natura patrimoniale le altre essendo riservate ai giudici ordinari, ai quali anzi erano riservate non soltanto le dispute sulla esistenza o validità del titolo brevettuale, ma anche quelle sui presupposti dei diritti del lavoratore, sulle condizioni per la licenza obbligatoria e sulle condizioni per l’espropriazione.
9 In caso di invenzioni dei dipendenti “se non si raggiunga l’accordo circa il premio, il canone o il prezzo o sulle rispettiva modalità, provvede un collegio di arbitri, amichevoli compositori….”.
IV. Arbitrato e marchi
La legge sui marchi del 21 giugno 1942, n. 929 conteneva agli artt. 59 e 58.3 delle disposizioni dello stesso tenore degli art. 78 e 79 della legge sui brevetti. In un primo tempo la Corte di Cassazione aveva ritenuto che soltanto le controversie concernenti gli aspetti patrimoniali relativi allo sfruttamento del marchio potessero essere affidate a degli arbitri, mentre le decisioni sulla validita` del marchio erano riservate alla competenza dei giudici ordinari10. Ma qualche anno piu’ tardi la Corte di Cassazione e` ritornata sull`argomento, dichiarando, con un evidente revirement della sua giurisprudenza, che il limite alla arbitrabilità
“... fa riferimento a quelle azioni… dirette alla tutela del marchio nel suo aspetto di bene immateriale, che è oggetto di diritto reale del titolare, contro le pretese di chi intenda contestarne la sussistenza e la validità… e non anche alle azioni personali dirette alla tutela del marchio in relazione ad un rapporto obbligatorio ed in relazione a pretese di natura contrattuale”;
di queste ultime “Le parti hanno la piena disponibilità” e non v’è dubbio che esse possono essere compromesse in arbitri11. Dunque all`epoca ogni volta che in una controversia sullo sfruttamento di un diritto patrimoniale relativo a un segno distintivo, il convenuto eccepiva la nullita` del marchio, i giudici ordinari, esercitando una vis attractiva, escludevano qualsiasi competenza degli arbitri12.
Agli inizi degli anni 1980, sotto la pressione della dottrina13, c`e` stato un secondo revirement della giurisprudenza, la quale ha approfondito la distinzione fra sentenze sulla validita`, destinate a far stato erga omnes, e sentenze nelle quali l`accertamento della validita` era fatto incidenter tantum (e percio` incapace di acquistare forza di giudicato)14: le prime erano riservate al giudice, le seconde
10 Cass., 26 marzo 1957, n. 1407, Giur. it., 1957, I, 828, con nota di X. Xxxxxxxxxx.
11 Cass., 15 settembre 1977, n. 3989, GADI, 1977, n. 901.
12 App. Milano, 2 settembre 1972, GADI, 1972, n. 177; Cass., 7 settembre 1970, n. 1268, in Giust. Civ. Mass., 1970, 693. La dottrina tuttavia non mancò di rimproverare a questa giurisprudenza una visione troppo restrittiva: Xxxxxxxx, “Giudizio arbitrale e connes- sione di causa”, Riv. dir. proc. civ., 1964, 469; Xx Xxxxx, op. loc. cit.
13 Agli autori sopra menzionati bisogna aggiungere Xx Xxxxxxx, “fficacia della sentenza di nullità o decadenza di brevetti per invenzione o di brevetti per marchi”, Riv. dir. ind., 1976, I, 475.
14 Distinzione che trovava la sua base nell’art. 34 c.p.c.
erano, al contrario, arbitrabili15. Questo capovolgimento trovo` eco e sostegno nella giurisprudenza arbitrale come testimonia un lodo reso a Genova il 23 marzo 199216.
A questo proposito il grand arrêt della Corte di Cassazione 19 maggio 1989 nel caso Xxxxxx e Forti17 merita una menzione particolare. Nella fattispecie le due parti avevano concluso un contratto complesso che comprendeva la cessione del marchio, del know–how e dell`avviamento. Un collegio arbitrale con lodo del 5 febbraio 1986 aveva condannato una delle parti al pagamento delle royalties previste nel contratto. La Corte di Appello di Milano aveva rigettato l’impugnazione per nullità contro tale lodo, fondandosi sulla pretesa incompetenza degli arbitri poiche` il contratto di trasferimento del marchio stipulato senza la cessione dell`azienda al quale questo era legato era, secondo i ricorrenti, nullo per violazione di una norma imperativa (e cioe` l`art. 2573 c.c. e l`art.15 legge marchi)18. La Corte di Cassazione rigetto` il ricorso contro la sentenza della Corte di Xxxxxxx, affermando che la clausola compromissoria non conferiva agli arbitri il potere di pronunciarsi sul trasferimento di diritti indisponibili, ma solamente quello di decidere le controversie relative alle conseguenze economiche della risoluzione o dell`inesecuzione del contratto. Con questa sentenza la Cassazione ha dunque trasferito il problema dell`arbitrabilita` della controversia (e di conseguenza quello della nullita` della clausola compromissoria) sul terreno della conformita` con l`ordine pubblico19.
In conclusione si deve ritenere che anche per quanto concerne il diritto dei marchi, prima del Codice della Proprieta` Industriale, ogni controversia era arbitrabile, salvo quelle che comportavano una
15 Cass., 18 aprile 1984, n. 2541, GADI, 1984, p. 23.
16 Pubblicato in Riv. arb., 1995, 511, nota Angelici, Nullità del marchio e arbitrato.
00 X. 0000, Xxxxxx – Chiari e forti c. Europe Eparine Italia, Giust. civ., 1989, I, 2605.
18 Norme che sono state modificate col D. lgs. n. 480 del 4 dicembre 1992 in recepi- mento della direttiva comunitaria sul ravvicinamento delle nazionali sui marchi n. 89/104/CEE del 21 dicembre 1988 e pertanto il trasferimento dell’azienda non è più richi- esto a pena di nullità per la cessione del marchio.
19 In questo senso X. Xxxxxxxxxx, La compromettibilità per arbitri, Giappichelli, Torino, II, 1999, 102. Nella sostanza, la Suprema Corte, con la decisione in discorso, osserva che in presenza di un contratto che abbia ad oggetto, tra l’altro, la cessione di marchio, l’eventuale invalidità di tale cessione, sotto il profilo dell’inalienabilità del marchio senza il trasferimento dell’azienda, non comporta necessariamente la nullità della clausola compromissoria inserita in tale negozio, qualora le controversie in essa previste investano altri aspetti del rapporto contrattuale.
dichiarazione di nullita` o di decadenza destinate ad acquistare forza di giudicato, e percio` opponibili erga omnes20.
V. La clausola di non–contestazione e la transazione delle liti
Si ammette generalmente che le parti possono validamente sottoscrivere una clausola di non–contestazione della validita` di un brevetto o di un xxxxxxx00. L`interesse pubblico a che dei monopoli ingiustificati non rimangano sul mercato (e pertanto quello di veder pronunciata la nullita`, totale o parziale, di un brevetto o di un marchio, come pure la loro decadenza) non implica per nulla l`illegittimita` di una rinuncia volontaria da parte di un singolo a far valere simile nullita`. Infatti si puo` sempre rinunciare a uno dei modi di far concorrenza ai propri concorrenti (ad esempio, a produrre lo stesso prodotto, oppure a servirsi di un certo segno distintivo). Cio` e` tanto piu` vero allorche` la clausola di non–contestazione si iscrive in un accordo di transazione col quale le parti pongono fine a uno o piu` litigi22. Se dunque per il diritto civile tale clausola e` valida23 non si vede perche` l`esistenza,
20 Confronta il Lodo arbitrale reso a Bologna il 19 ottobre 1990, Riv. arb., 1991, 615, con nota di Rosi “L’arbitrabilità delle controversie in materia di marchi”.
21 Ciò che ben inteso non avrebbe impedito al pubblico ministero o ad altri concorrenti di adire il giudice ordinario per ottenere una dichiarazione di nullità o di decadenza.
22 App. Milano 23 dicembre 1977, GADI, 1977, n.986; Trib. Milano 21 aprile 1983, ivi,
1983, n. 1663.
23 Con riferimento al diritto dei marchi inizialmente la Commissione aveva ritenuto che la clausola di non–contestazione dei marchi fosse in quanto tale restrittiva della conco- rrenza (vedi dec. 00 xx xxxxxxxxx xx 1974 Goodyear–Euram in GUCE, 12 febbraio 1975,
n. L 38, 10), benché fosse stata ammessa se non superava i cinque anni (vid. Xxxxxxx, dec. 23 dicembre 1977, GUCE, 2 marzo 1978, n. L 60, 19). Nei primi anni novanta, sulla scorta delle molte obiezioni sollevate in dottrina, la stessa Commissione in Moose- head/Xxxxxxxxx (dec. 23 marzo 1990, in GUCE, 24 aprile 1990, n. L100, 2) pervenne ad una soluzione meno restrittiva, secondo la quale la clausola che obblighi il licenziatario a non contestare la “proprietà” di un marchio facendo valere che egli possiede un diritto anteriore non restringe la concorrenza. Per contro se si tratta di vietare di contestare la “validità” del marchio per il fatto che ha un carattere generico o descrittivo, può esserci restrizione della concorrenza, ma nel solo caso in cui: “L’uso del marchio costituisca un vantaggio importante per un impresa che si affaccia o entra in competizione su un deter- minato mercato e il fatto di non detenerlo è una barriera significativa per entrare su tale mercato” (par. 15.4 a). Per quanto concerne i brevetti, invece, l’art. 5.1.c) del regolamento della Commissione n. 772/2004/CE concernente gli accordi di trasferimento di tecnologia prevede che l’esenzione contenuta nel medesimo regolamento non si applica all’: “Obbli- go, diretto o indiretto, del licenziatario di non contestare la validità dei diritti di proprietà di beni immateriali detenuti dal licenziante nel mercato comune, fatta salva la facoltà di
la validita`, l`interpretazione o l`inesecuzione di tale clausola non possano essere deferite ad arbitrato. Nel campo dei marchi una simile clausola di non–contestazione che poneva fine tramite una transazione ad una controversia, e` stata ritenuta legittima in un lodo arbitrale internazionale reso a Torino il 7 marzo 200324.
VI. Contratti aventi ad oggetto un diritto di proprieta` industriale restrittivi della concorrenza
Puo` accadere che contratti di cessione o di licenza di diritti di proprieta` industriale (o anche di ricerca e sviluppo in comune o di subfornitura industriale che contengano clausole afferenti tali diritti) abbiano al loro interno certe obbligazioni che possono ricadere nell`ambito di applicazione delle norme antitrust, che dichiarano illecite le intese restrittive della concorrenza.
Seguendo una parabola che dagli Stati Uniti si e` propagata in altri Stati25, anche la giurisprudenza italiana ammette oggi che i litigi relativi a tali contratti ed a tali clausole (asseritamente) anticoncorrenziali rientrino nella materia arbitrabile, ma naturalmente gli arbitri saranno tenuti ad applicare le regole di concorrenza, che sono di ordine pubblico. Il caso emblematico e` quello deciso dalla Corte di Appello di Milano il 12 settembre 200226. I fatti posso, in estrema sintesi, essere così riassunti.
Nel 1994 l’Istituto Biochimico Italiano (IBI) e la Madaus, stipularono un contratto con il quale la seconda concedeva alla prima una licenza esclusiva a produrre e commercializzare il farmaco “Legalon”, utilizzandone il marchio registrato. Alla scadenza del
prevedere che l’accordo di trasferimento di tecnologia cessi qualora il licenziatario contesti la validità di uno o più diritti di proprietà di beni immateriali sotto licenza”.
24 Prof. Vercelllone Pres., Proff. Frignani e Floridia arbitri (inedito).
25 Per quanto concerne gli Stati Uniti vedi il caso U.S. Supreme Court, Mitsubishi Mo- tors Corp. x. Xxxxx Chrysler–Plymouth, Inc., 473 U.S. 614 (1985); con riferimento alla giurisprudenza comunitaria vedi invece Corte di Giustizia, Eco Swiss China Time Ltd. c. Benetton International NV., C–26/97, sentenza 1 giugno 1999, Racc., I–5055. Quest’ultima sentenza per quanto non contenga una esplicita affermazione dell’arbitrabilità delle controversie in materia di concorrenza, la sembra presupporre, in quanto la Corte riconosce la possibilità di ottenere la riforma di un lodo in contrasto con l’art. 81 CE, in quanto disposizione normativa rientrante nel concetto di ordine pubblico.
26 App. Milano, 13 settembre 2002, IBI Xxxxxxxxx x. Xxxxxx, Dir. ind., 2003, 346 con nota di Portincasa
contratto l’IBI citava in giudizio la Madaus per far dichiarare la nullità ex art. 2 L . n. 287/90 della clausola di non concorrenza ivi prevista, con la quale si inibiva al licenziatario, per tre anni dalla cessazione dell’accordo, di produrre e commercializzare in Italia i prodotti oggetto di licenza o qualunque prodotto concorrente. La società convenuta si costituiva eccependo in via preliminare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario perché nel contratto era prevista una clausola compromissoria.
La Corte ha negato la propria giurisdizione a favore di quella degli arbitri perché:
“Stipulando un’intesa produttiva o commerciale ovvero accettando limitazioni alla propria libertà di iniziativa economica – nel contesto di un sinallagma contrattuale – un’impresa non dispone di diritti che le siano in sé sottratti (“per loro natura” o “espressa previsione di legge”), ma incorre semmai in divieti posti dalle norme imperative antitrust dando luogo ad un contratto affetto, per contrarietà alla legge, da un vizio di nullità rilevabile dinnanzi al giudice ordinario non meno che d’innanzi agli arbitri. La pattuizione di rimettere la controversia ad arbitri rituali non significa dunque si per sé avere illecitamente pattuito la non applicabilità delle norme antitrust, ma solo che in concreto quell’eventuale nullità potrà essere eccepita dinnanzi agli arbitri e non dinnanzi ai giudici ordinari”.
Si puo` dunque concludere che secondo la legge italiana, ogni disputa che nasca da un contratto di cessione o di licenza di un diritto di proprieta` industriale puo` essere risolta dagli arbitri, anche se il litigio riguarda questioni che possono rilevare sotto il profilo del diritto della concorrenza; con la conseguenza che se le norme sulla concorrenza non venissero applicate il lodo sarebbe annullato per contrarietà all’ordine pubblico (tale essendo ovunque la natura delle norme a tutela della concorrenza).
VII. L’eccezione di nullità come strumento per il tentativo di bloccare l’arbitrato
Non e` raro che, in un procedimento arbitrale avente per oggetto dei diritti patrimoniali che discendono da un brevetto o da un marchio, il convenuto sollevi una eccezione di nullita` del titolo di proprieta` industriale sul quale si basa la domanda dell`attore. Si ricordi che le convenzioni arbitrali per la loro stessa natura sono
contenute in contratti di licenza o di cessione27. Come abbiamo visto, una tale questione va al di la` della competenza arbitrale, essendo riservata ai giudici ordinari. A questo proposito la giurisprudenza italiana ha sviluppato la seguente distinzione (peraltro appoggiata sul dato normativo e sulla dottrina): se si tratta di una eccezione nel vero senso della parola, e cioe` di una eccezione che ha come scopo di ottenere il rigetto della domanda (facendo statuire che non c`e` contraffazione, o che il contratto di licenza e` nullo per mancanza di causa), senza pretendere di ottenere una sentenza avente forza di “cosa giudicata” per cio` che concerne la nullita` del brevetto o del marchio, allora gli arbitri possono prendere in esame la questione incidenter tantum28. Se al contrario cio` che viene presentato come una eccezione e` in realta` una domanda riconvenzionale destinata a far risolvere erga omnes una questione che riguarda la validita` del titolo, allora si ricade nella competenza esclusiva dell`ordine giudiziario e gli arbitri devono dichiararsi incompetenti29.
La Corte di Cassazione con sentenza del 3 ottobre 1956 ha affermato
“Quando la nullità o la decadenza di del brevetto venga fatta valere in via di eccezione, gli arbitri possono conoscerne, in via incidentale, senza efficacia di giudicato, dato che in tale ipotesi non è obbligatorio l’intervento del Pubblico ministero. Né è di ostacolo l’art. 819 c.p.c. (che sottrae alla cognizione, anche incidentale, degli arbitri le questioni che non possono costituire oggetto di giudizio arbitrale), giacché tale disposizione deve essere applicata con riferimento alla situazione concreta in cui la questione si presenta, non già con riguardo alla questione astrattamente considerata, così che, quando venga a mancare l’esigenza della partecipazione del Pubblico ministero al giudizio, viene a mancare anche la ragione della limitazione della competenza arbitrale”30.
27 In proposito è utile riportare un’importante affermazione contenuta in un lodo (Ca- mera arbitrale di Milano) del 18 novembre 2005 (est. Prof. Xxxxx) Giur. ann. dir. ind. (GADI), 2006, § 4986 : “La clausola compromissoria,contenuta in un contratto di licenza di marchio, che devolve agli arbitri le controversie “derivanti dal contratto” nel quale essa è integrata e, segnatamente, le controversie relativa alla “validità, interpretazione esecu- zione e risoluzione” del rapporto, non rende competente il tribunale arbitrale in ordine alle domande fatte valere dal licenziante nei confronti del licenziatario e volte ad ottenere le sanzioni previste nella disciplina speciale dei marchi e della concorrenza sleale”.
28 Conforme Barbuto, La giurisprudenza sul codice civile (diretta da X. Xxxxxxx), Li- bro V, tomo VII, Xxxxxxx, Milano, 2005, sub art.2585, § 112
29 In senso conforme Bichi, “La compromettibilità in arbitrato rituale delle controversie in materia di diritto industriale”, in Studi in onore di Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2004, 221.
30 N. 3329, cit.
Dopo di allora tutta la giurisprudenza italiana si e` consolidata in tal senso31.
VIII. Gli accordi di coesistenza dei marchi (e di delimitazione del brevetto)
Gli accordi di coesistenza dei marchi non sono rarissimi, in quanto servono o a evitare per il futuro delle cause tra proprietari di marchi simili (talvolta chiamati “marchi limitrofi”32 o a transigere delle cause gia` in atto. La coesistenza puo` essere considerata sotto il profilo geografico (si dividono i territori di produzione e di distribuzione)33 oppure sotto quello dei prodotti (specie quando essi presentano una gamma molto ampia oppure si tratta di imprese multiprodotto)34. Un
31 Fra le tante Xxxx. 11 giugno 0000, x 0000, XXXX, 0000, x 0000; Trib. Torino, 16 giugno 1986, Xxxxx Xxxxx c. Omaf e altri, GADI, 1986, 2050. Da ultimo Cass.16 febbraio 2007, n.3686, iGADI, 2007,§ 5066, secondo cui “al giudice della contraffazione è consentito conoscere incidenter tantum della questione della nullità del brevetto…”. Nel lodo pronunciato a Salerno il 25 giugno 2001 (Pres. Xxxxx, arbitri Xxxxxxxxx e Xxxxxx), Riv. arb., 2003, 526 si afferma: “In assenza di specifiche previsioni sulla c.d. garanzia di validità di un brevetto industriale,l’eccezione di nullità del brevetto stesso non è causa di sospensine del giudizio arbitrale x art. 819 c.p.c., potendo gli arbitri conoscere incidenter tantum la questione di invalidità della privativa”.
32 Così X. Xxxxxxx, “Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa”, Riv. dir. ind., 2009,I,136
33 Ma nell`Unione Europea cio`(nei limiti in cui sia legittimo alla luce delle norme sulla concorrenza) puo` valere solo per la prima messa in commercio dei beni recanti il marchio perche` prevale il fondamentale diritto alla libera circolazione delle merci. Con particolare riferimento ai rapporti tra diritto della concorrenza e principio dell’esaurimento comunitario del diritto di marchio, nel caso BAT c. Commissione (C– 35/83, sentenza 30 gennaio 1985, Racc., 363) la Corte di Giustizia ha assunto una posizione meno restrittiva di quella espressa dalla Commissione negli anni precedenti. Detta soluzione può in estrema sintesi così sintetizzarsi: un accordo di delimitazione non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 81.1 del Trattato se sussiste un concreto rischio di confusione tra le parti, non sia volto realizzare ripartizioni di mercati o altre restrizioni della concorrenza e sempre che non sia possibile raggiungere il medesimo risultato adottando misure meno restrittive (vedi ex plurimis Commissione, Syntex c. Synthelabo, comunicato stampa IP/89/108).
34 In questo senso vedi Cass., sez. I, sentenza 19 ottobre 2004 n. 20472, Guida al diritto, 2004, 49, 67, ove si legge: “Sono legittimi i cosiddetti accordi di coesistenza, diretti a disciplinare l’uso, da parte di soggetti diversi e tra loro indipendenti, di marchi interferenti per l’identità o la confondibilità dei segni ovvero per l’identità dei prodotti. Tali accordi, che possono riguardare anche l’utilizzazione di uno stesso marchio, come nell’ipotesi della comunione di marchio o dei marchi di gruppo, ovvero nel caso della frammentazione di un complesso produttivo unitario in una pluralità di imprese distinte e indipendenti, non hanno carattere dispositivo, poiché non danno luogo ad alcun
lodo arbitrale internazionale reso a Torino il 7 marzo 2003 ha dichiarato valido ed efficace un tale accordo stipulato fra due produttori di liquori a proposito di un marchio di forma di una bottiglia per aperitivi35.
Del pari si possono incontrare accordi aventi la medesima funzione per quanto concerne i brevetti, nel senso di una divisione sui tipi di prodotti che ciascuno puo` fabbricare utilizzando il medesimo brevetto36.
IX. L`arbitrato nel Codice della Proprietà Industriale
1. Le norme rilevanti
Quella descritta era la situazione fino al 19 marzo 2005, quando è entrato in vigore il Codice della Proprieta` Industriale (D. lgs. 10 febbraio 2005 n. 30) che ha riformato profondamente tutta la materia, anche per quanto concerne l`arbitrabilità delle relative controversie.
Alla base di tutto vi è però l’affermazione dell’art. 63 per cui “I diritti nascenti dalle invenzioni industriali…sono alienabili e trasmissibili”, con la conseguenza che le relative dispute sono anche arbitrabili, quale che sia la lettura che si voglia dare del nuovo art. 806 c.p.c.
Inoltre è stato ridisegnato il ruolo del P.M. In base all’art. 122.1 “... l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d’ufficio dal pubblico ministero”, aggiungendo poi che “In deroga all’art. 70 c.p.c. l’intervento del pubblico ministero non è obbligatorio”.
trasferimento dei diritti di esclusiva del titolare del marchio e neppure alla costituzione di un diritto più limitato di quelli spettanti al titolare del marchio in favore di un soggetto diverso. Essi hanno, infatti, natura obbligatoria e, come unico scopo, quello di rendere la coesistenza, sul mercato di segni la cui utilizzazione potrebbe dar luogo a interferenze”. La medesima soluzione interpretativa è poi stata confermata in una recente sentenza Xxxx., sez. I, 10 ottobre 2008 n. 24909, CED Cassazione, 2008. In dottrina X. Xxxxxxxxx, “Il consenso del titolare e gli accordi di coesistenza”, in Aa.Vv, Segni e forme distintive, Milano 2001, 121 ss.
35 Vid. nota 21.
36 Fields of use.
Potrebbe essere sorprendente constatare che dopo un sessantennio che ha dimostrato l’inutilità ed anzi l’effetto di sovraccarico del lavoro dei P:M. e l’allungamento dei processi civili in materia di proprietà industriale il legislatore abbia conservato la titolarità dell’azione ai P.M., limitandosi a disporre che il suo intervento non sia più “obbligatorio” ma solo “facoltativo”. L’unica giustificazione appare essere la seguente: poiché si è proceduto a selezionare gli aventi diritto a proporre l’azione37, la nullità si può qualificare come “relativa”, per cui lo spazio di azione del P.M. rimane confinato alle sole ipotesi di decadenza o nullità “ assoluta”. Giustamente in dottrina si è concluso che
“Resta …ulteriormente stemperato il connotato “pubblicistico” del processo industrialistico per la presenza solo eventuale dell’organo pubblico (quale portatore di “interesse generale” alla conservazione dei monopoli brevettuali legittimi altrimenti destinati a ricadere in libera appropriabilità della collettività) venendo piuttosto valorizzati i connotati “privatistici” della controversia ed in tal modo risolti tutti gli inconvenienti che [ a cui:ndr] – a scapito della celerità del giudizio – davano luogo le formalità di intervento del P.M.”38
Innanzitutto per quanto concerne i “brevetti per invenzione” vengono confermate alcune norme della legge brevetti precedente. Cosi` l`art. 64, corrispondente al vecchio art. 25 (seppure con molti aspetti di novità)39, al comma 4 dispone:
“Ferma la competenza del giudice ordinario relativa all’accertamento della sussistenza all’equo premio, al canone o al prezzo, se non si raggiunga l’accordo circa l’ammontare degli stessi, anche se l’inventore è un dipendente di un amministrazione statale, alla determinazione dell’ammontare provvede un collegio di arbitratori, composto di tre membri, nominati uno da ciascuna delle parti ed il terzo nominato dai primi due o, in caso di disaccordo, dal presidente del tribunale del luogo in cui il prestatore d’opera esercita abitualmente le sue mansioni. Si applicano in quanto compatibili, le norme degli art. 806 e ss. del c.p.c.”.
A sua volta il comma quinto dispone che
“Il collegio degli arbitratori può essere adito anche in pendenza del giudizio di accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio, al canone o al prezzo, ma, in tal caso, l’esecutività della sua decisione è subordinata a quella della sentenza dell’accertamento del diritto. Il collegio degli arbitratori deve procedere con equo
37 Tutto l’art.122 è volto a selezionare i soggetti qualificati come “titolari di diritti ante- riori”
38 Così Xxxxxx, in Xxxxxx, Franzosi, Xxxxxxxx, Il codice della Proprietà Industriale, Pado- va, 2005, 551.
39 Esaminati da Xxxxxxxx, ibid., 341
apprezzamento. Se la determinazione è manifestamente iniqua o erronea, la determinazione è fatta dal giudice”.
L’art. 80 CPI, a proposito della licenza di diritto, corrisponde al vecchio art. 50. Il suo comma terzo dice che qualora un terzo accetti l’offerta di licenza per l’uso non esclusivo, ma non ne accetti il compenso
“Alla determinazione della misura e delle modalità di pagamento del compenso provvede un collegio di arbitratori, composto di tre membri, nominati uno da ciascuna delle parti ed il terzo nominato dai primi due o, in caso di disaccordo, dal presidente della commissione dei ricorsi. Il collegio degli arbitratori deve procedere con equo apprezzamento. Se la determinazione è manifestamente iniqua o erronea oppure se una delle parti rifiuta di nominare il proprio arbitratore, la determinazione è fatta dal giudice”.
Alla suaccennata norma in tema di collegio di arbitratori, fa poi riferimento l’art. 72, comma sette, CPI (che corrisponde all’art. 54– quater della vecchia legge), ove si afferma che “In caso di opposizione [a quanto contenuto nel decreto ministeriale di concessione della licenza obbligatoria] la misura e le modalità di pagamento del compenso sono determinate ai sensi dell’art. 80”. Alla stessa norma il comma nove rinvia per la “modificazione del compenso” qualora sussistano validi motivi per variare le condizioni della licenza.
Nella materia che trattiamo rileva poi anche l’art. 143 CPI intitolato “indennità di espropriazione”, il quale stabilisce che “Ove il titolare del diritto espropriato non accetti l’indennità fissata ai sensi dell’art.
142 ed in mancanza di accordo tra il titolare e l’amministrazione procedente, l’indennità è determinata da un collegio di arbitratori”. La norma corrisponde all’art. 63 della vecchia legge brevetti che però configurava un “arbitro” o un “collegio arbitrale” e che era poi seguito dall’art. 64 sul tempo per il deposito del lodo presso il Ministero dell’industria e la sua sottoposizione a segreto.
Si deve infine menzionare l’art.194 CPI che, in tema di “procedura di espropriazione”, ai commi tre, quattro, cinque e sei detta norme disciplinanti l’arbitraggio sull’ammontare dell’indennità.
Per quanto concerne altri titoli di proprietà industriale, una menzione indiretta del procedimento arbitrale si ha a proposito delle “topografie dei prodotti a semi conduttori” il cui art. 96 parlando di una licenza contrattuale dice che in caso di mancato accordo tra le parti, si applicano, per quanto concerne le dispute relative alla “determinazione della misura e delle modalità di pagamento del compenso” le stesse norme previste per la licenza obbligatoria dei
brevetti (con evidente riferimento all’art. 64). Norma analoga troviamo in materia di “nuove varietà vegetali”, all’art. 115 comma 2 sulle licenze obbligatorie.
Infine ai modelli di utilità si applicano le norme previste per le invenzioni industriali:” In particolare sono estese ai brevetti per modello di utilità le disposizioni in materia di invenzioni dei dipendenti e licenze obbligatorie” (art. 86.2).
Come si vedrà meglio oltre, una norma che in tema di arbitrato e diritti di brevetto sollevava problemi interpretativi era il vecchio secondo comma dell’art. 134 CPI (stante la recente novella del legislatore del 2009 che è intervenuto modificando l’art. 134),40 del seguente tenore letterale: “Negli arbitrati sulle materie di cui al comma uno [si tratta delle materie le cui controversie giudiziarie spettano alle sezioni specializzate di proprietà industriale] si applicano le norme degli articoli 35 e 36 del titolo V del D. lgs. 17 febbraio 2003 n. 5
2. L’art. 64
L’art. 64 (che – come si è visto – funge da paradigma per altri diritti di proprietà industriale), pone una serie di punti fermi e di quesiti interpretativi.
a) Quanto ai primi, il comma 4 conferma che le questioni relative “all’accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio, al canone o al prezzo” rimangono di competenza del giudice ordinario e pertanto non sono arbitrabili. Per un certo verso, la norma è sorpren- dente perché restringe l’ambito del ricorso all’arbitrato non solo all’esistenza del brevetto e alla sua validità, che si è detto costituire an- cora lo spartiacque tra materia arbitrabile e non arbitrabile, ma a delle condizioni concrete riferentesi ad un diritto patrimoniale che ci si sa- rebbe aspettato potere rientrare nella competenza degli arbitri41. For- se la ratio della riserva è dettata dal fatto che si tratta di un “diritto” che spetterebbe al lavoratore e pertanto il legislatore pensa che lo stesso sarebbe meglio tutelato dai giudici ordinari invece che dagli
40 Con la legge del 23 luglio 2009 n. 99 sono state apportate modifiche al Codice della proprietà industriale ed al Codice penale in materia di diritto industriale, in particolare per ciò che attiene la tutela dei marchi e dei segni distintivi. L’art. 19 della stessa legge ha modificato, tra gli altri, l’art. 134 del D.lgs. del 10 febbraio 2005, n. 30.
41 Peraltro tenendo conto che alla base di tutto c’è un rapporto di lavoro o di impiego per il quale entro certi limiti è prevista l’arbitrabilità, se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
arbitri; assunto però che è da respingere senza bisogno di ampie mo- tivazioni.
Il 5° comma dell’art.64 consentendo di adire l’arbitrato anche in pendenza del giudizio sull’an induce a chiedersi se esso possa essere iniziato anche prima: la risposta sembra essere positiva. Però la divari- cazione tra giudice ordinario ed arbitrato (evidenziata dal condiziona- mento dell’esecutività del lodo a quella della sentenza) limita il vantag- gio del ricorso al primo, tanto da chiedersi se non valeva la pena che ai giudici fosse riservato il giudizio sia sull’an sia sul quantum. Ne è con- ferma il controllo giudiziale che la determinazione non sia “manifesta- mente iniqua o erronea” (controllo inevitabile ai sensi dell’art. 1349), che non è un’impugnativa del lodo ma si riduce ad un “duplice” inter- vento del giudice. E’certo che qui si ripropone lo stesso dualismo che esiste a proposito delle controversie su un elemento patrimoniale del diritto di brevetto nelle quali venga eccepita l’inesistenza stessa del titolo: per cui gli arbitri, se aditi in via autonoma per la determinazio- ne del prezzo o del canone, potranno conoscere del “diritto” allo stes- so incidenter tantum (come è oggi previsto dall’art. 819 c.p.c.).
Detto questo, rimane comunque il fatto che all’arbitrato può essere affidata solo la “determinazione dell’ammontare” dei diritti economici dei dipendenti.
b) Il secondo problema riguarda la natura della determinazione ar- bitrale e cioè se si tratti di un arbitrato vero e proprio o non piuttosto di un arbitraggio quale previsto all’art. 1349 c.c. (arbitrium boni viri) A favore della prima tesi militano due argomenti: innanzitutto la dis- posizione posta alla fine del comma 4 secondo la quale a tale forma di arbitrato “si applicano in quanto compatibili le norme degli artt. 806 e segg. del c.p.c.” il quale come è noto non disciplina l’arbitraggio di cui all’art. 1349, bensì solo l’arbitrato rituale e quello irrituale. In se- condo luogo il fatto che di una vera e propria controversia si tratta in quanto le due parti in causa “non hanno raggiunto l’accordo” perché le rispettive pretese erano inconciliabili e pertanto si tratterebbe di una controversia vera e propria nel senso assunto dalle norme del
c.p.c. in materia di arbitrato.
Un altro elemento di disarmonia è dato dal fatto che il ricorso all’arbitratore di cui all’art. 1349 è sempre frutto di una scelta delle parti: qui invece sarebbe imposto dalla legge. L’incompatibilità diventa poi evidente nei casi dell’art.72.7 e dell’art.173 perché ivi non si tratta di integrare una volontà negoziale oggettivamente
incompleta, ma di “opporsi” ad una determinazione già presente perché effettuata ad opera del Ministro.
Militano invece a favore della seconda soluzione, da un lato l’uso ripetuto dell’espressione “arbitratori” e dall’altro la disposizione secondo la quale devono procedere “con equo apprezzamento” e che in caso la determinazione sia “manifestamente iniqua od erronea” vi si sostituisce quella del giudice: caratteristiche ambedue proprie dell’art. 1349. In questo senso è anche la Relazione illustrativa del “Codice della Proprietà Industriale”, al cui § 9.6, intitolato “L’arbitraggio”, si legge quanto segue: “L’arbitraggio come strumento di determinazione dell’equo premio è apparso al Governo quello più efficace, fermo restando che si tratta di una determinazione da compiere con equo apprezzamento e perciò impugnabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 1349 x.x. xxxxxxxxx, xxx xxxxx xx xxxxx xxxxxxxxxxx, xxxxx xxxxx degli artt. 806 ss. c.p.c.” L’impugnabilità esclude che la disciplina possa essere sospettata di incostituzionalità sotto il profilo della violazione dell’art. 24 della Costituzione. La circostanza che prima di fare luogo all’arbitraggio si debba eventualmente risolvere il problema dell’ “an debeatur”, d’altro canto, costituisce un inconveniente meno grave di quello connesso ad una liquidazione diretta da parte del giudi- ce, con la minore garanzia della consulenza tecnica”
Noi siamo dell’avviso che debba prevalere la prima tesi e cioè che si tratti di un arbitrato, seppure di equità (“equo apprezzamento”: ri- chiamato dall’art. 64.5 e dall’art. 80.3);42 la stessa pluralità di soggetti richiesta dal dato normativo (in numero dispari e l’intervento del giu- dice o del presidente della Commissione dei Ricorsi per completare il collegio) potrebbe essere un indice rivelatore della natura di arbitrato.
Se fosse corretta la conclusione che si tratti di un arbitrato, divente- rebbe inevitabile chiedersi se questo modo di risoluzione delle con- troversie sia obbligatorio o meno. La lettera della norma deporrebbe nel senso dell’obbligatorietà, infatti si usa il verbo “provvede” (indica- tivo presente, che può essere ricondotto ad un imperativo) non prece- duto dall’ausiliare “può”. Sennonché una tale conclusione rischierebbe la incostituzionalità perché la Corte Costituzionale con sentenza 14 lu- glio 1977 n. 127 aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale del
42 Alla stessa conclusione è giunto X. Xxxxxxxx, in Xxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, op. cit., 341–342 e prima di lui X. Xxxxxxx “Le invenzioni dei dipendenti. Questioni processuali”, in Quaderni di AIDA. Il codice della proprietà industriale, Xxxxxxx, 2004, pag. 66 (che lo ritiene rituale). Cf. X. Xxxxxx, “Il codice della proprietà industriale e le invenzioni del lavo- ratore”, in Mass. Giur. Lav., 2005, 10, 708
primo comma dell’art. 25 legge brevetti nella parte in cui non riconos- ceva la facoltà dell’inventore/dipendente e del datore di lavoro di far risolvere le loro controversie dall’autorità giudiziaria ordinaria43. Dun- que bisognerebbe riconoscere che la norma attuale prevede un arbi- trato solo facoltativo44. .
c) Se si scarta l’opinione che si tratti di un arbitraggio ai sensi dell’art. 1349, occorre poi chiedersi se la previsione normativa configuri un arbitrato rituale oppure irrituale45
d) Concludiamo sul punto evidenziando il radicale cambiamento intervenuto per quanto concerne le invenzioni dei dipendenti di una amministrazione dello Stato, perché mentre prima la determinazione era lasciata alla decisione “insindacabile” del Ministro (art. 25, legge brevetti), ora anche le invenzioni di questi soggetti sono sottoposte al medesimo regime degli inventori non dipendenti da amministrazione statale, raggiungendo così l’obiettivo auspicato di uguaglianza di trattamento46.
e) Ancora un’osservazione merita la norma sulla composizione del collegio arbitrale di cui all’art. 80 a proposito della licenza di diritto ed all’art. 72 sulla licenza obbligatoria; norma che differisce dall’art. 64 per due aspetti: innanzitutto, alla nomina del terzo in caso di di- saccordo, provvede il presidente della Commissione dei Ricorsi e non più il presidente del tribunale; in secondo luogo se una delle parti rifiuta di nominare il proprio arbitratore, invece di procedere come si fa di solito con l’arbitrato (e cioè con la nomina ad opera del presiden- te del tribunale dell’árbitro per la parte inattiva), salta la procedura arbitrale e decide sul merito il giudice ordinario. Ci è oscuro il motivo di questa diversa disciplina rispetto a quella delle invenzioni dei di- pendenti, non essendo certo sufficiente osservare che nella licenza di diritto ed in quella obbligatoria c’è un interesse “pubblicistico” da tutelare, che invece non esisterebbe per quanto concerne l’invenzione dei dipendenti, mi sembra anzi più vero il contrario: nelle fattispecie dell’art. 80 ed in quella dell’art. 72 la controversia è tra parti private e
43 In Nuove leggi civ. comm., 1978, 573 con nota di Xxxxxxxxx.
44 Conforme X. Xxxxxxx, op. cit., sub art. 2590 §39.
45 Si veda X. Xxxxxxxx, op. cit., 343, il quale qualifica l’arbitrato in questione come irri- tuale e ritiene possa esservi assoluta compatibilità logica nella configurazione di un arbi- trato irrituale vincolato ex lege alle previsioni ex art. 1349 c.c.
46 In questo senso X. Xxxxxxxx, op. cit., 343.
pertanto ci si sarebbe atteso una adesione più spinta alle norme gene- rali in materia di arbitrato. Infatti l’ipotesi dell’art. 64 (come pure quella dell’art. 86.2) si incrocia direttamente con il diritto del lavoro, mentre invece l’art. 80, l’art. 62, l’art. 96, l’art. 115 e l’art. 134 non toccano per niente il rapporto di lavoro47.
3. L’art. 194
Anche l’art.194 contiene norme interessanti per la soluzione arbi- trale delle controversie. Il comma 3 in parte fa da pendant al comma 4 dell’art.64 con queste peculiarità:
i) il terzo arbitratore in caso di disaccordo è nominato dal Presidente della Sezione specializzata del Tribunale di Roma, il chè si spiega col fatto che il decreto di espropriazione è emesso dall’amministrazione centrale;
ii) “Gli arbitratori devono essere scelti tra coloro che abbiano acqui- sito professionalità ed esperienza nel settore della proprietà indus- triale”: questa norma può spiegarsi per il terzo arbitratore nominato dal Tribunale, e al massimo per quello nominato dall’Amministrazione, ma non certo per quello nominato dal titolare del brevetto espropria- to, perché ciò costituirebbe un grave vulnus alla sua libertà di scelta.
Per il comma 4 il Collegio degli arbitratori”deve procedere con equo apprezzamento tenendo conto della perdita del vantaggio competitivo che sarebbe derivato dal brevetto espropriato”. Se inteso in senso lato il criterio del “vantaggio competitivo” dovrebbe corrispondere a que- llo del “valore di mercato” del brevetto;ma invece c’è da temere (come lascia presagire il criterio dell’”equo apprezzamento”) che così non sia e che l’indennità si attesti ad un livello molto più basso del valore di mercato con una diminuzione del patrimonio del titolare del brevetto ed un corrispondente incremento del patrimonio dell’Amministrazione non facilmente giustificabile.
Il 5° comma si interessa delle spese dell’arbitraggio, degli onorari degli arbitri e delle spere ed onorari di difesa dicendo che spetta al Collegio decidere “su chi ed in quale misura debba [no] gravare”. Manca però qualsiasi parametro di riferimento per la tariffa. La nor- ma prosegue poi dicendo:”Tale onere grava, in ogni caso, sull’espropriato quando l’indennità venga liquidata in misura inferio-
47 Sui problematici rapporti tra il rito del lavoro e il rito ordinario, con l’inserimento de- lle norme sugli arbitratori nel CPI si intrattiene Barbuto, op. cit., sub art. 2590 §27 ss.
re a quella offerta inizialmente dall’amministrazione”. Si è così consa- crato un incentivo (facilitato dall’ equo apprezzamento e dal solo van- taggio competitivo) a liquidare l’indennità ad un cent inferiore a quanto offerto dall’amministrazione; norma più equilibrata avrebbe dovuto essere quella per cui se la liquidazione risulta superiore a quanto offerto l’onere grava sull’Amministrazione. Essa poi, riferen- dosi all’”offerta iniziale”, non tiene conto che le parti possono avere lungamente negoziato con offerte di progressivo avvicinamento, per cui si sarebbe dovuto far riferimento all’”ultima offerta prima dell’arbitrato”.
Infine il 6° comma dispone che “La determinazione degli arbitratori può essere impugnata davanti alla sezione specializzata del Tribunale di Roma che provvede alla quantificazione dell’indennità”. Nel silenzio del legislatore circa i motivi dell’impugnazione, onde ci si chiede se debba farsi riferimento all’art.1349.1, come a noi sembra corretto.
4. Il (vecchio) art. 134
Problemi altrettanto delicati, come sopra accennato, nascevano dall’ interpretazione della norma sull’arbitrato di cui all’art. 134 intitolato “norme di procedura”, ora novellato dall’art. 19 della Legge 23 luglio 2009 n. 99, che lo ha ri–rubricato come “norme in materia di competenza”.
a) Era preliminare chiedersi se il comma secondo del vecchio art. 134 non dovesse per caso seguire la sorte del comma primo, il quale, come ben noto, era stato cancellato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 17 maggio 2007 n. 17048. La motivazione della Corte, che aveva considerato il comma 1 esorbitante rispetto a quanto contenuto nell’art. 15 della legge di delega 12 dicembre 2002 n. 273, poiché, fra l’altro, a quella data il d. lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 non era
48 Foro. it., 2007, I, 3370; e Giur. it., 2007, 2793 con nota Delle Donne, La Consulta cancella il comma primo dell’art. 134 del Codice della proprietà industriale: il rito societa- rio non si applica alle controversie sulla proprietà industriale e intellettuale. La Corte, constatato che l’art. 15 della legge delega concerneva “Il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale” e che esso si applicava solo alle norme di diritto sos- tanziale aveva conferito: “Al legislatore il potere di comporre in un testo normativo unita- rio le molteplici disposizioni vigenti nella materia…” ma non poteva intaccare le regole vigenti di diritto processuale.
ancora conosciuto ed emanato49, avrebbe dovuto essere applicata anche al comma secondo che faceva appunto riferimento a norme contenute in tale decreto. Se fosse stata corretta questa conclusione, ne sarebbe conseguita la cancellazione anche del comma due, di cui sarebbe sopravvissuto soltanto il principio che ne risultava implicito e cioè che anche in materia di proprietà industriale erano ammessi gli “arbitrati” (naturalmente con i limiti invalicabili visti sopra).
b) Si era comunque opportunamente segnalato che con riferimento alle cause radicate prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 134, rimanevano aperte le seguenti questioni. Si era premesso innanzi tut- to che le norme di cui agli artt. 35 e 36 del D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, dettate specificamente per l’arbitrato societario, non trovavano applicazione nel caso di controversie relative alla proprietà indus- triale.
i) Si riteneva di ammettere l’intervento o la chiamata del terzo (a richiesta di parte o su impulso di ufficio degli arbitri), anche se cre- diamo che si trattasse di una ipotesi piuttosto remota nella nostra materia;
ii) gli arbitri potevano conoscere incidenter tantum anche di questioni non compromettibili se da esse dipendeva la decisione50;
iii) il comma cinque dell’art. 35 dispone poi che “La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669 quinquies c.p.c.”, soluzione che la giurisprudenza aveva rifiutato per quanto concerne
49 Nella sentenza si legge: “Nessuno dei principi e criteri direttivi permette di ritenere che, sia pure implicitamente, il legislatore delegato sia stato autorizzato a stabilire la disci- plina processuale delle controversie attribuite alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, mediante la previsione dell’applicabilità di un rito diverso da quello ordinario, caratterizzato da elementi peculiari rispetto a quest’ultimo, realizzando in tal modo una sostanziale innovazione del regime vigente. Peraltro, alla data di promulgazione della legge delega (12 dicembre 2002), la disciplina del processo societario non era stata ancora emanata (in quanto stabilita dal d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), sicché, avendo riguardo alla data della delega, non erano enunciabili neppure principi e criteri direttivi stabiliti per relationem, mediante rinvio, sia pure impli- cito, ad una disciplina già presente nell’ordinamento”.
50 Vedi ora il nuovo art. 819 c.p.c.
l’arbitrato irrituale, ma che la Corte Costituzionale con ordinanza 5 luglio 2003 n. 32051 aveva invece affermato;
iv) infine, veniva fatto obbligo agli arbitri, quand’anche la clauso- la compromissoria li autorizzasse a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, di decidere secondo diritto con lodo im- pugnabile anche a norma dell’art. 829, secondo xxxxx “quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibi- li”52.
X. La nuova legge sull’arbitrato con riferimento alla proprietà industriale
Successivamente all’entrata in vigore del CPI è stato emanato il D. lgs. del 2 febbraio 2006 n. 40 (entrato in vigore il 2 marzo 2006) contenente una profonda riforma dell’arbitrato.
In particolare le nuove norme che hanno inciso sulla materia della proprietà industriale sono:
a) Art. 806 c.p.c. laddove, sostituendo il precedente art. 806 che escludeva le materie “che non possono formare oggetto di transazione”, estende l’arbitrabilità a tutte le controversie “che non abbiano per oggetto diritti indisponibili”. Rimando ad altre specifiche trattazioni l’esegesi dell’art. 806, limitandomi ad osservare che la diversa formulazione rispetto alla norma precedente, rimarcando il diverso atteggiamento del legislatore verso l’arbitrato (con l’esprimere il principio generale dell’arbitrabilità delle controversie eccetto quelle che vertono su diritti indisponibili), sul piano pratico nella materia della proprietà industriale esso non comporterà grandi mutamenti. Ciò è tanto più vero in quanto la nozione di “diritto disponibile” è vaga e mutevole nel tempo ed “impone di contenere l’ambito della non arbitrabilità a quelle controversie che per il loro concreto manifestarsi siano in grado di sfociare in un atto dispositivo vietato o di conseguirne gli effetti preclusi dalla legge, e di non estendere tale ambito a quelle questioni (che dovranno perciò ritenersi compromettibili) che pur
51 In Riv. arb., 2002, 503, con nota di X. Xxxxxxx, “La garanzia dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale” (la Corte in sostanza non condivide l’opinione che l’arbitrato irrituale sia uno strumento radicalmente diverso da quello rituale che non si estrinsechi in un giudizio).
52 Ma vedi ora l’art. 819 e l’art. 829, quarto e xxxxxx xxxxx, c.p.c.
interessando diritti indisponibili, non siano idonee a conseguire simili risultati, quali ad esempio quelle destinate a sfociare in pronunce meramente dichiarative e quelle relative agli effetti patrimoniali derivanti, ad esempio, dalla lesione di diritti indisponibili”53.
b) Art. 818 c.p.c. dove si legge “Gli arbitri non possono concedere sequestri né altri provvedimenti cautelari salvo diversa disposizione di legge”. La norma tocca un nervo scoperto della proprietà industria- le in cui più del novanta percento dei casi iniziano con la richiesta di misure cautelari. Essa ribadisce l’incompetenza degli arbitri a conce- dere provvedimenti cautelari, che sono riservati ai giudici (e vedi in proposito l’art. 669 quinquies) anche se va contro una tendenza che si avverte in numero sempre maggiore di convenzioni internazionali e leggi nazionali sull’arbitrato. Inoltre se si comprende il motivo per il quale gli arbitri non possono concedere “sequestri”, non si comprende l’ostracismo ad altri provvedimenti cautelari tipo la descrizione oppu- re l’inibitoria, che, vitali per la tutela dei diritti di proprietà industria- le, non richiedono necessariamente per la loro esecuzione l’intervento manu militari degli organi dello Stato54.
c) Art. 819 c.p.c. del seguente tenore
“Gli arbitri risolvono senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato, salvo che debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge. Su domanda di parte, le questioni pregiudiziali sono decise con efficacia di giudicato se vertono su materie che possono essere oggetto di convenzione di arbitrato. Se tali questioni non sono comprese nella convenzione di arbitrato, la decisione con efficacia di giudicato è subordinata alla richiesta di tutte le parti”.
La norma era già stata anticipata per l’arbitrato societario e, in for- za del richiamo dell’art. 134 CPI, anche per quello in tema di proprietà industriale. Essa non solo risolve i dubbi residui, ma estende la compe- tenza arbitrale a decidere “con efficacia di giudicato” anche “questioni
53 Così Xxxxxxxx, Xxxxx, Il nuovo diritto dell’arbitrato, in Trattato di Diritto Commerciale (diretto da Xxxxxxx), 2007, 98 che accolgono una conclusione di Berlinguer, op. cit., pag. 60 e seg.
54 D’altronde in questa direzione si era già spinta il D. Lgs. del 2003 il cui art. 35.5 attribuiva agli arbitri il potere di disporre la sospensione delle delibere assembleari.
pregiudiziali” purché possano essere oggetto di convenzioni di arbitrato e cioè “non indisponibili” nella vecchia accezione restrittiva55.
XI. Le norme della legge sullo sviluppo e l’energia (n.99 del 23 luglio 2009)
Il furore col quale il legislatore italiano si industria di rendere le leggi il più instabili possibile (ogni Governo e Parlamento cambiando ciò che hanno fatto i predecessori) si è manifestato anche nella materia che ci occupa. Infatti il 31 luglio 2009 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 176 la legge n. 99 del 23 luglio 2009 sullo sviluppo e l’energia, il cui art. 19 sotto al titolo “Proprietà industriale” modifica una serie di norme, delle quali la più rilevante ai nostri fini, contenuta nel comma 5, è l’art. 134 CPI.
Il cambiamento che ci tocca più da vicino concerne la soppressione del 2° comma del vecchio art. 134 sull’applicazione agli arbitrati nelle materie della proprietà industriale delle norme sugli arbitrati contenute nel rito societario (d.lgs.17 gennaio 2003 n.5) e che aveva dato luogo ai dubbi che abbiamo sopra illustrato. La soppressione è da salutare con favore.
La riscrittura del comma 3 merita un cenno. Disponendo (come nel vecchio testo) che sono di competenza delle sezioni specializzate “le controversie in materia di indennità di espropriazione dei diritto di proprietà industriale, di cui conosce il giudice ordinario”, il riferimen- to diretto è all’art. 194, già esaminato e cioè alle controversie circa i presupposti per l’espropriazione (an) e non anche circa l’ammontare (quantum) che sarà deciso dagli arbitratori, eccetto l’impugnativa che ridiviene appannaggio del giudice ordinario nella sezione specializza- ta del Tribunale di Roma.
Ma visto che si voleva fare un po’ di pulizia si poteva anche preten- dere una maggiore precisione. Se infatti all’inizio si parla (e si parlava nel vecchio testo) di devoluzione alle sezioni specializzate dei “proce- dimenti giudiziari”, potendosi dedurre la libertà delle parti di instau- rare “procedimenti arbitrali”, nel seguito del testo si parla di “contro-
55 L’attuale formulazione costituisce attuazione del principio generale contenuto nell’art. 34 c.p.c. secondo cui il giudice può conoscere incidenter tantum di ogni questione la cui definizione costituisce una tappa necessaria nell’iter logico che conduce alla decisione della causa. In ogni caso, come sopra accennato, si generalizza un principio già previsto in materia di arbitrato societario negli artt. 35 co. 3 e 36 del D.Lgs. 17.01.2003, n. 5.
versie nelle materie disciplinate dagli artt. 64, 65” che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate. Ma sono “controversie” anche quelle che lo stesso art. 64 consente che siano arbitrate. Se ne deve concludere che le controversie circa l’ammontare dell’ equo premio, canone o prezzo non possono più essere decise da arbitri? Credo che il legislatore del 2009 non volesse tale risultato56, ma un po’ di chiarezza in più non avrebbe nociuto.
RESUMEN: L’intervento dell’arbitrato nella proprietà industriale in Italia è cam- biato significativamente nell’ultimo mezzo secolo. Partendo dalla constatazione che la concessione di un brevetto è un atto della Pubblica Amministrazione, dottrina e giu- risprudenza hanno tracciato la distinzione tra esistenza, estensione e validità dei diritti di proprietà industriale, le cui dispute appartengono alla competenza esclusiva dei Giudici (perché sono implicati profili di interesse pubblico) e gli aspetti patrimo- niali dello sfruttamento di tali diritti (ciò che avviene generalmente con i contratti di trasferimento di tecnologia), che rientrano nei diritti disponibili delle parti. Tutte le controversie relative a questi ultimi aspetti costituiscono materia arbitrabile.
Lo studio poi passa in rassegna le singole norme contenute nel Codice della Pro- prietà Industriale (legge 10 de febrero de 2005, n. 30) che disciplinano, dettandone anche i limiti, l’arbitrato e conclude che talvolta tali norme raffigurano un vero e proprio arbitrato, tal altra una sorta di “arbitraggio” dove gli arbitratori molto spesso devono decidere con “equo apprezzamento”. La successiva riforma dell’arbitrato (contenuta nella legge 2 de febrero de 2006, n. 40) estende l’arbitrabilità a tutte le dispute che non hanno per oggetto diritti indisponibili (come sarebbe il caso della validità di un brevetto) e conferisce loro il potere di risolvere anche questioni indis- ponibili, ma in tal caso la loro decisione non potrà acquisire efficacia di giudicato e cioè sarà una conoscenza incidenter tantum.
PALABRAS CLAVE: ARBITRATO – ARBITRABILITÀ – PROPRIETÀ INDUSTRIALE.
ABSTRACT: The use of arbitration in IPR matters in Italy has tremendously evolved in the last half–century. The decisive distinction which has been drawn is between the existence, scope and validity of an IPR, which pertains to the exclusive jurisdiction of judges (since it implies profiles of public interest) and the economic aspects of its exploitation (generally by means of transfer of technology agree- ments), which fall within the parties’ freedom to dispose of. All disputes over the latter aspects are now arbitrable.
The study highlights each of the rules contained in the Code of Industrial Prop- erty (law of 10 February 2005, n. 30) dealing with (and setting the limits of) arbi- tration, and concludes that sometimes they refer to a proper arbitration, sometimes to a kind of technical expertise (“arbitraggio”), in many cases bound to decide ex
56 Alla luce della nuova formulazione dell’art. 134 si potrebbe infatti ritenere che gli ar- bitrati in materia di proprietà industriale debbano ora seguire la disciplina prevista agli artt. 806 e segg. del codice di procedura civile.
aequo et bono. The sub–sequent reform of the arbitration (law of 2 February 2006,
n. 40) extends the arbitrability to all disputes except those over right which the par- ties can not dispose of (like the validity of a patent), although they are empowered to solve also such disputes with a decision which is not destined to become res xxxx- cata (incidenter tantum).
KEY WORDS: ARBITRATION – ARBITRABILITY – INDUSTRIAL PROPERTY.