Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School
Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School
Dottorato di ricerca
in Diritto Europeo dei contratti civili, commerciali e del lavoro Ciclo XXVIII
Anno di discussione 2016
Le tipologie contrattuali dopo le ultime riforme del lavoro
SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE DI AFFERENZA: IUS/07
Tesi di Dottorato di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, matricola 955997
Coordinatrice del Dottorato Tutore della Dottoranda Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxx
Co-tutore della Dottoranda Xxxx. Xxxxxxxxxxxx
de Gioia-Carabellese
a Xxxxx Xxxxxxx
INDICE
1. “RIFORMARE” IL DIRITTO DEL LAVORO 1
1.1. INTRODUZIONE 1
1.2. UNO SGUARDO ALL’EUROPA 2
1.3. LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA 10
1.3.1. LA RIFORMA FORNERO 12
1.3.2. LA RIFORMA GIOVANNINI 20
1.3.3. IL “JOBS ACT” 22
1.3.4. OGNI RIFORMA, UNA DOTE 26
1.4. IL RUOLO DELLE COMMISSIONI DI CERTIFICAZIONE 32
1.5. GLI EFFETTI DEGLI INCENTIVI 36
1.6. LA LEGGE DI STABILITA’ 2016 40
2. TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO SUBORDINATO 42
2.1. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO 42
2.1.1. IL QUADRO NORMATIVO 48
2.1.2. LA DESCRIZIONE DELLA FATTISPECIE 50
2.1.3. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NELLA RIFORMA FORNERO 52
2.1.3.1. IL CONTRATTO A TERMINE “ACAUSALE” (art. 1, commi 01, 1 e 1 bis) 55
2.1.3.2. LE IPOTESI DI LIBERALIZZAZIONE (art. 1 comma 1 bis) 58
2.1.3.3. L’IMPROROGABILITÀ DEL CONTRATTO ACASUALE (art. 4, comma 2 bis) 65
2.1.3.4. PROSECUZIONE DI FATTO E SUCCESSIONE DI PIU’ CONTRATTI A TERMINE (art. 5) 67
2.1.4. LA DISCIPLINA AD HOC PER LE START-UP INNOVATIVE 69
2.1.5. ALCUNE RIFLESSIONI 70
2.1.6. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NELLA RIFORMA GIOVANNINI 73
2.1.6.1. LE MODIFICHE ALL’ART. 1 73
2.1.6.2. LE MODIFICHE ALL’ART. 5 74
2.1.7. CONFRONTO TRA RIFORME FORNERO E GIOVANNINI 75
2.1.8. IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO NEL “JOBS ACT” 76
2.1.8.1. L’ACAUSALITÀ 78
2.1.8.2. IL CONTINGENTAMENTO (a: di fonte legale; b: di fonte contrattuale) 82
2.1.8.3. ESCLUSIONE DAI LIMITI QUANTITATIVI 92
2.1.8.4. LE DISCIPLINE DEI LIMITI DI DURATA, DEI RINNOVI, DELLE PROROGHE 94
2.1.8.5. IL DIRITTO DI PRECEDENZA 97
2.1.9. CONTRATTO A TERMINE NEL D. L. 81/2015 98
2.2. IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE 100
2.2.1. LA DESCRIZIONE DELLA FATTISPECIE 100
2.2. 2. LIMITI OGGETTIVI E SOGGETTIVO o PRESUPPOSTI DI INSTAURAZIONE 112
2.2.3. IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE NELLA RIFORMA
FORNERO 125
2.2.4. IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE NELLA RIFORMA XXXXXXXXXX (o LETTA o DECRETO LAVORO) 128
2.2.5. IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE NEL JOBS ACT 132
2.3. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO 133
0.0.0.XX CONTRATTO DI APPRENDISTATO NELLA RIFORMA FORNERO 136
2.3.1.1. LA NOVITÀ DELLA DURATA MINIMA DEL CONTRATTO 137
2.3.1.2. LA NOVITÀ DELLA VARIAZIONE, IN AUMENTO, DEL NUMERO DI APPRENDISTI ASSUMIBILI 138
2.3.1.3. LA NOVITÀ DELLA CLAUSOLA (LEGALE) DI STABILIZZAZIONE (mantenimento in servizio) 140
2.3.1.4. LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA 143
2.3.1.5. LA CLAUSOLA (CONTRATTUALE) DI STABILIZZAZIONE 144
2.3.2. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO NEL “DECRETO LAVORO”
(d.l. 76/2013, convertito in l. 99 del 9 agosto 2013) 146
2.3.3. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO NEL JOBS ACT (d.l. 34/2014) 151
2.3.3.1. LA DISCIPLINA DEL PIANO FORMATIVO INDIVIDUALE E LE SUE CRITICITA’ 151
2.3.3.2. L’ONERE DI STABILIZZAZIONE 152
2.3.3.3. APPRENDISTATO PROFESSIONALIZZANTE IN DEROGA (fruitori di indennità di mobilità/disoccupazione) E A TEMPO DETERMINATO
( stagionali) 153
0.0.0.XX CONTRATTO DI APPRENDISTATO NEL D.L. 81/2015 154
2.4. IL LAVORO (OCCASIONALE) ACCESSORIO 157
2.4.1. LA DESCRIZIONE DELLA FATTISPECIE 160
2.4.2. IL LAVORO OCCASIONALE ACCESSORIO NELLA RIFORMA FORNERO 162
2.4.2.1. IL NUOVO LIMITE ECONOMICO, QUALE UNICO PARAMETRO DELL’OCCASIONALITA’ (5000, 2000, 3000 euro) 163
2.4.2.2. IL VALORE “ORARIO” DEL VOUCHER 168
2.4.2.3. I COMPENSI PERCEPITI SONO COMPUTABILI NEL MINIMALE AI FINI DEL RILASCIO O RINNOVO DEI PERMESSI DI SOGGIORNO 169
2.4.3. IL LAVORO OCCASIONALE ACCESSORIO NEL DECRETO “SVILUPPO” 169
2.4.4. IL LAVORO (OCCASIONALE) ACCESSORIO NEL DECRETO “LAVORO” 171
2.4.5. IL LAVORO (OCCASIONALE) ACCESSORIO NEL JOBS ACT 172
2.4.5.1. IL NUOVO LIMITE ECONOMICO 173
2.4.5.2. IL NUOVO RIFERIMENTO TEMPORALE (da anno solare ad anno civile) 175
2.4.5.3. LA STABILIZZAZIONE DELLA PREVISIONE PER I PERCETTORI DI PRESTAZIONI 176
2.4.5.4. LA SOPPRESSIONE DELLA QUALIFICAZIONE “COMMERCIALE” RIFERITA ALL’IMPRENDITORE COMMITTENTE 177
2.4.5.5. LA POSITIVIZZAZIONE DI QUANTO AFFERMATO DALLA PRASSI IN MATERIA DI APPALTO: è vietato il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio177
2.4.5.6. OBBLIGO DI COMUNICAZIONE PREVENTIVA 178
3. TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO NON SUBORDINATO 181
3.1. LE COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE A PROGETTO 181
3.1.1. IL LAVORO A PROGETTO NELLA RIFORMA FORNERO 184
3.1.1.1. LA DEFINIZIONE DI PROGETTO, UNICA CAUSALE POSSIBILE DOPO L’ELIMINAZIONE DEL “PROGRAMMA DI LAVORO O FASE DI ESSO” 184
3.1.1.2. LE DUE PRESUNZIONI (LEGALI) DI ESISTENZA DI UN RAPPORTO
DI LAVORO SUBORDINATO 188
3.1.1.3. LA RISCRITTURA DELLA DISCIPLINA DELLA FACOLTÀ DI RECESSO 190
3.1.1.4. AGGRAVAMENTO DELL’ONERE CONTRIBUTIVO 193
3.1.1.5. INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE 193
3.1.2. LE COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE A PROGETTO
NEL DECRETO LAVORO 194
3.1.2.1. FORMA SCRITTA “AD SUBSTANTIAM” 194
3.1.2.2. COMPITI MERAMENTE ESECUTIVI “E” RIPETITIVI 195
3.1.2.3. PROROGA AUTOMATICA, SE PER RICERCA SCIENTIFICA 196
3.1.3. LE COLLABORAZIONI A PROGETTO NEL X.Xxx. 81/2015 196
3.1.3.1. LA PRESUNZIONE DI SUBORDINAZIONE 201
3.1.3.2. LA CERTIFICAZIONE DELL’ASSENZA… 203
3.1.3.3. LA STABILIZZAZIONE (E POSSIBILITA’ DI SANATORIA TOMBALE) 204
3.2. ALTRE PRESTAZIONI LAVORATIVE RESE IN REGIME DI LAVORO AUTONOMO 206
3.2.1. LE PRESTAZIONI DI LAVORO AUTONOMO RESE DA TITOLARI DI
PARTITA IVA NELLA RIFORMA FORNERO 207
3.2.1.1. LA PRESUNZIONE DI ESISTENZA DI UN RAPOORTO DI XX.XX.XX. A PROGETTO E LA RICONDUZIONE PER SALTUM AL LAVORO SUBORDINATO 208
3.2.1.2. LE IPOTESI DI ESCLUSIONE DELL’OPERATIVITÀ DELLA
PRESUNZIONE 210
3.3. L’ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE 211
3.3.1. IL CONTRATTO DI ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE NELLA
RIFORMA FORNERO 211
3.3.1.1. L’INTRODUZIONE DEL LIMITE MASSIMO AL NUMERO DEGLI
ASSOCIATI 212
3.3.1.2. LA PRESUNZIONE DI SUBORDINAZIONE 212
3.3.1.3. LA CERTFICAZIONE DEI CONTRATTI IN ESSERE 213
3.3.2. IL CONTRATTO DI ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE NEL DECRETO LAVORO 213
3.3.2.1. ESENZIONE DALL’APPLICAZIONE DEL LIMITE NUMERICO 213
3.3.3. L’ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE NEL JOBS ACT (d.l. 81/2015) 215
CONCLUSIONI 216
BIBLIOGRAFIA 221
MONOGRAFIE 221
ARTICOLI 222
ADAPT LABOUR STUDIES e-book series 233
WORKING PAPER C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” 235
CAPITOLO 1
“RIFORMARE” IL DIRITTO DEL LAVORO
1.1. INTRODUZIONE
“Riformare” il diritto del lavoro è considerato da più parti come intervento necessario, provvedimento non più rinviabile, in quanto strumentale alla risoluzione dei problemi ed alla rimozione delle criticità che impediscono una piena e soddisfacente occupabilità e che, prima di essa, ostacolano lo sviluppo di una solida imprenditorialità.
Unitamente alle politiche fiscali, le scelte di politica del lavoro condizionano ed indirizzano le scelte dell’impresa, che a loro volta creano i presupposti, o meno, per una prospettiva di occupazione della popolazione in età lavorativa presente sul territorio nazionale.
Dotare un Paese di un ordinamento, anche in materia di diritto del lavoro, che fornisca, nei contenuti, soluzioni alle criticità lamentate dagli stake-holder che le hanno rilevate e riscontri alle istanze da essi avanzate, e che sia privo di ambiguità nella forma, in modo da essere così di immediata spendibilità ed applicazione, è il presupposto per una prospettiva di imprenditorialità e quindi di occupazione.
L’ambito giuslavoristico è di certo vasto e dalle molteplici implicazioni (non solo diritto del lavoro, ma anche diritto delle relazioni industriali, diritto sindacale, diritto della sicurezza sociale) ed ancora caratterizzato dalla peculiarità di avere una molteplicità di fonti vincolanti, in un moltiplicarsi quasi esponenziale di esse nel proliferare di contratti collettivi di molteplici settori merceologici, e per più di un contratto per ogni settore e per i diversi livelli di contrattazione.
In un contesto così articolato, “riformare” il diritto del lavoro non appare impresa semplice. In generale, ogni riforma normativa paga il dazio dell’essere teorica prima che pratica, e si scontra con il banco di prova dell’applicazione concreta che evidenzia le criticità rimaste latenti nelle disposizioni di legge. Questo è vero per ogni scrittura legislativa, ma in modo peculiare lo è per il diritto del lavoro, in cui la tempestività dell’obbligatoria applicazione non si concilia con incertezze, dimenticanze o imprecisioni del legislatore. Ogni riforma porta con sé uno strascico di aggiustamenti successivi che all’atto pratico ne sacrificano la portata, anche di innovazione, e spingono
a reclamare la riforma della riforma, quasi in una spirale, in un susseguirsi di provvedimenti che compromettono il realizzarsi delle intenzioni e degli obiettivi che ne avevano animato la scrittura.
In che senso, poi, riformare il diritto del lavoro, terreno di rivendicazioni spesso opposte e confliggenti tra loro? Ovvero: una volta preso atto e preso per buono l’assioma che è necessario riformare il diritto del lavoro, con quali contenuti è utile intervenire?
La Commissione Europea raccomanda agli Stati membri di adottare il modello della flexsecurity: il Libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro, già ormai dal 2006 evidenzia la necessità che venga creato un mercato del lavoro capace di offrire lavori di qualità e di assicurare una più forte coesione sociale, e prospetta come necessario al fine del raggiungimento di tali obiettivi una riscrittura del diritto del lavoro in cui siano conciliate sicurezza e flessibilità1.
1.2. UNO SGUARDO ALL’EUROPA
In un contesto come quello attuale caratterizzato ormai da qualche anno dal protrarsi della “crisi economica” si è fatta più pressante l’istanza di riformare l’ordinamento giuslavoristico2, in modo da renderlo, negli intenti, più rispondente alle esigenze del mercato del lavoro, e quindi strumento efficace per conseguire obiettivi di risanamento occupazionale unitamente al superamento della contingente condizioni di crisi economica3.
1 XXXXXXXXXXX E., in LOKIEC P., XXXXX‐XXXXXXX X., XXXX X., Au coeur des riforme du marché du travail, Revue de droit du travail, Septembre 2014, 577 “Les réformes ont également été menées en raison de la politique de l’UE. Depuis plus de vingt ans, l’UE dispose d’instruments et de compétences dans la politique de l’emploi, dont l’objectif est lié à la réalisation du marché intérieur (article 3, alinéa 3, du Traité de l’Union Européenne). Ainsi, le marché intérieur doit réaliser le plein‐emploi, la croissance économique, la justice sociale et combattre l’exclusion sociale”.
2 XXXXXXX P., The impact of the economic crisis on EU labour markets: A comparative perspective, International Labour Review, 152, issue 2, 2013, 175, l’A. sostiene che “countries which performed better during the economic crisis of 2007/2011 are countries which do not have a flexible labour market and have managed to keep stable emplymewnt levels”.
3 SCHMITT M., L’influence de l’Union Européenne sur les riformes francaises du marché du travail et de l’emploi, in Revue du Droit du travail, Juillet_Aout 2014, 456 “La flexicurité, matrice de la politique au coeur de la Stratégie de Lisbonne”
Le indicazioni degli osservatori sovranazionali evidenziano difatti il rischio che “ulteriori 4,5 milioni di posti di lavoro verranno persi nei prossimi 4 anni, perdita che non si esaurirebbe in sé ma che porterebbe con sé l’ulteriore rischio di disordini sociali”4.
La possibile soluzione al problema – suggerisce l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – “muove da una strategia di crescita che abbia come suo fulcro il lavoro. Risanare il sistema finanziario, promuovere investimenti produttivi, rinforzare programmi di occupazione efficaci, mantenere la sicurezza sociale, incoraggiare il dialogo sociale e avviare un programma di imposizione fiscale favorevole all’occupazione: tutto questo porterebbe i Paesi dell’Eurozona al di fuori della “trappola dell’austerità fiscale” e spianerebbe la strada per una ripresa sostenibile e conciliabile con la coesione sociale”5.
Nell’analisi fornita sulla crisi economica e finanziaria nei paesi dell’eurozona e sugli effetti che ha tale crisi ha causato, l’O.I.L. rileva che “all’indomani dell’insorgere della crisi finanziaria globale (Settembre 2008), il mercato del lavoro dell’Eurozona ha reagito per certi versi meglio rispetto ai mercati del lavoro di altre economie avanzate.(…)
Da allora, comunque, il mercato del lavoro dell’Eurozona ha subito un peggioramento. L’occupazione ha avuto una leggera ripresa nel corso del 2010 e nel primo periodo del 2011, ma è poi di nuovo peggiorata a partire dalla fine del 2011, diversamente dal trend verificatosi in altre economie avanzate, dove si è avuto un graduale (anche se insufficiente e precario) aumento del tasso di occupazione.
Il recente trend negativo verificatosi nei mercati del lavoro dell’Eurozona è coinciso con la virata verso la politica di austerità fiscale. In particolare, in Grecia, in Irlanda e in Portogallo – i tre Stati dell’Eurozona per cui è stato varato un programma di risanamento concordato con la Commissione europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale – le perdite nei livelli di occupazione hanno teso ad accelerare. I tassi di disoccupazione in questi Stati sono cresciuti più velocemente di quanto fosse pianificato nei Programmi di risanamento (…). In generale, il tasso di occupazione in tutta l’Eurozona rimane ben al di sotto dei livelli pre-crisi. Nei due anni
4 O.I.L., Eurozone job crisis: trends and responses, 2012, 11, tradotto da chi scrive
5 O.I.L., op. cit, 11, come sopra
che sono seguiti all’insorgenza della crisi, il livello di occupazione nell’Eurozona è sceso di oltre 4 milioni, e da allora solo un quarto dei posti di lavoro persi è stato ripristinato”6.
Tuttavia “questa descrizione nasconde significative differenze tra Stato e Stato. La Germania, il Lussemburgo, Malta e, sia pur in minor misura, l’Austria, sono gli unici Stati dell’Eurozona in cui il tasso di occupazione (…) è aumentato dall’inizio della crisi. Il tasso di occupazione è di recente aumentato in Belgio, Estonia, Finlandia, Olanda e Slovacchia, ma non in modo tale da pareggiare le perdite iniziali. A Cipro, in Francia ed in Italia, il tasso di occupazione è in qualche misura diminuito dall’inizio della crisi; infine, in Grecia, Irlanda, Portogallo, Slovenia e Spagna il tasso di occupazione è diminuito in modo sostanziale, in alcuni casi vanificando tutti i risultati ottenuti durante la fase espansiva (di sviluppo) (di crescita) avutasi tra il 2000 ed il 2007”7. Inoltre, l’O.I.L. rileva che “alla depressa situazione occupazionale si è accompagnata una crescente precarietà degli impieghi per i soggetti occupati. Il part-time forzato”, non scelto volontariamente, “è aumentato significativamente (…); l’incidenza del lavoro temporaneo è tendenzialmente aumentata in quegli Stati in cui vi è stata ripresa di occupazione; e un’analisi della natura dei lavori creati tra il 2007 ed il 2010 manifesta che la maggior parte dei nuovi lavori sono retribuiti al di sotto della retribuzione media. Questo accade in particolare in Germania, Olanda e Spagna. L’analisi segnala anche che i nuovi posti di lavoro a bassa retribuzione sono meno stabili dei nuovi impieghi a retribuzione più elevata (…) e che l’aumento dei tassi di disoccupazione si è avuto in special modo nella popolazione giovane”8.
L’O.I.L. esplicita pertanto che “c’è urgente bisogno di accelerare la crescita economica” come anche c’è bisogno di misure specifiche per garantire che a tale crescita più rapida si accompagni un più alto tasso di occupazione.
A questo fine appare in tutta la sua evidenza l’importanza del ruolo delle politiche del mercato del lavoro”9, anche alla luce delle differenze nei risultati conseguiti da vari paesi europei all’occasione della crisi dei primi anni ’90.
6 O.I.L., op cit., 19, come sopra 7 O.I.L., op. cit., 20, come sopra 8 O.I.L., op. cit., 22, come sopra 9 O.I.L., op. cit., 24, come sopra
Limitando qui l’osservazione al solo contesto europeo ed a quello italiano in particolare, si parte qui dall’ultimo rapporto OIL sul lavoro nel mondo (giugno 2013), che esplicita (avverte) che “l’Europa deve creare 6 milioni di posti di lavoro per ritrovare il livello d’occupazione tele quale era prima dell’insorgere della crisi. La situazione del mercato del lavoro continua a peggiorare e si accompagna ad una crescita delle disuguaglianze che portano con sé forti rischi di disordini sociali”.
Tale rapporto evidenzia tre macro aree di criticità: la diminuzione, generalizzata nella gran parte dei paesi dell’Unione, dei tassi di occupazione; il continuo aumento dei tassi di disoccupazione giovanile; e l’aumento dello stato di disoccupazione di lunga durata.
1) “I tassi di occupazione sono diminuiti nella grande maggioranza dei Paesi europei; nell’Europa a 27 il tasso di occupazione era, per quanto riguarda le persone tra i 15 e i 74 anni, del 57,2% al quarto quadrimestre del 2012, ovvero inferiore di 1,4% rispetto al tasso com’era prima della crisi (quarto trimestre 2007). In altre parole, 5,2 milioni di posti di lavoro devono essere creati per riportare i tassi di occupazione ai livelli pre- crisi. Solo 7 Stati su 27 (Germania, Austria, Ungheria, Lussemburgo, Malta, Polonia e Romania) hanno oggi un tasso d’occupazione superiore a quello antecedente alla crisi. La perdita di occupazione è stata particolarmente marcata a Cipro, in Spagna, in Grecia ed in Portogallo (più di 3 punti percentuali nel corso degli ultimi due anni).
2) Il tasso di disoccupazione continuerà ad aumentare nel 2013, specialmente tra le persone giovani: in marzo 2013 il tasso di disoccupazione ha raggiunto, in ambito U.E., il 10,9% ed il numero di disoccupati ha raggiunto quota 26,5 milioni, quest’ultimo dato in aumento rispetto al mese precedente ed entrambi considerevolmente più elevati rispetto al mese di marzo 2008. Difatti, confrontato con i dati di cinque anni prima, il tasso di disoccupazione è più alto di 4,3 punti percentuali. Raggiungendo livelli allarmanti, la disoccupazione dei giovani era di 23,5% nel mese di marzo 2013, contro il 15,5% nel mese di marzo 2008.
3) Aumenta lo stato di disoccupazione di lunga durata e coloro che cercano lavoro si scoraggiano: al quarto trimestre del 2012, si contavano, nell’U.E., 11,7 milioni di disoccupati di lungo corso. Si tratta di 1,4 milioni in più rispetto all’anno precedente e di 5,7 milioni in più rispetto al 2008. Nella maggioranza dei Paesi dell’U.E. , più del 40% dei disoccupati sono senza impiego da più di un anno. Molti dei disoccupati si dicono
scoraggiati e hanno smesso di cercare lavoro: il numero dei disoccupati demotivati - coloro che non sono lavorativamente attivi ma che desidererebbero lavorare – è aumentato, in media, del 29% tra il 2008 ed il 2011”10.
In linea con le tendenze europee, lo scenario che si prospetta in Italia “lascia vedere pochi segni di ripresa”. “Dopo il periodo 2011 ed inizio 2012 in cui i livelli di occupazione sono rimasti stabili, nella seconda metà del 2012 la perdita di posti di lavoro ha segnato un’accelerazione: sono stati persi quasi 100.000 posti negli ultimi due trimestri. Nel quarto trimestre del 2012, gli occupati erano diminuiti di oltre 48.000 unità rispetto al trimestre precedente. Inoltre, a partire dal secondo trimestre del 2008, l’economia italiana ha perso circa 600.000 posti di lavoro. Siccome, nello stesso periodo, la popolazione in età lavorativa è aumentata di circa 1,1 milioni, servono all’Italia 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro per riportare il tasso di occupazione ai livelli pre-crisi.
Il tasso di disoccupazione è aumentato regolarmente a partire dall’inizio della crisi. Dal 6,1% nel 2007, il tasso di disoccupazione è aumentato quasi ininterrottamente per raggiungere l’11,2% nel quarto trimestre 2012. In Italia la sfida della ricerca di un posto di lavoro è stata particolarmente difficile per i giovani tra 15 e 24 anni: il tasso di disoccupazione di questa fascia d’età è salito di 15 punti percentuali ed ha raggiunto il 35,2% nel quarto semestre 2012”. Inoltre, “l’occupazione precaria (contratti a tempo determinato o part-time “involontari”) si è diffusa largamente. A partire dal 2007, il numero dei lavoratori precari è aumentato di 5,7 punti percentuali ed ha raggiunto 32% degli occupati nel 2012.
Nell’eurozona, l’aumento della disoccupazione è andato di pari passo con il maggior rigore nella politica fiscale e con le riforme del mercato del lavoro.
1) “In considerazione della situazione di aumento del deficit (conseguenza di una riduzione delle entrate fiscali associata ad una riduzione dei consumi), molti stati europei hanno infatti modificato i loro orientamenti fiscali nell’intenzione di ridurre tale deficit (cosiddetto approccio di “austerity”). La maggior parte degli interventi si è focalizzato sulla riduzione della spesa pubblica, piuttosto che sull’aumento delle entrate fiscali. La riduzione della spesa pubblica è stata spesso realizzata per mezzo di tagli agli
10 O.I.L., Rapport sur le travail dans le monde 2013 ‐ Restaurer le tissu économique et social ‐
Aperçu de l’Union Européenne, p. 1, 2013, nella traduzione di chi scrive
investimenti statali, di riduzioni nei salari e nelle prestazioni previdenziali, tagli che sono stati realizzati con modalità diverse da stato a stato. In Belgio, Estonia, Xxxxxxx Xxxxxx, Irlanda, Italia, Olanda e Spagna, si è avuta una riforma del sistema pensionistico; in altri casi (come In Irlanda e Olanda) sono state ridotte le prestazioni riconosciute all’occasione del verificarsi dello stato di disoccupazione11.
2) “Fin dall’inizio, i Governi erano consapevoli del rischio che una politica fiscale più stringente avrebbe potuto compromettere la ripresa. Ragion per cui molti di essi si sono impegnati nel riformare il mercato del lavoro. Si è sostenuto che una tale politica consentirebbe di aumentare la fiducia dei mercati e quindi gli investimenti, supportando allo stesso tempo la crescita economica di lungo periodo e la creazione di posti di lavoro. La riforma del mercato del lavoro è stata considerata strumentale per promuovere l’occupazione nel contesto della moneta unica caratterizzato dall’obiettivo di un’inflazione bassa e di una politica fiscale più serrata (…). Riforme del mercato del lavoro sono state adottate in 13 di 17 Paesi dell’Eurozona. Queste riforme sono andate sia nella direzione di una decentralizzazione della contrattazione collettiva, sia nella direzione di un allentamento delle regolamentazione del lavoro. (…) Generalmente le riforme hanno preso tre corsi, e cioè: 1) la decentralizzazione della contrattazione collettiva; 2) l’allentamento della protezione legale contro i licenziamenti individuali ; e
3) la modifica dei requisiti e delle procedure cui attenersi nei casi di licenziamenti collettivi.
Cosa importante da notare, per la maggior parte queste modifiche sono state realizzate con un limitato dialogo sociale. La fretta e la mancanza di dialogo sociale con cui sono state realizzate le recenti riforme del mercato del lavoro sono fonte di preoccupazione”12.
Tre sono dunque gli indirizzi presi dalla politica delle riforme negli stati dell’eurozona:
1) la riforma della contrattazione collettiva; 2) la modifica della legislazione in materia di protezione del lavoro; 3) la modifica, in senso rafforzativo, della protezione in caso di licenziamento13.
11 O.I.L., op. cit., 26, tradotto da chi scrive
12 O.I.L., op. cit., 27, come sopra
13 AA.VV., Crisi economica e riforme del lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna, e‐book ADAPT 34/2014
1) Per quanto riguarda il primo ambito di riforma, “nei paesi membri dell’Unione Europea, c’è stata la tendenza a riformare gli istituti che disciplinano le relazioni industriali e la contrattazione collettiva, e questo si è verificato in particolar modo in quei paesi maggiormente colpiti dalla crisi”14.
Ad esempio, “in Grecia, la legge 3899 introdotta nel 2010 autorizza le imprese (di ogni dimensione), che si trovino a fronteggiare condizioni economiche e finanziarie avverse, a concludere accordi collettivi che contengano condizioni meno favorevoli di quelle concordate negli accordi collettivi di settore. Queste modificazioni, così come altre riforme, inclusa la diminuzione dei salari minimi nel settore privato (…), erano parte del programma di salvataggio predisposto dalla Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo monetario Internazionale. (…)
In Slovacchia nel dicembre 2010 il Parlamento ha modificato la disciplina che regola l’estensione degli accordi collettivi anche alle parti non firmatarie: ad oggi, per tale applicabilità, è richiesto il consenso del datore di lavoro come condizione preliminare. Inoltre, in una proposta di emendamento al Codice del Lavoro si propone di introdurre delle limitazioni alla costituzione di sindacati, i quali per costituirsi dovrebbero dimostrare di rappresentare almeno il 30% della forza lavoro nell’azienda.
In Spagna, il Governo ha emesso, nel 2011, un decreto (Real decreto-ley 10 de junio 2011, n. 7, de medidas urgentes para la reforma de la negociación colectiva). Vi si stabilisce che, nei casi in cui, nei diversi livelli di contrattazione, si giunga a contenuti contrastanti, gli accordi presi a livello aziendale prevarranno sugli accordi di settore o di livello regionale.
2) La maggior parte dei Paesi dell’eurozona ha effettuato riforme in materia di tutela del lavoro accordata ai lavoratori a tempo indeterminato, principalmente modificando la disciplina dell’indennità dovuta in caso di licenziamento e quella dei termini di preavviso. In alcuni casi, è stata semplificata la disciplina dei licenziamenti individuali e/o collettivi.
In Estonia, una recente riforma ha ridotto l’ammontare dell’indennità di fine rapporto dovuta in caso di licenziamento individuale per ragioni economiche, portandola dall’equivalente di 2-4 mesi all’equivalente di 1 mese di retribuzione. Inoltre, sono stati
14 O.I.L., op. cit., 2012, 28, come sopra
aumentati i motivi per i quali il licenziamento è ritenuto giustificato. Inoltre, nei casi in cui il licenziamento è ingiustificato, non è più prevista la possibilità di reintegrazione. Infine, è stata abolita la necessaria autorizzazione da parte dell’ispettorato del lavoro, richiesta nei casi di licenziamenti collettivi per motivi economici, così come anche è stato abrogato il principio della priorità nelle riassunzioni a favore di lavoratori licenziati in una procedura di licenziamento collettivo.
In Grecia, ai sensi della legge 3863 del 2010, la durata del periodo di preavviso nei licenziamenti individuali è stato ridotto da 5 mesi a 3 mesi, ed è stato ridotto l’ammontare dell’indennità di fine rapporto per i “colletti bianchi”, che, inoltre, può ora essere liquidata in più rate. Secondo la nuova legislazione riformata, nelle aziende con meno di 20 lavoratori la disciplina del licenziamento collettivo si applica nel caso in cui i lavoratori in esubero siano sei o più, anziché in numero di quattro com’era prima della riforma. Per quanto riguarda le imprese con più di 150 dipendenti, la disciplina dei licenziamenti collettivi si applica ora qualora i lavoratori in esubero rappresentino più del 5% della forza lavoro (anziché solo il 2%, com’era prima della riforma). Infine, il periodo “cuscinetto” di tolleranza, trascorso il quale un contratto di lavoro a tempo determinato viene automaticamente considerato contratto a tempo indeterminato, è stato aumentato da 2 a 3 anni.
In Portogallo è stato modificato l’ammontare dell’indennità di licenziamento nei casi di licenziamenti collettivi ed individuali per motivi economici e per inidoneità sopravvenuta del lavoratore. È stato ridotto all’equivalente di 20 giorni di retribuzione, invece dei 30 giorni previsti prima della riforma. […]
In Spagna, le riforme del mercato del lavoro intervenute negli anni 2010 e 2012 hanno ampiamente modificato la disciplina che regolamenta sia i licenziamenti individuali sia i licenziamenti collettivi. Per quanto riguarda i licenziamenti individuali, la riforma ha dimezzato il periodo di preavviso nel caso di licenziamento per motivi oggettivi, che è stato portato da 30 a 15 giorni. Nel caso di licenziamento individuale illegittimo, al dipendente non è più riconosciuto il diritto di percepire la retribuzione maturata nel corso della procedura di licenziamento. Il risarcimento dovuto nel caso di licenziamento individuale illegittimo è stato ridotto dall’equivalente di 45 giorni di retribuzione per ogni anno di anzianità lavorativa, all’equivalente di 33 giorni. Infine, nei casi di
licenziamenti collettivi, la durata del periodo predisposto per la fase di consultazione tra il datore di lavoro ed i rappresentanti dei lavoratori è stato portato ad un massimo di 30 giorni (per le imprese con più di 50 dipendenti), e di 15 giorni nelle imprese di dimensioni più piccole. Questi stessi parametri costituivano invece, prima della riforma, il periodo minimo disposto per fase di consultazione.
3) Alcuni Stati hanno rinforzato la disciplina di protezione in caso di licenziamento. Come esempi di provvedimenti rientranti in questo campo operativo si vedano i seguenti casi.
In Francia, nel caso in cui ad un lavoratore, che sia stato licenziato in una procedura di licenziamento collettivo per motivi economici, venga offerto un nuovo impiego all’estero, il datore di lavoro è ora legalmente obbligato ad offrire una retribuzione simile a quella riconosciuta per lo stesso inquadramento in Francia.
In Belgio, è stato rinforzato l’obbligo di informare gli uffici preposti nei casi di licenziamenti collettivi.
In Slovacchia, all’European Works Council è stato riconosciuto il diritto di richiedere un confronto con il datore di lavoro nei casi di licenziamento collettivo”15.
1.3. LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA
Il cammino delle riforme del mercato del lavoro in Italia è lungo e risalente nel tempo16. La riforma del mercato del lavoro sembra essere una costante nelle politiche del Paese; così, a partire dal 2003, con la riforma Biagi, che ha introdotto nell’ordinamento giuslavoristico nuove tipologie contrattuali nell’intento di fornire istituti utili per far emergere il lavoro nero e far, così, condurre rapporti di lavoro, svolti fino ad allora solo
15 O.I.L., op. cit., 2012, 28‐29, come sopra
16 Con funzione di input verso una riforma strutturale del diritto del lavoro, specie nel senso di una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro o flexsecurity” si vedano il cosiddetto “Rapporto Supiot” (“Transformation of labour and future of labour law in Europe”) del giugno 1998; ed il libro verde della Commissione europea del 22 novembre 2006 dal titolo “Modernizzare il diritto del lavoro per affrontare le sfide del XXI secolo” COM 2006 (708), sulla modernizzazione del diritto del lavoro.
Si vedano in particolare i punti 697, 713, 755.
Sulla modernizzazione del diritto del lavoro osservazioni in PERULLI A. “Le parole chiave della riforma del mercato del lavoro”, in La riforma del mercato del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2014, p. 11 sg
di fatto, nel rispetto invece delle garanzie approntate dall’ordinamento e per dotare il mercato del lavoro di una qualche misura di flessibilità.
Volendo qui limitare il campo di indagine agli anni più recenti, la riforma del mercato del lavoro è avvenuta, a partire dal 2012, ad opera di tre interventi normativi17.
1) Il primo è costituito dalla legge 28 giugno 2012 n. 92 (cosiddetta “riforma Fornero”, dal nome del ministro del lavoro del Governo Xxxxx, governo “tecnico” in carica dal 16/11/2011 al 28/04/2013)18, rubricata “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” e le successive, alcune immediate, modificazioni: il cosiddetto decreto “sviluppo”, decreto legge 83/2012 convertito nella legge 134/2012 (che ha subito modificato alcune disposizioni della riforma, ad esempio prevedendo l’applicazione automatica, nei lavori stagionali, degli intervalli ridotti tra contratti a termine successivi, o ancora prevedendo la possibilità che la contrattazione collettiva introduca deroghe, anche ulteriori a quelle previste dall’art. 1 c. 9 lett. h) o assicurando, all’art. 46 bis, che è possibile l’utilizzazione di apprendisti in somministrazione); e la legge di stabilità 2013, legge 228/2012.
2) il secondo intervento di riforma è dato dal decreto legge 76/2013 “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di imposta sul valore aggiunto ed altre misure finanziarie urgenti” convertito nella legge 9 agosto 2013 n. 99 (cosiddetta “riforma Xxxxxxxxxx”, dal nome del ministro del lavoro del Governo Xxxxx, governo in carica dal 28/04/2013 al 22/02/2014)19.
17 PIZZOFERRATO A., Il percorso di riforme del diritto del lavoro nell’attuale contesto economico, in ADL, 1/2015
18 Un primo commento ed osservazioni critiche in RAUSEI P., XXXXXXXXXX M., a cura di, Lavoro: una riforma a metà del guado, e‐book ADAPT 1/2012; e in Lavoro: una riforma sbagliata, e‐book ADAPT 2/2012
19 un primo commento in TIRABOSCHI M., a cura di, Interventi urgenti per le promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale, e‐book ADAPT, 10/2013
3) Il terzo intervento di riforma, cosiddetto “Jobs Act”20 (Governo Xxxxx, in carica dal 22/02/2014), si sostanzia in una produzione normativa articolata, che vede, in una prima fase, l’emanazione “d’urgenza”, in considerazione della sempre pressante condizione di crisi economica e dei livelli occupazionali, di un primo atto normativo, il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 (cosiddetto decreto “Poletti”, dal nome del ministro del lavoro del Governo Xxxxx), rubricato “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”, convertito, con modifiche, nella legge 16 maggio 2014 n. 78; e che vede poi, in una seconda fase, un intervento di riforma del mercato del lavoro che si vuole invece negli intenti “strutturale”, costituito dalla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 rubricata “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, cui sono seguiti, nel corso del 2015, otto relativi decreti attuativi.
1.3.1. LA RIFORMA FORNERO (legge 28 giugno 2012 n.92)
La riforma “Fornero” del mercato del lavoro è intervenuta in diversi ambiti: dalla disciplina del licenziamento (la cosiddetta flessibilità in uscita), alle forme contrattuali (la cosiddetta flessibilità in entrata), agli ammortizzatori sociali ed alle politiche attive per l’impiego.
Anche tale riforma intervenuta nell’ordinamento giuslavoristico italiano è, in qualche misura, frutto delle sollecitazioni di provenienza sovranazionale21.
20 Una rassegna della composita riforma in TIRABOSCHI M., a cura di, Jobs Act – Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il sistema delle tutele, e‐boobk ADAPT 21/2014; Decreto legge 20 marzo 2014, n.34. disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese – Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, e‐book ADAPT 22/2014; Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme del lavoro, e‐book ADAPT 25/2014; CARINCI F., XXXXX GRANDI G., a cura di, La politica del lavoro del governo Xxxxx – Atto I, e‐book ADAPT 30/2014; CARINCI F., a cura di, La politica del lavoro del governo Xxxxx – Xxxx XX; CARINCI F., XXXXXXXXXX M., a cura di, I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni, e‐book ADAPT 37/2015; TIRABOSCHI M., Prima lettura dl decreto legislativo n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, e‐book ADAPT 45/2015
21 Si veda ad esempio, la comunicazione del commissario Xxxx Xxxx.
Nel novembre del 2011, il commissario europeo Xxxx Xxxx, in risposta alla comunicazione resa da parte del Governo italiano sugli interventi in agenda, chiese, in un messaggio
In data 5 agosto 2011 il presidente della Banca Centrale Europea Xxxx-Xxxxxx Xxxxxxx ed il presidente in pectore Xxxxx Xxxxxx, con un messaggio al Governo italiano raccomandarono allo stesso l’adozione di una serie di misure atte a ristabilire la fiducia degli investitori, e con questo sostenere l’imprenditoria e quindi l’occupabilità in Italia. Tale “messaggio” prende le mosse dalla solenne presa d’impegno, da parte di tutti i Paesi dell’Euro, all’occasione del vertice dei capi di stato e di Governo dell’area-euro del 21 luglio 2011, “to honour fully their own individual sovereign signature and all their commitments to sustainable fiscal conditions and structural reforms”, ed evidenzia come, a giudizio del Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea, le misure già decise dal governo italiano (ad esempio l’obiettivo del pareggio di bilancio al 2014) non fossero sufficienti sottolineando che “Italy needs to urgent under pin the stand of its sovereign signature and its commitmet to fiscal sustainability and structural reforms”.
articolato in 39 punti riguardanti diversi ambiti (fiscale, politiche del lavoro, politica economica), di esplicitare come il Governo italiano intendesse realizzare tali dichiarati interventi. Cinque delle 39 domande poste dal Commissario erano inerenti ai prospettati interventi nel mercato del lavoro, e qui di seguito si riportano:
17.Quali misure concrete sta prendendo in considerazione il governo per promuovere l’occupazione dei giovani e l’occupazione femminile? Il governo sta prendendo in considerazione di intervenire nell’ambito degli accordi e dei contratti esistenti o sta programmando di introdurne di nuovi? In questo caso, che tipo di accordi e contratti prevede di introdurre?
18.Come funzionerà il “credito fiscale per le imprese che offrono lavoro nelle aree più svantaggiate”? Quali aziende ne avrebbero diritto? Si tratterebbe di una misura temporanea o permanente?
19.Per quanto riguarda le previste “nuove norme di licenziamento per ragioni economiche nei contratti di assunzione a tempo indefinito”, interesserebbero la legge che dispone licenziamenti individuali o collettivi? Quali parti della legge il governo sta pensando di rivedere e correggere, e in quale modo? In quali modi concreti la nuova legislazione contribuirà ad affrontare la segmentazione del mondo del lavoro tra lavoratori a tempo indefinito protetti e lavoratori precari? E a questo proposito, esistono piani volti a ridurre l’alto numero (46) delle tipologie di contratto di lavoro oggi esistenti?
00.Xx prevista applicazione di condizioni più rigide nell’uso di contratti parasubordinati implica cambiamenti dei tassi di contribuzione all’assistenza sanitaria‐sociale o anche alle leggi sul lavoro? Se si prevedono cambiamenti anche in questi ultimi, saranno graditi ulteriori dettagli sulle revisioni specifiche che il governo intende introdurre.
21.Nella dichiarazione del summit dei paesi dell’euro del 26 ottobre 2011 si parla espressamente di “impegno […] a rivedere il sistema dei sussidi di disoccupazione oggi molto frammentario entro la fine del 2011, prendendo in considerazione i vincoli di budget”, ma di questo non si fa parola nella lettera. Xxxxx intenzioni ha dunque il governo italiano a questo proposito?
Leggendo in un quadro sinottico il contenuto della lettera proveniente dalla Banca centrale Europea ed il contenuto della riforma “Fornero” del lavoro - e di altre, ad esempio quella, di poco precedente, sulle pensioni, o la cosiddetta “manovra economica bis 2011” (decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 convertito in legge 14 settembre 2011,
n. 148, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, che interviene prevedendo misure urgenti a sostegno della crescita e dell’occupazione, come, ad esempio: il sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità, la modifica del regime delle compensazioni in materia di collocamento obbligatorio, la ridefinizione della disciplina dei tirocini formativi e di orientamento) - emerge evidente il parallelismo tra l’uno e l’altro, quasi fosse stato, quest’ultimo, redatto in sostanziale aderenza al primo.
In tale messaggio, il Consiglio direttivo della BCE suggerisce l’opportunità che il Governo italiano adotti, ed il prima possibile, quindi anche con decreto legge (provvedimento d’urgenza, il cui uso è legittimato dalla gravità della condizione in cui versa il Paese), provvedimenti al fine di accrescere il potenziale di crescita, da un lato, e per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche, dall’altro.
Per quest’ultimo obiettivo il messaggio della BCE caldeggia l’adozione di ulteriori misure di correzione del bilancio, nell’ottica di conseguire un minor deficit ed un bilancio in pareggio già nel 2013 (e quindi con un anno di anticipo rispetto al preventivato 2014). Lo strumento per realizzare tali obiettivi è il contenimento della spesa pubblica, anche con tagli di spesa. Suggerisce poi la possibilità di intervenire nel sistema pensionistico e sollecita una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego da realizzare, se necessario, anche tramite la riduzione degli stipendi.
Per quanto riguarda il raggiungimento del primo obiettivo (“to enhance potential growth”), il messaggio esplicita di ritenere “essenziali” alcune misure, prospettate come utili al raggiungimento degli obiettivi strategici: di aumento della concorrenza (in particolare nel settore dei servizi, al fine di migliorarne la qualità); e di definizione di un sistema regolativo e fiscale maggiormente rispondente ed atto a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro.
Tali misure sono tutte sotto il segno della “riforma”.
a) Il messaggio è esplicito nel dichiarare come sia necessaria una “comprehensive, far- reaching and credible reform strategy”, e raccomanda la realizzazione di una piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali (anche per mezzo di privatizzazioni di larga scala) e delle professioni.
b) Prosegue poi enunciando la necessità di riforme ulteriori del sistema di contrattazione collettiva in ambito salariale (“there is also need to further reform the collective wage bargaining system”), in modo che venga così agevolata la stipula di accordi a livello aziendale, accordi con cui adattare alle esigenze di ogni singola impresa la corresponsione di emolumenti retributivi (si pensi, ad esempio, ai premi di produzione) e le condizioni di lavoro. Il messaggio raccomanda poi che tali accordi dovrebbero essere preminenti rispetto agli accordi presi ad altri livelli di contrattazione (“increasing their relevance with respect to other layers of negotiation”) e cita, come esempio su cui continuare, l’accordo interconfederale di riforma della contrattazione collettiva, siglato dalle parti sociali (Confindustria, CGIL CISL e UIL) il 28 giugno 2011.
c) La terza delle misure ritenute, nel messaggio, essenziali al fine di rafforzare la crescita consiste in una riforma delle norme che regolano l’assunzione ed il licenziamento dei dipendenti, in parallelo con la predisposizione di un apparato di previdenza sociale che sostenga il reddito al verificarsi dello stato di disoccupazione così come anche raccomanda la predisposizione di un insieme di politiche attive del lavoro, in grado di facilitare la riallocazione, nei settori e nelle aziende più competitivi22, delle persone in cerca di occupazione.
Nell’ordinamento giuslavoristico italiano queste raccomandazioni sovranazionali sono state raccolte dalla cosiddetta legge Fornero di riforma del mercato del lavoro.
Coerentemente con la dichiarazione programmatica23 pronunciata dal Presidente del
22 messaggio BCE tradotto da chi scrive
23 Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione.
Le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere più equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale e anche di facilitare la crescita della produttività, tenendo conto dell’eterogeneità che contraddistingue in particolare l’economia italiana. In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere.
Intendiamo perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso
Consiglio Xxxxx Xxxxx e resa al Senato il 17 novembre 2011 in occasione della presentazione del Governo alle Camere per il voto di fiducia (dichiarazione in cui, tra l’altro, si tiene a precisare come gli interventi necessari di riforma del mercato del lavoro fossero da tempo noti ed ancor prima che venissero sollecitati dagli osservatori sovranazionali24), nella premessa al disegno di legge governativo di riforma del mercato
i luoghi di lavoro, come ci viene chiesto dalle autorità europee e come già le parti sociali hanno iniziato a fare, che va accompagnato da una disciplina coerente del sostegno alle persone senza impiego volta a facilitare la mobilità e il reinserimento nel mercato del lavoro, superando l’attuale segmentazione. Più mobilità tra impresa e settori è condizione essenziale per assecondare la trasformazione dell’economia italiana e sospingerne la crescita.
È necessario colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi. Tenendo conto dei vincoli di bilancio occorre avviare una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta a garantire a ogni lavoratore che non sarà privo di copertura rispetto ai rischi di perdita temporanea del posto di lavoro. Abbiamo da affrontare una crisi, abbiamo da affrontare delle trasformazioni strutturali, ma è nostro dovere cercare di evitare le angosce che accompagnano questi processi.
È necessario, infine, mantenere una pressione costante nell’azione di contrasto e di prevenzione del lavoro sommerso. Uno dei fattori che distinguono l’Italia nel contesto europeo è la maggiore difficoltà di inserimento o di permanenza in condizioni di occupazione delle donne. Assicurare la piena inclusione delle donne in ogni ambito della vita lavorativa ma anche sociale e civile del Paese è una questione indifferibile.
È necessario affrontare le questioni che riguardano la conciliazione della vita familiare con il lavoro, la promozione della natalità e la condivisione delle responsabilità legate alla maternità da parte di entrambi i genitori, nonché studiare l’opportunità di una tassazione preferenziale per le donne.
C’è poi un problema legato all’invecchiamento della popolazione che si traduce in oneri crescenti per le famiglie; andrà quindi prestata attenzioni ai servizi di cura agli anziani, oggi una preoccupazione sempre più urgente nelle famiglie in un momento in cui affrontano difficoltà crescenti.
Infine un’attenzione particolare andrà assicurata alle prospettive per i giovani; dico “infine” nel senso di finalità di tutta la nostra azione. Questa sarà una delle priorità di azione di questo Governo, nella convinzione che ciò che restringe le opportunità per i giovani si traduce poi in minori opportunità di crescita e di mobilità sociale per l’intero Paese. Dobbiamo porci l’obiettivo di eliminare tutti quei vincoli che oggi impediscono ai giovani di strutturare le proprie potenzialità in base al merito individuale indipendentemente dalla situazione sociale di partenza. Per questo ritengo importante inserire nell’azione di Governo misure che valorizzino le capacità individuali e eliminino ogni forma di cooptazione. L’Italia ha bisogno di investire sui suoi talenti; deve essere lei orgogliosa dei suoi talenti e non trasformarsi in un’entità di cui i suoi talenti non sempre sono orgogliosi. Per questo la mobilità è la nostra migliore alleata, mobilità sociale ma anche geografica, non solo all’interno del nostro Paese ma anche e soprattutto nel più ampio orizzonte del mercato del lavoro europeo e globale
24 Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori
del lavoro si legge: “La riforma si propone di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile ed inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi.
Gli interventi prefigurati si propongono di: 1) ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego, riconducendo nell’alveo di usi propri i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e adeguando la disciplina del licenziamento individuale per alcuni specifici motivi oggettivi alle esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento; 2) rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive a contorno; 3) rendere premiante l’instaurazione di rapporto di lavoro più stabili; 4) contrastare usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti”.
Di seguito il Governo dichiara di “presentare la riforma nell’interesse complessivo del Paese, per il funzionamento del mercato del lavoro, lo sviluppo e la competitività delle imprese, la tutela dell’occupazione e dell’occupabilità dei suoi cittadini” e comunica che “sarà previsto l’immediato avvio di un adeguato sistema di monitoraggio e valutazione” allo scopo di “monitorare lo stato di attuazione della riforma e per valutare gli effetti delle sue singole componenti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità di uscita e di entrata”.
Il disegno di legge si articolava ed interveniva in macro aree:
1) tipologie contrattuali;
centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c’è nessuna originalità europea nell’aver individuato ciò che l’Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita.
Non vediamo i vincoli europei come imposizioni. Anzitutto, permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare spesso, che non c’è un “loro” e un “noi”. L’Europa siamo noi! E sono per lo più, quelli che poi ci vengono, in un turbinio di messaggi, di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee, provvedimenti volti a rendere meno ingessata l’economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l’efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese
2) disciplina sulla flessibilità in uscita e tutele del lavoratore (revisione della disciplina in tema di licenziamenti individuali e rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento);
3) ammortizzatori sociali (ASpI, mini ASpI, CIGS…);
4) estensione delle tutele in costanza di rapporto di lavoro (previsione di fondi di solidarietà bilaterali per la tutela in costanza di rapporto di lavoro per i settori non coperti dagli interventi di integrazione salariale; fondi interprofessionali per la formazione continua; messa a regime della CiGS per alcuni settori;
5) protezione dei lavoratori anziani;
6) interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica (tutela della maternità e paternità e contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco);
7) efficace attuazione del diritto al lavoro dei disabili;
8) interventi volti al contrasto del lavoro irregolare degli immigrati;
9) politiche attive e servizi per l’impiego.
La legge di riforma poi approvata con voto di fiducia (legge 28 giugno 2012, n. 92) 25 si compone invece di quattro articoli:
1) tipologie contrattuali e disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore (art. 1);
2) ammortizzatori sociali (art. 2);
3) tutele in costanza di rapporto di lavoro (art. 3);
4) ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro (art. 4).
L’articolo 1 c. 1 della legge n. 92/2012 ribadisce l’intenzione di “disporre misure ed interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione (…)”, ed individua a tal fine le seguenti misure:
25 per un’analisi d’insieme delle riforma Fornero nella sua interezza, si vedano: XXXXXX P. (a cura di) Flessibilità e tutele nel lavoro – commentario della legge 28 giugno 2012 n. 92, Xxxxxxx, 2013; XXXXXXX M., XXXXXXX G., XXXXXXXX O., (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro – dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Xxxxxxxxxxxx, 2013; CARINCI F., MISCIONE M. (a cura di) Commentario alla riforma Fornero(legge n. 92/2012 e 134/2012), supplemento a Diritto e pratica del lavoro n. 33 del 15 settembre 2012; MAGNANI M., XXXXXXXXXX M. (a cura di), La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Xxxxxxx, 2012; XXXXXXXXX G., (a cura di), Riforma del lavoro, Xxxxxxx, 2012
a) favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadire il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro,
b) valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro;
c) ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego, da un lato contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali26; dall’altro adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie;
d) rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in un prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone;
e) contrastando usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti;
f) promuovendo una maggiore inclusione delle donne nella vita economica;
g) favorendo nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro;
h) promuovendo modalità partecipative di relazioni industriali in conformità agli indirizzi assunti in sede europea, al fine di migliorare il processo competitivo delle imprese.
La legge 92/2012 è stata fin da subito oggetto di modifiche ad opera di decreti successivi. Addirittura l’impegno alla successiva modifica era stato posto dalle forze politiche quale condizione per l’approvazione del disegno di legge su cui era stata posta dal Governo la questione di fiducia. La stagione delle riforme si profila così fin da subito come non avere fine, in un susseguirsi di aggiustamenti successivi, per cui la scrittura della riforma del diritto del lavoro è un continuo divenire.
26 Il riferimento è al cosiddetto “pacchetto Treu” del 1997 ed alla cosiddetta “legge Biagi” del 2003
1.3.2. LA RIFORMA XXXXXXXXXX (il “decreto lavoro”, d.l. 76/2013,convertito in l. 99/2013)
La stagione delle riforme si profila così fin da subito come non avere fine, in un susseguirsi di aggiustamenti successivi, per cui la scrittura della riforma del diritto del lavoro è un continuo divenire.
A circa un anno dalla riforma Fornero, è difatti poi intervenuto il cosiddetto “decreto Lavoro”: il decreto legge 28 giugno 2013 n. 76, intitolato “primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale (…)” convertito nella legge 9 agosto 2013 n. 9927. Vi si prevedono novità in materia di lavoro, come, ad esempio: incentivi per le assunzioni di lavoratori giovani; ulteriori modifiche alla disciplina dell’apprendistato; misure in materia di tirocini; sul contratto a termine, riguardo al contratto intermittente e le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e sul lavoro accessorio.
Il rapporto sul mondo del lavoro 201328 richiama l’attenzione su come sia importante ristabilire il tessuto economico e sociale. Suggerisce che “l’Italia potrebbe concentrarsi meno sul risanamento fiscale e sulla riduzione dei cosi unitari della manodopera per porre l’accento su misure a sostegno dell’investimento e dell’innovazione: stimolare l’investimento nell’economia reale; (…) monitorare le forme atipiche di occupazione e garantire un maggiore sostegno ai programmi attivi del mercato dl lavoro (…) applicando in modo efficace il programma europeo di “Garanzia per i Giovani”.
Questo rapporto pone anche l’accento su come “i lavoratori giovani non devono prendere il posto di quelli più anziani: qualora si considerino le precedenti proposte di condivisione del lavoro tra lavoratori giovani e anziani, è importante notare che i giovani non devono prendere il posto degli adulti nel mercato del lavoro. Infatti, il contatto con i lavoratori più sperimentati attraverso il tutoraggio può fornire consigli, istruire alle buone pratiche sul luogo di lavoro, aiutare a dissipare i malintesi riguardo ai
27 Per un’analisi d’insieme del “decreto lavoro” nella sua interezza si vedano: PERSIANI M., XXXXXXX S., (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, UTET 2013; XXXXX XXXXXX G., XXXXXXXX E., (a cura di), dal decreto legge n. 76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”: schede di sintesi, ADAPT ebook 15/2013; TIRABOSCHI M., (a cura di), Il lavoro riformato, Xxxxxxx, 2013; XXXXXXX F., (a cura di), la politica del lavoro del Governo Xxxxx. Atti del X seminariodi Bertinoro‐Bologna del 23‐24 ottobre 2014,(parte prima), ADAPT ebook 40/2015
28 O.I.L., World of Work 2013
giovani. Tuttavia, il Governo dovrebbe considerare altri mezzi per sostenere l’occupazione giovanile, come ad esempio: il sistema di garanzia per mantenere i giovani dentro il mercato del lavoro; incentivi all’assunzioni di giovani più svantaggiati (disoccupati di lunga durata o giovani poco qualificati) borse di formazione e sforzi per migliorare la corrispondenza delle competenze (skills-matching)”.
Il succitato provvedimento del 28 giugno 2013, d.l. n.76, (decreto “lavoro”), sembra muoversi in questa direzione, prevedendo all’art. 1 “misure straordinarie per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e della coesione sociale”. Ad esempio, tra le altre misure, dispone anche che venga riconosciuto un incentivo all’assunzione di massimo 650 euro al mese a quei datori di lavoro (anche non imprenditori) che assumano giovani lavoratori con contratti di lavoro subordinato e a tempo indeterminato. Affinché i datori possano fruire dell’incentivo, i lavoratori da assumere dovranno soddisfare peculiari requisiti soggettivi29: essere privi di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; essere privi di un diploma di scuola media superiore o professionale; vivere soli con una o più persone a carico (quest’ultimo requisito previsto nel solo decreto, trattandosi di requisito non mantenuto in sede di conversione in legge).
Questa norma ha suscitato perplessità: una siffatta previsione sembrerebbe infatti non premiare il merito ed invece beffardamente favorire chi, ad esempio, non ha studiato, anziché riconoscere agevolazioni all’assunzione di soggetti che si sono fatti carico dell’onere di procurarsi una qualche formazione. Una lettura più attenta può, tuttavia,
29 Tali requisiti ricalcano la definizione di “lavoratore svantaggiato” (ex regolamento comunitario Ce n. 800/2008, art. 40 e ex D.M. 20/03/2013 , art 1: “(…) sono lavoratori svantaggiati: a) chi non ha un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, ovvero coloro che negli ultimi sei mesi non hanno prestato attività lavorativa riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato della durata di almeno sei mesi, ovvero coloro che negli ultimi sei mesi hanno svolto attività lavorativa in forma autonoma o parasubordinata dalla quale derivi un reddito inferiore al reddito annuale minimo annuale escluso da imposizione; b) che non possiede un diploma di scuola media superiore o professionale (Isced 3) ovvero coloro che non abbiano conseguito un titolo di studio di istruzione secondaria superiore , rientrante nel livelli terzo della classificazione internazionale sui livelli di istruzione; c) chi è occupato in uno dei settori economici dove c’è un tasso di disparità uomo‐donna che supera di almeno il 25% la disparità media uomo‐donna in tutti i settori economici italiani, ovvero coloro che sono occupati in settori economici in cui sia riscontrato il richiamato differenziale nella misura di almeno il 25%, come annualmente individuati dalla rilevazione continua sulle forze di lavoro dell’Istat e appartengono al genere sottorappresentato”.
suggerire che il fine che tale norma vuole conseguire più che occupazionale è sociale, e cioè: il mantenimento dell’ordine pubblico ed il contenimento dei motivi di disordine sociale; scopo che è a sua volta strumentale per evitare i disordini che potrebbero (forse più facilmente) conseguire allo stato di non occupazione di tali persone non istruite e non formate, e quindi per tenere, così, coeso il tessuto sociale, come nelle raccomandazioni dell’O.I.L..
1.3.3. IL “JOBS ACT”
Il cammino della riforma del mercato del lavoro è poi proseguito sulla strada delle riforme con il cosiddetto “Jobs Act”30, un provvedimento legislativo composito ed articolato temporalmente in due fasi31: la prima, scritta nell’emergenza e dettata dall’urgenza di porre rimedio alla disoccupazione, consiste nel decreto legge cosiddetto “Poletti”, d.l. 20 marzo 2014 n. 34 convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014 n. 78, con cui sono state apportate modifiche alla disciplina del contratto a termine e del contratto di apprendistato32; la seconda, consiste in una legge delega il cui disegno di legge33 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 marzo 2014: la legge delega
n. 183 del 10 dicembre 2014, pubblicata in gazzetta Ufficiale il 15 dicembre 2015 ed entrata in vigore il 16 dicembre 2015, rubricata “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro”. Essa delega
30 per un’analisi d’insieme del “Jobs Act” si vedano: XXXXX XXXXXX G., XXXXX M., (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, CEDAM Xxxxxxx Xxxxxx, 2016; TIRABOSCHI M., (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act,Xxxxxxx, 2016
31 “quattro” fasi sono individuate in ZILIO GRANDI G. , XXXXX M., Commentario breve alla riforma Jobs Act, 2015
32 In particolare sul decreto legge 20 marzo 2014 n. 34, si vedano: TIRABOSCHI M., (a cura di), Jobs Act – Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il sistema delle tutele, Jobs Act – Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro ed il sistema delle tutele, ADAPT ebook 21/2014; Decreto‐ legge 20 marzo 2014, n. 34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese – Prime interpretazioni e valutazioni di sistema, ADAPT ebook 22/2014; CARINCI F., XXXXX GRANDI G., (a cura di) La politica del lavoro del Governo Xxxxx – Atto I, ADAPT ebook 30/2014
33 per un commento del disegno di legge (atto Senato 1428, poi atto Camera 2660), si veda: CARINCI F., (a cura di), La politica del lavoro del Governo Xxxxx‐ Atto I , ADAPT ebook 30/2014
il Governo ad emanare decreti per la riforma di cinque ambiti del diritto del lavoro: gli ammortizzatori sociali (in costanza e post cessazione del rapporto di lavoro), i servizi per il lavoro e le politiche attive, la semplificazione degli adempimenti per la gestione dei rapporti di lavoro, il riordino delle tipologie dei contratti e dei rapporti di lavoro, le revisione e l’aggiornamento delle misure per la tutela della maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
In attuazione della delega legislativa, nel corso del 2015 (e in tre tranches), sono stati emanati otto decreti legislativi.
A)I primi due sono stati entrambi emanati in data 4 marzo 2015, pubblicati in G.U. il 6 marzo e sono entrati in vigore il 7 marzo 2015. 1) Il primo, il d. lgs. 22/2015, è intitolato e si occupa di disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e ricollocazione dei lavoratori disoccupati, istituisce il nuovo regime di tutela della NASPI. 2) Il secondo, d. lgs. 23/2015, è intitolato “disposizioni in merito di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”; nonostante il titolo, che appare per questo fuorviante, tale decreto non istituisce una nuova tipologia contrattuale, né, a ben vedere, nemmeno si occupa di disciplinare in generale in materia di contratto a tempo indeterminato, limitandosi piuttosto a ridisegnare la nuova disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo. L’effetto di tale decreto è quello di aver creato un sistema binario in materia di licenziamento illegittimo (sia individuale che collettivo, e per quest’ultimo tipo di licenziamento si pone anche l’ulteriore criticità data da un ravvisabile eccesso di delega, in quanto nella legge delega non vi era alcun espresso richiamo ai licenziamenti collettivi), prescrivendo un regime sanzionatorio peculiarmente applicabile ai licenziamenti illegittimi per tramite dei quali venisse posta fine ai contratti di lavoro subordinato sorti dal 7 marzo 2015 in poi (o convertiti in contratto a tempo indeterminato dalla stessa data), come anche a tutti quei rapporti di lavoro, anche precedenti a tale data, se, per effetto di nuove assunzioni, venga superata la soglia occupazionale dei quindici dipendenti. A seconda quindi del momento in cui è avvenuta l’assunzione (se prima o dopo il 7 marzo 2015), la sanzione prevista dall’ordinamento giuslavoristico in caso di recesso datoriale illegittimamente esercitato (e cioè in assenza dei necessari presupposti di giustificatezza), e limitatamente alle aziende con più di 15
dipendenti, sarà: nel primo caso, quella prevista ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla riforma Fornero; nel secondo, il regime delle cosiddette “tutele crescenti”, in cui l’indennità in denaro, unico rimedio risarcitorio praticabile, sussistendo ora la tutela reale per i soli licenziamenti che siano anche discriminatori, aumenta in funzione dell’anzianità di servizio.
B) In una seconda tranche vengono emanati altri due decreti attuativi. Entrambi emanati in data 15 giugno 2015, pubblicati in G.U. il 24 giugno sono entrati in vigore il 25 giugno 2015. Si tratta del d. lgs. 80/2015 e del d. lgs. 81/2015.
3) Il d. lgs. 80/2015 si intitola “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014 n. 183”. In esso vengono dettate le nuove disposizioni in materia di tutela della maternità e di congedi. 4) Il d. lgs. 81/2015 attua la delega per il riordino delle tipologie contrattuali ed è intitolato “disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014 n. 183”34. In esso è raccolta in modo sistematico (anche per effetto delle numerose abrogazioni dallo stesso disposte) la disciplina dei contratti di lavoro, come anche la nuova disciplina in tema di mansioni. Questo decreto viene appellato anche “codice dei contratti”, proprio per l’ambizione che lo ha animato e che esso ha realizzato di voler raccogliere e contenere in un unico atto normativo la disciplina di tutte le tipologie contrattuali di lavoro, fino ad allora parcellizzata in molteplici disposizioni di legge.
C) La terza ed ultima tranche di emanazione dei decreti legislativi si è avuta nel settembre 2015 e con essa il legislatore ha dato piena attuazione alle disposizioni della legge delega 183/2014. Gli ultimi quattro decreti attuativi (n. 148, n. 149, n. 150, n.151) sono stati emanati in data 14 settembre 2015, pubblicati in G. U. il 23 settembre 2015 e sono entrati in vigore il 24 settembre 2015.
5) Il d. lgs. 148/2015 contiene il riordino della normativa relativa agli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, contratti di solidarietà e fondi di solidarietà bilaterali).
34 per un’analisi si veda TIRABOSCHI M., Prima lettura del decreto legislativo 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, ADAPT ebook 45/2015
6) Il d. lgs. 149/2015 attua la delega legislativa relativa all’attività ispettiva, prevedendone la riorganizzazione in materia di lavoro legislazione sociale, di contribuzione, previdenza e assistenza, e prevenzione e protezione sui luoghi di lavoro.
7) Il d. lgs. 150/2015, in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive attua la delega ex art. 1 commi 3, 4 e 11 della l. 183/2015. Prevede, al capo I, l’istituzione di una Rete Nazionale dei servizi per le politiche attive del lavoro, che andrà coordinata dall’(istituendo, poi istituita) Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro; al capo II, la ridefinizione degli strumenti di sostegno al reddito; e degli incentivi all’occupazione (capo III). In questo è rimessa la realizzazione della componente di “sicurezza” (nel mercato del lavoro italiano) della flexsecurity.
8) Il d. lgs. 151/2015, detto decreto “semplificazioni”, ha contenuto variegato, dispone il riordino e la semplificazione di diversi istituti giuslavoristici. Vi si dispongono le nuove regole in materia di controlli a distanza dei lavoratori, anche in considerazione delle nuove tecnologie; le nuove regole per il collocamenti mirato dei disabili; la nuova procedura, telematica, per la convalida delle dimissioni da parte del lavoratore, al fine di arginare il fenomeno delle dimissioni in bianco; esso innova il sistema sanzionatorio in caso di lavoro nero o irregolare; dispone, con intento di semplificare gli adempimenti amministrativi a carico del datore di lavoro, l’abrogazione del registro infortuni.
Per quanto qui più attiene, si porrà attenzione alla delega per il riordino delle tipologie contrattuali, e al decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, recentemente entrato in vigore il 25 giugno 2015.
Alla fine di tale girandola di riforme, la varietà delle tipologie contrattuali sembrerebbe rimanere ancora pressocché intatta, essendosi avuta la sola abrogazione del contratto di inserimento (ad opera della riforma Fornero); del contratto di lavoro ripartito (ad opera del Jobs Act), contratto che comunque pare vivere di vita propria nonostante l’intervenuta abrogazione legislativa, redivivo, e forse mai morto, nella contrattazione collettiva35 e nella prassi ministeriale (circolare del Ministero del Lavoro 7 aprile 1998
n. 43); dell’associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro in capo a persone fisiche (Jobs Act), abrogazione che di fatto è facilmente aggirabile tramite la fictio della
35 XXXXXXXXX X., in TIRABOSCHI M., a cura di, Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Xxxxxxx, 2016, 153
costituzione di società unipersonali; e del lavoro a progetto (Jobs Act), al quale si dovrà applicare, se non etero-organizzato, la disciplina del lavoro subordinato.
Il “disboscamento” delle tipologie contrattuali che pure l’ultimo intervento di riforma si proponeva di realizzare non si è verificato; tuttavia parrebbe che ci si sia avvicinati a quel contratto “unico”36 di cui tanto si dibattuto in dottrina37, e, questo, forse più per effetto delle riforma della disciplina sanzionatoria dei licenziamento illegittimi (ad opera della riforma Fornero, in un primo tempo; e del Jobs Act d. lgs. 23/2015, poi) che per le riforme delle tipologie contrattuali38.
1.3.4. OGNI RIFORMA, UNA DOTE
Ogni intervento di riforma è stato affiancato dalla predisposizione di incentivi atti ad agevolarne la messa in pratica. L’intento è stato per ciascuna riforma quello di sostenere le imprese in un periodo di persistente crisi economica e finanziaria, incentivandole ad assumere, e a farlo con le tipologie contrattuali più “stabili” (contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato), così convogliando il più possibile l’utilizzo delle tipologie contrattuali da parte delle imprese verso la forma del contratto a tempo indeterminato, visto ancora come il paradigma preferibile, e tentando di limitare l’utilizzo delle tipologie di lavoro flessibile a quei casi in cui sia genuino il ricorso ad esse, al fine di contrastare ed eliminare ogni forma di utilizzo abusivo e distorto delle forme contrattuali flessibili (o precarie).
1) La legge Fornero (art. 4 commi 12 e 13) ha predisposto un’agevolazione a favore del datore che assume determinate categorie di lavoratori (con almeno 50 anni di età e disoccupati da oltre 12 mesi; donne residenti prive di impiego da almeno sei mesi e residenti in aree svantaggiate, oppure nel caso vengano assunte in settori in cui il tasso di disparità uomo/donna sia superiore al 25%, oppure, prive di impiego da almeno 24 mesi, a prescindere da dove siano residenti). L’incentivo all’assunzione consiste in uno “sconto” riconosciuto al datore sul totale dei contributi dovuti all’INPS e all’INAIL, e
36 CASALE G., XXXXXXX A., Towards the single Employment contract. Comparative reflections, I.L.O. Genève, 2014
37 CARINCI F., Complimenti dottor Xxxxxxxxxxxx: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in Il lavoro nelle giurisprudenza, 5/2012
38 XXXXXXX M., Dal contratto unico al contratto a tutele crescenti, in ZILIO GRANDI G., XXXXX M., Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam Xxxxxxx Kluwer, 2015, 65
per un periodo di 18 mesi (se si tratta di assunzione con contratto a tempo indeterminato o anche di trasformazione in tempo indeterminato di un precedente contratto a tempo determinato) oppure di 12 mesi (nel caso l’assunzione avvenga a tempo determinato)39.
2) Il successivo intervento di riforma è stato anch’esso accompagnato da un corredo di incentivi riconosciuti, si noti, non tout court, ma solo in caso di “nuove” assunzioni, ovvero riconosciuti non a ”qualsiasi” assunzione cui un datore abbia proceduto, ma solo a quelle assunzioni che abbiano prodotto un “incremento di occupazione”, ovvero un aumento netto della base occupazionale dell’azienda, dato dalla differenza tra il numero dei lavoratori in carico all’azienda ogni mese e quelli mediamente occupati nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione che si vorrebbe tale. L’incentivo consiste in una somma spettante al datore di lavoro, pari ad un terzo dello stipendio lordo imponibile ai fini previdenziali, fino ad un massimo di 650 euro al mese. Tale incentivo è riconosciuto per la durata di diciotto mesi (se l’assunzione è avvenuta a tempo indeterminato) oppure di dodici mesi (nei casi di trasformazione in contratto a tempo indeterminato di un precedente contratto a tempo determinato). Inoltre, se ad essere assunti sono soggetti che fruiscono o che avrebbero titolo di fruire dell’assicurazione sociale per l’impiego, al datore spetterebbe un contributo pari alla metà dell’aspi che sarebbe corrisposta al lavoratore qualora rimanesse disoccupato, non venendo assunto. La durata di tale incentivo è pari al periodo di spettanza della misura a sostegno del reddito, per cui risulta chiaro come, in termini economici, sia maggiormente conveniente assumere un lavoratore che sia rimasto disoccupato in tempi relativamente più recenti all’assunzione che vorrebbe effettuare, al fine di fruire più a lungo dell’incentivo. La norma è stata così disegnata per agevolare il più possibile un pronto reinserimento lavorativo di colui che si trovi ad aver perso la propria occupazione, dotandolo di un tesoretto che porta in dote al datore che lo assumesse e che allo Stato comunque conviene erogare, perché gli costa la metà di quanto dovrebbe comunque versare al disoccupato quale ammortizzatore sociale di sostegno al reddito. Avendo strutturato l’incentivo in questo modo, il legislatore tende a realizzare un duplice incentivo: riuscire nella riallocazione del lavoratore nei tempi più rapidi possibili, ed un risparmio di spesa, oltre che un più efficace utilizzo delle risorse.
39 Si veda in MASSI E., Incentivi alle assunzioni dopo la legge Fornero, in inserto a Diritto & Pratica del lavoro, 7/2013
3) La legge di stabilità per il 2014 (l. 27/12/2013 n. 147) all’art. 1 comma 132 ha disposto il riconoscimento di una deduzione dalla base imponibile utile al calcolo dell’IRAP, deduzione che può essere al massimo di 15000 euro per dipendente e per un massimo di tre esercizi sempre a condizione che persista la vigenza delle condizioni richieste, a quei datori che abbiano assunto a tempo indeterminato o abbiano trasformato in tempo indeterminato un precedente contratto originariamente a termine. Condizione per la fruibilità di tale deduzione è che alle assunzioni così effettuate sia corrisposto anche un incremento degli occupati a tempo indeterminato, da calcolarsi avendo a riferimento il numero di lavoratori assunti con lo stesso tipo di contratto mediamente occupati nel periodo di imposta corrispondente.
4) Più recentemente, l’intervento di riforma predisposto dal Jobs Act è stato accompagnato e, relativamente ai decreti emanati nel corso del 2015 addirittura preceduto, dalla predisposizione normativa di un incentivo all’assunzione, al fine, nella lettera della legge che lo ha predisposto (la legge di stabilità 2015, legge 190/2014, art. 1 commi da 118 a 122), di promuovere forme di occupazione stabile. In virtù di tale previsione normativa, fatto salvo il rispetto di specifici presupposti e principi generali alcuni introdotti già dalla legge Fornero (art. 4 c. 12 lett. b) e c. 15) e altri introdotti ad hoc dalla stessa legge di stabilità (art. 1, c. 118 ), è riconosciuto ai soli datori di lavoro privati (con esclusione del lavoro agricolo) e a prescindere dalla natura imprenditoriale degli stessi, un incentivo consistente nell’esonero dal pagamento dei contributi INPS a carico del datore relativamente a tutte le assunzioni effettuate con contratto a tempo indeterminato nel corso del 2015 (dal 1 gennaio al 31 dicembre). Per ogni assunzione così effettuata, il datore godrà di tale esonero (totale) contributivo per tre anni, e fino ad un massimo di euro 8060 su base annuale. Coerentemente con la finalità (promuovere una “stabile” occupazione) perseguita dalla norma, che vuole che le assunzioni, per godere del beneficio, siano con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato - contratto che se stipulato dal 7 marzo 2015 in poi ricade nella nuova disciplina sanzionatoria prevista in caso di licenziamento illegittimo dal d. lgs. 23/2015 (istitutivo del regime così detto “a tutele crescenti”) - sono escluse dal godimento del beneficio le assunzioni con contratto di apprendistato (che, per definizione, è già di per sé, un contrato a tempo indeterminato); come anche restano escluse dal beneficio le assunzioni
con contratto di lavoro intermittente, che, benché possa essere un contratto a tempo indeterminato, non soddisfa il requisito della stabilità. Parimenti, al fine di godere dell’incentivo, è richiesto che il lavoratore assumendo non fosse già impiegato (presso qualsiasi datore di lavoro) a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti l’assunzione cui si vorrebbe dar luogo, come anche si richiede, e questa volta con finalità anti elusiva di comportamenti che potrebbero essere messi in atto al solo fine del godimento abusivo dell’incentivo consistente nell’esonero dal pagamento della contribuzione per un triennio dall’assunzione, che lo stesso non fosse già assunto a tempo indeterminato presso lo stesso datore di lavoro (o datori pure diversi, ma che fossero a questo collegati tramite società controllate) nei tre mesi precedenti la data di entrata in vigore della legge.
Per quanto riguarda il soggetto assumendo, nessun requisito soggettivo o oggettivo è posto dalla legge, che quindi riconosce l’esonero al solo fatto dell’avvenuta assunzione a tempo indeterminato di un lavoratore che non fosse già così assunto nei sei mesi precedenti, a nulla rilevando altri fattori che pure in altri contesti fungevano da discrimine per il riconoscimento di incentivi (ad esempio l’essere in stato di disoccupazione da un determinato numero di mesi, l’essere donna, o il risiedere in determinate zone). L’esonero è riconosciuto in via generalizzata, e senza che intervenga una qualche discrezionalità amministrativa, cosa che lo rende compatibile con la normativa europea sugli aiuti di Stato, dato che non determina un vantaggio selettivo a favore solo di alcune imprese e a discapito di altre. Ne consegue che ai fini della fruibilità dell’incentivo, non è necessario che la nuova assunzione sostanzi anche un aumento dell’occupazione, potendo ben risolversi in una sola modifica della tipologia contrattuale o della durata del contratto con cui un certo committente/datore intratteneva un rapporto di lavoro (non a tempo indeterminato) già in essere. L’unico requisito è sostanziato nel fatto che il lavoratore non fosse già assunto, e con contratto a tempo indeterminato, nei sei mesi precedenti l’assunzione che si intende effettuare. Il che vuol dire che tale lavoratore ben poteva essere già, in qualche modo, “occupato” (intendendosi con ciò che non si trovava nello stato di disoccupazione), e occupato magari con un contratto a tempo determinato, o con un contratto di collaborazione. Il fine che la norma persegue è non solo quello di promuovere l’occupazione, ma anche e
soprattutto quello, nei proclamati intenti, di promuovere un’occupazione che sia anche “stabile”, e tale è quella che si svolge in un contratto di lavoro a tempo “indeterminato”, che anche in questa riforma mantiene il primato di essere la tipologia contrattuale preferibile, in quanto, non prevedendo termini e lasciando perciò prospettare una durata a tempo indeterminato, consente, o meglio potrebbe consentire, l’instaurarsi di un rapporto di lavoro “stabile”. Quanto questo sia vero rimane poi da verificare nella realtà dei fatti, in quanto, se, da un lato, il legislatore del Jobs Act conferma il primato del contratto a tempo indeterminato quale tipologia contrattuale preferibile in quanto foriera di quella stabilità dell’impiego che risulta invece compromessa o limitata in altre tipologie contrattuali di lavoro “precario” (contratto a termine, intermittente, rapporto di collaborazione, lavoro accessorio), dall’altro lo stesso legislatore, ed ancor prima di procedere al riordino delle tipologie contrattuali, aveva compromesso o per lo meno fiaccato tale stessa stabilità, che dovrebbe essere garantita nel contratto a tempo indeterminato, provvedendo a ridisegnare la disciplina sanzionatoria in caso di recesso datoriale intimato in assenza dei necessari requisiti di giustificatezza che l’ordinamento pure continua a richiedere (giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo). Ad oggi, per effetto del d. lgs. 23/2015, la sanzione in caso di licenziamento illegittimo si risolve infatti, nella maggior parte dei casi - e tralasciando qui le ipotesi quasi di scuola e gravate di probatio diabolica del licenziamento discriminatorio - nella corresponsione da parte del datore al lavoratore illegittimamente licenziato, di una somma di denaro il cui importo è calcolato in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore. La stabilità dell’impiego, quindi, pur enunciata in via di principio, risulta nei fatti compromessa dal nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, che non prevede più, se non in casi che restano ai margini dei grandi numeri di licenziamenti, la tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro.
Rimane da vedere quindi se a fronte del fine “enunciato” (“promuovere forme di occupazione “stabile”), il fine sottaciuto non fosse quello di convogliare ogni rapporto di lavoro, istituendo o anche già in essere, all’interno della nuova disciplina del contratto a tutele crescenti, che poi è come dire all’interno della nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi.
La dote di incentivi all’occupazione accompagnatoria del Jobs Act non si esaurisce poi nel solo beneficio economico consistente nell’esonero contributivo triennale predisposto dalla legge di stabilità 2015 per le assunzioni di soggetti non occupati a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, applicabile anche, come esplicita la circolare dell’INPS n. 17/2015, ai casi di trasformazione, senza soluzione di continuità, di un contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Difatti, il successivo d. lgs. 81/2015, di riordino delle tipologie contrattuali, ha previsto il riconoscimento di un considerevole ed allettante beneficio normativo ai casi di cosiddetta “stabilizzazione” di collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto, e di persone titolari di partita IVA. L’art. 54, comma 2, del d. lgs. 81/2015 dispone infatti che, a decorrere dal 1 gennaio 2016, nei casi di assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (i.e. “stabilizzazione”) di lavoratori titolari di partita IVA con cui il neo datore già intratteneva rapporti di lavoro autonomo o di lavoratori con cui lo stesso già intratteneva rapporti sotto il nomen juris di collaborazioni coordinate e continuativa, anche a progetto, “l’assunzione a tempo indeterminato comporta l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro”. Si tratta quindi di una sorta di sanatoria “tombale”, con cui viene data la possibilità di ricondurre nel giusto alveo dello schema contrattuale del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rapporti di lavoro già in essere e conosciuti come solo fittiziamente autonomi o parasubordinati dalle parti. Il fine esplicito della norma è quello di promuovere la stabilizzazione dell’occupazione ed anche quello di “garantire il corretto utilizzo dei contratti di lavoro autonomo”, incentivando a circoscrivere la possibilità di utilizzarli alle sole ipotesi in cui siano effettivamente e genuinamente tali. La norma prevede due condizioni di fattibilità. È richiesto che “a) i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’art. 2113 c.c., o avanti alle commissioni di certificazione; e b) che nei dodici mesi successivi alle assunzioni (…) i datori non recedano dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo”.
Emerge qui nella sua rinnovata importanza il ruolo delle commissioni di certificazione. Il considerevole vantaggio della sanatoria “tombale” in merito ad ogni possibile rivendicazione (amministrativa, fiscale, previdenziale) connessa alla qualificazione del pregresso rapporto di lavoro tra le parti, è condizionato al fatto che i lavoratori, con cui il soggetto che li vorrebbe assumere già intrattiene un rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato e assumendi con contratto di lavoro subordinato, sottoscrivano un atto di conciliazione proprio presso una commissione di certificazione.
1.4. IL RUOLO DELLE COMMISSIONI DI CERTIFICAZIONE
L’istituto della certificazione dei contratti è stato introdotto nell’ordinamento ad opera del d. lgs. 276 del 10 settembre 2003 (art. 75) in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro previste dalla legge delega c.d. Biagi del 14 febbraio 2003 n. 30 e successivamente, nel 2010, rivisto dal cosiddetto “Collegato Lavoro”, che ne ha ampliato la portata applicativa, prevedendo la possibilità che oggetto della certificazione fossero non più solo le tipologie contrattuali (e le rinunce e transazioni ex art. 2113 c.c., il regolamento interni delle cooperative, i contratti di appalto e di somministrazione), ma anche le singole clausole. Si tratta di un istituto la cui ragion d’essere è la specifica finalità di deflazionare il carico contenzioso in sede giudiziale prevenendo ed eliminano sul nascere quelle potenziali controversie aventi ad oggetto la qualificazione giuridica del contratto. Lo strumento per realizzare ciò è appunto la certificazione del contratto intercorrente tra le parti, una procedura volontaria, ad istanza comune delle parti del contratto di lavoro, da effettuare in sede extragiudiziale ad opera degli appositi organi, le Commissioni di certificazione, e che assicura una definizione rapida della pratica, in quanto va conclusa entro 30 giorni dal ricevimento dell’istanza. Per mezzo della certificazione la Commissione, o comunque l’organo certificatore, verifica e attesta la coincidenza della fattispecie astratta di rapporto di lavoro riprodotta nel contratto cartolare con le modalità di svolgimento di fatto del rapporto stesso come dichiarate dalle parti. Si tratta di un procedura volontaria in cui entrambe le parti del contratto di lavoro concordemente si rivolgono alla Commissione per ripetere e confermare in quella sede la volontà di condurre quello specifico contratto cartolare e gli effetti civili, amministrativi, previdenziali e fiscali che ne conseguono (e che a pena di
improcedibilità dell’istanza devono essere stati in essa indicati) e al fine di dare certezza pubblica alla qualificazione del contratto. Questo significa che la qualificazione così accertata dalla Commissione di certificazione è opponibile ai terzi e non è contestabile dagli organi ispettivi. Unica via per rimuoverla è l’azione in giudizio. La non contestabilità della qualificazione certificata del rapporto di lavoro tra le parti mette a riparo il datore da ogni pretesa che gli organi ispettivi dovessero ritenere di contestare, rimanendo come unica via, per rimuovere gli effetti delle certificazione, l’azione giudiziale esperendo ricorso presso il giudice del lavoro. “Tutti son o d’accordo che la certificazione sia un atto amministrativo, di carattere qualificatorio, autonomo rispetto al contratto. La certificazione altro non è che un’operazione di riconduzione di un determinato contratto di lavoro all’interno di una delle tipologie contrattuali previste dalla legge, al fine di fissarne la disciplina giuridica e conseguentemente, gli effetti del rapporto che ne scaturisce. Più in particolare si ritiene che la certificazione sia una certazione e cioè un atto amministrativo, dotato di efficacia imperativa, tramite il quale la qualificazione del contratto in esso contenuta assume la forza giuridica della certezza pubblica. Tale qualificazione dunque si impone nell’ordinamento cosicché tutti – le parti del contratto ed i terzi nei confronti dei quali l’atto è destinato a produrre effetti - sono tenuti ad assumerla come conforme all’ordinamento”40. “L’atto di certificazione è un provvedimento amministrativo di certazione che non accerta uno stato di fatto, ma qualifica il rapporto determinando così le conseguenze giuridiche del comportamento contrattuale delle parti”41, ovvero la disciplina applicabile lavoristica, previdenziale e fiscale. La qualificazione riconosciuta al contratto dalla Commissione vincola e permane fino a quando, presentato un ricorso giudiziale, non venga emessa dall’A.G. una sentenza di merito con la quale il giudice xxxxxxx il contratto sottoposto a suo giudizio, in una diversa fattispecie astratta. Nel caso in cui la commissione riscontri che non vi sono discrepanze tra il contratto cartolare e la volontà dichiarata davanti ad essa dalle parti riguardo al contratto stipulato o da stipulare e alla disciplina applicabile che da esso discende, emette un provvedimento di certificazione, che produce l’effetto di
40 CARINCI M.T., Le funzioni della certificazione, in Diritto & Pratica del lavoro, 22/2009
41 GHERA E. , La certificazione dei contratti di lavoro, in DE XXXX XXXXXX, RUSCIANO, ZOPPOLI (a cura di), Mercato del lavoro,riforma e vincoli di sistema dalla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, Esi, Napoli, 2002, 282
rendere incontestabile, da chi è parte nel contratto di lavoro, ma anche da parte di tutti i terzi, la natura giuridica del contratto stesso, ovvero la sua qualificazione, e conseguentemente la disciplina nel cui rispetto deve essere gestito.
Si consideri proprio il caso dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, della cui stabilizzazione si occupa l’art. 54 del d. lgs. 81/2015. Spesso sono utilizzati a fini elusivi proprio per realizzare il minor carico del costo del lavoro in capo al committente/datore di lavoro, eludendo la disciplina lavoristica e previdenziale che consegue al nomen juris “contratto di lavoro subordinato” ed applicando invece quella, meno costosa in termini di oneri contributivi, prevista per il contratto cartolare “xx.xx.xx.”. Qualora invece l’intento non fosse elusivo, alle parti, e in special modo al committente, converrebbe ricorrere alla procedura di certificazione per far accertare la genuinità della collaborazione e conseguire, tramite il provvedimento di certificazione, un’attestazione di corrispondenza tra il contratto cartolare e quello condotto di fatto, e, quindi, conseguentemente, l’incontestabilità della qualificazione certificata, almeno fino a sentenza di merito. Fino ad allora, le parti e tutti i terzi permangono vincolati alle risultanze della certificazione, che determina l’incontestabilità della natura certificata del contratto fino al momento in cui sia stato accolto un ricorso giurisdizionale.
L’art. 54 del d. lgs. 81/2015 incentiva e consente “ora per allora” la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro autonomo o parasubordianto già intercorso o intercorrente tra le parti e che le stesse vogliono stabilizzare convertendolo in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Consente difatti la possibilità che le parti sottoscrivano atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’art. 2113 del codice civile o avanti alle commissioni di certificazione, in riferimento a tutte le possibile pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro e con cui il lavoratore rinuncia ad ogni pretesa ad esso relativa. “La conciliazione, qui intesa come transazione, atteso che alla rinuncia alla pretesa vantata da parte del lavoratore corrisponde per il medesimo l’acquisizione del beneficio dell’assunzione a tempo indeterminato, dovrà essere connotata dal requisito dell’inoppugnabilità, essendo previsto che la stessa avvenga, ai sensi dell’art. 2113 c. 4, c.c., in sede giudiziale,
amministrativa o sindacale, ovvero innanzi alle commissioni di certificazione”42 L’incentivo alla stabilizzazione è dato dall’effetto che da tale stabilizzazione43 (possibile solo se preceduta dall’atto di conciliazione, cui deve quindi collaborare il lavoratore) consegue: l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro. Si realizza così una sorta di sanatoria “tombale”. Eventuali illeciti pregressi correlati all’erronea o scorretta e strumentale gestione del rapporto di lavoro non saranno più contestabili. La sanatoria, e la precedente necessaria sottoscrizione dell’atto di conciliazione, devono avvenire prima che un accesso ispettivo rilevi eventuali illeciti, non potendo più in questo caso essere sanati. È del tutto evidente quindi l’interesse del committente datore di avviare la procedura di stabilizzazione, preceduta dalla necessaria preventiva sottoscrizione dell’atto di conciliazione, prima di un eventuale accesso ispettivo, al fine di mettersi al riparo da eventuali contestazioni e conseguire l’estinzione degli illeciti che eventualmente vi fossero stati qualora la collaborazione non fosse stata o non fosse genuina ma solo strumentale all’elusione della normativa giuslavoristica e previdenziale.
L’art. 54 consente che si consegua l’effetto dell’estinzione degli illeciti, sul presupposto che vi sia stata la sottoscrizione dell’atto di conciliazione, il che vuol dire che questo sia stato sottoscritto necessariamente anche dal lavoratore, rimettendosi la genuinità del rapporto autonomo e parasubordinato oggetto dell’atto di conciliazione al fatto che anche il lavoratore sia concorde nel riconoscerla, altrimenti ben potendosi rifiutare di sottoscrivere l’atto di conciliazione.
Rimane una riflessione in merito al rapporto di forza tra le parti (lavoratore e committente-datore), considerando il quale spesso il lavoratore è in un situazione di “soggezione”, in cui il consenso alla conciliazione correrebbe il rischio di essere ”estorto” o imposto dal committente. Rileva qui tutta l’abilità e la professionalità delle commissione di certificazione che, pur con il limite di non disporre di poteri istruttori,
42 FOGLIA L., La stabilizzazione delle collaborazioni a progetto, in XXXXX XXXXXXX. XXXXX M. op. cit., 597
43 Tale possibilità di stabilizzazione non è una novità assoluta nell’ordinamento giuslavoristico: una misura analoga era già stata prevista dall’art. 7 bis della l. 99/2013 in materia di associazione in partecipazione, e ancora prima dall al. 296/2006 in merito alla collaborazioni a progetto.
xxx può rendersi conto della effettiva corrispondenza di quanto dichiarato con la realtà di fatto e decidere di procedere o meno con l’atto di conciliazione.
A fronte del sicuro vantaggio in capo al committente-datore, nel caso della stabilizzazione prospettata dall’art. 54 del d. lgs. 81/2015 un vantaggio sembrerebbe profilarsi anche a favore del lavoratore. Questi infatti, a condizione che sottoscriva l’atto di conciliazione per la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato intercoso con colui che ora vorrebbe stabilizzarlo e dia quindi il via libera alla stabilizzazione, vede più che concreta la possibilità appunto di essere stabilizzato per il tramite di un’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Quanto a lungo poi durerà tale stabilizzazione è rimesso, anche, alla strategia resa possibile dal d. lgs. 23/2015 che ha ricondotto la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo, nella maggior parte dei casi, alla mera corresponsione di un’indennità in denaro. Ad ogni modo, l’art. 54 impone una durata minima di mantenimento del contratto come secondo requisito per conseguire l’effetto dell’estinzione degli illeciti, durata di almeno i dodici mesi successivi all’assunzione, ponendo la seconda condizione che i datori non recedano dal rapporto di lavoro prima di dodici mesi dall’assunzione, e facendo salvi i soli casi di licenziamento intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
1.5. GLI EFFETTI DEGLI INCENTIVI
Il corredo degli incentivi all’assunzione che, da ultimo, ha accompagnato il Jobs Act in modo esplicito (esonero contributivo triennale ed estinzione degli illeciti eventuali pregressi correlati a rapporti di lavoro non genuinamente autonomi o parasubordinati) ed in modo implicito in via di coordinato disposto (riconduzione nel regime sanzionatorio “a tutele crescenti” dei licenziamenti illegittimi ex d. lgs. 23/2015, delle nuove assunzioni e conversioni in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato di pregressi contratti precari e/o fintamente non subordinati) ha sicuramente indotto molti datori e committenti a stabilizzare i lavoratori, ovvero ad assumerli con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in questo convertendo precedenti contratti di lavoro precari.
L’aver reso il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato economicamente più conveniente rispetto ad altre tipologie contrattuali (e non solo l’essersi limitati a rendere queste ultime più costose rispetto al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come avevano fatto precedenti interventi di riforma, come ad esempio la legge Fornero relativamente al contratto a termine o alle collaborazioni), ha prodotto il pur apprezzabile effetto di riconvertire un gran numero di contratti precari in altrettanti contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (dove, però, il quanto o quanto a lungo “indeterminato” è in qualche modo rimesso al quasi arbitrio del datore, che di fatto si vede riconoscere, ex d. lgs. 23/2015, la fattibilità di recedere dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato prescindendo di fatto dalla sussistenza delle ragioni di giustificatezza e quindi di legittimità del recesso datoriale, che pure continuano a vigere nell’ordinamento, sol che sia disposto a preferire l’onere del pagamento dell’indennità piuttosto che il mantenimento di un tal lavoratore alle proprie dipendenze)44.
La modifica, o conversione, di un contratto (precario) già in essere, in contratto “stabile” (nella peculiare, anamorfica ed illusoria accezione di stabilità propria del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ex d. lgs. 23/2015) non è però sinonimo di “nuova” occupazione45. La stabilizzazione sostanzia una sorta di “novazione” del contratto di lavoro, andando a modificare la durata o il paradigma contrattuale di un contratto di lavoro già in corso tra le parti, nel quale quindi il lavoratore è, appunto, tale: è già occupato. Cosa diversa sono le nuove assunzioni, ovvero le assunzioni di lavoratori che fossero privi di occupazione prima di essa, e non solo privi di un’occupazione di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Le stabilizzazioni non producono incremento occupazionale: il numero degli occupati stabilizzati è pari al numero degli occupati precari prima della stabilizzazione; non riduce il numero dei non occupati. L’incentivo all’assunzione è stato riconosciuto anche
44 TIRABOSCHI M., Prima lettura del d. lgs. N. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, e‐book ADAPT 45/2015, 2, rileva come l’intervento disposto dal Jobs Act sia “di promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (ma non certo della stabilità del lavoro stante il contestuale intervento sul regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo)…
45 XXXXXXXXX Xxxxx, Incentivi all’assunzione per il triennio 2015‐2017, in XXXXX GRANDI G., XXXXX M. (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, 2016, 348
alla mera stabilizzazione, non essendo richiesto che la assunzione per la quale fruire dell’incentivo apportasse anche un incremento occupazionale46.
Sulle stabilizzazioni e sull’incremento occupazionale, che pure ci è stato sia pure in percentuale ridotta rispetto al totale delle assunzioni47, e che comunque ricopre una parte minima del totale delle assunzioni a tempo indeterminato avvenute nel corso del 2015 ed il cui picco si è avuto, sintomo chiaro della logica utilitaristica della fruizione degli incentivi, negli ultimi giorni del mese di dicembre 2015, gran peso ha avuto, come del resto era negli intenti del legislatore, il corredo di incentivi alle assunzioni, il cui costo ricade sulla fiscalità generale.
Ci si chiede cosa potrà capitare una volta chiuso il rubinetto degli incentivi alle assunzioni. In un contesto generale che non sarà riuscito a migliore gli altri fattori della produttività e della competitività, si prospetta come probabile un aumento dei licenziamenti al termine del periodo di esonero triennale48, licenziamenti resi sempre possibili di fatto dal d. lgs. 23/2015, sol che il datore si a disposto a preferire il costo del licenziamento (pagando la relativa indennità “a tutele crescenti”) al mantenimento in servizio del dipendente (che non si sia reso nel frattempo “indispensabile” a quell’impresa, nel qual caso il datore nemmeno penserà a licenziarlo e quindi il problema non si porrà). Ad ogni modo, pur con tale costo, l’impresa avrà comunque goduto di un beneficio economico. Si consideri questo esempio: a fronte di un esonero contributivo che sostanzia un importo massimo di 8060 euro all’anno per tre anni (per un totale massimo di 24180 euro) un datore che decidesse di licenziare al termine del triennio e quindi al termine dell’incentivo, si troverebbe a dover corrispondere al lavoratore (assunto con “contratto a tutele crescenti”) una somma pari a due mensilità per ogni anno di lavoro. Anche così, rimane una dote all’impresa (la differenza tra quanto goduto grazie all’esonero e quanto corrisposto per il licenziamento) pur non rimanendo l’occupazione di quel lavoratore. Il beneficio che questi potrà aver conseguito attiene quindi alla possibilità che gli viene così data di maturare esperienze
46 SFERRAZZA M., Incentivi all’assunzione per il triennio 2015‐ 2017, in ZILIO GRANDI G.,, XXXXX M., op. cit. 348, richiama anche l’attenzione sulla “strumentale predisposizione delle condizioni di accesso agli incentivi occupazionali” e sul contratto in frode alla legge
47 1, 4 milioni di contratti stipulati nel 2015, 186.000 nuovi occupati rispetto al 2014 (dati INPS)
48 TIRABOSCHI M., Jobs Act, il più costoso dei flop, in Panorama, 12/2016
professionali spendibili nella transizione in altre occupazioni, in un mercato del lavoro improntato sul sistema di flexsecurity, dove appunto la transizione da un’occupazione all’altra è possibile e assistita da interventi e strutture di ricollocazione che però, ad oggi, pur previste ed enunciate (d.lgs. 150/2015) non sono attuate, lasciando viva la lacuna delle politiche attive del lavoro e sostanziando un sistema di flexsecurity monco, in cui alla flessibilità, in entrata nel mercato del lavoro, ma ormai soprattutto in uscita da esso, non si accompagna ad oggi la componente della sicurezza nel mercato del lavoro49. Un secondo effetto potrebbe essere quello dell’aumento dei costi a titolo di sussidi di disoccupazione, conseguente alla perdita delle occupazioni al termine del periodo triennale dell’incentivo, anche questo a carico della fiscalità generale.
A questo proposito significativa è la preoccupazione non taciuta dalla Corte dei Conti (sezione del controllo sugli enti) nella Determinazione e relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) per gli esercizi 2013 e 2014, al paragrafo 6, in merito alle entrate contributive dell’ente: “Sull’andamento delle entrate contributive occorrerà peraltro valutare gli effetti nel 2015 della recente adozione di interventi di esonero contributivo per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato previsti dalla legge di stabilità 2015 (legge 190 del 2014, articolo unico, commi da 118 a 124), e dalle disposizioni del d. lgs. n. 81/2015; infatti qualora da tali misure non derivi un effettivo aumento occupazionale – e le nuove assunzioni siano ascrivibili a mere trasformazioni
49 Si riporta qui la definizione di flexsecurity (flexicurity) di X. Xxxxxx in “Il lavoro spiegato ai ragazzi”, Mondadori, 2013, “è il modello di organizzazione del mercato del lavoro sperimentato e affinato soprattutto nei paesi scandinavi, consistente nella combinazione di una grande flessibilità delle strutture produttive (…) con una grande sicurezza economica e professionale del lavoratore nel caso di perdita del posto di lavoro: sicurezza data da un robusto sistema di sostegno del reddito nel periodo di disoccupazione e da un meccanismo efficace di assistenza nella ricerca della nuova occupazione, riqualificazione professionale mirata alle opportunità di lavoro effettivamente esistenti, assistenza anche nella mobilità geografica del lavoratore e della sua famiglia, quando questo è necessario per la migliore soluzione del problema lavorativo (…). Il modello della flexicurity si contrappone al cosiddetto “modello mediterraneo di mercato del lavoro, caratterizzato invece da una forte protezione giuridica della stabilità del posto di lavoro (…), dalla minore efficienza dei servizi nel mercato del lavoro, dalla conseguente maggiore difficoltà, per chi viene licenziato, di ritrovare un posto di lavoro, che a sua volta genera una maggiore severità dei giudici nel proteggere i lavoratori contro i licenziamenti, quindi un apiù marcata stabilità effettiva dei posti di lavoro, che comporta una maggiore rigidità numerica per l’impresa. L’Unione Europea ha ripetutamente raccomandato ai propri Stati memebri di adottare politiche del lavoro ispirate al modello della flexcurity).
della durata e della natura contrattuale di rapporti in essere – il mancato introito di risorse proprie per effetto della decontribuzione richiederebbe un ulteriore incremento di trasferimenti dal settore pubblico la cui provvista ricadrebbe sulla fiscalità generale. Inoltre, tenuto conto del periodo massimo di trentasei mesi di durata dell’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, la scadenza delle agevolazioni potrebbe determinare un incremento delle cessazioni dei rapporti di lavoro – instaurati o trasformati in funzione della decontribuzione – con conseguente ricorso alle prestazioni a sostegno al reddito e all’adozione di misure per la ricollocazione dei lavoratori”.
Quale quindi il vantaggio speculativo di lungo periodo che fonda la scelta di fornire incentivi all’occupazione di tale portata, anziché, ad esempio intervenire in termini di fiscalità sui redditi d’impresa? Quello di aver ricondotto in un tempo un grande numero di rapporti di lavoro “precari” nell’alveo della tipologia contrattuale del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e sotto la disciplina del contratto a tutele crescenti, che è come dire sotto la nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi ex d. lgs 23/2015. O ancora quello di aver soddisfatto l’intento di dare una “scossa” positiva al mercato del lavoro (si pensi ad esempio alla completa liberalizzazione dalle causali nel contratto a termine attuata dal d.l. 34/2014, provvedimento che un po’ ha preso di sorpresa quando è stato adottato) confidando in una consequenziale virtuosa messa in moto dell’economia con siffatte assunzioni e alla ripresa dei consumi, confidando, forse, più sull’impatto emotivo che su quello fattuale lavoristico.
1.6. LA LEGGE DI STABILITÀ 2016
Da ultimo, la legge di stabilità 2016 ha in qualche modo confermato la scelta di finanziare incentivi alle assunzioni, seppur in tono minore50. La legge di stabilità 2015 prevede esonero contributivo totale e per una durata di tre anni. La legge di stabilità 2016 individua lo stesso incentivo, ma di importo ridotto (40%) e per una durata di soli due anni. Anche questo ha contribuito alla corsa alla stipulazione dei contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato avutasi nella seconda metà del mese di dicembre
50 MASSI E., Xxxxx di stabilità 2016: le agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato
2015, considerato che già si profilava che le assunzioni che si fossero avute nell’anno successivo avrebbero goduto di incentivi ridotti.
CAPITOLO 2
TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO SUBORDINATO
2.1. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO
Il contratto di lavoro a tempo determinato o “a termine” è una delle tipologie contrattuali che l’ordinamento mette a disposizione e disciplina per il soddisfacimento delle esigenze di manodopera che siano solo temporanee.
Il contratto di lavoro a tempo determinato sostanzia una tipologia di lavoro subordinato che si distingue dal paradigma, dato dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, per l’elemento di specialità costituito dalla clausola del “termine”, che viene apposta, necessariamente per iscritto, al contratto di lavoro e che produce la risoluzione del contratto di lavoro automaticamente “in forza del” e “al” raggiungimento del “termine” determinato dalle parti, sia esso esplicito (una data certa) o desumibile in via implicita (al verificarsi di un evento definito, certus nell’an pur se incertus nel quando).
Un contratto di lavoro in cui sia stata apposta la clausola del termine cesserà automaticamente al raggiungimento del termine, liberando le parti dai rispettivi vincoli contrattuali in modo automatico, senza, cioè, che sia necessario un qualche atto di recesso ad opera delle parti stesse.
Una tipologia contrattuale di lavoro siffatta, che cioè prevede e stabilisce fin dal suo nascere il momento in cui essa cesserà di produrre effetti tra le parti, è oggi di possibile stipulazione, essendo prevista dall’ordinamento giuslavoristico, che l’ha a lungo disciplinata in passato dotandola di peculiari cautele e di limitazioni alla sua fattibilità.
L’ordinamento italiano riconosce oggi la possibilità di stipulare un contratto di lavoro subordinato apponendo in esso una clausola che ne determini la cessazione al raggiungimento di un termine predeterminato e che quindi liberi le parti contraenti dai rispettivi vincoli contrattuali.
Tuttavia, la possibilità, oggi riconosciuta, di stipulare un contratto di lavoro non a tempo indeterminato, ovvero con l’esplicita previsione in esso del termine al raggiungimento del quale si produce l’automatica estinzione del contratto, non è stata sempre “data” nell’ordinamento e le diverse declinazioni della fattibilità di un contratto del genere sono state frutto ed hanno riflesso le diverse concezioni in cui si è andato declinando il
rapporto tra datore di lavoro e lavoratori, e si è evoluta in conseguenza in parallelo al diverso atteggiarsi della via via mutata interazione della disciplina della cessazione del contratto di lavoro a titolo di recesso.
Per lungo tempo e fino agli interventi di riforma che ne hanno modificato profondamente la disciplina (riforme Fornero, Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx), è stato possibile stipulare contratti a tempo determinato a condizione che ricorresse quelle specifiche ipotesi che legittimavano l’apposizione della clausola del termine51. Tuttavia, non è stato sempre così. In un breve excursus delle fonti pregresse, risalta come la fattispecie di contratto di lavoro a tempo determinato sia stata disciplinata con contenuti considerevolmente diversi. Il codice civile del 1865, all’art. 1628 prescriveva che la locazione d’opere potesse avvenire solo “a tempo o per una determinata impresa”. La ratio che sorreggeva una tale disciplina prendeva le mosse dalla preoccupazione di evitare il lavoro “coatto” (per evitare forme di lavoro a vita che si ritenevano simili alla schiavitù), un lavoro, cioè, che vincolasse un lavoratore all’infinito ad un datore. Ciò era conseguente alla concezione che il contratto di lavoro si potesse sciogliere solo per mutuo consenso, in un rapporto in cui ancora oggi appare e si comprende lo squilibrio delle parti nell’esercizio di una tale facoltà. Quindi la stipula di un contratto non a tempo determinato era vietata in considerazione della limitata possibilità di scioglimento del vincolo contrattuale, che presupponeva il mutuo consenso delle parti, e al fine di evitare un vincolo che legasse in perpetuo un lavoratore ad un datore.
Fattispecie predominante e favorita era dunque quella del lavoro a tempo determinato, in virtù delle considerazioni in tema di recedibilità.
Una tale impostazione fu poi specularmente rovesciata, in conseguenza della mutata fattibilità del recesso.
Parallelamente all’affermarsi del diverso principio per cui il recesso era libero in capo alle parti (sia pure, con l’andare del tempo, con accorgimenti e calmieramenti nell’esercizio di tale facoltà sia in capo al lavoratore sia in capo al datore), l’ordinamento andò mutando impostazione, orientandosi a netto favore del contratto a tempo indeterminato e passando quindi dal divieto generale di stipulare contratti a tempo indeterminato all’esatto opposto (in cui la stipula di contratti a tempo determinato
51 XXXXXXXXX X., Diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2010, 151 ss
è legittima solo in via di “eccezione” e solo se consentita dalla legge). Nel tempo si sono succedute: la previsione di ipotesi strettamente “nominate” (e solo al ricorrere delle quali era legittima l’apposizione del termine) e quella che invece prevede una clausola “generale” di apponibilità del termine, previsioni a loro volta specchio di come la considerazione dei contrastanti interessi in gioco e delle diverse opportunità sono andate mutando nel corso dei decenni.
La legge sul contratto di impiego privato (il regio decreto legge n. 1825 del 13/11/1924 poi convertito nella legge n. 562 del 18 marzo 1926) all’art. 1 c. 2 recita: “Il contratto d’impiego privato può anche essere fatto con prefissione di termine; tuttavia saranno applicabili in tal caso le disposizioni del presente decreto che presuppongono il contratto a tempo indeterminato, quando l’aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto ed apparisca invece fatta per eludere le disposizioni del decreto, ed il successivo art. 4 c. 2 : « Parimenti dovrà risultare da atto scritto l’assunzione che venga fatta con prefissione di termine. In mancanza di atto scritto l’assunzione si presume fatta a tempo indeterminato ». Introduce quindi la presunzione in base alla quale il contratto si presume essere a tempo indeterminato nel caso in cui la clausola del termine non sia stata apposta per iscritto nel contratto.
L’affermarsi del contratto a tempo indeterminato quale tipologia che gode del maggior favore del legislatore, prosegue poi nel codice civile del 1942 il cui art. 2097 descriveva tale contratto quale “modalità tipica del lavoro subordinato” e prescriveva che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In quest’ultimo caso l’applicazione del termine è priva di effetto se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato”.
L’art. 2097 del codice civile del 1942 (che verrà poi abrogato dalla legge 230/62) consentiva l’apposizione della clausola del termine a condizione che venisse fatta per iscritto oppure che sussistesse una delle ipotesi speciali previste dal legislatore.
La stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato consentiva, nei fatti, di sottrarsi ai limiti posti alla facoltà, in capo al datore di lavoro, di licenziare liberamente il lavoratore assunto a tempo indeterminato, come anche il sottrarsi ai maggiori oneri retributivi che solo quest’ultima tipologia comportava (corresponsione dell’indennità di
anzianità). Si ebbe quindi un utilizzo diffuso del contratto a termine, e questo iniziava a contrastare con una mutata sensibilità che dall’originario disfavore nei confronti di un legame che rischiava di essere, di fatto, perpetuo, con il mutare della disciplina del recesso cambiò anch’essa cogliendo come disvalore la precarietà che il contratto a termine porta in sé e la conseguente impossibilità di fare affidamento su una qualche stabilità del salario.
Successivamente venne emanata la legge 18 aprile 1962 n. 230, che rimase in vigore fino al 2001, quando è stata abrogata dal d. lgs. 368/2001.
Questa legge impose come necessario all’apposizione del termine alla durata del contratto entrambi i requisiti fino ad allora invece alternativi: forma scritta e sussistenza di una delle ipotesi tassativamente stabilite. Introdusse una regolamentazione più stringente del contratto a tempo determinato. Prevedeva come necessario per la legittima apposizione di un termine al contratto che fossero contemporaneamente soddisfatte due condizioni: la clausola del termine andava apposta per iscritto ed era consentito stipularla solo al sussistere di determinate ipotesi individuate dalla legge. Tale legge consentiva l’assunzione a tempo determinato a condizione che il contratto venisse redatto per iscritto e che si fosse in una delle cause tipiche previste dalla norma (quindi le condizioni dovevano sussistere entrambe e non in via alternativa come invece aveva previsto l’art. 2097 del c.c.). In mancanza di forma scritta, operava la presunzione per cui il contratto fosse a tempo indeterminato. Inoltre la l. 230/62 introdusse un criterio di tipicità delle ipotesi di apponibilità della clausola del termine, che poteva perciò essere incluso nel contenuto contrattuale solo al ricorrere di una delle ipotesi tassativamente stabilite (cosiddetti “casi di specialità”)52.
52 Legge 230/1962 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, art. 1: “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate. È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto:
a) quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale delle medesima;
b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il numero del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;
c) quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi un carattere straordinario od occasionale;
La legge 230/62 sancì anche il principio per cui il contratto di lavoro è di regola a tempo indeterminato e che il contratto di lavoro a termine costituisce un’eccezione rispetto a tale regola generale e individuò le ipotesi tipiche in cui è consentito apporre un termine: per lavoro stagionale, per sostituire un lavoratore, per necessità di professionalità specializzate. In un unico caso la legge non descriveva puntualmente il requisito (condizione di apponibilità), ma lo descriveva in una clausola di portata generale: in caso di “esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale”. L’apparente ampiezza di tale previsione è stata ridimensionata dall’interpretazione che di essa ha fatto la giurisprudenza, che ha inteso in senso rigoroso, quasi letterale, il requisito della “eccezionalità”, tanto da escludere, ad esempio, la possibilità di assunzioni a termine nei casi in cui la necessità di manodopera non fosse squisitamente eccezionale, ma prevedibile, ovvero rientrante in andamenti fisiologici della produzione, che in quanto tali sono prevedibili e ad essi si può provvedere con una diversa utilizzazione delle risorse di personale già presenti in organico. L’esempio è quello delle cosiddette “punte stagionali di attività”, cui la
d) per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse , per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi sia continuità di impiego nell’ambito dell’azienda;
e) nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli” (testo in vigore dal 15/08/1962 al 21/06/1977, lettera poi così sostituita dall’art. unico della legge 23/05/1977 n. 266: nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi)
f) quando l'assunzione venga effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti, e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale che, al 10 gennaio dell'anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale può essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione dell'ispettorato del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui alla presente lettera – lettera poi aggiunta dall’art. unico della legge 25/03/1986 n. 84 ‐
L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto.
Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore.
La scrittura non è tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro puramente occasionale non sia superiore a dodici giorni lavorativi […]”.
giurisprudenza non ha ritenuto sussistente il carattere della straordinarietà né quello della occasionalità, rientrando tali lavorazioni in un andamento ciclico della produzione, puntuale nel suo riproporsi ad ogni successiva stagione, quindi del tutto prevedibile e in quanto tale del tutto mancante del requisito della eccezionalità, che avrebbe legittimato l’apposizione del termine.
La lettera dell’art. 1 della l. 230/62 descriveva quindi la fattibilità dell’apposizione del termine alla durata del contratto in via di “eccezione” e sanciva che il modello di contratto di lavoro era a tempo indeterminato. Un ordinamento giuridico siffatto - risultante dal combinato disposto della l. 230/1962 con la disciplina sanzionatoria che per il caso di illegittima apposizione del termine prevedeva la conversione in contratto a tempo indeterminato, conversione che porta(va) con sé il gravame della conseguente impossibilità in capo al datore di recedere da tale rapporto in mancanza di una giusta causa o di un giustificato motivo – soffriva i limiti di tale rigidità.
A tale modello è seguita negli anni un’inversione di tendenza, caratterizzata anche da un processo di delegificazione nella regolamentazione in materia di apponibilità del termine, che, in virtù della delega legislativa, affidava alla contrattazione collettiva la facoltà di individuare “ulteriori ipotesi di apponibilità del termine alla durata del contratto, al fine di rendere la normativa più rispondente alle esigenze dei vari settori produttivi.
Sulla scia di questa impostazione, la legge 28 febbraio 1987 n. 56 (in vigore fino al 29 febbraio 1988), all’art. 23 delegava alla contrattazione collettiva la facoltà di individuare ipotesi di apponibilità del termine ulteriori rispetto a quelle elencate dalla l. 230/1962. Nell’attribuire tale facoltà alla contrattazione collettiva, la l. 56/87 prescriveva anche, quasi a calmierare con tale limite di carattere generale l’ampiezza della delega, che nei contratti collettivi dovesse essere stabilito il numero in percentuale dei lavoratori che potevano essere assunti a termine, avendo come parametro il numero degli assunti a tempo indeterminato53.
53 L. 56/1987, art. 23: “L’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui all’art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazione ed integrazioni, nonché all’art. 8 bis del decreto legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni , dalla legge 25 marzo 1983, n. 79, è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I
Il decreto legislativo 368/2001 abroga e sostituisce “le ipotesi tassative” di apposizione del termine previste dalla l. 23071962 e introduce un nuovo principio generale: il contratto a tempo determinato può essere stipulato a fronte di genericamente definite ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo54. Questo decreto segna un cambiamento nella concezione della regolamentazione: l’elenco di cause tipizzate, viene sostituito da una previsione “aperta” che non nomina le ipotesi di apponibilità, ma le descrive nel loro carattere essenziale (l’essere ragioni di natura tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva).
In tempi più recenti, la legge 247 del 2007 di attuazione del Protocollo su previdenza, lavoro e competitività, ha ripristinato il principio per cui le assunzioni a termine sono l’eccezione rispetto alla regola generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato, aggiungendo nel testo del d. lgs. 368/2001 un “inedito” comma 01: “il contratto di lavoro subordinato è stipulato, di regola, a tempo indeterminato”.
Ai sensi del successivo decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008 n. 133, le causali che legittimano l’assunzione a termine (ovvero le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo”) possono essere riferite anche a quella attività del datore di lavoro che sia anche solo “ordinaria”, ovvero priva del carattere dell’eccezionalità e dell’occasionalità.
Le ragioni devono essere specificate in via preventiva e devono essere oggettive, ovvero: devono essere verificabili e devono sussistere al momento della stipulazione del contratto55.
2.1.1. IL QUADRO NORMATIVO
Riassumendo, il quadro normativo56 di disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è stato dato, fino a prima che entrasse in vigore il decreto legislativo
contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato […]”.
54 XXXXX GRANDI G., SFERRAZZA M., In attesa della nuova riforma, una rilettura del lavoro a termine, ebook ADAPT 9/2013, 21, in particolare in merito ai dubbi di costituzionalità nel d. lgs 368/2001
55 Per quanto riguarda l’onere probatorio circa la sussistenza delle cause che giustificano l’apposizione del termine e che lo legittimano, la Corte di Cassazione, con sentenza 14283 del 28 giugno 2011, precisa che è in capo al datore di lavoro. Questi deve dimostrare con prove concrete.
81/2015 (e cioè fino al 25 giugno 2015), dal d. lgs. 368/2001 come modificato dalla legge 28 giugno 2012 n. 92 e dal d.l. 28 giugno 2012 n. 76, convertito, con
modificazioni in l. 9 agosto 2013 n. 99.
Il d. lgs. 368/2001 aveva abrogato la legge 230/1962 ed ha introdotto nell’ordinamento giuslavoristico una novità frutto dei tempi e della rinnovata concezione del rapporto contratto a tempo determinato/indeterminato. Nel d. lgs 368/2001 non era stato difatti ripetuto il principio (asserito esplicitamente nella l. 230/62) del primato del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale contratto favorito, a sfavore del contratto a termine. Tale scelta era stata interpretata come significativa della volontà di equiparare il contratto a termine al contratto a tempo indeterminato, volendo porre fine all’impostazione che privilegiava quest’ultimo contratto quale paradigma dei rapporti di lavoro subordinato.
Dopo aver voluto dotare il mercato del lavoro di uno strumento flessibile quale il contratto a termine al fine di porre rimedio alla rigidità del sistema e per incrementare i livelli di occupazione, il legislatore non ha potuto ignorare il problema dato dall’abuso del contratto a termine, in particolare dalla successione di più contratti a termine stipulati con uno stesso lavoratore, per soddisfare un’esigenza di manodopera che di fatto era non occasionale né eccezionale, ma stabile e che andava quindi soddisfatta ricorrendo ad un contratto a tempo indeterminato.
Successivamente, la l. 247/2007 ha voluto rimarcare che il paradigma era quello dato dal contratto a tempo indeterminato ed ha a tal fine riaffermato tale principio, aggiungendo all’art. 1 del d. lgs. 368/2001 l’ “inedito” (per la numerazione) comma 01: “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”.
Questo excursus, per quanto rapido, evidenzia come l’apertura nei confronti del contratto a termine e l’atteggiamento di favor nei confronti del contratto a tempo indeterminato abbiano avuto un andamento altalenante, che originava le sue oscillazioni a seconda della diversa sensibilità con cui venivano percepite come valore preminente la flessibilità o la stabilità, in un tentativo teso a comporre le esigenze del mercato del lavoro con quelle di stabilità dell’occupazione e del reddito.
56 Per un excursus si veda ZILIO GRANDI G., SFERRAZZA M., In attesa della nuova riforma, una rilettura del lavoro a termine, ebook ADAPT 9/2013, 9
Il punto fermo dato dalla normativa vigente fino al d. lgs. 81/2015 è il risultato di come tali esigenze contrapposte ed entrambe meritevoli di tutela siano state fatte convivere, in un tentativo sempre criticato, sempre migliorabile; un lavoro empirico che sembra andare di tentativo in tentativo, affinando e tentando di porre rimedio all’abuso che le maglie della regolamentazione lasciano (o lasciavano).
2.1.2. LA DESCRIZIONE DELLA FATTISPECIE
Al termine di tale opera di aggiustamenti successivi, e prima dell’abrogazione intervenuta ad opera del d. lgs. 81/2015 (art. 55, comma 1 lettera b)) la disciplina57 del contratto di lavoro a tempo determinato è stata data dal d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368, con cui è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES. Fino all’abrogazione ad opera del codice dei contratti, questo decreto è stato la fonte normativa su cui si sono poi incardinate i successivi interventi di riforma, che lo hanno modificato modificando la disciplina del contratto a termine in alcuni dei suoi aspetti.
Il decreto esplicitava i casi in cui è l’apposizione di un termine alla durata del contratto era consentita, la forma (necessariamente scritta) in cui tale clausola deve essere apposta e i casi in cui si poteva derogare a tale previsione ( “quando la durata del rapporto di lavoro, puramente occasionale, non sia superiore a dodici giorni”), gli adempimenti in capo al datore di lavoro (la consegna di una copia dell’atto scritto entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione). Prevedeva, all’art. 3, i casi in cui l’apposizione di un termine non è ammessa; disciplinava la proroga come anche la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro e la stipulazione di più contratti a termine, tra le stesse parti, in successione tra loro e prevede le relative sanzioni in caso di inosservanza delle relative disposizioni di legge (il rispetto degli intervalli di tempo). L’art. 4 del d. lgs. 368/2001 prevedeva sia un limite massimo di durata di un contratto a tempo determinato (36 mesi) sia un limite alla prorogabilità dello stesso e le relative condizioni di fattibilità (prorogabile solo entro il limite di durata massima dei 36 mesi, per una sola volta , con il consenso del lavoratore e a condizioni che persistano le ragioni oggettive, ovvero che
57 XXXXXXXX X., Diritto del lavoro, Xxxxxxx, 352 ss
sia richiesta da ragioni oggettive e deve riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato). All’art. 10 inividuava i casi che non ricadono nell’ambito di operatività (campo di applicazione) del decreto stesso in quanto disciplinati da specifiche normative (i contratti di lavoro temporaneo, i contratti di formazione e lavoro, i rapporti di apprendistato ed i tirocini; i rapporti di lavoro con operai in agricoltura; i cosiddetti “extra” (personale assunto per un massimo di tre giorni) nei settori del turismo e dei pubblici esercizi e i contratti di lavoro con i dirigenti, i quali possono essere assunti a tempo determinato con una durata massima del contratto di cinque anni. L’art. 6 esplicitava il divieto di discriminazione, in forza del quale al lavoratore assunto a tempo determinato spettano tutti i trattamenti retributivi in atto nell’impresa riconosciuti ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato “comparabili” (ovvero quelli inquadrati nello stesso livello), e gli spettano in proporzione al periodo di lavoro prestato. Quindi il lavoratore assunto a tempo determinato non deve essere discriminato, in particolare sotto l’aspetto retributivo per quanto riguarda le spettanze retributive, a causa della durata limitata del contratto, così come anche, in virtù del successivo art. 7, gli dovrà essere fornita “una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggettive del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”, non potendo la durata determinata del contratto essere pretesto di inadempimento in capo al datore di lavoro dell’obbligo di formazione né di quello di prevenzione dei rischi sul lavoro. L’art. 9 rimetteva ai contratti collettivi nazionali di lavoro (stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi) di definire come le imprese debbano rendere ai lavoratori a tempo determinato le informazioni circa “i posti vacanti che si rendessero disponibili nell’impresa” al fine di offrire una qualche possibilità di conseguire un impiego a tempo indeterminato. E si legga quest’ultima disposizione in combinato con il disposto del comma 4-quater dell’art. 5 che attribuiva al lavoratore a termine che abbia prestato attività lavorativa presso una stessa azienda per un periodo superiore a sei mesi un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore entro i successivi dodici mesi, come anche il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali.
Sull’impianto normativo del contratto a termine contenuto nel d. lgs 368/2001 e qui per sommi capi esposto, si sono succeduti nel corso dell’ultimo decennio diversi interventi normativi di modifica (abrogazioni e aggiunte di nuove disposizioni). Alcuni di tali interventi del legislatore hanno apportato modifiche significative, che hanno prodotto un cambiamento nell’utilizzo, nella pratica, di tale tipologia contrattuale, lasciando il segno nel mercato del lavoro imprimendo in esso rallentamenti o accelerazioni, a seconda di quanto tale contratto fosse fruibile. Non sempre, tuttavia, il legislatore si è dimostrato coerente, contraddicendo anzi se stesso e arrivando a dire tutto ed il contrario di tutto, in un’oscillazione di politiche del lavoro che già chiamare tali è un eufemismo e che palesano, trasponendola nella mutevolezza delle norme, l’instabilità politica. Mutevolezza già di per sé deleteria quando non frutto di un disegno organico, e resa ancor più onerosa dall’essere, tenuto conto dei necessari tempi tecnici di produzione delle norme, quasi repentina, fugace, in un susseguirsi di norme che grava il mercato del lavoro di incertezza, e lascia gli operatori nel dubbio se la normativa resterà tale per un periodo anche solo non breve e costituisce un ostacolo al pari di altri disservizi, in quanto impedisce una progettualità di lungo (o anche solo di medio) periodo nelle gestione delle risorse umane e quindi di conseguenza nell’esercizio dell’impresa.
2.1.3. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NELLA RIFORMA FORNERO
Si è accennato a come la disciplina dal contratto a termine data dal d. lgs. 368/2001 sia stata oggetto, nell’ultimo decennio, di successivi interventi di modifica.
Limitando qui la disamina ai soli provvedimenti di riforma del mercato del lavoro più recenti, ci si sofferma sulla legge 28 giugno 2012 n. 92, entrata in vigore il 18 luglio 201258. Tale legge, cosiddetta “Riforma Fornero”, si proponeva di agevolare la flessibilità “buona” ed al contempo di contrastare l’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato, che si realizzava per mezzo della pratica della reiterazione di contratti a termine successivi tra le stesse parti. Obiettivi, questi, richiesti dalla normativa comunitaria, e che la Direttiva 99/70/CE esplicita, imponendone il
58 XXXXXX X., La riforma del lavoro a tempo determinato, in Pellacani G., a cura di, Riforma del lavoro, Xxxxxxx 2012; DE XXXXXXX X., in CINELLI, XXXXXXX, XXXXXXXX, Il nuovo mercato del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2013
conseguimento nella sua parte coercitiva di hard law relativa al raggiungimento degli obiettivi, e lasciando libero ciascuno Stato membro nella scelta dello strumento ritenuto più idoneo al conseguimento degli obiettivi imposti e dovuti, in virtù della contemporanea natura anche di soft law della direttiva stessa59. Principio generale nel recepimento di direttive europee è quello del cosiddetto “non regresso”, ovvero: il recepimento della direttiva nell’ordinamento non deve essere occasione per la modifica “in pejus” dell’apparato normativo nazionale60. Ci si è chiesti nel caso del contratto “acausale” se questo nuovo istituto sostanzi tale modifica in pejus, andando a fiaccare l’ordinamento giuslavoristico con l’introduzione di un contratto a termine “sui generis”, dotato di maggiore flessibilità in quanto svincolato dal requisito della sussistenza delle ragioni legittimanti l’apposizione della clausola del xxxxxxx00.
Nel bilancio tra “regresso” e “vantaggio”, il legislatore della riforma c.d. “Fornero” ha ritenuto che il contratto di lavoro a tempo determinato (anche quello acausale) fosse uno strumento utile a promuovere occasioni di occupazione e quindi strumento utile a favorire la promozione dell’occupabilità, obiettivo che, insieme alla promozione della adattabilità e a quella delle pari opportunità, costituisce uno dei pilastri su cui si basa la strategia europea dell’occupazione. Al contempo, ha ritenuto di doverne contrastare
59 sulla valenza della Direttiva 1999/70/CE (relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) quale “parametro normativo” indispensabile per giudicare la riforma sulla flessibilità in entrata, si veda DE XXXXXXX, op. cit., 31 ss
60 SCIARRA S., Manuale di diritto sociale europeo, XXXXXXXXXXXX, TORINO, 2010, 152, “Il silenzio della direttiva 99/70/CE sull’esistenza di limiti alla stipula di un primo e unico contratto a termine ha, tuttavia, aperto un acceso dibattito sulla possibilità per quegli Stati membri che già possedevano una disciplina restrittiva in materia, di deregolamentare il ricorso iniziale a tale fattispecie contrattuale in occasione della implementazione della Direttiva medesima. La questione è stata affrontata anche dalla Corte di Giustizia nei casi Xxxxxxx e Xxxxxxxxxx: in entrambe le occasioni, la Corte ha escluso la possibilità, per gli Stati membri, di ridurre il livello complessivo di protezione dei lavoratori a termine in occasione della implementazione della Direttiva 99/70/CE. Secondo quanto previsto dalla cosiddetta “clausola di non regresso” (clausola 8.3), l’attuazione dell’accordo non può mai costituire un valido motivo per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso. Secondo la Corte tali clausole di non regresso contengono “un vero e proprio obbligo ‐ rivolto agli Stati menmbri – di contenuto negativo, consistente nel non utilizzare la trasposizione come motivo per ridurre le tutele già garantiteai lavoratori nell’ordinamento nazionale””.
61 XXXXXX X., Flessibilità del lavoro e potere organizzativo, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2012, 152 suggerisce come il contratto “acausale” in qualche modo strida con i principi costituzionali della stabilità del lavoro e della conseguente possibilità di conseguire una retribuzione, e della tutela del lavoro in tutte le sue forme, ex artt. 4 e 35 della Costituzione.
l’utilizzo abusivo, ovvero la pratica che ha visto uno stesso datore di lavoro assumere lo stesso lavoratore con più contratti a termine, successivi tra loro, soddisfacendo in questo modo una domanda di lavoro, di fatto non a termine ma continuativa e stabile. Una domanda di lavoro che sia costante nel tempo non può essere soddisfatta con contratti a termine, ma deve esserlo con un contratto a tempo indeterminato.
Il motivo che di fatto ha portato un datore di lavoro a preferire la stipulazione successiva di più contratti a termine con uno stesso lavoratore in successione tra loro, anziché il modello dato dal contratto a tempo indeterminato, è stato individuato nell’onerosità di quest’ultima tipologia di contratto, che, anche in forza della disciplina del recesso e delle sanzioni in caso di recesso illegittimo, avrebbe prodotto l’effetto pratico di vincolare il datore in misura percepita eccessivamente gravosa.
La legge di riforma, nell’intento di “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione” (art. 1 c. 1 l. 92/2012), e con l’obiettivo di contrastare l’utilizzo abusivo del contratto a termine, realizzato stipulando in successione più contratti di questo tipo tra gli stessi soggetti, è intervenuta apportando modifiche al d. lgs. 368/2001 di disciplina del contratto a tempo determinato.
Gli interventi di riforma della tipologia del contratto a tempo determinato si sono mossi in due ambiti: in uno, con l’intento di rendere più agevole la stipulazione di un “primo” contratto a termine, al fine di promuovere l’occupabilità; nell’altro, nell’intento di contrastare l’uso abusivo di più contratti a termine in successione, tra le stesse parti e per le stesse mansioni62.
La legge 28 giugno 2012 n. 92 ha quindi, coerentemente con tali dichiarati obiettivi, apportato diverse modifiche all’apparato al tempo vigente di diritto del lavoro. In particolare, per quanto qui si tratta, ha apportato modifiche al d. lgs. 368/2001, più in dettaglio: all’art. 1 (modifica dei commi 01 e 2, e introduzione di un nuovo comma 1
62 DE XXXXXXX X., Uno sguardo di insieme, tra flessibilità buona e flessibilità cattiva, in PERSIANI, XXXXXXX, (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Utet, 2013, 35 ss; e anche, nella stessa opera, MORONE A., La nuova disciplina dei contratti a tempo determinato
bis); all’art. 4, in cui ha aggiunto un nuovo comma 2 bis; e all’art. 5, per il quale ha disposto la modifica dei commi 2, 3 e 4 bis, e l’introduzione del comma 2 bis.
2.1.3.1. IL CONTRATTO A TERMINE “ACAUSALE” (art. 1, commi 01, 1 e 1 bis)
La modifica apportata all’art. 1 palesa e rimarca la volontà di confermare il contratto a tempo determinato quale contratto fruibile in via di “eccezione” rispetto al paradigma generale dato dal contratto a tempo indeterminato. Questo in accordo alla concezione secondo la quale quella a tempo indeterminato è la tipologia contrattuale più idonea a garantire una qualche stabilità dell’occupazione (e quindi una qualche stabilità del salario) e che a fronte di una domanda di lavoro che si palesa continuativa nel lungo periodo per una data mansione l’impresa debba provvedere con una tipologia contrattuale che abbia la stessa caratteristica di durata non definita apriori63.
L’art. 1 del d. lgs. 368/2001 viene dunque riscritto dalla l. 92/2012, in particolare la disposizione di cui al comma 01, che fino alla riforma recitava “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, viene cambiata in “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
È cambiata, appunto, la disposizione: la norma sembra essere rimasta sostanzialmente la stessa. Il principio secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato è la tipologia di contratto che gode del maggior favore del legislatore fa parte, ed in modo acquisito, dell’ordinamento giuslavoristico già da tempo (almeno fin da quando è stato positivizzato dalla l. 230/62 il cui art. 1 esplicitava che “il contratto di lavoro è normalmente a tempo indeterminato e le assunzioni a termine devono considerarsi un’eccezione rispetto a tale regola generale”). E il tentativo di equiparare il contratto a tempo determinato al contratto a tempo indeterminato, tentativo che si è voluto leggere nella originaria formulazione del d. lgs. 368/2001 (che abrogava la l. 230/62 e non ne ripeteva in un alcun articolo il primato riconosciuto dalla legge abrogata al contratto di lavoro a tempo indeterminato) è stato successivamente ridimensionato fino ad esaurirsi in forza della l. 247/2007 che ha aggiunto alla scrittura dell’art. 1 del d. lgs. 368/2001 un inedito comma “01” con cui esplicitamente è stato riaffermato che “il contratto di
63 SPEZIALE V., La riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92, in Workin Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 153/2012
lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”. Si può dunque dire che il principio per cui il contratto a tempo indeterminato gode di maggior favore è un principio pacifico nel nostro ordinamento. La riscrittura del comma 01 dell’art. 1 ad opera della riforma segue il solco della tradizione giuridica, non la modifica e si conforma ad essa, ribadendola e rafforzandola.
Una volta sgombrato il campo da ogni possibilità di fraintendimento per mezzo dell’esplicita affermazione che il contratto di lavoro a tempo indeterminato è il contratto “dominante”, e quindi una volta assolto l’onere di tutelare tramite essa il valore riconosciuto della stabilità dell’occupazione, il legislatore della riforma si adopera per conseguire, ricercando un equilibrio di contrapposti interessi, l’ulteriore obiettivo, anch’esso dovuto, di incremento dell’occupabilità e dell’occupazione.
È riconosciuto che il contratto di lavoro a tempo determinato costituisce uno strumento utile alla promozione dell’occupabilità. In capo al datore di lavoro, esso agevola l’assunzione di personale, in quanto sgrava delle rigidità della disciplina del recesso dal contratto a tempo indeterminato che (specie prima della riforma ex d.lgs. 81/2015) erano date dalla ineluttabile necessità del requisito della giustificatezza. In capo al lavoratore, consente di venire comunque occupato per lo svolgimento di una mansione, che, per quanto a tempo limitato, costituisce un’importante occasione di acquisizione di competenze, sempre spendibili in una successiva ricerca di impiego.
In considerazione delle strumentalità positive che la tipologia del contratto a termine porta al mercato del lavoro, e prendendo spunto dalla legislazione tedesca64 che prevede la possibilità che venga stipulato un primo contratto a termine senza che sia necessario esplicitare quale sia il motivo transitorio che ne legittima la stipulazione, la legge di riforma 92/2012 ha ritenuto di dover agevolare65 la stipulazione di un contratto a termine quando esso sia il “primo” rapporto di lavoro tra due parti. Dopo aver lasciato inalterato il d. lgs. nel comma 1 dell’art. 1 e dopo aver con ciò quindi ribadito il rapporto
64 una presentazione del modello tedesco in materia di contratto a termine acausale in DE XXXXXXX X., in Il nuovo mercato del lavoro, op. cit., 36
65 XXXXXXXX L., in La riforma del mercato del lavoro, op. cit., 38 ss con, in nota 16, rinvio a MENGHINI L. Contratto a termine, nuove regole, in CARINCI F., MISCIONE M. (a cura di) Commentario alla riforma Fornero, in cui si evidenzia “la finalità sostanziale della norma che è quella di “provare a smuovere le acque stagnanti del mercato del lavoro consentendo una prima esperienza lavorativa nella speranza che la stessa contribuisca ad aumentare le possibilità di un successivo rapporto stabile”
di eccezione/regola tra il contratto a termine e quello a tempo indeterminato - per cui la stipulazione del primo è consentita in via di deroga alla regola generale ed è legittima solo a condizione che sussistano, e siano rese esplicite nella scrittura del contratto a termine, determinate “ragioni giustificatrici” certe e documentate (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo – riassuntivamente definite in gergo volgare “causalone”), sia pur non più tipizzate in una lista chiusa di casi nominati, di ipotesi tassative, ma ricomprese in una previsione generale che le descrive rappresentandone le caratteristiche oggettive che possono essere variamente declinate e variamente ricorrere nel caso pratico, ed anche se siano esse riferibili all’attività anche solo ordinaria (e non più invece imprevedibile o eccezionale, com’era disposto prima della l. 133/2008) - la legge di riforma 92/2012, con l’art. 1 comma 9 lett. b), aggiunge all’art. 1 d. lgs. 368/2001 il comma “1 bis”. Con esso innova l’ordinamento giuslavoristico, apportando un elemento di novità: vi sono previste infatti due ipotesi di “liberalizzazione” del contratto a termine, ovvero due casi in cui esso può essere stipulato pur in assenza di cause giustificatrici. La prassi amministrativa e la dottrina hanno definito un tale contratto a termine, ovvero caratterizzato dal fatto che non siano necessarie per la sua legittima stipulazione né la sussistenza né l’indicazione per iscritto di alcuna delle ragioni giustificatrici, come contratto a termine “acausale”.
Con l’innovazione apportata dalla riforma “Fornero”, è quindi possibile stipulare legittimamente un contratto a tempo determinato senza che ricorra alcuna delle ragioni giustificatrici, o, rectius, senza che di esse ne sia pretesa la precisa ed incontrovertibile individuazione per iscritto nel contratto al momento della sua conclusione, a pena di inefficacia della clausola di apposizione del termine alla durata del contratto e a rischio di conversione di quest’ultimo in contratto a tempo indeterminato.
Nella vigenza della l. 92/2012, in forza del comma 1 bis, aggiunto all’art. 1 del d. lgs 368/2001, “il requisito”, legittimante in via generale l’apposizione di un termine alla durata del contratto (i.e.: la sussistenza e l’esplicitazione per iscritto di almeno una delle ragioni giustificatrici), non è invece richiesto in due casi: 1) quando lo stipulando contratto a termine tra due parti sia il “primo” contratto di lavoro, e di lavoro subordinato, mai stipulato tra di esse (”nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o
un utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato […]);
2) e, in alternativa all’ipotesi che precede, nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato da peculiari ragioni (l’avvio di una nuova attività; il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; l’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; la fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; il rinnovo o la proroga di una commessa consistente) qualora abbiano (avranno) così previsto i contratti collettivi (stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) ai quali la legge di riforma attribuisce la facoltà di disciplinare tale ipotesi alternativa di contratto a termine “acausale”, regimando la portata della delega con la fissazione di un limite percentuale all’assumibilità di lavoratori con tale contratto a termine e acausale (“nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva”).
Ci si deve necessariamente soffermare e commentare alcuni aspetti condensati in tale disposizione di legge.
2.1.3.2. LE IPOTESI DI LIBERALIZZAZIONE (art. 1 comma 1 bis)
1) il “primo” rapporto di lavoro a tempo determinato tra le parti (contratto subordinato o missione)
Assodato che la norma consente, in determinate ipotesi che essa individua, di prescindere dal requisito dell’indicazione per iscritto nel contratto delle ragioni giustificatrici che legittimano l’apposizione del termine, si deve chiarire quali siano in concreto tali ipotesi, ovvero cosa possa intendersi come “primo” rapporto di lavoro. La disposizione va interpretata in senso letterale: lo stipulando contratto a tempo determinato deve essere il primo contratto che, nella vita lavorativa di un lavoratore, vincola detto lavoratore a quel datore di lavoro. La portata di questa disposizione può risultare più chiara avendo a mente la ratio della norma, che col consentire la stipulazione di un contratto a termine derogando al requisito della indicazione per iscritto delle ragioni giustificatrici, vuole potenziare la dote di “flessibilità buona” insita
in questa tipologia contrattuale, permettendo ad un datore di assumere un lavoratore “pur in assenza del requisito delle causali” requisito che, fino all’entrata in vigore della
l. 92/2012, imbrigliava di fatto la fruibilità di detto contratto. Il legislatore della riforma introduce quasi un nuovo tipo di contratto a termine, il contratto a termine “acausale”66. Esso può essere stipulato quando sia il primo tra le parti. Ciò vuol dire che un datore di lavoro non può assumere col contratto a termine acausale disciplinato dal comma 1bis dell’art. 1 del d. lgs 368/2001, un lavoratore con cui sia già intercorso in precedenza, in un qualsiasi momento lungo tutto l’arco della sua vita lavorativa (del lavoratore), un rapporto di lavoro subordinato67. L’intento che il legislatore vuole realizzare è quello di agevolare l’incontro di domanda e offerta di lavoro, permettendo ad un datore di assumere a termine (senza pretendere l’indicazione delle ragioni che fuor da questa eccezione sono dovute) perché una tale assunzione è, nella logica del legislatore, ed ancor più nella logica dei fatti, strumentale e funzionale a testare le capacità e le competenze di quel lavoratore, cioè essa fa in modo e mette nelle possibilità il datore di conoscere il lavoratore e valutarne l’idoneità alle mansioni, senza che tale assunzioni lo vincoli alle limitazioni del regime del recesso, in quanto il contratto, a termine, prevede il momento della propria cessazione fin dall’atto della sua nascita. Il legislatore ha ritenuto che l’aver sgravato un datore di lavoro dalle imposizioni della disciplina del recesso consentendogli di assumere a termine un lavoratore con cui non abbia già avuto in precedenza un rapporto di lavoro, e permettendogli di conoscerne e valutarne così l’idoneità alle mansioni, sia uno strumento verso la realizzazione di una maggiore
66 XXXX X., Il contratto a tempo determinato dopo la legge 92/2012, in working Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 154/2012
67 La circolare n. 18 del Ministero del Lavoro del 18/07/2012 a tale proposito esplicita che “la deroga al causalone possa trovare applicazione una e una sola volta tra due medesimi soggetti stipulanti il contratto a tempo determinato. In altre parole, il causalone sarebbe quindi richiesto nel caso in cui il lavoratore venga assunto a tempo indeterminato o inviato in missione presso un datore di lavoro/utilizzatore con cui ha intrattenuto già un primo rapporto lavorativo di natura subordinata.
L’introduzione del primo contratto a tempo determinato “acausale” è infatti anche finalizzata ad una miglior verifica delle attitudini e capacità professionali del lavoratore in relazione all’inserimento nello specifico contesto lavorativo; pertanto non appare coerente con la ratio normativa estendere il regime semplificato in relazione a rapporti in qualche modo già “sperimentati”. Ciò a maggior ragione vale per la stipula di contratti a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro con cui si è intrattenuto un precedente rapporto a tempo indeterminato”.
occupazione e stabilità dell’impiego. Nel ragionamento del legislatore, il consentire che un lavoratore possa essere conosciuto e valutato da un datore nella “serenità” data dal fatto che tale assunzione cesserà automaticamente al raggiungimento del termine indicato nel contratto, senza che debbano essere apportate giustificazioni oggettive o soggettive al recesso, può agevolare la stabilità dell’impiego in quanto un datore che abbia così avuto modo di testare un lavoratore e ne sia rimasto soddisfatto, non avrà problemi a stabilizzarlo assumendolo a tempo indeterminato una volta cessato il contratto a termine. La prassi amministrativa68 e la dottrina hanno evidenziato come tale contratto a termine acausale consenta di fatto l’esperimento di un periodo di prova, una “prova lunga”, e lunga tanto quanto la durata del contratto a termine. Di fatto, un datore che abbia intenzione di assumere a tempo indeterminato, potrebbe selezionare un lavoratore, di cui non conosce le capacità non avendo già intrattenuto con lui in precedenza alcun rapporto di lavoro subordinato, assumendolo con un contratto a termine acausale, anziché con un contratto a tempo indeterminato. Il vantaggio risiede sempre nella differente disciplina del recesso. Pur essendo il recesso libero in capo alle parti anche durante il periodo di prova (ovvero le parti possono recedere senza obbligo di preavviso come anche senza che debbano necessariamente sussistere una giusta causa o un giustificato motivo) il lavoratore che sia stato assunto a tempo indeterminato con patto di prova ha comunque diritto di essere messo nelle condizioni di esperire tale prova. Ai sensi del comma 2 dell’art. 2096 c.c. “l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova” (ed il successivo comma 3 aggiunge che se “la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”). Ragioni per cui un datore di lavoro che assumesse con contratto a tempo indeterminato con patto di prova, e dovesse recedere durante il periodo di prova rimarrebbe gravato dell’onere, in un eventuale giudizio che venisse instaurato, di dimostrare di aver consentito lo svolgimento della prova e di aver messo il lavoratore nelle condizioni di espletare la prova. Tale rischio non sussiste, invece, se l’assunzione sia avvenuta con contratto a termine acausale, che pure consente di conseguire di fatto le
68 La circolare del Ministero del Lavoro del 18 luglio 2012 n. 18 fornisce le prime indicazioni operative
finalità tipiche del patto di prova, ovvero di valutare la capacità professionale del lavoratore e la sua idoneità alle mansioni affidategli.
Al datore di lavoro che stia valutando l’assunzione di un lavoratore “sconosciuto” (ovvero: con cui non abbia avuto in precedenza rapporti di lavoro subordinato per mezzo dello svolgimento dei quali abbia già avuto modo di conoscerne le attitudini al lavoro, le competenze e l’idoneità) l’ordinamento fornisce quindi uno strumento in più: il contratto a termine acausale, che il datore potrà scegliere quale forma iniziale di ingresso di quel lavoratore nell’organizzazione aziendale, ad esempio in alternativa ad un contratto di apprendistato o di lavoro a tempo indeterminato con patto di prova. Per poter stipulare un contratto a termine acausale, però, è necessario che esso sia il “primo” rapporto di lavoro tra le stesse parti, ovvero che il datore non abbia già “sperimentato” (secondo l’espressione usata dalla circolare ministeriale 18/2012) quel lavoratore. La ratio è la stessa che ispira la disciplina del patto di prova, che nega la legittimità all’apposizione di tale clausola in un contratto se l’esperimento della prova abbia già avuto luogo tra le stesse parti in un periodo precedente ragionevolmente recente e per mansioni uguali o simili69. Il lavoratore è già stato “conosciuto” e “sperimentato” dal datore in precedenza: ciò comporta che non possa essere apposto il patto di prova in un successivo contratto col pretesto di conseguire una “conoscenza” delle attitudini e competenze di quel lavoratore che il datore ha già acquisito in un contratto precedente. Nel caso del contratto a termine, la già avvenuta conoscenza delle qualità di un dato lavoratore comporta che esso non possa essere stipulato come “acausale”. Lascia tuttavia perplessi e suscita un dubbio critico l’assolutezza della previsione normativa, che preclude tout-court la stipulazione di un contratto a termine acausale nel caso in cui esso non sia “il primo”, e quindi quando ci siano già stati tra le stesse parti altri contratti, a nulla valendo che siano stati stipulati in tempi anche remotissimi o per mansioni diverse.
69 A questo proposito si veda la sentenza della Cassazione, n. 10440 del 22 giugno 2012: “la ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti è ammissibile solo se essa, in base all’apprezzamento del giudice di merito, permetta all’imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione , elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l’intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute”.
Si è detto che il contratto a termine può essere acausale, e quindi può essere stipulato senza l’indicazione per iscritto delle ragioni giustificatrici, esclusivamente nel caso in cui esso sia il “primo” rapporto di lavoro intercorrente tra quelle parti. Ci si sofferma ora su cosa debba intendersi come “rapporto di lavoro”: la prassi amministrativa e la dottrina hanno circoscritto la portata di tale limitazione, ritenendo che con “rapporto di lavoro” debba intendersi un rapporto contrattuale di lavoro di natura subordinata. Eventuali precedenti rapporti di lavoro tra due parti, che non siano stati di natura subordinata, non farebbero dunque venir meno la qualità di “primo” rapporto di lavoro al contratto a termine che si volesse tra loro stipulare, in quanto, pur non primo rapporto di lavoro in assoluto tra quelle parti, sarebbe pur sempre il primo rapporto di lavoro a carattere “subordinato”. A mente di ciò, anche qualora tra un datore ed un lavoratore sia già intercorso un qualche rapporto di lavoro (che non sia stato, però, quello di lavoro “subordinato”) non sarebbe tuttavia preclusa la possibilità di stipulare un “primo” contratto a termine “acausale”, in virtù del fatto che i precedenti rapporti di lavoro, pur essendoci stati, non erano però di natura subordinata. Il che vuol dire che nonostante tra un lavoratore e chi vorrebbe essere datore sia già intercorso un rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato, è ancora possibile stipulare un primo contratto a termine acausale, in quanto, pur non essendo primo rapporto di lavoro in assoluto, sarebbe pur sempre il primo contratto di lavoro “subordinato”.
Secondo questo stesso ragionamento, eventuali pregresse esperienze di lavoro che non costituiscono, però, alcun rapporto di lavoro tra le parti (come gli stages o tirocini formativi) non costituiscono il precedente che farebbe venir meno nel contratto a termine che si voglia stipulare il carattere di “primo” rapporto di lavoro, e questo appunto perché detti tirocini formativi, pur svolgendosi di fatto come un lavoro, giuridicamente non costituiscono un rapporto di lavoro. A sostegno di questa tesi si pensi, ad esempio, a come le linee guida che regolano i tirocini ne limitino l’attivazione
- escludendone la fattibilità per quelle attività che non necessitino di un periodo formativo, non costituendo per il tirocinante un’occasione di arricchimento del bagaglio di esperienza - fino ad arrivare all’esplicito divieto di utilizzare tirocinanti in sostituzione di lavoratori assenti o per fronteggiare periodi di picco produttivo. Tale divieto si spiega proprio in considerazione del fatto che i tirocinanti non sono,
giuridicamente, “lavoratori” dell’impresa. Eventuali carenze di personale devono essere soddisfatte reperendo altro personale, organizzando diversamente quello già in forza all’azienda o assumendone altro, e non utilizzando i tirocinanti che non sono vincolati all’impresa da un contratto di lavoro.
Nel disporre che è possibile prescindere dal requisito dell’indicazione delle ragioni giustificatrici qualora il rapporto a tempo determinato sia il “primo” intercorrente tra le parti, il comma 1 bis dell’art, 1 del d. lgs, 368/2001 come innovato dalla riforma “Fornero”, esplicita che esso può essere concluso sia nella forma del contratto a tempo determinato sia come prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato, ai sensi dell’art. 20, comma 4, del d. lgs. 276/2003.
2) ipotesi individuate dalla contrattazione collettiva
L’individuazione dell’ulteriore ipotesi di liberalizzazione del contratto a termine è demandata alla contrattazione collettiva, cui la legge attribuisce tale facoltà.
La legge 92/2012 coinvolge le organizzazioni sindacali nell’individuazione dei casi in cui sia consentito stipulare un contratto a termine acasuale, nell’intenzione di affiancare all’ipotesi “normativa” prevista dalla legge (ovvero quella del primo rapporto a tempo determinato, sia nella forma di contratto a termine, sia nella forma della missione) ulteriori ipotesi in cui sia possibile stipulare contratti a temine “acausali”. Tali ipotesi andrebbero individuate dalla contrattazione collettiva, dato si ritiene sia più vicina del legislatore alle realtà produttive e alle loro peculiari esigenze. Si tratta di ipotesi, diverse da quella del primo rapporto di lavoro, e nelle quali è comunque parimenti consentito assumere a termine senza indicare le ragioni giustificatrici.
Da un lato la legge conferisce questa facoltà alla contrattazione collettiva, dall’altro, tuttavia, la limita, prevedendo: un limite percentuale massimo di contratti stipulabili come acausali (pari al 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva), e riportando la fattibilità del contratto a tempo determinato acausale “nell’ambito di un processo organizzativo determinato da peculiari ragioni che la legge stessa individua al successivo art. 5 comma 3: l’avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, l’implementazione di un rilevante cambiamento
tecnologico, la fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, il rinnovo o la proroga di una commessa consistente.
Alla contrattazione collettiva la legge rimette la facoltà legittimare assunzioni a termine acausali entro, però, un primo limite in base al quale le occasioni di assunzione debbano verificarsi in peculiari circostanze della vita di un’impresa individuate dallo stesso legislatore.
Il secondo limite prescrive un tetto massimo al numero delle assunzioni acausali che la legge consente possano essere fatte all’occasione e in quanto si verifichino le esigenze organizzative determinate dall’avvio di una nuova attività o dalle altre quattro fasi della produzione prima elencate. Il limite complessivo è pari al 6% del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva. Due osservazioni: 1) non è chiaro quali lavoratori genericamente “occupati” nell’ambito dell’unità produttiva vadano a costituire la base di calcolo su cui calcolare il numero di assumibili con contratto acausale al verificarsi dei processi organizzativi determinati dalle peculiari fasi del processo produttivo. Devono essere ricompresi tutti gli occupati? Indipendentemente dalla tipologia contrattuale con cui sono occupati nell’impresa? O solo alcuni tra di loro, come già avviene per individuare le basi su cui effettuare il calcolo per altri istituti (ad esempio l’obbligo di assunzione dei disabili)? Solo chi è occupato con contratti di lavoro subordinato (e ancora: tutti? o solo quelli a tempo indeterminato? E se invece anche quelli a tempo determinato con quale criterio di conteggio?) o anche, ad esempio, gli apprendisti? 2) la seconda osservazione che qui si propone attiene al limite percentuale, in considerazione alle capacità occupazionali dell’azienda. Facendo un rapido calcolo si ricava che per poter effettuare assunzioni acasuali all’occasione delle citate peculiari fasi produttive è necessario che l’organico già in essere consti di un numero di non meglio definiti “occupati” utile a fare da base capiente su cui calcolare il massimale del 6%. Restano quindi escluse dalla fattibilità di assunzioni a termine acausali (alternative all’ipotesi del “primo” rapporto di lavoro) tutte le imprese di dimensioni medio-piccole. La norma ha suscitato perplessità e lascia prevedere che non sarà attuata70. Come è stato osservato, le ipotesi speciali che dovrebbero sostituire quella
70 MENGHINI L.: “Non vale insistere, la norma non sarà attuata, non solo perché nessun serio sindacato dei datori di lavoro la proporrà, ma anche perché nessun sindacato serio dei lavoratori sarà così incosciente da scambiare nuove assunzioni a termine divenute
generale xxxxxxxx hanno già di per sé i requisiti della temporaneità “mite” per rientrare in quelle di cui al comma 1 dell’art del d. lgs. 368/2001 e comunque sono di frequente contemplate e ribadite per certezza dalla contrattazione collettiva.
2.1.3.3. L’IMPROROGABILITÀ DEL CONTRATTO ACASUALE (art. 4, comma 2 bis) Se, da un lato, il legislatore della l. 92/2012, animato dall’intento di dotare il mercato del lavoro di strumenti che agevolino l’incremento dell’occupabilità e della stabile occupazione, consente che vengano stipulati contratti a termine in deroga al requisito dell’indicazione delle ragioni giustificatrici; dall’altro provvede a prevenire eventuali abusi, consentendo che un contratto siffatto possa avere una durata massima di 12 mesi71 e non possa essere prorogabile.72 L’art. 1, comma 9, lett. d) della legge 92/2012 ha infatti disposto l’introduzione dell’art. 2 bis all’art. 4 del d. lgs. 368/2001 prevedendo esplicitamente che il contratto a termine “di cui all’art. 1 comma 1bis”, ovvero acasuale, non può essere oggetto di proroga. La circolare ministeriale n. 18/2012 specifica poi che “se ad esempio il primo rapporto ha una durata di soli 3 mesi, in caso di successiva assunzione a tempo determinato, occorrerà indicare le ragioni che lo giustificano. In tal senso, il periodo di 12 mesi non costituisce una franchigia – o comunque un periodo in qualche modo frazionabile – nell’ambito del quale si è sempre esonerati dall’individuazione del causalone”. Per quanto attiene alla proroga, la stessa circolare esplicita che “il primo rapporto a termine acasuale non è in nessun caso prorogabile, nemmeno qualora lo stesso abbia avuto una durata inferiore ai 12 mesi e sino a tale durata massima”.
oggi molto preziose (bloccandole del tutto) con possibilità di impiego temporaneo che i lavoratori hanno già”, in Commentario alla Riforma Fornero, supplemento a Diritto &Pratica del lavoro 33/012, 101
71 La circolare 18/2012 del Ministero del Lavoro specifica che “il primo rapporto a tempo determinato, in relazione al quale non è richiesta l’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, non può avere una durata superiore a 12 mesi. Se ad esempio il primo rapporto ha una durata di soli 3 mesi, in caso di successiva assunzione a tempo determinato, occorrerà indicare le ragioni che lo giustificano. In tal senso, pertanto, il periodi di 12 mesi non costituisce una “franchigia” – o comunque un periodo in qualche modo frazionabile ‐ nell’ambito della quale si è sempre esonerati dalla individuazione del causalone”
72 su durata massima 36 mesi e cumulo e computo
Si fa qui un breve cenno alla forma, necessariamente scritta del “primo” rapporto di lavoro acausale. La ratio di tal prescrizione è di poter verificare la data di scadenza, e, quindi, il rispetto del limite della durata massima.
In considerazione della durata massima di 12 mesi prescritta per i primi rapporti di lavoro acausali si osserva che essa potrebbe porgere il fianco ad uso strumentale di più “primi” rapporti acausali a termine in successione stipulati, per una stessa mansione, con lavoratori diversi. Xxxxxxx che è stato definito di “turnazione”, una pratica in base alla quale un datore sarebbe disincentivato dallo stabilizzare, assumendolo a tempo indeterminato dopo la fine del primo rapporto di lavoro (contratto subordinato o missione) a termine acasuale, il lavoratore che così era stato assunto, in quanto potrebbe soddisfare l’esigenza di personale per quella mansione assumendo, ancora una volta con un “primo” rapporto a temine acausale, un nuovo e diverso lavoratore, e tale pratica potrebbe replicarsi all’infinito, almeno finché duri l’esigenza di copertura per quella mansione. Questa prospettiva potrebbe rispondere al vero nei casi in cui le mansioni da coprire siano di bassa qualifica, per le quali non sia necessario investire troppo in termini di formazione del personale ad esse addetto; e potrebbe essere ridimensionata nel caso in cui le mansioni fossero più delicate e richiedessero professionalità qualificate e alle quali un datore deve destinare impegno ed accortezze al fine di fornire loro l’adeguata formazione e garantirne l’efficace inserimento nell’apparato produttivo. In questo caso è verosimile che un datore, che abbia scelto di cogliere l’opportunità offerta dal “primo” rapporto a termine acasuale per conoscere e sperimentare un lavoratore, per testarlo e formarlo, sia ben disposto in seguito a stabilizzarlo proprio in virtù del fatto che su di lui ha investito tempo e impegno in termini di formazione.
Al fine di incentivare la successiva stabilizzazione (intendendosi con ciò l’assunzione a tempo indeterminato) del lavoratore assunto con rapporto acasuale, il legislatore ha disposto la possibilità del rimborso, sia pure solo parziale, della maggiorazione contributiva che onera i contratti a termine acausali. La riforma Fornero, infatti, da un lato agevola le occasioni di lavoro, prevedendo ipotesi in cui il termine alla durata del contratto può essere apposto, in deroga alla regola generale, senza che debbano essere indicate le ragioni che ne legittimano l’apposizione; dall’altro, al fine di contrastare pratiche abusive, ha reso più costoso il ricorso al contratto a termine, imponendo un
aumento della contribuzione pari a 1,4%. In caso di successiva stabilizzazione, la legge dispone che al datore possa essere rimborsato l’equivalente di 6 mesi di tale contribuzione aggiuntiva.
2.1.3.4. PROSECUZIONE DI FATTO E SUCCESSIONE DI PIÙ CONTRATTI A TERMINE (art. 5)
Un ulteriore ambito in cui è intervenuta la legge di riforma 92/2012 è quello della disciplina della prosecuzione di fatto del contratto al termine dopo la sua scadenza.
La l. 92/2012 procede in continuità con la legge 24 giugno 1997 n. 196 (cosiddetto “pacchetto Treu”), che aveva introdotto la possibilità che un contratto a termine potesse proseguire di fatto dopo la scadenza, e senza che questa prosecuzione di fatto comportasse la sanzione della conversione in contratto a tempo indeterminato. L’intento era quello di dotare l’ordinamento di uno strumento con cui fosse possibile ultimare le lavorazioni per le quali il lavoratore era stato assunto a termine e che si fossero poi prolungate oltre i termini previsti; come anche provvedere a soddisfare commesse che fossero state rinnovate dopo che il contratto a termine era già stato stipulato. La legge 196/97 prevedeva quindi dei periodi di “tollerabilità”, ovvero periodi durante i quali era tollerato che il rapporto di lavoro, pur scaduto il termine previsto nel contratto, potesse continuare e senza che questo comportasse la conversione in contratto a tempo indeterminato. I periodi di tollerabilità erano: di 20 giorni (se il contratto a termine aveva una durata inferiore ai 6 mesi) e di 30 giorni (nel caso il contratto a termine avesse avuto una durata superiore ai 6 mesi). A fronte di tale tolleranza, la legge, al primo comma dell’art. 5 d. lgs. 368/2001, imponeva una maggiorazione della retribuzione dovuta al lavoratore per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo alla scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, e pari al 40% per ciascun giorno ulteriore.
La legge 92/2012 conferma tale impostazione e modifica, allungandone la durata, i periodi di tollerabilità della prosecuzione di fatto. Nella scrittura riformata dell’art. 5 c. 2, la prosecuzione di fatto del contratto a termine scaduto è possibile fino ad un massimo di 30 o di 50 giorni, a seconda che la durata del contratto fosse inferiore o superiore a 6 mesi. Impone però un nuovo onere, per altro senza dotarlo di alcuna
sanzione per il caso dell’inadempimento, in capo al datore di lavoro, al quale è fatto obbligo di comunicare al centro per l’impiego territorialmente competente che il rapporto continuerà oltre il termine che era già stato comunicato all’atto dell’assunzione. Non solo. Il datore dovrà effettuare tale comunicazione prima della scadenza del termine inizialmente fissato: il che vuol dire prima che la prosecuzione abbia luogo; e indicando altresì la durata della prosecuzione. La finalità della norma è antielusiva: si vuole evitare la prosecuzione “in nero” del rapporto di lavoro, che comporterebbe il mancato rispetto della normativa del lavoro in generale ed in particolare il mancato versamento delle contribuzioni ordinaria e addizionale. Rimane poi un dubbio, sembrando che una prosecuzione di fatto così regimata da obblighi di comunicazione circa la sua durata da effettuarsi prima che scada il contratto, somigli molto ad una proroga del contratto: ci si chiede quindi quale sarebbe la differenza tra questi due istituti e la si ravvisa nelle diverse durate possibili. Nel caso di proroga vera e propria essa sarebbe data dal limite massimo di durata del contratto a termine (che può essere quindi prorogato fino al raggiungimento del limite massimo di 36 mesi); nel caso di prosecuzione oltre il termine comunicata (prima della scadenza termine) al centro per l’impiego essa vedrebbe come limite massimo quello dei 30 o 50 giorni, oltre i quali l’ordinamento non tollera più la prosecuzione e si torna a considerare il contratto a tempo indeterminato dalla scadenza di detti termini.
La legge 92/2012 ha modificato anche il comma 3 dell’art. 5, prevedendo nuovi e più lunghi intervalli di tempo tra i contratti a termine in successione. Il che vuol dire che è possibile che uno stesso lavoratore venga assunto a termine da uno stesso datore con più successivi contratti a tempo determinato, ma affinché le assunzioni successive siano legittime è necessario rispettare determinati intervalli di tempo tra un contratto e l’altro, intervalli la cui durata è stabilita dalla legge. La riforma Fornero rende più severa la disciplina della successione di contratti a termine, allungando la durata dei periodi di intervallo e portandola da 10 e 20 giorni (come era prima della l.92/2012, a seconda che la durata del contratto scaduto fosse fino a sei mesi o superiore a sei mesi ) a 60 giorni e 90 giorni, confermando la sanzione in base alla quale in caso di mancato rispetto degli intervalli di tempo il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
La l. 92/2012 mitiga poi un tale irrigidimento della disciplina dei rinnovi, ovvero della possibilità di assumere uno stesso lavoratore con più contratti a termine successivi, attribuendo ai contratti collettivi (stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) la facoltà di ridurre la durata degli intervalli. I contratti collettivi possono quindi “prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione dei predetti periodi, rispettivamente, fino a 20 giorni e 30 giorni, nei casi in cui”, però, “l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle stesse particolari vicende della produzione per le quali è consentito alla contrattazione collettiva di individuare ipotesi ulteriori in cui il rapporto di lavoro a termine possa essere acausale, e cioè, ancora una volta: l’avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, l’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, la fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, il rinnovamento o la proroga di una commessa consistente. In caso di inerzia da parte della contrattazione collettiva nell’esercitare tale facoltà, la norma prevede che, decorsi 12 mesi dalla data di entrata in vigore della disposizione, sarà il Ministero del lavoro e delle politiche sociali a provvedere a individuare “le specifiche condizioni” in cui operano le riduzioni dei termini.
2.1.4. LA DISCIPLINA AD HOC PER LE START-UP INNOVATIVE
Nella rinnovata disciplina del contratto a termine un successivo provvedimento disegna una disciplina ad hoc (e di maggior favore) per le cosiddette “start- up” innovative, nell’intento di sostenerne e promuoverne lo sviluppo.
Il decreto “sviluppo” (d.l. 179/2012, convertito con modificazioni dalla legge 221/2012) xxxxxxx00 una disciplina “derogatoria” alla disciplina generale in materia di contratto a termine, nel caso in cui a fruirne siano imprese innovative in fase di avvio. Così queste possono stipulare contratti a tempo determinato in deroga sia al requisito della ricorrenza di ragioni oggettive, sia al contratto acausale e ai limiti temporali. In
73 E fino alla sua abrogazione che sarà disposta dal d. lgs. 81/2015 (art. 55, comma 1, lett. i)) di riordino dei contratti, che comprenderà in sé la disciplina organica delle tipologie contrattuali diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ponendo fine allo “spezzatino” normativo (nelle parole del primo ministro Xxxxx) delle fonti di disciplina delle varie tipologie contrattuali.
particolare, poi, il contratto di lavoro a termine stipulato da start-up innovative non è tenuto al rispetto degli intervalli (stop and go) in caso di successione di più contratti , deroga che, in considerazione dell’inasprimento attuato in questo istituto ad opera della legge Fornero, evidenzia ancor più il favor del legislatore che così intende sostenere queste imprese74.
2.1.5. ALCUNE RIFLESSIONI
Le modifiche alla disciplina del contratto a termine che si sono qui brevemente illustrate sono state apportate dalla l. 92/2012 nel dichiarato intento di valorizzare gli aspetti positivi che la flessibilità di questo tipo di contratto permette, volendo al contempo contrastarne l’utilizzo abusivo. Coerentemente con tali finalità, la legge di riforma è intervenuta, da un lato, rendendo più difficile l’utilizzo successivo di contratti a termine, aumentando la durata dei periodi intervallo tra un contratto e l’altro, e rendendo più costoso in termini economici l’utilizzo di questo contratto prevedendo (sia pure per i contratti stipulati a partire dal 1/1/2013) un aumento (1.4%) della contribuzione; dall’altro introducendo quasi una nuova specie di contratto a termine, il contratto “acausale”, che un datore di lavoro può scegliere di stipulare quando assuma per la prima volta un certo lavoratore con il quale non abbia già avuto precedenti rapporti di lavoro subordinato.
I commenti hanno molto valorizzato il contratto acausale e la sua caratteristica per la quale un datore può assumere pur “in assenza di causali”, ovvero in assenza delle ragioni (di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo) che secondo la
74 DE XXXXXXX X., la misura preventiva della durata massima complessiva dei rapporti a termine e la deroga inammissibile alla normativa sui contatti successivi. Deroghe in materia di start‐up innovative, in CINELLI, XXXXXXX, MAZZOTTA, Il nuovo mercato del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2013, 59, l’autore evidenzia anche tale “normativa derogatoria di settore marginale, compatibile con la direttiva 1999/70/Ce, in considerazione della fissazione della misura preventiva della durata massima complessiva dei rapporti successivi a termine, che potrebbe presentare qualche profilo di contrasto con la clausola 4 di uguaglianza e non discriminazione dell’accordo quadro comunitario sulla disciplina del contratto a tempo determinato, nel caso in cui la deroga consentita alla contrattazione collettiva di fissare specifici minimi tabellari (evidentemente inferiori a quelli del CCNL di categoria) e specifici criteri di determinazione della parte variabile della retribuzione (comma 8) possa non essere giustificata da effettive ragioni oggettive legate all’incremento occupazionale e all’avvio o al rafforzamento dell’attività innovativa”.
regola generale sono necessarie per stipulare un contratto a termine e ne legittimano la stipulazione75.
La norma tuttavia non descrive l’acausalità come mancata esistenza delle ragioni, ma come non necessaria indicazione delle ragioni per iscritto nel contratto. Ed invero, riflettendo, una ragione (di carattere organizzativo, sostitutivo, produttivo, tecnico) che porta un datore ad assumere esiste, a meno che non si voglia prendere per buona l’idea che un datore assume pur non avendone l’esigenza. La acausalità può essere allora ricondotta alla non indispensabilità che tali ragioni vengano esplicitate per iscritto nel contratto al momento della sua stipulazione, ed in modo puntuale e preciso, tale da consentire in eventuale sede di contenzioso la verifica da parte del giudice della loro effettiva sussistenza76. Cionondimeno, anche un alleggerimento siffatto degli oneri in capo al datore può produrre effetti positivi, considerando ad esempio che un datore che assuma a termine senza dover esplicitare per iscritto le ragioni (che resteranno acquisite e immutabili), viene sollevato dal rischio di doversi difendere da contestazioni circa la loro sussistenza e idoneità, e viene liberato dall’onere di dimostrare la legittimità dell’apposizione del termine, in mancanza della quale il contratto a termine viene convertito in contratto a tempo indeterminato. In proposito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14283 del 28 giugno 2011 ha specificato che in capo al datore di lavoro sorge sempre l’onere di provare le condizioni che giustificano l’apposizione del termine al contratto di lavoro. In particolare, la Corte ha sentenziato che il datore di lavoro deve sempre poter giustificare con prove concrete le motivazioni che hanno portato all’apposizione di un termine di durata, anche quando l’ipotesi contemplata è prevista dal contratto collettivo di riferimento.
La giurisprudenza ha inoltre puntualizzato che le ragioni non solo devono essere esplicitate per iscritto, ma devono anche essere descritte in modo “puntuale” e “dettagliato”, in modo tale da consentire al giudice il controllo sulla effettiva sussistenza
75 Nota metodologica: in considerazione della stratificazione normativa intervenuta in più momenti, quanto riportato qui, come negli altri paragrafi dedicati alla trattazione della disciplina di ogni riforma, è da intendersi riferito al periodo di vigenza della riforma de quo.
76 XXXXXXXX L., XXXXXXX A., La riforma del mercato del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2014, 39, in nota 18
della ragione77. Per lo stesso motivo non è consentito descrivere le ragioni facendo riferimento a locuzioni generiche o che ripetono la mera attività del datore. Parte della giurisprudenza ha sostenuto che sarebbe necessario specificare anche il nesso causale fra le ragioni aziendali che giustificano il ricorso al contratto di lavoro a termine ed il singolo contratto di lavoro78. Si può dire, come ritiene la giurisprudenza, che gli oneri di cui è gravato il datore di lavoro sono due: a) al momento della stipulazione del contratto, quello di specificare, e in modo preciso, le ragioni che legittimano l’apposizione del termine; b) in sede di eventuale contenzioso, quello di fornire la prova concreta delle ragioni addotte. La legge 92/2012, nell’individuare un’ipotesi di contratto a termine scevro da tali oneri riguardo la sussistenza delle ragioni giustificatrici, intende agevolare l’instaurazione e la successiva gestione del primo contratto a termine, evitando il contenzioso che spesso insorge proprio prendendo le mosse dall’interpretazione della causale e può sfociare nella conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro. Quindi il poter assumere a termine senza l’indicazione delle ragioni mette il datore al riparo dal rischio di conversione e per quanto poco già questo può incoraggiare un datore restio, ad assumere proprio perché in questa ipotesi sarebbe indenne dall’onere probatorio della legittimità dell’apposizione del termine e dal connesso rischio di conversione del contratto.
77 In questo senso si veda App. Milano, 9 dicembre 2003: “Le ragioni devono essere chiaramente specificate, esplicitate in modo preciso e sufficientemente dettagliato; non sufficiente il mero richiamo a formule di legge, a ipotesi alternative o comunque indicazioni di carattere generico; deve essere possibile per il giudice verificare il nesso di causalità tra le ragioni addotte e la specifica assunzione a tempo determinato: è a carico del datore di lavoro l’onere di provare l’effettiva sussistenza delle ragioni giustificative addotte”. E, in senso conforme, Trib. Milano 11 maggio 2006, n, 1431.
78 “Anche dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 368 del 2001, la causa che giustifica l’apposizione del termine non può essere formulata in termini generici, ma devono essere indicate le specifiche circostanze di fatto (come ad esempio i motivi organizzativi, cronologici, territoriali, cronologici) per le quali si procede all’assunzione, nonché il loro nesso causale con il singolo contratto stipulato” Trib. Milano, 8 gennaio 2004.
2.1.6. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NELLA RIFORMA GIOVANNINI
Ovvero come il decreto legge cosiddetto “Lavoro”, d.l. 28 giugno 2013 n. 76 (art. 7), poi convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013 n. 99, ha riformato la disciplina del contratto a termine.
Giusto un anno dopo l’approvazione della legge 92/2012, il mercato del lavoro è stato ancora una volta oggetto di una serie di interventi di modifica, alcuni dei quali di segno diametralmente opposto a quelli apportati all’ordinamento appena un anno prima79.
Il nuovo intervento di riforma è dato dal decreto legge 28 giugno 2013 n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013 n. 99. In particolare per quanto di qui si sta trattando, le modifiche alla disciplina del contratto a termine sono disposte dall’art. 7, comma 1 lett. a), b), c), d) di detto decreto ed interessano l’art. 1 del d. lgs. 368/2001, in cui viene modificato il comma 1bis; l’art. 4, in cui è stato abrogato il comma 2 bis; l’art. 5 in cui sono stati modificati i commi 2 e 3, e abrogato il comma 2 bis; e l’art. 10 al cui comma 1 è stata introdotta la lettera c ter), è stato abrogato il comma 6, e modificato il comma 7.
2.1.6.1. LE MODIFICHE ALL’ART. 1
All’art. 1 è stato modificato il comma 1 bis, la previsione in base alla quale era stata riconosciuta in capo alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare, in alternativa a quella del primo rapporto di lavoro, ulteriori ipotesi di contratto a termine acausale. Ferma la previsione di possibile “acausalità” per il “primo” rapporto di lavoro, la disposizione riformata recita che il requisito delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine non è richiesto: “in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Rispetto alla precedente scrittura, la disposizione come modificata dall’art. 7 c. 1 del d. l. 76/2013 ha
79 “mini controriforma” viene definita in ZILIO GRANDI G., SFERRAZZA M., Xxxxxx a termine, la disciplina riformata, in Diritto & pratica del lavoro, 43/2013, 2502, in cui si pone l’accento critico anche su come il problema sia anche quello della “certezza delle regole e della loro interpretazione e corretta applicazione”, mancanza di certezza delle regole evidenziata quale “uno dei maggiori difetti della legislazione giuslavoristica degli ultimi anni”
eliminato le limitazioni che sono state forse l’origine del mancato esercizio, da parte delle organizzazioni sindacali, della facoltà loro attribuita di individuare le ipotesi di contratto acausale alternative a quella del primo rapporto di lavoro. Tali limitazioni sono: il limite percentuale del 6% (calcolato sul totale dei lavoratori occupati) dei lavoratori assumibili con tale contratto a termine acausale le cui ipotesi di fattibilità avrebbero dovuto essere individuate dalla contrattazione collettiva; e l’eliminazione della disposizione che circoscriveva l’assumibilità acausale a particolari fasi della produzione. Dopo la modifica, esplicita la circolare del Ministero del Lavoro n.35/2013 “la disciplina eventualmente introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di contratto acasuale va ad integrare quanto già previsto direttamente dal legislatore, In tal modo i contratti collettivi, anche aziendali, potranno prevedere, a titolo esemplificativo, che il contratto a termine “acausale” possa avere una durata maggiore di dodici mesi ovvero che lo stesso possa essere sottoscritto anche da soggetti che abbiano precedentemente avuto un rapporto di lavoro subordinato”.
Ulteriore innovazione apportata dal d. l. 76/2013 che ha disposto l’abrogazione del comma 2 bis dell’art. 4 del d. lgs. 368/2001, è l’aggiunta della previsione che anche il “primo” contratto acausale possa essere prorogato, sia pur sempre entro i limiti della durata massima consentita di 12 mesi.
2.1.6.2. LE MODIFICHE ALL’ART. 5
Il d. l. 76/2013 ha esteso anche al contratto a termine acausale la possibilità che esso venga proseguito oltre la scadenza del termine, disponendo che anche al contratto acausale va applicata la disciplina della prosecuzione in base alla quale un contratto può proseguire per un periodo “di tolleranza” di 30 o 50 giorni (a seconda che la durata del contratto fosse inferiore o superiore a sei mesi) senza che ciò comporti la conversione a tempo indeterminato del contratto80. In tal senso, dice la circolare 35/2013, “ferme restando eventuali diverse previsioni introdotte dalla contrattazione collettiva, un contratto “acausale” potrà avere una durata massima di dodici mesi e cinquanta giorni, superati i quali lo stesso si trasformerà in un “normale” contratto di lavoro subordinato
80 XXXXXX X., Le modifiche in tema di lavoro a termine nel “decreto lavoro”: alcune osservazioni in tema di “acausalità” e proroga del contratto, in Working Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 188/2013
a tempo indeterminato”. Il d. l. 76/2013 abroga anche l’incombenza che la riforma Fornero aveva disposto: l’obbligo di comunicazione obbligatoria della prosecuzione, da effettuarsi prima della scadenza del termine del contratto a termine e indicando anche la durata della prosecuzione.
Considerevole è la modifica al comma 3 dell’art. 5, ovvero alla durata dei periodi di intervallo (stop and go) tra un contratto a termine ed il successivo (tra le stesse parti). Il
d.l. 76/2013 ha ripristinato la durata degli intervalli quale era prima della riforma Fornero: 10 giorni (nel caso in cui il contratto fosse stato di durata inferiore a sei mesi) e 20 giorni (se di durata superiore ai sei mesi). Sul punto la circolare evidenzia che “le disposizioni che richiedono il rispetto degli intervalli tra due contratti a termine, nonché quelle sul divieto di effettuare due assunzioni successive senza soluzioni di continuità, non trovano applicazione: nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al DPR n. 1525/1963; né in relazione alle ipotesi, legate anche alle attività stagionali, individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, che potrebbero quindi ridurre ulteriormente la durata del periodo di intervallo o anche annullarla.
2.1.7. CONFRONTO TRA RIFORME FORNERO E XXXXXXXXXX
La disciplina del contratto a termine, nel giro di un anno, è stata oggetto di riforme ad opera del l. 92/2012 e del d.l. 76/2013.
Mettendo a confronto le disposizioni di queste due fonti, appare come quelle della seconda abbiano spesso vanificato le modifiche che erano state apportate al d. lgs 368/2001 da quelle della prima81.
Così è avvenuto per la disciplina della proroga del contratto acausale, per quella della durata degli intervalli nella successione di più contratti a termine, per la previsione dell’obbligo di comunicazione della prosecuzione di fatto.
81 XXXXX XXXXXX G., in Dal decreto‐legge n. 76/2013 alla legge n. 99/2013 e circolari “correttive”. Un percorso di lettura, e‐book ADAPT 15/2013, ricorre alla metafora del “gambero” per descrivere quale è stata l’evoluzione del diritto del lavoro in Italia negli ultimi dieci anni: “un passo avanti e due indietro”.
L’intento della riforma “Fornero” in materia di contratto a tempo determinato era duplice: da un lato dotare il mercato del lavoro di uno strumento ch agevolasse l’accesso al mondo del lavoro, realizzando una qualche flessibilità in entrata; dall’altro, porre un freno all’utilizzo abusivo di tale tipologia contrattuale, regolamentando la successione di più contratti a termine in modo più rigido82. Tale impostazione è durata lo spazio di un governo (italiano), giusto un anno. Nel 2013, infatti, nello stesso giorno in cui tale riforma così ferma nell’intento di ostacolare l’utilizzo abusivo della successione dei contratti compiva un anno, con una curiosa coincidenza temporale il 28 giugno veniva emanato il d. l. n. 76 che, al passo in avanti fatto dalla riforma Fornero sulla strada del contrasto dell’utilizzo abusivo del contratto a termine, ne contrappone due indietro in nome di una flessibilità in entrata indispensabile alle imprese e utile ai lavoratori per accedere al mercato del lavoro. Quello che rimane è uno stratificarsi di norme che in tempi brevi dicono tutto ed il suo contrario, creando il sicuro effetto di confondere gli operatori e senza porre i presupposti per una progettualità anche solo di breve periodo che consenta alle imprese di pianificare piani di produzione e di compiere scelte nella gestione del personale.
2.1.8. IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO NEL “JOBS ACT” (ovvero: le modifiche apportate al contratto di lavoro a termine da parte del primo atto del Jobs Act, il decreto c.d. “Poletti”, decreto legge 20 marzo 2014 n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014 n.78)
Le modifiche al contratto a tempo determinato continuano anche con il successivo intervento di riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto “Jobs Act”, in un primo tempo
- ovvero in attesa della razionalizzazione delle forme contrattuali, oggetto di una specifica delega legislativa che il Governo potrà esercitare entro 18 mesi da quando
82 La clausola 5 dell’accordo quadro 18 marzo 1999 (tra UNICE,CEEP,CES) prevede un elenco di “misure di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. A tal fine, si precisa che gli Stati membri, in assenza di norme equivalente nel diritto nazionale, dovranno introdurre “una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti” SCIARRA S., op cit, 152
sarà, se sarà, entrata in vigore la legga delega (Atto Senato n. 1428)83 – costituito dal decreto legge 20 marzo 2014 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014 n. 7884.
Con tale provvedimento normativo, emergenziale (essendo legittimo l’esercizio del potere legislativo in capo all’organo esecutivo al ricorrere delle condizioni di necessità ed urgenza necessità che sono state ravvisate nella critica situazione di disoccupazione, e per questo soggetto alla relativa ratifica dell’organo parlamentare, che in questo caso è stata resa blindata con l’apposizione del voto di fiducia), è stata apportata alla fattispecie del contratto a termine una rivoluzione copernicana85, un ribaltamento dei presupposti di legittimità dell’apposizione del termine alla durata del contratto che, nell’intento di dare maggiore certezza ai fruitori di tale contratto e ridurre il contenzioso giudiziale, scardina l’impostazione precedente che ancorava la legittimità dell’apposizione del termine al ricorrere di “cause giustificatrici” (tipiche e nominate, prima; generalizzate, poi), e che già aveva subito una primo intervento di liberalizzazione dalle causali con la riforma Fornero, che limitava, però, i casi in casi in cui era consentito stipulare un contratto a termine senza che fosse richiesta l’indicazione per iscritto nello stesso delle ragioni giustificatrici di carattere produttivo tecnico sostitutivo (i.e. contratto a termine “acausale”), solo a due ipotesi (ovvero nel caso in cui il contratto a termine fosse “il primo rapporto” di lavoro subordinato tra quelle parti).
L’impostazione data al contratto a termine con il Jobs Act vede una generale “liberalizzazione” dalle causali: ovvero, la causale, nominata o generica, non è più
83 poi esercitata nel corso del 2015 con l’emanazione del decreto legislativo 81/2015 di riordino delle tipologie contrattuali in attuazione della legge delega 183/2014
84 una disamina del contratto a termine in AA. VV., a cura di X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Jobs Act e contratto a tempo determinato – Atto I, Xxxxxxxxxxxx, 2014; in particolare in tema di acausalità nell’apposizione del termine, sottolinea in nota 34 interventi normativi avevano già ammesso assunzioni svincolate da ragioni oggettive, sia pure sempre entro un’ottica di eccezionalità; “si pensi all’art. 8, comma 2, legge 223/1991 che consentiva la stipula di contratti acausali per l’assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o all’art. 2 del d. lgs. n. 368/2001, che nel settore aereo e aeroportuale (poi esteso al settore postale) consentiva l’assunzione a termine a prescindere dalla sussistenza di ragioni oggettive e temporanee e con il solo limite del rispetto di determinati periodi e soglie percentuali di assunzioni a termine. L’art. 2 è una norma ancora vigente e di problematico raccordo con l’art. 1” (del d. l. 34/2014) “perché divenuta, paradossalmente, più restrittiva della disciplina generale”.
85 Mettere titolo paper
elemento determinante la legittimità dell’apposizione della clausola del termine al contratto di lavoro, che può quindi essere stipulato a tempo determinato senza indicazione alcuna relativa alle causali, e può esserlo “sempre”, ovvero non solo quando sia il primo tra le parti (come ammesso con la riforma Fornero, in una prima “apertura “ ad una maggiore flessibilità), ma anche quando sia uno dei contratti successivi al primo. La cosiddetta “acausalità” del contratto a termine viene “generalizzata”, passa quindi da “eccezione”, quale era nella riforma Fornero, a regola: successivamente alle modifiche apportate dal d. l. 34/2014, non vi è più la necessità che ricorra alcuna ragione giustificatrice, né che di essa si debba fare menzione per iscritto nel contratto individuale di lavoro, al fine di legittimamente apporre ad un contratto di lavoro la clausola del termine.
In attesa delle non improbabili ulteriori modifiche che potranno essere apportate alla disciplina legale del contratto di lavoro a tempo determinato con l’esercizio da parte del Governo della delega “in materia di riordino delle forme contrattuali”, oggetto del disegno di legge delega Atto Senato 1428 (secondo atto di cui si compone il disegno di riforma del mercato del lavoro ad opera del Jobs Act), il decreto legge n. 34 del 20 marzo 2014, convertito con modificazioni nella legge n. 78 del 16 maggio 2014 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 114 del 19 maggio 2014, ha apportato modifiche al contratto a termine, riscrivendo il d. lgs. 368/2001, in particolare agli artt. 1, 4, 5.
Le modifiche apportate al contratto a termine dal primo dei due atti di cui si compone il
c.d. Jobs Act, insistono sugli istituti della durata (massima) possibile per ogni contratto di lavoro a termine “singolo” (non quindi quella data dalla somma di plurimi e successivi contratti a termine); delle causali o ragioni giustificatrici (acausalità), sull’istituto delle proroghe, sulla previsione di un limite massimo percentuale all’utilizzo di tale tipologia contrattuale, sull’istituto della proroga (numero massimo di proroghe consentito), sul diritto di precedenza e sulla previsione del regime sanzionatorio ricollegate alla violazione del limite di contingentamento percentuale.
2.1.8.1. L’ACAUSALITÀ
Modificando l’art. 1 del d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368, il decreto c.d. Xxxxxxx riscrive il contratto a tempo determinato, ridefinendone i presupposti di legittimità di apposizione
della clausola del termine. Costituisce questa innovazione un ribaltamento della impostazione fondante la legittima stipulabilità di un contratto a termine, fino al decreto Poletti legata alla sussistenza ed esplicita indicazione nel contratto individuale di lavoro di cause, o ragioni giustificatrici, di carattere tecnico organizzativo, produttivo o sostitutivo. Il decreto Xxxxxxx sancisce la completa e generalizzata “acausalità” del contratto a termine, proseguendo il cammino già avviato dalla precedente riforma Fornero che aveva introdotto l’ipotesi in cui il (primo) contratto a termine poteva essere stipulato in assenza della indicazione nel contratto individuale delle regioni giustificatrici, e sviluppando nel modo più ampio la liberalizzazione del contratto a termine dal requisito delle causali. Con la riforma apportata dal primo atto del Jobs Act, un contratto può dunque essere stipulato “a termine” senza che sia, in via generale, necessario esplicitare le ragioni, dalle quali anzi si prescinde; ed inoltre ne è consentita la stipulazione “sempre”, e non, come precedentemente previsto dalla riforma Fornero, a condizione che sia il “primo” rapporto di lavoro tra due determinate parti. Un datore di lavoro può quindi assumere a termine un lavoratore, anche una seconda od una terza volta, e quindi anche quando, ad esempio, sia tra loro già intercorso un precedente contratto a termine. La successiva assunzione a tempo determinato può avvenire legittimamente, a ciò bastando il solo rispetto degli intervalli di tempo tra un contratto a termine ed il successivo (c.d. “stop and go”) e il rispetto del limite massimo di durata (36 mesi) dei contratti in successione tra loro (inteso quale periodo effettivamente lavorato, non rilevando gli intervalli, anche più lunghi dei periodi di stop and go, che dovessero eventualmente intercorrere tra un contratto a termine ed il successivo).
L’evoluzione del contratto a termine vede dunque in questa sua fase il completo abbandono del requisito delle causali, delle ragioni giustificatrici che fino all’entrata in vigore del decreto Poletti fondavano la legittimità dell’apposizione della clausola del termine in un contratto di lavoro86. Causali che sono state in un primo tempo tipiche e nominate in numero chiuso, successivamente definite invece solo per caratteri descrittivi generali (“di carattere organizzativo, produttivo, tecnico, sostitutivo” - causalone), ed in
86 “vero e proprio mutamento del paradigma regolativo del contratto a tempo determinato” viene detto in XXXXXX X., Il lavoro a tempo determinato dopo il d. lgs. 81/2015, in XXXXX GRANDI G., XXXXX M., Commentario breve alla riforma Jobs Act, Cedam 2015, 20
tempi più recenti definitivamente abbandonate (per la stipulazione del “primo” contratto). L’impostazione del contratto a tempo determinato si è quindi andata sviluppando sotto il segno di una progressiva sempre maggiore possibilità di apposizione della clausola del termine, fino ad addivenire alla più ampia libertà di apposizione del termine, facoltà ad oggi (per effetto del decreto Poletti) svincolata da ogni requisito non solo di eccezionalità o di temporaneità ma anche da ogni ragione giustificatrice, di cui oggi il legislatore non richiede indicazione alcuna nel contratto individuale di lavoro. È stato detto che la scelta di liberalizzare il contratto a termine dal requisito della causali sostanzia una maggiore flessibilità. Parimenti, è stata una scelta che il legislatore della riforma contenuta nel primo atto del Jobs Act ha voluto compiere nel segno della semplificazione e delle deflazione del contenzioso; contenzioso a cui spesso si arrivava, nonostante il datore avesse provveduto ad esplicitare nel contratto individuale le ragioni giustificatrici che sosteneva ricorrere nel caso concreto, poiché causali così concepite, ovvero in generici termini descrittivi, si sono rivelate non idonee a garantire l’effettiva e soprattutto inequivoca sussistenza dei requisiti di apponibilità della clausola del termine al contratto individuale di lavoro, prestandosi esse ad una attività di “interpretazione”, criticità questa che ha alimentato il contenzioso.
Il legislatore della riforma del Jobs Act I fase (e cioè del d. l. 34/2014, poi convertito nella legge 78/2014) ha scelto di superare un tale siffatto criterio di legittimità, basato sul ricorrere di almeno una delle generiche ragioni giustificatrici, poiché esso si è rivelato nei fatti non idoneo a preservare da eventuali contenziosi, a causa del suo essere assoggettabile ad “interpretazioni”, cosa che necessariamente richiede l’intervento di un soggetto terzo estraneo alle parti che le diverse interpretazioni sostengono a fronte dello stesso stato di fatto, affinché venga stabilito quale delle diverse interpretazioni sostenute sia quella corretta.
Preso atto di tale criticità, il legislatore del d.l. 34/2014 ha scelto di cambiare criterio e di far derivare la legittimità dell’apposizione della clausola del termine ad un contratto di lavoro, dal rispetto di parametri strettamente oggettivi, i più oggettivi che possano esistere: parametri numerici, matematici. Innovando, il legislatore ricollega la legittimità della stipulazione del contratto a termine al rispetto di requisiti numerici, alcuni già esistenti ed altri di nuova introduzione, che per la loro natura non soffrono la criticità di
essere passibili di interpretazioni, e che nelle intenzioni del legislatore vogliono assicurare il corretto svolgersi della stipulazione contrattuale tra i privati, ma anche, e non secondariamente, vogliono preservare dal rischio di contenzioso (in materia di ragioni giustificatrici, circa la loro sussistenza e qualificazione), contenzioso non più sostenibile e deleterio in quanto, come già successo, scoraggia chi voglia fare impresa in Italia, compromettendo così l’incremento o anche solo il mantenimento dei livelli occupazionali.
Nella riforma ex d. lgs. 34/2014 come modificato dalla legge di conversione 78/2014, la causale viene sostituita da limiti numerici, cosicché un contratto a termine è legittimamente stipulato non più al supposto ricorrere di ragioni giustificatrici esplicitate nel contratto individuale, ma se esso rientra entro il limite numerico che la legge (o i contratti collettivi) hanno stabilito. Un datore che voglia assumere a termine un lavoratore potrà quindi agevolmente conoscere se tale assunzione sia possibile, semplicemente calcolando se essa rientri nel numero massimo di contratti a termine stipulabili. Il d. lgs 34/2014 ha difatti modificato il d. lgs. 368/2001: in particolare, per quanto qui riguarda, eliminando, all’art. 1, ogni riferimento alle causali ed introducendo un limite massimo (contingentamento) al numero di contratti a termine stipulabili.
Assodata la non necessarietà dell’indicazione delle ragioni nel contratto individuale di lavoro ai fini della legittima apposizione della clausole del termine, esistono nondimeno delle ipotesi in cui è consigliato continuare ad esplicitare per iscritto le ragioni: sono i casi in cui il lavoratore è assunto a tempo determinato “per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità”, e nei quali la stipula di un contratto a tempo determinato non è soggetta né alla maggiorazione contributiva dell’1.4%, né ai limiti di contingentamento che, come si vedrà, sono stati introdotti dal decreto Poletti quale nuovo criterio il cui rispetto garantisce la legittima stipulazione di un contratto a termine. Ai soli fini di “trasparenza”, così si esprime la circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 18/2014, appare pertanto “opportuno” “che i datori di lavoro continuino a far risultare nell’atto scritto la ragione che ha portato alla stipula del contratto a tempo determinato”. Anche il decreto Xxxxxxx fa salvo un regime “di favore” che già le precedenti riforme avevano mantenuto, in considerazione della specificità dei contratti a termine stipulati per ragioni sostitutive o stagionali. Il datore di lavoro che
volesse assumere a termine per sostituire un lavoratore o per mansioni caratterizzate da stagionalità, gode di un regime agevolato, in quanto non gravato dalla maggiorazione contributiva che ha reso, in tutte le altre ipotesi, più caro ricorrere al contratto a termine. L’aumento del costo contributivo era stato introdotto dalla riforma Fornero quale contraltare alla maggiore flessibilità realizzata con l’acausalità, ovvero con l’abolizione dell’indicazione delle causali, al fine di scoraggiare i datori dall’utilizzare questa tipologia contrattuale nei casi in cui non fosse effettivo il carattere della “temporaneità” ed indurli ad utilizzare invece forme contrattuali stabili. Ricorrere al contratto a termine era quindi divenuto, in via generale, maggiormente costoso: derogando a tale nuova impostazione si era previsto che la maggiorazione contributiva non gravasse su quei contratti a termine stipulati per esigenze “sostitutive” o di “stagionalità”. Parimenti, tale causale (ragioni sostitutive o di stagionalità) consente che non vengano applicati i limiti quantitativi di contingentamento individuati dal decreto Poletti (nella misura del 20%) o dai contratti collettivi. Per poter fruire delle due esenzioni, il datore di lavoro è quindi gravato dell’onere di esplicitare nel contratto che esso è stato stipulato per ragioni, appunto, “sostitutive” o di “stagionalità”: per questa via, stante la ormai generale “acausalità” dei contratti a termine, continua a sussistere, sia pur in via di eccezione, una qualche forma in cui il contratto a termine continua ad essere “causale”, essendo “opportuno” che riporti le ragioni che hanno condotto alla sua stipulazione. E questo, al fine di poter agevolmente rendere conto, in sede di ispezione, della mancata corresponsione della contribuzione nella misura maggiorata dell’1.4%, maggiorazione che grava i contratti a termine “ordinari” (non stipulati per ragioni sostitutive o di stagionalità), come anche dell’eventuale “sforamento” del limite massimo di contratti a termine stipulabili, sforamento che non sussiste in via di diritto, in quanto la stessa legge dispone che, se stipulati per le ragioni suddette, i contratti a termine non vengano computati ai fini del raggiungimento del numero massimo consentito di contratti a termine e siano stipulabili senza limiti quantitativi.
2.1.8.2. IL CONTINGENTAMENTO (a: di fonte legale; b: di fonte contrattuale)
a) Ai sensi del riscritto art. 1 del d. lgs. 368/2001, “il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo,
non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato”. Il legislatore del d. l. 34/2014 dunque individua un nuovo criterio (numerico-matematico) ed il relativo rispetto, quale condizione di legittimità per la stipulazione di contratti a termine da parte di un datore di lavoro. Questi potrà legittimamente assumere a termine uno o anche più lavoratori, fino al raggiungimento del numero massimo di contratti a termine stipulabili, numero massimo ricavabile caso per caso calcolando il rapporto percentuale in riferimento ai lavoratori assunti stabilmente, e prendendo come base di calcolo il totale dei lavoratori impiegati a tempo indeterminato alla data del primo gennaio dell’anno in cui si vorrebbe procedere con una o più assunzioni a tempo determinato, o, nel caso di attività avviate nel corso dell’anno, alla data di assunzione del primo lavoratore a xxxxxxx00.
Il riscritto art. 1 del d. lgs. 368/2001 assesta il limite massimo di lavoratori assumibili a termine al valore corrispondente al 20% dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in forza alla data del 1° gennaio dell’anno di assunzione del lavoratore a termine, cosicché potranno essere assunti a termine due lavoratori ogni dieci assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il legislatore del d.l. 34/2014 ha voluto così stabilire ed imporre (salve le deroghe che la legge stessa consente espressamente alla contrattazione collettiva) un rapporto tra lavoratori “stabilmente assunti” e lavoratori “precari” nella proporzione del 20% (non più di due lavoratori precari, ogni dieci lavoratori a tempo indeterminato). È da notare che si tratta di un rapporto che è destinato a rimanere stabile: una volta individuato il numero massimo di contratti a termine stipulabili, calcolato sulla base degli assunti al 1° gennaio o alla diversa data che la contrattazione collettiva applicabile in azienda ha facoltà di individuare, esso rimarrà “fermo” per tutto l’anno, a nulla rilevando la circostanza che, nel corso dell’anno, il numero di contratti di lavoro a tempo determinato sia, successivamente a quando è stato effettuato il calcolo, diminuito (e con esso il risultato della proporzione).
87 Circolare del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali n. 18 del 30/07/2014
Lo stesso articolo 1, poi, non dimentica le piccole e piccolissime imprese tanto diffuse nella realtà imprenditoriale italiana, specificando che nei casi in cui i lavoratori costituenti l’organico assunti a tempo indeterminato siano 5 o meno di 5, sarà comunque sempre possibile per il loro datore di lavoro assumere un lavoratore a tempo determinato: la legge stessa quindi autorizza l’assunzione a termine in quei casi ove pure il rapporto di 5 a 1 dà risultati inferiori all’unità. A questo proposito, la circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 18/2014, esplicita che nel caso in cui dal rapporto derivino risultati decimali, “il datore potrà effettuare un arrotondamento all’unità superiore, qualora il decimale sia uguale o superiore a 0.5: a titolo esemplificativo, pertanto, una percentuale, di contratti a termine stipulabili, pari a 2.50 equivale a 3 contratti”. Altra precedente opinione (Circolare della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro n. 13/2014) recupera, evitando che vada “sprecato”, anche quel risultato decimale che fosse di valore inferiore allo 0.5: quindi, nel caso in cui dal calcolo percentuale derivi, ad esempio, un valore come 3.4, e quindi con un valore decimale inferiore allo 0.5, tale opinione ritiene possibile stipulare, oltre ai 3 contratti a termine derivati dal numero intero del risultato del calcolo della percentuale, anche un ulteriore quarto contratto, che sia però limitato nel carico orario, e quindi non a tempo pieno, ma a tempo parziale, corrispondente, al più, allo 0.40% del carico orario del tempo pieno ordinario.
La stessa circolare ministeriale più sopra citata chiarisce che il limite massimo ricavato dal calcolo della percentuale del 20% del totale degli occupati a tempo indeterminato “non costituisce un limite fisso annuale”, ma va inteso quale “proporzione […] tra lavoratori stabili e a termine, di modo che allo scadere di un contratto sarà possibile stipularne un altro sempreché si rispetti la percentuale massima di lavoratori a tempo determinato pari al 20%”. Il rispetto di tale limite va quindi verificato volta per volta nel corso dell’anno, verificando che l’eventuale avvio di uno o più contratti a termine sia algebricamente ammortizzato dalla previa cessazione di precedenti contratti dello stesso tipo, risultandone altrimenti illegittima la stipulazione per superamento del limite massimo. Il limite massimo di contratti a termine stipulabili è calcolato anno per anno, e prende come parametro di calcolo il numero di contratti a tempo indeterminato in atto alla data del 1° gennaio (secondo la previsione di legge) o alla diversa data di
riferimento eventualmente individuata dalla contrattazione collettiva; va a questo proposito precisato che il calcolo è uno per ogni anno, “non assumendo rilievo la circostanza per cui possa verificarsi la diminuzione, nel corso dell’anno per il quale è stato calcolato il limite, dei contratti a tempo indeterminato (sulla base dei quali è individuata la “capienza” dei contratti a termine). Pertanto, una volta stabilito il numero dei contratti a termine che è possibile avviare, nessuna altra verifica deve essere effettuata all’atto dell’effettiva assunzione.
Secondo la disciplina del contingentamento prevista dalla legge, la base di calcolo da cui derivare il numero massimo di contratti stipulabili a tempo determinato è costituita dai lavoratori assunti a tempo indeterminato. Si ritiene che in questi vadano ricompresi i lavoratori assunti con contratto di lavoro a chiamata (a tempo indeterminato) cui sia stata accordata l’indennità di disponibilità, come anche i dirigenti a tempo indeterminato ed i lavoratori assunti con contratto di apprendistato (non a tempo determinato) , in forza della natura di contratto a tempo indeterminato che lo stesso T.U. sull’apprendistato esplicitamente attribuisce a tale tipologia contrattuale. Al contrario, non vanno invece ricompresi nella base di calcolo del rapporto percentuale i lavoratori che prestano la propria opera in forza di un contratto di lavoro accessorio (ex artt. 70-72 ss. D. lgs. 276/2003), né i lavoratori titolari di un contratto di collaborazione, anche a progetto, né, infine, quei lavoratori intermittenti a tempo indeterminato che non godono, però, dell’indennità di disponibilità. La ratio di tali esclusioni è da individuarsi nel fatto che, in forza della natura di rapporti “eventuali” e/o “occasionali” tipica di tali tipologie contrattuali, le stesse non costituiscono una forza lavoro stabilmente o continuativamente presente nell’organico aziendale. Rimangono parimenti esclusi dalla base di calcolo i rapporti di lavoro autonomo e i contratti di associazione in partecipazione.
Per quanto riguarda la computabilità del contratto part-time, ci si è chiesti se i lavoratori assunti a tempo parziale vadano computati “per teste” o in ragione del riproporzionamento del loro orario di lavoro rispetto a quello ordinario. La norma nulla specifica in merito, genericamente limitandosi a dire che la base di calcolo è data dai lavoratori assunti a tempo indeterminato; in tale caso può in via suppletiva farsi ricorso al principio generale ex art. 6 del d. lgs. 61/2000, secondo il quale “in tutte le ipotesi in
cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l’accertamento della consistenza dell’organico, i lavoratori a tempo parziale sono computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno”. In base a tale principio, quindi, un lavoratore part- time conterà nella base di calcolo in proporzione all’orario di lavoro.
Va ribadito che non concorrono al raggiungimento del limite massimo di contratti a termine stipulabili le eventuali assunzioni a termine di lavoratori disabili ex art.11 della
l. 68/1999, né le acquisizioni di personale avvenute in occasione di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, come anche i casi di cambi di appalto in cui trova applicazione l’art. del 2112 c.c., in cui sono presenti rapporti a tempo determinato. La Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro ritiene che “in questi casi non appare possibile l’applicazione dei limiti quantitativi legali e contrattuali poiché sarebbe in contrasto con un legittimo interesse economico dell’imprenditore cessionario o appaltatore” (circolare n.13/2014).
I lavoratori assunti a tempo indeterminato da prendere in considerazione ai fini del calcolo del limite massimo sono tutti quelli presenti nell’organico aziendale, a nulla rilevando in quale unità produttiva essi siano impiegati, e questo anche nel caso in cui i lavoratori assunti a termine siano destinati ad una sola o ad altre unità produttive.
Altro elemento che non discrimina è la durata del contratto a termine stipulato con ogni lavoratore: ogni contratto vale all’unità, a prescindere dalla durata per la quale è stato stipulato, sia essa quella massima consentita di 36 mesi, oppure una diversa, inferiore. Quindi, ai fini dell’esaurimento del numero di contratti a termine stipulabili, pari peso avranno un contratto a termine di 36 mesi ed uno di durata inferiore. È certo che, allo scadere del contratto, un nuovo contratto a termine potrà essere stipulato, fino al raggiungimento del limite massimo.
Inoltre, una volta individuato il numero massimo di contatti a termine stipulabili, esso permane stabile nel corso dell’anno, a nulla rilevando eventuali cessazioni di contratti a tempo indeterminato che ben possono accadere: il limite rimane fermo in quello identificato sulla base dei dati al 1° gennaio (o a diverso arco temporale cui possono fare riferimento i contratti collettivi) .
b) contingentamento di fonte contrattuale collettiva (solo nazionale)
Quanto sopra detto circa la disciplina di fonte legale in materia di limiti massimi percentuali, si applica in via suppletiva, nei casi in cui la contrattazione collettiva nulla disponga in materia. La legge difatti, nel disciplinare il limite di contingentamento, esplicitamente fa salvi i diversi limiti massimi (inferiori o anche superiori a quelli stabiliti dal decreto) individuati o che verranno individuati dalla contrattazione collettiva (solo nazionale) applicabile all’azienda, così come anche fa salve le eventualmente diverse basi di calcolo e la possibilità di intendere il rapporto quale valore “medio” in un determinato arco temporale di riferimento. L’art. 10 comma 7 del d. lgs. 368/2001 prevede che “l’individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato […] è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi”. L’art. 2 bis comma 2 del d. l. 34/2014 prevede infatti che “in sede di prima applicazione del limite percentuale […] conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro”. E questo anche nel caso in cui siano superiori al limite stabilito dalla legge. È la legge stessa che prevede la possibilità di derogare ai limiti di contingentamento da essa previsti, e questo sia in sede di rinnovo di contratto collettivo, come anche nella perdurante vigenza dello stesso, ragion per cui la contrattazione collettiva ha facoltà di intervenire nella disciplina dei limiti e di farlo al momento del rinnovo del contratto, perdurando in medio tempore la validità della disciplina contrattuale già in vigore.
Il contingentamento non è difatti una novità assoluta, essendo questo un aspetto già oggetto di disciplina da parte dei contratti collettivi, che spesso lo hanno regolamentato tenendo in considerazione anche le altre tipologie contrattuali con cui il contratto a termine può coesistere e con esse combinandolo, individuando per il suo utilizzo limiti diversi a seconda che sia praticato in combinazione con altre fattispecie contrattuali o meno.
La novità consiste nella fonte, ovvero nel fatto che un limite massimo di utilizzo dei contratti a termine viene individuato già nella legge e che trova applicazione nei casi in cui i contratti collettivi non disciplinino o non siano applicabili nel caso concreto.
L’aggiunta della fonte legale alla disciplina in materia di contingentamento dei contratti a termine ha originato un’occasione di criticità. Si è detto che la legge ed i contratti
collettivi sono fonti di regolamentazione dei limiti di contingentamento; e si è visto che l’una e gli altri ben possono individuare limiti non coincidenti: i contratti ben possono derogare alla legge, stabilendo limiti di contingentamento diversi da quelli da essa individuati, e che possono essere più stringenti o più ampi. Un datore di lavoro ben potrebbe dunque trovarsi di fronte a più discipline in materia di contingentamento (quella legale ex art. 1 d. lgs. 368/2001 come modificato ex art. 1 c. 1 del d. l. 34/2014, e quella individuata dai contratti collettivi) e potrebbe considerare quale di esse meglio soddisfa le sue esigenze di organizzazione della forza lavoro.
Si pone dunque la questione se un datore che già applichi un determinato contratto collettivo e che, con insindacabile scelta imprenditoriale, ritenga maggiormente proficue, per l’organizzazione della forza lavoro all’interno della sua azienda, le disposizioni, in materia di contingentamento, approntate dalla fonte legale, possa disapplicare il contratto collettivo e procedere con l’applicazione dei limiti individuati dalla legge; e quale possa essere la sanzione in capo al datore di lavoro che, pur applicando un determinato contratto collettivo, ritenga più favorevoli i limiti stabiliti dalla legge rispetto a quelli individuati dalla contrattazione collettiva dalla legge e unilateralmente decida quindi di disapplicare il contratto collettivo per applicare la legge.
Parimenti, si impone un’ulteriore riflessione in materia di coordinamento della fonte legale e di quella contrattuale in considerazione del fatto che alcuni contratti collettivi ancora prevedono ipotesi di apposizione del termine ulteriori rispetto a quelle legali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’obbligo di motivazione ad opera del decreto Xxxxxxx. L’acausalità “legale” del contratto a termine rischia quindi di essere vanificata nell’applicazione pratica a causa del persistere di regolamentazioni di fonte “contrattuale” che anche dopo l’abrogazione del requisito delle causali ad opera della legge, ancora dispongono ipotesi in cui le ragioni giustificatrici vanno indicate.
Inoltre è da rilevare che l’intreccio delle fonti legale e contrattuali in materia di clausole di contingentamento risulta ulteriormente articolato in seguito alla prassi che vede tale materia disciplinata anche da contratti collettivi aziendali e non solo nazionali, come la delega legislativa invece dispone (art. 10 c. 7 del d. lgs. 368/2001 rinvia alla contrattazione collettiva nazionale, e non anche aziendale, l’individuazione di limiti
quantitativi all’utilizzazione del contratto a tempo determinato). A questo proposito, una soluzione alla conciliabilità del testo del d. lgs. 368/2014 come novellato e le fonti contrattuali di diverso livello (nazionale ed aziendali) può ricavarsi dall’art. 8 del d. l. n. 138/2011 che “abilita la contrattazione aziendale, in certe circostanze e a determinate condizioni, a derogare non solo e non tanto ai contratti collettivi nazionali di lavoro, ma alle norme di rango legislativo. Per questa via, il contratto aziendale potrebbe comunque intervenire, modificandolo, sul tetto del 20% individuato dalla legge a prescindere dall’esistenza di una delega esplicita […]. A ciò deve altresì aggiungersi che, in sede di conversione del d. l. n. 34/2014, è stata inserita una disposizione in forza della quale il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nel’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In questo passaggio, il Legislatore ha utilizzato il concetto di “contratto collettivo applicabile nell’azienda, cui, anche tenuto conto delle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza sull’art. 19 della legge 30/1970 sono normalmente ascritti tutti i contratti collettivi a contenuto normativo, inclusi quindi i contratti collettivi aziendali”88. L’ampiezza della formulazione della norma fa quindi salvi i contratti di prossimità (ex art. 8 d.l. 138/2011) e la disciplina che essi eventualmente avessero previsto in materia di contratti a termine.
Attesa la compresenza di discipline dettate da fonti diverse (legale, contrattuale nazionale e contrattuale di prossimità), un datore di lavoro potrebbe ritenere che una sia più favorevole delle altre, in particolare potrebbe ritenere la disciplina legale maggiormente confacente alle proprie esigenze, sia per quanto riguarda i limiti di contingentamento sia per le ipotesi di acausalità legale/causalità contrattuale: ci si è chiesti quindi se un datore che già applichi un contratto collettivo possa, unilateralmente, disapplicarlo al fine di applicare la disciplina legale e quali conseguenze derivino da tale scelta.
Per quanto riguarda la disapplicazione della disciplina contrattuale per l’applicazione dei criteri di contingentamento e di acausalità previsti dalla legge, la dottrina profila
88 TIRABOSCHI X., XXXXXXXXXX P., Il nuovo lavoro a termine alla prova dei contratti collettivi, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2014, p. 26
conseguenze diverse a seconda che la disciplina contrattuale che si vuole disapplicare sia nazionale o aziendale. “Nel primo caso, si avrebbe una responsabilità contrattuale indiretta laddove l’azienda in questione aderisse alla associazione datoriale firmataria del contratto collettivo. In tal caso, più precisamente, i profili di inadempimento riguarderebbero il vincolo associativo tra l’azienda e la propria associazione di rappresentanza, posto che gli statuti delle organizzazioni datoriali impongono il rispetto della politica sindacale e dei contratti collettivi sottoscritti dalla federazione cui l’azienda aderisce. Nella ipotesi in cui la violazione riguardasse la disciplina del contratto aziendale in corso di vigenza, invece, il sindacato potrebbe opporre alla direzione d’azienda la responsabilità contrattuale diretta, per violazione dei termini del contratto. In ogni caso, inclusa l’ipotesi di assenza dei vincoli associativi e di applicazione del contratto collettivo per comportamenti concludenti, la violazione unilaterale da parte dalla azienda della disciplina legale, fosse anche finalizzata al riallineamento allo standard legale, potrebbe implicare la violazione della causa di inscindibilità del contratto collettivo applicato, in forza della quale le disposizioni ivi contenute sono correlate ed inscindibili tra loro e, pertanto, non ne è ammessa un’applicazione parziale. Con la conseguenza che per poter fare ricorso al contratto a tempo determinato senza motivazione della causale, oppure per allineare la percentuale di contingentamento al 20%, l’azienda dovrebbe disapplicare l’intero contratto collettivo”89.
Quel che è certo è l’onere di conformità ai nuovi limiti legali di contingentamento in capo ad ogni datore che “alla data di entrata in vigore del decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale legale”. Questi datori che hanno alle loro dipendenze lavoratori assunti a termine in numero maggiore a quello stabilito dal rapporto del 20%, sono tenuti a “rientrare nel predetto limite” entro il 31 dicembre 2014. Nel prevedere tale onere di riallineamento, lo stesso c. 3 dell’art. 2 bis fa però salva l’ipotesi in cui “un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole”: ad esempio il contratto collettivo degli autotrasportatori prevede un limite massimo sensibilmente più elevato (35%).
89 XXXXXXXXXX X., XXXXXXXXXX P. op. cit., 29
In caso di mancato riallineamento disponendo che nel caso in cui un datore non abbia adempiuto a tale onere, gli sarà preclusa la possibilità di effettuare nuove assunzioni a tempo determinato fino a quando non sarà rientrato nel limite percentuale
Nel caso di sforamento dei limiti di contingentamento, siano essi legali o contrattuali, il novellato d. lgs. 368/2011 (art. 5 c. 4-septies) introduce una nuova sanzione, amministrativa-pecuniaria, determinata in un percentuale pari al 20% della retribuzione per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni90 di durata del rapporto di lavoro (nel caso in cui ad sia stato assunto a termine oltre il limite percentuale massimo un solo lavoratore), oppure pari al 50% della retribuzione, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite percentuale di contingentamento sia maggiore di uno, disponendo al successivo c. 4-octies che l’importo sanzionatorio a tale titolo riscosso è destinato ad essere assegnato al Fondo sociale per occupazione e formazione. Ci si è chiesti se tale nuova sanzione amministrativa-pecuniaria assorba ogni conseguenza sanzionatoria derivante dalla violazione della clausola di contingentamento (sia questa legale o contrattuale), in particolare se assorba in sé la sanzione della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Il d.l. 34/2014, difatti, non è inequivoco nello stabilire che la nuova sanzione amministrativo-pecuniaria da esso prevista assorbe ogni altro provvedimento sanzionatorio, escludendo altre conseguenze in capo al datore (quel che più preme: la conversione del contratto) come anche altre sanzioni sul piano civilistico (ad esempio, l’indennità risarcitoria), ed un tale contenuto è anzi oggetto di un ordine del giorno (G/1464/22/11 al disegno di legge 1464), accolto dal Governo durante l’esame del decreto legge in commissione al Senato, che però non ha effetti concreti sulla norma vigente, con cui il Governo si impegna a chiarire quali siano le conseguenze. Secondo altra dottrina, si ritiene che “la sanzione relativa alla conversione del rapporto era stata individuata dalla giurisprudenza in mancanza di una specifica previsione in tal senso (c.d. sanzione giurisprudenziale). La scelta del legislatore di sanzionare il superamento del limite solo con una sanzione amministrativa porta alla inevitabile conseguenza di escludere la conversione del rapporto. Pur nel dubbio originato dal fatto che il decreto Xxxxxxx non stabilisce in modo
90 Secondo la circolare della fondazione Studi CdL n. 13/2014, da tale scrittura deriva che nel caso in cui contratti a termine siano avviati per una durata non superiore a 15 giorni, non potranno essere oggetto di sanzione amministrativa.
diretto che la sanzione amministrativo-pecuniaria esclude altre conseguenze in capo al datore, si è inteso che detto intervento di riforma abbia voluto sostituire la penalità della conversione in contratto a tempo indeterminato con quella della sanzione economica91, esaurendo le conseguenze sanzionatorie collegate alla violazione dei limiti di contingentamento, in un mero costo economico per l’impresa.
Il fatto che, ad opera del decreto Xxxxxxx, per la prima volta siano previsti da una fonte di legge limiti massimi al numero di contratti a termine stipulabili, limiti fino ad allora previsti dalla sola contrattazione collettiva, fa mutare anche la natura della sanzione collegata alla loro violazione, che prima della novella legislativa era meramente privatistica (trattandosi di una violazione di clausole contrattuali, obbligatorie e vincolanti per i datori che avessero aderito alla associazioni datoriali firmatarie del contratto collettivo).
L’apparato sanzionatorio così innovato con la predisposizione di una sanzione per il caso di violazione dei limiti di contingentamento continua immutato nelle precedenti disposizioni, già individuate per il caso del mancato rispetto degli intervalli temporali (stop and go), del limite massimo di durata di contratti a termine in successione tra loro (36 mesi) e per il mancato rispetto della procedura di stipula dell’ulteriore contratto presso la DTL, in deroga al limite massimo: in ognuno di questi casi, la sanzione consiste nella conversione in contratto a tempo indeterminato.
2.1.8.3. ESCLUSIONE DAI LIMITI QUANTITATIVI
Quanto detto in merito al limite di contingentamento (di origine sia legale che contrattuale), per espressa previsione ex art. 10 c. 7 d. lgs. 368/2011, non si applica ai contratti di lavoro a tempo determinato conclusi: a) nella fase di avvio di nuove attività, per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici; b) per ragioni sostitutivo o di stagionalità; c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con lavoratori di età superiore a 55 anni. Contratti
91 La l. 78/2014, all’art. 1 comma 2 bis, ha precisato che la sanzione amministrativa “non si applica per i rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (21 marzo 2014), “che comportino il superamento del limite percentuale”.
a termine così caratterizzati sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative, come anche lo sono quelli stipulati tra istituti pubblici di ricerca o enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa. Tanto dispone il comma 5 bis introdotto all’art. 10 del d. lgs. 368/2001 dalla legge 78/2014 (art. 4 b-octies) in sede di conversione, modificando l’originario testo del decreto Xxxxxxx. Tale previsione derogatoria della disciplina ordinaria palesa il trattamento di favore che il legislatore ha voluto riservare al settore della ricerca scientifica, preferendo evitare di comprometterne lo sviluppo, cosa che sarebbe stata probabile se fosse stato compresso nel rispetto del vincolo massimo di contingentamento, anche in considerazione del modus operandi di tale settore, che spesso si muove in seguito all’ottenimento di finanziamenti, anch’essi a termine: alla luce di ciò si rivela poco funzionale ed ancor meno sostenibile approntare un organico in pianta stabile a fronte di commesse a termine. Unico requisito per fruire della esenzione dal rispetto dei limiti quantitativi è che l’attività di ricerca scientifica per lo svolgimento della quale i lavoratori vengono assunti a termine (prescindendo da ogni limite quantitativo), deve essere l’oggetto esclusivo del contratto di lavoro (deve essere svolta in via esclusiva).
Il secondo periodo dello stesso articolo estende ulteriormente il trattamento di favore, disponendo una seconda deroga, questa volta alla durata massima del contratto a termine (che, ordinariamente, è di 36 mesi, sia come unico contratto, sia come sommatoria di più contratti a termine in successione tra loro). In forza di tale disposizione, quei contratti di ricerca che hanno ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere una durata “pari a quella della progetto di ricerca cui si riferiscono”. A differenza delle disposizione di cui al periodo precedente, in questo caso l’esenzione dal vincolo non è legata alla natura di “istituto o ente di ricerca” pubblico o privato del soggetto che voglia assumere a termine in deroga al limite massimo di contingentamento, ma da essa prescinde, bastando che ad essere oggetto del contratto sia esclusivamente la ricerca scientifica. Un ampliamento di tale portata per quanto riguarda i soggetti che possono assumere a tempo determinato fruendo della disciplina derogatoria, si accompagna al contenimento dell’attività oggetto del contratto entro