UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola internazionale di Dottorato in “Formazione della persona e Diritto del mercato del lavoro”
XXV CICLO
I CONTRATTI ATIPICI E FLESSIBILI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Relatore: Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Tesi di Dottorato di Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx n. 1013893
(A.A. 2011/2012)
«La nostra regola è che non bisogna mai aver paura di discutere, così come non bisogna mai discutere per paura»
«[...] la vita va vista col pessimismo dell'intelligenza, col senso critico del dubbio, ma anche con l'ottimismo della volontà. Con la volontà niente è fatale, niente è ineluttabile,
niente è immodificabile. Io credo nell'uomo, l'uomo creatore del proprio destino».
(Xxxxxx Xxxxx)
Indice Sommario
Premessa III
Capitolo I
Il lavoro atipico e flessibile nella Pubblica Amministrazione:
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RELAZIONI SINDACALI
1. L’inquadramento del problema… 1
2. La contrattazione collettiva tra legge e autonomia
privata 4
3. La contrattazione collettiva dopo il d.lgs. n. 150/2009 e le manovre
estive… 10
4. Lavoro pubblico privatizzato e flessibilità in entrata 15
Capitolo II
I contratti atipici e flessibili dopo la riforma Fornero. Problemi applicativi
1. Il contratto a tempo determinato… 23
2. Il contratto a tempo parziale… 56
3. Le collaborazioni coordinate e continuative (xx.xx.xx.) 62
4. La somministrazione di lavoro a termine 75
5. Il telelavoro 77
6. Il contratto di formazione e lavoro (CFL) 85
7. Il contratto di apprendistato 88
CAPITOLO III
I CONTRATTI ATIPICI E FLESSIBILI: IPOTESI, PROSPETTIVE APPLICATIVE E FORMULAZIONI DE IURE CONDENDO
1. Ipotesi, prospettive applicative e formulazioni de iure
condendo… 91
Literature review 99
Premessa
Troppe volte abbiamo sentito parlare di lavoratori precari e di precarietà, fenomeno patologico di quella buona flessibilità voluta dall’autonomia collettiva e dal legislatore per regolare, con maggiore elasticità organizzativa e gestionale, alcune forme contrattuali nel lavoro in generale e nel lavoro pubblico in particolare.
Il presente lavoro si prefigge come scopo lo studio e l’approfondimento, sia dell’aspetto normativo che dell’aspetto sindacale, della disciplina e della regolamentazione di quelle tipologie contrattuali, c.d. atipiche e flessibili, sfociate proprio nel fenomeno patologico e sociale odierno del lavoro flessibile chiamato, erroneamente ma, forse, a ragione, lavoro precario.
Non essendo, inizialmente, prevista una regolamentazione dei contratti atipici nel settore pubblico, la materia è stata lasciata all’autonomia contrattuale delle parti ed in particolare agli accordi locali e alla contrattazione di II livello, trovando una disciplina parziale a partire dalla tornata negoziale 1998-2001.
Nel corso del tempo, a seguito del mutamento del contesto socio-economico e della necessità di riorganizzare un modello di welfare ed un modello occupazionale più vicino alla politica sociale della Comunità europea, anche nel nostro Paese il legislatore è andato alla ricerca di regole flessibili per la gestione del personale dipendente e dell’organizzazione del lavoro.
Per tale motivo si è ritenuto necessario inserire, nel testo del decreto legislativo n. 165/2001, erroneamente chiamato Testo unico del pubblico impiego, eccezioni alla regola dell’accesso mediante procedura selettiva, il concorso, al lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
In questo lavoro saranno inoltre affrontate le problematiche legate ai recenti interventi legislativi che, non tenendo conto della specificità del pubblico impiego e delle norme che regolano il lavoro dei pubblici dipendenti, hanno modificato il mercato del lavoro privato e le tipologie contrattuali regolate dal codice civile e dalle legge speciali che, in qualche modo, hanno impattato sul lavoro pubblico.
Al fine di meglio comprendere le differenze applicative delle medesime tipologie contrattuali nel settore privato e nel settore pubblico, verrà fatta una panoramica delle problematiche applicative riscontrate dalla giurisprudenza, nazionale e comunitaria, sorte a seguito dei recenti interventi normativi.
Saranno, infine, nell’ultima parte del lavoro, dati spunti di riflessione per una possibile disciplina e regolamentazione, nel pubblico impiego, delle tipologie contrattuali atipiche e flessibili.
CAPITOLO I
IL LAVORO ATIPICO E FLESSIBILE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RELAZIONI SINDACALI
Sommario: 1. L’inquadramento del problema - 2. La contrattazione collettiva tra legge e autonomia privata - 3. La contrattazione collettiva dopo il d.lgs. n. 150/2009 e le manovre estive - 4. Lavoro pubblico privatizzato e flessibilità in entrata.
1. L’inquadramento del problema.
Il diritto del lavoro in generale e il diritto del lavoro pubblico in particolare sono stati, nel corso degli anni, oggetto di modifiche legislative e riforme, più o meno rilevanti e rivoluzionarie. Strumento di regolazione del lavoro e del “conflitto” sindacale, è la contrattazione collettiva il principale strumento con cui i lavoratori, aggregati sindacalmente, negoziano condizioni di lavoro più favorevoli di quelle che avrebbero potuto ottenere agendo singolarmente.
L’Europa riconosce la libertà di associazione sindacale e la libertà di organizzazione sindacale nelle Convenzioni fondamentali e nelle Carte fondamentali dell’Unione Europea fin dal 1948, la Costituzione italiana, invece, riconosce tale diritto nell’art. 39.
La legislazione relativa al ruolo della contrattazione collettiva nel pubblico impiego e ai processi di privatizzazione del pubblico impiego può essere collocata nell’arco temporale che va dal 1983 (legge quadro n. 93/1983) al 1993 (d.lgs. n. 29/1993).
Tuttavia, nonostante le riforme contenessero l’intenzione di avvicinare il settore pubblico a quello privato, per il primo, le differenziazioni legate alla natura dei soggetti datori di lavoro, ai
fini da essi perseguiti, e gli strumenti giuridici impiegati rappresentano elementi di specificità ineliminabile.
Il primo limite che si trova nella disciplina del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche è rappresentato dal principio della riserva costituzionale art. 97 Cost.
La Pubblica Amministrazione, difatti, a differenza del datore di lavoro privato, non può scegliere liberamente il contraente, in quanto vincolata a norme costituzionali relative all’accesso mediante concorso, e tanto meno può modificare le regole sulla contrattazione in quanto norme di organizzazione inderogabili.
Nonostante i tentativi di omogeneizzare la disciplina prevista per il lavoro pubblico al lavoro privato, che sembrava avesse preso corpo nel d.lgs. n. 165/2001, le modifiche ulteriori apportate dalla legge delega n. 15/2009 e dal decreto delegato n. 150/2009 (c.d. riforma Brunetta) hanno rilegificato una serie di materie riservate alla contrattazione o regolate da una normativa comune al settore privato. «Il legislatore non solo infatti può intervenire nelle materie oggetto di contrattazione, come ha sempre potuto fare, ma produrrà, di norma, un effetto di rilegificazione dei trattamenti normativi dei dipendenti pubblici che allontanerà sempre più il pubblico dal privato»1.
Ma tale dietro-front ha comportato, almeno per quanto riguarda le relazioni sindacali nel pubblico impiego, una notevole compressione del ruolo sindacale conseguenza di un eccessivo intervento sindacale che aveva finito col regolare anche le materia riservate, per legge, alle amministrazioni.
Al decreto legislativo n. 150/2009 si sono aggiunte anche le manovre finanziarie che sono intervenute, con lo scopo di razionalizzare la spesa delle amministrazioni pubbliche ed al fine di porre dei tetti alla spesa sostenuta dalle stesse amministrazioni, prima bloccando il rinnovo della contrattazione nazionale ed integrativa e la crescita delle retribuzioni fino al 2013, poi facendo slittare il suddetto termine al 2014. Situazione di stallo, dunque, per la regolamentazione a livello sindacale del rapporto di lavoro
1 X. Xxxxxxx, Legge, contratto collettivo e circuiti della rappresentanza nella riforma “meritocratica” del lavoro pubblico, in Le istituzioni del federalismo, 2009, 674-678.
pubblico sia sotto il profilo normativo che sotto il profilo economico.
Tuttavia, proprio nel momento in cui si credeva che, alla luce della riforma Xxxxxxxx e dell’emanazione del d.l. n. 78/2010, del d.l. n. 98/2011 e del d.l. n. 138/2011, si stesse “celebrando la scomparsa del sindacalismo”, le Organizzazioni sindacali sono intervenute nel tentativo di rilanciare il ruolo della contrattazione collettiva a livello nazionale per costruire nuove relazioni sindacali con l’Intesa del 4 febbraio 2011 e con l’Intesa del 3 maggio 2012.
Invece, sotto il profilo del rapporto di lavoro e del contratto di lavoro, le cose cambiano con la legge n. 92/2012, c.d. riforma Monti-Fornero, con la quale sembra cadere l’idea di un diritto del lavoro pubblico distinto e diverso dal lavoro privato. Si interviene, infatti, a regolare il “mercato del lavoro” intervenendo a modificare l’art. 18 St. Lav., applicabile anche agli “statali”.
Il dispositivo contenuto nell’art. 1, commi 7 e 8, della legge n. 92/2012 si limita a prevedere che le disposizioni della suddetta legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 3 del più volte citato decreto legislativo2.
A tal fine, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e per la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli
(2) Che recita: «Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti. I principi desumibili dall'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica».
ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle Amministrazioni pubbliche.
Xxxxx viene detto, però, in relazione ad un termine ultimo per l’attuazione di tale disposizione, «né una sia pur sommaria elencazione dei parametri applicativi specifici attraverso cui si dovrà necessariamente operare nella uniformazione del pubblico impiego al settore del lavoro privato»3.
Non essendo, ad oggi, stati adottati provvedimenti, anche di natura legislativa, che, in virtù della specificità della normativa sul pubblico impiego, armonizzino quest’ultima rispetto alla riforma del lavoro, sembra piuttosto evidente un’applicazione in toto della legge n. 92/2012 ai lavoratori pubblici.
Questo significa che, laddove dovessero essere intraprese azioni di natura legale e dovesse essere dato impulso ai relativi procedimenti giudiziari, non poche saranno le difficoltà, le diversità e le disomogeneità interpretative ed applicative di norme pensate per il diritto del lavoro privato e non adeguate ad una struttura e ad una specificità ordinamentale, tipica del lavoro pubblico, che finanche il Costituente ha voluto tener presente e ricordare nella Carta fondamentale del 1948.
2. La contrattazione collettiva tra legge e autonomia privata.
«La contrattazione collettiva nel pubblico impiego trova la sua ragione principale nell’esigenza di ridimensionare il ruolo della legge nella regolazione degli aspetti funzionali del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, del quale non è in grado di disciplinare tutti gli aspetti. La fonte legislativa dovrebbe, invece, fissare i principi generali di organizzazione degli uffici, mentre nella regolazione del rapporto di lavoro dei dipendenti della
(3) v. Senato della Repubblica – Servizio del bilancio, A.S. 3249: “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, Aprile 2012, n. 126.
pubblica amministrazione la legge dovrebbe fornire una disciplina minima aperta all’integrazione in senso migliorativo della contrattazione collettiva (e, ove possibile, individuale)»4.
La materia in esame subisce numerosi processi di riforma fino ad arrivare alla c.d. seconda privatizzazione del pubblico impiego in cui questa materia trova la sua (quasi) definitiva attuazione con i decreti legislativi n. 396/1997, n. 80/1998 e n. 387/1998, che hanno ridisegnato l’originario schema del decreto legislativo n. 29/1993.
Ma è con il decreto legislativo n. 80/1998 che si supera la rigida divisione prevista dalla legge n. 421/1992 (secondo cui alcune materie erano regolate dalla legge mentre altre erano regolate dalla contrattazione collettiva) e viene stabilito che le amministrazioni pubbliche definiscano le linee fondamentali di organizzazione degli uffici sulla base di principi fissati da legge, organizzino gli uffici e gestiscano i rapporti di lavoro con le capacità ed i poteri dei datori di lavoro privati.
L’orientamento si fonda sul disposto di cui all’art. 40, comma 1, decreto legislativo n. 165/2001, il quale dispone che la contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali e, pertanto, non sussisterebbe la necessità di configurare specifiche norme di attribuzione.
La contrattazione collettiva viene collocata, dunque, tra le fonti di regolazione del rapporto di lavoro e di impiego pubblico, a condizione che la stessa sia svolta su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali compatibilmente con il principio affermato dall’art. 97 Cost., secondo il quale gli uffici pubblici sono organizzati secondo disposizioni di legge ed in virtù del principio della riserva di legge che è da ritenersi limitato a
«quegli aspetti in cui il rapporto di ufficio implica lo svolgimento
(4) X. Xxxxxxxx, L’impiego pubblico in Italia, il Mulino, Bologna, 1978, 311. V. anche
X. Xxxxxxx, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego, 2001, in xxx.xxx.xx.
di compiti che partecipano al momento organizzativo della pubblica amministrazione»5.
Sarebbero rimessi alla regolazione di legge le competenze degli uffici che rilevano verso l’esterno e l’interno, la cui lesione sia suscettibile di tradursi in vizio di legittimità del procedimento con cui è esercitata la funzione pubblica e, quindi, in violazione del principio di legalità6.
Tuttavia, però, il richiamo alla contrattazione collettiva non deve essere interpretato nel senso di configurare quest’ultima come fonte esclusiva per il pubblico impiego perché, se così fosse, non potrebbero essere utilizzate le forme flessibili di assunzione in assenza di apposite disposizioni contrattuali7.
Quanto alla natura giuridica della contrattazione collettiva del pubblico impiego, i contratti collettivi, pur costituendo lo strumento per ricondurre al diritto civile la disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, secondo alcuni8 non possono essere equiparati al contratto collettivo di diritto comune, ma neppure possono costituire fonti di diritto obiettivo.
Il contratto collettivo del lavoro pubblico, secondo parte della dottrina9, viene configurato sulla base dei poteri organizzativi delle amministrazioni pubbliche, come una sorta di contratto ad evidenza pubblica, in ragione dell’alternanza di negoziazioni di diritto privato e di fasi procedimentali di diritto pubblico.
(5) C. Cost., 25 luglio 0000, x. 000, xx XX, 0000, I, 34, C. Cost. 1° ottobre 1997, n. 309,
in RDL, 1998, II, 37.
(6) X. Xxxxxxx, Il sistema delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro dopo la riforma: una prima ricognizione dei problemi, in M. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1993, 4 e ss.
(7) Tra gli altri, X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Rapporti “flessibili” di lavoro
pubblico e contrattazione collettiva. Sull’immediata applicabilità delle tipologie dell’art.36 d.lgs. n.29/93, in LPA, 1999, 1, 171.
(8) Tra gli altri, X. Xxxxxxx, op. cit.
(9) Sul punto v. X. X’Xxxxxx, Le fonti privatistiche. L’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni in materia di rapporti di lavoro, in FI, 1995, V, c. 41.
Secondo un’altra parte della dottrina10, invece, il contratto collettivo ha un’efficacia funzionale avente lo scopo di contemperare le esigenze organizzative dell’amministrazione, la tutela dei dipendenti e l’interesse degli utenti.
A tale proposito si parla, infatti, di funzionalizzazione del contratto collettivo di lavoro pubblico avente, quale unico scopo, quello di garantire il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Secondo altri11, ancora, il contratto collettivo del pubblico impiego deve essere inquadrato tra le fonti del diritto in ragione del complessivo trattamento normativo ad essi riservato come, ad esempio, l’obbligo, posto a carico dell’amministrazione pubblica, di osservarne le clausole, di riconoscere un trattamento economico non inferiore a quello contrattuale, di attribuire poteri di rappresentanza legale dell’Aran in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni.
Infine, secondo altri Autori, il contratto collettivo non è configurabile come fonte di diritto comune in quanto si pone a metà tra la legge e il contratto individuale «con la naturale vocazione a dettare regole, a carattere generale ed astratto, da applicare ad una serie aperta di rapporti giuridici, intercorrenti tra soggetti diversi da quelli che direttamente lo stipulano»12.
La giurisprudenza, invece, sul punto, ha affermato e ribadito che
«in materia di rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni l’efficacia derogatoria riconosciuta al contratto collettivo rispetto alla legge presuppone che la legge della cui deroga si tratti non investa la fonte collettiva del compito della propria attuazione, poiché ove ciò accada viene meno il presupposto stesso di operatività della disciplina concernente la suddetta efficacia»13.
(10) V., ex multis, X. Xxxxxxxx, La riforma del lavoro pubblico: fonti della trasformazione e trasformazione delle fonti, in DLRI, 1996, 245 e ss.
(11) v. X. Xxxxxxx. Le trasformazioni dei rapporto di lavoro pubblico e il sistema delle
fonti, in DLRI, 1996, 183 e ss.
(12) X. Xxxxxxxx, La metamorfosi del contratto collettivo, in RTDCP, 2009, 29 e ss.
(13) Cass. 27 settembre 2005, n. 18829, in GC, 2006, vol. 3, 531, con nota di Xxxxxxxx.
Quanto, dunque, al rapporto tra legge e contrattazione collettiva, nel settore pubblico, rispetto al settore privato, questo risulta essere più complesso in virtù di quel più volte citato criterio della riserva di legge previsto dall’art. 97 Cost. da cui deriva un ampliamento delle deroghe alla disciplina lavoristica comune posto in essere dallo stesso legislatore (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001).
In tema di relazioni sindacali nel pubblico impiego e di contrattazione collettiva bisogna necessariamente evidenziare il concetto enunciato dalla Corte Costituzionale secondo cui i contratti collettivi di diritto comune sono veri e propri atti di autonomia privata14 in quanto, come affermato dalla dottrina in senso generale con riferimento alle relazioni sindacali, «un “primario rilievo”, rispetto ai commi successivi, deve essere assegnato al primo comma dell’art. 39 Cost. e, quindi, alla libertà dell’organizzazione sindacale. Ond’è che sino a quando l’art. 39 Cost. non sarà attuato, “non si può, né si deve, ipotizzare conflitto fra attività normativa dei sindacati e attività legislativa”»15.
Inoltre, in un’altra pronuncia, la Corte ha anche escluso la possibilità, per il legislatore ordinario, «di cancellare o di contraddire ad arbitrio la libertà delle scelte sindacali e gli esiti contrattuali di esse»16.
Bisogna, in questa sede, evidenziare anche che, nonostante le pronunce della giurisprudenza costituzionale, nel corso degli anni tale materia ha subìto modifiche e cambiamenti numerosi.
Così è accaduto, infatti, negli anni Settanta con le riforme istituzionali (Regioni, decentramento, riassetto ministeri ed epne, ssn) e nel 1983 con la legge quadro sul pubblico impiego; nel 1992-93, con il d.lgs. n. 29/93 (poi confluito nel testo unico del 2001 [d.lgs. n. 165/2001]) la riforma del pubblico impiego e la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, ma anche nel
(14) C. Cost. 12 febbraio 1963, n. 1.
(15) X. Xxxxxxxx, in Argomenti di diritto del lavoro, 2006, n. 4 - 5, 1031 xx. Xxx xxxxx x., xxxxx, X. Xxxx. 00 luglio 1980, n. 141 in GC, 1980, I, 1164.
(16) C. Cost. 7 febbraio 1985, n. 34, in RGL, 1985, II, 37.
1996-97 con le c.d. Xxxxx Xxxxxxxxx [legge n. 59/1997, legge n. 127/1997, legge n. 191/1998 e, infine, legge n. 50/1999]17.
Ma è a partire dal 2006, anno dell’emanazione del decreto legge n. 4/2006, convertito in legge n. 80/2006, recante misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione, che la dottrina rileva, sotto il profilo del drafting legislativo ed in relazione al ruolo della contrattazione collettiva, un’inversione di rotta rispetto alla legislazione precedente in materia di flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni ed afferma che la legge n. 80/2006 pone importanti limiti generali all’utilizzo, da parte delle amministrazioni pubbliche, dei contratti di lavoro flessibili. Inoltre, con tale legge viene portato alle estreme conseguenze il problema del contenimento della spesa per il personale che segue un trend di carattere strutturale già conosciuto dal legislatore “della privatizzazione”.
Il problema di base che preoccupava la dottrina già al tempo dell’emanazione della legge n. 80/2006 e che, purtroppo, a tutt’oggi non appare risolto, è l’utilizzo di «una tecnica normativa disorganica, segnata da un iperattivismo del legislatore, [che] finisce con il contraddire in modo evidente anche l’investimento inizialmente fatto sulla contrattazione collettiva e sul ruolo della fonte contrattuale con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro, al punto da sollecitare e rendere attuale il ricorso al meccanismo della deroga al contratto collettivo rispetto alla legge, definito dal primo comma dello stesso art. 2 del d.lgs. n. 165/2001»18.
(17) X. Xxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Da una riforma all’altra. Il lavoro pubblico dopo il d.lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009, in Union Tool-Box, 0, XXXX XX, Xxxx, 0000.
(18) X. Xxxxxxxx, Piccolo requiem per la flessibilità del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni. A proposito della legge 9 marzo 2006, n.80, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2006, n. 45.
3. La contrattazione collettiva dopo il d.lgs. n. 150/2009 e le manovre estive.
Ma il problema più delicato in tema di relazioni sindacali nel pubblico impiego e, in particolare, in relazione al rapporto legge- contratto collettivo sorge, nel 2009, con il d.lgs. n. 150, attuativo della legge delega n. 15, che, attraverso una modifica sostanziale del decreto legislativo n. 165/2001, si pone, tra gli altri obiettivi, la riduzione del campo di intervento della contrattazione collettiva prevedendo che le norme di legge, dichiarate imperative, vengano inserite di diritto nei contratti collettivi in applicazione degli articoli 1339 e 1419, comma 2, c.c.
Logica conseguenza di tale previsione legislativa è quella di mettere a rischio la libertà negoziale tutelata dall’art. 39, comma 1, Cost., nel caso di utilizzo eccessivo ed irragionevole del suddetto principio.
La compressione del potere sindacale e la forte ripresa della regolamentazione di fonte legale è stata da qualcuno interpretata come una giusta risposta alla “pancontrattualizzazione” nonché ad un intervento sindacale disfunzionale nella vita amministrativa, che ha investito anche materie riservate, per legge, alla decisione unilaterale dell’amministrazione, che hanno avuto come conseguenza una eccessiva compressione dei poteri dirigenziali ed una deresponsabilizzazione degli stessi.
Secondo qualcuno, inoltre, il ritorno alla regolazione per legge del rapporto di lavoro e la conseguente “stretta” sul ruolo sindacale altro non è che una logica conseguenza dell’eccessivo intervento sindacale nella vita amministrativa.
Intervento «disfunzionale perché aumenta i condizionamenti e le interferenze di un’amministrazione già lenta per altri motivi; perché, rinviando a livelli via via più analitici, produce, da un lato, incertezza sulle regole, dall’altro, una negoziazione continua; perché riduce, a tutto favore dell’azione sindacale collettiva, l’area della contrattazione individuale; perché, infine, finisce per
privilegiare la contrattazione, considerato che la consultazione slitta sempre in concertazione e quest’ultima in contrattazione»19. Altra conseguenza della c.d. riforma Brunetta, provvedimento legislativo di chiara «matrice antisindacale»20, è stata che il contenuto della riserva di legge, nonostante riguardi un nucleo minimo di materie riconducibile alla dimensione costituzionalizzata del pubblico impiego, è stato ampliato fino a ricomprendere materie in precedenza di esclusiva prerogativa del potere negoziale o di quello dirigenziale come, ad esempio, i sistemi di valutazione del personale e l’apparato sanzionatorio applicabile ai dipendenti pubblici.
La legge delega n. 15/2009 ed il decreto delegato n. 150/2009, inoltre, arrivano dopo una lunga serie di riforme sempre accompagnate da accordi sindacali importanti che hanno contribuito ad “accelerare” i processi di riforma.
A ciò si aggiunga anche che la presenza di cicli economici negativi ha sempre rappresentato una buona occasione di ricerca di nuove soluzioni.
Da questa situazione emerge, dunque, un disegno in base al quale è la legge che da sola diviene lo strumento principale del cambiamento, con la conseguente cancellazione di tutti gli altri sistemi di rappresentanza distinti e diversi.
Questo vale per la contrattazione e il ruolo autonomo del sindacato; per il sistema delle regioni e delle autonomie locali e la loro autonomia costituzionale.
Si rompe, in tal modo, il delicato equilibrio istituzionale nel rapporto tra Stato centrale e sistema regionale sia in termini di governance dell’Aran, sia in termini di autonomia della definizione delle linee di indirizzo dei contratti collettivi dei settori che riguardano direttamente ed esclusivamente il sistema regionale e delle autonomie locali.
Quanto, invece, alla disciplina delle tipologie contrattuali atipiche e flessibili, il decreto legislativo n. 150/2009, ferma restando la
(19) X. Xxxxxxx, Potere ai sindacati, in Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2001.
(20) X. Xxxxxxxx, Contrattazione collettiva, relazioni sindacali e riforma dell’Aran, in
XXX, 0000, 993 e ss.
competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative, in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, demanda la regolamentazione ai contratti collettivi nazionali.
Alla luce di quanto appena esposto, il modello che la legge delega
n. 15/2009 ha voluto raggiungere è quello all’interno del quale nelle pubbliche amministrazioni si deve contrattare il meno possibile; un modello secondo cui la regolazione e la gestione del lavoro pubblico puntano ad «una verticalizzazione delle relazioni di potere in cui alla base c’è il dipendente assunto contratto privatistico, al centro c’è il dirigente pubblico che gestisce il personale con la frusta in una mano e il timer nell’altra, e, al di sopra tutti, c’è la politica che osserva e vigila, distante forse, ma non disarmata perché, anche giustamente deve poter tradurre in ogni modo i suoi indirizzi in comportamenti coerenti di tutto il corpo amministrativo. In questo nuovo universo non si rinuncia affatto alla “privatizzazione” della disciplina del lavoro pubblico; piuttosto si punta alla sua sublimazione»21.
Il tutto, spesso, in nome di un processo di razionalizzazione e di esigenze legate alla fissazione di tetti di spesa, di politiche economiche che impongono il rispetto dei vincoli della spesa pubblica che, come accade nel settore privato, hanno influenzato fortemente il contenuto delle leggi, i vincoli alla contrattazione collettiva, le risorse disponibili e la struttura della contrattazione. Tuttavia, però, l’impatto dei cicli economici non favorevoli ha interessato non l’ambito occupazionale bensì, oltre ad altri aspetti, anche la flessibilizzazione delle tipologie contrattuali di lavoro.
E in relazione alla normativa in tema di contenimento della spesa pubblica (di personale) non si può non fare riferimento al 2011 che ha rappresentato il primo anno di applicazione delle norme di contenimento della spesa di personale contenute nel decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
(21) X. Xxxxxxx, La contrattazione collettiva dopo la delega, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2009, n. 87.
L’art. 9 del decreto legge n. 78/2010 prevede un complessivo quadro di misure volte ad incidere sulla dinamica di tutte le variabili che determinano il costo del lavoro pubblico. Si tratta, in particolare, per citare solo le principali aree di intervento, della sospensione della contrattazione collettiva per l’intero triennio 2010-2012; del blocco, fino al 2014, della crescita dei trattamenti individuali ordinariamente spettanti ai dipendenti; della fissazione di un limite - esteso, per la prima volta, a tutte le pubbliche amministrazioni - alla crescita delle risorse da destinare al finanziamento di trattamenti accessori; della riduzione percentuale dei redditi più elevati; dell’obbligo di ridurre i fondi unici in misura proporzionale ai dipendenti in servizio; della rigorosa conferma della percentuale di crescita prevista per la contrattazione collettiva 2008-2009 (non ancora all’epoca conclusa); della disapplicazione, per un triennio e senza possibilità di recupero, dei meccanismi di adeguamento retributivo per le categorie di personale non contrattualizzato; dell’inasprimento e della generalizzata estensione a tutti i comparti di contrattazione dei limiti al turnover del personale.
Con il d.l. n. 98/2011 si sono ulteriormente ristretti - per dichiarati fini di contenimento della spesa per il personale - gli spazi della contrattazione, ed è stata affidata ad una fonte di rango secondario, il regolamento governativo, la disciplina diretta di alcuni importanti aspetti del rapporto di lavoro pubblico quali la proroga, fino al 31 dicembre 2014, delle disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici, anche accessori, del personale; la fissazione delle modalità di calcolo relative all’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017; la semplificazione, il rafforzamento e l’obbligatorietà delle procedure di mobilità del personale; l’ulteriore stretta sull’assenteismo. Tutti ambiti di intervento tradizionalmente affidati alla contrattazione collettiva.
Il tutto, poi, accompagnato da severe misure restrittive della spesa per il finanziamento della contrattazione, in particolare quella collettiva di secondo livello, le cui residue disponibilità per i trattamenti accessori sono affidate a rigidi parametri di merito e virtuosità (art. 19, d. l. n. 98/2011).
Purtroppo il decreto legge n. 78/2010, disponendo il blocco della contrattazione collettiva di contenuto economico, è intervenuto in un momento e in un settore in cui si stava ancora cercando un equilibrio, dopo le modifiche e le novità introdotte con il d.lgs. n. 150/2009, per la contrattazione collettiva e per i contratti individuali.
Questo ha creato numerosi problemi per quanto riguarda la fase “transitoria” tra le nuove regole, il blocco ed il rinnovo contrattuale in quanto numerose amministrazioni, sulla base di un errore applicativo in cui è incorso anche il Dipartimento della Funzione Pubblica con la circolare n. 7/2010, hanno ritenuto di applicare, fin dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 150/2009, immediatamente le disposizioni in esso previste derogando ai contratti collettivi nazionali ma dimenticando che, per effetto della clausola di ultrattività contenuta all’interno degli stessi contratti collettivi, per questi è consentita la vigenza anche dopo il termine di scadenza e fino alla firma del successivo contratto di pari livello, unica eccezione fatta per l’ipotesi di recesso di una delle parti firmatarie.
Tale impostazione è stata peraltro seguita dalla giurisprudenza ordinaria22.
Ma al decreto legge n. 78/2010 seguono, rafforzandone il contenuto, le due manovre estive del 2011 (d.l. n. 98 del 2011 e
d.l. n. 138 del 2011), dalla legge di stabilità per il 2012 e dal cosiddetto decreto salva Italia (d.l. n. 201 del 2011).
Per quanto riguarda la contrattazione nazionale, il decreto legge n. 98/2011 ha previsto che i regolamenti adottati dal Ministro della pubblica amministrazione e dal Ministro dell’economia potranno prorogare, fino a tutto il 2014, il blocco della crescita delle retribuzioni dei lavoratori pubblici (già prevista, fino al 2013, dal decreto legge n. 78/2010).
«Ancor più decisi si manifestano i tagli - e, quindi, gli spazi di manovra per la contrattazione - nel settore del pubblico impiego
(22) Trib. Torino 27 marzo 2010; Trib. Milano 4 agosto 2012; Trib. Pesaro 19 luglio 2010; Trib. Perugia 28 luglio 2012; Trib. Salerno 18 luglio 2010; Trib. Lamezia Terme 7 settembre 2010. Contra: Trib. Pesaro 2 febbraio 2010.
disposti dall’articolo 1 del d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, nel testo risultante dalla legge di conversione del 14 settembre 2011, n. 148.
Il metodo è quello, ormai sperimentato, della riduzione del numero delle pubbliche amministrazioni, con conseguenti trasferimenti di personale presso le amministrazioni di assorbimento, nonché della riduzione forfetaria immediata delle piante organiche.
Si tratta di misure qualitativamente note, in quanto ricorrenti per tipologia in qualsiasi manovra finanziaria degli anni passati e che necessiteranno di una forte dose d’impegno e di onestà che serviranno ad evitare le consuete italiche furbizie conservative dell’esistente e misure sostanzialmente elusive, in danno di chi non può né vuole sottrarsi, responsabilmente, ai sacrifici richiesti. Dunque, concludendo, bisogna affermare che, sia la regolazione del rapporto di lavoro pubblico sia la contrattazione collettiva, fin dal 1993, sono sempre state e sempre saranno, proprio in virtù dell’equilibrio instabile del rapporto con la legge, «un pendolo di misure che oscilleranno tra rafforzamento del controllo e consolidamento della responsabilità, tra accentramento e decentramento della disciplina, tra ingerenza della legge e autonomia collettiva»23.
4. Lavoro pubblico privatizzato e flessibilità in entrata.
Nonostante la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, nonostante il tentativo posto in essere dal legislatore di avvicinare i due settori e malgrado l’obbligo posto in capo a tutte le
(23) X. Xxxxx, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego tra illusioni e delusioni. Dalla legge 421/1992 al d.l. n. 138/2011, Relazione svolta in occasione della Tavola rotonda sul tema “Le Relazioni sindacali nella P.A”, organizzata dalla Fondazione Xxxxxxx X’Xxxxxx a Roma il 4 ottobre 2011.
V. anche X. Xxxxx (a cura di), cit., 19 e ss.
pubbliche amministrazioni di esercitare un potere di autonomia privata, tuttavia tra i due settori permangono significative differenze.
Per tale motivo, infatti, ad un primo tentativo del legislatore di avvicinamento del settore pubblico a quello privato segue, nel 2003, con la c.d. riforma Biagi (legge delega n. 30/2003 e d.lgs. n. 276/2003), un deciso blocco del processo di equiparazione del lavoro pubblico a quello privato.
Tale riforma, seppur non direttamente applicabile alla pubblica amministrazione, delinea, tuttavia, una divaricazione dalle regole generali dettate per il rapporto di lavoro tra privati per esigenze di contenimento della spesa e di controllo delle assunzioni.
Il primo elemento distintivo è rappresentato dalle norme costituzionali poste alla base dei principi regolanti il pubblico impiego secondo cui, proprio al fine di garantire il buon andamento e l’imparzialità della “macchina pubblica”, l’organizzazione degli uffici debba rispettare i predetti principi e, pertanto, l’accesso al lavoro pubblico, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, debba avvenire mediante procedura concorsuale selettiva, anche in virtù del principio per cui, essendo i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione, questi debbano essere scelti con metodi e criteri il più possibile imparziali ed oggettivi24.
I principi costituzionali sopra esposti sono stati trasposti nel decreto legislativo n. 165/2001, art. 35, che contiene la regola generale per il reclutamento del personale nel pubblico impiego prevedendo l’assunzione con contratto individuale di lavoro a seguito di superamento di procedure selettive volte all’accertamento della professionalità che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno.
Il legislatore, tuttavia, oltre ai criteri generali sull’accesso al pubblico impiego, ha previsto alcune eccezioni, in tema di reclutamento, contenute nel disposto normativo dell’art. 36, d.lgs.
n. 165/2001. Allo stato attuale, tale articolo, oggetto di numerose
(24) v., xx xxxxxxxx, X. Xxxx. x. 000/0000 xx XX, 1991, I,395 e C. Cost. n. 161/1990 in
GI, 1992, I,1,437.
modifiche nel corso degli anni fino ad oggi, prevede che le pubbliche amministrazioni, per esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario assumono esclusivamente con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Possono, tuttavia, avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro di natura subordinata solo per esigenze temporanee ed eccezionali e nel rispetto delle norme vigenti in tema reclutamento.
Nell’ambito del processo di privatizzazione del pubblico impiego, l’inserimento di una disciplina relativa all’assunzione di personale a tempo determinato ha costituito e rappresentato un vero e proprio “banco di prova” utile alla verifica del grado effettivo di omogeneizzazione tra la normativa regolante il lavoro privato e quella regolante il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche25.
Secondo alcuni autori26, l’esplicita previsione legislativa della possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di ricorrere alle forme contrattuali flessibili, molto in uso nel settore privato, ha rappresentato una vera e propria novità.
Anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha accolto con favore l’introduzione dei principi di flessibilità nel pubblico impiego ad opera del legislatore il quale, applicando e garantendo il principio costituzionale dell’efficienza della res publica, senza pregiudicarne l’imparzialità, ha assicurato un contenuto produttivo della prestazione lavorativa ed un utilizzo più flessibile della stessa27.
(25) X. Xxxxx Xxxxxx, Xxxxx appunti in tema di assunzioni successive a tempo determinato, conversione in rapporti a tempo indeterminato e tipicità dei provvedimenti di assunzione, in XXX, 0000, n. 2, 588.
(26) X. Xxxxxxxxx, Lavoro flessibile e interessi pubblici differenziati nell’attività delle
pubbliche amministrazioni. Introduzione a Flessibilità e piccoli comuni, 2005, in
xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
(27) x. X.Xxxx. 00 xxxxxxx 0000, x. 000, xx XX, 1997, I, 3484. Inoltre, sulla legittimità costituzionale dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 x. X. Xxxx. 00 marzo 2003, n. 89, in D&G, 2003, 17, 104.
In questa sede non si può, però, non fare menzione delle obiezioni sollevate circa la legittimità costituzionale dell’affidamento, a seguito del processo di privatizzazione, della regolamentazione del rapporto di pubblico impiego alle fonti del diritto privato nonché alla contrattazione collettiva nazionale e decentrata. Considerare il rapporto di lavoro pubblico un rapporto speciale rispetto all’impiego privato farebbe venir meno l’esistenza del precetto costituzionale dell’assunzione mediante concorso e, di conseguenza, del divieto, estraneo al lavoro privato ma esistente nel lavoro alle dipendenze delle amministrazioni, della conversione del rapporto di lavoro a termine in lavoro a tempo indeterminato.
A dirimere la questione è intervenuta la Corte Costituzionale la quale ha affermato che, nonostante il processo di privatizzazione del pubblico impiego, non viene meno il principio di uguaglianza previsto dall’art. 3 Cost. nel caso di mancata conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. In tal caso non viene posta in essere alcuna discriminazione tra i lavoratori del settore pubblico ed i lavoratori del settore privato in quanto il fondamento del rapporto lavorativo con l’amministrazione è rappresentato dalla regola della selezione pubblica mediante concorso, del tutto estranea al rapporto di lavoro privato, e, pertanto, ipotizzare una assoluta equiparazione e completa uniformità tra i settori e le discipline previste significherebbe andare contro i principi di imparzialità, efficienza e buon andamento previsti ed imposti dalla stessa Carta costituzionale28. Tuttavia, non è mancato chi ha ritenuto e ritiene che l’introduzione della flessibilità del lavoro possa essere di ostacolo all’attuazione pratica delle forme flessibili di assunzione e di impiego del personale in quanto lo strumento «non esclude, ove il flusso della funzione servita si stabilizzi, anche la stabilizzazione di rapporti di lavoro costituiti originariamente come precari ma, al contempo,
(28) x. X.Xxxx. 00 xxxxxxx 0000, x. 000, xx XX, 1997, I, 3484. Inoltre, sulla legittimità costituzionale dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 x. X. Xxxx. 00 marzo 2003, n. 89, in D&G, 2003, 17, 104.
evita che si verifichino irrazionali rigonfiamenti nell’organico permanente di un ente»29.
Si spiega, dunque, perché l’estensione alle pubbliche amministrazioni delle chances offerte nel settore privato dalla presenza di variegate forme contrattuali di lavoro flessibile, sia stata accompagnata dalla fissazione di vincoli rigorosi sotto il profilo non soltanto del rispetto del principio della selezione pubblica, ma anche e soprattutto sotto quello della immunizzazione delle stesse amministrazioni dalle conseguenze derivanti dal cattivo uso della risorsa contrattuale flessibile.
Allo stesso tempo, però, non si può trascurare la necessità di applicare alle pubbliche amministrazioni le regole relative alla flessibilità in entrata, gestionale e in uscita. Diversamente, tale negazione precluderebbe alle pubbliche amministrazioni di operare con efficienza, funzionalità e flessibilità.
Tuttavia, all’idea secondo cui nel pubblico impiego non può non farsi ricorso ai contratti atipici e flessibili, si contrappone l’altra faccia della medaglia, ovvero l’idea, sicuramente condivisibile, secondo cui la flessibilità del lavoro rappresenta l’ambito in cui si manifestano con più evidenza i limiti e le contraddizioni della modernizzazione organizzativa delle pubbliche amministrazioni.
Per comprendere le motivazioni che hanno spinto il legislatore ad inserire nel settore pubblico forme contrattuali tipiche del “lavoro nell’impresa” dobbiamo partire dal Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia del 2001 in cui era ben chiaro l’intento di voler far transitare il mercato del lavoro «da una politica dei redditi verso una politica della competitività», «dalla concertazione al dialogo sociale».
Secondo una parte della dottrina30, invece, tale iniziativa legislativa ha voluto perseguire l’obiettivo di ridurre ovvero di attenuare le rigidità del codice protettivo previsto per il lavoro subordinato, da intendersi come un diverso assetto ed equilibrio
(29) C. X’Xxxx, Introduzione ad un ragionamento sulla flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in XXX, 0000, 515.
(30) X. Xxxx’Xxxx, Privatizzazioni (privatizzazione del pubblico impiego), in EGT,
Roma, vol. XXIV, 73.
dei vari interessi e profili di tutela, al fine di evitare che una eccessiva rigidità di tutele si traducesse in una eccessiva fragilità del sistema dell’accesso al pubblico impiego ed una conseguente inaccessibilità allo stesso.
Secondo un’altra parte della dottrina31, la ratio di tale scelta è stata quella di favorire, attraverso un uso elastico del personale, posizioni e condizioni sociali maggiormente meritevoli di tutela da parte dello Stato senza, però, influire negativamente sulla produzione attraverso il superamento della rigidità dei tetti di spesa del personale imposti dai bilanci in modo da risolvere il problema della carenza di personale conseguente ai blocchi delle assunzioni.
Ancora, c’è chi32, in dottrina, ha ben accolto l’utilizzo delle forme contrattuali flessibili ed atipiche da parte delle amministrazioni in virtù della loro rispondenza, non solo alla crescente necessità di reclutare in maniera più semplice e diretta rispetto alla selezione pubblica nuove professionalità specialistiche, spesso notevolmente diverse rispetto alle figure ed ai e profili professionali tradizionali utilizzati nell’amministrazione pubblica, ma anche all’ esigenza di ottimizzazione dei processi organizzativi tendenti alla modernizzazione ed alla omogeneizzazione, normativa e disciplinare, al settore privato.
In realtà, invece, la flessibilità in entrata del lavoro era stata pensata, nella Pubblica Amministrazione, per rendere più efficiente la gestione della res publica e dei pubblici servizi, con particolare riferimento ai concetti di efficienza tecnica ed efficienza allocativa intesi anche come capacità di adattamento della forza lavoro alle necessità dell’impresa.
Una conferma dell’estrema rigidità dell’organizzazione dell’amministrazione pubblica veniva data dal fatto che le singole
(31) X. Xxxxx, Commento all’art. 7 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, XXX, 0000, 1112.
(32) X. Xxxxxxx, X. Xxxxx (a cura di), La flessibilità nel rapporto di lavoro con le
pubbliche amministrazioni, Cedam, Padova, 2008, 15.
amministrazioni avessero una scarsa propensione ad adottare modelli di orario flessibile per i rapporti di lavoro pubblico (in particolare per agli appalti e per le collaborazioni coordinate e continuative attivate dall’amministrazione stessa).
La flessibilizzazione del lavoro era intesa anche come un ampliamento del novero delle forme contrattuali (part-time, contratti a termine, lavoro parasubordinato o parautonomo) e come modalità di semplificazione della struttura e dell’organizzazione, sia del lavoro sia della disciplina, del pubblico impiego in modo da consentire un miglior proporzionamento al fine stabilito dell’attività erogata.
Nel tempo, inoltre, il concetto di lavoro flessibile non è stato interpretato ed applicato “secondo canoni legislativi” e questo ha creato un allontanamento da quell’idea di lavoro flessibile inizialmente intesa e voluta dal legislatore.
In nome di una Pubblica Amministrazione nuova e flessibile è stato dato inizio all’utilizzo di “nuove modalità di reclutamento” di personale con lo scopo di rendere più elastico un settore di per sé rigido e di ridurre la spesa pubblica. Inoltre, la politica legislativa attuata in questi ultimi anni ha contribuito ad una maggiore liberalizzazione del ricorso alla flessibilità affievolendo, in tal modo, il ruolo della funzione qualificatoria dei contratti collettivi che sempre meno hanno regolato le tipologie contrattuali atipiche e flessibili.
«Sulla flessibilità in entrata, oltre al vincolo costituzionale del concorso, pesa il sospetto nei confronti delle forme atipiche per i rischi di abuso nel loro utilizzo che possano poi comportare diffuse e spesso motivate aspettative di stabilizzazione, come è avvenuto nel 2006/2007; nei confronti di quella in uscita pesa il blocco del turnover che ormai è previsto nelle finanziarie da una quindicina di anni, che di fatto opera in modo indiscriminato (perché determinato dal solo requisito dell’età del personale in uscita) sulle organizzazioni e le caratteristiche professionali dei dipendenti»33.
(33) X. Xxxxx, Le flessibilità controverse del lavoro pubblico, in Associazione Nuovi Lavori, 2011, n. 78.
Per far fronte ai suddetti rischi il legislatore ha previsto che «al fine di combattere gli abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Xxxxxxxxx del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le amministrazioni redigono, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno […], nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato» (Art. 36, comma 3, d.lgs. n. 165/2001). Inoltre, «le amministrazioni pubbliche comunicano, nell’ambito del rapporto di cui al precedente comma 3, anche le informazioni concernenti l’utilizzo dei lavoratori socialmente utili» (Art. 36, comma 4, d.lgs. n. 165/2001).
Il rapporto deve essere inviato entro il 31 gennaio di ogni anno ai nuclei di valutazione, ai servizi di controllo interno e al Dipartimento della Funzione Pubblica. La sanzione prevista per il dirigente responsabile di eventuali irregolarità nell’uso dei contratti flessibili consiste nella mancata erogazione della retribuzione di risultato.
CAPITOLO II
I CONTRATTI ATIPICI E FLESSIBILI DOPO LA RIFORMA FORNERO. PROBLEMATICHE APPLICATIVE
Sommario: 1. Il contratto a tempo determinato – 2. Il contratto a tempo parziale – 3. Le collaborazioni coordinate e continuative (xx.xx.xx.) – 4. La somministrazione di lavoro a termine – 5. Il telelavoro – 6. Il contratto di formazione e lavoro (CFL) –
7. Il contratto di apprendistato.
1. Il contratto a tempo determinato.
Il contratto a termine è senza dubbio uno degli istituti più emblematici che possano essere utilizzati per osservare i cambiamenti e le tendenze del diritto del lavoro nel nuovo secolo.
«La disciplina del contratto a tempo determinato è, da almeno un decennio, una sorta di cantiere aperto, il vero laboratorio di sperimentazione di ogni tentativo di innovazione regolativa in materia di lavoro cosiddetto flessibile o non-standard»34.
Regolato dal d.lgs. n. 368/2001, viene ampiamente utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni per far fronte ad esigenze e per ragioni organizzative, tecniche, produttive o sostitutive, anche riconducibili all’ attività ordinaria. In ambito sia pubblico, sia privato, nel corso degli ultimi anni, questo contratto è stato oggetto di continui interventi legislativi e giurisprudenziali che ne
(34)X. Xx Xxxx, Flessibilità del lavoro, in funzione della competitività nel mercato globale, e garanzia costituzionale dei diritti dei lavoratori, in Dir. lav. Marche, 2009,
n. 3, Competitività, flessibilità del mercato e diritti fondamentali dei lavoratori (Atti del convegno nazionale del Centro Nazionale di Studi di Diritto del Lavoro “Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx” – Sezione Marche, Ascoli Xxxxxx, 20-21 marzo 2009, 231 ss.; X. Xxxxxxxx, Il contratto di lavoro a tempo determinato nella legge n. 183 del 2010, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2011, n. 115.
hanno periodicamente ridefinito la logica, la funzione, le modalità concrete di utilizzo, in un continuo alternarsi del binomio innovazione e continuazione.
Si è assistito ad un notevole mutamento della disciplina sul contratto a termine.
Da ultimo, la legge n. 183 del 2010 (nota ormai anche al largo pubblico come “Collegato lavoro”) ha finito per confermarne lo scomodo ruolo di banco di prova delle effettive capacità di riforma e di modernizzazione asseritamente perseguite dal legislatore.
Filosofie diverse e per taluni aspetti contrapposte della flessibilità del mercato del lavoro (o, come si dice in omaggio al gergo ora in uso nell’Unione europea, della flexicurity) vi si sono confrontate in questi ultimi anni in un susseguirsi di interventi legislativi che, con l’intento di razionalizzare o modernizzare la disciplina in vigore, hanno tuttavia inevitabilmente concorso a determinare, accanto al disorientamento di chi opera nel mercato, un contenzioso ipertrofico che neppure le ripetute pronunce del giudice delle leggi e della Corte comunitaria hanno saputo avviare ad una fase di effettivo assestamento o ridimensionamento35.
Attraverso il contratto a termine si è discusso dell’utilità e della stessa ratio della flessibilità nel lavoro pubblico, di volta in volta allargando e/o restringendo le maglie della possibilità di ricorso a tale strumento contrattuale da parte delle imprese e delle Pubbliche Amministrazioni.
L’analisi dell’evoluzione normativa e della prassi applicativa del contratto a termine nelle Pubbliche Amministrazioni offre lo spunto per una riflessione sul successo o sul fallimento del processo di contrattualizzazione del lavoro pubblico: tale analisi, in particolare, consente di verificare la sussistenza della possibilità per le Pubbliche Amministrazioni di agire con moduli organizzativi e gestionali tipici del lavoro privato, ovvero la prevalenza di quel vincolo di scopo ma anche dei vincoli finanziari, che rendono impossibile un ragionamento unitario sull’uso della flessibilità nelle imprese e nelle amministrazioni,
(35) Sul punto, v. X. Xxxxxxxx, op. cit, 2 e ss.
nonché, più in generale, una effettiva parificazione del regime giuridico dei dipendenti pubblici e di quelli privati.
La politica di contenimento dei costi, introdotta dalle leggi finanziarie attraverso la fissazione di limiti quantitativi di spesa, validi per tutte le amministrazioni, con riguardo all’utilizzo di contratti a tempo determinato, di formazione e lavoro, di collaborazione coordinata e continuativa o di altre forme di rapporto flessibile ha di fatto svolto un’azione progressiva di controllo delle flessibilità contrattuali, frenandone l’uso.
Il motivo per cui il legislatore è dovuto intervenire a regolare questa tipologia di contratto è legato al fatto che le Pubbliche Amministrazioni, da sempre poco inclini ad una flessibilità interna, si sono servite del rapporto di lavoro a termine per risolvere problemi di carattere organizzativo e «far fronte a carichi aggiuntivi di lavoro ed alla variabilità della domanda di prestazione da parte dell’utenza»36.
Bisogna dunque fare un’attenta valutazione sulla sussistenza delle
«esigenze temporanee ed eccezionali» che legittimano il ricorso al lavoro flessibile nelle Pubbliche Amministrazioni.
Solo la rigorosa e corretta applicazione di tali previsioni può scongiurare il rischio della formazione e sedimentazione di precariato negli Enti. Per quanto riguarda invece l’utilizzo del lavoratore con una singola tipologia contrattuale, trovano applicazione le specifiche discipline di settore, applicabili anche al lavoro privato, così come integrate dai singoli Ccnl di comparto.
La Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 3 del 19 marzo 2008, ha dettato le linee di indirizzo in merito alla stipula di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato nelle Pubbliche Amministrazioni, seguendo le modifiche apportate dalla legge finanziaria 2008.
Fermo restando le procedure inderogabili di reclutamento del personale (concorso pubblico), la nuova disciplina del contratto a tempo determinato è costruita intorno alla durata limitata del contratto che, salvo alcune deroghe non può superare i tre mesi.
(36)P. Fuso, Il paradigma della flessibilità e il contratto a termine, in Dossier Adapt, 2009, n.8.
La proroga del contratto a termine è ammessa solo fino al raggiungimento del limite massimo di tre mesi, ed è, quindi, vietata nel caso in cui il contratto abbia già in origine una durata superiore ai tre mesi.
Invece, il rinnovo si configura come la stipula di un contratto a termine per lo svolgimento di una prestazione identica a quella oggetto del precedente contratto.
La prestazione si considera identica ogni volta che l’assunzione avvenga sulla base della medesima graduatoria concorsuale. Non si ha rinnovo ma stipula di un contratto ex novo per assunzioni di dipendenti che hanno vinto più concorsi e con cui vengono stipulati diversi contratti a termine.
È consentito apporre un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato solo per ragioni organizzative, tecniche, produttive o sostitutive, anche riconducibili all’ordinaria attività del datore di lavoro.
Questi criteri devono essere contenuti ed elencati nella lettera di assunzione in maniera specifica e precisa. Il termine, che non deve superare i tre anni, deve essere inserito per iscritto nel contratto (fanno eccezione i rapporti di durata inferiore a dodici giorni). In caso contrario il contratto sarà considerato a tempo indeterminato. Il contratto può essere prorogato:
a) per ragioni giustificatrici che l’amministrazione deve provare pena trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro;
b) per i contratti di durata inferiore a tre anni;
c) solo per una volta;
d) per un massimo di tre anni, proroga inclusa.
I lavoratori a termine possono essere preferiti ad altri nel caso di nuove assunzioni se hanno prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, sempre che i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali non prevedano disposizioni diverse.
Il lavoratore può far valere il diritto di precedenza entro i dodici mesi dal momento in cui il datore procede a nuove assunzioni.
La Pubblica Amministrazione può, inoltre, usare i contratti previsti dal d.lgs. n. 368/2001 anche senza l’intervento della contrattazione collettiva che, spesso, è intervenuta a regolare il
contratto a termine senza predisporre delle norme particolareggiate ma seguendo quasi alla lettera il dettato legislativo.
Le norme contenute nei Ccnl continueranno ad applicarsi fino alla loro scadenza, ad essere efficaci e a regolare i rapporti di lavoro.
Nel caso in cui i Ccnl, nell’ambito del loro potere contrattuale, individuino dei casi in cui l’apposizione del termine sia legittima, al di là dei casi giustificati da ragioni tecniche produttive, organizzative o sostitutive o si considera la funzione dell’autonomia collettiva come meccanismo esaustivo di riempimento delle causali previste dalla legge (contenute nell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368/2001 che prevede la possibilità di stipulare di apporre un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro), con la conseguenza che le parti individuali non possono stipulare contratti a termine all’infuori delle ipotesi già predeterminate, pur se rientranti nella macrocausale. Invece, nel caso in cui nel Ccnl non sia inserita alcuna causale, sia quando la contrattazione collettiva rinvia alla fonte legislativa la regolamentazione della materia, sia nelle ipotesi di vuoto normativo (di fonte collettiva) si applicano, senza eccezioni, le disposizioni previste dalla legge (Art. 1, d.lgs. n. 368/2001 e art. 36, d.lgs. n. 165/2001).
Concludendo possiamo dire che, nonostante la legge abbia cercato di regolamentare questa tipologia contrattuale in modo da evitare abusi stabilendo che «in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione»37, tuttavia, negli ultimi tempi, a seguito dell’aumento del contenzioso sull’abuso di tale tipologia
(37) X. Xxxxxxx, L’applicazione del contratto del pubblico impiego con specifico Riferimento agli enti locali e la flessibilità, 2004, 1, reperibile su xxx.xxxxxx.xx.
contrattuale, le interpretazioni giurisprudenziali hanno portato a conclusioni diverse rispetto al dictat legislativo.
In tema di sanzioni applicabili nei casi di violazione delle norme di legge relative ai contratti a termine si sottolinea l’intervento legislativo posto in essere con la legge n. 190/2012 (c.d. legge anticorruzione) con cui è stato stabilito che entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le amministrazioni devono redigere un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione e al Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento.
Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.
La riforma della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato ha dato origine ad ampia giurisprudenza, che si è rivelata di notevole importanza per la concettualizzazione della persistente rilevanza del contratto a tempo indeterminato e le problematiche relative alla valutazione dei presupposti che legittimano le parti individuali alla conclusione del contratto. L’orientamento prevalente è rigoroso nel riaffermare il principio secondo il quale il contratto a tempo determinato resta una “figura eccezionale” che si connota per la temporaneità della prestazione e della relativa esigenza che la sorregge38.
Già secondo il precedente regime era stato affermato il principio secondo il quale tale caratteristica persiste anche nei casi individuati dalla contrattazione collettiva, come emerso in merito al caso Poste Italiane, ove si è affermato un orientamento rigoroso sui presupposti legittimanti il ricorso a tale contratto, che impone l’adeguata specificazione delle esigenze dell’impresa e la prova della corrispondenza fra il ricorso al contratto a termine e le effettive esigenze di servizio, ed altresì che la conversione del
(38) Cass. 1° dicembre 2003, n. 18354, in MGC, 2003, 12.
contratto in uno a tempo indeterminato è il rimedio comunque applicabile39.
Il nuovo sistema derivante dalla riforma, che ha abrogato la disciplina precedente fondata su ipotesi tassative di derivazione legale o contrattuale - collettiva, ha riaffermato l’importanza di un esame più rigoroso da parte del giudice sulle ragioni giustificative inquadrabili nelle causali astratte, che devono essere specificate nel contratto individuale e devono avere natura oggettiva, oltre che carattere di temporaneità.
Seguendo tale iter argomentativo, la giurisprudenza formatasi sulla base del contenzioso Poste italiane ha conosciuto ulteriori sviluppi.
La giurisprudenza di merito ha confermato l’illegittimità del contratto a termine concluso sulla base delle giustificazioni fondate sulla mera ratione temporis, poiché, trattandosi di un’ipotesi acausale, risulta in contrasto con il quadro di diritto interno ed altresì con quello comunitario che prevede quali requisiti il verificarsi di ragioni oggettive40.
Il requisito della temporaneità non è dunque una ragione sufficiente pur se considerata necessaria.
L’esistenza di vincoli di sistema in combinazione tra diritto interno e comunitario, alla luce dei quali si può sostenere tuttora la persistenza del primato del contratto di lavoro a tempo indeterminato, è ancor più manifesta a seguito della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea relativa all’interpretazione dell’accordo quadro e della Direttiva 99/70/CE, secondo le sentenze Xxxxxxx e Xxxxxxxx, che sul punto assumono una notevole rilevanza41.
Secondo la Corte di Giustizia europea, l’accordo quadro europeo in materia di lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva
(39) Cass. 7 dicembre 2005, n. 26989, in RGL, 2006, 3, 458; Cass. 5 dicembre 2005, n.
26679, in RGL, 2006, 3, 459; Cass. 2 maggio 2005, n. 9067, in RGL, 2006, II, con nota di Xxxxxxxx.
(40)V., sul punto, Trib. Firenze 5 febbraio 2004 in D&L, 2004, 235; Trib. Firenze 30
dicembre 2004, in OGL, 2005, 422, Trib. Catania 25 gennaio 2006, in RGL, 1, 21.
(41) X.Xxxxx. 22 novembre 0000, X - 000/00, Xxxxxxx, xx XXX, 0000, XX, 000; X.Xxxxx. 4 luglio 2006, C-212/04, Xxxxxxxx, in RGL, 2006, II, 601.
99/70/CE, conferma l’eccezionalità del ricorso a tale contratto, ed afferma che «i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento. L’accordo inoltre la sussistenza di condizioni oggettive che ne legittimino la stipulazione, quali il raggiungimento di una certa data o il completamento di un compito o il verificarsi di un evento specifico».
Sono ragioni obiettive quelle circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività tali da giustificare in tale particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi.
Tra le questioni più discusse e rilevanti sotto il profilo della precarietà del rapporto di lavoro vi è quella che riguarda il regime delle proroghe del contratto individuale a termine e la illimitata possibilità dei rinnovi. In merito soccorre la sentenza della Corte di Giustizia europea, causa Xxxxxxxx, che ha escluso la conformità alla normativa comunitaria di una legge greca che ammetteva la possibilità di rinnovare il contratto a tempo determinato se fosse rispettato un intervallo minimo di almeno venti giorni tra un contatto e quello successivo. Per lungo tempo l’estrema difficoltà di riuscire a provare un effettivo danno derivante dall’illegittimo uso di contratti a termine ha reso, di fatto, l’abuso di tale forma contrattuale privo di sanzione e, infatti, i giudici, dal 2001 al 2006, non hanno mai liquidato alcun risarcimento ai lavoratori. L’assenza di una effettiva sanzione appariva, però, in contrasto con la direttiva 99/70/CE volta a prevenire proprio l’abuso della successione di contratti a termine.
Così, con un ritardo di due anni, i giudici italiani, dopo avere in prima istanza chiamato in causa la Corte Costituzionale senza successo42, si sono rivolti alla Corte di Giustizia europea affinché verificasse la compatibilità dell’art. 36 rispetto alla normativa comunitaria.
(42) C.Cost. 27 marzo 2003, n. 89, in XXX, 0000, 2, 355, con nota di Xxxxx; si veda anche, sul punto, la nota di Menegatti, La persistente «specialità» del lavoro a termine nel pubblico impiego al vaglio della Corte costituzionale, in GC, 2004, 12.
Il giudice europeo non ha di per sé considerato illegittima la previsione normativa in esame, chiarendo che in linea astratta non vi sono profili di incompatibilità tra la disposizione in parola e la direttiva 99/70/CE, ritenendo la conversione non un obbligo generale ma solo una possibilità.
I Giudici europei, quindi, hanno sostenuto che non vi sia lacuna nell’ordinamento italiano, ma piuttosto una carente tutela giudiziaria in applicazione alle norme sanzionatorie esistenti, censurando l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, in contrasto con l’ordinamento giuridico comunitario.
A tali pronunce se ne aggiungono altre, successive, relative al principio della «buona fede che deve informare l’azione amministrativa nel suo complesso»43 e al principio dell’affidamento del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione da ritenersi incluso nel concetto di buon andamento di cui all’art. 97, Cost.
Tale principio, come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, «[…] talvolta stenta ad affermarsi nella prassi dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini, ma […] tuttavia [esso è da considerarsi un principio] immanente al sistema, sia in base alla novellata legge 241 del 1990, nel testo modificato nel 2005, sia in base ai principi comunitari ormai entrati a far parte di diritto del nostro ordinamento, anche ai sensi dello stesso articolo 1 della citata legge 241 del 1990. Infatti, un corretto rapporto tra amministrazione e privato deve risultare rispettoso dei principi generali del buon andamento dell’azione amministrativa e di imparzialità e impone la tutela dell’affidamento degli interessati44. In altri termini, il principio di affidamento può ritenersi incluso nel buon andamento di cui all’articolo 97 della Carta costituzionale e inoltre risulta innervato nei principi enucleati nella ripetuta legge 241 del 1990.
(43) X. Xxxx. Xxxxx, xxx. XX, 00 ottobre 2006, n. 6190, in Riv. giur. Edilizia, 2007, 3, I, 1082.
(44) Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2007, n. 1441, in FA, CDS, 2007, 3, 922 (s.m.).
Infatti, se l’amministrazione deve essere garante della correttezza dello svolgimento del procedimento, al quale presiede, è anche vero che sussistono altri valori ed esigenze giuridicamente rilevanti, quali la buona fede e l’affidamento, il cui rispetto compete parimenti al soggetto pubblico»45.
Inoltre, secondo quanto affermato e sostenuto dalla Corte Costituzionale, il principio di affidamento deve essere rispettato anche nell’ambito dei rapporti organizzativi tra amministrazione pubblica e lavoratore-cittadino.
A tale proposito, infatti, la Corte ha affermato che la valutazione delle esigenze organizzative del personale che presta la propria attività lavorativa nel pubblico impiego debba essere di tipo oggettivo al fine di rispettare il principio costituzionale del buon andamento. In relazione alle forme contrattuali flessibili, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale, si desume un principio secondo cui a funzioni stabili devono corrispondere rapporti stabili, mentre a funzioni flessibili devono corrispondere rapporti flessibili46.
Si ricorda che la regolamentazione dei rapporti contrattuali ed extracontrattuali della Pubblica Amministrazione, ivi comprese le forme contrattuali flessibili e atipiche, trae fondamento anche dai principi costituzionali oltre che dalle norme di diritto privato.
Il legislatore costituzionale impone a tutti i soggetti dell’ordinamento, sia pubblici che privati, di assumere una condotta secondo buona fede (art. 2). Dunque, visto che il dovere di buona fede consiste nell’obbligo di tenere un comportamento che sia improntato a diligente correttezza e a solidarietà sociale tra soggetti, in virtù di quanto l’art. 2 della Costituzione prevede, anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento, non può ritenersi sottratta all’obbligo di agire correttamente, qualunque sia il modo in cui esplichi la propria attività.
(45) Cons. Stato , sez. VI, 23 giugno 2006 , n. 4001, in FA, CDS 2006, 6, 1926 (s.m.);
v., inoltre, Tar Abruzzo 3 luglio 0000, x. 000, xx XX, 0000, XX, 0000.
(46) Si veda, da ultima, C.Cost. 24 luglio 2003, n. 274, in XXX, 0000, 588, con nota di Xxxxxxxx.
L’affidamento altro non é che una situazione soggettiva preliminare e autonoma rispetto al principio di buona fede, la cui tutela é assicurata dall’esistenza di tale principio che trova il suo antecedente logico in una situazione di apparenza caratterizzata da elementi oggettivi (come, ad esempio, atti a favore del cittadino ma anche l’inerzia, comportamenti precedenti della pubblica amministrazione) che creano nell’amministrato delle aspettative. Cioè il soggetto amministrato (e, in particolare, il lavoratore “flessibile”) si attende che la situazione con cui ha a che fare sia reale, consolidata, certa e non modificabile unilateralmente da parte dell’amministrazione.
L’amministrato confida in tale situazione a tal punto che spesso pone in essere delle scelte proprio in virtù di questo affidamento, cosicché la sua violazione comporterà non solo conseguenze sanzionatorie dirette, ma anche danni derivanti dalle scelte precedentemente fatte.
Si ricorda, proprio in tema di affidamento del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione, l’ordinanza del 1° ottobre 2010 della Corte di Giustizia europea (nel procedimento C-03/10, Affatato vs. ASP Cosenza) la quale, seppure in via indiretta, si è interessa del problema della tutela del cittadino nei confronti della amministrazione pubblica47.
Nell’ordinanza si fa riferimento alla clausola 5 dell’Accordo quadro sulle misure di prevenzione degli abusi della direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato.
La clausola prevede che al fine di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionale, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative alle ragioni
(47) Sul punto si veda anche Xxxxxxxx, Il rapporto di lavoro a termine. La sentenza Affatato e il collegato al lavoro 2010, in Risorse Umane nella Pubblica Amministrazione, 2011, n. 1, 137.
obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; alla durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; al numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
Gli Stati membri, inoltre, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere considerati “successivi”; devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato.
Questa clausola sulla prevenzione degli abusi non contrasta con l’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 che vieta, nel caso di abuso dell’utilizzo dei contratti flessibili, la conversione del contratto di lavoro nei confronti della Pubblica Amministrazione prevedendo solo la sanzione in capo all’amministrazione.
Inoltre, secondo la Corte, le misure previste da una normativa nazionale al fine di sanzionare il ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione siano conformi a questi principi.
In particolare, nell’ordinanza della Corte di Giustizia si legge: «Le questioni sollevate dal giudice del rinvio vanno pertanto risolte dichiarando che la clausola 5 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che: essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, quinto comma, del d.lgs.
n. 165/2001, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato quando l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore interessato, altre misure effettive
per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione.
Spetta tuttavia al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione; essa, in quanto tale, non è in alcun modo atta a pregiudicare le strutture fondamentali, politiche e costituzionali, né le funzioni essenziali dello Stato membro di cui è causa»48.
Sull’adeguatezza delle sanzioni in caso di ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato, la Corte di Giustizia Con osserva che la decisione di rinvio da parte del Giudice italiano «sottolinea espressamente la mancanza di un chiaro orientamento della giurisprudenza nazionale in merito alle modalità per il risarcimento del danno derivante dalla conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato abusivi.
Alla luce di ciò […] occorre constatare che la soluzione delle questioni sollevate può essere dedotta chiaramente dalla giurisprudenza della Corte. Difatti, […], in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le norme vertenti sulle sanzioni applicabili in caso di ricorso abusivo ai contratti o ai rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere stabilite dall’ordinamento interno degli Stati membri nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività. […].
L’accordo quadro dev’essere interpretato nel senso che le misure previste da una normativa nazionale, come quella oggetto della causa principale, al fine di sanzionare il ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o
(48) v. X.Xxxxx. 1° ottobre 2010, Causa C-3/10, Pres. Xxxxx, Xxx. Cahoim, in D&L, 2010, con nota di Xxxxxxxx, Lo stato dell’arte sull’abuso del contratto a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, 956.
eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale miranti a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione siano conformi a questi principi».
Con questa pronuncia si interviene, per la prima volta, sul problema dell’abuso del ricorso a contratti a tempo determinato da parte delle Amministrazioni Pubbliche interpretando quanto stabilito dalla Direttiva europea sull’orario di lavoro in maniera non contrastante con l’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 che, al comma 5, stabilisce che la violazione di disposizioni imperative riguardanti sull’assunzione o sull’impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può in nessun caso comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni, ma soltanto forme di responsabilità e sanzione in capo alle stesse.
Tuttavia, però, bisogna sottolineare che l’ordinanza del 1° ottobre non costituisce l’unica pronuncia della Corte europea sul tema della parità di trattamento tra lavoratori con contratto a tempo indeterminato e lavoratori con contratto a termine.
«La direttiva Ce 1999/70 in materia di lavoro a tempo determinato e, in particolare, il principio di non discriminazione dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili trovano applicazione anche nei rapporti di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, per i quali la semplice circostanza che un impiego sia qualificato “di ruolo” in base all’ordinamento interno non costituisce ragione oggettiva idonea a giustificare una differenza di trattamento dei lavoratori a termine.
Un aumento stipendiale triennale che sia connesso al decorso dell’anzianità rientra nella nozione di “condizione d’impiego” e quindi nell’ambito dell’applicazione della clausola 4, punto 1, accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70; conseguentemente, i lavoratori a tempo determinato possono opporsi a un trattamento che, relativamente al versamento di tale componente stipendiale, sia – al di fuori di
qualsiasi ragione obiettiva – meno favorevole di quello riservato ai lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in una situazione comparabile.
La mera circostanza che una disposizione nazionale non contenga alcun riferimento alla direttiva 1999/70 non esclude che tale disposizione possa essere considerata una misura nazionale di trasposizione di tale direttiva.
La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70, è incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere invocata nei confronti dello Stato membro da dipendenti pubblici avanti il giudice nazionale perché sia loro riconosciuto il diritto a un aumento stipendiale triennale già attribuito ai lavoratori a tempo indeterminato e ciò per il periodo compreso tra la scadenza del termine per la ricezione della direttiva e l’entrata in vigore della norma nazionale (non retroattiva) che recepisce la direttiva stessa, fatti salvi gli effetti delle norme nazionali in tema di prescrizione»49.
In tema di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego si sono espressi anche i Tribunali nazionali che, seguendo le pronunce della Corte di Giustizia, si sono orientati verso un’applicazione della direttiva n. 71/1999 con conseguente disapplicazione dell’art. 36 del decreto legislativo n. 165/2001 - che prevede il solo risarcimento del danno da parte della Pubblica Amministrazione che abusi dei contratti a termine – ed hanno quindi ammesso la possibilità di convertire il contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Tuttavia, però, l’interpretazione che la Corte di Giustizia europea in materia di conversione dei contratti a tempo determinato, ripresa i tribunali di merito, era stata osteggiata dalla Corte Costituzionale50.
(49) x. X.Xxxxx. 00 dicembre 2010, Causa C-444/09 e 456/09, pres. Xxxxx Xxxxxxxxx, rel. Xxxxxx, in D&L, 2010, con nota di Xxxxxxxx, Lo stato dell’arte sull’abuso del contratto a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, 955
(50) C.Cost. 27 marzo 2003, n. 89, in FI, 2003, I, 2258 ss.
Si tratta della sentenza del 23 marzo 2003 emessa a seguito dell’ordinanza di remissione del Tribunale di Pisa.
Il Giudice di primo grado, si legge nella sentenza, «con ordinanza del 7 agosto 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui dispone che “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”».
In particolare, secondo quanto riportato dalla Consulta, il Giudice del lavoro di Pisa osservava che «a seguito della riforma, la regolamentazione del rapporto di lavoro dei pubblici impiegati è affidata per intero alle fonti generali e speciali dell’impiego privato ed alla contrattazione collettiva nazionale e decentrata, essendo stato espunto il limite rappresentato dalla compatibilità della suddetta disciplina con la specialità del rapporto, contenuto nell’originario testo dell’art. 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.
Ne conseguirebbe che il rapporto di lavoro dei pubblici impiegati non potrebbe considerarsi rapporto speciale rispetto al rapporto di lavoro nell’impresa privata, e ciò varrebbe anche per le forme di lavoro flessibile quale, appunto, il lavoro a tempo determinato.
Il divieto di conversione del rapporto a termine dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni non troverebbe perciò alcuna ragionevole giustificazione e, in particolare, non sarebbe sorretto dal disposto dell’art. 97 della Costituzione, che, sancendo l’obbligo di assunzione mediante concorso salvo i casi previsti dalla legge, evidentemente non escluderebbe la possibilità da parte del legislatore di prevedere casi di assunzione a tempo indeterminato che prescindano dalla procedura concorsuale.
La norma impugnata si porrebbe, dunque, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione sia per la violazione del canone di
ragionevolezza sia per la palese disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e lavoratori privati.
Risulterebbe, altresì, leso il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione, in quanto l’eliminazione di ogni residua forma di precariato consentirebbe al datore di lavoro pubblico di potersi avvalere di professionalità più motivate, in ragione della stabilità delle funzioni attribuite al lavoratore».
Ma la risposta della Corte Costituzionale alle questioni di legittimità costituzionale è perentoriamente negativa. «Siffatto assunto, nei termini assoluti nei quali è formulato, non può ritenersi corretto.
Va infatti considerato - limitando l’esame al solo profilo genetico del rapporto, che nella specie viene in considerazione - che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione.
L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità - sotto l’aspetto considerato - delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati.
È appena il caso di sottolineare, al riguardo, che, seppure lo stesso art. 97, terzo comma, della Costituzione, contempla la possibilità di derogare per legge a miglior tutela dell’interesse pubblico al principio del concorso, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, l’individuazione di siffatti casi eccezionali (sentenze n. 320 del 1997, n. 205 del 1996), senza che alcun vincolo possa ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla
disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è, come si è detto, del tutto estraneo.
Le considerazioni sin qui svolte rendono palese l’infondatezza della questione anche con riferimento al parametro di cui all’art. 97 della Costituzione.
L’assunto del rimettente - secondo il quale la stabilizzazione del rapporto di lavoro dei cosiddetti precari, attraverso la conversione dei rapporti a termine irregolari in rapporti a tempo indeterminato, sarebbe rispondente al principio di buon andamento della pubblica amministrazione - trova infatti smentita nella stessa norma costituzionale, là dove questa, al terzo comma, individua appunto nel concorso lo strumento di selezione del personale in linea di principio più idoneo a garantire l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione»51.
La pronuncia della Corte Costituzionale, sulla falsariga di altre precedenti pronunce riguardanti temi diversi dal diritto del lavoro, è andata “controcorrente” rispetto ad una giurisprudenza europea che cerca, sempre di più, di “uniformare” il pensiero delle diverse Corti nazionali.
«Il problema dell’integrazione europea, anche per il diritto del lavoro, assume una valenza costituzionale, con tutto ciò che questo implica ed evoca nell’immaginario del giurista del lavoro. I giuslavoristi italiani per esempio – che scontano più di altri, la caratterizzazione laburistica della Carta fondamentale – si trovano da qualche tempo a confrontarsi con la reazione, vera o presunta, che la possibile fusione tra l’ ordinamento nazionale e l’ordinamento europeo rischia di produrre, o, secondo alcuni, sta già producendo»52.
E le sentenze della Corte di giustizia europea in materia di contratti a termine e la sentenza n. 89/2003 della Corte Costituzionale sono l’esempio di come sia difficile trovare una
(51) C.Cost. 27 marzo 2003, n. 89 in FI, 2003, I, 2258 ss.
(52) X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxx (a cura di), Diritti sociali tra ordinamento comunitario e Costituzione italiana: il contributo della giurisprudenza multilivello, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” . Collective Volumes, 2011, n. 1, 14.
visione comune tra ordinamento nazionale sovranazionale quando si tratta di “diritti sociali (europei)”.
Tuttavia, però, l’«enunciazione costante da parte della giurisprudenza dell’Unione europea dell’obbligo per il giudice nazionale di far ricorso a tutte le risorse ermeneutiche disponibili al fine di conseguire il risultato voluto dall’ordinamento dell’Unione europea, contribuendo all’adeguamento dell’ordinamento interno all’ordinamento sovranazionale ed alla realizzazione di una tappa fondamentale del processo di integrazione interordinamentale»53, è stata ascoltata dai Giudici italiani i quali, in applicazione del principio del primato del diritto europeo e di quello dell’efficacia diretta, nelle loro sentenze o nelle loro ordinanze hanno ritenuto di disapplicare la norma interna a favore della norma europea.
In particolare, si fa riferimento alle sentenze del Tribunale di Siena, del 27 settembre 2010, n. 69954 e del 13 dicembre 2010 n. 26355 e a quella del Tribunale di Livorno, sent. 26 novembre 2010, n. 266.
Nella prima sentenza, quella del 27 settembre 2010, si legge: «È certo, occorre precisare, che il d.lgs. 2001/n. 368 trovi applicazione nel settore pubblico, sebbene sia altrettanto certo che la normativa generale debba coordinarsi con eventuali norme speciali.
Cronologicamente la fattispecie oggetto di controversia si inserisce in un paradigma di regola ed eccezione tra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo determinato che accomuna il settore del lavoro pubblico a quello privato. Non solo.
(53) F. Polacchini, Cedu e diritto dell’unione europea nei rapporti con l’ordinamento costituzionale interno. Parallelismi e asimmetrie alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale, in xxxx://xxx.xxxxxxxx.xxx/xxxxx/Xxxxxxxxxx.xxxx, del 14.09.2010.
(54) Trib. Siena 27 settembre 2010, in XXX, 0000, 869, con nota di Xxxxxxxxx, A
proposito di una possibile “disapplicazione” del divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nella P.A.
(55) Trib. Siena 13 dicembre 0000, x. 000, xx XXXX, 0000, II, 360, con nota di Siotto,
Una breccia nel muro del lavoro pubblico: la disapplicazione del divieto di conversione del contratto di lavoro a termine
A differenza del settore privato, in quello pubblico il legislatore ha imposto alle amministrazioni l’obbligo di “assumere esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato” in presenza di “esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario”, ripristinandosi la possibilità di avvalersi di forme contrattuali flessibili “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali” (art. 36, comma 1, modificato dall’art. 49, d.l. n. 112/2008 conv. in legge n. 133/2008, ma x. xxx xxx. 0, x.
x. 00/0000), con disciplina, dunque, più restrittiva, nella proclamazione del superamento del “lavoro precario” (disciplina dapprima ancor più irrigidita con la riscrittura dell’art. 36 nella finanziaria 2008, legge n. 244/2007, art. 3, comma 79).
In ogni caso, anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 112/2008, conv. l. n. 133/2008, e dal d.l. n. 78/2009 conv. l. n. 102/2009, deve ritenersi che il lavoro a termine alle dipendenze della pubblica amministrazione rimanga ipotesi eccezionale, da interpretarsi restrittivamente».
Quanto, invece, alla tutela risarcitoria, per il Tribunale di Siena questa, «per rispondere ai requisiti precisati dalla Corte di Giustizia, deve essere pertanto duplice, “effettiva” e “dissuasiva”. Anzitutto, per l’intero periodo in cui il rapporto ha avuto attuazione dovrà essere corrisposto il trattamento economico differenziale, tra quanto percepito e quanto spettante al/la lavoratore/trice ex art. 2126 c.c. per la instaurazione di fatto (nulla) di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, cioè “il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di norme imperative”.
La giurisprudenza ha spesso fatto ricorso a questa forma di tutela, ritenendola talora l’unica per il dipendente pubblico, conformemente a parte della dottrina. Il principio di non trasformabilità, che caratterizza con specialità il settore, non ci pare ostativo al riconoscimento, sul piano meramente risarcitorio, della sostanziale instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per il tempo della prestazione, in ogni caso alla integrale riparazione risarcitoria per l’illegittimità posta in essere dal datore di lavoro pubblico.
Il principio in discorso, peraltro, entra in gioco all’atto della risoluzione del rapporto per scadenza del termine, ostando sia al ripristino del rapporto oltre il tempo della effettiva prestazione, sia, ci pare, a tutele risarcitorie interamente parametrate alla realità della tutela, che ne costituisce il loro presupposto.
Se l’ordinamento non contempla la trasformazione del rapporto a termine abusivamente utilizzato, invalido, la tutela risarcitoria stessa ragionevolmente non potrà ricalcare sia pure per equivalente la trasformazione vietata (comprendendo, in altre parole, le retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto fino alla domanda, o alla decisione, o alla ricostituzione del rapporto ad opera dell’Amministrazione).
Pur tuttavia, quella tutela dovrà rispondere ai descritti canoni imposti dai ricordati interventi della Corte di Giustizia. Come parametro, solo come parametro, possiamo allora muovere da una misura risarcitoria non inferiore alle cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, prevista dall’art. 18, co. 4, l. 1970/n. 300, indicazione di diritto positivo rilevante. Simile misura, tuttavia, per difetto, non può assolutamente ritenersi dissuasiva, preventiva dell’abuso del lavoro a termine da parte della pubblica amministrazione.
Sempre e solo parametricamente, invero, possiamo individuare quindi l’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto, prevista dal co. 5, come facoltà del lavoratore di richiesta al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione, ulteriore indicazione di diritto positivo rilevante. Simile misura, abbiamo ritenuto in propri precedenti, può ritenersi soddisfacente i requisiti di “adeguatezza” della sanzione (cioè “di carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo”), come di “equivalenza” ed “effettività”, secondo i ricordati lineamenti comunitari, soprattutto se, come riteniamo preferibile, insensibile alle tematiche dell’aliunde perceptum/percipiendum. Si tratta, è evidente, di soluzioni ampiamente compromissorie, opinabili».
Sempre in materia di risarcimento del danno derivante dall’utilizzo illegittimo del contratto a termine si è espresso il
Tribunale di Milano56 secondo cui «il risarcimento del danno subito dal lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione per illegittima stipulazione del contratto a termine può essere quantificato nella misura pari al numero di mensilità dalla data del licenziamento a quella di emanazione della sentenza, decurtata dell’aliunde perceptum».
Da ultima, in tema di misure di prevenzione degli abusi del contratto a termine, la pronuncia della Corte di Giustizia57 che interviene ad interpretare la clausola 5 dell’accordo quadro del 18/03/1999 allegato alla Direttiva 1999/70/CE sul contratto a tempo determinato e, in particolare, sulle misure di prevenzione degli abusi di contratti a termine.
La clausola 5, punto n. 1, dell’Accordo quadro stabilisce che, al fine di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
«Si deve ricordare che la clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro [del 1998] mira ad attuare uno degli obiettivi perseguiti da tale accordo quadro, vale a dire limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori, prevedendo un
(56) x. Xxxx. Xxxxxx 00 maggio 2010, Est. Xxxxxxx, in D&L, 2010, con nota di Xxxxxxxxxx, La somministrazione illegittima nella Pa e il conseguente risarcimento del danno, 1084.
(57) x. X.Xxxxx. 00 gennaio 2012, Causa C-586/10, Kücük vs. Land Nordrhein-
Westfalen, in D&G, 2012, 27 gennaio, con nota di Xx Xxxxxxxx.
certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti. Quindi, [questa] disposizione dell’accordo quadro impone agli Stati membri, per prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure in essa enunciate qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti. Le misure così elencate al punto 1, lettere a)-c) di detta clausola, in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi».
Per quanto riguarda la nozione di ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro del 1998, la Corte aveva già affermato che tale nozione va riferita a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. «Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro.
Per contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non sarebbe conforme a criteri come quelli precisati al punto precedente della presente sentenza. una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto.
Una tale disposizione comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e, pertanto, non è compatibile con lo scopo e l’effettività dell’accordo quadro del 1998.
La clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola.
Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l’assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), di detto accordo quadro, né l’esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati membri, nell’ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro».
Sul punto appare necessario segnale, da ultimo, l’orientamento, assolutamente innovativo ed essenziale per una corretta applicazione della normativa in tema di contratti a termine, la sentenza, del 18 ottobre 2012, della Corte di Giustizia europea la quale è stata chiamata a pronunciarsi dal Giudice italiano in tema di procedure di stabilizzazione del personale “precario” e relativa normativa, nazionale e comunitaria applicabile.
La Corte è partita dall’analisi della clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato della direttiva 1999/70, intitolata “Principio di non discriminazione” in cui si legge che «Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un
contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. (...).
I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive».
Dunque, secondo la Corte, tale clausola «deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte [dell’Amministrazione], come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da «ragioni oggettive» ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra.
Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere».
Se, sotto il profilo giurisprudenziale si è (più o meno) giunti ad una uniformità interpretativa ed applicativa, lo stesso non si può dire per quanto riguarda l’aspetto normativo.
L’ultimo intervento si registra, difatti, con la legge n. 92/2012, c.d. riforma Fornero, con cui il legislatore è intervenuto, al fine di garantire maggiori tutele ai lavoratori “precari”, per ridurre il rischio di utilizzo eccessivo ed errato di tale tipologia contrattuale. In particolare la legge n. 92/2012, modificata, a sua volta, dal decreto legge n. 83/2012 (c.d. decreto sviluppo), all’articolo 1, comma 9, ha introdotto alcune novità, rispetto alla disciplina precedente, in materia di contratti a tempo determinato regolati dal decreto legislativo n. 368/2001.
Più specificamente, per quanto riguarda la successione di contratti a termine con lo stesso lavoratore, la suddetta legge ha previsto, modificando l’art. 5, comma 3 del decreto legislativo n. 368, l’aumento dell’intervallo minimo tra un contratto e l’altro che, a seconda della durata dello stesso (superiore o inferiore a sei mesi), deve essere di 60 o di 90 giorni.
Un’eccezione a tale regola è costituita dai contratti stagionali e da specifici casi previsti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nei contratti collettivi di qualsiasi livello.
Quanto, invece, alla durata massima del contratto a tempo determinato, la legge n. 92/2012 prevede che questa debba essere di 36 mesi, proroghe e rinnovi compresi, e compreso anche il periodo di svolgimento di attività con contratto di lavoro somministrato a tempo determinato, stipulato successivamente al 18 luglio 2012, con mansioni equivalenti.
In mancanza di atti normativi emanati al fine di armonizzare la riforma del mercato del lavoro alla legislazione specifica prevista per il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (art. 1, comma 8, l. n. 92/2012), appare piuttosto chiara, ma molto discutibile, l’applicazione in toto e senza eccezioni, della stessa anche ai lavoratori pubblici, considerato che la più volte citata “riforma Fornero” chiarisce che «le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni».
Gli unici interventi che finora si registrano da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica sono quelli concretizzatosi nei pareri, nn. 37561 e 37562 del 19 settembre 2012, n. 38845 del
28 settembre 2012.
Con il primo parere, il numero 37561, si chiarisce la portata applicativa delle norme in tema di contratti a termine applicabili al pubblico impiego e, in particolare, al personale dipendente da istituti scolastici gestiti dai Comuni.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha affermato espressamente che le regole introdotte dalla legge n. 92/2012, in tema di contratti a tempo determinato, non si applicano alle ipotesi
di supplenza del personale docente di servizi educativi e scolastici gestiti dai Comuni.
Tale esenzione deriverebbe dall’applicazione dell’art. 4-bis, d.lgs.
n. 368/2001 come modificato dall’art. 9, comma 18, decreto legge
n. 70/2011 il quale esclude le scuole statali dalla revisione delle norme sulla organizzazione delle università, sul personale accademico e sul reclutamento dello stesso.
In particolare, l’art. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 prevede che,
«considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato», la pubblica amministrazione possa stipulare tipologie di lavoro a tempo determinato con personale docente e personale ATA finalizzato a supplenze di altro personale, docente e ATA.
La deroga non opera con riferimento ai casi di contratti a termine stipulati dagli enti locali e finalizzati alla copertura ordinaria del fabbisogno di personale.
Restano, quindi, fermi i vincoli imposti non solo dall’art. 97, comma 4, Cost. secondo cui l’accesso al pubblico impiego avviene mediante concorso pubblico, ma anche dall’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, secondo cui le tipologie di lavoro “flessibili”, previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, possono essere utilizzate dalle amministrazioni pubbliche al fine di rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali.
Tale eccezione, applicabile alle assunzioni di personale docente ed ATA con contratto a termine, è valida solo per gli incarichi di supplenza affidati a docenti o personale ATA che abbiano superato regolarmente le procedure di selezione pubblica.
Infine, nel caso di superamento di un nuovo concorso da parte di soggetto che abbia già prestato attività lavorativa a termine nei confronti dell’amministrazione, la durata del contratto precedente viene “azzerata” ed in tal modo sarà possibile per l’amministrazione stipulare un nuovo contratto a termine ed utilizzare in successione più contratti (sempre fino ad un massimo
di 36 mesi in cui sono compresi proroghe e rinnovi) senza che a questi si applichino gli intervalli minimi di 60 e 90 giorni.
Nel secondo parere, n. 37562 del 19 settembre 2012, il Dipartimento della Funzione Pubblica chiarisce che, in tema di intervallo minimo temporale da rispettare per la conclusione di contratti a termine nel pubblico impiego, le norme introdotte dalla legge n. 92/2012 trovano applicazione, a normativa vigente ed in assenza di norma di armonizzazione previste dai commi 7 e 8 dell’art. 1 della suddetta legge.
In particolare, nel parere si legge che «ai fini della disciplina sull’intervallo di tempo tra successivi contratti a tempo determinato di cui al d.lgs. n. 368/2001, si debba prendere a riferimento la data della riassunzione e non quella del contratto stipulato [prima del 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della legge n. 92/2012] tra le stesse parti.
La riassunzione, infatti, comporta la stipula di un nuovo contratto con il rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale delle parti e con l’instaurazione del nuovo rapporto di lavoro di talché è la data di sottoscrizione del nuovo contratto che rileva ai fini dell’individuazione della disciplina normativa applicabile, ivi compresa quella che prevede l’obbligo di rispettare un determinato lasso di tempo tra successivi contratti. Un’interpretazione in senso diverso inciderebbe sul portato e sull’efficacia della disposizione che non precisa alcunché sulla decorrenza della norma prescritta».
Di conseguenza, per quanto concerne l’assunzione, a seguito di selezione pubblica, nel pubblico impiego, di lavoratori con contratto a termine per lo stesso profilo professionale ricoperto nella medesima amministrazione con un precedente contratto, il Dipartimento della Funzione Pubblica chiarisce che «il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte del soggetto che ha già avuto un rapporto di lavoro a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. n. 368/2001, non ché la non applicabilità degli intervalli temporali in caso di successione di contratti».
Cosa ben diversa, invece, sarebbe l’assunzione, del medesimo lavoratore già assunto con contratto a termine, da parte della medesima amministrazione che utilizzi, ai fini dell’assunzione, la medesima graduatoria di concorso precedentemente utilizzata.
In questo caso, dunque, mancando il presupposto del superamento di un nuovo concorso, la riassunzione dovrà necessariamente avvenire nel rispetto degli intervalli di tempo previsti dal d.lgs. n. 368/2001 come modificato dalla legge n. 92/2012.
Infine, in questa sede appare opportuno segnalare il parere n. 38845 del 28 settembre 2012, rilasciato all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, dal Dipartimento della Funzione Pubblica che, per quanto riguarda la portata applicativa della legge
n. 92/2012, ha, ad avviso di chi scrive, reso poco chiara la portata applicativa, per il pubblico impiego, dei rinvii, contenuti nella legge n. 92/2012 che modifica il decreto legislativo n. 368/2001, alla contrattazione collettiva in merito alla disciplina del contratto a tempo determinato.
In particolare, i riferimenti sono:
1. all’articolo 1, comma 1-bis del d.lgs. n. 368/2001 modificato dalla legge n. 92/2012, secondo cui «i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere, in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, che in luogo dell’ipotesi di cui al precedente periodo il requisito [dell’acausalità del contratto] non sia richiesto nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato o la missione nell’ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all’articolo 5, comma 3, nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unita’ produttiva»;
2. all’articolo 5, comma 3, d.lgs. n. 368/2001 modificato dalla legge n. 92/2012, secondo cui, nel caso di successione di contratti e di intervallo minimo che deve intercorrere tra gli stessi, i contratti collettivi possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione dei termini minimi imposti dalla legge fino a venti
giorni e trenta giorni nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle condizioni indicate dalla norma;
3. all’articolo 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 come modificato dalla legge n. 92/2012, secondo cui il limite massimo di durata del contratto a termine di 36 mesi può essere derogato dai contratti collettivi a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Prima di passare al “merito” della questione, in questa sede appare necessario ricordare che, nell’ambito della gerarchia delle fonti, i pareri ministeriali, anche quelli emessi per rispondere a quesiti interpretativi posti da singoli enti per casi specifici, non sembrano contemplati.
Pertanto, per quanto autorevole possa essere il documento in esame appare necessario ricostruire il quadro legislativo e normativo posto alla base, e a monte, del ragionamento che si intende seguire.
In primo luogo appare necessario ricordare che il decreto legislativo n. 368/2001 si applica anche al pubblico impiego in quanto regolante i contratti a tempo determinato previsti e contemplati dall’articolo 36, d.lgs. n. 165/2001, e considerare che la legge n. 92/2012 è intervenuta a modificare anche la disciplina dei contratti a termine, appare piuttosto chiaro che essa troverà applicazione anche per il pubblico impiego.
Bisogna ricordare inoltre che l’applicazione della riforma avverrà in toto fino a che non sarà emanato un atto di armonizzazione della stessa al pubblico impiego, secondo quanto previsto dai commi 7 e 8, articolo 1, della legge n. 92/2012.
Detto ciò, leggendo gli articoli 1 e 5 del d.lgs. n. 368/2001 appare altrettanto chiaro che la suddetta legge, quando parla della deroga ai tempi di successione di contratti a termine, non indica il livello contrattuale che deve essere utilizzato e considerato che, in base a quanto detto sopra, la contrattazione nazionale, decentrata e aziendale ben può derogare alla legge.
Alla luce di quanto considerato si ritiene che quanto contenuto nel parere n. 38845 del 28 settembre 2012, mentre da un lato afferma
un concetto chiaro, ovvero l’applicabilità della riforma Fornero anche al pubblico impiego, dall’altro rende poco chiara la parte della norma che rinvia alla contrattazione collettiva con potere derogatorio laddove afferma: «[…] si ritiene che, ferma restando l’applicazione della disciplina che deriva direttamente dal d.lgs. n. 368/2001, ove compatibile con la specificità del settore pubblico, per quanto riguarda le materie demandate alla fonte contrattuale occorrerà attendere, a seguito dell’adozione da parte del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione dell’atto di indirizzo quadro, nel rispetto della procedura prevista dalla normativa vigente, l’eventuale successiva sottoscrizione del contratto collettivo nazionale come previsto dalle disposizioni sopra richiamate».
Alla luce di ciò, prestandosi il parere ad interpretazioni errate della normativa legislativa, fonte del diritto, laddove le parole utilizzate non venissero “sviscerate” ma fossero lette in maniera frettolosa o superficiale, non bisognerebbe meravigliarsi se molte amministrazioni interpretassero, non correttamente, l’articolato contenente la disciplina della deroga contrattuale suesposta in maniera meno favorevole per le organizzazioni sindacali privandole di un potere contrattuale conferito loro per legge58.
Parere positivo, infine, può essere dato, nell’incertezza applicativa della riforma del mercato del lavoro introdotta con la legge n. 92/2012 e nel dubbio circa il “futuro” di molti dipendenti precari della Pubblica Amministrazione, all’intervento delle organizzazioni sindacali che, in data 21 e 28 novembre 2012 hanno tenuto un incontro presso il Ministero della Funzione Pubblica.
Si tratta di una convocazione, da parte del Ministro, di un tavolo con le Organizzazioni sindacali avente ad oggetto l’analisi della situazione lavorativa di 6 mila precari delle Amministrazioni centralizzate e dei circa 70/80 mila precari delle Amministrazioni
58 Peraltro in contrasto con l’interpretazione data dallo stesso Dipartimento della Funzione Pubblica con il parere n. 37561 del 19 settembre 2012.
decentrate (Regioni, Sanità, Enti locali) il cui contratto vedrà la propria scadenza il 31 dicembre 2012.
La discussione, inquadrata nell’ambito della revisione della spesa (c.d. spending review) attuata dal Governo e dei nodi strutturali del riordino degli enti, sarà finalizzata ad evitare ulteriori forme di precariato nonché di esuberi, blocco della contrattazione integrativa e taglio dei servizi ai cittadini che rappresentano una pericolosa conseguenza di tali processi di riforma.
L’obiettivo perseguito dalle organizzazioni sindacali del settore pubblico è quello di giungere alla sottoscrizione di accordi quadro con i quali rilanciare anche il ruolo della contrattazione collettiva e delle relazioni sindacali limitate, negli ultimi anni, da riforme di legislazione d’urgenza e manovre finanziarie del Governo.
È inoltre volontà delle parti sociali pervenire, in tempi brevi, alla sottoscrizione di un Ccnq finalizzato alla ridefinizione del quadro delle possibili soluzioni, all’interno di una disciplina organica, delle forme di flessibilità in entrata per il pubblico impiego e di un riallineamento con le norme previste dalla riforma Fornero per il settore privato. Su questo punto va peraltro sottolineato che l’atto di indirizzo predisposto dal Ministero della Pubblica Amministrazione sta ultimando il suo percorso di autorizzazione per essere inviato all’Aran.
Da ultimo, in questa sede appare necessario sottolineare che, in tema di contratti a tempo determinato, la legge 21 dicembre 2012,
n. 228 (c.d. legge di stabilità 2013) ha previsto che «Nelle more dell’attuazione dell’articolo 1, comma 8, della legge 28 giugno 2012, n. 92, fermi restando i vincoli finanziari previsti dalla normativa vigente, nonché le previsioni di cui all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le amministrazioni pubbliche […], possono prorogare i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, in essere al 30 novembre 2012, che superano il limite dei trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, previsto dall’articolo 5, comma 4-bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, o il diverso limite previsto dai Contratti collettivi nazionali del relativo comparto, fino a non oltre il 30 luglio 2013, previo accordo decentrato con le organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato secondo quanto
previsto dal citato articolo 5, comma 4-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001.
Sono fatti salvi gli eventuali accordi decentrati eventualmente già sottoscritti nel rispetto dei limiti ordinamentali, finanziari e temporali di cui al presente comma».
In questo modo, in attesa dell’Accordo quadro di armonizzazione della legge n. 92/2012 al lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, vengono tutelati tutti i lavoratori precari della Amministrazione Pubblica i quali, inoltre, grazie alla legge n. 228/2012 (che segue, in un certo senso, l’orientamento della giurisprudenza comunitaria), potranno partecipare ai concorsi pubblici che saranno banditi laddove abbiano maturato un periodo di anzianità di servizio di tre anni all’interno dell’amministrazione che emana il bando.
In particolare, le procedure di reclutamento mediante concorso pubblico possono essere avviate con riserva di posti, nel limite massimo del 40% di quelli banditi a favore dei titolari di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato oppure per titoli ed esami finalizzati a valorizzare, con apposito punteggio, l’esperienza professionale maturata dal personale con contratto a termine e di coloro che, alla data di emanazione del bando, hanno maturato almeno tre anni di contratto di collaborazione coordinata e continuativa nell’amministrazione che emana il bando.
Anche in questo caso, dunque, può considerarsi positivo, anche se non del tutto completo in mancanza della normativa di armonizzazione della legge n. 92/2012 al pubblico impiego, l’intervento normativo di cui sopra che, a ben vedere, sembra voler applicare alcuni di quei principi e criteri contenuti nell’intesa sottoscritta il 6 maggio 2012 tra il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le Regioni, le Province, i Comuni e le Organizzazioni sindacali.
2. Il contratto a tempo parziale.
Disciplinato dal d.lgs. n. 61/2000, il contratto a tempo parziale è caratterizzato da una prestazione lavorativa a orario ridotto rispetto all’orario di lavoro a tempo pieno (40 ore settimanali) e da una rilevante flessibilità in relazione al tempo di lavoro.
Questa tipologia contrattuale consente al lavoratore di conciliare le esigenze personali e familiari con quelle professionali e lavorative. Il contratto a tempo parziale può essere di tipo orizzontale (la prestazione lavorativa viene svolta tutti i giorni a un orario ridotto rispetto al tempo pieno), verticale (si lavora a tempo pieno solo in alcuni giorni o periodi dell’anno, del mese o della settimana), misto (costituito da elementi caratterizzanti il part-time orizzontale e verticale).
La forma scritta non è obbligatoria ma è richiesta solo per provare l’esistenza del rapporto di lavoro; vanno specificati durata della prestazione lavorativa e orario di lavoro in relazione al periodo di lavoro di riferimento (giorno, settimana, mese, anno).
Per il pubblico impiego sono previste norme specifiche per il part time: la possibilità per i lavoratori con contratto part time con orario di lavoro non superiore al 50% rispetto a quello a tempo pieno di svolgere altre attività lavorative retribuite e attività professionali anche comportanti l’iscrizione ad albi; il part time, inoltre, può essere costituito per tutti i profili professionali appartenenti alle varie qualifiche o livelli, ad eccezione del personale militare, Forze di polizia e Corpo nazionale dei Vigili del fuoco.
Al lavoratore part-time va applicato lo stesso trattamento economico e normativo spettante ai lavoratori a tempo pieno comparabili.
I Ccnl possono prevedere clausole scritte per la variazione dell’orario di lavoro stabilito ma è sempre necessario il consenso (scritto) espresso del lavoratore. L’utilizzo di tali clausole da parte
dell’amministrazione fa sorgere in capo al lavoratore il diritto a compensazioni lavorative previste dal contratto di comparto.
La conversione del contratto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno è ammessa ma l’accettazione del lavoratore va fatta in forma scritta. Se il lavoratore rinuncia alla modifica del rapporto lavorativo, l’amministrazione non può considerare il rifiuto un giustificato motivo di licenziamento.
La trasformazione del rapporto è concessa di diritto ai lavoratori affetti da patologie oncologiche per tutto il periodo di cura al termine del quale, su richiesta del lavoratore, il rapporto può nuovamente essere convertito in tempo pieno.
Inoltre, ai fini della trasformazione del rapporto di lavoro in part- time, viene data priorità ai lavoratori il cui coniuge, figli o genitori siano affetti da patologie oncologiche; a coloro che assistono una persona convivente affetta da totale e permanente inabilità lavorativa grave con necessità di assistenza continua; i lavoratori con figlio convivente portatore di handicap oppure di età inferiore a tredici anni.
Il rapporto di lavoro a tempo parziale è stato più volte modificato nel corso degli ultimi anni. Inizialmente, l’art. 6, d.lgs. n. 61/2000, non prevedeva la reversibilità del part-time su richiesta del lavoratore interessato, pur in presenza di clausole espresse nella contrattazione collettiva nazionale.
Nel lavoro pubblico una differenza rispetto al lavoro privato era il riconoscimento del diritto, esercitabile da parte del lavoratore in maniera libera ed in relazione alle necessità professionali o di cura, alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Inoltre, «l’art. 6, comma 4, d.l. n. 79/1997, convertito in l. n. 140/1997, riconosce al lavoratore un vero e proprio diritto incondizionato al ritorno al tempo pieno, esercitabile anche se il posto di lavoro non è immediatamente disponibile»59.
(59) Ministero della funzione pubblica, circ. n. 6/1997.
Contraria rispetto a tale interpretazione è quella parte della dottrina60 secondo cui il diritto al ritorno al tempo pieno costituisce una misura tanto incentivante quanto contraddittoria rispetto all’obiettivo della riduzione del costo del personale in forza di tale disposizione, la trasformazione del contratto di lavoro a tempo pieno in part time avveniva automaticamente, a semplice richiesta del lavoratore e con facoltà dello stesso di esercitare, dopo almeno due anni, l’opzione per il ritorno al tempo pieno.
Dunque, veniva riconosciuto al dipendente pubblico il diritto soggettivo di ottenere, su domanda all’amministrazione di appartenenza, la trasformazione automatica del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale; questo significava che il diritto soggettivo del lavoratore, che aveva fonte legale, rendeva superflua l’applicabilità della disciplina dell’art. 5, commi 1 e 3, d.lgs. n. 61/2000 sulla tutela ed incentivazione del lavoro a tempo parziale.
Nel 2008, poi, l’art. 73, d.l. n. 112/2008 conv. in l. n. 133/2008 modifica l’art. 1, comma 58 della l. n. 662/1996 stabilendo che la trasformazione (prima automatica) del rapporto di lavoro a tempo pieno in part-time può essere concessa dall’amministrazione. Questo significa che la domanda fatta dal dipendente è soggetta all’accettazione dell’amministrazione di appartenenza.
Il tutto con un’ulteriore conseguenza: la cancellazione di quel diritto soggettivo in capo al dipendente di vedersi trasformata automaticamente, dietro richiesta, la propria situazione contrattuale e il potere in capo all’amministrazione di valutare in maniera discrezionale l’accettazione o il rifiuto alla trasformazione dell’orario di lavoro.
In tal modo il dipendente perde quel diritto soggettivo- che prima poteva essere al massimo posticipato per 6 mesi nel caso in cui la trasformazione comportasse ripercussioni negative gravi sull’organizzazione degli uffici – poiché l’amministrazione può la richiesta senza dover dimostrare il grave pregiudizio.
(60) X. Xxxxxxxx, Il lavoro part-‐time, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni. Commentario, Utet, Torino, 2004, 602.
L’amministrazione, inoltre, avrà l’obbligo di motivare la propria decisione e il lavoratore potrà sindacarla.
Di recente, l’articolo 16 della legge 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) ha previsto per la Pubblica Amministrazione la possibilità di riesaminare, entro 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge, i rapporti di lavoro part time convertiti prima dell’entrata in vigore del decreto legge n. 112/2008 convertito in legge n. 133/2008 che possano arrecare pregiudizio all’organizzazione della stessa amministrazione.
La valutazione deve essere svolta secondo buona fede e correttezza. Al di fuori di tali ipotesi la condizione di equilibrio familiare che il lavoratore part-time avrà nel frattempo raggiunto dovrà ricevere una considerazione di dignità e importanza analoga a quella riguardante l’organizzazione, in modo da ricercare prioritariamente soluzioni di contemperamento o alternative alla revoca del part-time.
Tuttavia, nonostante quanto previsto dalla legge le amministrazioni hanno riesaminato i contratti di lavoro a tempo parziale di alcuni dipendenti intervenendo, in via unilaterale e discrezionale, a modificarlo e a revocarlo.
Si ricorda, sul punto, la circolare n. 9/2011 del dipartimento della Funzione Pubblica che ha chiarito la portata della norma e i provvedimenti dei giudici di merito61 che hanno interpretato la norma applicando o non applicando quanto stabilito dalla direttiva europea n. 81/1997.
Sulla natura del diritto posto alla base della conversione, a seguito di riesame da parte della Pubblica Amministrazione, del contratto di lavoro a tempo parziale in contratto di lavoro a tempo pieno, dottrina e giurisprudenza seguono orientamenti opposti.
(61) Si segnalano, sul punto, Trib. Trento, 4 maggio 2011, in LPA, 2011, 1, 93, (s.m.), con nota di Murrone; Trib. Trento 17 giugno 2011; Trib. Firenze, 7 marzo 2011, n. 653, in LPA, 2011, 6, 1003, (s.m.) con nota di Colagiovanni; Trib. Firenze 31 gennaio 2011, in RIDL, 2011, 2, 415, (s.m.) con nota di Ranfagni.
Secondo parte della dottrina62, il potere della PA relativo al “riesame” dei contratti di lavoro a tempo parziale rappresenta un esercizio dell’azione amministrativa in autotutela.
Tuttavia, però, tale interpretazione, secondo qualcun altro, «non pare condivisibile poiché la revoca in autotutela da parte della P.A. è riconducibile agli atti autarchici di natura pubblicistica, che mal si attagliano al regime privatistico degli atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico privatizzato»63.
A ciò si aggiunga, inoltre, che, pur ammettendo che il potere di autotutela sia esercitabile anche in relazione ad alcuni rapporti di diritto privato che fanno capo all’amministrazione, tuttavia esso si esprime attraverso l’adozione di provvedimenti (autotutela decisoria) ovvero mediante il compimento di operazioni (autotutela esecutiva, di cui è esempio la demolizione di opere abusive).
Controcorrente rispetto all’orientamento dottrinale è il Consiglio di Stato secondo cui è da escludersi un potere di autotutela della
P.A. in relazione ai rapporti di lavoro privatizzati64.
Ancora, c’è chi65, invece, sostiene che l’amministrazione, trasformando full time in part time sulla base delle nuove regole, non fa altro che esercitare un potere di riesame dell’atto di concessione del tempo parziale inizialmente emesso.
Sotto il profilo applicativo, non poche sono stati i contenziosi avviati da dipendenti pubblici nei confronti dei quali la Pubblica Amministrazione, in applicazione della normativa introdotta dal
c.d. Collegato lavoro, aveva ipso iure revocato i provvedimenti concessori del part-time.
(62) X. Xxxx, Gli effetti modificativi del Collegato lavoro 2010 sulla disciplina del lavoro pubblico, in XX, 0000, 93 ss.
(63) X. Xxxxxx, op. cit.; v., inoltre, A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo,
Jovene, Napoli, 1989, 169; nonché X. Xxxxxxxxxx, Manuale di diritto amministrativo, Xxxxxxx, Xxxxxx, X xx., 0000.
(64) Cons. Stato, 15 settembre 2010, n. 1040, in FA, 2010, 2008; Cons. Stato, 1°
giugno 2010, n. 4483, in FA, 2010, 1313; Cons. Stato, 8 giugno 0000, x. 0000, xx XX,
0000.
(65) X. Xxxxxx, Il potere di «nuova valutazione» del datore di lavoro pubblico nella disciplina del part time dopo il Collegato lavoro, in QL, 3, 2011, p. I ss.
Sul punto si ricorda, la sentenza del Tribunale di Trento del 28 settembre 2011 che annulla un provvedimento ministeriale di revoca del part-time. Il Giudice di Trento, pronunciando sentenza di primo grado, ha definitivamente deciso sull’annullamento del provvedimento di revoca del part-time sostenendo che:
1. l’art. 16 della legge n. 183/2010 non è conforme alla normativa europea che stabilisce che l’amministrazione debba rispettare i principi di correttezza e buona fede e debba tener conto della volontà del lavoratore alla conversione;
2. nel rispetto del principio di non discriminazione, in base al quale i lavoratori a tempo parziale non devono ricevere un trattamento meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno, il rifiuto di un lavoratore alla trasformazione del rapporto di lavoro non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento dato che, in questo caso, «il licenziamento è dovuto ad una determinazione dell’imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto a tempo pieno in luogo di una pluralità di rapporti a tempo parziale»;
3. «Sancire l’illegittimità del licenziamento significa sancire la legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore. Sancire la legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore significa esigere il consenso del lavoratore stesso. La trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a tempo pieno, pertanto, può avvenire solo con il consenso del lavoratore».
Anche in tema di contratto a tempo parziale bisogna ricordare l’ultimo intervento normativo modificativo del d.lgs. n. 61/2000, la legge n. 92/2012.
In primo luogo viene rafforzato il diritto del lavoratore a vedere inserite, nei contratti collettivi nazionali di lavoro, le condizioni e le modalità che consentano di richiedere l’eliminazione o la modifica delle clausole flessibili ed elastiche previste dal contratto di lavoro, e relative alla possibilità di modificare la collocazione temporale, giornaliera e oraria, della prestazione lavorativa e di aumentare le ore di lavoro.
In secondo luogo viene riconosciuta ai lavoratori studenti, nonché ai lavoratori con patologie oncologiche, la possibilità di revocare il consenso alle clausole flessibili ed elastiche.
In merito a tali modifiche c’è chi ritiene che, per quanto positive, siano da considerarsi poco efficaci per la lotta agli abusi e la prevenzione degli stessi.
A ciò si aggiunga, inoltre, la necessità di inserire norme di legge realmente conciliative degli interessi di vita e di lavoro del dipendente, il tutto anche attraverso incentivi al sostegno di contratti di lavoro a tempo parziale “lunghi”66.
3. Il contratto di lavoro accessorio e le collaborazioni coordinate e continuative (xx.xx.xx.).
Introdotto nel 2009 dal decreto legge n. 78/2009 convertito in legge n. 102/2009, il contratto di lavoro accessorio rientra tra le forme flessibili di assunzione nella Pubblica Amministrazione ed è una forma di collaborazione occasionale che non comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato.
Le attività lavorative che possono essere svolte con questa tipologia di contratto sono elencate dall’articolo 70 del decreto legislativo n. 276/2003 (c.d. riforma Biagi) e possono essere svolte anche nel caso di committente pubblico, compresi gli enti locali.
La legge prevede che «il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico e degli enti locali è consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e ove previsto dal patto di stabilità interno».
Lo scopo è chiaro ed è quello di evitare che la pubblica amministrazione possa ricorrere al lavoro accessorio per nascondere una vera e propria attività lavorativa di natura subordinata e aggirare le regole in materia di controlli e di contenimento dei costi del personale delle Pubbliche
(66) AA.VV, La riforma del lavoro, cit., 23.
Amministrazioni e degli enti locali (comuni, province, regioni, città metropolitane, comunità montane, comunità isolane, le unioni di comuni, e i consorzi cui partecipano gli enti locali).
Per questi ultimi la possibilità di utilizzare il lavoro accessorio è concessa per «manifestazioni sportive, culturali, fieristiche o caritatevoli» nonché per «lavori di emergenza o di solidarietà». Le attività «di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti», invece, possono essere svolte con contratto di lavoro accessorio solo dagli enti locali che potranno stipulare contratti di lavoro accessorio con «giovani con meno di venticinque anni di età, regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università o un istituto scolastico di ogni ordine e grado e compatibilmente con gli impegni scolastici [gli scolari] potranno lavorare il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza [e gli universitari regolarmente iscritti potranno lavorare] in qualunque periodo dell’anno».
Vengono considerati periodi di vacanza le vacanze natalizie (dal 1° dicembre al 10 gennaio); le vacanze pasquali (dalla domenica delle Palme al martedì successivo il lunedì dell’Angelo); le vacanze estive (dal 1° giugno al 30 settembre).
Anche i pensionati possono svolgere lavoro accessorio in
«qualsiasi settore produttivo», anche degli enti locali. Quanto alla forma di compenso del lavoratore accessorio erogata dalle Pubbliche amministrazioni, anche a queste viene consentita espressamente la possibilità di servirsi del pagamento tramite voucher (buoni lavoro) che, con la legge n. 92/2012 diventano orari, numerati progressivamente e datati, con valore nominale stabilito con apposito decreto emanato a seguito di un confronto del Governo con le Parti sociali.
Prima dell’inizio della prestazione, la pubblica amministrazione che intende usufruire dei voucher per il lavoro accessorio dovrà comunicare all’Inail, tramite apposita procedura telematica, i dati inerenti la prestazione, indicando i dati relativi al luogo e al periodo della prestazione, oltre ai dati anagrafici propri e del prestatore.
Quanto al committente pubblico, la possibilità di utilizzo da parte di questo di forme di lavoro accessorio è ora subordinata e
consentita nel rispetto dei tetti stabiliti per la spesa di personale e del Patto di stabilità interno con la conseguenza che i Comuni che non abbiano rispettato tali limiti non possono stipulare contratti di lavoro accessorio.
«Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, a esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria» (art. 7, d.lgs. n. 165/2001).
Le collaborazioni coordinate e continuative rappresentano in assoluto la forma contrattuale flessibile più utilizzata da parte delle amministrazioni in quanto tali tipologie contrattuali non sono ascrivibili alla gestione del personale bensì rientrano nei capitoli di spesa “acquisizione di beni e servizi” delle diverse articolazioni organizzative delle amministrazioni, le quali, di conseguenza, non
«devono concordare con le politiche ed i servizi del personale la loro assunzione»67.
La legge stabilisce i requisiti per le xx.xx.xx.: l’oggetto della prestazione deve essere coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione che affida l’incarico; la pubblica amministrazione non deve avere, in organico, le risorse umane disponibili; la prestazione deve essere temporanea e qualificata; durata, luogo, oggetto e compenso devono essere predeterminati; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico. La regola della qualifica universitaria può essere superata nel caso in cui la collaborazione serva a supportare attività di ricerca e attività didattica, cioè per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi oppure con soggetti esperti nel campo dell’arte, dello spettacolo,
(67) X. Xxxxxxx, L’esperienza delle forme di lavoro flessibile nelle P.A. tra diritto del lavoro e dimensione gestionale/organizzativa, op. cit.
dei mestieri artigianali o dell’attività informatica e per i servizi di orientamento, ma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Per tale motivo la legge prevede che tutti i contratti di collaborazione e gli incarichi di consulenze debbano essere sottoposti al controllo della Corte dei conti e diventano efficaci solo dopo il parere positivo della stessa oppure dopo 30 giorni dal loro ricevimento.
Sono esclusi da questa forma di controllo gli incarichi affidati dagli enti locali, in applicazione della legge costituzionale n. 3/2001. Inoltre, sempre per quanto riguarda gli incarichi esterni negli enti locali, la disciplina generale dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 165/2001 non si applica a quegli incarichi rientranti nella disciplina sugli appalti di servizi e, in particolare, in una delle materie elencate negli Allegati del decreto legislativo n. 163/2006 (c.d. codice degli appalti pubblici).
Mentre, da una parte, l’utilizzo di collaboratori esterni alla PA ha favorito, per i servizi interessati, l’acquisizione in tempi rapidi di profili professionali a medio alta specializzazione con la possibilità, più che apprezzata, di selezionarli direttamente, dall’altra, invece, il ricorso a tali tipologie contrattuali ha provocato un processo di flessibilizzazione della reale dotazione organica privo di strategia complessiva dell’ente esponendo alcuni servizi ad una debolezza strutturale di fatto.
Questo ha comportato, o su spinta di natura sindacale o su richiesta dei servizi dell’amministrazione, un ripensamento generale dell’utilizzo di tale forma di contratto con l’intento di regolamentarlo, definirlo nel suo campo di applicazione, ricondurlo a tipologie precise di profili professionali ed attività di lavoro.
Allo stesso tempo tutte le amministrazioni hanno dovuto affrontare il problema di ridurre la debolezza strutturale derivante dalla presenza di lavoratori più che inseriti nelle attività dei servizi, ed in alcuni casi indispensabili, ma di fatto non inquadrati nella pianta organica, ovvero precari a volte a svantaggio della stessa amministrazione pubblica.
Nonostante l’inutile tentativo di ricondurre queste forme contrattuali ad una più generale politica del personale e nonostante il tentativo di ridurne l’utilizzo, la collaborazione coordinata e continuativa è stata, in molti casi, abusata proprio perché non connessa con l’esigenza di flessibilità, cioè quale strumento di gestione degli organici in modo flessibile.
È stata spesso un mezzo per risolvere contingenti necessità di consulenze professionali e per soddisfare esigenze a cui non possono far fronte con personale in servizio.
La soluzione a tali problemi la pubblica amministrazione riesce a trovarla attraverso il conferimento di incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza di alcuni presupposti68.
Al fine di arginare l’abuso da parte delle Pubbliche Amministrazioni circa l’utilizzo degli incarichi individuali di natura autonoma, oltre al Legislatore, anche la giurisprudenza è intervenuta in tal senso.
L’art. 86, comma 1, decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, è costituzionalmente illegittimo per essere in irragionevole contraddittorietà con la sua ratio.
Pur essendo finalizzato «ad aumentare [.] i tassi di occupazione e a promuovere la qualità e la stabilità del lavoro», prevedendo che le collaborazioni coordinate e continuative, già stipulate alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 276 del 2003 e che non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data indicata o il termine superiore eventualmente stabilito nell’ambito di accordi sindacali stipulati in sede aziendale con le istanze aziendali dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale - infatti, determina l’effetto esattamente contrario (perdita del lavoro) a danno di soggetti che, per aver instaurato rapporti di lavoro
(68) In dottrina, ex plurimis, v. X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Competitività e flessibilità del rapporto di lavoro, in RIDL, 2009, 2, 201.
autonomo prima della sua entrata in vigore nel pieno rispetto della disciplina all’epoca vigente, si trovano penalizzati senza un motivo plausibile. In conseguenza della presente dichiarazione d’illegittimità costituzionale, le collaborazioni coordinate e continuative, già stipulate il 24 ottobre 2003, mantengono efficacia fino alla scadenza pattuita dalle parti69.
Quanto al requisito della «particolare e comprovata specializzazione universitaria» si è espressa, invece, la giurisprudenza contabile70. Qualche apertura poteva ipotizzarsi con riferimento a quelle attività concernenti ambiti la cui specializzazione, pur richiedendo una conoscenza qualificata, non fosse presente nell’offerta universitaria, in ragione proprio dell’impossibilità di reperimento sul mercato.
In tali casi particolari, poteva ritenersi sufficiente l’accertamento in concreto delle conoscenze, comprovate, unitamente all’esperienza nel settore, da un articolato curriculum.
Di diverso avviso la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, che ha ritenuto soddisfatto il requisito della specializzazione universitaria anche nel caso d’iscrizione a un albo o a un ordine (rectius, collegio) professionale per il cui accesso non sia richiesta la laurea, in quanto questo di per sé attesterebbe il possesso di conoscenze specialistiche di livello equiparabile a quello universitario, fermo restando, comunque, il necessario accertamento in concreto - in sede di conferimento dell’incarico-, delle effettive competenze teorico-pratiche necessarie e della documentata esperienza maturata nel settore71. Per accertare la sussistenza della giurisdizione contabile nei confronti di un consulente di un’amministrazione pubblica occorre verificare se, la convenzione non ha dato luogo nell’attività tipica di un contratto d’opera professionale ma ha determinato l’instaurarsi di un rapporto di servizio come avviene quando questa, prevedendo la “collaborazione diretta” con il capo di un
(69) Si veda, sul punto, C.Cost. 5 dicembre 2008, n. 399, in GC, 2009, 2, 268; in GL, 2009, 1, 56 con nota di Xxxxxxxxx.
(70) X. xxxxx, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 9/2008/cons.
(71) Sezione regionale di controllo per la Lombardia, pareri nn. 28 e 29 del 2008.
dipartimento ministeriale per la formulazione di valutazioni e ragioni programmatiche, determinando lo svolgimento, dell’amministrazione, di una attività strumentale all’esercizio della funzione amministrativa, volta ad assicurare il perseguimento dei fini istituzionali pubblici72.
Sul danno scaturente dal conferimento di un incarico in violazione dei limiti legali: si è espressa la giurisprudenza della Corte dei conti73 secondo cui «dall’intervenuto svolgimento di prestazioni rese nell’ambito di un rapporto di lavoro (autonomo o non che sia) assunto però in violazione dei limiti, dei criteri e delle modalità che lo disciplinano, non può discendere alcuna pretesa di utilità per l’ente pubblico, in quanto nella scelta legislativa il perseguimento del fine e la realizzazione dell’utilitas pubblica sono stati ritenuti attuabili, con valutazioni tipiche a priori, esclusivamente attraverso i moduli conformi al dettato normativo per l’appunto posti “a monte”, con l’ulteriore ovvia e definitiva conseguenza per cui la remunerazione corrisposta costituisce danno erariale».
È espressamente fatto divieto per le Pubbliche Amministrazioni di stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie e di utilizzare i collaboratori come lavoratori subordinati.
Il legislatore ha recepito un principio che era stato affermato da tempo sia da parte delle Sezioni giurisdizionali e delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
L’incarico di consulenza non deve mai risolversi nell’instaurazione surrettizia di un rapporto di lavoro (art. 97 Cost.)74.
Le verifiche sulle disposizioni regolamentari in materia di incarichi sono affidate alle Sezioni regionali di controllo della
(72) Conferma nel merito sez. Giur. Lazio, 26 settembre n. 1792; X. Xxxxx 29 luglio 2008, n. 256, in FA, CDS, 2008, 7-8, 2249.
(73) Sezione giurisdizionale di appello per la regione siciliana n. 122/A/2008 e
06/A/2008; Sezione regionale di controllo per la Calabria, delibera n. 138 del 25/7/2008.
(74) cfr., sul punto, Sezione giurisdizionale per l’Xxxxxx Xxxxxxx, 16.6.2008, n. 501;
Sezione giurisdizionale Calabria, 2.4.2008, n. 307.
Corte dei conti ai sensi dell’art. 3 comma 57 della legge n. 244/2007. La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con delibera 6/AUT/2008 del 14 marzo 2008, contenente linee di indirizzo e criteri interpretativi dell’art. 3 comma 57 della legge n. 244/07, ha sostenuto che tale attività si concreta in un controllo di natura non interdittiva (come il controllo preventivo di legittimità, integrativo dell’efficacia dell’atto), bensì collaborativa, che mira cioè a stimolare nell’ente controllato virtuosi processi di autocorrezione, consistente nell’adozione delle misure necessarie ad ovviare alle disfunzioni segnalate.
Tale controllo è ascrivibile, secondo l’orientamento della Corte Costituzionale, alla categoria del riesame di legalità e regolarità, in una prospettiva non più statica (come era il tradizionale controllo di legalità e regolarità), ma dinamica, volta a finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo all’adozione di effettive misure correttive. Inoltre, la medesima corte ritiene che l’inderogabilità di tali norme da parte dei regolamenti locali risiede nella loro diretta derivazione dai principi di buon andamento e di trasparenza della pubblica amministrazione, nonché di sana e corretta gestione finanziaria75.
Di recente il legislatore è intervenuto a ridurre l’utilizzo delle collaborazioni esterne da parte delle amministrazioni pubbliche introducendo, attraverso disposizioni normative, tetti massimi di spesa.
«Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, a esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria» (art. 7, d.lgs. n. 165/2001).
La legge stabilisce i requisiti per le xx.xx.xx.: l’oggetto della prestazione deve essere coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione che affida l’incarico; la pubblica
(75) cfr. Sezione delle Autonomie, delibera 6/AUT/2008 del 14 marzo 2008; C.Cost.7 giugno 2007, n. 179, in GCost, 2007, 3; X. Xxxxx, Sezioni Riunite in sede di controllo 6/contr/2005.
amministrazione non deve avere, in organico, le risorse umane disponibili; la prestazione deve essere temporanea e qualificata; durata, luogo, oggetto e compenso devono essere predeterminati. La regola della qualifica universitaria può essere superata nel caso in cui la collaborazione serva a supportare attività di ricerca e attività didattica, cioè per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi oppure con soggetti esperti nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica e per i servizi di orientamento, ma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Per tale motivo la legge prevede che tutti i contratti di collaborazione e gli incarichi di consulenze debbano essere sottoposti al controllo della Corte dei conti e diventano efficaci solo dopo il parere positivo della stessa oppure dopo 30 giorni dal loro ricevimento. Sono esclusi da questa forma di controllo gli incarichi affidati dagli enti locali, in applicazione della legge costituzionale 3/2001.
Inoltre, sempre per quanto riguarda gli incarichi esterni negli enti locali, la disciplina generale dell’articolo 7 del decreto legislativo
n. 165/2001 non si applica a quegli incarichi rientranti nella disciplina sugli appalti di servizi e, in particolare, in una delle materie elencate negli Allegati del decreto legislativo n. 163/2006. Infine, per quanto riguarda i contrati di collaborazione coordinata e continuativa e gli incarichi di consulenza si ricordano le previsioni legislative del 2010 e 2011 che hanno previsto tagli agli incarichi esterni e alle consulenze. In particolare, il decreto legge
n. 78/2010 conv. in legge n. 122/2010 ha stabilito, con l’art. 6, che, a decorrere dall’anno 2011, la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell’anno 2009. Tale norma si applica alle amministrazioni individuate annualmente dalla ricognizione dell’ISTAT in base al comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009 n.196, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati.
Mentre il d.l. n. 98/2011 taglia ulteriormente consulenze e incarichi occasionali stabilendo, all’articolo 16, che, con i piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, le
Pubbliche Amministrazioni devono ridurre i costi della politica e quelli di funzionamento, ivi compreso il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche.
Di recente è intervenuta a modificare la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative la legge n. 92/2012 secondo cui, l’utilizzo di tali tipologie contrattuali viene limitato a progetti specifici, che devono essere significativamente diversi dalle normali attività di istituto.
Questo significa che le amministrazioni non potranno più ricorrere alle xx.xx.xx. per l’attuazione di programmi generici.
La legge inoltre stabilisce che a tali lavoratori autonomi non possano essere inferiori al costo del lavoro subordinato per lo svolgimento di mansioni analoghe.
Sempre sotto il profilo legislativo si segnala, da ultimo, l’intervento dei relatori alla legge n. 228/2012, c.d. legge di stabilità, i quali, hanno previsto la possibilità, per le Amministrazioni pubbliche di assumere, mediante concorso, i lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa che abbiano, nell’amministrazione che emana il bando, un’anzianità di servizio di tre anni.
Inoltre, la legge n. 228/2012 ha previsto, relativamente agli incarichi di consulenza informatica, che le amministrazioni pubbliche di cui all’elenco ISTAT, nonché le autorità indipendenti, inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), possono conferire incarichi di consulenza in materia informatica solo in casi eccezionali, adeguatamente motivati, in cui occorra provvedere alla soluzione di problemi specifici connessi al funzionamento dei sistemi informatici. La violazione della disposizione di cui al presente comma è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti.
Quanto, invece, a tutti gli altri incarichi di consulenza, la più volte citata legge conferma il divieto per le Amministrazioni Pubbliche di rinnovo e proroga (quest’ultima concessa solo nei casi in cui sia necessario completare il progetto affidato e per ritardi non
imputabili al collaboratore, e sempre nel rispetto del compenso inizialmente pattuito).
Ancora, in relazione alle consulenze nelle società in house delle Amministrazioni Pubbliche, la legge n. 228/2012 prevede che, ove queste abbiano conseguito nel 2012 un fatturato per prestazioni di beni e servizi, in favore delle stesse amministrazioni, superiore al 90% del fatturato totale devono rispettare i limiti imposti dal decreto legislativo 165/2001, articolo 7 che regola il conferimento degli incarichi esterni.
Quanto, invece, agli aspetti interpretativi ed applicativi, si segnala il parere del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 38226 del 25 settembre 2012.
Per quanto riguarda specificamente il problema della portata delle innovazioni in materia di collaborazioni con partita iva, il Dipartimento sostiene la non applicabilità delle stesse ai rapporti di lavoro dei dipendenti bensì l’applicabilità alle sole prestazioni professionali e collaborazioni a progetto rientranti nell’ambito del lavoro autonomo.
Inoltre, a sostegno della non applicabilità al pubblico impiego delle disposizioni contenute nella legge n. 92/2012, il Dipartimento afferma che il comma 26 dell’articolo 1 (della suddetta legge) modifica il decreto legislativo n. 276/2003 la quale, per espressa previsione contenuta nell’articolo 86, comma 8, non trova applicazione nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche.
«Pertanto, considerato che le disposizioni sulle collaborazioni contenute nel citato decreto non contengono una previsione di immediata applicabilità nei confronti delle pubbliche amministrazioni, la relativa normativa riguarda solo i rapporti di lavoro tra privati e per le prime continua naturalmente ad applicarsi il disposto dell’art. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001 (comma 6: “Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e
comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità […])».
Infine, in ordine all’onere della prova circa l’esistenza di un rapporto di collaborazione di natura autonoma, per le collaborazioni con le pubbliche amministrazioni continua ad applicarsi il regime ordinario dell’onere della prova nel rito del lavoro.
Resta naturalmente ferma ogni valutazione e determinazione autonoma dell’amministrazione, in qualità di datore di lavoro, anche per la necessità di non operare abusi ed utilizzazioni distorte delle collaborazioni, che potranno in ogni caso essere accertate con gli ordinari mezzi a disposizione del giudice e dar luogo a responsabilità con applicazione delle conseguenti sanzioni, secondo quanto previsto anche dagli artt. 7 e 36 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Bisogna comunque tener presente che, in virtù della riserva di legge prevista dall’art. 97 della Costituzione, nel caso di violazione, da parte della Pubblica Amministrazione, della normativa vigente in tema di collaborazioni coordinate e continuative, non sarà applicabile, come per il settore privato, la sanzione che prevede che il contratto si considera di natura subordinata fin dall’inizio della data di decorrenza dello stesso.
Sul punto, pertanto, si ritiene necessario attendere le pronunce della giurisprudenza di merito che potrebbe stabilire, in maniera analoga a quanto accaduto per i casi di abuso di contratti a termine, che il mero risarcimento del danno al lavoratore non sia misura idonea a compensarlo dell’attività svolta a favore dell’amministrazione e, pertanto, si è ritenuto di dover convertire il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato76.
(76) Si vedano, sul punto, le pronunce della giurisprudenza di merito citate nel paragrafo n. 2: Trib. Siena 27 settembre 2010, in XXX, 0000, 869, con nota di Xxxxxxxxx, A proposito di una possibile “disapplicazione” del divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nella P.A.) e del 13 dicembre 2010 n. 263 (Trib. Siena 13 dicembre 0000, x. 000, xx XXXX, 0000, II, 360, con nota di F. Siotto, Una breccia nel muro del lavoro pubblico: la disapplicazione del divieto di
conversione del contratto di lavoro a termine) e del Tribunale di Livorno, sent. 26 novembre 2010, n. 266.
4. La somministrazione di lavoro a termine.
La somministrazione di lavoro consiste in un rapporto trilaterale tra lavoratore, somministratore (agenzia per il lavoro) e utilizzatore (PA) costituito da due contratti distinti, uno di somministrazione tra agenzia e pubblica amministrazione e l’altro di lavoro tra agenzia e lavoratore.
È un contratto utilizzabile solo per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’utilizzatore; eventuali limiti quantitativi possono essere determinati dai Ccnl.
Nel pubblico impiego, diversamente dal settore privato, la somministrazione è prevista solo in via temporanea, a tempo determinato. Non è quindi ammesso il cosiddetto staff leasing, ovvero la somministrazione a tempo indeterminato.
Inoltre, non si può ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali.
Al personale somministrato utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni non è possibile applicare direttamente le disposizioni normative e contrattuali previste per i pubblici dipendenti. Sarà necessario inserire nel contratto di somministrazione apposite clausole con cui saranno individuati specifici obblighi di riservatezza, esclusività della prestazione e di non concorrenza77.
Ricordiamo sul punto il parere UPPA del 18 febbraio 2008 che aveva fornito chiarimenti in tema di somministrazione, contratti di formazione e lavoro e lavori flessibili alla luce dei limiti imposti dalla finanziaria per il 2008 alle Pubbliche Amministrazioni.
Il documento forniva chiarimenti in merito alla possibilità di fare ricorso a contratti di servizio finalizzati alla somministrazione a tempo determinato, nonché di utilizzare i contratti di formazione e lavoro quale strumento di reclutamento finalizzato alla copertura
(77) Si veda, sul punto, Ministero della Pubblica Amministrazione e l’innovazione, Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 3/2006.
stabile (a tempo determinato) di posti vacanti nella dotazione organica:
Il documento inoltre chiariva che alla somministrazione non si applica la nuova norma limitativa della finanziaria per il 2008 in quanto il contratto commerciale tra Pubbliche Amministrazioni e Agenzie per il lavoro non ha limiti temporali o di stagionalità, né potrebbe averne.
Pertanto la somministrazione, fermo restando i limiti di disponibilità finanziaria, stabiliti dalla legge n. 266/2005, non soggiace ai citati limiti. Lo stesso parere, però, evidenziava che i sottostanti rapporti di lavoro con i lavoratori interinali dovessero avere prudenzialmente e non obbligatoriamente una durata di tre mesi per non ingenerare (inutili) aspettative di stabilizzazione degli interinali medesimi in relazione al fatto che il rapporto di lavoro è sempre tra prestatore in missione interinale ed Agenzia per il lavoro, mai con la Pubblica Amministrazione.
Per quantificare il numero dei lavoratori da somministrare le Pubbliche Amministrazioni fanno riferimento ai piani di programmazione del personale.
Sulla base di questi e dei Ccnl le Pubbliche Amministrazioni potranno definire le retribuzioni spettati ai lavoratori somministrati che non dovranno essere inferiore a quelle dei dipendenti di pari livello.
L’utilizzatore, per poter somministrare lavoro deve possedere alcuni requisiti previsti dalla legge tra cui l’iscrizione presso l’Albo delle agenzie di somministrazione presso il Ministero del Lavoro.
Una volta stipulato il contratto di somministrazione, l’agenzia (datore di lavoro) fornisce personale alla pubblica amministrazione che lo utilizza e che controlla il corretto svolgimento dell’attività di lavoro.
Nel caso in cui il contratto di somministrazione fosse irregolare, perché utilizzato fuori dai casi previsti dalla legge, la pubblica amministrazione potrà essere condannata a risarcire il lavoratore e il dirigente responsabile dell’illecito sarà chiamato a rispondere verso la pubblica amministrazione.
Quanto agli obblighi contrattuali, l’agenzia ha il dovere di retribuire il lavoratore mentre la pubblica amministrazione esercita i controlli sull’attività dei lavoratori e determinano i parametri per la retribuzione degli stessi.
Quanto, infine, alla disciplina della somministrazione a termine modificata dalla legge n. 92/2012, non si possono non sottolineare le problematiche che deriverebbero dall’applicazione al pubblico impiego di tale tipologia contrattuale
Come, a ragione, qualche Autore78 ha sottolineato, «la previsione relativa all’acausalità, dal canto suo, mal si coordina con la previsione contenuta all’art. 36 del decreto legislativo n. 165/2001 che subordina l’assunzione a tempo determinato presso le Pubbliche Amministrazioni al ricorrere di esigenze temporanee ed eccezionali.
Occorrerà capire se la fissazione di una durata massima del contratto acausale, fissata in dodici mesi sarà sufficiente ad arginare un utilizzo distorto del lavoro flessibile e quali possano essere le effettive potenzialità dell’istituto, in un settore come quello pubblico, ove il contenzioso in materia di causale è tendenzialmente inesistente, poiché la legge impedisce la stabilizzazione».
(78) X. Xxxxxxx, La somministrazione di lavoro tra contrasto alla precarietà e buona flessibilità, in P. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxxx (a cura di), Lavoro: una riforma sbagliata. Ulteriori osservazioni sul DDL n. 5256/2012, Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, Adapt Labour Studies e-Book series
n. 2.
5. Il telelavoro.
La tradizionale bipartizione tra lavoratori subordinati e autonomi, che funge da confine fra due diversi tipi di tutela, è messa in difficoltà da una gamma di situazioni già concrete che sono a metà tra i due tipi legislativi.
Per quanto riguarda il telelavoro, che si differenzia da altre forme di prestazioni lavorative per gli aspetti organizzativi, rimangono validi i principi sanciti dall’art. 35 della Costituzione, relativi alla
«tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni».
Come detto in precedenza, il telelavoro non appartiene a nessuna delle categorie contrattuali (subordinato, autonomo, parasubordinato) in quanto rappresenta soltanto «una modalità flessibile di esecuzione della prestazione lavorativa»79.
Può essere, infatti, definito come «la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una delle amministrazioni pubbliche in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce» (art. 2, d.P.R. 8 marzo 1999, n.7).
La possibilità per le Amministrazioni Pubbliche di servirsi di contratti di telelavoro è contemplata dall’art. 4, legge 16 giugno 1998, n. 191 secondo cui le Pubbliche Amministrazioni «possono installare, nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio, apparecchiature informatiche e collegamenti telefonici e telematici necessari, e possono autorizzare i propri dipendenti a effettuare, a parità di salario, la prestazione lavorativa in luogo diverso dalla sede di lavoro, previa determinazione delle modalità per la verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa».
Del problema di definire giuridicamente il telelavoro se ne è occupata prevalentemente la dottrina la quale ha evidenziato come
(79)X. Xxxxx, Istituzioni di diritto del lavoro, continuato da X. Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2012, V ed., 148 e ss e 191 e ss.
l’elemento caratterizzante il telelavoro sia la mera esternazione dell’attività lavorativa e come il contenuto e la struttura giuridica della prestazione possano essere assai diversi da caso a caso, con risvolti corrispondentemente diversi sul piano della qualificazione e della disciplina giuridica applicabile.
In tal modo la dottrina ha elaborato cinque diversi tipi di telelavoro, correlati ad altrettanti tipi o sottotipi legali di contratto: il telelavoro come oggetto di contratto d’appalto ex art. 1655 c.c., di contratto d’opera ex art. 2222 x.x., xx xxxxxxxxx xx xxxxxx xxxxxxxxxxxxxxx, xx xxxxxxxxx xx xxxxxx subordinato ai sensi dell’art. 2094 x.x., xx xxxxxxxxx xx xxxxxx xxxxxxxxxxx x xxxxxxxxx00. Ma tra le numerose teorie e posizioni della dottrina circa la natura giuridica del contratto di telelavoro senza dubbio quella a cui fare riferimento è la teoria secondo cui il contratto di telelavoro debba rientrare nelle forme subordinate di lavoro ex art. 2094 c.c. 81 Peraltro, conforme a questo orientamento è la giurisprudenza di legittimità secondo cui «il vincolo della subordinazione è qualificato non tanto dall’elemento della collaborazione, intesa come svolgimento di attività per il conseguimento dei fini dell’impresa, quanto da quello, tipico, dell’inserimento dell’attività lavorativa nel ciclo produttivo dell’azienda, di cui il lavoratore a domicilio diviene elemento, ancorché esterno; perché tale condizione si realizzi, è sufficiente che il lavoratore esegua lavorazioni analoghe ovvero complementari a quelle eseguite all’interno dell’azienda, sotto le direttive dell’imprenditore, le quali non devono necessariamente essere specifiche e reiterate, essendo sufficiente, secondo le circostanze, che esse siano inizialmente impartite una volta per tutte, mentre i controlli possono anche limitarsi alla verifica della buona riuscita della lavorazione. In questo quadro, è riscontrabile la diversa fattispecie
(80) X. Xxxx’Xxxx, Nuove forme di lavoro dipendente, in MGL, 1984; X. Xxxxxxx, S. Campo Dall’Orto, Telelavoro oggi, esperienze, opportunità e campi d’applicazione, in AA.VV, Quaderno Aim, 1994, n. 25
(81)M. D’Xxxxxx, I mutamenti del diritto del lavoro e il problema della subordinazione, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1988, 198; X. Xxxx’Xxxx, Nuove forme di lavoro dipendente, in MGL, 1984, 668.
del lavoro autonomo allorché sia presente, presso il soggetto cui l’imprenditore commette una determinata opera, una distinta organizzazione dei mezzi produttivi ed una struttura imprenditoriale, con assunzione da parte del medesimo dei relativi rischi»82.
«Pertanto, la preliminare indagine sull’effettiva volontà negoziale
- diretta ad accertare, anche attraverso il nomen iuris attribuito al rapporto, se le parti abbiano inteso conferire alla prestazione il carattere della subordinazione - non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati con riguardo alle caratteristiche e modalità concretamente assunte dalla prestazione stessa nel corso del suo svolgimento, sì da doversi riconoscere l’acquisizione di quel carattere quante volte detto svolgimento non si appalesi coerente con la sua originaria denominazione»83.
Tuttavia, però, in questa sede non si può non rilevare, nonostante gli orientamenti giurisprudenziali tendano ad inquadrare il telelavoro nell’ambito delle tipologie contrattuali di natura subordinata, che la molteplicità delle definizioni date di telelavoro e le numerose posizioni dottrinali circa la sua natura evidenziano le difficoltà di qualificare e circoscrivere un fenomeno niente affatto unitario. Infatti, fermi restando gli elementi essenziali dalla cui combinazione risulta caratterizzato, ovvero l’esecuzione a distanza della prestazione lavorativa e l’impiego degli elaboratori elettronici, il telelavoro include nel suo ambito una molteplicità di forme di esecuzione dell’attività lavorativa, di tipologie e soluzioni organizzative.
Dal punto di vista organizzativo, dunque, il telelavoro può essere svolto presso il domicilio del lavoratore, ovvero in uffici c.d. satellite.
Le ragioni del decentramento possono essere diverse: localizzare gli uffici laddove sono minori i costi, creare una struttura più diffusa e capillare mediante l’apertura di filiali in nuove aree di penetrazione, rispondere più prontamente alle sollecitazioni del
(82)Cass. 7 aprile 2001, n. 5227, in MGC, 2001, 745.
(83)Cass. 17 giugno 1996, n. 5532, in MGC, 1996, 864; Cass. 23 novembre 0000, x.
00000, in MGC, 1998, 2435.
mercato mediante un raccordo funzionale fra domanda locale e offerta e, infine, collocare gli uffici in zone più prossime alle abitazioni dei lavoratori in centri comunitari (sono centri di lavoro utilizzati da più utenti, dipendenti di diverse aziende, liberi professionisti, etc., che non sono in grado di acquistare da soli le attrezzature necessarie).
Essi si distinguono in centri di quartiere o periferici, collocati in zone residenziali, centri metropolitani che fungono da strutture di sostegno per liberi professionisti o piccole aziende, centri regionali che hanno lo scopo di promuovere lo sviluppo locale; in sistemi aziendali distribuiti (è una forma di telelavoro che si realizza tra più unità produttive coinvolte nella produzione di uno stesso bene o nell’erogazione di uno stesso servizio e collegate tra loro attraverso una rete telematica).
Le unità possono appartenere ad una stessa impresa o essere indipendenti, ma operanti nello stesso settore.
Lo scopo è quello di conseguire particolari economie di scala e, contemporaneamente, garantire l’efficienza e la flessibilità proprie delle imprese di piccole dimensioni; in imprese di lavoro a distanza o tele imprese (si tratta di un’impresa che organizza l’erogazione di servizi a distanza, su una base remota rispetto ai clienti, utilizzando impiegati che lavorano nelle proprie zone di residenza e le tecnologie necessarie al collegamento operativo tra le varie postazioni di lavoro, la sede centrale e la sede dei clienti); infine, presso postazioni mobili (tale soluzione organizzativa è caratterizzata dalla continua variabilità dei luoghi di espletamento della prestazione, in relazione alle esigenze particolari dell’attività lavorativa).
Al di là dei numerosi inquadramenti giuridici attribuiti al contratto di telelavoro, si può affermare che questo si differenzia dalle altre forme di prestazioni lavorative per gli aspetti organizzativi perché non appartiene a nessuna delle categorie contrattuali (subordinato, autonomo, parasubordinato) e rappresenta soltanto una «modalità flessibile di esecuzione della prestazione lavorativa».
Può essere svolto da personale dipendente della pubblica amministrazione che ne faccia richiesta e viene utilizzato dalle amministrazioni «allo scopo di razionalizzare l’organizzazione del
lavoro e di realizzare economie di gestione» (art. 1, d.P.R. 8 marzo 1999, n.7).
In tema di inquadramento giuridico del telelavoro e per una distinzione di tale tipologia contrattuale rispetto al contratto di collaborazione, si veda la giurisprudenza di merito che pone l’accento su due requisiti ulteriori rispetto all’elemento “organizzativo” dell’attività lavorativa: coordinamento e determinazione del progetto.
Trattandosi di rapporti di lavoro a progetto in cui la prestazione di lavoro avviene attraverso un coordinamento per lo svolgimento di un progetto, un programma di lavoro o fase di esso, l’attività svolta deve coordinarsi con l’organizzazione del committente e non deve sostituirla.
I Giudici di merito hanno rilevato che il rapporto di lavoro a progetto deve consistere nello svolgimento di un’attività accessoria all’oggetto sociale del committente.
In secondo luogo, va specificato l’oggetto della prestazione lavorativa di cui al contratto di xx.xx.xx nella modalità a progetto. Diversamente, una collaborazione potrebbe mascherare, in realtà, un contratto di lavoro subordinato84.
Quanto, dunque, alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, che si svolge al di fuori dei locali dell’impresa, la giurisprudenza considera illegittima l’unilaterale modifica datoriale della sede di lavoro, occorrendo il consenso di entrambe le parti85.
Con riguardo, infine, al luogo in cui va eseguita la prestazione oggetto del contratto di telelavoro, l’esatta identificazione della stessa deve reputarsi un elemento rilevante nella volontà delle parti ogni qual volta le pattuizioni delle stesse risultino sensibilmente alterate dal mutamento della località della prestazione86.
Ma oltre alle disposizioni legislative che regolamentano l’utilizzo dei contratti di telelavoro un riferimento necessario deve essere
(84) Trib. Torino 5 aprile 2005, in LG, 2005, 651, con nota di Filì. (85)Trib. Napoli, 13 febbraio 2003, in FI, 2004, I, 635.
(86)Trib. Milano, 20 dicembre 2005, in OGL, 2006, 1, 118.
fatto alla contrattazione collettiva alla quale è attribuito il potere di stabilire le condizioni della prestazione lavorativa e di disciplinare gli aspetti strettamente legati alle specificità del comparto.
In particolare l’Accordo quadro nazionale sul telelavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 4, comma 3, della legge 16 giugno 1998, n. 191 del 23 marzo 2000 prevede che, nella scelta dell’assegnazione dei progetti di telelavoro, venga data priorità ai lavoratori che già svolgono le mansioni richieste dall’amministrazione o che abbiano esperienza lavorativa in mansioni analoghe a quelle richieste, in modo da consentire di operare in autonomia nelle attività di competenza.
Nel caso di richieste superiori al numero delle posizioni, l’amministrazione utilizzerà alcuni criteri di scelta come: situazioni di disabilità psico-fisiche tali da rendere disagevole il raggiungimento del luogo di lavoro; esigenze di cura di figli minori di 8 anni; esigenze di cura nei confronti di familiari o conviventi, debitamente certificate; maggiore tempo di percorrenza dall’abitazione del dipendente alla sede.
Al lavoratore con progetto di telelavoro deve essere garantita la partecipazione a iniziative formative e di socializzazione rispetto ai lavoratori che operano in sede.
L’assegnazione a progetti di telelavoro non cambia la natura del rapporto di lavoro in atto.
Laddove, poi, il lavoratore voglia revocare la richiesta di telelavoro, potrà farlo una volta trascorso il periodo di tempo indicato nel progetto e nel rispetto di ulteriori condizioni eventualmente previste nello stesso progetto.
La revoca può avvenire anche d’ufficio da parte dell’amministrazione la quale provvede a riassegnare il lavoratore alla sede di lavoro originaria secondo modalità e in tempi compatibili con le esigenze del lavoratore, e, comunque, entro 10 giorni dalla richiesta.
Questo termine può essere elevato a 20 giorni nel caso in cui il lavoratore ne faccia per motivi personali oppure nel termine previsto dal progetto.
La materia del telelavoro purtroppo, diversamente da altre tipologie contrattuali “flessibili”, non è stata oggetto di interventi legislativi recenti.
L’ultimo (e più recente) intervento “regolatore” della materia è contenuto nella legge n. 183/2011 (legge di stabilità 2012) la quale ha stabilito che, dal 1° gennaio 2012, si potrà far ricorso al telelavoro per conciliare le esigenze di vita e di lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici.
Agli assunti con telelavoro nella forma del contratto a termine o reversibile, la legge prevede inoltre che potranno essere concessi i benefici previsti dalla legge n. 53/2000, ovvero l’utilizzo di progetti articolati per consentire alle lavoratrici e ai lavoratori di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, quali part-time reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, banca delle ore, orario flessibile in entrata o in uscita, sui turni e su sedi diverse, orario concentrato. Specifico interesse sarà dedicato ai progetti che prevedano di applicare, in aggiunta alle misure di flessibilità, sistemi innovativi per la valutazione della prestazione e dei risultati.
Oltre che per conciliare le esigenze di vita e di lavoro, la legge ha previsto che i datori di lavoro possano utilizzare contratti di telelavoro per incentivare l’inserimento delle persone disabili. Allo stesso modo potranno essere stipulati contratti di telelavoro, anche reversibile, al fine di facilitare l’inserimento dei lavoratori in mobilità, per svolgere quelle offerte lavorative previste dalla legge n. 223/1991.
6. Il contratto di formazione e lavoro (CFL).
Inserito tra i contratti di lavoro flessibile utilizzabili dalle Pubbliche Amministrazioni dall’art. 36 del decreto legge n. 112/2008 convertito nella legge n. 133/2008.
È un contratto a causa mista a tempo determinato, di durata variabile da uno a due anni, convertibile tuttavia alla scadenza in contratto a tempo indeterminato87.
La sua disciplina concreta è rimessa all’autonomia collettiva dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 165/2001 il quale prevede che i contratti collettivi nazionali di lavoro provvedono a disciplinare la materia […] dei contratti di formazione e lavoro […] in applicazione di quanto previsto […] dall’art. 3 del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla l. 19 dicembre 1984, n. 863 […] nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina.
Può essere stipulato con giovani dai 16 e i 32 anni secondo due modalità:
1. contratto di formazione e lavoro per l’acquisizione di professionalità intermedie o elevate. In questo caso il rapporto di lavoro può avere una durata massima di 24 mesi e deve prevedere un percorso di istruzione formativa pari a 80 ore per acquisire una professionalità media, e 130 ore per acquisire una professionalità elevata.
2. contratto di formazione e lavoro per favorire l’inserimento professionale attraverso un’esperienza lavorativa che consenta di adeguare le capacità professionali al contesto produttivo e organizzativo. Questa seconda tipologia può avere una durata massima di 12 mesi e deve prevedere un’attività formativa di 20 ore. Nonostante nel corso degli anni si sia verificata una
(87)X. Xxxxxxx, Commento sub. Art. 36, in (a cura di) X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche (d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni), in NLCC, 1999, 1284; F. Xx Xxxxxx, I contratti di formazione e lavoro nella pubblica amministrazione, in XXX, 0000, 693; X. Xxxxxx, La tipologia dei rapporti di lavoro, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1993, 158.
sorta di parificazione tra il settore pubblico e quello privato nell’uso di questo contratto, tuttavia «se in passato è servito per sanare situazioni difficili, oggi esso viene utilizzato in misura piuttosto limitata, tanto da poter parlare di una sua insignificante presenza nel lavoro pubblico»88.
A ciò si aggiunga che i contratti di formazione e lavoro vengono trattati in maniera differente a seconda delle diverse amministrazioni indagate.
Per molte di queste il suo utilizzo è risultato essere pressoché inesistente e comunque residuale. Per alcune ha rappresentato uno strumento strategico per sanare situazioni contrattuali anomale all’interno dell’amministrazione o reperire personale per profili professionali medio alti.
Le amministrazioni ove tale tipologia contrattuale è in uso, ritengono che sia largamente conveniente la particolare forma di selezione (più leggero dell’iter concorsuale selettivo classico), in particolar modo per costruire ruoli e sistemi di competenze nuovi e più flessibili di quelli attualmente esistenti e la possibilità di verificare la persona prima di assumerla definitivamente.
Ciò detto, si tratta comunque di uno strumento poco percepito in termini di maggiore flessibilizzazione della risorsa personale.
Le amministrazioni che si impegnano con percorsi formativi ad hoc scelgono solitamente di farlo per figure professionali strategiche e vitali per l’ente stesso, solo dopo avere verificato disponibilità di posti nella dotazione organica89.
Secondo una ricerca svolta dall’Aran, il contratto di formazione e lavoro, considerando anche le punte massime registrabili negli enti di ricerca e negli enti pubblici non economici, raggiunge una
(88)X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, I contratti a contenuto formativo tra “formazione e lavoro” e “inserimento professionale” progetto, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2004, n. 15.
(89) X. Xxxxxxx, L’esperienza delle forme di lavoro flessibile nelle P.A. tra diritto del
lavoro e dimensione gestionale/organizzativa, 2002, n. 13.
percentuale pari allo 0,19% che, in termini assoluti, corrisponde alla stipula di circa 37 contratti90.
Tale disciplina essendo applicabile ai soli dipendenti delle amministrazioni pubbliche, può «essere equiparata alla microlegislazione cedevole che, [all’interno] delle fonti del lavoro pubblico può essere derogata dai contratti collettivi in base all’art. 2, x. 0 xxx x.xxx. x. 000/00»00.
In tal modo, qualora si ritenesse utile avvalersi delle regole previste per i contratti di inserimento, potranno essere proprio le parti sociali ad accostare, tramite i contratti collettivi, contratti di formazione e lavoro e contratti di inserimento92.
I vantaggi che la pubblica amministrazione trae dall’attivazione di un contratto di formazione e lavoro sono sicuramente maggiori rispetto a quelli che potrebbe trarre da una procedura concorsuale ordinaria e, cioè, maggiore flessibilità organizzativa in quanto il
c.f.l. consente la sperimentazione di nuovi modelli organizzativi senza incidere immediatamente sulla dotazione organica; maggiore celerità nella gestione delle procedure selettive grazie all’adozione di procedure semplificate di selezione; ed una maggiore efficacia nella selezione del personale con la conseguenza che l’eventuale trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro instaurati è legata alla valutazione concreta, sul campo, delle attitudini della persona assunta con il contratto di formazione e lavoro93.
La normativa sul c.f.l. manifesta un indubbio favor per la stabilizzazione del rapporto, ovvero per la sua trasformazione da rapporto temporaneo con finalità mista di formazione e lavoro in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
(90) D. Di Cocco, X. Xxxxxxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxx (a cura di), Gli istituti di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione e nelle autonomie locali, in Arannewsletter, 2003, n. 5
(91)X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 2004.
(92)X. Xxxxxxx, Nuovi lavori e Pubbliche Amministrazioni, in AA. VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxx, Cedam, Padova, 2005.
(93) Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali, circolare n. 26969 del 22.06.2000, in
GU Comunità europee, 15 febbraio 2000, n. 42.
L’esigenza è quella di individuare meccanismi ottimali di raccordo tra le finalità di contenimento della spesa e le funzioni tipiche del contratto di formazione e lavoro, quali la facilitazione all’inserimento lavorativo dei giovani mediante una loro concreta formazione professionale sul campo e la preparazione specialistica di risorse umane destinate potenzialmente ad essere riassunte in forma stabile, nella stessa organizzazione presso la quale si è svolta l’esperienza mista formativo-professionale, attraverso meccanismi di scelta semplificati94.
Tra i rischi connessi all’utilizzo (non corretto) del contratto di formazione e lavoro rientra la conversione dello stesso in un contratto a tempo indeterminato laddove la pubblica amministrazione riconduca il contratto di inserimento nell’ambito della disciplina applicabile ai contratti a termine.
7. Il contratto di apprendistato.
Il contratto di apprendistato, dopo il decreto legislativo n. 167/2011, c.d. Testo unico sull’apprendistato, viene fatto rientrare nella tipologia di lavoro a tempo indeterminato e ne viene previsto l’utilizzo anche nel pubblico impiego. L’attuazione della regolamentazione in materia di apprendistato, nonché la disciplina del regolamento e dell’accesso, deve essere definita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione e del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, sentita la Conferenza unificata e le parti sociali entro dodici mesi dall’emanazione del decreto
(94)Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione, Dipartimento della Funzione pubblica, Direttiva sul raccordo tra le finalità dell’art. 19 della legge 28 dicembre 2001, n.448, in tema di assunzioni di personale in Pubbliche Amministrazioni, e finalità della normativa sui contratti di formazione e lavoro, 8 maggio 2002.
legislativo che contiene la materia in oggetto. Tuttavia, però, ad oggi, nessuna procedura di adattamento ed armonizzazione della disciplina sull’apprendistato al pubblico impiego è stata avviata.
Alla luce di ciò l’istituto contrattuale dell’apprendistato, in tutte le sue forme, non sarà trattato nel presente lavoro.
CAPITOLO III
I CONTRATTI ATIPICI E FLESSIBILI: IPOTESI, PROSPETTIVE APPLICATIVE E FORMULAZIONI DE IURE CONDENDO
1. Ipotesi, prospettive applicative e formulazioni de iure condendo.
Alla luce dell’esame delle tipologie contrattuali atipiche e flessibili ed alla luce delle problematiche applicative legate alle numerose riforme di cui queste sono state destinatarie, da ultima la legge n. 92/2012, ben si può affermare che, il mercato del lavoro pubblico dovrebbe disporre e regolare forme contrattuali flessibili e affidabili (applicabili sia ai soggetti interni sia ai soggetti esterni all’amministrazione) attuabili mediante una regolamentazione innovativa del lavoro, dei contratti collettivi e dell’organizzazione del lavoro.
Si potrebbe partire, per gestire in maniera corretta le tipologie contrattuali atipiche ed evitare abusi da parte delle Pubbliche Amministrazioni, dall’organizzazione, in maniera congiunta da parte dei sindacati del pubblico impiego e dalle Amministrazioni Pubbliche, di schemi di flessibilità efficaci ed efficienti che consentano politiche di sviluppo dei lavoratori atipici attraverso l’attuazione e la ripresa dei contenuti dell’Intesa sul lavoro pubblico sottoscritta il 3 maggio 2012 tra il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione, le Regioni, le Province, i Comuni e le Organizzazioni sindacali.
Una “regolamentazione contrattata” di tutti gli aspetti della “vita” del lavoro atipico, dall’ “ingresso” del lavoratore nel mercato del lavoro pubblico, e per tutto il percorso lavorativo e professionale, fino all’ “uscita” del lavoratore stesso dal mercato del lavoro.
Una “regolamentazione contrattata” che servirebbe sicuramente ad arginare il fenomeno patologico della precarietà, soprattutto all’interno delle Amministrazioni Pubbliche in cui, le