Contract
Contributi – Appalto – Obbligazione solidale del committente – Decadenza biennale – Azione per recupero della contribuzione dovuta – Inapplicabilità.
Contributi – Contributi previdenziali – Periodi di assenza non retribuiti
– Minimale contributivo – Inderogabilità.
Contributi – Trasferte e rimborsi – Esclusione dall’imponibile – Onere della prova a carico del datore di lavoro.
Contributi – Sanzioni civili – Denunce incomplete o non conformi al vero – Evasione – Sussistenza.
Corte di Appello di Milano – 12.04.2021 n. 141 – Pres. Rel. Picciau
– INPS (Avv.ti Xxxxxxxx, Xxx Xxxxx) – C.S.L. (Avv. Maegna).
Il termine di due anni previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione.
La misura dei contributi previdenziali è stabilita dalla legge in ragione di una base imponibile costituita dalla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva di riferimento o, nella sola ipotesi in cui la retribuzione così determinata sia superiore a quella risultante dall’applicazione della contrattazione collettiva, dall’accordo delle parti.
Spetta al datore di lavoro provare l’esclusione dall’imponibile contributivo delle relative erogazioni ai propri dipendenti, relativamente a trasferte e rimborsi erogati a piè lista, gravando sul soggetto che intenda beneficiarne l’onere di provare il possesso dei requisiti che, per legge, danno diritto all’esonero (o alla detrazione) di volta in volta invocata.
La meno grave ipotesi della omissione sussiste solo quando tutti gli adempimenti risultano effettuati, mancando solo il pagamento; l’occultamento, che giustifica l’addebito delle sanzioni per evasione, non indica necessariamente la assoluta mancanza di qualsiasi elemento documentale che renda possibile l’eventuale accertamento della posizione lavorativa o delle retribuzioni, posto che anche soltanto attraverso la mancata (o incompleta o non conforme al vero) denuncia obbligatoria viene celata all’ente previdenziale (e quindi occultata) l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’imposizione.
FATTO e DIRITTO - Con sentenza n. 1311/2018 il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso proposto da INPS nei confronti di C.S.L. società consortile a responsabilità limitata per la condanna di parte convenuta al pagamento di euro 1.854.012,00, a titolo di contributi dovuti al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, oltre ad euro 1.280.213,14 a titolo di sanzioni fino al 31.12.2011, per un importo complessivo di euro 3.134.225,14, oltre spese ed interessi maturati e maturandi fino al saldo.
Il medesimo giudizio era stato introdotto in data 26.2.2014 davanti al Tribunale di Como, con ricorso per decreto ingiuntivo, emesso il 15 marzo 2014, a seguito del quale C.S.L. aveva proposto opposizione; assunte le prove, il Tribunale di Como aveva poi dichiarato la propria incompetenza per territorio.
A sostegno delle domande, nel presente giudizio l’INPS ha sostenuto che dagli accertamenti ispettivi erano emerse omissioni contributive a carico di N.P. Soc. coop. a.r.l., relativamente a contributi dovuti al Fondo Pensioni Lavoratori dipendenti per il periodo 1.4.2008 -31.12.2011.
La medesima omissione contributiva è stata contestata al Consorzio convenuto, in qualità di società appaltatrice dei contratti di appalto poi affidati a
N.P. soc. coop. a.r.l., cooperativa aderente al Consorzio.
A seguito dell’accertamento ispettivo erano stati formulati i seguenti rilievi: vi sarebbero stati periodi di assenza non retribuiti indicati in busta paga come “assenza giustificata” e non assoggettati a contribuzione previdenziale; alcuni importi sarebbero stati corrisposti a titolo di “trasferte Italia” e pertanto non assoggettati a contribuzione; alcuni importi sarebbero stati corrisposti a titolo di “rimborsi piè di lista” e pertanto non assoggettati a contribuzione ; sarebbero stati omessi i versamenti dovuti al Fondo Tesoreria.
Costituendosi in giudizio C.S.L. ha chiesto di accertare e dichiarare l’intervenuta decadenza dell’INPS e di respingere le avverse pretese perché infondate in fatto ed in diritto.
Il Tribunale ha premesso che “L’accertamento ispettivo ha avuto ad oggetto i rapporti di lavoro dei dipendenti di N.P. soc. coop. a r.l.: in proposito giova preliminarmente osservare che nel periodo oggetto di analisi (1.4.2008 – 31.12.2011) quattro distinte committenti (L. SRL, P.T.M. Spa, F. Spa e N.S. Spa) stipulavano altrettanti contratti di appalto con C.S.L. soc. consortile a.r.l.; quest’ultima affidava a sua volta i relativi incarichi a N.P. SRL ...
Il Tribunale ha accolto l’eccezione di decadenza precisando: “In primo luogo il decorso del termine di decadenza biennale può ritenersi impedito dall’INPS solo a decorrere dalla data di notifica del decreto ingiuntivo n. 129/2014 a C.S.L. Soc. consortile a r.l. (5.5.2014). Tanto premesso, con riguardo all’appalto F. Spa, è documentale che il relativo contratto fra C.S.L. soc. consortile a.r.l. e N.P. soc. coop. a r.l. sia cessato alla data del 31 gennaio 2012 ... Rispetto alle altre società committenti, all’esito dell’istruttoria è parimenti emerso che i contratti siano cessati in epoca antecedente al maggio 2012...”.
Nel merito, comunque, il Tribunale ha ritenuto che in relazione ai periodi di assenza non retribuita l’INPS non abbia assolto l’onere probatorio di dimostrare che “o che nei periodi di assenza i lavoratori abbiano in realtà prestato attività lavorativa, o che i contributi fossero ugualmente dovuti, integrando l’assenza non retribuita una ipotesi di sospensione illegittima del rapporto di lavoro”.
Il Tribunale ha poi ritenuto l’infondatezza, per vari profili, delle ulteriori pretese dell’INPS correlate alle trasferte, all’omesso versamento al fondo tesoreria, al rimborso a piè lista.
Ha proposto appello l’INPS chiedendo, in riforma della sentenza del Tribunale, l’accoglimento delle domande.
Ha resistito C.S.L. chiedendo il rigetto dell’appello.
Fallito il tentativo di conciliazione effettuato dalla Corte; disposto dalla Corte il c.d. rito cartolare in forza della normativa correlata all’emergenza da Covid
19; all’udienza del 25 Gennaio 2021 la causa è stata decisa come da dispositivo in calce.
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L’appello proposto dall’INPS è fondato nei limiti di seguito precisati.
Con un primo motivo di appello l’INPS censura la sentenza per aver ritenuto l’operatività nella fattispecie della decadenza di cui all’art. 29 D.Lgs. 276/2003.
L’appellante osserva che “C.S.L. è l’appaltatrice dei lavori commissionati
...sicché essa è responsabile, al pari della N.P. S.c.a.r.l., datrice di lavoro dei dipendenti cui afferiscono le gravi omissioni ed irregolarità in materia previdenziale compiute da quest’ultima cooperativa”; assume che “il tenore del testo normativo ...è tale da escludere che all’appaltatore, nel rapporto con il subappaltatore, si riferibile il termine di decadenza in parola ...”.
L’Istituto osserva inoltre che “la responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore per il versamento dei contributi previdenziali, è posta specificamente dall’art. 35, comma 28 del D.L. 223/2006, convertito con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006 n. 248; in via subordinata rileva che “ogni asserita, denegata decadenza avrebbe dovuto essere valutata con riguardo alla data di presentazione del ricorso monitorio avanti il Tribunale di Como”.
Tali censure colgono nel segno.
L’assunto dell’INPS è fondato alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. L. 31144/2019; 18004/2019; 22110/2019) per i quali il termine decadenziale di due anni previsto dall’art. 29, comma 2 del D.Lgs. 276/2003 va riferito solo all’esercizio dell’azione promossa dal lavoratore nei confronti del responsabile solidale e non è, invece, applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali ai fini del recupero della contribuzione dovuta.
La Corte di Cassazione, a tal fine, ha sottolineato il principio secondo il quale il rapporto di lavoro ed il rapporto previdenziale, per quanto connessi, sono fra loro distinti, atteso che l’obbligazione contributiva facente capo all’ente previdenziale, a differenza di quella retributiva, deriva dalla legge, ha natura pubblicistica e risulta pertanto indisponibile.
Si legge nella motivazione della citata sentenza 22110/2019, in relazione all’interpretazione dell’art. 29, comma 2 X.Xxx. 276/2003:
“(....) 8. La questione controversa può riassumersi nell’alternativa tra due opzioni interpretative. Una prima, secondo la quale si tratterebbe di una peculiare obbligazione contributiva che, pur legittimando il solo Ente previdenziale alla pretesa - posto che il lavoratore non può certo ricevere i contributi - sia del tutto conformata alla speciale azione riconosciuta al lavoratore e, quindi, soggetta al termine di decadenza di due anni. La seconda, ispirata a ragioni di ordine sistematico, che proprio dall’assenza, nel D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, di espresse regole relative alla pretesa contributiva ed in considerazione della diversa
natura delle due obbligazioni, induce a ritenere applicabile alla fattispecie la disciplina generale dell’obbligazione contributiva che non prevede alcun termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di accertamento dell’obbligo contributivo, soggetto solo al termine prescrizionale.
8. Questa seconda opzione è preferibile per varie considerazioni.
9. In primo luogo, va considerato che l’obbligazione contributiva non si confonde con l’obbligo retributivo, posto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha da tempo consolidato il principio secondo il quale il rapporto di lavoro e quello previdenziale, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi (vd., ex multis, Cass. n. 5353 del 2004; Cass. nn. 15979, 6673 del 2003).
10. L’obbligazione contributiva, derivante dalla legge e che fa capo all’INPS, è distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva (Cass. 8662 del 2019), essa (Cass. n. 13650 del 2019) ha natura indisponibile e va commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (c.d. “minimale contributivo”).
11. Dunque, può affermarsi che la finalità di finanziamento della gestione assicurativa previdenziale pone una relazione immanente e necessaria tra la “retribuzione” dovuta secondo i parametri della legge previdenziale e la pretesa impositiva dell’ente preposto alla realizzazione della tutela previdenziale.
12. Proprio dalla peculiarità dell’oggetto dell’obbligazione contributiva, che coincide con il concetto di “minimale contributivo” strutturato dalla legge in modo imperativo, discende la considerazione di rilevo sistematico che fa ritenere non coerente con tale assetto l’interpretazione che comporterebbe la possibilità, addirittura prevista implicitamente dalla legge come effetto fisiologico, che alla corresponsione di una retribuzione - a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore - non possa seguire il soddisfacimento anche dall’obbligo contributivo solo perché l’ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto.
13. Si spezzerebbe, in altri termini e senza alcuna plausibile ragione logica e giuridica apprezzabile, il nesso stretto tra retribuzione dovuta (in ipotesi addirittura effettivamente erogata) ed adempimento dell’obbligo contributivo, con ciò procurandosi un vulnus nella protezione assicurativa del lavoratore che, invece, l’art. 29 cit. ha voluto potenziare.
14. Si deve, dunque, affermare il principio che “il termine di due anni previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione”.
15. Tanto in analogia all’orientamento formatosi nel vigore della L. n. 1369 del 1960.
16. Nel precedente contesto normativo, infatti, questa Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che la L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 4 (sul divieto di
intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro), che poneva il termine di decadenza di un anno dalla cessazione dell’appalto per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e servizi nei confronti degli imprenditori appaltanti - pur facendo riferimento, oltre che ai diritti al trattamento economico e normativo, anche al diritto di pretendere l’adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali - limitava l’ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore, non potendosi estendere invece l’efficacia dell’anzidetta disposizione legislativa ad un soggetto terzo, quale l’ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono, pertanto, al predetto termine annuale decadenziale (v., ex multis, Cass. n. 18809 del 2018; Cass. n. 6532 del 2014; Cass. n. 996 del 2007)...”.
Tali argomentazioni, condivise da questo Collegio, appaiono dirimenti ed assorbono ogni altra questione in relazione al motivo dedotto.
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Con un secondo motivo di gravame, l’INPS censura nel merito la sentenza perché “è arbitrario e non conforme al diritto sostenere che la solidarietà operi solo per omissioni di evasione contributive relative ad attività effettivamente prestata” atteso che “la misura dei contributi previdenziali è stabilita dalla legge in ragione di una base imponibile costituita dalla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva di riferimento o, nella sola ipotesi in cui la retribuzione così determinata sia superiore a quella risultante dall’applicazione della contrattazione collettiva, dall’accordo delle parti”; sostiene che “solo nei casi di assenze tipizzate è possibile evitare di versare la contribuzione dovuta sulla c.d. contribuzione virtuale”; che “all’INPS non sono stati previamente comunicati gli eventi che avrebbero giustificato le sospensioni dal lavoro”.
Secondo l’appellante, quindi, la sentenza avrebbe dovuto sancire che i datori di lavoro, cooperative e non, debbono calcolare la contribuzione previdenziale nel caso di mancata prestazione lavorativa su quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato per le intere ore settimanali previste dal CCNL.
L’appellante inoltre, richiamando espressamente i rilievi evidenziati in sede ispettiva, ritiene l’erroneità delle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale in punto di trasferte e “i rimborsi erogati a piè di lista”; osserva che il Tribunale ha invertito gli oneri probatori atteso che spetta al datore di lavoro provare l’esclusione dall’imponibile contributivo delle erogazioni ai propri dipendenti ; censura infine la sentenza per aver il Tribunale ritento non dovuti gli accertati mancati versamenti al Fondo di tesoreria per aver provveduto la società al versamento del T.F.R. ai dipendenti il cui rapporto di lavoro era cessato.
Le censure dell’Istituto appellante sono fondate alla luce dei consolidati principi affermati dalla Corte di Cassazione in materia di minimale contributivo: tali
principi appaiono così chiaramente ribaditi nella recente ordinanza n. 21479/2020 della Corte di Cassazione:
“La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo affermato l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello lavorativo (Cass. Sez. L, Sentenza n. 3491 del 14/02/2014).
Da tale principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva deriva la regola del c.d. minimale contributivo, che prevede l’obbligo datoriale - a prescindere da eventuali pattuizioni individuali difformi nell’ambito del rapporto di lavoro - di rispetto della misura dell’obbligo contributivo previdenziale in riferimento ad una retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario normale di lavoro stabilito dalla contrattazione collettiva, secondo il riferimento ad essi fatto con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale - dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389).
Il principio ha fondamento nelle stesse finalità pubblicistiche della contribuzione previdenziale, posto che - come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza 20 luglio 1992, n. 342 - “una retribuzione (...) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l’assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto), se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze”.
In relazione a ciò, questa Corte (Xxxx. Sez. L -, Sentenza n. 15120 del 03/06/2019, Rv. 654101 - 01) ha già avuto modo di affermare, in via generale ed a prescindere dal settore di attività del datore, che la, regola del c.d. minimale contributivo opera sia con riferimento all’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore, atteso che è evidente che se ai lavoratori vengono retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e su tale retribuzione viene calcolata la contribuzione, non vi può essere il rispetto del minimo contributivo nei termini sopra rappresentati.
Ne deriva che la contribuzione è dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro (x. Xxxx. n. 21700 del 13/10/2009, Cass. n. 9805 del 04/05/2011 e successive conformi, che hanno superato la diversa soluzione adottata da Cass. n. 1301 del 24/01/2006, ed altre precedenti).
Va infatti esclusa la libertà delle parti di modulare l’orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro con effetto sull’obbligazione contributiva, considerato che
quest’ultima è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e dev’essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo. Ciò vale anche nel caso di attenuazione o cessazione temporanea dell’attività lavorativa per insussistenza di commesse, essendo tali eventi ricompresi nell’ambito del rischio imprenditoriale che grava sul datore di lavoro in via esclusiva, senza
che ciò possa riflettersi sull’obbligo contributivo...”
Tenuto conto di tali principi, va osservato che nella fattispecie gli ispettori, così come risulta dal verbale di accertamento del 9 marzo 2012, hanno rilevato che “i fogli paga hanno evidenziato che l’imponibile contributivo denunciato dalla società cooperativa è stato calcolato sulla base delle sole ore di lavoro ordinario denunciate. Contestualmente, per ogni mese di paga, la sezione presenze evidenzia periodi di assenza non retribuita che non danno luogo a retribuzione né risultano calcolati i contributi previdenziali.... Le dichiarazioni assunte in loco durante gli accessi ispettivi hanno evidenziato che i lavoratori hanno un rapporto stabile con la N.P. Soc. coop. a r.l. e svolgono la loro attività lavorativa presso la società committente con continuità senza periodi lunghi di assenza. La documentazione presentata da
N.P. Soc. coop. a.r.l. a giustifica delle assenze non retribuite per motivi personali è risultata non corrispondente a quanto dichiarato dagli stessi lavoratori che in alcuni casi hanno precisato di non aver mai firmato richieste di assenze ad alcun titolo ”.
In tale contesto, in difetto di una attendibile rigorosa documentazione prodotta dalla società, gli ispettori, applicando in conseguenza i principi suddetti inerenti il minimale contributivo, hanno giustamente – anche in forza delle richiamate dichiarazioni allegate al verbale - ritenuto non decisivi i giustificativi esibiti dalla società che “si limitano ad una generica richiesta di assenza uguale per tutti, senza alcuna specificità”.
Dalla lettura del verbale suddetto risulta inoltre, contrariamente agli assunti dell’appellante, che gli ispettori hanno chiaramente fatto riferimento in materia al CCNL Trasporti e Logistica (v. pagina 1 del verbale).
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In relazione alle censure dell’appellante inerenti le trasferte e i rimborsi piè/ lista va osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, in punto di diritto e di oneri probatori delle parti, secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità “l’INPS deve solo provare l’ammontare complessivo delle somme erogate ai lavoratori in costanza del rapporto di lavoro spettando, invece, al datore di lavoro provare l’ammontare delle somme sottratte all’applicazione della regola generale in ipotesi di rimborsi o indennità per trasferte, dimostrando le trasferte effettuate e l’ammontare dei rimborsi e delle indennità erogate per ciascun giorno (v., per tutte, Xxxx. 20 febbraio 2012,
n. 2419).... xxxxxx, dunque, il principio generale più volte enunciato da questa Corte, secondo cui, laddove si versi in situazione di eccezione in senso riduttivo
dell’obbligo contributivo, grava sul soggetto che intenda beneficiarne l’onere di provare il possesso dei requisiti che, per legge, danno diritto all’esonero (o alla detrazione) di volta in volta invocata, ricadendo sul datore di lavoro che pretenda di avere accesso ai benefici contributivi previsti in caso di trasferta dei dipendenti o di rimborso per spese di viaggio, l’onere di dimostrare la causa dell’esonero dell’assoggettamento a contribuzione (vedi, fra le altre, Cass. 22 luglio 2014, n. 16639) (così testualmente in motivazione, ex plurimis Cass. Ord. 18160/2018).
Sempre in punto di diritto, la Corte di Cassazione ha anche recentemente ribadito che “In diritto, deve rilevarsi che la trasferta è emolumento corrisposto al lavoratore in relazione a prestazione effettuata per limitato periodo di tempo e nell’interesse del datore di lavoro al di fuori della ordinaria sede di lavoro, volto proprio a compensare al lavoratore i disagi derivanti dall’espletamento del lavoro in luogo diverso da quello previsto (cfr. Cass. 14.9.07, n. 19236; cfr. pure Sez. L, Sentenza n.8004 del 14/08/1998, Rv. 518045 - 01, secondo la quale la cosiddetta trasferta si distingue dal trasferimento perché è indefettibilmente caratterizzata dalla temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale, con la conseguenza che non spetta l’indennità di trasferta a chi esplica in maniera fissa e continuativa la propria attività presso una determinata località, anche se la sede di servizio risulti formalmente fissata in luogo diverso, dove, peraltro, il lavoratore non ha alcuna necessità di recarsi per l’espletamento delle mansioni affidategli).... Né possono assumere rilievo alcuno le circostanze che la sede legale dell’impresa datoriale e la residenza dei lavoratori erano diverse da quelle in cui si svolgeva l’attività lavorativa, non essendo tali luoghi rilevanti per la identificazione di una trasferta in senso tecnico” (così testualmente in motivazione Cassazione Sez. Lav. 8 luglio 2020 n. 14380).
Tenuto conto di tali principi, era onere di C.S.L. provare rigorosamente nella fattispecie sia la sussistenza di una trasferta in senso tecnico sia i giustificativi inerenti i rimborsi piè/lista.
Nel verbale di accertamento del 9 marzo 2012 gli ispettori hanno invece evidenziato la non congruità e compiutezza della documentazione esibita dalla società per provare quelle voci.
Si legge infatti nel verbale di accertamento: “Le lettere di assunzione fornite dalla cooperativa non recano alcuna indicazione circa la sede di lavoro. Dalle dichiarazioni assunte in occasione degli accessi ispettivi è emerso che il personale svolge la propria prestazione lavorativa presso lo stesso committente in maniera stabile e non è soggetto a spostamenti di lavoro. ...La documentazione presentata dalla società cooperativa a giustificazione della trasferta erogata non è sottoscritta dai dipendenti e risulta in contrasto con quanto dichiarato dai lavoratori; in molti casi è incongruente rispetto ai dati registrati nella sezione delle presenze del libro unico del lavoro...”.
La Corte osserva pertanto che non risulta in atti la rigorosa prova di una trasferta in senso tecnico, nel senso delineato dalla giurisprudenza di legittimità.
Anche in relazione ai rimborsi a piè/lista gli ispettori hanno riscontrato la non congruità e compiutezza della documentazione esibita dalla società precisando fra l’altro che “le dichiarazioni assunte in occasione degli accessi ispettivi hanno evidenziato che i lavoratori non sono soggetti a spostamenti dal loro luogo di lavoro ed in alcuni casi gli stessi hanno riconosciuto tali rimborsi come indennizzo convenuto dalla cooperativa per il disagio che il lavoratore affronta per raggiungere il suo posto di lavoro dalla dimora abituale o per prestazioni lavorative effettuate;
l’esame a campione della documentazione aziendale ha evidenziato numerose incongruenze dei dati registrati a titolo di trasferta e rimborsi a piè lista. A titolo esemplificativo si cita il caso del dipendente P.M. che a gennaio 2010 percepisce il rimborso chilometrico Pessano – Cantalupo per i giorni 21 e 22 gennaio 2010 mentre nei fogli di trasferta risulta essere andato a Xxxxxx Xxxxxxxx; analoga situazione viene rilevata per V.C. nel mese di gennaio 2010. Il dipendente
L.B. ha percepito la trasferta nei giorni 1-2-3-4-5- marzo 2010 mentre era assente giustificato ”.
Per quanto riguarda la contribuzione dovuta al Fondo di tesoreria nel citato verbale di accertamento del 9 marzo 2012 gli ispettori hanno accertato che “la media degli addetti per l’’anno solare 2008 è stata superiore al limite dimensionale stabilito dalla legge per l’iscrizione obbligatoria al Fondo di Tesoreria. Inoltre la società cooperativa non aderisce ad altro fondo di previdenza complementare o di categoria. Per questo motivo si quantificano gli accantonamenti dovuti al fondo di tesoreria presso l’INPS per tutti i soci con contratto di lavoro subordinato che non hanno optato per fondi di previdenza complementare. Sono stati esclusi dalla quantificazione tutti i lavoratori che nel corso degli anni hanno cessato il rapporto di lavoro con la società cooperativa e per i quali la stessa ha provveduto direttamente alla liquidazione del trattamento di fine rapporto ”.
Sentiti all’udienza del 13.5.2015 nel corso del procedimento svoltosi a Como gli ispettori B. e G. hanno precisato: “in ordine alle modalità di individuazione del contributo al fondo di tesoreria in relazione ai lavoratori che hanno percepito il
T.F.R. prima del 31.12.2011 possiamo confermare che dai tabulati allegati al verbale di accertamento può riscontrarsi che per i lavoratori che erano cessati e avevano percepito il T.F.R. non sono stati , seppur indicati nominativamente, indicati i relativi importi contributivi obbligatori. ”.
Risulta quindi, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, che gli ispettori non hanno considerato, nel formulare il relativo addebito e sulla base della documentazione prodotta dalla società in sede di accertamento, i lavoratori “che erano cessati e avevano percepito il T.F.R.”.
Ciò premesso in ordine alla fondatezza dei motivi di gravame proposti
dall’INPS, va però precisato che ad avviso del Collegio - alla luce dell’istruttoria orale svoltasi presso il Tribunale di Como e ritualmente acquisita nel presente procedimento - debba essere esclusa la considerazione - come già precisato nel verbale di udienza del 20.5.2019 - dei soggetti specificati nei capitoli 1-15 e 66 del ricorso introduttivo del giudizio svoltosi presso il Tribunale di Como.
Ed infatti, all’esito dell’istruttoria svolta a Como e ritualmente acquisita risulta, ad avviso della Corte, l’estraneità dei soggetti indicati in quei capitoli all’attività lavorativa relativa agli appalti di cui è causa.
Si rileva che sul punto lo stesso legale dell’INPS all’esito della udienza del 17 novembre 2017 del procedimento svoltosi a Como aveva suggerito “di poter invitare gli ispettori a stralciare quelle posizioni”.
La Corte ha quindi invitato l’Istituto alla quantificazione delle somme dovute espressamente escludendo i soggetti così individuati; l’INPS ha quindi infine quantificato quanto dovuto nella minor somma di euro 1.523. 236,00.
Per quanto sopra, in riforma della sentenza di primo grado, parte appellata va condannata al pagamento in favore dell’INPS di euro 1.523.236,00 oltre sanzioni, correlate all’ipotesi evasione, ed accessori di legge.
La responsabilità solidale di C.S.L. riguarda nella fattispecie, ratione temporis, anche le sanzioni civili, dovendosi applicare nella fattispecie i principi affermarti dalla giurisprudenza di legittimità in fattispecie analoga laddove si è chiarito: “l’obbligazione solidale sulla quale è incentrato il ricorso all’esame ricade, ratione temporis, nel citato D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, nella formulazione sostituita dalla L. 7 dicembre 2006, n. 296, in vigore dal 1° gennaio 2007 (ulteriormente modificato, con D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, non rilevante, in questa sede, ratione temporis).
Non risulta applicabile, nella specie, ratione temporis, l’esclusiva responsabilità, in capo all’inadempiente, sancita dal citato D.L. n. 5 del 2012, art. 21, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla richiamata L. n. 35 del 2012, che, disciplinando nuovamente la responsabilità solidale negli appalti ha sanzionato, per l’omissione contributiva, solo il responsabile dell’inadempimento, escludendo le sanzioni dal vincolo solidale, con disposizione che, e per non avere in nuce carattere interpretativo e per la predeterminazione, per legge, del soggetto passivo della sanzione civile, non contiene elementi per indurre l’interprete a predicarne il valore interpretativo e, in quanto tale, retroattivo secondo i criteri fissati dalla giurisprudenza costituzionale (sull’efficacia innovativa e non interpretativa, si veda, per tutte, Corte Cost. nn. 271 e 257 del 2011, 209 del 2010, 24 del 2009 e 170
del 2008).
13. Non induce, per altro, a diversa opinione l’osservazione che assume che l’interpretazione nel senso della natura innovativa della predetta disposizione condurrebbe all’irragionevole risultato della responsabilità solidale, per le sanzioni
civili, secondo la collocazione temporale dell’inadempimento dell’appaltatore, dovendo pertanto dubitarsi della legittimità costituzionale della precedente versione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2. Vale richiamare, al riguardo, i principi più volte ribaditi dal Giudice delle leggi, e riaffermati anche con la sentenza n. 254 del 2014 che, nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, modificato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 911, e nel solco della costante giurisprudenza costituzionale, ha ritenuto non contrastare, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (v. Corte Cost. n. 254 del 2014 cit. e i precedenti ivi richiamati).
14. Dunque già è stata ritenuta non lesiva del canone di ragionevolezza la circostanza che la nuova disciplina in tema di responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore, dettata dal D.L. n. 5 del 2012, art. 21, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 35 del 2012, art. 1, comma 1, si applichi agii inadempimenti contributivi avvenuti dopo la sua entrata in vigore, in applicazione dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo ... ( così testualmente in motivazione Cass. Sez. Lav. 20413/2019).
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Le sanzioni civili debbono poi, ad avviso della Corte, essere correlate all’ipotesi dell’evasione e non della mera omissione.
Come è noto, l’art. 116, comma 8 della legge n. 388/2000 prevede:
“I soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento di contributi o premi dovuti per prestazioni previdenziali ed assistenziali ovvero vi provvedano in misura inferiore a quella dovuta sono tenuti:
a) Nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile...;
b) In caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate, al pagamento...”.
I contrasti interpretativi della disposizione, sorti all’interno della Sezione di lavoro della Corte Suprema, sono stati risolti da Xxxx. Sez. Lavoro 28966/2011, che ha affermato principi poi recepiti dalla giurisprudenza successiva (cfr. ex plurimis Cass.10509/2012; 4188/2013; 28845/2015; 8745/ 3 maggio 2016).
In particolare, nella sentenza 28966/2011 la Corte ha affermato:
che la meno grave ipotesi della omissione sussiste solo quando tutti gli adempimenti risultano effettuati, mancando solo il pagamento;
che “l’occultamento non indica necessariamente la assoluta mancanza di
qualsiasi elemento documentale che renda possibile l’eventuale accertamento della posizione lavorativa o delle retribuzioni, posto che anche soltanto attraverso la mancata (o incompleta o non conforme al vero) denuncia obbligatoria viene celato all’ente previdenziale (e quindi occultata) l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’imposizione...”;
che “né può sottacersi (così come già rilevato da Xxxx. Sez. Unite 4808/2005) che una interpretazione meno rigorosa del concetto di omissione, esteso a tutte le ipotesi che in qualunque modo abbiano reso possibile all’Ente previdenziale l’accertamento degli inadempimenti contributivi, anche a distanza di tempo, o in ritardo rispetto alle cadenze informative periodiche previste dalla legge, aggraverebbe la posizione dell’Istituto, imponendogli una incessante attività ispettiva, laddove il sistema postula, anche nel suo aspetto contributivo, per la sua funzionalità, una collaborazione spontanea tra i soggetti interessati”;
che, in relazione all’elemento soggettivo richiesto dalla lettera b dell’art. 8, “l’omissione o l’infedeltà della denuncia è di per sé sintomatica (ove non meramente accidentale, episodica, strettamente marginale) della volontà di occultare i rapporti e le retribuzioni al fine di evitare, nella auspicata ...e non implausibile possibilità che la mancanza di successivi occultamenti o riscontri (da attuarsi per lo più nell’ambito temporale dei termini prescrizionali) consentano de facto di sottrarsi all’adempimento contributivo ovvero di effettuare il versamento della contribuzione in misura inferiore al dovuto...”;
che “ne discende che, in linea generale, l’inoltro di denunce infedeli o la loro omissione da un lato configura occultamento dei rapporti di lavoro e delle retribuzioni erogate e dall’altro e al contempo, fa presumere la esistenza di una specifica volontà datoriale di sottrarsi al versamento dei contributi dovuti ...”;
che “non può d’altra parte condividersi l’avviso secondo cui la suddetta interpretazione condurrebbe alla inutilità della modifica normativa introdotta dalla legge 388/2000, posto che, al contrario, proprio il rilievo dato all’elemento intenzionale consente anche in ipotesi di denunce omesse o non veritiere, di escludere l’ipotesi della evasione, cosicché la suddetta presunzione (proprio perché non assoluta) può essere vinta, con onere probatorio al carico di datore inadempiente, attraverso la allegazione e prova di circostanze dimostrative dell’assenza del fine fraudolento (perché, ad es., gli inadempimenti sono derivati da una negligenza o da altre circostanze) ...”.
Tenuto conto di tali principi, nella fattispecie è stato accertato, solo attraverso l’intervento indispensabile degli ispettori, il versamento di contributi in misura inferiore a quella dovuta; in difetto di significative allegazioni in senso contrario della società appellata ricorrono pertanto, ad avviso del Collegio, gli estremi dell’evasione contributiva ai sensi dell’art. 116, comma 8, lett. b) legge 23 dicembre 2000 n. 388.
Per quanto sopra, in riforma della sentenza n. 1311/2018 del Tribunale di Milano, parte appellata va condannata al pagamento in favore dell’INPS di euro 1.523.236,00 oltre sanzioni, correlate all’ipotesi evasione, ed accessori di legge.
Le spese del doppio grado seguono la soccombenza e sono liquidate, in favore dell’INPS, tenuto conto del valore della causa, ex D.M. 55/2014 e 37/2018 nella misura specificata in dispositivo. (euro 11.000,00 per il primo grado; euro 13.000,00 per il grado di appello).
(Omissis)