CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE E PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO. IL CASO TRELLEBORG ITALIA E FRANCIA ALLA PROVA DELLE NUOVE SFIDE DEL MERCATO DEL LAVORO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola di Alta formazione Dottorale
Corso di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro Ciclo XXXII
Settore scientifico disciplinare IUS/07
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA AZIENDALE E PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO. IL CASO TRELLEBORG ITALIA E FRANCIA ALLA PROVA DELLE NUOVE SFIDE DEL MERCATO DEL LAVORO
Supervisore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
Tesi di Dottorato Xxxxxx Xxxxxx Matricola n. 1044034
Anno Accademico 2018/19
ABBREVIAZIONI
ADL BJIR | Argomenti di Diritto del Lavoro British Journal of Industrial Relations |
Boll. ADAPT | Bollettino ADAPT |
Boll. Spec. ADAPT | Bollettino Speciale ADAPT |
CLLPJ | Comparative Labour Law and Policy Journal |
DE | Diritto ed Economia |
DLM | Diritti Lavori Mercati |
DLRI | Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali |
DML | Il Diritto nel Mercato del Lavoro |
DPL | Diritto e pratica del lavoro |
DS | Droit Social |
DRI | Diritto delle Relazioni Industriali |
EJICLS | E-Journal of International and Comparative Labour Studies |
IJCLLIR | International Journal of Comparative Labour Law and Industrial |
Relations | |
ILJ | Industrial Law Journal |
LD | Lavoro e Diritto |
LDE | Lavoro Diritti Europa |
LG | Il Lavoro nella Giurisprudenza |
LLI | Labour & Law Issues |
MGL | Massimario di Giurisprudenza del Lavoro |
QDLRI | Quaderni di diritto del lavoro e relazioni Industriali |
QG | Questione Giustizia |
QRS | Quaderni di Rassegna Sindacale |
RGL | Rivista Giuridica del Lavoro |
RDT | Revue de Droit du Travail |
RIDL | Rivista Italiana di Diritto del Lavoro |
INDICE
CAPITOLO I Posizione del problema 6
1. Introduzione 6
2. Produttività del lavoro e contrattazione aziendale in Italia: prospettive di intervento 11
3. Le sfide del sistema economico e produttivo francese 14
4. Oggetto della ricerca 16
5. Domande di ricerca 19
6. Metodologia della ricerca 20
CAPITOLO II Literature Review 22
Sez.I - Il ruolo della contrattazione collettiva aziendale nel sistema di relazioni
industriali italiano 22
1. Introduzione 22
2. Natura e funzione del contratto aziendale in Italia 24
2.1 Gli attori della contrattazione collettiva aziendale 25
3. L’evoluzione degli assetti contrattuali nel sistema di relazioni industriali promossa dalle parti sociali: l’Accordo separato del 2009 e l’Accordo del 2011 29
3.1 Intervento del legislatore e reazione delle parti sociali: l’art. 8 della legge n. 148/2011 38
3.2. Crisi economica e competitività del sistema produttivo: la proposta delle parti sociali e l’avallo del Governo 43
4. Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 46
5. Evoluzione del mercato del lavoro e ultime riforme: il ruolo riservato alla contrattazione collettiva aziendale 48
Sez.II - Il sistema di relazioni industriali in Francia 55
1. Introduzione 55
2. Le fonti del sistema di relazioni industriali: breve excursus storico 57
3. L’istituzionalizzazione della negoziazione d’impresa: le Xxxx Xxxxxx del 1982 59
4. Luci e ombre della c.d. Loi Xxxxxx del 2004 nel lungo cammino verso il decentramento 61
5. Rénovation del sistema di relazioni industriali francese: la legge del 20 agosto 2008 65
6. L’ANI dell’11 gennaio 2013 e la legge n. 504 del 14 giugno 2013: gli accordi di salvaguardia dell’occupazione 68
7. La Loi Xxxxxxxx del 17 agosto 2015 e il Rapporto Combrexelle dell’ottobre dello stesso anno 72
8. La legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016, nota come Loi Travail 75
9. Le ordonnances Macron del 22 settembre 2017: una rivoluzione copernicana? 79
9.1 L’Ordonnance n. 2017-1385 relativa al «consolidamento della negoziazione collettiva»
80
9.2 Gli accordi di c.d. performance collettiva ex art. L. 2254-2 del Code du Travail 83
9.3 L’ordonnance n. 2017-1386: nuove regole in materia di rappresentanza e validità degli accordi aziendali 84
CAPITOLO III Case study: La Trelleborg Coated Systems SpA 89 Sez. I - La Trelleborg Italia: lo stabilimento di Lodi Vecchio 89
1. Introduzione 89
2. L’evoluzione delle Relazioni industriali 91
3. Premio di Produttività e costo del lavoro: evoluzioni e necessità di cambiamento 92
4. La negoziazione del contratto collettivo aziendale 2018-2020 e lo stato di agitazione sindacale nel settore gomma-plastica 94
5. La disdetta del Premio di Produzione e l’articolazione di una retribuzione variabile: parametri e obiettivi del nuovo Premio di Risultato 97
5.1 L’assenteismo individuale come indice correttivo di adeguamento del premio di risultato102
5.2 La deroga al CCNL e il nuovo trattamento in caso di malattia in Trelleborg 104
6. Il progetto di welfare aziendale: dal Premio di Produzione al paniere di beni e servizi 107
6.1 Il welfare di produttività 109
6.2 Le ferie solidali e l’estensione del congedo di paternità: opportunità del Decreto Interministeriale del 12 settembre 2017 111
Sez. II - La Trelleborg Francia: lo stabilimento di Mirambeau 114
1. Introduzione 114
2. Le Relazioni Industriali nel settore della Plasturgie 115
3. L’accordo di intéressement 2019-2021 116
3.1 Obiettivi e relativi parametri dell’intéressement 118 Sez. III - Il ruolo della contrattazione aziendale in Trelleborg: comparazione tra il caso francese e quello italiano 120
1. Introduzione 120
2. Il contenuto degli accordi 122
2.1 Premio di Risultato e intéressement: strumenti per il rilancio della produttività in Italia e in Francia 124
Capitolo IV Osservazioni conclusive 127 BIBLIOGRAFIA 130
CAPITOLO I
Posizione del problema
Sommario: 1. Introduzione. 2. Produttività del lavoro e contrattazione aziendale in Italia: prospettive di intervento; 3. Le sfide del sistema economico e produttivo francese; 4. Oggetto della ricerca; 5. Domande di ricerca; 6. Metodologia della ricerca
1. Introduzione
Il tema del costo del lavoro e del suo disallineamento rispetto ai livelli di produttività è un argomento di notevole rilevanza, oggetto di attenzione sia da parte degli attori del sistema di relazioni industriali, che con esso si confrontano costantemente nella prospettiva di rendere il sistema più competitivo, sia della letteratura economica e giuridica. Tema che accomuna due sistemi industriali – quello italiano e quello francese – tra i quali, come già sosteneva Xxxxx Xxxxxx, «non c’è niente in comune, o quasi, nonostante si tratti di Paesi le cui culture giuridiche sono molto vicine»1.
In Italia, parte della dottrina attribuisce la responsabilità di tale disallineamento al modello contrattuale introdotto nel nostro Paese ormai più di 20 anni fa, nella convinzione che esso avrebbe innescato un rapporto negativo tra produttività e salari reali. Si tratta, più precisamente, del modello contrattuale multilivello, nazionale e aziendale, introdotto dal Protocollo Ciampi-Giugni del ’93, che di fatto accentua il carattere centralizzato-nazionale del sistema di contrattazione2e vara una politica dei redditi basata in prima ed ultima istanza su una dinamica retributiva in linea con un’inflazione programmata concertata fra Governo e parti sociali, da rispettarsi per l’intero universo del lavoro dipendente3.
1 X. XXXXXX, La riforma del contratto collettivo in Francia. Riflessioni sulle trasformazioni del diritto, in DLRI, II, 2005, p. 155.
2 Secondo C. DELL’ARINGA, L’accordo di luglio 1993 e gli effetti sul costo del lavoro: le prime verifiche, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali, anno 103, n.3, luglio-settembre 1995, pp. 504-505, «non vi è dubbio che il pivot di tutto l’assetto istituzionale relativo alla determinazione del salario sia rimasto il contratto collettivo nazionale [..]. Il contratto nazionale dovrà determinare aumenti retributivi coerenti con il tasso programmato di inflazione, ma è anche vero che non si esclude, in linea di principio, che il contratto collettivo possa distribuire almeno parte degli aumenti di produttività che il settore è in grado di realizzare».
3 X. XXXXXXX, Il lungo cammino per Xxxxxxxx della rappresentatività sindacale: dal Tit. III dello Statuto dei lavoratori al Testo Unico sulla Rappresentanza 10 gennaio 2014, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 205/2014.
Solo a distanza di molti anni, con l’Accordo interconfederale del 2009, istitutivo delle
c.d. “clausole d’uscita”, viene avviato un percorso di valorizzazione della contrattazione decentrata e di flessibilizzazione dei trattamenti economici e normativi. Accordo al quale si sono succeduti ulteriori interventi finalizzati ad una maggiore autonomia della contrattazione di secondo livello, frutto non solo dell’autonomia collettiva, ma anche della legislazione nazionale, quali l’art. 8 della legge 148/2011, istitutivo di quella che è stata definita una “flessibilità controllata” a favore della c.d. contrattazione di prossimità (aziendale e territoriale), e il Jobs Act, rectius l’art.51 del d.lgs. 81 del 2015, che sembra instaurare implicitamente un principio di piena fungibilità tra i due livelli di contrattazione. L’ultima riforma giuslavoristica, invece, promossa da un decreto-legge dalle dubbie caratteristiche di necessità e urgenza, il d.l.
n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018 il 12 agosto 2018, non dedica particolare attenzione al tema della contrattazione collettiva, ma anzi sembra dimenticarne il ruolo e la valenza all’interno dell’odierno mercato del lavoro. Le novità più rilevanti, inerenti alla disciplina del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione, non saranno oggetto di analisi, ma vale la pena sottolineare come la nuova normativa non abbia di fatto modificato l’impianto concettuale del sistema di relazioni industriali riconosciuto e regolamentato dal legislatore del 2015.
Ad ogni modo, sono lontani i tempi in cui dottrina e giurisprudenza discutevano circa la collocazione da attribuire al contratto aziendale nel sistema delle fonti negoziali, quando
«all’esigenza di contemperare pretese particolaristiche ed efficienza del sistema, si rispose privilegiando lo strumento del contratto di categoria, con la conseguenza di trascurare ogni possibile diramazione a livello aziendale degli interessi collettivi da tutelare»4. Oggi, invece, è sempre più forte la convinzione che il contratto aziendale possa essere l’imprescindibile sede della «peculiare rilevanza degli interessi collettivi protetti a livello d’impresa»5, riconosciuto come tale dalla legge stessa e progressivamente anche dalle parti sociali.
La legge del 2015 ha difatti inaugurato un ricorso sistematico alla delega al CCNL e al contratto aziendale sottoscritto dalle rappresentanze sindacali in azienda (RSU o RSA), «libere di disporre della propria autonomia negoziale sul piano oggettivo»6, purché nominate
4 X. XXXXXXX, Contratto collettivo e contrattazione in azienda, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, p. 152.
5 Ivi, p. 156.
6 Per un approfondimento sul tema, Cfr. X. XXXXXXXXXX, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel d.lgs. 81/2015, in DRI, 2, p. 386.
nell’ambito delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale7, inaugurando però, secondo alcuni8, una «neo-contrattualizzazione del diritto contemporaneo» che, capovolgendo la gerarchia dei soggetti produttori di norme giuridiche, capovolge la gerarchia stessa delle fonti, facendo così dell’interesse aziendale l’interesse generale.
Le parti sociali (rectius, Confindustria, CGIL, CISL e UIL), dal canto loro, hanno sottoscritto, in data 12 marzo 2018, un importante Accordo interconfederale, noto come Patto della Fabbrica, ponendosi come obiettivo quello di «ammodernare il sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva»9, di fatto mantenendo però un impianto “classico” degli assetti contrattuali, in cui il contratto collettivo nazionale di categoria si conferma quale
«fonte di regolazione dei rapporti di lavoro e garante dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore». Non solo: al CCNL viene affidato il compito nuovo di individuare, oltre al c.d. trattamento economico minimo (TEM), anche l’inedito trattamento economico complessivo (c.d. TEC), in cui sono da ricomprendere «le eventuali forme di welfare che il CCNL qualificherà come comuni a tutti i lavoratori del settore». Per la prima volta, dunque, il welfare entra a far parte della dialettica tra le parti sociali a livello interconfederale e gli viene attribuita una collocazione nazionale, a riconoscimento dell’importante ruolo che trattamenti economici “altri” rispetto ai minimi tabellari e ai c.d. premi di risultato possono ricoprire in un moderno sistema salariale, adattato e adatto alle dinamiche del mercato di riferimento10. Perplessità sul punto non sono però inopportune, se si considera che,
7 Definita tale formula del sindacato comparativamente più rappresentativo un’«escogitazione linguistica intelligente e feconda» da Xxxx Xxxxxx, essa è adottata in funzione di contrasto al fenomeno dei contratti collettivi cd. pirata, negoziati e firmati da sindacati privi di una reale rappresentatività al fine di creare un’alternativa rispetto al contratto collettivo nazionale di lavoro. Sul punto, ai fini di un approfondimento, Cfr. X. XXXXXXXXXX, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel d.lgs. 81/2015 cit., p. 390.
8 X. XXXXXX, L’aziendalizzazione nell’ordine giuridico-politico del lavoro, in Lavoro e Diritto, 2, primavera 2013, pp. 216-218.
9 Il fine, si legge nel testo dell’accordo, è «contribuire fattivamente alla crescita del Paese, alla riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, alla crescita dei salari, al necessario miglioramento della competitività attraverso l’incremento della produttività delle imprese, al rafforzamento dell’occupabilità delle lavoratrici e dei lavoratori e alla creazione di posti di lavoro qualificati».
10 X. XXXX, La IV Rivoluzione industriale tra trasformazioni del lavoro, tendenze della contrattazione collettiva, nuove esigenze di tutela. La contrattazione collettiva in Europa, in DRI, 2, 2018. L’Autore ritiene che il livello contrattuale nazionale abbia in realtà cambiato funzione, mantenendo un ruolo tendenziale (solo) di garanzia dei trattamenti economici di base. Le dinamiche salariali aggiuntive tendono invece a essere riservate alla contrattazione aziendale e vengono strettamente legate alle vicende aziendali, in particolare a indicatori variabili di risultato, produttività, qualità, innovazione, ecc. Del resto, il silenzio dell’art. 36 Cost. sull’articolazione e sulla struttura delle voci della retribuzione significa che la definizione degli elementi del trattamento economico complessivo deve essere necessariamente demandata alla contrattazione quale «strumento naturale» (Sul punto Cfr. X. Xxxxxxx, Retribuzione e assetto della contrattazione collettiva, in RIDL, I, 2010, p. 693 ss).
relativamente a ruolo e funzioni della contrattazione nazionale oggi, «le imprese tendono a disconoscerne la funzione salariale»11, essendo intervenute già da tempo in materia di retribuzione variabile e piani di welfare12, spinte indubbiamente anche delle incentivazioni statali in materia degli ultimi anni.
Anche in Francia scarsa produttività ed elevato costo del lavoro sono da più parti attribuite alla rigidità del sistema di relazioni industriali; rigidità imputabile però ad altri fattori, in primis alla forte centralizzazione, che per decenni ha impedito alle imprese (in particolare a quelle di piccole e piccolissime dimensioni) di adeguare salari e relativi costi a situazioni specifiche e contingenti, specialmente in periodi di recessione13.
Il sistema di contrattazione collettiva ha dapprima sperimentato il paradosso di una crescente complessità (in particolar modo delle regole della rappresentanza), accompagnata da una contemporanea perdita di potere delle parti sociali stesse, che quel complesso sistema dovevano essere in grado di governarlo14; poi, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, numerosi interventi legislativi – culminati con la “riforma Macron” del 2017 - si sono succeduti al fine e di istituzionalizzare la prassi del dialogo sociale e di garantire un miglioramento del sistema di contrattazione collettiva, riconoscendo di fatto priorità al contratto aziendale su alcune materie, rispetto a quello di settore (c.d. multi-employer)15. Gli obiettivi di semplificazione normativa e di restringimento della legislazione statuale divengono preponderanti e le ultime novità introdotte, finalizzate ad un consolidamento della negoziazione collettiva anche nelle piccole realtà produttive, ne rappresenta un’evidenza; se non fosse - a parere di chi scrive - che si sia dato forse per scontato che direzioni aziendali e rappresentati dei lavoratori, da sempre esclusi da dinamiche negoziali e contrattuali simili, fossero pronte ad affrontare un simile cambiamento, garantendo un sistema contrattuale equilibrato e in grado di reggere le sfide imponenti dell’economia contemporanea. Tuttavia, non manca chi giudica tali
00 X. XXXXXX, Xxxxx prassi e le tendenze delle relazioni industriali decentrate in Italia (a proposito di un'indagine territoriale), in DRI, 1, 2017, p. 15.
12 ADAPT, La contrattazione collettiva in Italia (2017) e La contrattazione collettiva in Italia (2018), rispettivamente IV e V Rapporto ADAPT, ADAPT University Press, 2017, 2018.
13 Per un’analisi più approfondita Cfr. IMF Country Report Xx. 00/000, Xxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxx 0000. 14 A. XXXX, X. XXXXXX, Decentralized collective bargaining in France, in Economia & Lavoro, gennaio-aprile 2014, p. 42.
15 T. XXXXXXX, X. POUTVAARA, Labour Market Reforms and Collective Bargaining in France, in Ifo DICE Report, vol. 16, n.4, 2018, pp. 44-4; X. Xxxxxxx, Il contratto collettivo aziendale al xxxxxx xxx xxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxx xxxxx xx Xxxxxxx, in DLRI, 146, 2015, pp. 318 ss.
cambiamenti alla stregua di un indietreggiamento del c.d. «statuto collettivo»16francese a vantaggio di una regolamentazione d’impresa, ampiamente sottoposta all’influenza del datore di lavoro e chiaramente sostenuta dai vertici europei, piuttosto che come un’opportunità.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) non ha mancato di sottolineare, nel suo “Employment Outlook” per l’anno 2018, le crescenti preoccupazioni relative alla capacità della contrattazione collettiva di contribuire ad un miglior funzionamento del mercato del lavoro e ad una c.d. crescita inclusiva, alla luce delle evoluzioni che hanno interessato diversi Paesi - tra cui anche la Francia e l’Italia - nell’ultimo decennio. I sistemi di relazioni industriali si trovano, difatti, a dover affrontare sfide importanti che sono la diretta conseguenza non solo di una tendenza generalizzata al decentramento contrattuale, ma anche dei progressi tecnologici e del contesto globale di concorrenza nel quale le imprese si trovano ad operare. L’analisi propone una differenziazione dei sistemi di contrattazione basata su quattro aspetti: a) il livello di copertura della contrattazione collettiva; b) il livello di contrattazione al quale gli accordi vengono negoziati; c) il ruolo del coordinamento della contrattazione salariale a livello nazionale o aziendale; d) il grado di flessibilità di cui le imprese godono per derogare a quanto già stabilito ad un livello più alto di contrattazione. Rispetto a quest’ultimo parametro, individua tre tipologie di sistemi di relazioni industriali: 1) centralizzati, in cui le imprese hanno un ridottissimo margine di manovra; 2) pienamente decentralizzati, dove l’unico livello di contrattazione è quello aziendale; 3) decentralizzati in maniera controllata, in cui al livello nazionale di contrattazione spetta il compito di fissare le condizioni generali di lavoro, rimettendo alla contrattazione di secondo livello la disciplina di dettaglio. Ciò che l’analisi giunge a dimostrare, sfruttando e analizzando un folto set di dati micro e macroeconomici relativi ai diversi Paesi dell’OCSE, è come i salari dei lavoratori disciplinati dalla contrattazione aziendale siano più alti rispetto a quelli coperti solo dalla contrattazione di categoria (c.d. wage premium). In più, nei sistemi di contrattazione collettiva definiti coordinati – a cui sia l’Italia che la Francia sono ascrivibili – risulta presente un tasso di occupazione più alto rispetto a quelli pienamente decentralizzati, caratterizzati da una maggiore dispersione salariale, che è invece fortemente ridotta tra i lavoratori occupati in settori coperti dalla contrattazione collettiva di categoria. Sulla base di queste considerazioni, lo studio
16 L’espressione si ritrova in F. XXXX, Lo «statuto collettivo» nel diritto francese: quali prospettive? cit., pp. 730- 731, e si riferisce a quell’insieme di regole professionali non statali, frutto di negoziazione e dotate di efficacia erga omnes.
giunge alla conclusione per cui, seguendo il processo di decentramento che molti Paesi stanno intraprendendo (o hanno già intrapreso), un sistema caratterizzato da un decentramento contrattuale controllato sia in grado di garantire buoni livelli di occupazione, migliori risultati in termini di produttività e salari più alti per i lavoratori. Al contrario, forme di decentramento che semplicemente (e semplicisticamente) sostituiscono il livello nazionale di contrattazione con quello aziendale, tendono a riflettere risultati peggiori del mercato del lavoro, confermando di fatto quanto parte della dottrina, anche internazionale, sostiene, per cui i sistemi coordinati di contrattazione multilivello risultano maggiormente in grado di mitigare le esternalità negative derivanti dalla volatilità dei mercati, adottando disposizioni che infondono sicurezza tanto nei lavoratori quanto per le imprese17. È in quest’ottica che la contrattazione collettiva potrebbe dunque contribuire ad una maggiore integrazione nel mercato del lavoro, a patto che goda di un’elevata percentuale di rappresentatività e sia in grado di interpretare i cambiamenti che costantemente interessano lavoratori, aziende e il mercato del lavoro in generale. Non dimenticando, inoltre, l’importanza di promuovere il dialogo sociale anche nelle piccole imprese e a favore dei lavori c.d. non-standard18, onde evitare che la contrattazione collettiva rimanga sempre confinata nell’universo delle medie e grandi imprese, che peraltro rappresentano la minoranza del tessuto produttivo sia italiano che francese.
Ad ogni modo, è evidente come la questione dell’efficienza e della funzionalità dell’intero sistema di relazioni industriali rispetto alla competitività del sistema produttivo e alla tutela degli interessi e diritti dei lavoratori, sia incentrata (ancora) sul raggiungimento di un perfetto equilibrio tra i due livelli che compongono il sistema contrattuale, sia italiano che francese.
2. Produttività del lavoro e contrattazione aziendale in Italia: prospettive di intervento
Con la crisi economica mondiale iniziata nel 2008, anche i vertici europei hanno avviato una campagna di promozione della contrattazione collettiva aziendale, nella convinzione che essa rappresenti uno strumento imprescindibile per il raggiungimento di una maggiore
17 X. XXXXXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXX, Negotiating the effects of uncertainty? The governance capacity of collective bargaining under pressure, in Transfer, vol. 20(1), 2014.
18 Nella proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’UE del 21 dicembre 2017, definisce include nella definizione di non-standard works anche il tempo parziale a tempo indeterminato e il tempo pieno e parziale a tempo determinato.
flessibilità del mercato e del rapporto di lavoro, nonché per un rilancio della produttività e una riduzione delle disuguaglianze, in primis salariali, dovute all’interruzione di quella tendenza alla restrizione dei ventagli retributivi e reddituali che ha caratterizzato gli anni ascrivibili alla
c.d. Terza Rivoluzione industriale19.
La crisi stessa, dunque, non ha lasciato esenti dalle sue ricadute i sistemi di relazioni industriali, oggetto di attente valutazioni e di una profonda rivalutazione di quello che è il loro strumento di regolazione tipico, i.e. la contrattazione collettiva. E l’Unione Europea, che prima di allora non aveva mai interferito in tematiche concernenti le politiche salariali o la contrattazione collettiva (se non per promuovere tra i suoi Paesi Membri principi fondamentali basilari quali la libertà di associazione e l’autonomia delle parti sociali), nel pieno della crisi economica e anche successivamente, cambia drasticamente la sua posizione, avanzando proposte e osservazioni sul tema.
Il Consiglio Europeo, nelle Raccomandazioni degli anni 2017 e 2018, ha evidenziato come l’Italia presenti ancora «squilibri macroeconomici eccessivi» e come «la contrattazione di secondo livello non sia ampiamente utilizzata, ciò rappresentando un ostacolo all'allocazione efficiente delle risorse e alla reattività delle retribuzioni alle condizioni economiche locali». Tutto questo, si legge nella Raccomandazione, «è dovuto anche al quadro normativo e alle prassi vigenti in materia di contrattazione collettiva, che comportano incertezza nelle relazioni industriali e lasciano poco margine per la contrattazione a livello locale».
L’ultima fotografia del Paese, scattata dall’INPS nel suo XVIII Rapporto annuale, pubblicato il 10 luglio 2019, mostra come la quota maggiore delle disuguaglianze retributive sia da attribuire agli elementi individuali del salario, vale a dire a quelle differenze nelle caratteristiche dei lavoratori e nei premi salariali associati a tali caratteristiche. Le politiche salariali d’impresa, invece, fanno registrare una dispersione molto meno marcata, generando circa il 16-17% della varianza dei salari, a dimostrazione che le imprese hanno un margine relativamente ridotto nel determinare la struttura salariale. Se la teoria economica suggerisce che al salario debba corrispondere uno specifico livello di produttività del lavoro, nella realtà ciò viene influenzato da numerosi fattori, tra cui anche la presenza di un sistema di
19 X. XXXXX, Le trasformazioni del lavoro nelle Rivoluzioni industriali, in (a cura di) XXXXXXXX A., GRAMOLATI A., MARI G., Il Lavoro 4.0: la Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze University Press, 2018, p. 369.
contrattazione collettiva nazionale dei salari, che - come noto - caratterizza tanto l’Italia quanto la Francia. Governo e parti sociali, d’altronde, sono concordi nel ritenere che tale disallineamento tra costo del lavoro e produttività necessiti di un piano urgente e ben strutturato di risoluzione, considerando a tal fine strategico legare il salario alla produttività attraverso la promozione della contrattazione collettiva aziendale. In dottrina, invece, frequente è l’osservazione per cui tale provvedimento da solo non sia sufficiente, ma occorra piuttosto creare meccanismi condivisi che incrementino la fiducia dei lavoratori sull’utilità e la trasparenza dello strumento al fine di evitare che l’assenza di mezzi di controllo e reale partecipazione alle scelte in favore dei lavoratori, possa trasformare la «partecipazione alla produttività» in «partecipazione al rischio»20.
Gli interventi normativi succedutisi negli ultimi anni sul tema, le diverse misure di defiscalizzazione degli aumenti salariali legati alla produttività e gli ormai numerosi studi di carattere empirico sul tema, non si sono rivelati ancora in grado di promuovere un ricorso alla contrattazione di secondo livello soddisfacente, soprattutto nell’universo delle piccole e medie imprese. Il Fondo Monetario Internazionale, in una dichiarazione del 12 giugno 2017, scrive a chiare lettere che la sfida principale per l’Italia risulta essere ancora quella relativa all’aumento dei livelli di produttività, essendo necessari a tal fine sforzi più ambiziosi dal punto di vista delle politiche da attuare. A distanza di due anni, i moniti non sono cambiati e nell’ultimo Country Report del 201921, il FMI insiste nel suggerire politiche di decentramento della contrattazione salariale, al fine di allineare i salari ai livelli di produttività d’impresa.
Un’interessante prospettiva di analisi è anche quella che si propone di individuare i fattori che determinano la presenza di una contrattazione decentrata e la relazione che sussiste tra questa e il livello di produttività/competitività di un’xxxxxxx00, ponendo una lente di ingrandimento sull’insieme delle pratiche organizzativo-manageriali disciplinate a livello decentrato - come ad esempio le motivazioni che portano alla sottoscrizione di un contratto integrativo - piuttosto che su variabili non sempre adeguate, come quella concernente la
20 Tra tutti cfr. X. XXXXX, Retribuzione di produttività, flessibilità e nuove prospettive partecipative, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2014, 2. Per la Francia, XXXXX P., DORMONT B., Les effets d’incitation de l’intéressement: la productivité plutôt que l’emploi, in Economie et Statistique, n. 257, Septembre 1992.
21 IMF Country Report Xx. 00/00, Xxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxx 0000.
22 Cfr. X. XXXXX, X. XXXXXXXXXXXXX, X. XXXXX, Contrattazioni integrative aziendali e produttività: nuove evidenze empiriche sulle imprese italiane, WP Series –Num.1/2018. La ricerca è condotta sulla base della rilevazione Istat "sistema informativo sulla contrattazione aziendale" e della Banca Dati sviluppata attraverso integrazione di dati da indagine Istat e archivi amministrativi e fiscali.
presenza di un contratto collettivo integrativo anziché la sua introduzione. Un simile approccio empirico giunge a dimostrare come le determinanti della contrattazione aziendale siano rappresentate tanto da una buona performance passata, che induce la direzione d’azienda ad investire su questo strumento nella prospettiva di un ritorno economico importante, quanto dal tasso di sindacalizzazione della forza lavoro occupata, che non solo contribuisce a rendere esigibile il contratto, ma rappresenta anche una garanzia nei confronti dell’impegno organizzativo dei lavoratori rispetto ai processi di innovazione e cambiamento che le nuove pratiche negoziate implicano. La correlazione tra contrattazione decentrata ed efficienza produttiva viene concettualizzata non come un mero segnale di presenza-assenza di un accordo collettivo aziendale, ma come un processo di investimento di medio-lungo periodo riguardante un insieme di aspetti inerenti alle prestazioni professionali secondo una strategia win-win. Partendo da tale concettualizzazione e sulla base di evidenze empiriche, emerge come la produttività delle imprese aumenti al crescere di una variabile fattoriale che incorpora sia l’insieme (inteso come numero) delle materie negoziate, sia l’intensità di ognuna di esse, mentre in termini di contenuti, il ricorso ad indicatori c.d. output-oriented (i.e. presenteismo, assenteismo, inquadramento professionale), a discapito di quelli c.d. input-oriented, quali ad esempio l’apprendimento di competenze sia tecniche che trasversali, appare notevole. Il rischio è dunque quello di una distorsione del fine, promosso fin dai tempi del Protocollo Giugni del 23 luglio 1993, di un maggiore coinvolgimento e di una partecipazione attiva dei lavoratori alla strategia aziendale, a dimostrazione del fatto esso potrebbe richiedere un intervento più strutturale e lungimirante dello Stato (imprenditore, erogatore e regolatore), altro rispetto alla semplice detassazione di una porzione del salario accessorio.
3. Le sfide del sistema economico e produttivo francese
Le criticità che il dibattito socio-economico francese giudica ad oggi come le più allarmanti ed urgenti non sono poi così lontane da quelle che interessano l’Italia ormai da anni. Penuria di investimenti in nuove tecnologie e ricerca e sviluppo, assenza di un sistema strutturato ed efficiente di formazione iniziale e continua, rigidità del mercato del lavoro sono considerate le cause principali di una produttività del lavoro che cresce a ritmi rallentati ormai dagli anni ’70 e di una percentuale di disoccupazione strutturale che a fatica si mantiene intorno ad un 9%.
Nel tentativo di fornire una spiegazione a tali criticità, il Commissario aggiunto presso France Strategie23, Xxxxxxx Xxxxxxxx, individua tre chiavi di lettura. La prima, nella prospettiva della new economy e della digitalizzazione, ricollega il problema della lenta crescita economica a probabili errori nella misurazione della stessa, in parte dovuti anche agli stravolgimenti apportati da quella che i francesi chiamano l’“économie numérique”. È ad oggi dibattuto, infatti, quanto le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione contribuiscano realmente alla crescita economica e quanto il verosimile rallentamento strutturale del contributo del progresso tecnologico sia esplicativo anche del rallentamento della crescita della produttività. La crescita del cd. capitale immateriale, dunque, fa del come e dove misurare la produttività la sfida del futuro, a conferma di quanto brillantemente evidenziato da J.A. Shumpeter24già nel 1911, secondo il quale «la rivoluzione tecnologica non ha solo cambiato la tecnologia di produzione di beni e servizi, ma ha cambiato anche e soprattutto la tecnologia di produzione delle idee». La seconda chiave di lettura analizza la questione prendendo in considerazione la quantità di «investimenti intangibili»25, quelli cioè finalizzati alla formazione dei dipendenti e/o della futura forza lavoro, che il Paese ha messo in campo tenendo conto del nuovo e costante bisogno delle imprese di avere lavoratori con forti competenze in campo digitale. Come evidenziato anche dall’OCSE, infatti, il problema del rallentamento della produttività in Francia è strettamente connesso a quello di riallocazione efficiente delle risorse, considerato che, seppur in grado di formare lavoratori qualificati e specializzati, il Paese mostra forti criticità nella capacità di collocare quegli stessi lavoratori in un contesto lavorativo che sia coerente con le competenze da essi acquisite. Infine, la terza ed ultima chiave di lettura, ipotizza che sia la natura altamente rischiosa degli investimenti in ricerca e sviluppo la causa principale del ritardo del Paese nell’implementazione di nuove tecnologie nel processo di produzione contemporaneo.
Dello stesso taglio, d’altronde, sono anche le considerazioni emerse dalle analisi condotte dalla Commissione Europea26, in virtù delle quali rigidità del mercato del lavoro, skills-
23 F. LENGLART, Intervento nell’ambito della Conferenza “Productivité: une énigme française?”, organizzata da France Strategie, a Parigi, il 1° febbraio 2017.
24 J.A. XXXXXXXXX, Teoria dello sviluppo economico. Introduzione di P. Sylos Labini, G.C. Sansoni Editore, Firenze, 1977.
25 Espressione utilizzata da Xxxxxxxx Xxxxxxxx, directeur de recherche presso il CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique), nell’ambito Conferenza “Productivité: une énigme française?”, organizzata da France Strategie, a Parigi, il 1°febbraio 2017.
26 European Commission, Country Report France 2018, SWD (2018)208 final; European Commission, Country Report France 2019, SWD (2019)1009 final.
mismatch ed elevato numero di imprese di piccole e piccolissime dimensioni sarebbero tra le cause della debolezza del sistema produttivo francese.
Le sfide sulle quali il Paese si ritrova a dover concentrare investimenti economici e riforme strutturali, dunque, vertono essenzialmente su quelle che il Governatore della Banca di Francia, Xxxxxxxx Xxxxxxxx xx Xxxxxx, ha definito «le quattro “e”»: Entreprise, Education, Emploi, État (i.e. Impresa, Istruzione, Occupazione, Stato). La risposta del legislatore è stata quella di un pacchetto di riforme volto a fornire alle imprese i mezzi necessari per ovviare alle mancanze evidenti del sistema, rilevate anche dai vertici europei. Non a caso la legge 2018-771 del 5 settembre 201827, di riforma dell’apprendistato e dei canali di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, è stata descritta dal Ministro del Lavoro Xxxxxx Xxxxxxxx, come il «secondo atto dell’impegno profuso dal governo per il rinnovamento del modello sociale francese», il cui primo atto è rappresentato dalle ormai celebri ordonnances, finalizzate a riformare (anche) il sistema di contrattazione collettiva in chiave sussidiaria e a valorizzare l’autonomia privata a livello aziendale. L’intento dichiarato della riforma sarebbe quello di promuovere un decentramento più spinto della contrattazione collettiva, coordinato da un contratto collettivo di settore che è chiamato ad ampliare gli spazi demandati alla contrattazione aziendale, dove questa è presente, ovvero a svolgere attività di sostegno e servizio per le imprese di dimensioni minori volta a diffondere la cultura negoziale attraverso concreti modelli negoziati dalle organizzazioni di settore da adattare/adottare a livello di impresa.
4. Oggetto della ricerca
L’Italia e la Francia presentano ancora non poche contraddizioni all’interno dei rispettivi sistemi di relazioni industriali.
Da una parte l’Italia, nel pieno di un fenomeno di decentramento contrattuale in parte accettato e promosso anche dalle XX.XX. maggioritarie, che risulta essere non solo uno dei Paesi dell’area euro con la percentuale più alta di copertura della contrattazione collettiva
27 La legge 2018-771 del 5 settembre 2018, denominata “Loi pour la liberté de choisir son avenir professionnel”, riconosce l’apprendistato (in primis di quello che in Italia si configura come apprendistato di I livello) quale mezzo attraverso il quale favorire lo sviluppo delle competenze richieste dal mercato del lavoro e garantire a ciascuno la possibilità di scegliere il proprio avvenire professionale, nella convinzione che sviluppo economico e crescita della produttività siano strettamente connesse con il mondo dell’istruzione e della formazione.
nazionale28, ma conosce addirittura un proliferare patologico di contratti collettivi nazionali, negoziati e poi firmati da sindacati e associazioni imprenditoriali minori29. Contratti nazionali che, al netto delle differenze nel grado di autonomia concessa al secondo livello di contrattazione, stabiliscono i livelli minimi retributivi di ciascun settore, rispetto ai quali il contratto aziendale può solo stabilire il pagamento di retribuzioni aggiuntive, ma non ridurli né rimodularli30.
Dall’altra parte la Francia, parimenti coinvolta in un processo di valorizzazione del contratto aziendale, finanche a livello di imprese di piccole dimensioni, storicamente prive di rappresentanze sindacali. Lo stesso sistema di rappresentanza, c.d. a “doppio canale”, nonché il basso radicamento e tasso di sindacalizzazione delle organizzazioni sindacali, dovuto anche ad un tessuto produttivo ricco di piccole e medie imprese, non facilita per il management aziendale e le stesse rappresentanze dei lavoratori a trasformare in opportunità le sfide inedite che si trovano a dover affrontare. Il numero dei contratti collettivi nazionali, d’altra parte, può dirsi altrettanto elevato, seppur a fronte di un maggior grado di decentramento settoriale della contrattazione nazionale, sottoscritta a livello di comparto o sub-settore. Resta comunque il fatto che le dinamiche salariali, oggetto di interventi tanto legislativi (per la presenza del c.d. SMIC – Salaire Minimum Intérprofessionnel de Croissance) quanto contrattuali centrali, resta appannaggio di quest’ultima forma di negoziazione.
Tutti questi fattori, assieme al ruolo e alla strategicità riconosciuti alla contrattazione aziendale e ai rapporti del management con la controparte sindacale, saranno presi come parametri di giudizio ai fini di un’indagine empirica all’interno dell’azienda Trelleborg Coated Systems SpA, rispetto alle sue realtà italiana e francese. Abbracciando la convinzione di Xxxx Xxxxxx per cui «il punto di partenza di ogni indagine sul contratto collettivo debba essere costituito da un’indagine empirica, diretta a rilevare la configurazione della fattispecie nella concretezza dei rapporti sociali»31.
28 ECB, Wage adjustment and employment in Europe: some results from the Wage Dynamics Network Survey, in
Economic Bullettin, 2017, n.1.
29 X. XXXXX, I contratti nazionali: quanti sono e perché crescono, in DLRI, 2016, n. 151, pp. 417-436; X. Xxxxxxxxxx, Arginare la piaga dei contratti pirata, in Bollettino ADAPT, 2014, n.4; X. XXXX, Note sui contratti collettivi “pirata”, in RIDL, 1997, I, pp. 381 ss.
30 D’AMURI F., XXXXX R., I recenti sviluppi delle relazioni industriali in Italia, in DRI, n. 2/XXVIII, 2018, pp. 599-600.
31 X. XXXXXX, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in “Atti del Terzo Congresso Nazionale di diritto del lavoro sul tema il contratto collettivo di lavoro”: Pescara Teramo 1-4 giugno 1967, p. 12.
Prendendo le mosse da tali premesse teoriche, l’oggetto della ricerca vuole dunque essere l’analisi del ruolo della contrattazione collettiva di secondo livello - e in particolar modo di quella aziendale - negli attuali sistemi di relazioni industriali italiano e francese, vagliando come essa possa, concretamente e in maniera sempre più incidente, rappresentare uno strumento imprescindibile per la crescita della competitività con effetti positivi anche sulla forza lavoro. Ciò in forma complementare e non alternativa alla tradizionale funzione di tutela e di regolazione della concorrenza, svolta dalla contrattazione nazionale nel nostro Paese e in Francia.
Parlare di produttività e contrattazione collettiva nell’accezione alta del significato, non significa affatto prestare il fianco a un ideale di gestione della forza lavoro ispirato alla mera logica del profitto, in termini dunque di contrattazione concessiva e al ribasso. La via alta della produttività del lavoro che in questo studio si intende esplorare è quella in cui il contratto collettivo nel definire modelli organizzativi e gestionali ad alto impatto produttivo, non arretri rispetto alla funzione solidaristica e di giustizia sociale. Obiettivo, infatti, è anche dimostrare come interventi di welfare aziendale e change management possano e spesso debbano passare dalla sottoscrizione di accordi aziendali e come, dunque, questi ultimi possano effettivamente fungere da volano della produttività tout court. La natura ambivalente del contratto collettivo è del resto quella che lo concepisce in termini di regolazione della concorrenza sia tra imprese che tra lavoratori, nella prospettiva di impedire e non favorire dinamiche di race to the bottom nei processi di regolazione e governo del mercato del lavoro. È questa via alta alla produttività che, del resto, ha fatto la fortuna di alcuni modelli di relazioni industriali come ad esempio quello tedesco, che pure oggi mostra segnali di erosione proprio in ragione del venir meno della funzione solidaristica del contratto collettivo.
Il modello di riferimento sarà il caso Trelleborg Coated Systems SpA, analizzando, in termini comparativi, i suoi siti italiano e francese. La Trelleborg AB è un’azienda leader nel settore dell’ingegneria del polimero, specializzata nella produzione di componenti in gomma finalizzati ad applicazioni disparate che vanno dal settore aerospaziale a quello degli pneumatici e macchine agricole. L’organizzazione aziendale risulta particolarmente complessa, non solo per le diverse linee produttive esistenti, che fanno capo ognuna ad altrettante Business Area, ma anche in virtù di una forte decentralizzazione voluta e promossa dagli stessi vertici aziendali.
Lo stabilimento di Lodi Vecchio, in particolare, produce tessuti in gomma finalizzati ad applicazioni per la stampa ed è entrato a far parte del Gruppo svedese solo nel 2006 in seguito ad acquisizione. La Trelleborg Coated Systems di Lodi Vecchio rappresenta l’headquarter di una delle 5 Business Area del gruppo, ma nonostante tale notevole caratteristica, paga in un certo qual modo la precedente gestione aziendale di forte stampo paternalistico, che ha lasciato segni tuttora evidenti. L’interesse palesato dall’azienda, dunque, è quello di intervenire in maniera radicale su tale aspetto, oltre che sui livelli di produttività del sito, nella convinzione che il confronto sindacale e la contrattazione aziendale rappresentino la chiave di volta attorno alla quale costruire una nuova realtà aziendale più produttiva non solo in termini di fatturato, ma in primis di risorse umane.
Lo stabilimento di Mirambeau, nella provincia di Bordeaux, invece, rappresenta una piccola realtà produttiva con meno di 50 dipendenti, che si trova a dover far fronte ai cambiamenti normativi imposti dalle ultime riforme del lavoro senza una preparazione godere neanche della professionalità e del conseguente contributo di un Responsabile Risorse Umane, per ovvie ragioni legate alla grandezza del sito e al suo peso all’interno della Business Area. La sfida, dunque, è (anche) quella di comprendere e implementare i cambiamenti introdotti in materia di relazioni industriali e istanze rappresentative del personale, cogliendone le opportunità in termini di contrattazione collettiva e di costruzione condivisa di un nuovo modello di confronto e negoziazione in azienda.
5. Domande di ricerca
X. Xxxxxx e X. Kimball32sostengono che l'allineamento tra salari e produttività rappresenti l’indicatore fondamentale nella tenuta del patto sociale che ha caratterizzato le economie occidentali del Novecento industriale. Gli Autori analizzano le cause e gli effetti della rottura di tale ordine giuridico, economico e sociale, adottando la prospettiva rousseauiana del contratto sociale e interrogandosi sulle modalità attraverso cui, nell'ottica delle relazioni industriali, poter ricucire i profondi strappi del tessuto sociale e fondare un nuovo patto per il futuro del lavoro che sia in grado di garantire uno sviluppo sostenibile. Partendo da un tale assunto, il presente elaborato si propone di rispondere ad una serie di interrogativi relativi al
32 T. A. XXXXXX, X. XXXXXXX, Unions, Worker voice and Management Practices: Implications for a High Productivity-High Wage Labour Policy, MIT Xxxxx School of Management and Institute for Work and Employment Research, 2018.
ruolo che riveste oggi la contrattazione collettiva aziendale nel tessuto produttivo e nel contesto giuridico-economico attuale, italiano e francese.
Può il contratto collettivo aziendale rappresentare lo strumento più idoneo a ricucire quel patto sociale? Le riforme giuslavoristiche che hanno interessato i sistemi di relazioni industriali italiano e francese stanno andando in direzione di una contrattazione di qualità?
Su quali elementi la contrattazione decentrata può influire al fine di ottenere una maggiore efficienza del sistema produttivo e un contenimento del costo del lavoro che non sia solo puro profitto e dividendo degli azionisti?
E ancora, quanto il rapporto tra management aziendale e rappresentanze sindacali può dirsi fondamentale per la promozione di un diritto delle relazioni industriali che sia strumento di gestione delle risorse umane?
6. Metodologia della ricerca
Allo scopo di dare una risposta ai quesiti che sono alla base della ricerca, il primo approccio metodologico è rappresentato dall’analisi della letteratura, italiana e francese, sul tema del decentramento contrattuale, al fine di comprendere l’evoluzione del fenomeno e scandagliare le differenze e le analogie che caratterizzano i due Paesi oggetto di comparazione.
L’analisi della letteratura si propone altresì di giustificare, sul piano epistemologico, i motivi per cui si possa concettualizzare la contrattazione collettiva nell’ottica della produttività del lavoro. La ricognizione e le riflessioni condotte riguardano, in particolar modo, l’evoluzione normativa in tema di decentramento contrattuale e le conseguenti reazioni degli attori del sistema di relazioni industriali, in Italia e in Francia.
Per tutto il periodo della ricerca, lo scrivente è stato impegnato in un’attività di internship all’interno della funzione Human Resources dell’azienda Trelleborg Coated Systems di Lodi Vecchio, occupandosi principalmente di consulenza giuslavoristica e relazioni sindacali.
Il presente lavoro adotta, quale metodologia di ricerca, la c.d. “osservazione partecipante”, consistente in una strategia di ricerca nella quale «il ricercatore si inserisce in maniera diretta e per un periodo di tempo relativamente lungo in un determinato gruppo sociale preso nel suo ambiente naturale, instaurando un rapporto di interazione personale con i suoi membri allo
scopo di descriverne le azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le motivazioni»33.
L’opportunità di inserimento nel contesto lavorativo di Lodi Vecchio ha infatti consentito, di accedere a dati sensibili relativi alla produzione, all’organizzazione e al costo del lavoro, nonché di consultare il ricco archivio di accordi aziendali sottoscritti nel corso degli ormai più di 50 anni di storia dello stabilimento. In particolare, vi è stato modo di partecipare alle riunioni tecniche mensili alla presenza della RSU, del Direttore di Stabilimento e dell’HR Manager, durante le quali la direzione è solita illustrare e condividere con la parte sindacale l’andamento produttivo del sito e dei KPI del premio di risultato di cui all’accordo integrativo, oltre che i dati relativi all’assenteismo e alla qualità del prodotto.
Grazie ad un ruolo ibrido assunto in azienda, che presuppone mansioni sia di sito che di Business Area, è stato possibile conoscere ed analizzare non solo la realtà produttiva italiana, ma anche quella francese, situata a Mirambeau, nella provincia rurale di Bordeaux, e parte del Gruppo Trelleborg (rectius della Business Area Coated Systems) dal 1990.
Alla luce di un’analisi già molto ricca della dottrina in tema di decentramento contrattuale, il metodo di ricerca del caso di studio, inteso quale “indagine empirica condotta attorno a fenomeni prevalentemente contemporanei laddove i confini tra il fenomeno e il contesto non sono nettamente evidenti, e in cui vengono utilizzate molteplici fonti di informazione”34, si propone di fornire nuovi elementi e dati ulteriori alle riflessioni in corso in tema di correlazione tra contrattazione collettiva aziendale e produttività del lavoro.
L’analisi dei contrati, infatti, aiuterà a rispondere alle domande poste alla base della ricerca alla luce di quanto già emerso dall’analisi dottrinale sul tema.
Per entrambe le realtà operative sono stati qui riportati e analizzati, alla luce del sistema di relazioni industriali che li contraddistingue a livello nazionale e aziendale, gli ultimi accordi collettivi sottoscritti, allo scopo di fornire un esempio pratico di gestione delle dinamiche industriali locali rispetto all’evoluzione della normativa giuslavoristica degli ultimi anni.
33 XXXXXXXXXX X., Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, pubblicato per la prima volta nel 1922 e poi edito dalla Bollati Boringhieri nel 2011, con traduzione di XXXXXX X., per la collana “I grandi pensatori”.
34 R. K. XXX, Lo studio di caso nella ricerca scientifica. Progetto e metodi, Xxxxxxx Editore, 2005.
CAPITOLO II LITERATURE REVIEW
Sez.I - Il ruolo della contrattazione collettiva aziendale nel sistema di relazioni industriali italiano
Sommario: 1. Introduzione – 2. Natura e funzione del contratto aziendale in Italia. – 2.1 Gli attori della contrattazione collettiva aziendale. – 3. L’evoluzione degli assetti contrattuali nel sistema di relazioni industriali promossa dalle parti sociali: l’Accordo separato del 2009 e l’Accordo del 2011 – 3.1 Intervento del legislatore e reazioni delle parti sociali: l’art. 8 della legge n. 148/2011 e le reazioni delle parti sociali – 3.2 Crisi economica e competitività del sistema produttivo: la proposta delle parti sociali e l’avallo del Governo– 4. Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 – 5. Evoluzione del mercato del lavoro e ultime riforme: il ruolo riservato alla contrattazione collettiva aziendale
1. Introduzione
L’analisi dell’evoluzione storica del sistema di contrattazione collettiva italiano può essere descritta come una costante oscillazione tra centralizzazione e decentramento (X. XXXXXX, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2014, p. 159), influenzata dalle diverse variabili del sistema di relazioni industriali, tra cui la struttura del sistema produttivo, la situazione del mercato del lavoro e l’andamento del ciclo economico, a livello non solo nazionale, ma globale. Il contratto collettivo aziendale, nello specifico, segna l’evoluzione delle relazioni collettive in Italia, essendo, per la sua indiscutibile reattività, il luogo «sul quale convergono i principali nodi interpretativi del diritto sindacale» (X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, in DLRI, 1 2012; X. XXXXXXX, La contrattazione aziendale con particolare riguardo al settore del credito, in AA.VV., Categorie professionali e contratti collettivi, NGL, 1990).
Il contratto collettivo aziendale, così come oggigiorno conosciuto, ha storia relativamente recente. Il suo ruolo di “polo dialettico” in ambito dottrinale è stato difatti oggetto di riconoscimento in tempi recenti, passando da «controsenso giuridico» per X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Xxxxx, norma collettiva e contratto aziendale, in DE, 1958, p. 486), secondo il quale non sarebbe «possibile conciliare il termine collettivo con quello aziendale»,
a «strumento atto a rinnovare, integrare, perfezionare la disciplina dei rapporti individuali di lavoro e dei rapporti collettivi» secondo una ricostruzione di X. Xxxxxxxxx (X. XXXXXXXXX, Il contratto collettivo di impresa, Xxxxxxx, Milano, p. 56); fino a giungere ad un’esaustiva constatazione di X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Introduzione a X. Xxxxxxx, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze: La Nuova Italia, 1956, p. 196), secondo il quale «il modello di contrattazione aziendale, articolato sulla base delle specifiche condizioni delle singole unità produttive, si è rivelato come il più ricco di prospettive per un’azione sindacale» che sia il riflesso di una classe operaia che, «pur mantenendo una fisionomia sociologica propria, acquista un carattere più complesso e composito». Dopo l’abrogazione del sistema corporativo, avvenuta nel 1944, il contratto collettivo assume nuovamente la fisionomia del contratto di diritto comune, propria dell’esperienza sindacale pre-fascista, ma con l’emanazione della Carta costituzionale e la mancata attuazione dell’art. 39, commi 2°, 3° e 4°, si pongono diversi problemi di non scarsa rilevanza, legati soprattutto ai soggetti della contrattazione collettiva e alla sua efficacia.
L’ordinamento italiano, d’altronde, non conosce tuttora una legislazione organica e completa sull’organizzazione rappresentativa delle categorie professionali e sul contratto collettivo di lavoro, una legislazione cioè che per struttura e contenuti normativi abbia portata più o meno analoga al complesso del codice civile. La fisionomia del contratto collettivo aziendale attuale è piuttosto il frutto di evoluzioni dottrinali e interventi giurisprudenziali, susseguitisi al fine di sopperire il perdurante quadro di anomia del sistema di relazioni industriali italiano, valorizzando in particolar modo, secondo quanto sostiene X. Xxx Xxxxx (R. DEL PUNTA, Il contratto collettivo aziendale, in D’XXXXXX X. (a cura di), Letture di diritto sindacale, Jovene, Napoli, 1990, pp. 282-284) la funzione culturale della dottrina come fattore di elaborazione extra ordinem del diritto sindacale. È noto, invero, che la legge attuativa di quanto disposto nella seconda parte dell’art. 39 Cost. non è mai riuscita a vedere la luce, nonostante si considerasse da più parti necessaria ed idonea a sciogliere i nodi più intricati del dettato costituzionale. Quella norma mai attuata diviene paradossalmente, secondo X. Xxxxxxxx (M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, pp. 9-10),
«ingombrante», dal momento che impedisce al legislatore di creare strutture giuridiche alternative e più elastiche, coerenti con i continui cambiamenti dell’apparato socio-economico.
2. Natura e funzione del contratto aziendale in Italia
Nel corso degli anni ’50, in un contesto di scarsa diffusione del contratto aziendale, gestito non da entità sindacali in senso proprio, ma da soggetti eterogenei di estrazione aziendalistica come le Commissioni Interne, R. Del Punta (R. DEL PUNTA, Il contratto collettivo aziendale cit., p. 285) sostiene che la dottrina non dedicò ad esso che un’attenzione occasionale.
Il contratto aziendale riceve il suo primo formale riconoscimento da parte della giurisprudenza, quando questa lo affranca dalla sua inziale configurazione in termini di contratto individuale plurimo e gli riconosce natura collettiva, giungendo ad uno stacco rispetto agli schemi di matrice privatistica con il compimento dell’elaborazione del concetto di interesse collettivo (X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo aziendale cit, p. 11). X. Xxxxxx, invece, già nel 1967 (X. XXXXXX, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in “Atti del Terzo Congresso Nazionale di diritto del lavoro sul tema il contratto collettivo di lavoro”: Pescara Teramo 1-4 giugno 1967, pp. 16-19) sosteneva che la qualificazione del contratto aziendale come “collettivo” apriva le porte ad una problematica importante, dal momento che l’unico interesse veramente collettivo è quello dei lavoratori, mentre l’imprenditore, nell’avanzare pretese ed esporre interessi, è sostanzialmente solo. La conclusione a cui inizialmente giunge l’Autore, invero, è quella per cui la rilevanza dell’elemento collettivo è limitata al solo interesse dei lavoratori ai quali, raggruppati in una coalizione, l’ordinamento conferisce un’immediata tutela giuridica. Tutela (del lavoro) che, tra l’altro, non deve essere intesa solo in termini di regolamentazione del rapporto di lavoro in sé e per sé, ma che riguarda anche trattamenti connessi, fino a regolare modalità di esercizio dell’impresa.
Il contratto collettivo viene così a delinearsi come uno strumento giuridico di autonomia di gruppo, che acquisisce una precisa fisionomia funzionale in ragione del suo specifico contenuto e dove l’interesse collettivo, come sostenuto da X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx già nei primi anni ’50 (X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Autonomia collettiva, in Saggi di diritto civile, Jovene, Napoli, 1959, pp. 256 ss), non è la somma degli interessi individuali, bensì la loro combinazione che, in quanto tale, è indivisibile. L’interesse dei non iscritti ad un’organizzazione sindacale passa dall’essere considerato del tutto estraneo alla figura in esame, ad essere incluso e conglobato, come afferma anche lo stesso X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Diritto sindacale cit, pp. 62- 64), in quello di cui è portatore il sindacato, il quale ha anche un proprio e preciso interesse a non limitare ai soli suoi iscritti la propria azione di rappresentanza, in quanto investito della
funzione di tutela dell’interesse generale della categoria. Questa dinamica reale del sistema di relazioni industriali porta quindi alla necessità di definire, rectius «creare una nuova e più efficiente rete di istituzioni aziendali di difesa e di valorizzazione del fattore umano nell’impresa», riconosciuto ormai il pieno diritto di cittadinanza della contrattazione aziendale nel nostro sistema giuridico.
Il dibattito sulla natura del contratto aziendale giunge così ad una conclusione sul finire degli anni ’60, sebbene tale riconoscimento come istituto giuridico non comportò, scrive X. Xxx Xxxxx (R. DEL PUNTA, Il contratto collettivo aziendale cit., p. 301), una parallela messa in discussione della concezione tradizionalmente centralizzata e gerarchica del sistema contrattuale, anche se, a parere di alcuni Autori (X. XXXXX XXXXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, Salari e produttività, Xxxxxx Xxxxxx, Collana I.S.V.E.T., 1966) era già evidente quale dovesse essere il rapporto tra i due livelli contrattuali: la contrattazione nazionale avrebbe dovuto collegare, in ogni settore, la dinamica del salario fondamentale alle variazioni della produttività; mentre la contrattazione decentrata doveva permettere l’aggiustamento dei salari locali rispetto ai differenziali tra produttività settoriale e aziendale (o territoriale).
2.1 Gli attori della contrattazione collettiva aziendale
Come precedentemente accennato, i primi organi di rappresentanza all’interno dei contesti produttivi sono state le Commissioni Interne, istituite con Accordo interconfederale del 18 aprile 1966 e con le quali la contrattazione aziendale rappresentava ancora un fenomeno
«sommerso», incentrato su istituiti di carattere prevalentemente retributivo (CARINCI F., DE XXXX XXXXXX R., XXXX P., TREU T., Diritto del lavoro, Il diritto sindacale, Utet, Torino, 2012, p. 199). Si trattava di collegi di rappresentanti del personale, costituiti mediante elezioni alle quali partecipava tutto il personale in forza, impiegatizio e operaio, aventi compiti consultivi e di vigilanza, ma privi di competenza per tutto quanto attenesse alla disciplina collettiva dei rapporti di lavoro e alle relative controversie. La loro natura a-sindacale, se da una parte aveva consentito l’impiego dello schema della cd. “rappresentanza necessaria” nei confronti di tutta la popolazione aziendale ai fini dell’attribuzione dell’efficacia generalizzata agli accordi da esse stipulati, dall’altra, come evidenziato da X. Xxx Xxxxx (R. DEL PUNTA, Il contratto collettivo aziendale cit., p. 296), non aveva evitato la soggezione degli stessi alla
normativa civilistica, più in particolare, alle disposizioni di cui all’art. 2077 c.c., facendo in modo che in ipotesi di conflitto con i contratti collettivi nazionali, quelli aziendali venissero ridotti ad una somma di accordi individuali.
Solo all’inizio degli anni ’70, e più precisamente con il Patto Federativo del 3 luglio 1972, gli attori sindacali nazionali riconoscono i Consigli di Fabbrica come istanza sindacale di base con poteri di contrattazione nei luoghi di lavoro; strutture certamente più articolate rispetto alle precedenti Commissioni, in grado di attribuire alla vita sindacale in fabbrica una spinta democratica maggiore, attraverso il coinvolgimento dei singoli lavoratori tramite assemblee periodiche e referendum di consultazione.
La vera svolta arriva poi con l’istituzione delle Rappresentanze Sindacali Aziendali (RSA), definite da X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo aziendale cit., p. 13.) come un medium tra lavoratori e sindacati, tra pluralismo e unitarietà. L’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, che le ha istituite, gli riconosce fisionomia di organismi di rappresentanza dei sindacati nei luoghi di lavoro e, al fine di sostenere l’azione sindacale in azienda, attribuisce loro le particolari prerogative di cui al Titolo III. Ma proprio in virtù di tale legittimazione, il legislatore ritiene opportuno riconoscere tali prerogative non a tutte le organizzazioni sindacali indiscriminatamente, ma solo a quelle che, mostrando una significativa presenza nel panorama sindacale, offrano garanzie di affidabilità e responsabilità nella gestione delle stesse. Tale selezione era affidata ad un doppio criterio: uno presuntivo, quale la mera affiliazione ad una organizzazione confederale maggiormente rappresentativa; l’altro effettivo, quale la sottoscrizione di un contratto nazionale o provinciale. L’assenza di una definizione normativa del concetto di “maggiore rappresentatività”, ha però di fatto rimesso l’arduo compito agli interpreti, i quali giungono ad affermare che la maggiore rappresentatività costituisce un criterio selettivo basato su indici oggettivi e concretamente verificabili, idoneo a descrivere la situazione di fatto dell’universo sindacale. Il potere contrattuale delle RSA, inoltre, porta la giurisprudenza a modellare la fisionomia della contrattazione aziendale come piena autonomia negoziale cui non si applica né l’art. 2077 né l’art. 2113 del c.c. È in questo periodo, invero, che emerge un aspetto essenziale e caratterizzante della contrattazione decentrata, vale a dire quello di assumere una funzione specializzata rispetto al contratto di categoria, consistente nell’integrare ed adeguare la disciplina in esso dettata agli interessi delle parti, legati alle specifiche caratteristiche dei luoghi nei quali viene resa la prestazione di lavoro.
La rottura rispetto al sistema della titolarità disgiunta e diffusa delle RSA si consuma poi con l’elaborazione del modello della RSU, istituito dal Protocollo del luglio 1993 – sottoscritto da Governo, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil – come forma rappresentativa alternativa alla RSA. Definita da M. D’Xxxxxx (X. X'XXXXXX, Scritti sul diritto sindacale, Xxxxxxx, Milano, 2000,
p. 371) come «una rappresentanza generale dei lavoratori, perché eletta a suffragio universale», a temperare la corsa al sindacalismo autonomo ricorre però la c.d. clausola del terzo riservato, in virtù della quale la composizione della RSU «deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti», ciò significando che la legittimazione a negoziare spetta congiuntamente alle RSU e alle organizzazioni sindacali territoriali dei lavoratori aderenti alle organizzazioni stipulanti il medesimo CCNL.
Poco dopo la sottoscrizione del Protocollo del ’93, le spinte del sindacalismo autonomo e il mutato scenario organizzativo, misero in crisi il modello della maggiore rappresentatività confederale delineato dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, norma che «seleziona, include ed esclude, al fine dell’attribuzione di una serie importante di prerogative funzionali alla presenza del sindacato in azienda e anche, sia pure indirettamente, alla contrattazione collettiva» (X. Xxxxxxxxx, Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, in DLRI, 132, 4, 2011, pp. 543 ss). Il passaggio dalla rappresentatività presunta a quella effettiva si ebbe con il referendum abrogativo del 1995 che eliminò la presunzione di rappresentatività ex lettera a) e modificò la lettera b) della norma con l’abolizione dei termini «nazionale o provinciale», di guisa che la firma di un contratto collettivo di qualunque livello, anche d’impresa, potesse consentire di considerare il sindacato come rappresentativo, abilitandolo a costituire proprie RSA e ad esercitare i diritti e le prerogative della legislazione statuaria di sostegno, di cui al Titolo III dello Statuto. Nel 2013 si pronuncia sull’annosa questione della rappresentatività sindacale anche la Corte Costituzionale che, con sentenza n. 231 del 23 luglio 2013, dichiara viziato da illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 39 della Costituzione, il primo comma, lettera b) della norma in questione «nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda». Trattasi di una statuizione che si colloca in controtendenza rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale, giustificata dalla stessa Corte con un cambio dello
«scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali» tale da evidenziare lo squilibrio insito nella formulazione post-referendaria dell’art. 19, foriera di manovre volte ad escludere sindacati che, seppur dotati di ampio consenso tra i lavoratori, non adottano «un atteggiamento consonante con l’impresa». La Corte, inoltre, presenta la sua sentenza come
«additiva», nonostante a parere di alcuni (X. XXXX, I diritti sindacali tra rappresentanza e rappresentatività, in ADL, 1, 2014, p. 9) la stessa non possa dirsi propriamente tale dal momento che, pur aggiungendo una condizione di rappresentatività, elimina allo stesso tempo quella già prevista della sottoscrizione. In particolare, l’Autore ricorda come con le sentenze additive «la decisione di incostituzionalità colpisce un’omissione del legislatore e da tale dichiarazione di incostituzionalità si ragiona come se la norma mancante venisse ad esistenza».
Ad ogni modo, le considerazioni partono dall’osservazione che il nesso tra la stipulazione di accordi collettivi e la fruizione dei diritti previsti dal Titolo III dello Statuto possano indurre un sindacato a firmare accordi non pienamente condivisi, al solo scopo di poter accedere alla RSA e ai conseguenti benefici, con palese coazione della libertà sindacale. Critico rispetto alla parte “additiva” della sentenza è X. Xx Xxxx Xxxxxx (X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX, Il caso Fiat e le nuove relazioni industriali, in (a cura di) X. XXXXXXXX e X. XXXXXXX, Le relazioni industriali, Volume III, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2014, p. 201) secondo il quale la soluzione allo sbilanciamento anzidetto eleva la mera partecipazione alle trattative contrattuali a criterio di legittimazione per la costituzione della RSA, introducendo in tal modo un criterio sconosciuto sia all’ordinamento statuale che all’ordinamento intersindacale che, anzi, nei precedenti accordi, fa riferimento a ben diverse ponderazioni quantitative.
Già in precedenti pronunce la Corte aveva tuttavia sentenziato che la norma non era contraria al modello costituzionale poiché garantiva comunque la libertà di scelta, inclusiva o esclusiva, da parte delle organizzazioni sindacali coinvolte e, in effetti, scrive X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, Misurazione della rappresentanza e assetto delle relazioni industriali, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 45), fino alla più recente stagione sindacale la tenuta del testo dell’art. 19 St. lav. appariva piuttosto solida: da un lato la giurisprudenza costituzionale, dall’altro la compattezza del sistema, erano riuscite a creare «le condizioni perché non si percepisse chiaramente che il testo post-referendario dell’art. 19 non conteneva più una norma di promozione della presenza sindacale in azienda, ma una norma di ratifica di una presenza già conquistata nei fatti».
X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Art. 19 dello Statuto dei lavoratori, democrazia sindacale e realismo della consulta nella sentenza n. 231/2013, in ADL, II, 2014, p. 343) sostiene che nell’ordinamento statuale degli anni ’70, l’art. 19 era considerato il simbolo della “costituzione materiale” che, a fronte della non attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e attraverso il principio della maggiore rappresentatività, attribuiva alle maggiori confederazioni un ruolo politico-istituzionale notevole, di attuazione del progetto di società disegnato dal Costituente in chiave solidaristica. Il referendum del ’95, però, sovverte totalmente la ratio della norma e la nota vicenda Fiat – che non sarà oggetto di analisi nel presente elaborato - ne costituisce l’esempio più eclatante, dimostrando come «dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è derivata la negazione di una rappresentatività che esiste». Di conseguenza la Corte, evidenziando una sopravvenuta discordanza tra la ratio della norma - il cui fine è sempre quello di selezione in base alla rappresentatività - e le strategie imprenditoriali, pone l’accetto su quella che X. Xxxxx (X. XXXXX X., Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva, cit., p. 16) definisce «rappresentatività sociologica», nonché sulla necessità che un sindacato significativamente rappresentativo partecipi al negoziato al fine di evitare che l’interesse collettivo venga individuato e regolato senza aver neanche sentito la voce di un’organizzazione sindacale legittimata dal radicamento tra i lavoratori, ossia tra i soggetti per i quali quell’interesse ha origine.
3. L’evoluzione degli assetti contrattuali nel sistema di relazioni industriali promossa dalle parti sociali: l’Accordo separato del 2009 e l’Accordo del 2011
Già negli anni ’70, in un contesto economico di caduta dei profitti e di crescente inflazione, P.S Labini (P.S. XXXXXX, Sindacati, inflazione e produttività, Laterza, 1972) si interrogava sulle principali problematiche economiche e storico-sociali dell’Italia, cercando di dimostrare l’inefficacia della politica dei redditi al di fuori di una più generale politica di programmazione triangolare. Secondo l’Autore, la contrattazione collettiva avrebbe dovuto rispettare la c.d. “regola aurea” della distribuzione, cioè assicurare l’uguaglianza della variazione dei salari rispetto alla variazione della produttività, per favorire un sentiero bilanciato di crescita economica nel lungo periodo. Gli anni ’90, invece, sono stati definiti da alcuni Autori (CARINCI F., DE XXXX XXXXXX X., XXXX P., TREU T., Diritto del lavoro, Il diritto sindacale, cit., pp. 204-207) gli anni della «riregolazione del rapporti di lavoro e delle velleità regolative sul versante dei rapporti collettivi»; il sistema contrattuale italiano è
investito, più di altri Paesi europei, dall’urgenza del risanamento e della stabilizzazione economica e ciò si rivela decisivo per il recupero del modello concertativo tra pubblici poteri e parti sociali. Risultato di tale concertazione è il Protocollo “Ciampi-Giugni” del 23 luglio 1993, frutto di un’ampia convergenza di interessi del mondo sindacale e politico-culturale e primo serio tentativo di razionalizzazione del sistema di contrattazione collettiva.
Il Protocollo del ‘93, intitolato “Politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”, intendeva rispondere innanzitutto ad un periodo segnato da una forte inflazione, attraverso un’azione concertativa del Governo e delle parti sociali destinata a realizzare una politica dei redditi condivisa. Definito la “Costituzione delle relazioni industriali”, la comunione d’intenti è desumibile anche dal riconoscimento della centralità del contratto collettivo nazionale, sulla base del convincimento che solo un controllo centrale sulla contrattazione sia in grado di rendere responsabile ed efficiente il sistema di relazioni industriali. Più precisamente, il Protocollo del ’93 prevedeva «un contratto collettivo nazionale di categoria e un secondo livello di contrattazione, aziendale o alternativamente territoriale, laddove previsto», riconosciuto, quest’ultimo, «secondo le modalità e negli ambiti di applicazione definiti dal contratto nazionale di categoria». Disciplinava, dunque, un modello controllato e coordinato di decentramento, in cui la distribuzione di competenze tra i due livelli è appannaggio del CCNL tramite le c.d. clausole di rinvio e la riproposizione della regola della non ripetibilità (ne bis in idem), alla cui stregua «la contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL». La clausola, seppur già contenuta nel protocollo del 1983, aggiunge una specificazione importante relativa alla retribuzione, dal momento che con essa Governo e parti sociali ricollegano il criterio gerarchico a quello di “specializzazione delle competenze”, aprendo così, secondo quanto affermato da X. Xxxx (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in (a cura di) XXXXXXXX L. e XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 66) il nuovo filone della contrattazione “incentivata” attraverso politiche di defiscalizzazione.
Se a parere di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Il lungo cammino per Xxxxxxxx della rappresentatività sindacale, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT 205/2014, p. 11), il Protocollo riconosce in via esclusiva al contratto aziendale la funzione di definire i cd. premi di risultato, cioè erogazioni correlate a miglioramenti della produttività e della qualità
conseguiti nelle singole aziende o ambiti territoriali, di parere totalmente opposto è X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Assessing the impact of income policy: The italian experience, Discussion Paper Series, IZA, n. 5082, 2010, pp. 8-10), secondo il quale il modello contrattuale introdotto con il Protocollo Giugni del '93 ha favorito una imponente redistribuzione di ricchezza a vantaggio del capitale, grazie al congelamento del potere di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori dovuto alla mancata diffusione della contrattazione di produttività. Per migliorare il potere di acquisto dei lavoratori e la competitività delle imprese, l'Autore sostiene che le rigidità salariali derivanti dalla contrattazione nazionale dovrebbero essere sostituite da un sistema di retribuzione variabile, sia a livello nazionale che aziendale, collegata alla performance di impresa e dei lavoratori. Una valutazione a posteriori dei risultati raggiunti dal Protocollo del ’93 non può non riconoscere la notevole influenza esercitata dall’Accordo sulla stabilizzazione dell’assetto contrattuale, tenuto conto del fatto che gli accordi stipulati in seguito - perlomeno fino a quando le peculiari condizioni storiche e sociali gli hanno garantito un’effettiva sintonia con lo stato anomico delle nostre relazioni collettive – hanno confermato nella sostanza tutte le sue indicazioni. A parere di X. Xxxx, invece, (X. XXXX, Partecipazione, flessibilità delle retribuzioni ed innovazioni contrattuali dopo il 1993, in Tecnologia e Società. Tecnologia, produttività, sviluppo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2001), benché l’adozione di meccanismi premianti si sia estesa in modo significativo a seguito dell’accordo del 1993, l’incidenza del premio sulla retribuzione complessiva risulta ancora ridotta, e la sua variabilità è stemperata dalla presenza di quote garantite. Secondo l’Autore questi comportamenti non possono essere attribuiti ad un unico fattore, ma sono il risultato congiunto di molteplici variabili: (a) una cultura di relazioni industriali arretrata e poco incline ad individuare terreni comuni di confronto su obiettivi; (b) la preferenza per meccanismi retributivi che evitino le fasi della valutazione e della verifica per entrambe le parti sociali; (c) la ricerca di quote di incrementi retributivi garantiti che però abbiano la caratteristica della reversibilità; (d) la difficoltà per entrambe le parti di individuare i meccanismi premianti più appropriati per il conseguimento degli obiettivi prefissati congiuntamente; (e) la preferenza da parte delle imprese (e della direzione in particolare, se distinta dalla proprietà) a mantenere poco trasparenti sia la gestione sia i risultati aziendali per evitare l’eventuale verifica; (f) la diffidenza dei lavoratori e delle loro rappresentanze nei confronti della definizione di obiettivi congiunti e modalità retributive premianti coerenti con gli obiettivi.
L’auspicato sviluppo della contrattazione collettiva di secondo livello si è rivelato a posteriori insoddisfacente, probabilmente anche per l’incapacità dimostrata dai soggetti collettivi di sfruttare al meglio la clausola di specializzazione delle competenze della contrattazione decentrata. Né il legislatore ha dato seguito al monito contenuto nell’Accordo di intervenire in materia di attribuzione di efficacia generalizzata ai contratti aziendali sorretti dal consenso della maggioranza dei lavoratori. La Relazione finale per la verifica del protocollo del ’93 della c.d. Commissione Xxxxxx lascia trasparire, invero, la consapevolezza che la crisi di quel modello sia dipesa principalmente da fattori esterni, quali la necessità di fronteggiare non l’inflazione di per sé, che era in realtà solo la punta dell’iceberg, ma, come sottolineato da
X. Xx Xxxx Xxxxxx (X. XX XXXX XXXXXX, Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiane, in RIDL, I, 2010, p. 798) il più complesso fenomeno della globalizzazione e la connessa necessità di implementazione della flessibilità, per di più in un contesto caratterizzato dai primi segnali di crisi dell’unita sindacale e dal diffondersi di tensioni sul versante imprenditoriale, ove aumenta l’insofferenza verso le regolamentazioni pattuite a livello nazionale. L’esperienza di applicazione del Protocollo fa emergere anche elementi di debolezza nel (nuovo) sistema della rappresentanza, essendo stata talvolta riscontrata la tendenza ad un’affermazione di assoluta autonomia da parte della RSU, intese come rappresentative della comunità dei lavoratori, rispetto ai sindacati firmatari dei CCNL, causando così differenze tra le politiche contrattuali condotte ai due livelli. Infine, le clausole di rinvio e il criterio della specializzazione, disciplinati al fine di risolvere eventuali conflitti di soluzioni tra CCNL e contratto aziendale/territoriale, non sembrano aver risolto il problema della vincolatività delle regole relative agli assetti contrattuali; nulla dicono se, in caso di violazione delle regole sul rapporto fra livelli, tale inottemperanza possa essere sanzionata a livello endoassociativo, intersindacale o civilistico. E nell’ennesimo quadro di anomìa, le soluzione prospettatesi sono state differenti: i limiti relativi agli assetti contrattuali non sono stati intesi come reali e di conseguenza la loro violazione non è stata considerata in grado di determinare l’inefficacia e/o l’illegittimità della disciplina resa in violazione; la relazione fra CCNL e contratti locali, invero, vista come confronto tra fonti di analoga valenza, ha fatto prediligere, come metodi risolutivi del conflitto, il criterio cronologico e quello dello specialità. Ad ogni modo, la stessa Commissione Xxxxxx aveva riconosciuto come necessaria, proprio al fine di assecondare la tendenza generalizzata ad un maggiore decentramento, una revisione del ruolo del contratto nazionale, affermando che il consenso in merito alla necessità di
approfondire ulteriormente la differenziazione funzionale dei livelli contrattuali accrescendo, in particolare, la specializzazione del contratto decentrato ed estendendone la diffusione, era ormai sempre più diffuso.
Il percorso indirizzato a un’effettiva aziendalizzazione della contrattazione collettiva passa, nel 2009, attraverso un Accordo interconfederale (c.d. separato, perché non sottoscritto dalla CGIL) la cui novità principale è rappresentata dall’introduzione delle c.d. clausole di uscita, promosse come strumento necessario per valorizzare la contrattazione decentrata e per favorire una più ampia flessibilizzazione dei trattamenti economici e normativi. Non più clausole previste dal primo livello in favore del secondo, dunque, bensì specifiche intese di secondo livello in grado «di definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di categoria»; subordinate a condizioni oggettive, ovvero tese a governare situazioni di crisi in sede territoriale o aziendale.
Eppure, a parere di X. XXXXXXX (X. XXXXXXX, Una dichiarazione d’intenti: l’Accordo quadro 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT – 86/2009, p. 14), nuovo «riaccentramento», dal momento che, in materia di prerogative appannaggio del CCNL, lì dove il precedente Protocollo triangolare stabiliva che il contratto nazionale dovesse definire «le procedure per la presentazione delle piattaforme contrattuali nazionali, aziendali e territoriali», il nuovo Accordo dispone che «la contrattazione collettiva nazionale di categoria o confederale regola il sistema di relazioni industriali a livello nazionale, territoriale o aziendale», con un’alternativa di livello regolatore lasciata aperta.
A parere di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxx (X. XXXXXXXX, X. XXXXX, La riforma della contrattazione: una valutazione e soluzioni innovative. Un ruolo attivo per la politica economica, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Economiche “Xxxxx X. Xxxxxx”, n.4, 2009), l’Accordo del 2009 altro non è che una riproposizione sic et simpliciter della seconda parte dell’Accordo di luglio del 1993 relativa ai contenuti della contrattazione decentrata. Alla luce dei risultati deludenti sul fronte della produttività e della competitività delle imprese italiane, gli Autori avanzano l’idea che ciò che servirebbe davvero al Paese e al suo sistema produttivo è un vero e proprio ‘Patto sociale per la produttività e la crescita’ che faccia premio sulla complementarietà tra innovazione tecnologica, innovazione organizzativa e sviluppo delle competenze, ovverosia sulla triangolazione tra maggiori investimenti in ICT e maggiori
investimenti intangibili nel capitale organizzativo e nello sviluppo delle competenze (cognitive, team-working e relazionali, oltre che tecniche) dei dipendenti in cambio di una moderata crescita del salario reale.
Allo stesso modo, anche X. Xxxxxxxxxx (X. XXXXXXXXXX, Contrattazione collettiva e produttività: cronaca di evocazioni (ripetute) e incontri (mancati), in Rivista giuridica del lavoro, 2009, 2) argomenta in maniera critica il contenuto dell’Accordo del 2009, sostenendo che l’affermazione di quello che l’Autore definisce l’«imperativo categorico della competitività» abbia portato all’approvazione del contratto collettivo nella sola misura in cui questo risponda alle esigenze delle imprese, facendo sorgere dubbi concernenti il senso dell’azione sindacale, laddove sia finalizzata principalmente al sostegno delle performance aziendali. L’Autore sottolinea, inoltre, l’importanza di valorizzare elementi quali il coinvolgimento diretto dei lavoratori nel processo produttivo, lo sviluppo delle competenze delle persone e la stabilità delle relazioni di impiego, poiché considerati come i fattori determinanti per un condizionamento positivo della produttività delle imprese.
Una tappa fondamentale lungo il cammino del decentramento contrattuale è invece segnata dall’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, anch’esso “giustificato” dalla necessità di modernizzare il sistema giuslavoristico in chiave europea, ma soprattutto volto a dar seguito all’esigenza di colmare quel vuoto regolativo da troppo tempo radicato nel sistema di relazioni industriali italiano. Merito di aver portato alla ribalta i limiti dell’anomìa del sistema va sicuramente attribuito alla vicenda che ha coinvolto la Fiat, la quale ha dimostrato come il dissenso di un protagonista di primo piano del sistema rispetto ad un Accordo raggiunto da altri, finisca per negare all’impresa le certezze di cui essa ha bisogno per lo svolgimento della sua attività. L’Accordo affronta tutte le problematiche da sempre oggetto di discussione in dottrina e giurisprudenza, quali la conservazione del sistema bipolare - anche se con una significativa valorizzazione della contrattazione di secondo livello - la vincolatività del contratto aziendale nei confronti di tutto il personale in forza nell’azienda, i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale, il sistema di deroghe al CCNL da parte del contratto aziendale.
In merito agli assetti della contrattazione collettiva, l’Accordo del 2011 mantiene il sistema bipolare – nazionale di categoria e aziendale – omettendo, però, il riferimento al livello territoriale. La scomparsa della contrattazione territoriale dalla struttura sindacale è valutata in maniera difforme in dottrina: secondo X. Xxxx (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione
e innovazione, in ADL, 2013, p. 506 ss.) è un segno positivo di maggiore apertura da parte di tutte le principali confederazioni sindacali, Cgil inclusa, a favore della contrattazione decentrata; secondo X. Xxxxx (X. XXXXX, L’Accordo interconfederale 28 giugno 2011: un’inversione di tendenza nel sistema di relazioni industriali, in ADL, I, 2012, pp. 48-49), invece, è una «lacuna» dell’Intesa destinata a ridurre fortemente la possibilità di un’effettiva diffusione della contrattazione di secondo livello in un maggior numero di imprese. Ad ogni modo, il contratto nazionale mantiene ancora le sue prerogative, ribadendo la funzione di garante della «certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale», mentre si va delineando una contrattazione decentrata ampiamente legittimata ad esercitare un notevole potere derogativo; e questa volta con l’apprezzamento delle parti sociali, che dichiarano apertis verbis come l’obiettivo comune sia quello di «favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello».
L’Accordo del 2011, dunque, è a parere di molti più coraggioso dei precedenti nell’intraprendere la strada del decentramento, caratteristica evidente soprattutto nel punto 7 che, sia pure con un lessico molto pudico, stabilisce che «i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi [e] possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro». La facoltà modificativa viene, però, espressamente ricondotta «nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro», in linea, peraltro, con il disposto del punto 3, secondo cui «la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal CCNL di categoria».
Il potere autorizzatorio, dunque, a parere di X. Xx Xxxx Xxxxxx (X. XX XXXX XXXXXX, Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro, passato e presente, in DLRI, 140, 2013, pp. 715 ss.) resta pur sempre nelle mani delle Parti stipulanti il contratto di categoria; solo in assenza o in attesa di tali indicazioni provenienti dai CCNL, i contratti aziendali possono in via autonoma modificare talune previsioni del contratto di primo livello, purché sia presente il solito obiettivo di «gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa». Al contratto collettivo
nazionale spetta ancora, dunque, il compito di “perimetrare” il potenziale ambito di intervento della contrattazione di secondo livello.
Relativamente alla questione dell’efficacia del contratto aziendale, invece, l’Accordo de qua ha sicuramente il merito di introdurre, o quantomeno proporre, una regola fondamentale per la vitalità del sistema di relazioni industriali, soprattutto a livello aziendale, che è quella dell’efficacia erga omnes degli accordi, esigenza tra l’altro già espressa nel Protocollo del’93. I contratti aziendali, si dice, «sono efficaci per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda». Si vuole così evitare che possa prodursi una paralisi del sistema dei rapporti collettivi in presenza di un eventuale dissenso delle associazioni sindacali appartenenti alle organizzazioni firmatarie dell’accordo, ma rimane pur sempre una trama meramente intersindacale per la soluzione del problema. Se per X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Accordo Interconfederale 28 giugno 2011e art. 8 d.l 138/2011 conv. con modifiche L. 148/2011: molte divergenze e poche convergenze, in ADL, 2011) questa clausola opererebbe anche nel caso in cui si tratti di un sindacato che non abbia firmato il contratto nazionale, X. XXXXXXX (X. XXXXXXX, Il contratto collettivo dopo l’articolo 8 del decreto
n. 138/2011, in ADL, 2011) sostiene invece che l’efficacia generalizzata dell’accordo aziendale dipenda dal fatto che la RSU sia dotata di capacità rappresentativa di tutta la comunità aziendale, desumibile dal fatto che tutti possono partecipare all’elezione dell’organo collegiale. Tesi intermedia è quella di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXX, L’articolo 8 della delle 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT – 133/2011, pp. 8-9), in virtù della quale l’accordo aziendale può ritenersi applicabile nei confronti dei lavoratori non iscritti, che abbiano però effettivamente partecipato all’elezione delle RSU, in quanto da siffatta partecipazione sarebbe desumibile una loro volontà di adesione al sistema contrattuale di cui le RSU costituiscono espressione.
La fiducia nella capacità risolutiva dell’intesa contrattuale è stata definita da X. Xx Xxxx Xxxxxx (R. DE XXXX XXXXXX, Prime valutazioni e questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011, in ADL, I, 2012, p. 25) «eccessiva e sostanzialmente ingenua»: il vincolo al riconoscimento dell’effetto erga omnes non coinvolge, difatti, gli iscritti ai sindacati non firmatari dell’Accordo, né i lavoratori non iscritti, ai quali non sono opponibili,
se non sottoscritte, eventuali clausole derogatorie della disciplina contrattuale in atto. E qualche dubbio residua anche in ordine alla vincolatività della pattuizione interconfederale nei confronti degli iscritti alla Fiom, stretta da vicolo statutario alla CGIL, ma dichiaratamente contraria all’intesa. Permane, dunque, il grave rischio, al cospetto di clausole di contrattazione aziendale derogatorie in peius dei CCNL, di un doppio esodo: dei lavoratori, in direzione di sindacati non firmatari e contestatari; delle aziende, in uscita dalle organizzazioni datoriali per sottrarsi al CCNL e rendere così il contratto aziendale non più derogatorio ma anzi l’unica disciplina fruibile.
Per quanto riguarda l’agente negoziale a livello aziendale, infine, l’Accordo adotta un atteggiamento neutro rispetto alla coppia RSU-RSA (quest’ultime costituite ai sensi dell’art. 19 St. Lav.), anche se, relativamente al principio di maggioranza, al cui rispetto viene condizionata l’efficacia generalizzata dei contratti aziendali, il problema è declinato diversamente a seconda che questi siano sottoscritti dalle RSU ovvero dalle RSA. Nel primo caso, l’Accordo prevede che i contratti debbano essere «approvati a maggioranza dei componenti delle RSU elette secondo le regole interconfederali vigenti»; nel secondo caso, invece, è prevista una doppia misurazione, la prima necessaria, la seconda eventuale. I contratti aziendali devono innanzitutto essere sottoscritti da RSA che «singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati direttamente dall’azienda» e, qualora su di essi venga richiesto un referendum, devono superarlo con l’approvazione della maggioranza (51%) dei votanti. Significativo, sul piano dell’evoluzione del sistema, il superamento della titolarità congiunta delle organizzazioni sindacali di categoria territoriali e delle RSU, presente invece nell’Accordo attuativo del 2009, ma anche nell’art. 4 bis del CCNL dei metalmeccanici del 2009. Ulteriore differenza sempre con il precedente Accordo del 2009, è rappresentata dall’assenza, nella nuova intesa, della regola del ne bis in idem, imprescindibile in un sistema ancora fortemente gerarchizzato, adesso in via di cambiamento. Anche se, secondo X. Xxxx (X. XXXX, Le relazioni industriali dopo l’accordo del 28 giugno 2011, in DRI, III, 2011, p. 618), più che di un’omissione, si tratterebbe di un’incorporazione, essendo lo stesso vincolo insito nel concetto di “delega”, che non a caso è stato preferito a quello di “rinvio”. La delega parrebbe difatti sottolineare la perdurante interdipendenza tra contratto nazionale e aziendale, a conferma del modello di decentramento controllato riscontrabile con alcune varianti nel Protocollo del 1993 e negli Accordi del 2009;
la clausola di rinvio, invece, sostiene X. Xxxx (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., pp. 84-
86) alluderebbe ad uno schema dinamico tra fonti in cui il contenuto del rinvio non è predeterminato. In conclusione, l’Accordo interconfederale rappresenta un punto di convergenza e del Protocollo del ’93, di cui salva la struttura contrattuale bipolare e la RSU (unica, unitaria, elettiva), sebbene non più come rappresentanza esclusiva, e dell’Accordo del 2009, dal quale recupera la contrattazione aziendale in deroga, anche in senso peggiorativo. A fronte di chi ritiene che l’Accordo sia il risultato di una ritrovata unità sindacale, interrotta bruscamente dagli Accordi separati del 2009 e ancora più dal caso Fiat degli anni immediatamente successivi, X. Xxxx (X. XXXX, Libertà sindacale, rappresentanza e conflitto, in RIDL, 1, 2014, p. 568) risponde che in realtà, quella che un tempo veniva chiamata unità sindacale, non si è affatto ricostituita, ma si è messo su un sistema che ne rappresenta un’equivalente funzionale.
3.1 Intervento del legislatore e reazione delle parti sociali: l’art. 8 della legge n. 148/2011
Dagli interventi delle Parti sociali, nel solco della promozione della contrattazione d’impresa, si arriva, a pochi mesi dalla stipula dell’Accordo di giugno, ad un intervento diretto in materia da parte del legislatore, attraverso la legge n. 148 del 2011 (di conversione del precedente d.l. 138/2011), il cui art. 8 è stato al centro di un acceso dibattito in dottrina, con posizioni sull’argomento diametralmente opposte.
Ai sensi del primo comma dell’art. 8, «i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività».
La norma introduce importanti novità nel sistema di relazioni industriali italiano, novità che sembrano per certi versi formalizzare la tesi di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Cedam, Padova, 1981) circa la piena fungibilità tra legge e contratto collettivo (aziendale o territoriale), sebbene tale prospettazione teorica si collocasse in un contesto storico in cui la contrattazione collettiva manteneva un ruolo tendenzialmente acquisitivo di diritti, per cui le deroghe in peius rappresentavano pur sempre un fatto eccezionale o comunque circoscritto.
La disposizione che ha maggiormente suscitato perplessità in dottrina è il comma 2 bis dell’art. 8 (inserito dalla legge di conversione n. 148 del 2011), il quale introduce un principio inedito di derogabilità di numerose norme di legge ad opera dei contratti collettivi c.d. di prossimità che, a parere di X. Xxxx (X. XXXX, Riflessioni sul problema della riforma degli ammortizzatori sociali, in Riv. Prev. Pubbl. e xxxx, 2001, 6, p. 54 ss) può tendere in prospettiva ad una «balcanizzazione delle tutele». Anche secondo F. Carinici (X. XXXXXXX, Il lungo cammino per Xxxxxxxx della rappresentatività sindacale, cit., pp. 31-32) tale efficacia derogatoria generale, pur essendo teoricamente in linea con quanto disposto dall’Accordo del 2011, se ne discosta ampiamente, operando più di una forzatura: in primo luogo la possibilità di deroga della legge, oltre che del contratto nazionale, era del tutto fuori non solo dalla previsione, ma anche da una possibile intesa tra le parti sociali; in secondo luogo, la norma allarga la precedente disciplina interconfederale circa tale possibilità a tal punto da privarla della sua controllabilità dall’alto e della sua natura eccezionale. Alla luce del secondo comma, le specifiche intese derogatorie possono riguardare tutta una serie di materie inerenti
«l’organizzazione del lavoro e della produzione», contenute in un’elencazione tassativa, ma comunque vastissima, al punto da convincere illustri giuslavoristi, tra i quali X. Xxxxxxx (CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 133/2011, p. 38), che con essa si sia istituzionalizzata una forma estrema di flexicurity, per la quale sarebbe non eccessivo parlare di flexibility senza security. Mentre altri, tra i quali X. Xx Xxxx Xxxxxx (X. XX XXXX XXXXXX, Prime valutazioni e questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011, cit., p. 23), riscontrano profili di incostituzionalità lì dove, nell’elencare le materie nelle quali la contrattazione di prossimità può intervenire in chiave derogatoria, la norma allude alla
«disciplina del lavoro», legittimando una serie pressoché illimitata di modifiche peggiorative,
urtando, secondo l’Autore, con il principio di ragionevolezza delle scelte legislative ed esponendosi ad un giudizio severo per contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
I contratti collettivi presi in considerazione dalla norma sono quelli aziendali e territoriali, questi ultimi omessi dalla disciplina di cui all’Accordo del 2011 e qui, invece, riproposti. La loro efficacia erga omnes è riconosciuta qualora ricorrano due presupposti fondamentali: l’approvazione su base maggioritaria e la finalizzazione a obiettivi ritenuti prioritari da un punto di vista socio-economico (maggiore occupazione, emersione del lavoro irregolare, gestione delle crisi aziendali, ecc.).
Relativamente ai soggetti abilitati alla stipula, il riferimento è alle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, espressione sostituita già da tempo dal legislatore a quella di confederazione maggiormente rappresentativa dopo l’abrogazione referendaria della lettera a) dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo, definita da X. Xxxxxx un’«escogitazione linguistica intelligente e feconda» (X. XXXXXX, Intervento, in AA.VV., Autonomia collettiva e occupazione. Atti del 12° Congresso nazionale di diritto del lavoro, Milano 23-25 maggio 1997, Xxxxxxx, 1998, 240), è impiegata per la prima volta dal legislatore nell’art. 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e trova consacrazione nel d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, ma è nell’art. 8 del d.l. n. 138/2011, in un contesto politico alquanto problematico per la coalizione di Governo di allora, che il legislatore introduce per la prima volta anche una nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo a livello territoriale (X. XXXXXXXXXX, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel d.lgs.
n. 81/2015, in DRI n.2, 2016). L’orientamento dottrinale prevalente, comunque (si veda in particolare X. XXXXXXXXX, L’efficacia derogatoria dei contratti aziendali o territoriali: si sgretola l’idolo dell’uniformità oppressiva, in MGL, 10, 2011, pp. 682 ss.; X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, Working Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” – IT, 2011, n. 132; E. ALES, Dal caso FIAT al “caso Italia”. Il diritto del lavoro “di prossimità”, le sue scaturigini e i suoi limiti costituzionali, in DRI, 4, 2011; X. XXXX, Xxxxx note sull’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e sull’articolo 8 della legge n. 148/2011, in DLRI, 135, 2012; X. XXXXXXX, Il diritto sindacale al tempo della crisi. Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, in DLRI, 136, 2012, pp. 479-525; R. DE XXXX XXXXXX, Prime valutazioni e
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011 cit., p. 25), è concorde nel ritenere che la formula del sindacato comparativamente più rappresentativo di cui all’art. 8 racchiuda in sé un rinvio tacito all’Accordo interconfederale del 28 giugno precedente.
X. Xxxxx (X. XXXXX, Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva: tra prossimità e crisi di rappresentanza sindacale, cit., p.10), ritiene che il legislatore sia riuscito nell’intento di concretizzare quel processo di aziendalizzazione della contrattazione collettiva in atto ormai già da diverso tempo, tramite quello che X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, L’art. 8 della legge n. 148 del 2011 nel sistema delle relazioni industriali, WP C.S.D.L.E. "Xxxxxxx X'Xxxxxx".IT – 139/2012, p. 33), definisce come un «intervento a gamba tesa» che si spinge ben oltre quanto indicato nel Libro bianco sul mercato del lavoro del 2001, dal momento che quest’ultimo aveva avuto quantomeno l’accortezza di precisare che la materia delle relazioni sindacali doveva comunque restare affidata al confronto tra le parti sociali.
Diversamente X. Xx Xxxx Xxxxxx (X. XX XXXX XXXXXX, Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro, ieri e oggi, cit.) considera la vicenda come il «frutto della spiccata storicità di questo ramo del diritto e della sua ineludibile permeabilità ai mutamenti del contesto socio-economico», in cui il vento della flexicurity si riversa anche sull’attributo dell’inderogabilità delle norme e l’unico modo per «evitare interventi demolitori dei contenuti di tutela ad opera delle spinte riformistiche» è accettare una flessibilizzazione financo delle strutture portanti della materia. Nel Libro Bianco del 2001, invero, è facilmente riscontrabile una prima forte istanza di destabilizzazione del tradizionale quadro di rapporti tra fonti eteronome ed autonome, dal momento che veniva già propugnata una funzione paralegislativa della contrattazione collettiva, nonché auspicata un’ampia capacità derogatoria delle parti sociali nei confronti dei disposti della legge.
L’intervento del legislatore, inedito in un sistema di relazioni industriali come quello italiano, è stato da più parti considerato come il frutto estemporaneo della crisi finanziaria che attanaglia l’Europa e l’Italia in quegli anni, diretta conseguenza di quanto contenuto in una lettera proveniente dalla Banca Centrale Europea indirizzata al Governo italiano il 5 agosto 2011, in particolare nella parte in cui viene affermato che il Paese ha bisogno di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, consentendo agli accordi d’impresa di adeguare i salari e le condizioni di lavoro ai bisogni specifici dell’azienda e riconoscendo loro una rilevanza maggiore rispetto agli altri livelli di negoziazione.
Secondo X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, L’art. 8 della legge n. 148 del 2011 nel sistema delle relazioni sindacali, in ADL, I, 2012, pp. 32-33), difatti, la riforma è da considerarsi come una ponderata scelta di politica del diritto, condotta in assenza della benché minima forma di dialogo sociale, quando ancora si stavano valutando gli effetti e l’impatto che l’Accordo del gennaio 2011 avrebbe avuto sul sistema di relazioni industriali. Di taglio ancora più critico, X. Xxxxx (X. XXXXX, What future for industrial relations in Europe?, in Employee Relations, Vol. 40 n. 4/2018, p.575), in un saggio dedicato ad un’analisi comparata delle principali caratteristiche dei sistemi di relazioni industriali europei, sostiene che l’influenza della BCE dietro la manovra del 2011 - periodo durante il quale il rischio di default del debito pubblico era particolarmente concreto - portò il Governo italiano ad ottenere «quello che imprenditori e governi di destra non avevano mai neanche osato chiedere». D’altronde, a parere di H.D. Xxxxxx (H.D. XXXXXX, Industrial relations in twenty-first century Europe, in Employee Relations, Vol. 40 Issue: 4, pp.566-568), l’impatto della globalizzazione e della crisi economica ha determinato, in Italia come anche in Francia, interventi di riforma del mercato del lavoro unilaterali da parte dei Governi, di fatto comportando una liberalizzazione della tutela occupazionale e un indebolimento del ruolo delle organizzazioni sindacali.
Alla luce delle diverse considerazioni avanzate in merito all’art. 8 del d.l. 138 del 2011, il 21 settembre dello stesso anno, le parti sociali aggiungono una postilla in calce all’Accordo di giugno, al fine di «sterilizzare implicitamente» l’intervento del legislatore, ribadendo la piena autosufficienza della disciplina interconfederale e stabilendo che «le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti». Anche in virtù di questa “manovra” a posteriori, X. Xxxx (TOSI P., Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 91) e allo stesso modo X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Ma cos’è questo benedetto articolo 8 della manovra?, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx, 15/09/2011), ritengono che la portata della norma sia stata sostanzialmente sopravvalutata, prevedendo tra l’altro lo stesso comma 2 bis una serie di limitazioni, quali il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali, che, almeno in parte, possono ridurre il potenziale impatto deregolativo della normativa. Se a parere di alcuni (X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, La contrattazione di prossimità e l’aziendalizzazione delle relazioni industriali, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 155) il richiamo alla Costituzione è in realtà destinato ad alimentare un contenzioso giuridico dagli esiti
imprevedibili, dal momento che quasi tutti gli aspetti del rapporto di lavoro possono, in un modo o nell’altro, essere ricondotti a un principio costituzionale e quindi essere sottratti alla derogabilità; non manca chi, diversamente, ritiene che il fatto che tutte o quasi le discipline legali del diritto del lavoro trovino ispirazione in valori di rango costituzionale, non comporta che debbano essere considerate intangibili anche le modalità o le misure delle singole intese, che sono naturalmente esposte alle cangianti dinamiche sociali. L’inderogabilità nei confronti dell’autonomia collettiva è, d’altronde, un tratto caratteristico della materia giuslavoristica, ma non rappresenta di per sé un valore costituzionalizzato, insuscettibile di eccezione (R. DE XXXX XXXXXX, Prime valutazioni e questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011 cit., pp. 21-22).
3.2 Crisi economica e competitività del sistema produttivo: la proposta delle parti sociali e l’avallo del Governo
Il tema del decentramento contrattuale diviene espressamente finalizzato all’obiettivo della «crescita della produttività e della competitività» e l’intervento del legislatore, percepito più come un’ingerenza che come un’opportunità, è seguito, a distanza di poco più di un anno, da un’intesa firmata a livello interconfederale dalle associazioni datoriali ABI, ANIA, Confindustria, Alleanza Cooperative, Rete imprese Italia, e dalle Organizzazioni Sindacali CISL, UIL, UGL, ma non dalla CGIL. Noto come Accordo sulla produttività, recante le «linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia», l’intesa persegue, a parere di X. Xxxx (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 96), il modello della “doppia specializzazione” dei livelli contrattuali, diverso da quello delineato dal Protocollo del ’93, ma in parte riproposto nell’Accordo quadro del 2009 e nell’Accordo interconfederale del 2011. Ai due livelli di contrattazione vengono attribuite, già dall’Accordo stesso, competenze diverse, a prescindere dal tipico meccanismo della delega: al CCNL spetta il compito di
«rendere la dinamica degli effetti economici […] coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e degli andamenti specifici di settore»; mentre alla contrattazione di secondo livello, facilitata da idonee e strutturali politiche fiscali di vantaggio, spetta quello di «aumentare la produttività attraverso un migliore impiego dei fattori di produzione e dell’organizzazione del lavoro, correlando a tale aspetto la crescita delle retribuzioni dei lavoratori». L’accordo, dunque, a
parere dell’Autore, prevede per la prima volta nell’ordinamento italiano un possibile “alleggerimento” delle funzioni del CCNL a favore del contratto d’impresa, attraverso la destinazione di quote degli aumenti economici derivanti dai rinnovi alla pattuizione di incrementi retributivi flessibili.
Più scettica invece altra parte della dottrina (Cfr, X. XX XXXX XXXXXX, Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro, cit., pp.720-725) per cui l’intesa, giudicata
«verbosa e ambigua» pecca di scarsa incisività, considerato che il fatto che, ancora una volta, le “aperture” alla contrattazione di secondo livello sembrano più di stile o strumentali ad una auspicata legislazione di vantaggio fiscale e contributivo che non dettate da genuina e convinta opzione. La competenza del livello aziendale resta, infatti, condizionata da una precisa delega dei livelli superiori, anche relativamente agli istituti che hanno come obiettivo quello di favorire la crescita della produttività aziendale.
Secondo X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, I patti sociali per la competitività: un confronto tra Italia e Francia, in DRI, 2/XXIII, 2013, pp. 478-479), la mancanza da anni di una politica industriale strutturata ha delimitato l’orizzonte entro cui Governo e parti sociali sono stati chiamati a confrontarsi, in nome di un’emergenza la cui gravità era anche il risultato di un’inadeguata attrezzatura conoscitiva. L’intesa ha un carattere strumentale, nel senso che si propone di definire un assetto contrattuale che, pur rimanendo tradizionalmente duale, accorda maggiore autonomia ai soggetti contrattuali e riconosce gli accordi aziendali come strumenti in grado di «rappresentare un’alternativa a processi di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti anche dall’estero, concorrere alla gestione di situazioni di crisi per la salvaguardia dell’occupazione», oltre che rappresentare strumenti essenziali di competitività, crescita territoriale e coesione sociale (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, cit., p. 98). La contrattazione di secondo livello si ritrova a poter disciplinare sia direttamente ed esclusivamente, anche solo in parte, talune materie e/o istituti sulla base delle deleghe previste dalla legge o dal contratto di categoria, sia derogare in peius a quest’ultimo, divenendo così le specifiche intese modificative qualcosa di ordinario nel sistema - differentemente da quanto stabilito dai precedenti Accordi del 2009 e del 2011; mentre il Governo, dal canto suo, incentiva tale obiettivo di flessibilizzazione del sistema contrattuale mettendo a disposizione risorse per la defiscalizzazione parziale del salario di produttività.
Ciononostante, l’Accordo sulla produttività – anche perché separato - non trova compiuta attuazione e a distanza di pochi mesi, precisamente il 31 maggio 2013, Confindustria e le confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, firmano un Protocollo d’Intesa in materia di rappresentanza e rappresentatività, che dà in un certo qual modo concretezza a quello che nel precedente Accordo sulla produttività era stato solo un auspicio. L’Intesa è stata definita da X. Xxxx (X. XXXX, L’accordo sulla rappresentanza sindacale: un altro passo verso relazioni industriali “normali”, in Boll. Speciale ADAPT, 7 giungo 2013) come «necessaria per un sistema di relazioni industriali “normali”, meno conflittuali, più regolate, dove gli accordi si fanno con chi ha la maggioranza ed una volta conclusi si applicano a tutti e da tutti devono essere rispettati». Essa costituisce la naturale attuazione dei principi programmatici di cui all’Accordo interconfederale del 2011, ma non nel senso che debba essergli attribuita solo una portata esplicativa; al contrario, a parere dell’Autore, all’intesa va riconosciuto il merito di fornire una concreta ridefinizione dei principi di rappresentatività.
Le Parti acconsentono a confermare «il principio stabilito nell’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993, ossia che le organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie della presente intesa, o che comunque ad essa aderiscano, partecipando alla procedura di elezione delle RSU, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi della legge n. 300/70; nelle realtà in cui siano state o vengano costituite le RSU, si impegnano a non costituire RSA». In ogni caso, poiché nella struttura attuale della rappresentanza sono presenti entrambe, «il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie» dell’Accordo del 2013. In merito alle rappresentanze unitarie, peraltro, l’intesa introduce come importante novità l’abolizione del principio del c.d. terzo riservato e la previsione che tali rappresentanze vengano elette con voto proporzionale, peraltro omettendo qualunque riferimento a quanto disposto, per altro in maniera analoga, all’art. 8 della legge n.148 del 2011. La conseguenza, a parere di X. XXXXX (X. XXXXX, Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva: tra prossimità e crisi di rappresentatività sindacale, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT – 214/2014, pp. 13-15) non può che essere quella di una sovrapposizione delle discipline sullo specifico della contrattazione decentrata aziendale, che certo non giova all’obiettivo di una visione unitaria della problematica.
Nell’ottica del sistema contrattuale, dottrina rilevante (X. XXXXXX, Diritto sindacale, cit., pp. 330 ss.) ritiene che gli accordi interconfederali del 2011 e del 2012 abbiano in realtà salvaguardato il sistema tradizionale di contrattazione a doppio livello, pur rendendolo più marcatamente decentrato. La derogabilità del contratto nazionale di categoria, infatti, può costituire un’alternativa all’uscita dal sistema contrattuale, poiché le deroghe possono consentire di conciliare le spinte alla diversificazione delle condizioni di lavoro con il mantenimento di una cornice generale di tutele definita dal centro, secondo il modello del decentramento coordinato; ma, diffondendosi, potrebbero anche disarticolarlo definitivamente. D’altra parte, è anche vero che i nuovi princìpi non sempre appaiono del tutto coerenti con l’obiettivo di favorire il decentramento contrattuale. L’autore sottolinea come al potenziamento della contrattazione decentrata dal punto di vista delle competenze, non sempre corrisponda l’impegno ad ampliarne l’estensione prevedendo che le piccole imprese, nelle quali non si pratica la contrattazione aziendale, possano essere coperte in alternativa da quella territoriale. Ove i contratti nazionali – interconfederali o di categoria – riconoscono solo il decentramento aziendale, ai lavoratori dipendenti dalle imprese di piccole dimensioni resta applicabile, in definitiva, solo il contratto di categoria – tra l’altro indebolito nelle sue tradizionali funzioni normativa ed obbligatoria – e ciò determina, oltre che una scarsa equità nella distribuzione del reddito, la centralizzazione di fatto del sistema contrattuale.
4. Il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014
Il susseguirsi di interventi e tentativi di rinnovamento del sistema di relazioni industriali prosegue con la partecipazione dell’attore giurisprudenziale al dibattito in materia di rappresentatività sindacale – il riferimento è alla sentenza n. 231 del 2013 della Corte Costituzionale di cui supra - e con un nuovo accordo raggiunto dalle parti sociali che, in data 10 gennaio 2014, firmato il c.d. “Testo Unico sulla Rappresentanza”, una sorta di documento composito nel quale confluiscono il Protocollo del ’93, l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e il Protocollo d’Intesa del 31 maggio 2013, intervenendo, a parere di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Modalità di costituzione e funzionamento delle RSU, in (a cura di) X. XXXXXXX, Il TU sulla Rappresentanza 10 gennaio 2014, ADAPT e-book series n. 26, 2014), a consacrare una ritrovata unità d’azione.
Il documento detta analitiche e puntuali regole per la misurazione e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori; regole pratiche, per lo più dettate per mettere a punto, nella prassi applicativa, la funzionalità degli Accordi già sottoscritti. L’attuazione del modello in oggetto, come sottolinea B. De Mozzi (X. XX XXXXX, Regole generali sulle forme della rappresentanza in azienda, ivi, p. 38), è demandata in ultima analisi alla contrattazione di categoria, alla quale spetta il compito di riplasmare e rendere esigibili le regole stesse nei diversi settori. L’accordo sopprime formalmente la c.d. clausola del terzo riservato e conferma quanto già previsto nei precedenti accordi in materia di alternatività tra RSA e RSU, codificando in tal modo il doppio canale di rappresentanza. In realtà la preferenza per la RSU appare nel nuovo Testo ancora più netta, essendo presenti formule che sembrerebbero impegnare le parti contraenti e le loro articolazioni a conservarla laddove preesistente. Viene inoltre confermato il riparto di competenze tra i due livelli di contrattazione, nazionale e aziendale, stabilendo che la contrattazione aziendale «si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal contratto nazionale di lavoro di categoria o dalla legge»; e riconoscendo ai contratti decentrati, sulla base di quanto previsto dall’Accordo del 2011, efficacia ed esigibilità per tutto il personale in forza in azienda. Anche la possibilità, riconosciuta ai contratti aziendali, di «definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali, nei limiti e secondo le procedure previste dagli stessi contratti nazionali», viene riproposta e confermata Tale formula, come noto, abilita il contratto aziendale a prevedere deroghe peggiorative alle regolamentazioni contenute nei contratti nazionali e, in caso di concorso/conflitto tra le discipline pattizie, il CCNL prevede la prevalenza della disciplina derogatoria ritualmente dettata dal contratto aziendale.
Ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge ai sensi dell’art. 19 e ss. dello Statuto dei Lavoratori, l’Accordo procede ad una interpretazione della sentenza n. 231 del 2013 della Corte Costituzionale, giudicata da X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Il lungo cammino per Xxxxxxxx della rappresentatività sindacale, cit., p. 48) alquanto estensiva. Il Testo Unico, invero, precisa che non è sufficiente che le organizzazioni sindacali di categoria siano firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva, ma è necessario che «abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del CCNL definito secondo le regole del presente accordo», al chiaro scopo di escludere dall’accesso ai diritti statutari non solo le organizzazioni
sindacali rimaste assenteiste nel corso della trattativa, ma anche quelle firmatarie di un CCNL pur sempre applicato nell’unità produttiva, ma non definito secondo il percorso previsto.
Lo scenario dell’ordinamento sindacale, dunque, resta sostanzialmente immutato, giacché il Testo in esame si risolve pur sempre in un manifesto di «indicazione degli indirizzi politici e comportamentali nell’ambito» di tale ordinamento che non preclude ai soggetti esponenziali dei livelli inferiori di determinarsi in piena autonomia. Peraltro, a conferma dell’intenzione di dar vita ad un sistema interconfederale auto-concluso ed auto-sufficiente, interviene la previsione di una Commissione interconfederale permanente, costituita «a cura delle parti firmatarie […] con lo scopo di favorirne e monitorarne l’attuazione, nonché di garantirne l’esigibilità». Infine, anche in quest’ultimo Accordo, le parti sociali non prendono in alcuna considerazione quanto previsto dal legislatore del 2011, causando e ammettendo la sussistenza di una duplice disciplina che regola in parallelo la vicenda della contrattazione aziendale: quella legale, di cui all’art. 8, e quella negoziale, riassunta dal Testo Unico. È lecito dunque, a parere di X. Xxxxx (X. XXXXX, Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva, cit., p.17), parlare di mancanza di collegamento tra le due fonti regolative, nonché di una palese disarmonia tra le stesse, considerato che i criteri della rappresentanza di cui al TU sono assai difformi dal sostegno alla contrattazione di prossimità di cui all’art. 8.
5. Evoluzione del mercato del lavoro e ultime riforme: il ruolo riservato alla contrattazione collettiva aziendale
L’ultimo intervento delle parti sociali, avvenuto in coda alla lunga crisi finanziaria globale iniziata nel 2008, è seguito, a distanza di poco più di un anno, da un nuovo importante intervento riformatore del legislatore in materia di diritto del lavoro. Superato il tunnel della recessione, lo stesso diritto del lavoro ne esce profondamente cambiato e, a parere di X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Impresa, lavoro, diritto nella stagione del Jobs Act, in DLRI, 2, 150, 2016), «il veicolo del cambiamento, in Italia, ha assunto la denominazione anglofila di Jobs Act».
La valenza dell’impianto riformatore promosso ed attuato dal Governo Xxxxx negli anni 2014-2015, per quanto attiene al tema delle relazioni industriali, risiede principalmente in uno dei numerosi decreti attuativi della legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014. Sebbene secondo alcuni (X. XXXXXXX, Jobs Act e formante sindacale: quale ruolo per la contrattazione
collettiva?, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X'Xxxxxx”, Collective Volumes - 3/2014) il legislatore abbia ostentato indifferenza verso quelle posizioni che segnalavano la necessità di intervenire profondamente, in xxx xxxxxxxxxxx xxxxxxxx xxxx xxxxxx xxxxxxxx dei contratti individuali di lavoro, su un sistema sindacale attraversato e ormai lacerato da un eccesso di tensioni vecchie e nuove, giuridiche e non giuridiche, non manca chi, del parere opposto, ritiene che il legislatore abbia invece dedicato maggiore attenzione che in passato al tema della contrattazione (X. XXXX, La contrattazione collettiva in Europa, in DRI n.2/2018, pp. 390-391). L’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, difatti, contiene un riferimento importante e di forte impatto sulle regole e le procedure della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva, attraverso il quale il legislatore si preoccupa di perimetrare il significato della locuzione “contratti collettivi”, stabilendo che «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria». L’art. 51, dunque, stabilisce che nelle ipotesi, assai frequenti, in cui la legge riconosce poteri regolatori ai contratti collettivi, tali poteri debbano intendersi riferiti indifferentemente sia ai contratti nazionali sia a quelli decentrati, aziendali o territoriali.
I rinvii della legge alla contrattazione collettiva, in effetti, non sono pochi nel nuovo impianto normativo. X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, I rinvii alla contrattazione collettiva nel decreto legislativo n. 81/2015, in DRI, 4/XXVI, 2016, pp. 1073-1075) ne conta più di 50, sparsi tra i molteplici decreti attuativi, in primis nel d.gls. 81/2015. L’Autore, analizzando quantità e caratteristiche di tali rinvii, sottolinea come nella maggioranza dei casi, la tecnica del rinvio venga adoperata dal legislatore soprattutto al fine di riconoscere alle parti sociali margini ulteriori di manovra in termini di flessibilità del rapporto nel mercato del lavoro.
Parte della dottrina (X. XXXXXXXXXX, La riforma del Governo Xxxxx ed il sistema di relazioni sindacali, in Questione giustizia, 3, 2015, p. 49; X. XXXXXXXXXX, Intervento in Legge e contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post-statutario, Milano, Xxxxxxx, 2017, pp. 373 – 377, atti di: Xxxxx e contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post-statutario, Napoli, 16-17 giugno 2016) interpreta il disegno generale del legislatore delegato del 2015 nell’ottica di una marginalizzazione dell’autonomia collettiva, considerando i rinvii rimasti a mo’di specchietti per le allodole, dal momento che essi avrebbero una funzione
prevalentemente derogatoria, la quale però risulta già dispiegata attraverso le dosi massicce di flessibilità assicurate dal legislatore.
Un diverso orientamento dottrinale, invece, (X. XXXXXXXX, Le relazioni collettive nel “nuovo” diritto del lavoro, in DLRI, 152, 2016; X. XXXXXXX, I rinvii alla contrattazione collettiva nel decreto legislativo n. 81/2015, cit., pp. 1076-1077) sostiene che il più ampio e sistematico insieme di rinvii e la rinnovata considerazione del ruolo delle relazioni collettive nel mercato del lavoro meritano di essere considerati in termini di opportunità, specie nella prospettiva di una più stabile e regolata interlocuzione tra fonte legale e fonte contrattuale. Le ulteriori «“iniezioni” di flessibilità» applicate dalla legge al sistema lasciano venire a galla le funzioni originarie della contrattazione collettiva che scaturiscono dal suo ruolo di “fonte” di disciplina del diritto del lavoro […] che svolge il compito di formalizzare il punto di equilibrio tra interessi delle imprese e interessi dei lavoratori in chiave para-legislativa.
Il raccordo tra legge e contrattazione collettiva è oggetto di analisi nell’ottica di un raccordo tra l’ultimo intervento delle parti sociali e quanto disposto dal legislatore all’art. 8 del
d.l. 138 del 2011. X. Xxxxxxxxxx (X. XXXXXXXXXX, Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, ADAPT Labour Studies, e-book series n.45, pp. 27-30) e X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Le fonti (dopo il Jobs Act): autonomia ed eteronomia a confronto, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT – 284/2015), seppur partendo da due punti di vista differenti, indagano proprio tale aspetto e, mentre il primo parla di restrizione degli spazi di deroga in peius concessi dal decreto-legge, il secondo delinea un quadro di evidente sovrapposizione tra le due discipline, che dà luogo ad un conflitto di precetti normativi dovuto al fatto che i requisiti che il contratto di prossimità deve soddisfare per realizzare l’effetto derogatorio non coincidono con quelli indicati dall’art. 51. In particolare, X. Xxxxxxx ritiene che, nei casi in cui le materie coincidono, i contratti di prossimità possono realizzare l’effetto derogatorio previsto dallo stesso art. 8 solo laddove siano soddisfatti alcuni requisiti relativi alle finalità da realizzare e ai soggetti legittimati a stipularli, ma questi ultimi non coincidono con quelli indicati dall’art. 51 sotto due profili: 1. le associazioni sindacali che possono firmare contratti di prossimità possono essere comparativamente più rappresentative a livello “nazionale”, come nell’art. 51, o “territoriale”: quindi il criterio è meno selettivo; 2. i contratti di prossimità producono i loro effetti solo a condizione di essere sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario. A parere dell’Autore, ammesso che anche l’art. 8 legittimi alla
stipulazione dei contratti aziendali tanto le RSA quanto le RSU, la differenza tra i contratti aziendali derogatori disciplinati dal Jobs Act e i contratti di prossimità ex art. 8 sta nel fatto che, come rilevato anche da A. Pizzoferrato (X. XXXXXXXXXXXX, L’autonomia collettiva nel nuovo diritto del lavoro, in DLRI, 2015 p. 411 ss.), i primi non sono tenuti nemmeno a rispettare il generico “criterio maggioritario” previsto invece per i secondi. Di diverso avviso, invece, X. Xxxx (X. XXXX, La contrattazione collettiva in Europa, cit., pp. 395-396) ritiene che la norma si differenzi da quella di cui al citato art. 8 dal momento in cui non attribuisce competenza prioritaria alla contrattazione decentrata, nonostante quest’ultima non possa dirsi neutrale; piuttosto la tradizionale gerarchia delle parti contrattuali è alterata non solo quando si privilegia il contratto decentrato, ma anche quando, come nell’art. 51, il rinvio è indifferenziato ai vari livelli, proprio perché in assenza di vincoli legislativi ogni livello è competente a negoziare le condizioni di lavoro.
D’altronde tale disposizione, come parte della dottrina sostiene (X. XX XXXX XXXXXX,
Il problema dell’inderogabilità delle regole a tutela del lavoro: passato e presente, cit., 20 ss.;
X. XXXXXXX, Il declino dell’inderogabilità?, in DLM, 1, 2013, pp. 53 ss), ha come scopo precipuo quello di garantire una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e il modo prescelto dal legislatore per perseguire tale obiettivo è quello di abilitare l’autonomia collettiva ad esercitare le deleghe di legge, devolvendo alla stessa ampie competenze integrative o modificative di norme altrimenti inderogabili. Sul piano soggettivo, invece, il legislatore compie una scelta selettiva maggiormente stringente rispetto alle soluzioni adottate nelle precedenti stagioni legislative. La disposizione, infatti, subordina la facoltà del contratto collettivo di produrre l’effetto costitutivo del rinvio, vale a dire la legittimazione all’attivazione di contratti individuali di lavoro dotati di un maggior grado di flessibilità, alla circostanza che lo stesso sia stipulato «da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» o, se sottoscritto a livello aziendale, «dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria».
X. Xxxxxxxxxx, in un suo saggio sul tema, (X. XXXXXXXXXX, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo nel decreto legislativo n. 81/2015 cit., p. 367 ss.), ricostruisce la natura e la funzione della nozione di «sindacato comparativamente più rappresentativo», mostrando come la formula si presti ad essere interpretata ed utilizzata in funzione di deterrenza rispetto a comportamenti di datori di lavoro orientati a favorire fenomeni
di dumping contrattuale applicando contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni minoritarie, poco o per nulla rappresentative. Anche X. Xxxxx (X. XXXXX, Jobs Act, cambio di rotta nella contrattazione collettiva?, in Dossier IPSOA - Jobs act, il riordino dei contratti, giugno 2015) sostiene che tali rinvii all’autonomia collettiva siano riconducibili a un modello di interazione tra legge e contrattazione collettiva diverso da quello affermatosi degli ultimi anni: per un verso, infatti, si tratta di un modello che riscopre e rivaluta la tradizionale ripartizione di funzioni tra la legge, incaricata di stabilire standard di tutela, e l’autonomia collettiva, incaricata di potenziare tali modelli tramite disposizioni di miglior favore per i lavoratori; per altro verso, invero, il Jobs Act non rinuncia al modello di derogabilità in peius della legge da parte del contratto collettivo, presente, in riferimento alla normativa in questione, nella disciplina del contratto a tempo determinato e in quella relativa alla flessibilità delle mansioni.
I cambiamenti introdotti dal Jobs Act, relativamente a tutto ciò che, nel dibattito italiano, è stato tradizionalmente declinato mediante la teoria dell’ordinamento sindacale, sono paragonati da X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Impresa, lavoro, diritto nella stagione del Jobs Act cit., pp. 254-255) a quel processo che Xxxx Xxxxxxx ha chiamato di «grande trasformazione». A tale pacchetto di interventi è attribuita da molti una profonda portata destrutturatrice dalla quale l’Autore, almeno in parte, si discosta, considerando tali riforme alla stregua di un adeguamento del diritto al cambiamento del sistema di produzione xxxxxx-fordista nonché un primo impulso, pur non privo di difetti, per una radicale innovazione del paradigma del diritto del lavoro, nell’ottica di una «modernizzazione controllata». La posizione dell’Autore - a detta dello stesso
- si colloca, in un’ottica di costruttivismo critico, tra due correnti dottrinali differenti, una critica e l’altra celebrativa della riforma.
La prima lettura tende a contrapporre la tradizione all’innovazione, nella convinzione che, il modo di produzione capitalista, seppur modernizzato, non mostri sostanziali discontinuità rispetto al passato, tant’è che la questione sociale, in termini di diseguaglianza e sfruttamento del lavoro, non può dirsi affatto superata, ma semmai estesa su scala globale. L’intervento riformatore è dunque giudicato alla stregua di un pacchetto di legislazione di sostegno all’impresa; un rafforzamento, se non un ripristino, della unilateralità del potere datoriale. (Cfr.
X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro ai tempi del renzismo, in Lavoro e Diritto, 1, 2015, pp. 13- 38; X. XXXXXXXX, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” – 246/2015; X. XXXXXXXXXX, La riforma del lavoro del
Governo Xxxxx ed il sistema di relazioni sindacali, in QG, 3, 2015, p. 33 ss). All’interno di questa stessa corrente si è sviluppato anche un sotto-filone critico (Cfr. X. XXXXXXX, Observations sur les réformes de la législation du travail en Europe, in RDT, 3, 2015, pp. 170- 180; X. XXXXXXXX, Riforme strutturali e prospettiva europea di Flexicurity: andata e ritorno, in Lavoro e Diritto, n.2, 2015, pp. 239-258; X. XXXXXXXXXX, Labour Law and Industrial Relations in Recessionary Times. The Italian Labour Relations in a Global Economy, ADAPT Labour Studies e-Book series, n.39, 2015) che, se da una parte guarda con attenzione ai possibili sviluppi riformatori sotto l’egida del paradigma della flexicurity europea, finisce per aderire all’impostazione radicalmente critica, in ragione della cattiva applicazione che il Jobs Act avrebbe fatto di tale paradigma. La riforma è difatti considerata migliorabile, riconoscendo come imprescindibile una trasformazione dell’asse del diritto del lavoro, a patto però che si riconsideri anche la posizione del lavoratore rispetto alle strategie d’impresa; lavoratore visto non più come soggetto passivo di tutela e protezione pubblica, ma posto al centro di una nuova concezione della cittadinanza sociale basata sulle capacitas.
Infine, il filone dottrinale celebrativo della riforma, che vede in X. Xxxxxx e X. Xxx Xxxxx i suoi principali esponenti (X. XXXXXX, La riforma del lavoro in Italia. una nuova cultura delle relazioni industriali, in RIDL, 2, 2015, pp. 205-214; M. DEL CONTE, Xxxxxxxx e prospettive del Jobs Acta, in DRI, 4, 2015, pp. 939-960), si caratterizza per una piena adesione sia sul piano assiologico, sia con riguardo alle tecniche regolative utilizzate e ai risultati perseguiti dal legislatore. Alla base ti questa teoria vi è la considerazione in virtù della quale, con le riforme del Jobs Act, il diritto del lavoro italiano declinerebbe importanti istituti di protezione nel rapporto all’insegna di una modernizzazione che guarda al mercato, all’impresa e ad una tutela del lavoro dinamica anziché statica.
Risulta ancora attuale, dunque, il tema del raccordo tra legge e contrattazione collettiva, derivante, ora come allora, dallo scarso coinvolgimento delle parti sociali tanto nella fase di gestazione della riforma (X. XXXXXXX, Jobs Act e formante sindacale: quale ruolo per quale contrattazione collettiva?, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”
– Collective Volumes, 3, 2014,), quanto in quella applicativa in termini di collaborazione dinamica tra Stato, impresa e sindacato nel processo di regolazione e governo del mercato del lavoro (X. XXXX, Xxxxx osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta
nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 257/2015). Anche l’ultimo intervento normativo in materia giuslavoristica, il decreto-legge n. 87 del 2018, convertito con modificazioni in legge n. 96 del 2018, si caratterizza per l’assenza di un qualsivoglia approccio concertativo prodromico, con l’aggravante di tracciare confini ancora più ristretti per l’iniziativa collettiva. A parere di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, I rinvii della legge all’autonomia collettiva nel Decreto dignità, in Lavoro Diritti Europa, 2, 2018) le disposizioni normative, pur non stravolgendo l’assetto delineato dal legislatore del 2015, lasciano alla contrattazione collettiva scarsa possibilità di adeguamento alle nuove regole, considerate probabilmente dal legislatore come quelle più giuste in materia di contratti a tempo determinato e di somministrazione di lavoro a tempo determinato, per cui l’assetto normativo prescelto non ha bisogno di adattamenti da parte della contrattazione collettiva per modellare la disciplina generale alle peculiari esigenze di uno specifico settore o di una singola azienda.
Eppure, i mutamenti delle coordinate economico-produttive, la globalizzazione e soprattutto l’impennata degli effetti della rivoluzione tecnologica e digitale, prefigurano nuovi modelli di trasformazione dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro, in relazione ai quali, a parere di molti, il contratto collettivo aziendale deve essere inteso e valorizzato come motore di nuove sperimentazioni (dal coinvolgimento dei lavoratori, ad iniziative di well-being e di welfare aziendale), mentre il contratto nazionale può e deve continuare a fornire il contesto generale nel quale definire i rapporti di lavoro (X. XXXXXX, Impresa, lavoro, diritto nella stagione del Jobs Act cit., pp. 261-263; X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Il piano nazionale Industria 4.0: una lettura lavoristica, in Labour & Law Issues, vol. 2, n.2, 2016, pp. 33-34).
Sez.II - Il sistema di relazioni industriali in Francia
Sommario: 1. Introduzione - 2. Le fonti del sistema di relazioni industriali: breve excursus storico – 3. L’istituzionalizzazione della negoziazione d’impresa: le Xxxx Xxxxxx del 1982 –4. Luci e ombre della c.d. Loi Xxxxxx del 2004 nel lungo cammino verso il decentramento – 5. Rénovation del sistema di relazioni industriali francese: la legge del 20 agosto 2008 – 6. L’ANI dell’11 gennaio 2013 e la legge n. 504 del 14 giugno 2013: gli accordi di salvaguardia dell’occupazione – 7. La Loi Xxxxxxxx del 17 agosto 2015 e il Rapporto Combrexelle dell’ottobre dello stesso anno – 8. La legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016, nota come Loi Travail - 9. Le ordonnances Macron del 22 settembre 2017: una rivoluzione copernicana? –
9.1 L’Ordonnance n. 2017-1385 relativa al «consolidamento della negoziazione collettiva» -
9.2 Gli accordi di c.d. performance collettiva ex art. L. 2254-2 del Code du Travail – 9.3 L’ordonnance n. 2017-1386: nuove regole in materia di rappresentanza e validità degli accordi aziendali
1. Introduzione
La definizione di “diritto sindacale” rappresenta la prima sostanziale differenza tra i sistemi di relazioni industriali italiano e francese. In Francia l’espressione droit syndical identifica il diritto sindacale quale forma giuridica, non ricomprendendo la contrattazione collettiva né la rappresentanza dei lavoratori nell’impresa o i conflitti collettivi, i quali, al contrario, rilevano alla stregua di disposizioni costituzionali (A. LYON-CAEN, Le recenti evoluzioni del diritto francese delle relazioni industriali, in (a cura di) XXXXXXXX L., XXXXXXX A., Le relazioni industriali, cit., p. 280). Tale divergenza non è l’unica a creare un divario tra i due sistemi, che anzi, a parere di X. Xxxxxx, non hanno «niente in comune, o quasi, nonostante si tratti di Paesi le cui culture giuridiche sono molto vicine» (X. XXXXXX, La riforma del contratto collettivo in Francia. Riflessioni sulle trasformazioni del diritto, in DLRI, II, 2005, p. 155)
L’esperienza francese è quella di un sistema di relazioni industriali in cui le leggi dello Stato occupano un ruolo fondamentale, responsabili della disciplina di materie che in altri ordinamenti, primo fra tutti quello italiano, sono tradizionalmente riservate alla competenza delle parti sociali. X. Xxxxxxx (MAGNANI M., Diritto sindacale europeo e comparato, Giappichelli, Torino, 2015, p. 123) lo definisce «un sistema fortemente giuridificato e tradizionalmente centralistico», in cui lo Stato ha acquisito uno spazio sempre più ampio grazie
soprattutto al forte pluralismo sindacale e all’accesa conflittualità degli stessi attori, quest’ultima responsabile, a sua volta, della modestissima percentuale di adesione sindacale dei lavoratori. La Francia, difatti, è il Paese, tra tutti quelli della “vecchia” Europa, a far registrare il tasso di sindacalizzazione più basso, pari a circa il 10% dei lavoratori subordinati; percentuale che scende all’8% se si considerano i soli lavoratori del settore privato. Lo Stato, di conseguenza, non solo riesce ad acquisire uno spazio decisionale più ampio, ma interviene sottraendo spazi altrove riservati alla contrattazione collettiva e occupando una posizione di primo piano nella determinazione delle regole che devono sovraintendere al sistema di contrattazione.
I principi che hanno da sempre retto tale sistema, fino ad un loro recente e progressivo ridimensionamento, sono essenzialmente due, l’uno fondamento dell’altro: si tratta del principio dell’ordine pubblico – c.d. ordre public social - di cui all’art. 6 del Codice Civile; e del principio del favor (principe du faveur), la cui fonte legale risiede nell’art. L. 2251-1 del Codice del Lavoro. Il primo, stabilendo l’impossibilità di deroga alle norme che interessano l’ordine pubblico da parte della contrattazione collettiva, delinea di fatto un perimetro di valori collettivi forti e di esigenze di interesse generale che, in quanto tali, sono appannaggio esclusivo del legislatore, che ne fa da garante (X. XXXXXXXXXXX, M.A. SOURIAC, Les rapports de la loi et de la convention collective: une mise en perspective, in DS, 2003, p. 79). Per converso, il secondo rappresenta in un certo qual modo la regola d’oro nei rapporti tra legge e contrattazione collettiva, qualora le due fonti normative si trovino in concorrenza fra loro. In virtù del principio del favor, infatti, quando due norme sono applicabili al medesimo rapporto di lavoro, a prevalere è sempre quella più favorevole per il lavoratore, per cui la deroga in melius alla legge è sempre ammessa, pur provenendo da fonti normative di livello gerarchico inferiore.
È con questi principi, dunque, oltre che con una nuova concezione del ruolo dello Stato nel sistema di relazioni industriali, che il processo di decentramento del sistema contrattuale - promosso dallo stesso legislatore, garante dell’interesse generale - ha dovuto fare i conti negli ultimi trent’anni, da quando cioè ha cominciato ad essere sempre più forte la convinzione che il contratto collettivo aziendale fosse quello «spazio nuovo di produzione normativa», come definito da M.L. Xxxxx (M.L. XXXXX, Permanence et transformations du rôle de la négociation collective de branche, in XXXXXX G., XXXXX M.L., DA COSTA I., L’état des
relations professionnelles. Traditions et perspectives de recherches, Toulouse, Octarès Editions,1996, pp. 351 ss.) da riscoprire ed incentivare. Quegli interessi particolari e divergenti che un tempo si riteneva compromettessero l’accord d’entreprise (X. XXXXXXXXXXX, M.A. XXXXXXX, Les rapports de la loi et de la convention collective cit, p.80) divengono, dunque, soprattutto a partire dagli anni della crisi, gli stessi da tutelare e valorizzazione, messi all’angolo dalla rigidità del sistema.
2. Le fonti del sistema di relazioni industriali: breve excursus storico
Le fonti del sistema di relazioni industriali sono da ricercare primariamente nella Carta costituzionale e, più precisamente, nel Preambolo della Costituzione del 1946, cui rinvia il Preambolo della vigente Costituzione del 1958: esso sancisce, difatti, il principio di libertà sindacale, al quale si ascrive anche la libertà di contrattazione collettiva. Il diritto alla negoziazione collettiva viene definitivo, all’alinéa 8, come il diritto di ciascun lavoratore di partecipare, per mezzo dei propri rappresentanti, alla determinazione collettiva delle condizioni di lavoro e alla gestione dell’impresa, mentre il ruolo del legislatore, come stabilito all’articolo 34 della Costituzione, è quello di sancire i principi fondamentali del diritto del lavoro. Se è dunque il singolo lavoratore a detenere la titolarità del diritto alla negoziazione collettiva (per il tramite dei propri rappresentanti), è il legislatore ad essere competente per la definizione e l’organizzazione della stessa.
Già questa, a parere di X. Xxxxxxxxxxx e M.A. Souriac (X. XXXXXXXXXXX, M.A. SOURIAC, Les rapports de la loi et de la convention collective cit, p. 77), rappresenta una delle peculiarità proprie del sistema francese, foriera di un ricco dibattito in dottrina relativo al monopolio legislativo nella definizione dei principi fondamentali del diritto del lavoro. In realtà, già nel 1973 il Consiglio di Stato riconosceva la prerogativa, in capo all’autonomia collettiva, di istituire «le garanzie o i vantaggi non previsti dalle disposizioni legislative mediante contrattazione collettiva»; e successivamente il Consiglio Costituzionale, con una decisione del 25 luglio 1989, ha riconosciuto al contratto collettivo lo status di possibile surrogato del c.d. règlement d’application dei principi fondamentali stabiliti dalla legge. Alla luce di ciò, gli Autori non reputano giusto sostenere che la legge sia il detentore assoluto delle garanzie e dei diritti fondamentali dei lavoratori in Francia; piuttosto, è giusto affermare che lo
spazio riconosciuto in materia alla negoziazione collettiva è di fatto delimitato e circoscritto dal legislatore.
L’evoluzione del sistema di relazioni industriali è, di conseguenza, scandito dagli interventi del legislatore in materia. Nel 1884 la legge Xxxxxxx-Xxxxxxxx accorda la libertà sindacale alle associazioni professionali, sotto la condizione del deposito del loro Statuto, i sindacati ricevono il loro primo riconoscimento formale e giuridico e, qualche anno più tardi, precisamente nel 1919, tale riconoscimento riguarderà chiaramente anche la contrattazione collettiva. X. Xxxxxx (X. XXXXXX, La riforma del contratto collettivo in Francia cit., p.156) sostiene che sia stata proprio questa legge ad inaugurare la successiva stagione di interventi normativi volti ad estenderne progressivamente l’importanza e la portata. Invero, la legge del 24 giugno 1936 istituzionalizza il contratto collettivo nazionale di lavoro, ne riconosce il ruolo di perno nelle relazioni di lavoro e gli attribuisce validità erga omnes all’interno del settore di riferimento, per il tramite di un meccanismo di estensione promosso da un decreto ministeriale, al fine di garantire l’eguaglianza dei lavoratori e al tempo stesso di evitare possibili distorsioni della concorrenza. Successivamente, la legge n. 50-205 dell’11 febbraio 1950, se da un lato segna una prima tappa nel processo di decentramento della negoziazione collettiva, riconoscendo per la prima volta gli accordi collettivi di stabilimento, dall’altro compie un passo in avanti anche nel processo opposto di centralizzazione del sistema contrattuale, istituendo il
c.d. Salario Minimo Interprofessionale Garantito (SMIG) ed attribuendo alle parti sociali a livello nazionale il compito di negoziare i minimi retributivi del settore, nel rispetto del minimo salariale già fissato dal legislatore.
La tre leggi fin qui citate, come sottolinea X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Diritto sindacale europeo e comparato cit., p.128), possono essere senza dubbio considerate le leggi fondatrici del sistema francese di relations professionnelles, caratterizzato fin dalle origini da un atteggiamento di apertura al decentramento, ma al tempo stesso da un ruolo dominante riservato alla contrattazione nazionale (rectius, di branche), tanto rispetto alla contrattazione interprofessionale quanto a quella aziendale e di stabilimento. Centralità che poggia su presupposti diversi da quelli propri del sistema contrattuale italiano, se si considera che l’ordinamento francese, non conoscendo il principio del ne bis in idem, riconosce la possibilità di negoziare un medesimo istituto a diversi livelli, financo a quello inferiore, godendo ciascuno di piena autonomia e indipendenza.
È poi la legge del 13 luglio 1971 a riconoscere formalmente e per la prima volta il diritto alla negoziazione collettiva, precedentemente declinato, nell’intervento normativo del 1950, come mero diritto delle conventions collectives. Essa, inoltre, formalizza il carattere multilivello del sistema contrattuale francese, in cui ai tre livelli di negoziazione - interprofessionnel, de branche e d’entreprise - viene attribuita natura giuridica di veri e propri contratti collettivi. Ciononostante, sottolinea X. Xxxxxxx, (X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva aziendale. L’ordinamento dell’Unione Europea e l’evoluzione comparata dell’istituto in Francia e in Italia, Collana Massimo D’Antona, Lavoro e Diritto, 2017), durante tutto il corso degli anni ’70 la contrattazione collettiva di secondo livello continua ad avere carattere di totale informalità, confermandosi il livello nazionale quello prediletto per le negoziazioni; l’accordo aziendale, d’altronde, viene ancora definito “accord armistice”, alludendo cioè a un accordo sempre rinegoziabile in funzione dei rapporti di forza. Eppure, i primi accordi aziendali cominciano ad essere sottoscritti, assolvendo oltretutto un’importante funzione trainante, al punto che gli istituti normativi in essi previsti, vengono poi declinati a livello nazionale, ad opera della contrattazione di categoria o della legge. Cosa che è avvenuta, ad esempio, con due accordi dell’azienda Renault del 1955 del 1969, istitutivi, rispettivamente, della terza e della quarta settimana di ferie retribuite, poi estese a tutti i lavoratori per intervento del legislatore. Secondo l’Autore, ciò che accade in Francia tra gli anni ’50 e ’60 è che il contratto collettivo nasce e si sviluppa a partire dalle fabbriche, anche se ciò non significa che
- come in Italia - in tale sede i sindacati fossero muniti di una forza di mobilitazione tale da sostenere una contrattazione collettiva di categoria. Più realisticamente, significa che alcune pratiche aziendali incominciano ad essere istituzionalizzate all’interno delle fabbriche, per poi essere trasfuse in contratti collettivi che, in quanto tali, rappresentano solo lo strumento che consente di pervenire ad un simile risultato.
3. L’istituzionalizzazione della negoziazione d’impresa: le Xxxx Xxxxxx del 1982
Il primo vero impulso allo sviluppo della contrattazione collettiva di secondo livello è da ricercare nelle c.d. Xxxx Xxxxxx del 1982. Sono questi gli anni del primo governo di sinistra, della Presidenza Xxxxxxxxx, e dell’ambizione dichiarata di quest’ultimo di fare dei lavoratori
«dei cittadini all’interno dell’impresa». Delle quattro leggi, la n. 82-957 del 13 novembre 1982
- relativa alla négociation collective et au règlement des conflits collectifs du travail - introduce novità importanti che determinano un generale stravolgimento del relativo quadro normativo.
La legge in questione, invero, dà impulso e sostegno alla contrattazione collettiva introducendo un obbligo per le imprese con almeno 50 dipendenti, a trattare annualmente con i delegati sindacali in materia di retribuzione, durata e organizzazione dell’orario di lavoro, nonché riconoscendo agli accordi collettivi la possibilità di derogare in peius ad alcune disposizioni legali, sebbene solo limitatamente all’orario di lavoro e a determinate condizioni. Se a parere di alcuni (X. XXXXXXXXX, Stato e autonomia collettiva. Diritto sindacale italiano e comparato, Xxxxxxx, 138, 1992, pp. 530 ss.; X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva aziendale cit., p.58) la manovra ha come scopo quello di spostare il perno dell’intero sistema dal diritto del legislatore a quello contrattuale, stimolando un maggiore dinamismo contrattuale e incoraggiando le parti ad affidarsi maggiormente al livello più decentrato, non manca, nella letteratura internazionale, chi giudica tale inedita obbligatorietà alla stregua di un arretramento delle iniziative sindacali a vantaggio dei principi del dialogo sociale (X. XXXX, X. XXXXXX, Decentralized Collective bargaining in France, in Economia & Lavoro, fasc.1, gennaio-aprile 2014, pp. 26-27), mancando di considerare che le aziende di piccole dimensioni molto spesso non possiedono le conoscenze, il tempo o il budget necessari per far fronte alle richieste del legislatore. Ad ogni modo, è comune tra gli Autori l’idea che le novità introdotte dalla legge del 1982 abbiano determinato un totale stravolgimento dell’originario impianto di relazioni industriali francese. In particolare, quello che F. Héas (F. XXXX, Xxxxx xx xxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000, p. 35 ss.), ritiene essere stato sovvertito, è quel principio del favor che ha da sempre rappresentato una delle fondamenta su cui poggia il diritto del lavoro francese, cui fa da corollario l’inaugurazione di una nuova sottocategoria di ordine pubblico – il c.d. ordine pubblico derogatorio - frutto dell’inedita possibilità di deroga in peius riconosciua ai contratti collettivi aziendali.
In parte difforme il parere di X. Xxxxxx ed X. Xxxxxx (X. XXXXXX, X. XXXXXX, Droit du travail, Dalloz, Paris, 2014, p. 1327), secondo i quali la volontà del legislatore del 1982 è sì quella di realizzare una politica di recentrage sull’impresa, facendo dell’azienda il motore dell’intera struttura contrattuale, ma anche quella di evitare una frammentazione e un indebolimento dei diritti dei lavoratori, possibile conseguenza di un completo ribaltamento della gerarchia delle fonti a vantaggio della contrattazione d’impresa.
Il dibattito dottrinale sorto attorno alle nuove prerogative riconosciute alla contrattazione aziendale giunge ad un punto d’arrivo con la decisione del Conseil Constitutionnel del 20 marzo
1997 (Décision n. 97-388 DC, 20 mars 1997), con la quale viene esclusa espressamente e in via definitiva la possibilità di attribuire valore costituzionale al principio del favor. Successivamente, una Position commune del 16 luglio 2001, sottoscritta dalle principali parti sociali, ad eccezione della CGT, compie un ulteriore passo avanti, riconoscendo a tale principio natura di principio generale piuttosto che di principio fondamentale; differenza non di poco conto se si considera che, in Francia, i c.d. principi generali del diritto del lavoro, a differenza di quelli fondamentali, rientrano nella nozione di ordine pubblico relativo e, pertanto, rientrano nella piena disponibilità delle parti. Queste ultime, nell’intento di dare un «nuovo slancio alla negoziazione collettiva in seno ad un sistema efficiente di relazioni sociali, […] adattato ad un’economia diversificata e aperta al mondo», introducono per la prima volta il principio maggioritario in materia di contratti collettivi, chiedendo un intervento legislativo urgente in merito, e definiscono a chiare lettere un modello di articolazione dei livelli negoziali, riconoscendo a ciascuno una propria funzione all’interno di una cornice ben definita di responsabilità. Al livello nazionale interprofessionale è affidato il ruolo di garante del sistema, al livello nazionale (de branche) spetta quello di solidarietà, supervisione e d’impulso della negoziazione aziendale attraverso la definizione di regole comuni alla categoria, mentre alla negoziazione d’impresa compete di trovare e implementare soluzioni ad hoc, in grado di rispondere alle effettive esigenze delle singole aziende e dei propri dipendenti. Pur non trattandosi di un accordo vincolante, ma di un semplice documento politico destinato ad essere presentato ai pubblici poteri in vista di eventuali riforme legislative, anche costituzionali, esso si rivelerà il trampolino di lancio della successiva riforma del sistema contrattuale, avviata con la Loi Xxxxxx del 2004.
4. Luci e ombre della c.d. Loi Xxxxxx del 2004 nel lungo cammino verso il decentramento
La riforma promossa dalla legge n. 2004-391 del 4 maggio 2004 - relativa alla formazione professionale continua e al dialogo sociale – poggia, a parere di a X. Xxxxxx (X. XXXXXX, La riforma del contratto collettivo in Francia cit., pag. 159), su tre grandi assi: l’indebolimento del rapporto gerarchico tra norme legali e norme convenzionali, l’estensione del campo della negoziazione collettiva e l’adozione del principio maggioritario. Novità per le quali le stesse parti sociali solo qualche anno prima avevano fatto richiesta di intervento al legislatore nella Position Commune del 2001.
Il principio maggioritario si sostituisce così a quello previgente dell’unicité de signature, in virtù del quale era sufficiente la firma anche di una sola organizzazione sindacale rappresentativa per attribuire validità ad una convention o a un accordo. La legittimazione negoziale, inoltre, è riservata ai soli sindacati che lo Stato ha riconosciuto essere rappresentativi tramite decreto, non essendo concessa una legittimazione generalizzata sulla base di un’autonomia collettiva di cui ciascuna organizzazione sindacale è titolare, come de resto accade in Italia (I. XXXXXX, Guida alla lettura della recente legge di riforma della democrazia sindacale in Francia: piena compatibilità fra regolamentazione della contrattazione collettiva e principio del pluralismo sindacale, in DLRI, 2009, p. 365). D’altronde, come evidenziano due illustri Autori (X. XXXXXXXXXXX, M.A. SOURIAC, Les rapports de la loi et de la convention collective cit, p. 73), libertà e potere normativo delle parti sociali, in Francia, sono sempre sotto il controllo delle leggi dello Stato. Tale rappresentatività, per di più, è data per presunta in capo a cinque storiche confederazioni (c.d. Club des Cinq, composto da CGT, CFDT, CGT-FO, CFTC e CGC) in virtù di un decreto ministeriale del 1966, mentre tutte le altre sono tenute a dimostrare la propria sulla base di criteri tra l’altro non sempre facili da accertare in concreto.
L’intento della riforma, dunque, è quello di far sì che il contratto collettivo destinato ad avere un’applicazione generalizzata sia solo quello al quale hanno prestato consenso le organizzazioni sindacali che, nel loro complesso, rappresentino la maggioranza dei lavoratori i cui rapporti saranno regolamentati da quello stesso contratto. Consenso che è esprimibile tanto in maniera esplicita, sottoscrivendo l’accordo, quanto in maniera implicita, cioè non opponendosi allo stesso. È la legge che talvolta attribuisce alle organizzazioni maggioritarie un diritto di opposizione agli accordi firmati dai sindacati minoritari e altre volte subordina la validità del contratto all’impegno esplicito delle organizzazioni maggioritarie. Tuttavia, come sottolinea anche I. Xxxxxx in un suo saggio (I. XXXXXX, Guida alla lettura della recente legge di riforma della democrazia sindacale in Francia cit., p. 367), raramente a livello di categoria sono state elaborate regole per la formazione di una maggioranza di sottoscrizione da far prevalere sull’alternativa rappresentata dalla maggioranza di opposizione; le organizzazioni sindacali, invero, hanno preferito riservarsi la facoltà di utilizzare il diritto d’opposizione, evidentemente meno impegnativo dal momento che non impone alle parti di raggiungere un accordo su uno specifico testo contrattuale.
L’accordo maggioritario così delineato acquisisce, inoltre, l’inedito potere di derogare al contratto collettivo di categoria, fatta (ancora) eccezione per le materie inerenti ai minimi salariali, alla classificazione del personale e al regime dei fondi destinati alla formazione professionale e di previdenza complementare. Per tutte le altre materie, il contratto collettivo di settore è invece da intendersi liberamente derogabile, salvo che esso stesso non disponga diversamente, ricorrendo alle c.d. clausole di blocco (clauses de verrouillage), volte a definire le materie e i limiti di regolazione del contratto aziendale. Non manca in dottrina chi sostiene che la rivoluzione annunciata non abbia in realtà mai avuto luogo, non avendo di fatto le imprese goduto delle possibilità offertegli come ci si immaginava. D’altronde alla negoziazione di settore è riconosciuta la possibilità - spesso abusata - di inserire nei nuovi accordi clausole che escludano ogni tipo di deroga in peius da parte della contrattazione di livello aziendale; e per di più il nuovo regime non si applica che a quegli accordi che siano stati sottoscritti dopo l’entrata in vigore della norma (X. XXXXXXX, X. XXXXXX-BUSCONE, Xx xxx xx 0 xxxx 0000 x xx xxxxx xxxxxxxxxxxxx xx l’accord d’entreprise: du mythe à la réalité, in La semaine juridique, n.43-44, 2016, p. 1368). Dello stesso parere X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva «di prossimità»: teoria, comparazione e prassi, in RIDL, I, 2013, pp. 933-935), il quale, analizzando la prassi seguita dagli attori sociali negli immediatamente successivi all’emanazione della legge, rileva come l’uso delle clausole impeditive della deroga sia stato ampiamente utilizzato, mentre la facoltà di deroga è stata raramente impiegata a livello aziendale, a conferma di un interesse delle parti a non stravolgere l’assetto preesistente.
Diversamente, altra parte della dottrina (X. XXXXXXXXXXX, X. XXXX-CAEN, M.A. SOURIAC, I. VACAIRE, La négociation collective à l’heure des révisions, Xxxxxx, 2005) ritiene che la La Loi Xxxxxx abbia in realtà ridotto notevolmente il campo di applicazione del principio del favor, sostituendolo di fatto con il più generale principio del «specialia generalibus derogant», di fatto spogliandolo dell’essenza stessa della sua portata nei rapporti tra contratti collettivi e tra contratti collettivi e la legge. Anche X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Diritto sindacale europeo e comparato cit., p. 136) ritiene che la facoltà di deroga in peius a alle disposizioni di legge sia stata eccessivamente ampliata: se prima tale facoltà era spesso subordinata alla conclusione di un accordo o contratto collettivo di categoria e frequentemente sotto riserva di una sua estensione, la novella legislativa, dando voce alle speranze della classe imprenditoriale, crea un «contratto collettivo di impresa», di fatto sganciato dalle discipline della legge e della contrattazione nazionale, concedendo agli accordi aziendali facoltà di deroga
inediti che restringono le aree precedentemente di appannaggio esclusivo del contratto di categoria. Xxxxx stesso parere è anche X. Xxxxxx (X. XXXXXX, La riforma del contratto collettivo in Francia cit., 160 ss), particolarmente critico nei confronti della riforma poiché convinto che
«nella negoziazione a livello d’impresa, a differenza della contrattazione di categoria, la minaccia della perdita di competitività e dell’impiego può essere sempre brandita per convincere i lavoratori a rinunciare a determinati loro diritti». La riforma, inoltre, sostiene X. Xxxxxx, ha natura tale da incentivare, tra le imprese di uno stesso settore, una concorrenza fondata sulla corsa alle deroghe e sull’offerta al ribasso sociale, a dispetto della vocazione primaria del diritto dei contratti collettivi.
I risultati di una ricerca empirica promossa da X. Xxxxxx e X. Xxxxxx, ottenuti conducendo interviste con i principali attori negoziali di dieci settori merceologici (X. XXXXXX, X. XXXXXX, La mise en œuvre des dispositions de la loi du 4 mai 2004 permettant aux entreprises xx xxxxxxx xxx xxxxxxx xx xxxxxxx, xx xxx.xxxxxx.xxxxxxxx-xxxxxxxx.xx, 0000, p. 18-19) hanno dimostrato come anche la riforma del 2004 si sia rivelata scarsamente attenta ai bisogni delle aziende di piccole e piccolissime dimensioni, il più delle volte prive di esperti giuridici e di responsabili risorse umane, oltre che di interlocutori sindacali. Il mandato a negoziare nei confronti di un lavoratore, ammesso dalla legge nelle aziende con meno di 10 dipendenti, seppur si sia rivelato importante per le negoziazioni sulle 35 ore, è stato fonte di non poche perplessità quando si è trattato di negoziare accordi meno favorevoli rispetto a quelli conclusi a livello di settore. Il divario, in termini di opportunità, che separa le grandi aziende da quelle di piccole dimensioni è dunque ancora attuale e conferma, secondo gli Autori, la maggiore adeguatezza della contrattazione nazionale, che di fatto non impedisce forme informali di dialogo nei piccoli stabilimenti.
Ad ogni modo, le argomentazioni addotte non sono molto diverse da quelle riservate da buona parte della dottrina italiana all’intervento normativo promosso dal legislatore in Italia nel 2011 e non molto distante per certi versi da quello francese del 2004, pur discostandosene per alcuni aspetti fondamentali (CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale cit, pp. 38 ss; XXXXXXXXX F., Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”. XX, x. 000, 0000, xx. 00 xx; XXXXXXX A. – SPEZIALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”. XX, x.
000, 0000, xx. 00 xx). Se infatti l’art. 8 del d.l. 138 del 2011, ammettendo la deroga alla legge da parte della contrattazione aziendale, di fatto elimina ogni condizionamento ed ogni vincolo autorizzatorio del contratto nazionale, la riforma francese del 2004 opta ancora per una conservazione del principio del favor rispetto ad alcune materie più “delicate” come quella dei minimi retributivi, e contempla un vincolo autorizzatorio preventivo che di fatto dimostra come il contratto de branche mantenga ancora il governo del sistema.
5. Rénovation del sistema di relazioni industriali francese: la legge del 20 agosto 2008
La politica di recentrage sull’impresa, avviata dalle Loi Auroux del 1982 e portata avanti dalla Loi Xxxxxx del 2004, prosegue nel 2008 con la legge n. 2008-789 del 20 agosto. Ad essere modificato è principalmente il criterio gerarchico e, di riflesso, quel principe de faveur, risolutore di qualunque conflitto tra norme e tra queste ultime e le convezioni collettive. Per limitare le clauses de verrouillage summenzionate e rendere effettivo il principio di autonomia dei livelli negoziali, la riforma privilegia la norma negoziata a livello aziendale creando un meccanismo che permette all’accordo di secondo livello non più solo di stipulare disposizioni meno favorevoli rispetto a quanto previsto dall’accord de branche, ma di diventare in sostanza il suo stesso referente dopo la legge. A parere di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Come cambia il sistema francese di relazioni industriali: prospettive e prerogative della contrattazione aziendale, in DLM, III, 2014, p. 5), il legislatore provvede in tal modo ad indebolire e svuotare di contenuti le conventions de branche, rimuovendo ogni rapporto gerarchico tra contratti collettivi di diverso livello, nonché trasformando la mera sussidiarietà della convention de branche rispetto all’accordo d’impresa in una vera e propria suppletività, in virtù della quale gli stessi trovano applicazione solo in assenza di uno specifico accord d’entreprise.
Di parere diverso, invece, X. XXXXXXX e X. XXXXXX-BUSCONE (CHAPRON M., XXXXXX-BUSCONE P., Xx xxx xx 0 xxxx 0000 x xx xxxxx xxxxxxxxxxxxx xx l’accord d’entreprise cit., pp. 1368 ss.), sostengono che l’impatto della riforma sia rimasto tutto sommato limitato, non realizzando assolutamente un’inversione della gerarchia delle norme, ma limitandosi ad estendere la primauté dell’accordo aziendale ad ulteriori aree di intervento - tutte relative al macrotema dell’orario di lavoro - in primis le percentuali di maggiorazione per lavoro straordinario.
Al di là dell’impatto più o meno importante che la riforma in questione ha comportato per il diritto del lavoro tout court, la legge interviene anche su un altro tema di fondamentale importanza in relazione all’organizzazione e alla gestione delle relazioni industriali in azienda, ossia quello relativo ai criteri di accertamento della rappresentatività sindacale e la valorizzazione del consenso espresso dai lavoratori nei confronti delle organizzazioni sindacali. L’esigenza di un simile intervento riformatore è figlia del sistema francese di rappresentanza, di stampo duale, che in molti contesti negoziali ha mostrato tutta la sua fragilità e inadeguatezza. Da un lato i sindacati, spesso privi di una percentuale di rappresentatività significativa, ai quali è riconosciuto il diritto esclusivo di sottoscrivere accordi; dall’altro le istanze rappresentative del personale che, specialmente nelle aziende di piccole dimensioni, sono spesso elette da liste indipendenti dalle sigle sindacali e le cui elezioni sono maggiormente sentite dalla forza lavoro. La rifondazione del sistema poggia essenzialmente su tre pilastri fondamentali: a. la rimodulazione dei criteri legali attraverso l’introduzione del principio del cumulo degli stessi e la valorizzazione del criterio elettorale; b. l’eliminazione del criterio della rappresentatività presunta; c. la generalizzazione della cosiddetta “regola di concordanza”.
Sotto il primo profilo, il legislatore sostituisce l’originaria lista dei cinque criteri di accertamento della rappresentatività con sette criteri rivisitati, tra i quali risalta indubbiamente, per la sua originalità nel sistema di relations professionnelles francesi, quello del seguito elettorale; la riforma stabilisce infatti che affinché un sindacato possa essere considerato rappresentativo, deve dimostrare non solo di possedere i criteri summenzionati, ma anche di aver raccolto ai vari livelli negoziali un determinato numero di voti alle elezioni di specifici organi di rappresentanza dei lavoratori (X. XXXXXX, Droit du travail, Tome II, Les relations collectives de travail, PUF, 2001, pp. 13-190). A livello di impresa o di stabilimento, in particolare, sono considerate rappresentative le organizzazioni sindacali in possesso dei requisiti generali e che hanno ottenuto almeno il 10% dei voti espressi al primo turno delle ultime elezioni dei componenti del comitato d’impresa o della delegazione sindacale unica del personale o, in mancanza, dei delegati del personale, qualunque sia il numero dei votanti. L’eliminazione del principio della rappresentatività presunta, finalizzato a combattere la posizione privilegiata riconosciuta ad alcune organizzazioni sindacali storiche, comporta, dunque, che qualunque sindacato intenda accedere alle prerogative riconosciute dalla legge alle organizzazioni rappresentative deve dimostrare la propria rappresentatività, fornendo la prova di tutti e sette i requisiti previsti dal nuovo art. L. 2121-1 del Code du travail divenuti, per
l’appunto, cumulativi. Prova che, per di più, deve essere fornita per ogni livello per il quale si voglia agire, in virtù della c.d. regola di concordanza; di conseguenza, un sindacato che abbia dimostrato di essere rappresentativo, ad esempio, a livello di categoria, non è esonerato dal dover dimostrare di essere al contempo rappresentativo al livello della singola impresa, nella quale voglia accedere alle prerogative sindacali previste per tale livello.
Il criterio dell’audience elettorale, dunque, acquista un peso determinante e l’idea maggioritaria diviene non solo criterio di legittimazione dei soggetti negoziali, ma anche di validità stessa dell’accordo. A tal proposito, ulteriore merito della legge in questione è quello di aver operato per la prima volta una distinzione tra validità dell’accordo e legittimazione delle parti - criteri che in passato, invece, avevano finito per sovrapporsi - nonché tra legittimazione a trattare e legittimazione a concludere l’accordo. È ora lo stesso criterio di legittimazione negoziale a divenire uno dei requisiti che concorrono alla validità dell’accordo, accordo che, a livello nazionale, gode, nell’ordinamento francese, di efficacia erga omnes ope legis, dovendo essere applicato a tutti i lavoratori dipendenti delle imprese iscritte all’organizzazione datoriale stipulante, senza che assuma alcuna rilevanza l’appartenenza sindacale del lavoratore. Ebbene, in virtù delle modifiche introdotte dalla legge del 2008, il contratto collettivo, a qualunque livello, deve essere sottoscritto da una o più organizzazioni sindacali che, nel loro complesso, abbiano raccolto un certo numero di voti in occasione delle elezioni per la costituzione degli organismi elettivi di rappresentanza dei lavoratori e nello specifico, per quanto riguarda il livello di impresa, il contratto collettivo risulta valido qualora sia sottoscritto da una o più organizzazioni sindacali rappresentative che abbiano ottenuto almeno il 30% dei voti espressi al primo turno delle elezioni dei titolari del comitato d’impresa o della delegazione unica del personale, nonché qualora non vi sia l’opposizione di una o più organizzazioni sindacali rappresentative che abbiano raccolto più del 50% dei voti. Il legislatore del 2008, difatti, declina il principio maggioritario in due modi differenti, a seconda che si tratti di majorité d’adhesion e di droit d’opposition, criteri tra l’altro considerati cumulativi e non più alternativi, come evidenziato da X. Xxxxxx ed X. Xxxxxx (AUZERO G., XXXXXX E., Droit du travail, cit., p. 1340).
Secondo I. Xxxxxx (I. XXXXXX, Guida alla lettura della recente legge di riforma della democrazia sindacale in Francia cit., pp. 368-370) molte delle novità introdotte dalla legge del 2008, relative soprattutto alle soglie di validità del contratto collettivo, sono state in realtà
mutuate da un Accordo firmato dalle parti sociali il 9 aprile 2008, con il quale esse hanno inteso prospettare una piena democratizzazione della negoziazione, rendendo credibili gli accordi sottoscritti, impegnando le organizzazioni sindacali al rispetto degli impegni assunti, e di riflesso dando la possibilità ai lavoratori di sanzionare i sindacati in occasione delle elezioni degli organismi di rappresentanza. Dello stesso parere X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Come cambia il sistema francese di relazioni industriali: prospettive e prerogative della contrattazione aziendale, cit., p. 13), secondo la quale la scelta, in sostanza, è stata quella di avvicinare le regole della democrazia sociale a quelle della democrazia politica, facendo del voto espresso dalla maggioranza dei lavoratori il criterio fondante dell’imperatività dell’accordo, così da pervenire a un vero modello di democrazia rappresentativa.
6. L’ANI dell’11 gennaio 2013 e la legge n. 504 del 14 giugno 2013: gli accordi di salvaguardia dell’occupazione
Ancora nel pieno della crisi economica e a pochi anni di distanza dalla riforma del sistema di relazioni industriali del 2008, l’ex Presidente della Repubblica, Xxxxxxxx Xxxxxxxx, appena arrivato al potere, chiede alle parti sociali di negoziare un accordo finalizzato alla definizione del quadro normativo per la sottoscrizione dei c.d. accords compétitivité emploi (ACE) a livello aziendale, allo scopo dichiarato di perseguire una migliore «salvaguardia dell’occupazione». Dopo già quattro anni di crisi economica, in cui il tasso di disoccupazione è ai massimi storici e il rallentamento della produttività fa temere il ricorso sempre più frequente a ristrutturazioni e razionalizzazioni della produzione, la pressione imposta dalla congiuntura sfavorevole, apre all’opportunità di promuovere riforme strutturali del mercato del lavoro.
Nasce da qui l’Accord National Interprofessionnel dell’11 gennaio 2013 con il quale, afferma M. A. Souriac (M. A. SOURIAC, Quelle autonomie pour la négociation collective d’entreprise, in AA.VV., La négociation collective à l’heure des révisions, Dalloz, 2005, p. 89), «l’ascensione del contratto collettivo aziendale nel sistema di relazioni industriali e nell’ordinamento del diritto del lavoro francese giunge ormai alla sommità». Siglato da tre rappresentanze datoriali (MEDEF, CGPME, UPA) e tre organizzazioni sindacali (CFDT, CFTC, CFE-CGC), esso è considerato l’atto di nascita della c.d. flexsécurité alla francese e proprio in ragione di ciò è fortemente criticato dalle organizzazioni non firmatarie – FO e CGT
– che lo giudicano, invece, come una «grave regressione dei diritti sociali». X. Xxxxxx (X.
XXXXXX, Xxxxxxx xxx xxxxxx, della formazione e delle relazioni industriali in Francia, in (a cura di) Adapt Labour Studies, Crisi economica e riforme del lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna, e-Book series n. 34, pp. 27-28) ritiene che tali interventi di riforma del sistema di relazioni industriali possano essere sì interpretati come tentativi di un progressivo adeguamento del modello di regolazione del sistema alle sfide poste dal deterioramento del mercato del lavoro (aggravato, come noto, dalla crisi internazionale che ha avuto inizio nel 2008); ma tutte le iniziative intraprese rimangono pur sempre nel solco della tradizione culturale del Paese, caratterizzandosi per una decisa opposizione al paradigma della deregolazione tout court e contrapponendo alla logica della flexicurity europea un modello di «sicurezza dei percorsi in cui iniezioni “controllate” di flessibilità sono puntualmente bilanciate dall’introduzione di tutele di nuova generazione». Come indicato nell’exposé des motifs, infatti, l’Accordo «incarna l’ambizione di trovare un equilibrio globale in quattro macro-ambiti di cambiamento necessario: la lotta contro la precarietà del lavoro, l’anticipazione delle mutazioni economiche, la ricerca di soluzioni collettive per salvaguardare il lavoro e la modifica delle procedure di licenziamento collettivo». E proprio sulla base di tale Accordo, il 14 maggio 2013 viene approvato in Senato un disegno di legge relativo alla sécurisation de l’emploi avente come obiettivo principale quello di predisporre strumenti in grado di anticipare e migliorare l’adattamento delle imprese ai cambiamenti economici, nell’ottica della salvaguardia dell’occupazione.
A parere di X. Xxxx-Caen e X. Xxxxx (A. LYON-CAEN, X. XXXXX, La legge sulla
«sécurisation de l’emploi»: dna di una riforma, in Lavoro e Diritto, 3, 2013, pp. 437-438) la salvaguardia del lavoro proposta nel disegno di legge non si presenta come un mero “scambio” tra flessibilità (per le imprese) e sicurezza (per i lavoratori) – né tantomeno tra flessibilità per i lavoratori e sicurezza per le imprese – ma piuttosto come un tentativo di muovere verso un paradigma innovativo, in cui l’uno e l’altro degli attori guadagna in sicurezza senza perdere in capacità di adattamento e mobilità, giudicando la salvaguardia dell’occupazione alla stregua di una moderna versione di bene comune, nonché come il mezzo e il modo per superare l’antagonismo degli interessi in campo. Attraverso le modifiche al Codice del Lavoro, e più precisamente agli artt. L. 2242-15 e ss., vengono potenziati e resi più incisivi gli obblighi dell’impresa concernenti le informazioni da rendere alla controparte sindacale, nonché gli obblighi di gestire alcune tematiche di particolare rilevanza strategica attraverso accordi negoziati. Ma la novità principale contenuta nel progetto di riforma è rappresentata
dall’introduzione di nuove misure finalizzate alla salvaguardia dell’occupazione in situazioni di crisi, rappresentate dai c.d. accords de maintien de l’emploi (i.e. accordi collettivi di salvaguardia dell’occupazione), ovvero contratti collettivi aziendali, della durata massima di due anni, che è possibile stipulare con le rappresentanze sindacali in azienda, in ipotesi di gravi difficoltà economiche derivanti da situazioni congiunturali di crisi. L’accordo, di durata predeterminata, ha natura reversibile, essendo riconosciuta la possibilità, in ipotesi di miglioramento delle condizioni economiche dell’impresa, di sospendere la sua validità e di tornare, dunque, al “regime” retributivo nonché all’orario e all’organizzazione del lavoro previgenti. A parere di P.H. Antonmattei (P.H. ANTONMATTEI, Accord de maintien de l’emploi: premier lifting législatif, in DS, n. 10, 2015, p. 812), tali accordi instaurano uno scambio tra datore di lavoro e lavoratore, in virtù del quale, mentre quest’ultimo acconsente acché il suo contratto individuale di lavoro subisca modifiche relativamente all’orario, alle modalità di organizzazione e addirittura alla retribuzione, l’azienda si impegna a mantenere inalterati i livelli occupazionali pre-crisi. Più precisamente, essi sono dotati di un’efficacia rafforzata in virtù della quale possono imporsi non solo ai contratti collettivi di categoria, ma anche al contratto individuale di lavoro, le cui disposizioni incompatibili restano sospese per tutta la vigenza dell’accordo di salvaguardia. A tale efficacia fa da contraltare una legittimità parimenti consolidata, che allo stesso tempo ne rende anche più complicata la sottoscrizione, in forza della quale la validità di tali accordi è subordinata non solo alla firma da parte di una o più organizzazioni sindacali rappresentative che hanno ottenuto almeno il 50% dei voti al primo turno delle ultime elezioni del Comitato d’Impresa o della Delegazione Unica del Personale (DUP), ma anche al consenso espresso del singolo lavoratore. Ciò che induce parte della dottrina (Cfr. A. XXXX, X. XXXXXX, Decentralized Collective bargaining in France cit., p.32) a giudicare il disposto normativo alla stregua di una forte agevolazione per le imprese a scapito di un parallelo indebolimento delle tutele in capo ai lavoratori è quel passaggio della norma in cui è ammesso il licenziamento del lavoratore che rifiuta l’applicabilità dell’accordo al suo contratto di lavoro. Licenziamento che, tra l’altro, verrebbe giustificato da una motivazione sérieuse e réelle per motivi economici, in deroga a quella normativa in materia di licenziamenti collettivi che in caso contrario risulterebbe applicabile. La portata derogatoria loro conferita è, dunque, ben più ampia di quella riconosciuta in favore dei tradizionali accordi d’impresa, per i quali resta in vigore d’altronde la regola maggioritaria del 30%.
Nello scambio occupazione-abbassamento del costo del lavoro, X. Xxxxxxxxxx (X. XXXXXXXXXX, L’emploi au cœur de la négociation d’entreprise: quel impact de l’accord du 11 janvier 2013, in La Revue de l’IRES, 77, 2/2013, pp. 19-20) intravede un chiaro segnale della natura concessiva di tali accordi che, se da una parte può guidare verso una negoziazione non più conflittuale, bensì collaborativa, dall’altra fa temere. - specialmente nelle grandi aziende multinazionali – l’innesco di un’escalation di concessioni al ribasso.
In tema di contrattazione collettiva, la riforma, con l’istituzione di tali accordi, conferma la volontà di fare dell’impresa un centro di decisione autoregolato, conferendo ai protagonisti dell’azienda i mezzi, specialmente normativi, per realizzare un compromesso specificamente mirato alle necessità aziendali. Alla base di una simile attribuzione di autonomia collettiva a livello d’impresa - che X. Xxxx-Caen e X. Xxxxx (A. LYON-CAEN, X. XXXXX, La legge sulla
«sécurisation de l’emploi» cit., p. 447) ritengono essere giunta ai massimi livelli - vi è dunque l’obiettivo primario della salvaguardia dei livelli occupazionali e la fiducia del legislatore nei confronti delle parti sociali che, coinvolte nella diagnostica della situazione economica dell’impresa, fanno della scelta imprenditoriale il frutto di un vero e proprio processo di co- decisione. Risulta agevole dunque, a parere di PH. Antonmattei (P.H. ANTONMATTEI, Accord de maintien de l’emploi cit., pp. 813-814), cogliere la volontà del legislatore di decretare la definitiva liberalizzazione ed emancipazione del contratto aziendale, ormai posto ai vertici dell’ordinamento normativo, in cui è la stessa impresa a divenire luogo di produzione di norme giuridiche.
L’intervento del legislatore ha di fatto dato prova della grande fiducia che lo stesso ripone nelle parti sociali, promuovendo il dialogo sociale e coinvolgendo le stesse organizzazioni sindacali in un processo di produzione legislativa relativo ad una tematica solitamente appannaggio delle parti sociali a livello centrale, oltre che del legislatore, quale l’occupazione. Più scettica la posizione di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, Come cambia il sistema francese di relazioni industriali cit, pp. 23-24), secondo la quale tale coinvolgimento è nella pratica più volte bypassato, facendo appello al carattere urgente dell’intervento. L’Autore, difatti, evidenzia come anche ai nuovi accordi spesso si preferiscano comunque i più tradizionali contratti aziendali, seppur privi della portata derogatoria conferita ai primi, rendendo così gli accords de maintien de l’emploi, un clamoroso insuccesso nonostante il loro evidente potenziale innovativo.
7. La Loi Xxxxxxxx del 17 agosto 2015 e il Rapporto Combrexelle dell’ottobre dello stesso anno
Ancora nel solco della modernizzazione e semplificazione, nonché dell’efficientamento del dialogo sociale e della salvaguardia dell’occupazione, nel corso del 2015 viene promulgata la legge n. 2015-994, nota come Loi Xxxxxxxx, grazie alla quale, come si legge nell’exposé des motifs, il dialogo sociale viene assurto a metodo prediletto dal Governo al fine di raggiungere l’unico vero obiettivo del diritto del lavoro: l’occupazione.
La normativa tocca un’ampia vastità di materie, ma possono considerarsi quattro le novità più importanti in materia di relazioni industriali: 1. la possibilità di raggruppare le istanze rappresentative del personale (Delegati del personale, Comitato d’impresa e Comitato d’igiene, sicurezza e delle condizioni del lavoro) in seno ad una Delegazione Unica del Personale (DUP), su iniziativa del datore di lavoro, nelle imprese fino a di 300 dipendenti, tramite accordo collettivo maggioritario, nelle aziende con un organico superiore alle 300 unità; 2. l’estensione della previsione relativa alla Delegazione Unica del Personale anche alle imprese aventi tra i 200 e i 300 dipendenti; 3. l’introduzione di un diritto universale a godere di una rappresentanza che coinvolge anche i lavoratori dipendenti delle imprese di piccolissime dimensioni - i.e. con meno di 11 dipendenti - attraverso l’istituzione di Commissioni Paritarie Regionali; 4. la semplificazione della disciplina relativa alle consultazioni obbligatorie del Comitato d’impresa, che ora prevede un obbligo di informazione e consultazione relativo a «questioni che interessano l’organizzazione, la gestione e gli affari generali dell’impresa, specialmente circa le misure che interessano il volume o la struttura dell’organico, la durata del lavoro o le condizioni d’impiego, di lavoro e della formazione professionale, qualora tali questioni non siano state oggetto delle consultazioni previste all’art. L. 2323-6», ossia quelle imposte con cadenza annuale e aventi ad oggetto gli orientamenti strategici dell’impresa, la situazione economica e finanziaria della stessa, la politica sociale dell’impresa, nonché le condizioni di lavoro e di impiego. Si tratta di tre macroaree tematiche che vanno a sostituire i precedenti diciassette obblighi d’informazione del Comitato d’Impresa, senza che sia intervenuta però alcuna soppressione, bensì solo una semplice razionalizzazione.
La legge Xxxxxxxx, inoltre, colmando alcune lacune del precedente intervento di riforma del 2013, introduce ulteriori misure volte a rendere più semplice ed efficace la consultazione degli organi di rappresentanza del personale e facilita la negoziazione anche con i rappresentanti
eletti del personale o con i c.d. salariés mandatés nelle imprese prive di delegati sindacali. Ai sensi del nuovo art. L. 2232-21 del Code du Travail, «in assenza di delegati sindacali nell’impresa o nello stabilimento, o di delegati del personale designati come delegati sindacali nelle imprese con meno di 50 dipendenti, i rappresentanti eletti del personale al Comitato d’impresa o alla Delegazione Unica del Personale […] o, in assenza, i delegati del personale, possono negoziare e concludere accordi collettivi di lavoro se sono espressamente a ciò incaricati da una o più organizzazioni sindacali rappresentative nel settore cui appartiene l’impresa o, in assenza, da una o più organizzazioni sindacali dei lavoratori rappresentative a livello nazionale o interprofessionale», anche nelle aziende con meno di 200 dipendenti. La negoziazione a livello aziendale, dunque, è resa possibile in contesti produttivi di qualunque dimensione, non esistendo più alcuna condizione di organico neanche per ricorrere alla negoziazione derogatoria, a conferma dell’importanza attribuita dal legislatore al dialogo sociale e alla contrattazione d’impresa.
Nell’ottobre dello stesso anno, a pochissima distanza dall’emanazione della legge n. 2015-994, viene presentato un rapporto di analisi e proposte di riforma della contrattazione collettiva dall’allora Presidente della sezione sociale del Consiglio di Stato, Xxxx-Xxxxx Xxxxxxxxxxx, su incarico del Primo Ministro. Titolo del documento è «La negoziazione collettiva, il lavoro e l’occupazione», scritto secondo il genere letterario di un Libro Bianco all’esito di un periodo di elaborazione da parte di un gruppo di studiosi, eterogeneo per competenze, nonché di un certo numero di audizioni di soggetti collettivi e di altre personalità. Presentando tale rapporto, l’ex Presidente Xxxxxxxx Xxxxxxxx palesa l’intenzione del Governo francese di arrivare nei mesi successivi ad una proposta di legge di riforma della contrattazione collettiva per favorire «un migliore adattamento del diritto del lavoro alla realtà delle imprese». Il Rapporto, invero, parte dell’assunto per cui il diritto del lavoro sia in realtà «un diritto del luogo di lavoro» e, in virtù di tale dichiarazione, sostiene la necessità che in un’economia moderna qual è quella in cui stiamo vivendo esso debba essere un «diritto di prossimità», vicino alla realtà cui fa riferimento, nella convinzione che «tanto le aziende quanto i lavoratori dipendenti hanno bisogno di una regolazione su misura, attenta alle diversità sempre maggiori che differenziano i luoghi di lavoro in funzione della natura delle loro attività, della dimensione e dell’organizzazione delle aziende».
La domanda che fa da leitmotiv dell’intero Rapporto è: come si può conciliare il bisogno di una regolazione di prossimità con il rispetto di principi che consolidano le relazioni sociali? Secondo J.D. Combrexelle una riforma efficace dovrebbe basarsi sostanzialmente su due assi; l’uno conseguente alla creazione delle condizioni per un nuovo protagonismo delle parti sociali,
«per far sì che tutti gli spazi aperti agli accordi collettivi siano effettivamente sfruttati e siano fonte di innovazione»; l’altro derivante da «una ripartizione più equilibrata tra ciò che attiene alla legge e ciò che attiene al dialogo sociale e agli accordi collettivi», con una chiara distribuzione di competenze tra il livello nazionale e aziendale di contrattazione. L’approdo di questa riforma, dunque, è valorizzare la contrattazione aziendale attribuendo a questo livello la competenza a disciplinare - in deroga alla legge e alla contrattazione nazionale, ma nel rispetto dell’ordine pubblico dalle stesse tracciato – tutto quanto relativo alle condizioni di lavoro, all’orario, all’occupazione e perfino alla retribuzione. Gli ostacoli alla realizzazione di quanto prospettato nel Rapporto, dunque, paiono essere sostanzialmente due: uno di natura giuridica, relativo alla de-legificazione del diritto del lavoro a vantaggio della contrattazione collettiva, che induce X. Xxxxx (X. XXXXX, Contrattazione collettiva, lavoro e lavoratore. Commento al
c.d. “Rapporto Combrexelle”, in WP ADAPT, n. 182, 21/09/2015, p.5) ad operare un parallelismo con l’Italia, Paese in cui l’anomìa del sistema di relazioni industriali induce spesso a guardare con interesse esperienze nelle quali la contrattazione collettiva ha invece una struttura giuridica a base legale; l’altro di natura politico-culturale, per cui appare come necessaria una sensibilizzazione e un’idonea formazione delle parti sociali e un’idonea formazione, nonché una sorta di «pedagogia» sulla contrattazione collettiva per farne valorizzare l’importanza nel contesto attuale di concorrenza globale e crisi economica, che coinvolga anche la categoria dei proprietari d’azienda e del management aziendale. A parere di
J. D. Combrexelle, infatti, la contrattazione collettiva non dev’essere vista e vissuta come lo strumento a cui si fa ricorsolo solo in ipotesi di necessità e di crisi economica, ma è necessario che essa venga considerata come un vero e proprio strumento di gestione efficace in sé e per sé, in grado di far fronte alle diversità e alle complessità della realtà economica contemporanea.
Il riferimento, di cui al Rapporto, ad una «dinamicità della negoziazione collettiva» non vuole essere, a parere di P.H. Antonmattei (P.H. ANTONMATTEI, La primauté de l’accord d’entreprise, in Droit Social, n.2, 2016), solo una scelta di comodo volta a distogliere l’attenzione da questioni considerate più delicate in merito al sistema di contrattazione collettiva. Più critica, invece, altra parte della dottrina (X. XXXXXX, X. XXXXX, A. MIAS, X.
XXXXXXXXX, X. X. XXXXX, X. XXXXXXXXXXXX, La promotion du «dialogue social» dans l’entreprise. Loi Xxxxxxxx et rapport Xxxxxxxxxxx, La nouvelle revue du travail, 8, 2016) che, anche in questo Rapporto, riscontra un’incongruità nella regolamentazione legale di minuto dettaglio oltre che la mancanza di un’effettiva inversione di prevalenza tra contratto collettivo e contratto aziendale, che attribuisca a quest’ultimo piena capacità di deroga del contratto nazionale, anche senza esplicito consenso o rinvio dello stesso.
8. La legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016, nota come Loi Travail
Le indicazioni contenute nel rapporto Combrexelle costiuiscono la base programmatica della nuova riforma del lavoro, ulteriore tappa di un lungo processo di rifondazione del diritto del lavoro, avviato fin dalla riforma del 2004. La riforma, promossa dall’ex Ministro del Lavoro, Xxxxxx Xx Xxxxxx, è stata senza dubbio una delle più contestate nella storia della Repubblica francese, ed a portato a completamento, a parere di X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva aziendale cit., p.101) il processo di contrattualizzazione dello statuto legale dei lavoratori. Di diverso avviso, X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, La “riforma Macron” del codice del lavoro francese, DLRI, 157, 2018) ritiene che in realtà la Legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016, nota alle cronache come Loi Travail e relativa al lavoro, alla modernizzazione del dialogo sociale e alla sécurisation dei percorsi professionali, abbia segnato la storia francese più per il contesto della sua adozione che per le sue innovazioni Oggetto di critica, infatti, è stato anche e soprattutto il ricorso alla procedura ex art. 49-3 della Costituzione, che ha permesso all’allora Primo Ministro Valls di far adottare il disegno di legge dall’Assemblea Nazionale in prima lettura senza votazione dei deputati.
Le novità principali introdotte dalla riforma del 2016 in materia di contrattazione collettiva, relative alle condizioni di validità dell’accordo aziendale e alla sua collocazione all’interno della gerarchia delle fonti, sono contenute nel Titolo II del Code du Travail, denominato «Favoriser un culture du dialogue e de la négotiacion». Il nuovo sistema è incentrato, da un lato, sulla supremazia riconosciuta in favore della negoziazione aziendale, che detiene ormai una competenza prevalente e monopolistica su materie una volta riservate alla contrattazione di settore; dall’altro, sulla natura del tutto suppletiva della disciplina - legale o contrattuale - che si applicherà in caso di assenza di accordo collettivo. È per questo motivo che il legislatore, dopo aver ampliato in maniera consistente le capacità derogatorie del contratto
aziendale, si preoccupa di circondarlo di una serie di garanzie che interessano in primis le materie non derogabili in peius dagli accordi collettivi, le quali vengono con la riforma estese.
L’art. L. 2232-12 del Code du Travail post-riforma, stabilisce che «la validità di un accordo aziendale o di stabilimento è subordinata alla sua sottoscrizione da parte, da un lato, del datore di lavoro o di un suo rappresentante e, dall’altra, di una o più organizzazioni sindacali rappresentative che abbiano ottenuto più del 50% dei voti espressi in favore delle stesse al primo turno delle ultime elezioni dei titolari del Comité d’entreprise o della Delegazione Unica del Personale (DUP) o, in mancanza, dei delegati del personale (délégués du personnel), qualunque sia il numero dei votanti». Disposizione nella quale X. Xxxxx (X. XXXXX, Le référendum en entriprise comme voie de secours, in DS, 11, 2016, pp. 903 ss.) rivede tutto il cammino percorso dai tempi delle Lois Aureaux del 1982, che ha condotto ad una concezione del principio maggioritario da forza d’opposizione a forza di coinvolgimento. Qualora la soglia non venga raggiunta, ovvero qualora l’accordo sia approvato da organizzazioni che non abbiano raccolto più del 50% dei voti, ma abbiano raggiunto comunque la soglia del 30%, è riconosciuta la possibilità, ad una o più di queste organizzazioni sindacali rappresentative, di disporre di un termine pari a un mese dalla data di sottoscrizione dell’accordo, per palesare la propria volontà di indire una consultazione dei lavoratori finalizzata a validare l’accordo, per cui sarà necessaria la maggioranza dei voti espressi, a pena di decadenza dell’accordo stesso. L’Autore giudica positivamente la novella legislativa, riconoscendo l’importanza sia del tempo concesso alle organizzazioni sindacali, che permetterebbe di proteggere la collettività di lavoratori da scelte poco ponderate dettate dall’urgenza, sia la possibilità di indire un referendum, che consentirebbe invece di superare l’impasse generato dalla scarsa rappresentatività, seppur rischiando, al tempo stesso, di sconfessare la condotta sindacale. Il ricorso al referendum, d’altronde, non è da considerarsi alla stregua di una tecnica alternativa alla negoziazione collettiva, né come un escamotage finalizzato ad aggirare quelle che sono le prerogative sindacali, ma piuttosto come una modalità, sussidiaria, di esercizio del diritto alla negoziazione collettiva, che non modifica né la natura giuridica dell’accordo collettivo, né tantomeno le parti autorizzate a sottoscriverlo, che continuano ad essere solo il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali rappresentative. D’altronde, come sottolinea anche X. Xxxxxxx (X. XXXXXXX, La contrattazione collettiva aziendale cit., pp.124-125), la scelta del legislatore è sicuramente dettata dall’ulteriore rafforzamento della portata derogatoria dell’accord d’entreprise e dalla supremazia gerarchica sulle conventions de branche riconosciutagli in un numero sempre più
esteso di materie, e non si discosta molto da quanto previsto solo qualche anno prima dal legislatore del 2013 con i c.d. accords de maintien de l’emploi. Eppure, quello che viene considerato alla stregua di uno strumento di legittimazione e di controllo dell’accordo aziendale, rischia di diventare, secondo parte della dottrina (ex multis CHAPRON M., XXXXXX-BUSCONE P., Xx xxx xx 0 xxxx 0000 x xx xxxxx xxxxxxxxxxxxx xx l’accord d’entreprise cit, pp. 1372-1373; X. XXXXX, Le référendum en entriprise comme voie de secours, cit., pp. 903 ss.; X. XXXXXXXXX, L’impact de l’ordonnance Macron n° 2017-1385 sur la négotiacion d’entreprise, in Gazette du Palais, déc. 2017) un vero e proprio deterrente in termini negoziali, che rischierebbe di causare una plausibile contrazione del numero di accordi e convenzioni, alla luce di una nuova e più grande difficoltà ad ottenere il numero di firme necessario per attribuire piena validità all’accordo collettivo.
X. Xxxxxxx e X. Xxxxxx-Buscone (X. XXXXXXX, X. XXXXXX-BUSCONE, Xx xxx xx 0 xxxx 0000 x xx xxxxx xxxxxxxxxxxxx xx l’accord d’entreprise cit., p. 1372), contestano l’approssimazione di quanti hanno fondato la propria contrarietà alle novità introdotte dall’ultima riforma focalizzandosi solo sul contenuto dell’articolo 2 del progetto di legge, reo di concedere agli accordi aziendali un ruolo preponderante e di sancire, di fatto, una vera e propria inversione della piramide normativa, non tenendo conto del fatto che al potenziamento del ruolo della norma negoziata a livello aziendale, fanno da contraltare una serie di regole di ordine pubblico relativamente alle quali il legislatore impone l’inderogabilità. È, piuttosto, relativamente a questa nozione di ordine pubblico, che la novella legislativa pare discostarsi da quanto indicato nel Rapporto Combrexelle, a vantaggio di un’accezione «a geometria variabile», diversa a seconda del tema di riferimento, che contribuisce, a parere dei due Autori, a rendere «poroso» il confine tra ciò che rientra nelle prerogative della contrattazione di settore e ciò che invece può essere negoziato a livello aziendale. Lì dove oggetto di negoziazione sono questioni inerenti all’orario di lavoro, alla reperibilità o al lavoro straordinario, l’accezione sembra corrispondere perfettamente a quella tipica dell’ordine pubblico assoluto, inderogabile; qualora, invece, si tratti di questioni come l’organizzazione del lavoro su base plurisettimanale o di diritto alla pausa, l’accezione pare coincidere con quella di ordine pubblico relativo, essendo ammessa la possibilità di deroga in melius rispetto a quanto previsto dalla legge o dalla convention de branche. Sulla stessa linea, P.H. Antonmattei (P.H. ANTONMATTEI, La primauté de l’accord d’entreprise, in Droit Social, 2, 2016, pp. 513 ss.) osserva come la supremazia dell’accordo aziendale, così come prospettata già nel progetto di legge, sia in realtà
contenuta in un territorio ben delineato dal legislatore che determina più una sussidiarietà normativa che una vera e propria ammissibilità di deroga. Il contenuto dell’art. L. 2251-1, difatti, resta invariato, tale per cui «una convenzione o un accordo può prevedere delle disposizioni più favorevoli ai lavoratori rispetto a quelle legali in vigore [ma] non può derogare alle disposizioni che rivestono un carattere di ordine pubblico». La convention de branche, invero, conserva tutte le sue prerogative: definisce le condizioni di lavoro e le garanzie applicabili a ciascun lavoratore; definisce, tramite negoziazione, le materie sulle quali le convenzioni e gli accordi aziendali non possono essere meno favorevoli delle convenzioni e accordi conclusi a livello settoriale, fatta eccezione per le materie per le quali la legge prevedere la superiorità della convenzione o accordo aziendale; funge da strumento di regolazione della concorrenza tra le imprese di uno stesso settore. L’esigenza di decentramento, d’altronde, è giustificata come necessità di adattamento delle regole al livello più prossimo a quello in cui troveranno applicazione, imprescindibile – a parere dell’Autore - per garantire una migliore conciliazione delle performance economiche e sociali.
Interessante, infine, quanto sostenuto dallo stesso P.H. Antonmattei relativamente alle probabilità di successo della riforma. Egli sostiene che una riforma simile del Codice del Lavoro, che incentiva la negoziazione a livello d’impresa e concede maggiore spazio alla contrattazione aziendale, sia una scommessa la cui riuscita dipende in primis da un cambiamento culturale degli attori coinvolti. La direzione aziendale, soprattutto nelle PMI, deve ancora abbandonare completamente quel tipico pregiudizio legato alla presenza sindacale in azienda, mentre il sindacato, dal canto suo, necessiterebbe di una maggiore formazione e valorizzazione dei percorsi professionali degli eletti e dei titolari di un mandato, al fine di contrastare la crisi vocazionale e attirare una nuova generazione di négotiateurs consapevoli dell’importanza e del valore della negoziazione collettiva a livello di singola impresa. La negoziazione – sostiene l’Autore - non è né una lotta né un compromesso né una rinuncia agli interessi che si rappresentano, ma richiede il rispetto dell’altro e la volontà reale di pervenire ad un accordo».
Ad ogni modo, a parere della dottrina internazionale, l’auspicato cambiamento culturale, non può dirsi essersi realizzato con la Loi El Khomri, seppur sia doveroso riconoscere che quello che sarebbe dovuto essere solo un primo passo della riforma complessiva, si è poi rivelato essere l’unico, dal momento che le elezioni del maggio 2017 hanno modificato la compagine
governativa (Crf. X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, The decentralization of collective bargaining in France: an escalating process, in Multi-employer bargaining under pressure. Decentralisation trends in five European countries, ETUI book, 2018, p.162)
9. Le ordonnances Macron del 22 settembre 2017: una rivoluzione copernicana?
L’ultima riforma del lavoro, dopo le ultime intervenute a ritmo incalzante nel corso di circa un decennio, è promossa anch’essa, dal nuovo Ministro del Lavoro, Xxxxxx Xxxxxxxx, in maniera atipica, con una loi d’habilitation che autorizza il Governo ad adottare, tramite decreti, misure normalmente appannaggio esclusivo del potere legislativo del Parlamento. Nell’urgenza ormai tipica delle riforme del lavoro, che giustifica percorsi alternativi di produzione legislativa, non manca chi vi intravede un indiretto giudizio, da parte del Governo, di lentezza e inadeguatezza delle istituzioni democratiche rispetto ad una moderna economia di mercato che richiede capacità di adattamento immediate (X. XXXXXXXX, X. XXX, Démocratie, le fond et la forme: une lecture «politique» des ordonnances Macron, in RDT, 10, 2017, pp.625 ss.). Nel mese di settembre dello stesso anno vengono pubblicate cinque ordonnances, finalizzate a riformare il diritto del lavoro e il sistema di contrattazione collettiva e dalla cui formulazione è possibile evincere una riforma delle relazioni industriali molto ambiziosa poiché, come sostenuto da X. Xxxxxx (X. XXXXXX, L’articulation des dispositions de branche et d’entrprise; le Rubik’s cube conventionnel, in La semaine Juridique, 6, 2018),
«sociologicamente e storicamente lontana dalla cultura francese».
Un limite di natura giuridica, secondo X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, La “riforma Macron” del codice del lavoro francese, cit., pp. 48-49), il Governo del Primo Ministro Xxxxxxx Xxxxxxxx si trova ad affrontarlo già con riferimento a quanto disposto dal primo articolo del Code du Travail, in virtù del quale ogni progetto di riforma intrapreso dal Governo relativamente alle relazioni individuali e collettive di lavoro, all’occupazione e alla formazione professionale e che incida sugli ambiti della contrattazione nazionale e interprofessionale «deve essere oggetto di una concertazione preventiva con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro rappresentative a livello nazionale e interprofessionale in vista dell’apertura eventuale di una tale contrattazione». Nonostante tale previsione, però, l’esecutivo, piuttosto che fissare incontri alla presenza di tutte le organizzazioni richiamate dalla norma, attua una pratica che l’Autore descrive come «abilmente gestita», pianificando riunioni bilaterali, aventi
ad oggetto il contenuto delle ordinanze di prossima emanazione, con ognuna delle organizzazioni singolarmente. Il 22 settembre 2017 vengono firmate dal Presidente della Repubblica cinque decreti – di seguito elencate - ratificati da un progetto di legge unitario depositato dal Governo il 27 settembre successivo: 1. L’ordonnance n. 2017-1385 relativa al
«consolidamento della negoziazione collettiva»; 2. L’ordonnance n. 2017-1386 relativa «alla nuova organizzazione del dialogo sociale ed economico nell’impresa e alla promozione dell’esercizio e della valorizzazione delle responsabilità sindacali»; 3. L’ordonnance n. 2017- 1387 relativa «alla salvaguardia delle relazioni di lavoro»; 4. L’ordonnance n. 2017-1388 recante diverse misure relative al sistema della negoziazione collettiva; 5. L’ordonnance n. 2017-1389 relativa «alla prevenzione e alla valutazione degli effetti dell’esposizione ad alcuni fattori di rischio professionale e al conto professionale di prevenzione».
9.1 L’Ordonnance n. 2017-1385 relativa al «consolidamento della negoziazione collettiva»
Il primo di questi decreti, relativo al rafforzamento della negoziazione collettiva, rappresenta, a parere di X. Xxxxx (X. XXXXX, Conventions de branche et d’entreprise: une nouvelle partition, in RDT, 10, 2017, pp. 657-662), un completamento del cammino che ha portato all’attuale sistema di relazioni industriali, caratterizzato da un potenziamento della negoziazione collettiva a livello aziendale e da una diversa distribuzione di competenze tra il livello nazionale, de branche, e quello di prossimità, d’entreprise. L’art. 1 del decreto n. 2017- 1385 interviene modificando l’art. L. 2232-5-1 del Code du Travail, introdotto dalla precedente riforma del 2016 sulla spinta del Rapporto Combrexelle. La norma, in particolare, modificandone il primo comma e abrogando il secondo, riformula quasi completamente le aree di competenza della contrattazione nazionale, riducendo a due le missioni ad essa riconosciute dalla legge. La prima, attinente alla definizione delle condizioni di lavoro e delle garanzie applicabili ai lavoratori relativamente a tredici materie tassativamente elencate agli artt. L. 2253-1 e 2253-2, anch’essi modificati dalle ordonnances; la seconda, di regolazione della concorrenza tra imprese operanti nello stesso settore merceologico. Non è più riconosciuta, dunque, alla contrattazione nazionale, la facoltà di individuare le materie rispetto alle quali non è ammessa alcuna deroga in peius da parte degli accordi di livello aziendale, delineandosi, dunque, una vera e propria gerarchia c.d. conventionnel, sancita da un’inedita supremazia del contratto aziendale su quello nazionale, qualora assicuri garanzie «almeno equivalenti» rispetto a quelle di cui al livello superiore.
Non solo, il decreto riconosce anche la possibilità, in capo al Ministero del Lavoro, di rifiutare la richiesta di estensione di un accordo collettivo avanzata dalle organizzazioni sindacali che lo hanno sottoscritto, per motivi di interesse generale e in primis «di pregiudizio alla libera concorrenza». X. Xxxxxx (X. XXXXXX, L’articulation des dispositions de branche et d’entrprise cit.) ritiene che la nuova disciplina non scalfisca in alcun modo il ruolo della branche, mentre di parere opposto è X. Xxxxx (X. XXXXX, Conventions de branche et d’entreprise cit., pp. 659 ss.), il quale ne evidenzia la contraddittorietà, sulla base del fatto che l’estensione di un accordo collettivo di livello settoriale funge per sua natura da meccanismo di regolazione della concorrenza, grazie al quale l’accordo collettivo, per decisione dell’autorità statale, diventa vincolante per tutte le imprese di un dato comparto, indipendentemente dall’adesione dell’azienda ad un’organizzazione di rappresentanza firmataria dell’accordo stesso. Diversa, invece, la prospettiva di analisi di X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, La “riforma Macron” del codice del lavoro francese cit.), secondo il quale le novità introdotte dalla riforma Macron, figlie del progetto di «flessibilizzazione» della legislazione del lavoro, alterano la funzione di controllo della concorrenza non per i motivi finora addotti, ma piuttosto perché consentono al datore di lavoro di ottenere, grazie ad un accordo aziendale, un vantaggio sul piano del costo del lavoro, ad esempio liberandosi in tutto o in parte del costo di un bonus o di un aumento retributivo facente parte della retribuzione previsto da un accordo di settore, dal momento in cui quest’ultimo è da considerarsi vincolante solo per quanto riguarda specificatamente il salario minimo (SMIC). I sindacati, dal canto loro, hanno immediatamente denunciato un rischio di dumping sociale tra imprese dello stesso settore, rispetto al quale A. Bugada (A. BUGADA, L’articulation des dispositions de branche et d’entrprise cit.) suggerisce, come possibile deviazione al problema, un approccio maggiormente cooperativo e proattivo a livello di branche, al fine di proporre norme contrattuali specifiche per le PMI, vantaggiose e di qualità, che di fatto renderebbero più difficile, a livello aziendale, ottenere la maggioranza per un accordo che non sia nettamente più favorevole.
I contorni del nuovo sistema di relazioni industriali sono dunque delineati agli artt. L. 2253-1, L. 2253-2 e L. 2253-3 del Code du Travail, dai quali emerge, a parere dell’Autore, un sistema caratterizzato da una superiorità sempre più relativa del c.d. ordine pubblico assoluto e contemporaneamente da uno spazio sempre più ampio consacrato alla negoziazione d’impresa. L’art. L. 2253-1, in particolare, contiene quello che X. Xxxxxx definisce il «dominio privilegiato» della contrattazione di categoria: un elenco di tredici materie in rapporto alle quali
le disposizioni del contratto nazionale prevalgono su quello aziendale, sia esso stato concluso in precedenza o successivamente, a meno che quest’ultimo non preveda «garanzie almeno equivalenti» per i lavoratori. L’art. L. 2253-2, invece, contiene un elenco di quattro materie, rispetto alle quali è l’accordo aziendale a prevalere, a meno che il contratto nazionale precedentemente concluso, non fornisca espressamente la soluzione opposta, ricorrendo alle
x.x. xxxxxxxx di blocco. L’art. L. 2253-3, infine, stabilisce che in tutte le altre materie non espressamente menzionate nei precedenti articoli, le disposizioni dell’accordo aziendale, che siano entrate in vigore prima o dopo il contratto di categoria, prevalgono sempre su quest’ultimo, ancorché se più favorevoli. Emerge dunque con chiarezza la natura suppletiva del contratto nazionale, il quale troverà applicazione solo in ipotesi dell’accordo aziendale. È questo il motivo per cui buona parte della dottrina (ex multis, X. XXXXX, Conventions de branche et d’entreprise cit.; X. XXXXXXXX, Brèves observations sur la nouvelle articulation des conventions et accord collectifs, in La semaine juridique, 5, 2018) non esita a sostenere che il criterio dell’equivalenza si sia di fatto sostituito al tradizionale principio del favor, ormai declassato a semplice “regola”. X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, Brèves observations sur la nouvelle articulation des conventions et accord collectifs, cit., pp. 8 ss.) ritrova nel termine “equivalenza” una duplice sfumatura: di valore, che sottintende l’idea di un approccio quantitativo, in cui è il quantum riconosciuto ai lavoratori ad essere oggetto di comparazione; di identità, che sottintende invece l’idea di un approccio qualitativo, in virtù del quale “equivalenza” è sinonimo di “somiglianza”. In realtà, nel Rapporto al Presidente della Repubblica n. 45 del 21 dicembre 2017, è scritto a chiare lettere come il criterio dell’equivalenza debba essere applicato «domaine par domaine» (i.e. settore per settore), interpretazione rispetto alla quale non nasconde il suo scetticismo X. Xxxxxxxx (X. XXXXXXXX, La “riforma Macron” del codice del lavoro francese, cit., pp. 68 ss.), secondo il quale la stessa rischierebbe di portare con sé l’instaurazione di una sorta di presunzione di equivalenza tra quanto contenuto nell’accordo aziendale e quanto riconosciuto a livello di settore. Si tratta di quello che X. Xxxxxx (X. XXXXXX, L’articulation des dispositions de branche et d’entrprise cit.) definisce «il cubo di Rubik contrattuale», dove il gioco è quello di determinare ciò che di volta in volta risulta più conveniente applicare in un determinato momento, rispetto ad una situazione identificata e negli ambiti determinati dalla legge. Scopo del legislatore, d’altronde, è quello di conferire maggiore autonomia a ciascun livello di contrattazione, ridisegnando lo schema di concorrenza tra norme non solo attraverso un
indebolimento del principio del favor e l’avvento di quello dell’equivalenza, ma tramite l’abrogazione di una disposizione «nascosta», i.e. l’art. 45 della Legge del 4 maggio 2004, in virtù della quale «il valore gerarchico attribuito dalle parti firmatarie alle convenzioni e accordi conclusi prima dell’entrata in vigore della presente legge rimane vincolante per gli accordi di livello inferiore».
9.2 Gli accordi di c.d. performance collettiva ex art. L. 2254-2 del Code du Travail
Al fine di attribuire uno strumento di gestione dell’impresa, tanto offensivo quanto difensivo, più semplice ed efficiente, l’ordonnance 2017-1385 interviene creando una nuova categoria di accordi, frutto della fusione di preesistenti accordi, c.d. di flessibilità, giudicati ora particolarmente macchinosi e complessi, quali: gli accordi di maintien de l’emploi (vedi supra
§ 4), gli accordi di salvaguardia o sviluppo dell’occupazione, gli accordi di mobilità interna e di riduzione dell’orario di lavoro. I nuovi accordi, denominati di performance collettiva, sono disciplinati all’art. L. 2254-2 del Codice del lavoro e possono essere conclusi per una durata determinata o indeterminata.
Gli accordi di performance collettiva sono dotati di un’autorità particolare, ma non inedita, sui contratti individuali di lavoro, dal momento che hanno il potere di modificarne le condizioni pattuite relativamente all’orario, ai termini di mobilità professionale o geografica interna all’impresa e alla retribuzione, pur sempre nel rispetto del salario minimo legale (SMIC) e dei minimi retributivi convenzionali del settore. Le clausole in esso contenute si sostituiscono automaticamente - de plein droit - a quelle contrarie e incompatibili di ogni contratto individuale di lavoro, a meno che il lavoratore non comunichi al datore di lavoro la volontà di rifiutare una simile ingerenza. Più nel dettaglio, il lavoratore, tramite comunicazione scritta, può rendere nota la sua scelta al datore di lavoro entro un mese da quando quest’ultimo ha informato i suoi dipendenti dell’esistenza e del contenuto dell’accordo, nonché del diritto del singolo di accettare o meno l’applicazione dello stesso al proprio contratto di lavoro. Il rifiuto del lavoratore legittima il datore di lavoro ad attivare una procedura di licenziamento individuale, la cui legittimità poggia «su un motivo specifico che costituisce una causa réelle et sérieuse», in virtù della quale la tipologia di rupture al quale esso viene assimilato è, a parere di X. Xxxxxxxxx (X. XXXXXXXXX, L’impacte de l’ordonnance Macron n. 2017-1385 sur la négociation d’entreprise, in Gazette du Palais, déc. 2017), quella del licenziamento per motivi
personali non disciplinare. Il datore di lavoro, dunque, è tenuto al rispetto della procedura imposta da tale tipologia di licenziamento, la quale prevede la convocazione del lavoratore, un colloquio preventivo, la notifica della lettera di licenziamento, il rispetto del periodo di preavviso e il beneficio dell’indennità di licenziamento, a cui si somma l’obbligo di contribuzione aggiuntiva per il finanziamento del conto personale di formazione del lavoratore licenziato. Sebbene anche la Convenzione ILO n. 158 del 1982, relativa alla cessazione del rapporto di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro, contempla, all’art. 9, l’ipotesi di licenziamento motivato dalle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio, P.H. Antonmattei (P.H. ANTONMATTEI, L’irrésistible ascension de l’accord d’entreprise, cit., pp. 517 ss.) non nasconde una certa dose di preoccupazione rispetto a tale scelta, considerato che, in ipotesi di impugnazione del provvedimento, il diritto del lavoro francese prevede l’impossibilità per il Conseil du Prud’Homme di giudicare la gravità delle ragioni che hanno portato il datore di lavoro ad optare per la conclusione di un simile accordo collettivo. La natura molto ampia delle condizioni ammesse per il ricorso ad un simile accordo, inoltre, fa temere la situazione per cui basterà invocare «necessità legate alla gestione dell’impresa» per beneficiare del potere di cui l’accordo gode, nell’ottica di una continua progressione sul terreno dell’organizzazione economica e sociale dell’impresa.
Va aggiunto, infine, che proprio in virtù della loro efficacia rafforzata, gli accordi ex art.
L. 2254-2 devono essere sottoscritti dalle organizzazioni sindacali rappresentative del 50% +1 dei lavoratori o almeno del 30%, ma in quest’ultimo caso, con approvazione referendaria della maggioranza dei voti espressi.
9.3 L’ordonnance n. 2017-1386: nuove regole in materia di rappresentanza e validità degli accordi aziendali
L’ultima tappa del progetto di riforma del sistema di relazioni industriali e di contrattazione collettiva interessa la tematica della rappresentanza in azienda e realizza, a parere di X. Xxxxxxxxxxx (X. XXXXXXXXXXX, La fusion des institutions représentatives du personnel, in RDT, 10, 2017, pp. 608 ss.), una svolta importante, se non addirittura un’inversione di rotta in materia. Il decreto n. 2017-1386, relativo alla nuova organizzazione del dialogo sociale in azienda, impone l’elezione, per tutte le imprese con almeno 11 dipendenti, di una nuova unica istanza rappresentativa del personale, denominata Comité Social et
Économique (CSE), frutto della fusione delle plurime istanze fino ad allora esistenti (délégués du personnel, délégués syndical, CSHT e Comité d’entreprise), nella convinzione che - come si legge nell’exposé des motifs del disegno di legge - «una rappresentanza dei lavoratori frammentata in quattro istanze non favorisce né la qualità del dialogo sociale, né la capacità negoziale dei rappresentanti, che si specializzano su determinate materie, ma restano privi di una visione d’insieme». Dalla mera facoltà di creazione di una Delegazione Unica del Personale, riconosciuta dalla Loi Xxxxxxxx, si passa dunque ad una vera e propria obbligazione che, secondo X. Xxxxxxxxxxx, nasconde un chiaro intento di promozione esclusiva degli interessi propri dell’azienda e, rispetto al quale, nutre il timore di un possibile affievolimento della rappresentanza stessa. Se è vero, infatti, che la precedente organizzazione ha portato ad una ripartizione delle competenze tra le diverse istanze che non escludeva un rischio di sovrapposizione, è anche vero che l’esistenza di una pluralità di istituzioni ha favorito nel tempo il riconoscimento di una forma di pluralismo importante nella difesa degli interessi dei lavoratori, permettendo che l’azione dei rappresentanti si sviluppasse, all’interno dell’azienda, a partire da concezioni e ispirazioni diverse.
X. Xxxxxx (X. XXXXXX, La légitimité intrinsèque de l’accord collectif et la règle majoritaire, in DS, 2, 2018, pp. 154 ss.) sostiene che la riforma porti a termine un lungo cammino, avviato fin dalle leggi del 1982, che interessa la necessità di un’approvazione maggioritaria degli accordi, a qualunque livello essi vengano sottoscritti. In particolare, la validità delle convenzioni collettive interconfederali e nazionali è subordinata a due presupposti: la sottoscrizione da parte di una o più organizzazioni sindacali rappresentative che hanno ottenuto, alle elezioni professionali aziendali, almeno il 30% dei voti espressi in favore delle organizzazioni riconosciute rappresentative a quel livello, qualunque sia il numero di votanti; l’assenza di opposizione da parte di una o più organizzazioni sindacali rappresentative che hanno raccolto la maggioranza dei voti alle stesse elezioni, qualunque sia il numero di votanti. La validità degli accordi aziendali, invece, è subordinata - come già disciplinato dalla riforma del 2016 - alla sottoscrizione da parte di una o più organizzazioni sindacali che hanno raccolto più del 50% dei voti espressi al primo turno delle ultime elezioni dei titolari del Comité d’entreprise, quale che sia il numero di votanti. Le diverse soglie previste dal legislatore a seconda del livello di contrattazione induce l’Autore a mettere in discussione la legittimità stessa degli accordi relativamente a due aspetti: innanzitutto, le soglie del 30% e del 50% sono sempre considerate in relazione ai voti espressi piuttosto che agli elettori iscritti, cosa che
agevola enormemente il loro raggiungimento, considerati gli alti tassi di assenteismo alle elezioni professionali; in secondo luogo, esse vengono calcolate in base ai soli voti espressi in favore delle organizzazioni sindacali riconosciute come rappresentative, con la conseguenza che, di fatto, le voci di coloro che hanno espresso un voto in favore di un’organizzazione sindacale non giudicata sufficientemente rappresentativa, non sono minimamente tenute in considerazione.
La novella legislativa, inoltre, aggiunge all’art. L. 2232-12 - relativo alle condizioni di validità degli accordi - un termine di scadenza entro il quale il datore di lavoro, in assenza di opposizione dei sindacati firmatari, può decidere di indire un referendum. Se fino alla Loi Xxxxxx del 2004 l’istituto giuridico del referendum poteva dirsi quasi completamente assente dal Codice del lavoro francese, con la riforma Macron del 2017 esso diviene praticamente strutturale, assumendo una duplice veste a seconda che venga indetto per ratificare un accordo collettivo o per approvare una proposta di accordo. Nel primo caso, il referendum può essere considerato alla stregua di una ratifica poiché attribuisce validità ad un accordo firmato da uno o più soggetti che, pur non avendo agito in totale assenza di potere, non dispongono tuttavia di una legittimazione sufficiente. Il riconoscimento di una simile opportunità, si traduce, dal punto di vista dell’Autore, in «una vera e propria elusione del sistema rappresentativo» poiché, chiamando in causa direttamente i lavoratori ogniqualvolta i loro rappresentanti non vogliano firmare un accordo, si dimentica che il diritto alla negoziazione collettiva è un diritto individuale che si esercita collettivamente. Il referendum finalizzato all’approvazione di una proposta d’accordo, invece, rappresenta un’opportunità riconosciuta dal legislatore alle aziende di piccole e piccolissime dimensioni con meno di venti dipendenti, prive sia di delegati sindacali che di membri eletti della delegazione del personale al Comitato Sociale ed Economico, ed ha luogo ogniqualvolta il lavoratore è chiamato ad esprimersi in merito ad un projet d’accord formulato dal datore di lavoro. Parte della dottrina (X. XXXXXXXXXXX, La fusion des institutions représentatives du personnel cit., pp. 608 ss.; X. XXXXXX, La légitimité intrinsèque de l’accord collectif et la règle majoritaire cit., pp. 154 ss.; X. XXXXXXXX, La “riforma Macron” del codice del lavoro francese cit., pp. 60-61), si interroga sulla natura giuridica stessa di tale atto, partendo dal presupposto che un accordo, per essere considerato tale, necessita della presenza di almeno due parti che convengano sulla sua formulazione. Perché il progetto presentato dal datore di lavoro ai suoi dipendenti possa essere considerato tale, è dunque necessario riconoscere che una delle parti in questione coincida con la collettività
dei lavoratori, che risulta priva, però, di quella personalità giuridica che è invece imprescindibile. Già la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5407081 del 28 gennaio 1954 (nota come arrêt Comité d’etablissement Saint-Xxxxxxx), aveva stabilito che la personalità giuridica è riconosciuta ad un gruppo solo qualora esso sia munito di «una possibilità di espressione collettiva per la difesa di interessi legittimi». Una collettività di lavoratori priva di qualunque organo di rappresentanza, a parere degli Autori, non può essere considerata alla stregua di un’entità sufficientemente organizzata ed in più il Preambolo della Costituzione afferma a chiare lettere che «la partecipazione dei lavoratori alle scelte collettive delle loro condizioni di lavoro si realizza con l’intermediazione dei loro delegati».
Le ordonnances, infine, intervengono anche in tema di onere della prova in ipotesi di contestazione della validità di un accordo. È stabilito, infatti, che «appartiene a colui che contesta la legittimità di una convenzione o di un accordo collettivo di dimostrare che esso non è conforme alle condizioni legali che lo disciplinano». Il legislatore si è ispirato, a tal fine, alla giurisprudenza costante della Corte di Cassazione (Cfr. Cass.Soc. n. 16-175174, ott. 2017; Cass. Soc. n. 00-0000000 gen. 2015), secondo la quale «le differenze di trattamento tra categorie professionali introdotte da convenzioni o accordi collettivi sono considerate giustificate e spetta a colui che le contesta dimostrare che sono estranee ad ogni valutazione di natura professionale». A tutela delle conseguenze di un’eventuale dichiarazione di nullità dell’accordo, il nuovo art. L. 2262-15 riconosce anche la possibilità, in capo all’organo giudicante, di modulare gli effetti della decisione nel tempo, tenendo conto delle conseguenze economiche o finanziarie che la sua decisione può riflettere sull’impresa e sui lavoratori. Se l’intenzione di attribuire all’accordo collettivo una presunzione di validità è da considerarsi - a parere di X. Xxxxxxxxx (X. XXXXXXXXX, L’impacte de l’ordonnance Macron n. 2017-1385 sur la négociation d’entreprise, cit.) - lodevole, la portata della norma, a detta dell’Autore, rimane piuttosto limitata. L’ordinanza, difatti, oltre a ridurre il termine entro il quale è possibile proporre un’azione di nullità da cinque a tre mesi, non considera che per alcune tipologie di accordi sono previsti termini di prescrizione differenti, e che nulla vieta al lavoratore che ha intentato una causa contro il proprio datore di lavoro di contestare anche l’applicazione dell’accordo collettivo.
In conclusione, i giudizi riservati alla riforma del lavoro del 2017 sono molti e tra loro diametralmente opposti. A chi giudica la riforma alla stregua di una rivoluzione copernicana,
colpevole di aver realizzato una vera e propria inversione nella concezione stessa del diritto del lavoro, che da diritto del contraente debole diventa strumento aziendale a servizio della sola competitività (X. XXXXXXXX, X. XXX, Démocratie, le fond et la forme cit., p. 631) giudica la riforma del 2017), fa da contraltare chi riserva all’ultimo intervento del legislatore giudizi più miti e ottimisti. A parere di X. Xxxxxx (X. XXXXXX, Le pari de la réforme de la négociation collective en entreprise en France. Les ordonnances Macron à l’épreuve du réel, in Négociations, 31(1), 2019, pp. 109 ss.), la volontà dei riformatori pare essere incentrata piuttosto su una promozione della cultura della negoziazione collettiva che, passando per un consolidamento del rapporto negoziazione-rappresentanza, sia in grado di produrre quella che alcuni Autori (X. XXXXX, X. XXXXXXXXXX, J.D. XXXXXXXXX, Le dialogue social en France, entre blocages et Big Bang, Xxxxx Xxxxx, Paris, 2018) hanno definito come
«competitività negoziata». L’ambizione maggiore, dunque, sembra essere quella di voler abbandonare definitivamente la cultura della sfiducia e della diffidenza che caratterizza storicamente il modello francese (Y. XXXXX, X. XXXXX, A. XXXXXXXXXX, La fabrique de la défiance et comment s’en sortir?, Xxxxx Xxxxxx, Paris, 2012) e di orientare il sistema di relations professionnelles verso la ricerca di soluzioni innovative, adatte e adattate alle trasformazioni che le aziende stanno vivendo nell’era globalizzata.
CAPITOLO III
Case study: La Trelleborg Coated Systems SpA
Sez. I - La Trelleborg Italia: lo stabilimento di Lodi Vecchio
Sommario: 1. Introduzione; 2. L’evoluzione delle Relazioni Industriali; 3. Premio di Produzione e costo del lavoro: evoluzioni e necessità di cambiamento; 4. La negoziazione del contratto collettivo aziendale 2018-2020 e lo stato di agitazione sindacale nel settore gomma- plastica; 5. La disdetta del Premio di Produzione e l’articolazione di una retribuzione variabile: parametri e obiettivi del nuovo Premio di Risultato; 5.1 L’assenteismo individuale come indice correttivo di adeguamento del premio di risultato; 5.2 La deroga al CCNL e il nuovo trattamento in caso di malattia in Trelleborg; 6. Il progetto di welfare aziendale: dal Premio di Produzione al paniere di beni e servizi; 6.1 Il welfare di produttività; 6.2 Le ferie solidali e l’estensione del congedo di paternità: opportunità del Decreto Interministeriale del 12 settembre 2017
1. Introduzione
La Trelleborg AB è una società svedese leader mondiale nella lavorazione dei polimeri, fondata nel 1905 nell’omonima cittadina situata nel sud del Paese, nella contea della Scania.
Il Gruppo, il cui core business è rappresentato dall’ingegneria dei polimeri, è cresciuto negli anni tramite acquisizioni e, in virtù di una politica di forte decentramento delle funzioni e delle responsabilità, è strutturata in cinque Business Areas, ognuna considerabile alla stregua di una realtà aziendale a sé stante, presente in segmenti di mercato differenti.
Il sito di Lodi Vecchio, headquarter della Business Area Trelleborg Coated Systems (d’ora in avanti TCS), rappresenta da sempre un’eccellenza, a livello nazionale e internazionale, nella produzione delle c.d. printing blankets per il settore della stampa offset e digitale.
Lo stabilimento, fino al 2005 di proprietà dell’azienda statunitense Xxxxxx SpA, è presente sul territorio da oltre cinquant’anni e, per le sue dimensioni 35, oltre che per la sua internazionalità, rappresenta una delle realtà industriali più importanti della provincia lodigiana.
35 Al 31 dicembre 2018 l’azienda conta 265 dipendenti. Il numero include operai, impiegati, quadri e dirigenti, non escludendo i lavoratori assunti con contratto di somministrazione.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicato è quello per gli addetti all’industria della gomma, cavi elettrici e affini e all’industria delle materie plastiche, sottoscritto in data 10 dicembre 2015 tra la Federazione Gomma Plastica e i sindacati nazionali CGIL, CISL e UIL, relativamente al quale entrambe le Parti hanno deciso di comune accordo di rinviare al 30 giugno 2019 la scadenza, in vista (anche) dell’adozione del nuovo modello contrattuale previsto con l’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018, noto come Patto della Fabbrica36. Il comparto gomma, il secondo dopo quello della plastica in termini di numero di aziende e lavoratori coinvolti, si compone perlopiù di imprese di piccole e medie dimensioni, oltre a multinazionali di rilievo come Pirelli, Bridgestone, Michelin e la stessa Trelleborg, per un complessivo di lavoratori pari a circa 35.000.
Presso la sede di Lodi Vecchio, lo scrivente ha svolto un’esperienza di internship all’interno della funzione Human Resources della Business Area Coated Systems; esperienza che ha coinciso con l’iter di negoziazione dell’ultimo accordo aziendale, sottoscritto in data 26 luglio 2018 e valido per gli anni 2018-2020. L’accordo - come sarà evidenziato più avanti - ha disciplinato per la prima volta istituti nuovi e in un certo qual modo rivoluzionari per il sito e i suoi dipendenti e l’ulteriore anno trascorso in azienda in seguito alla chiusura delle trattative ha fatto sì che lo scrivente potesse partecipare direttamente anche al successivo percorso di implementazione e verifica di quanto sottoscritto. L’attenzione, dunque, verterà principalmente sull’analisi di quest’ultimo accordo e dell’iter di negoziazione che ha condotto alla sua sottoscrizione, non mancando di far menzione del contesto di relazioni industriali, locale e nazionale, in cui si è inserita tale negoziazione.
36 Il 27 agosto 2019 gli esecutivi ordinari dei sindacati hanno raggiunto un accordo in merito alla piattaforma da sottoporre alle assemblee dei lavoratori per l’approvazione, per consentire poi l'avvio delle trattative con la Federazione Gomma Plastica e Airp. Le forze sindacali avanzano una richiesta di aumento salariale per il triennio 2019-2022 pari a Euro 100,00 (per il livello F); confermano il ruolo insostituibile del contratto nazionale, ma al tempo stesso intendono rafforzare la contrattazione di secondo livello, aggiornando la normativa del CCNL in un quadro di relazione che condivida e sviluppi una forte interazione fra i due livelli di contrattazione. In tema di relazioni industriali, è giudicato indispensabile costruire un sistema partecipativo capace di diminuire il conflitto e valorizzare il dialogo.
2. L’evoluzione delle Relazioni industriali
Dal numero di contratti di secondo livello ritrovati negli archivi aziendali - oltre 4037 - sottoscritti nel xxxxx xx 00 xxxx xx xxxxxx dello stabilimento, si evince già un notevole fervore in termini di relazioni industriali e contrattazione collettiva. I primi, risalenti alla fine degli anni ’60 e ’70 e sottoscritti sempre a distanza di pochi mesi dalla firma del contratto nazionale di categoria, sono stati frutto di trattative complesse e a tratti aspre, conclusesi spesso con ore di sciopero da parte delle maestranze. Nei primi trent’anni della proprietà americana Xxxxxx, infatti, «se convincere i dirigenti della possibilità di un secondo livello contrattuale, oltre a quello nazionale, era un’impresa difficile, diventava pressoché impossibile trattare un’ulteriore parte economica»38. Oggetto di trattativa – e di scontro - erano non solo richieste di natura economica, relative principalmente a premialità (una tantum o fisse), indennità di turno e di mansione o alle maggiorazioni per il lavoro notturno e in straordinario; ciò che le rappresentanze39rivendicavano era innanzitutto l’efficacia generalizzata degli accordi, da sempre negata dalla direzione aziendale, decisa a gestire le relazioni di lavoro con il personale impiegatizio fuori dal perimetro sindacale.
Si è dovuto attendere il 1994, un anno dopo l’emanazione del Protocollo Giugni e della riforma che ha interessato gli assetti contrattuali e la politica dei redditi, per assistere ad una vera svolta nelle relazioni industriali del sito, dovuta anche all’arrivo di un nuovo amministratore delegato - funzione al tempo responsabile anche delle relazioni sindacali - con il quale si ottenne la firma del primo contratto collettivo aziendale efficace per tutto il personale in forza. La direzione aziendale aprì inoltre ad un rapporto collaborativo e ad un maggior coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nelle scelte aziendali e nella risoluzione dei problemi, ponendo fine a quella divisione tra operai e impiegati fino ad allora perpetrata dalla precedente dirigenza.
37 Il numero comprende anche i contratti aziendali di natura c.d. gestionale e gli accordi aventi ad oggetto chiusure collettive e necessità straordinarie di ricorso alla somministrazione di lavoro.
38 Testimonianza di Xxxxxxx Xxxxxxx, ex sindacalista Xxxxxx, autore del libro “Xxxxxx 1964-2004, Quarant’anni tra cronaca e storia”, ed. Altrastoria, 2004.
39Il sito di Lodi Vecchio è sempre stato caratterizzato da un’alta percentuale di sindacalizzazione. La federazione di categoria della CGIL è stata l’unica a comporre le prime Commissioni Interne e i Consigli di Fabbrica fino al 1995, anno in cui furono tenute le elezioni per la costituzione della RSU, in cui fecero la loro comparsa la FLERICA-CISL e la UILCER-UIL (oggi, rispettivamente, FEMCA e UILTEC).
Da allora, ogni accordo sottoscritto contiene sempre un paragrafo dedicato esclusivamente alla natura delle relazioni industriali nel sito e alla volontà comune di gestione delle stesse. Nel testo dell’ultimo rinnovo si legge che «nel rispetto dei ruoli e delle competenze, le Parti confermano l’importanza e la necessità di proseguire nel positivo e continuo confronto, al fine di individuare e condividere le migliori soluzioni alle eventuali criticità dell’Azienda». Vengono inoltre istituiti incontri mensili a fini informativi circa l’andamento dei parametri del Premio di Risultato; tavoli tecnici trimestrali finalizzati alla presentazione e al successivo confronto circa proposte di miglioramento pervenute alle rappresentanze aziendali da parte di tutti i lavoratori; nonché incontri annuali, per finalità di consultazione, rispetto a questioni inerenti alla professionalità e all’inquadramento dei lavoratori.
3. Premio di Produttività e costo del lavoro: evoluzioni e necessità di cambiamento
Il primo accordo ritrovato in archivio, risalente al 23 settembre 1969, è da considerarsi la fonte di quelle concessioni (o conquiste) economiche summenzionate, che hanno col tempo contribuito ad aumentare il costo del lavoro del sito. Oltre all’istituzione di un Premio in cifra fissa e della quattordicesima mensilità, con un accordo del 1989 anche le percentuali di maggiorazione per il lavoro notturno e in straordinario vengono innalzate: la prima dal 28%, come da contratto collettivo nazionale, al 43%; la seconda forfettizzata al 40%, a fronte di percentuali variabili del CCNL che vanno dal 18 al 35% in funzione del numero ore di lavoro in straordinario accumulate.
Il Premio di Produzione per operai e qualifiche speciali corrispondeva originariamente ad una percentuale del minimo retributivo e dell’indennità di contingenza40, finché la stessa contrattazione nazionale del 1992, in una nota a verbale all’art. 26 - disciplinante il funzionamento del Premio di Risultato nel settore - non ha stabilito che dovesse negoziarsi un premio fisso in tutte quelle realtà aziendali in cui non risultasse possibile strutturare un Premio ad obiettivi per motivi legati alla tipologia di produzione o alla sua organizzazione. I successivi contratti nazionali del 1996 e del 2000, facendo salvo quanto previsto dall’accordo del ’92, hanno poi stabilito che i premi di produzione e gli istituti retributivi analoghi stabiliti a livello aziendale e consolidati in cifra alla data del 30 marzo 1996 […] debbano essere corrisposti per
40 La percentuale era del 3%, poi innalzata al 4,5% a partire dal 1° gennaio 1970.
intero, ai lavoratori assunti a decorrere dal 16 aprile 2000, alla fine del quarto anno di anzianità di servizio e pro-rata nei primi quattro anni, secondo modalità definite a livello aziendale.
È sulla base di queste previsioni contrattuali che, con un accordo aziendale del 2002, il Premio di Produzione riconosciuto agli operai dello stabilimento viene consolidato in cifra per un ammontare pari a 150,00 € lordi suddivisi in 4 tranches, per poi essere ulteriormente incrementato di 40,00 € con un successivo consolidamento riconosciuto in un accordo del 2006. Ed è in virtù di ciò che, nonostante la scadenza triennale del summenzionato accordo del 2006, il Premio di Produzione - che si consolida in cifra fissa per un ammontare di 217,76 €- continua ad essere corrisposto, per di più in concomitanza con il Premio di Risultato variabile nel frattempo negoziato in azienda, assumendo di fatto i contorni dell’uso aziendale41.
Tale iter di (de)regolamentazione ha certamente contribuito ad accrescere il costo del lavoro del sito42che, per una percentuale superiore al 10%, deriva da quell’importo erogato a titolo di Premio di Produzione, che comincia a diventare oggetto di analisi e attenta valutazione a partire dal 2012, anno in cui il sito di Lodi ha vissuto una riorganizzazione tra la compagine dirigenziale che ha coinvolto anche la funzione HR di Business Area, responsabile ad interim delle relazioni industriali del sito. Condizioni di inefficienza produttiva e di scarsa competitività sul mercato, oltre ad una congiuntura economica sfavorevole che nell’anno 2012 ha fatto segnare una forte contrazione per la produzione industriale e particolarmente per il settore della stampa43, hanno imposto non solo analisi più approfondite inerenti ai costi sostenuti dall’azienda, ma anche il ricorso ad ammortizzatori sociali, quali la Cassa Integrazione Guadagni (sia ordinaria straordinaria) negli anni 2010-2011, nonché alla procedura di licenziamenti collettivi che ha interessato, nel 2013, circa 40 dipendenti del sito.
41 Inteso quale «reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in un trattamento economico di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti», consolidata giurisprudenza attribuisce all’uso aziendale la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ex multis, Cassazione civ., Sez. lav., 4.4.2010, n. 8240;. Cassazione civ., Sez. lav., 27.5.2008, n. 13816; Cassazione civ., Sez. lav., 8.4.2010, n. 8342; Cassazione civ., Sez. Un., 13.12.2007, n. 26107.
42 Relativamente al solo personale con qualifica operaia, il costo del lavoro risulta essere superiore ai 7.000.000
€, con un costo pro-capite medio pari a 50.560 €. Il dato si riferisce al 1° gennaio 2018, quando il numero di dipendenti con qualifica operaria era pari a 148 unità
43 Dati ISTAT relativi all’anno 2012 rilevano una contrazione della produzione industriale pari a -5% su base annua, la più forte dal dicembre 2009. Tra i settori in calo, quelli che registrano diminuzioni tendenziali più ampie sono l’industria del legno, della carta e della stampa (-16,3%). Dal Report Annuale Trelleborg per il 2012 emerge un calo delle vendite delle c.d. printing blankets del 4% rispetto al 2011, causato principalmente da un generale indebolimento della domanda in Europa e dal fallimento di uno dei più grandi produttori di macchine da stampa in Germania, che ha conseguentemente comportato una necessità di modifica del modello di distribuzione.
Il percorso che ha condotto alla disdetta degli accordi e all’abolizione del Premio in cifra fissa non è stato semplice né immediato. Il primo passo finalizzato ad un contenimento del costo del lavoro viene realizzato dalla Direzione aziendale, di concerto con le XX.XX. territoriali e la RSU di stabilimento, in data 5 marzo 2013, quando - presso la sede di Assolombarda - viene sottoscritto un accordo con il quale è disposta l’abrogazione delle norme contrattuali disciplinanti il Premio di Produzione, interrompendo la corresponsione della cifra in oggetto ai lavoratori che verranno assunti a far data dal giorno successivo alla sottoscrizione dell’accordo. Le Parti – si legge nel testo dell’accordo – riconoscono e promuovo la politica sui redditi emersa fin dal Protocollo del ’93, in virtù della quale «le erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività di cui le imprese dispongano, compresi i margini di produttività», nonché nei successivi Accordi Interconfederali, volti a sottolineare il ruolo strategico della contrattazione di secondo livello nel riconoscere aumenti retributivi collegati al raggiungimento di obiettivi nonché al miglioramento della competitività e ai risultati legati all’andamento economico delle imprese». Questo primo approccio di “aggressione” della cifra non è stato segnato da tensioni e scontri in fase di trattativa, probabilmente per il fatto che l’accordo non ha intaccato quanto conquistato negli anni dai dipendenti dell’azienda e dai suoi rappresentanti sindacali. Ma è anche vero che la sua funzionalità per i conti aziendali si è rivelata nella pratica nulla, se si considera il numero di assunzioni effettuate nei successivi cinque anni44.
La questione viene ripresa in occasione del rinnovo dell’accordo aziendale, momento in cui la Direzione comunica alle rappresentanze sindacali condizioni di mercato e di concorrenza, sia interna che esterna, sfavorevoli, e la la volontà di disdettare definitivamente gli accordi che regolamentano il Premio, essendo cambiate le
4. La negoziazione del contratto collettivo aziendale 2018-2020 e lo stato di agitazione sindacale nel settore gomma-plastica
L’iter di negoziazione dell’accordo integrativo relativo al triennio 2018-2020 ha inizio nel mese di gennaio 2018, nel pieno di uno stato di agitazione sindacale che ha investito l’intero
44 Un solo dipendente è stato assunta nell’arco di tempo compreso tra il 2013 e il 2018. Il riferimento è alle sole assunzioni dirette e non anche tramite contratto di somministrazione.
settore merceologico a partire dall’ottobre 2017, a cui vale la pena fare qualche cenno, al fine di meglio comprendere il contesto in cui è avvenuta la trattativa e le scelte adottate nel corso della stessa.
Lo stato di agitazione viene proclamato dalle XX.XX. di categoria (Filctem-CGIL, Uiltec- UIL, Femca-CISL) in relazione alla politica di aggiornamento annuale dei minimi salariali di cui all’art. 70, co. 6,7,8 del CCNL Gomma Plastica del 10 dicembre 2015.
Più nel dettaglio, il suddetto articolo stabilisce che «le parti individuano, per la dinamica degli effetti economici considerati nel vigente contratto e dei prossimi rinnovi, quale indice previsionale, l’annuale comunicazione ufficiale dell’Istat di maggio relativa ai dati inflattivi. Il recupero degli eventuali scostamenti sarà effettuato annualmente. Nel mese di giugno di ogni anno sarà riscontrato lo scostamento di inflazione relativo all’anno precedente. Tale scostamento sarà determinato calcolando la differenza tra l’indice a consuntivo comunicato ufficialmente dall’Istat nel mese precedente (maggio) per l’anno di riferimento e la previsione Istat presa a riferimento in fase di rinnovo (indice % di scostamento) per lo stesso anno. Il valore dello scostamento annuale sarà calcolato applicando l’“indice % di scostamento” inflattivo alla “retribuzione media di riferimento” utilizzata per il rinnovo. Il recupero di tale valore di scostamento sarà realizzato aggiornando la prima erogazione prevista, inclusa quella del successivo rinnovo, sulla base della suddetta valorizzazione». La disposizione contrattuale, dunque, prevede un meccanismo di verifica annuale dei minimi salariali e di aggiornamento degli stessi alla luce degli eventuali scostamenti degli indici inflattivi. A tale aggiornamento si provvede in primo luogo calcolando la differenza tra la previsione e la consuntivazione dell’indice inflattivo comunicato dall’Istat annualmente e, successivamente, recuperando il controvalore con l’adeguamento degli importi della prima erogazione contrattualmente prevista.
Sulla base dei dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica nel maggio 2017 emerge come le previsioni per l’anno 2016 siano state sovrastimate rispetto all’effettivo andamento, motivo per cui la Federazione Gomma Plastica comunica alle aziende associate il recupero in soluzione unica di un importo pari a 19,06 € da decurtare dal quantum di aumento salariale previsto per gennaio 2018. La reazione delle XX.XX. non tarda ad arrivare, accusando la Federazione di sconfessare il contenuto stesso del contratto nazionale, in cui è previsto che eventuali aggiornamenti siano oggetto di esame congiunto tra le Parti firmatarie. La
Federazione, dal canto suo, ribatte alle accuse sostenendo che la procedura, per sua stessa natura, non può avere connotazioni negoziali, dal momento che il suo obiettivo è il mero riscontro del dato Istat e del valore economico corrispondente. Nelle more del clima di tensione, in riferimento al quale i sindacati hanno parlato anche di «situazione che mette a rischio l’intero sistema contrattuale del settore, da sempre caratterizzato da relazioni industriali partecipative e soluzioni condivise»45, nel sito TCS di Lodi Vecchio vengono proclamate 16 ore di sciopero e il blocco degli straordinari e delle flessibilità. In data 3 maggio 2018, le Parti giungono finalmente alla firma di un accordo con cui convengono, non solo, sul rinvio della scadenza del vigente CCNL al 30 giugno 2019, ma ridefiniscono anche le tranche di aumento contrattuale, rispettivamente di 21,00 € nel mese di maggio e ulteriori 14,00 € nel mese di gennaio 2019.
Ciononostante, la questione si inserisce nella negoziazione aziendale come ulteriore argomento di scambio, arrivando la firma dell’accordo nazionale in uno stadio già avanzato della trattativa aziendale. La RSU di stabilimento - composta da 4 delegati Filctem-CGIL e 2 delegati Uiltec-UIL46 - inserisce nella piattaforma presentata al tavolo di negoziazione la richiesta di pagamento di quel quantum di aumento salariale negato a livello nazionale, mentre l’Azienda, dal canto suo, manifesta le proprie aspettative rispetto al rinnovo dell’accordo di secondo livello, che prevedono un abbattimento del costo del lavoro, una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro - che assicuri la capacità di far fronte alle continue fluttuazioni del mercato e degli ordini provenienti dai clienti - e misure finalizzate ad un miglioramento della qualità del prodotto tali da portare una riduzione del costo del prodotto sul mercato.
La negoziazione verte essenzialmente su cinque aspetti principali, che rappresentano anche i punti salienti dell’accordo raggiunto e di seguito analizzati:
a) Disdetta del Premio di produzione
b) Lavoro in straordinario
c) Assenteismo
d) Obiettivi e articolazione del Premio di Risultato
e) Piano di welfare aziendale
45 Comunicato unitario delle XX.XX. Filctem, Femca, Uiltec del 27 ottobre 2017.
46 Le ultime elezioni della RSU Trelleborg di Lodi Vecchio sono avvenute nel mese di novembre 2017 ed hanno confermato l’assenza del sindacato Femca-CISL tra i rappresentanti eletti dei lavoratori.
L’accordo si compone essenzialmente di tre parti: la prima, relativa al sistema di retribuzione variabile previsto per il personale del sito; la seconda, che disciplina il trattamento economico in caso di malattia; la terza, relativa all’implementazione di un piano di welfare aziendale, composto da un’eterogeneità di misure di conciliazione vita-lavoro, finalizzate a garantire sostegno alla persona che lavora e ai suoi familiari.
5. La disdetta del Premio di Produzione e l’articolazione di una retribuzione variabile: parametri e obiettivi del nuovo Premio di Risultato
La disdetta del Premio di Produzione ha rappresentato certamente l’operazione più delicata all’interno della trattativa per il rinnovo del contratto aziendale. Esso difatti rappresentava non solo il 10,4% del costo totale del lavoro complessivo dello stabilimento, ma anche circa l’11% della retribuzione annua lorda media di un operaio del sito di Lodi Vecchio.
Le motivazioni addotte dalla Direzione aziendale in merito all’insostenibilità del costo del lavoro del sito interessano principalmente due fattori: l’eccessivo costo di vendita del prodotto sul mercato - di cui il costo del lavoro rappresenta una delle variabili principiali - e l’acquisizione di un nuovo stabilimento in Slovenia, che ha messo inevitabilmente il sito italiano in competizione con un Paese in cui il costo del lavoro è notoriamente più basso. Molte sono state le assemblee che hanno avuto luogo nel corso della trattativa, volte a presentare e a spiegare ai lavoratori la proposta del nuovo pacchetto retributivo su cui verteva la trattativa, oltre che finalizzate ad ottenere la fiducia e il mandato per firmare il rinnovo dell’accordo.
La disponibilità a trattare è concessa dalle rappresentanze sindacali solo a patto che si introducano misure in grado di garantire ai lavoratori lo stesso stesso potere d’acquisto di cui hanno sempre goduto e che l’azienda si impegni in un piano di investimenti finalizzati in primis alla risoluzione delle problematiche qualitative del prodotto, non sempre imputabili all’errore umano del lavoratore. La nuova politica retributiva su cui le Parti giungono ad un accordo si compone così, oltre che di una parte fissa, come da contratto nazionale; di una parte variabile, legata al raggiungimento di obiettivi aziendali; e di una parte riconosciuta sotto forma di welfare, con accesso ad una serie di beni e servizi per il lavoratore e i suoi familiari, messi a disposizione del dipendente tramite piattaforma online.
Il Premio di Risultato, legato a tre obiettivi di natura finanziaria e collettiva in cui l’attenzione alla qualità del prodotto sul mercato rappresenta l’aspetto preponderante, «rientra nel progetto comune delle parti firmatarie di agevolare una crescita aziendale sostenibile e sempre più concorrenziale, finalizzata a rendere il sito di Lodi Vecchio sempre più competitivo».
Il Premio, del valore massimo di 2.000 €, viene così strutturato:
• Per il 20%, legato all’EBIT dello stabilimento, ovvero l’utile operativo prima delle imposte e degli oneri finanziari;
• Per una percentuale decrescente a seconda dell’anno di riferimento, che va dal 50% del valore del Premio per il 2018 al 30% per il 2020, il valore del Premio è legato alla Produttività, ovvero al rapporto tra ore lavorate e i Kg prodotti;
• Per una percentuale crescente a seconda dell’anno di riferimento, che va dal 30% per il 2018 al 50% per il 2020, il valore dipende dai c.d. Costi della Non Qualità, pari al rapporto tra il valore in Euro dei claims (reclami) e di scarto interno diviso il valore della produzione.
Per il personale impiegatizio e per i quadri, invece, il sistema premiale viene strutturato diversamente, in primis nell’importo, il cui valore minimo è pari a 2.200 €.
Definito tramite scheda individuale, redatta per ciascun dipendente dal diretto capo funzione con l’aiuto e l’avallo dell’Ufficio Risorse Umane, il Premio è basato, «per un minimo pari al 60% del valore complessivo, su obiettivi aziendali legati al sito o alla BU/BA di riferimento», in considerazione del fatto che molti dei dipendenti del sito di Lodi Vecchio, in quanto sede centrale della BA Coated Systems, sono gerarchicamente e funzionalmente dipendenti di una Business Unit o dell’intera Business Area; la restante parte del Premio, «per un massimo pari al 40% del valore complessivo, è basato su obiettivi individuali legati alla mansione e alle attività svolte dal lavoratore».
Ad una retribuzione variabile di natura puramente collettiva, riservata alla categoria degli operai, è affiancato dunque un premio “ibrido” per impiegati e quadri, per una parte ancorato ad obiettivi collettivi di natura finanziaria, per l’altra, modellato in virtù della specifica funzione propria del dipendente, affine alle logiche del c.d. sistema di MBO (Management By Objectives), un tempo riservato alla sola categoria dei dirigenti.
L’articolazione del Premio di Risultato, tanto per gli operai quanto per impiegati e quadri, è strutturata dalla Direzione aziendale e dalle Rappresentante sindacali in maniera tale da poter godere dei benefici fiscali introdotti dall’art. 1, commi da 182 a 189, della Legge n. 208/2015 e confermati dalle successive leggi di bilancio, fino all’ultima per l’anno 2019 (lg. n. 145 del 30 dicembre 2018). La normativa di riferimento prevede infatti l’applicazione di un’imposta sostitutiva sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10% sui premi di risultato di ammontare variabile, definiti dal Decreto del 25 marzo 2016 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, come le «somme di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione”, misurabili e verificabili sulla base dei criteri definiti dallo stesso decreto e dall’Agenzia delle Entrate»47.
In ottemperanza alla legislazione nazionale summenzionata nonché alle indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, la corresponsione del Premio viene ancorata a due indicatori alternativi tra loro – EBIT e Produttività – alla cui incrementalità è legata la detassazione dell’intera somma variabile48, a dimostrazione anche dell’importanza riservata all’effettivo conseguimento di una maggiore redditività aziendale come presupposto imprescindibile per l’erogazione di un premio che risulti sostenibile da un punto di vista economico e finanziario per l’Azienda.
Con riferimento al personale di Business Unit e Business Area, infine, la porzione di premio legata ad obiettivi finanziari di Gruppo (e non di sito) è soggetta a detassazione solo qualora uno dei due parametri “cancelletto” prescelti per il sito Lodi Vecchio facciano registrare un incremento. Il risultato incrementale del Gruppo, infatti, alla luce di quanto contenuto nella già citata Circolare 5/E, «può essere assunto quale presupposto per la erogazione di premi agevolabili solo se determinato esclusivamente da società residenti in Italia o da società non residenti che esercitano l’attività nel territorio dello Stato, non rientrando nella finalità della
47 La circolare n. 28/E del 15 giugno 2016 e la successiva Circolare n. 5/E del 29 marzo 2018 rappresentano i punti di riferimento per l’interpretazione delle tante novità sui temi inerenti al Premio di Risultato e al Welfare Aziendale.
48 Come chiarito dalla Circolare 5/E, «laddove (..) il contratto preveda espressamente il raggiungimento di diversi obiettivi non alternativi tra loro” tali da escludere che si tratti di risultato a carattere unitario, ma piuttosto “di singoli premi a sé stanti, strettamente ed esclusivamente legati al parametro/obiettivo assegnato”, la detassazione opererà esclusivamente sulla parte del premio relativo agli obiettivi che hanno registrato il requisito dell’incrementalità».