ENRICO QUADRI
XXXXXX XXXXXX
Professore ordinario di istituzioni di diritto privato – Università di Xxxxxx Xxxxxxxx XX
“CONVIVENZE” E “CONTRATTO DI CONVIVENZA”
SOMMARIO: 1. Le “convivenze” ed il “contratto di convivenza” nella sistematica della legge n. 76 del 2016. –
2. Definizione della situazione di “convivenza” e sue problematiche conseguenze, anche alla luce del “diritto vivente” in materia. – 3. La disciplina del “contratto di convivenza” nel suo rapporto con quella concernente le “convivenze”. – 4. Contenuti del “contratto di convivenza”. – 5. Problematicità del regime pubblicitario del “contratto di convivenza”.
1. – A quattro mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge 20 maggio 2016,
n. 76, su di un punto sembrano concordare i (prevedibilmente) numerosi contributi ad essa dedi- cati, in ciò confermando l’impressione immediatamente suscitata dal testo uscito il 25 febbraio dal Senato (ed approvato col meccanismo della fiducia il giorno 11 maggio dalla Camera dei deputati): il confuso accatastamento dei commi di cui si compone l’unico articolo della legge si presenta come la peggiore, quanto a qualità del tessuto normativo, delle riforme in materia di disciplina dei rapporti familiari, assolutamente inadeguata, quindi, a quel suo carattere epocale, che sembra idealmente accostarla, in quanto atta a rivoluzionare dalle sue fondamenta il nostro sistema ordinamentale in materia, al superamento, nel 1970, del principio della indissolubilità del matrimonio.
Certo le giustificazioni non mancano. Sovrasta ogni altra l’essersi trattato di un intervento non più rinviabile, se non altro – ed al di là di qualsiasi considerazione circa lo stridente contra- sto del silenzio legislativo con le aspettative della società – per la definitiva messa in mora del nostro legislatore, dopo i reiterati avvisi della Corte costituzionale, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo il 21 luglio 2015. L’urgenza di provvedere comunque, così, dovrebbe suo- nare quale giustificazione, data la conseguente quasi inevitabile necessità di operare affannose mediazioni ideologico-politiche, della cattiva qualità del provvedimento. Un simile ragionamen- to, peraltro, pare attagliarsi solo alla parte del provvedimento stesso concernente la “regolamen- tazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso”, non quella relativa la “disciplina delle convivenze”.
Già dalla sua intitolazione, in effetti, risulta palese come la nuova legge risulti programmati- camente caratterizzata da due nuclei di disciplina che riguardano problematiche diverse.
* Lo scritto si ricollega alla relazione svolta al Convegno “Il diritto di famiglia tra modelli tradizionali e nuove declinazioni. Esperienze a confronto”, Università Bocconi, Milano, 23 settembre 2016. Esso è dedicato a Xxxxxxxx Xxxxxxxxx.
L’indifferibilità, per le sue accennate motivazioni, non sembra contrassegnare la disciplina, qua- le che fosse destinata ad essere, delle “convivenze”. E ciò proprio in conseguenza dell’operata regolamentazione delle “unioni civili”, in quanto atta, nell’adempiere alle ricordate sollecitazio- ni, a dare risposta alle istanze delle persone dello stesso sesso, col riconoscimento di un’ade- guata rilevanza giuridica al comune progetto di vita. In proposito, infatti, non si può mancare di sottolineare come, ormai da diversi lustri, il maggiore impulso nel senso di una estesa regola- mentazione legislativa della c.d. “famiglia di fatto”, più o meno organica e tendenzialmente mo- dellata su quella del matrimonio, derivasse, almeno in larga – se non prevalente – misura, pro- prio dalla carenza di un riscontro legislativo alle istanze in questione.
Xxxx, deve forse addebitarsi all’innesto dell’istanza di riconoscimento delle unioni omoses- suali sulla risalente problematica della rilevanza giuridica della “famiglia di fatto” l’essersi resa ancora più difficile l’eventuale definizione di un quadro normativo unitario atto a soddisfare contestualmente le esigenze dei conviventi eterosessuali e la realtà di tali unioni. E ciò per il ri- sultare perseguito, appunto, dai partners dello stesso sesso non quello “statuto minimo” della convivenza, solo razionalmente compatibile con la scelta della coppia eterosessuale in senso contrario all’assunzione degli obblighi matrimoniali, ma, per così dire, uno “statuto massimo”, la istituzionalizzazione, cioè, di un regime il più possibile simile a quello caratterizzante il ma- trimonio. Significative, in una simile prospettiva, si presentano, nella XV legislatura, le discus- sioni e le vicende concernenti il d.d.l. governativo n. 1339 del 2007, correntemente conosciuto con l’acronimo “DICO”: iniziativa legislativa, questa, non a caso fallita nel suo tentativo di ap- prontare una disciplina unitaria, atta a soddisfare contestualmente le diverse – se non opposte – esigenze e che, peraltro, pare aver finito – a questo punto, quindi, alquanto contraddittoriamente
– col lasciare tracce nella parte del provvedimento dedicata alla “disciplina delle convivenze”.
Ogni dubbio circa il carattere – secondo taluni troppo – “leggero” della disciplina dettata nei commi da 36 a 65 alle “convivenze” dovrebbe, allora, alla luce delle considerazioni sin qui svol- te, risultare superato, in dipendenza della possibilità, ora aperta a tutti attraverso la “regolamen- tazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso”, di vedere assicurata una piena rilevan- za giuridica al proprio consorzio di vita solidaristico-affettivo. In effetti, il costituire la convi- venza, ormai per tutti, frutto della reale libertà di scelta, per usare le espressioni impiegate dalla Corte costituzionale in una sua fondamentale decisione del 1998 (Corte cost. 13 maggio 1998,
n. 166), “di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio” (e, ora, pure dalla “unione civile”) pare rendere ancora più attuale il suo monito a legislatori ed interpreti, nel sen- so che, se “la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle re- gole che il legislatore ha sancito per il matrimonio … l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione del principio di libera determinazione delle parti”.
Costituendo, appunto, materia specifica del presente intervento la seconda parte del provve- dimento, una prima considerazione sembra imporsi, anche per risultare essa sostanzialmente condivisa da tutti coloro che se ne sono occupati. L’essersi – sia pure per comprensibili motiva-
zioni ideologico-politiche – la discussione che ha contrassegnato il difficile percorso parlamen- tare della legge n. 76 incentrata essenzialmente sulla sua prima parte ha finito col fare quasi – se non del tutto – trascurare la seconda, concernente le “convivenze”. Così, la mancanza, in buona sostanza, di qualsiasi reale riflessione in proposito, almeno in tempo ancora utile per una rime- ditazione della relativa disciplina, ha avuto come risultato quello di massimizzare i difetti di tale parte del provvedimento.
Ciò anche per un suo vizio di origine. L’avere fatto confluire nella disciplina delle “convi- venze” quella del “contratto di convivenza”, senza operare – probabilmente per mancanza di adeguata consapevolezza sul punto – una univoca scelta tra due prospettive tradizionalmente ca- ratterizzanti la discussione circa le vie percorribili per conferire rilevanza giuridica alle unioni affettive, dagli interessati programmaticamente non assoggettate al regime matrimoniale: da una parte, quella tendente a giuridicizzare la relazione di convivenza di per se stessa, considerandola come tale atta a dar vita uno status, fonte di effetti più o meno estesi nei rapporti tra i conviventi e con i terzi; dall’altra, quella tendente ad affidare esclusivamente alla scelta degli interessati ogni rilevanza giuridica della propria relazione, il “contratto di convivenza” caratterizzandosi, così, per rappresentare la sola via atta a far conseguire ad essi uno statuto giuridico della loro convivenza. Vizio di origine, questo, che emerge – e neanche tanto velatamente – da diverse delle disposizioni ora dedicate, appunto, al “contratto di convivenza”, indubbiamente influenza- te, come si avrà modo di accennare più oltre, da una sua considerazione in chiave fondativa di uno status familiare tra le parti.
Non mancano, invero, giudizi complessivamente ottimistici sotto il profilo della opportunità
della scelta legislativa. Un simile giudizio può essere senz’altro condiviso almeno dal punto di vista del, così avvenuto, definitivo superamento degli interrogativi – legati anche al di per sé equivoco inquadramento nell’ambito della sfuggente fenomenologia delle “formazioni sociali”, ai sensi dell’art. 2 Cost., comunque in larga misura già superati, soprattutto alla luce della nota prospettiva sopranazionale – circa il carattere “familiare” delle unioni affettive non formalizzate attraverso il matrimonio (o, adesso, l’unione civile). Ciò, in particolare, al fine di considerare estensibili ad esse quei profili di tutela sociale che si radicano nelle disposizioni costituzionali, le quali al fenomeno familiare, a fini di promozione e di protezione dei soggetti in esso coinvol- ti, fanno riferimento (il pensiero corre, ovviamente, in particolare, agli artt. 31, 36 e 37 Cost.). E questo nonostante la ritrosia manifestata dal legislatore, anche nella legge in questione, nei con- fronti dell’impiego di locuzioni esplicitamente allusive al carattere “familiare” della relazione (qui tanto rare da sembrare sfuggite alla volontà legislativa di emarginazione terminologica, se- condo un atteggiamento, del resto, riscontrabile – e ancor meno giustificabile – pure nella parte del provvedimento dedicata alle “unioni civili”).
2. – Al di là di tale indiscutibilmente positivo – anche se, dunque, solo implicito – contributo alla discussione circa l’estensione dell’area dei rapporti di carattere “familiare”, la sensazione
secondo cui la disciplina ora introdotta si presti a dar vita a più problemi di quelli che essa si presenta atta a risolvere emerge di tutta evidenza già dal co. 36, in particolare nei suoi rapporti col co. 37.
Nel co. 36 il legislatore ha inteso definire la condizione di “conviventi di fatto” come quella di “due persone” per le quali, indipendentemente quindi dal carattere etero od omosessuale della relazione, ricorrano taluni “presupposti”, positivi (maggiore età, stabilità del legame affettivo “di coppia” e di reciproca assistenza morale e materiale) e negativi (assenza di vincoli derivanti da parentela, affinità o adozione, nonché matrimonio o unione civile). Già a prima vista risulta evidente come si tratti di condizioni molto più restrittive di quelle previste dall’art. 515-8 code civil, dettato nel 1999 in tema di “concubinage”, che se ne può considerare il modello remoto, e meno precise di quelle di cui al co. 1 dell’art. 1 del ricordato d.d.l. sui “DICO”, che, comunque, può essere reputato il suo immediato punto di riferimento. E ciò anche per la chiara assonanza col secondo comma dello stesso articolo del co. 37, nel quale – peraltro “ferma restando la sus- sistenza dei presupposti di cui al comma 36” – si indica il “riferimento alla dichiarazione ana- grafica”, di cui agli artt. 4 e 13 (co. 1, lett. b) del d.P.R. 30 maggio, n. 223 (concernente l’in- dividuazione, appunto, della c.d. “famiglia anagrafica”, quale “insieme di persone legate da vin- coli” eventualmente anche “affettivi”, “coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comu- ne”), quale via “per l’accertamento della stabile convivenza”.
Come è stato immediatamente e unanimemente sottolineato, l’avere il legislatore voluto de- finire articolatamente le condizioni atte a caratterizzare la “convivenza”, “ai fini delle disposi- zioni di cui ai commi da 37 a 67” che la concernono (ma i co. 66 e 67, invero, riguardano le sole unioni civili), impone all’interprete, in xxx xxxxxxxxxxx, xx xxxxx la questione relativa al tratta- mento da riservare alle unioni affettive non del tutto conformi – e pur presentandosi quali for- mazioni sociali sicuramente permeate da intima interdipendenza esistenziale e da intensa solida- rietà – alla fattispecie delineata dal legislatore. Fattispecie, in relazione alla quale, quindi, ed an- che su questo sembra esservi unità di vedute, neppure pare più attagliarsi, peraltro, la qualifica- zione “di fatto”, con cui la legge n. 76 individua insistentemente i “conviventi” ai quali si riferi- sce. Si tratta, in effetti, dell’avvenuta introduzione di un ulteriore modello familiare “legale”, quale situazione atta a determinare il sorgere di un vero e proprio status, pur se assai più tenue rispetto a quello conseguente al matrimonio o all’unione civile: tale, allora, da giustificare forse la riproposizione delle perplessità a suo tempo sollevate nei confronti della istituzionalizzazione di una famiglia di serie inferiore, di serie “B”, se non addirittura di serie “C”, ove si giungesse alla conclusione del carattere comunque discriminatorio della disciplina dell’unione civile ri- spetto a quella matrimoniale. E questo, in sostanza, nella prospettiva cui era, in passato, funzio- nalmente orientato il d.d.l. sui “DICO”, senza, peraltro, come dianzi accennato, che ormai ve ne fosse più una reale (soprattutto urgente) necessità, in conseguenza dell’ormai a tutti aperta pos- sibilità di optare per la piena giuridicizzazione del proprio rapporto di vita.
Interrogativi si pongono, invero, anche per l’estensione – pur in linea di principio da consi- derarsi pacifica – ai conviventi rientranti nell’ora operata definizione normativa di quella ricca
regolamentazione di fonte legislativa o giurisprudenziale, che fino a questo momento si è venuta a stratificare in materia e di cui, del resto, molti commi del provvedimento risultano meramente
– e spesso maldestramente – ripetitivi. E ciò, da una parte, appunto con riguardo ai profili presi disordinatamente in considerazione, quando l’ora dettata regolamentazione si presenta, secondo quanto si avrà modo di vedere, come addirittura peggiorativa, per gli interessati, rispetto alle so- luzioni fin qui acquisite; dall’altra, per i profili non direttamente considerati, quando la regola- mentazione già esistente introduca condizioni ulteriori rispetto alla definizione del co. 36, come, ad esempio, anche senza volere riferirsi alla specificazione di requisiti soggettivi sul modello dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004, una durata determinata della convivenza (evidentemente, allora, ponendosi l’interrogativo circa l’operatività o meno, di volta in volta e in quale direzione, del criterio della specialità).
Ma è con riferimento alle situazioni dianzi accennate, sotto qualche aspetto carenti dal punto di vista dei presupposti di cui alla definizione legislativa, che il compito dell’interprete pare de- stinato a presentarsi più delicato. Riguardo a tali unioni affettive – per le quali non è agevole in- dividuare una qualificazione, se non in chiave di libertà dai vincoli definitori ora legislativamen- te introdotti e, come tali, effettivamente destinate a rilevare sul solo piano fattuale – sembra pre- valere, comunque, l’opinione nel senso di considerare, almeno tendenzialmente, irrilevanti i ca- ratteri ora legislativamente tipizzanti la “convivenza”, di fronte ad un diritto vivente che sin qui ha articolato le proprie soluzioni sulla base di condizioni esistenziali, di volta in volta concreta- mente individuate. Certo, comunque, l’interrogativo sembra destinato a porsi, e in modo inquie- tante, ai fini della più comprensiva relativa applicazione, in termini di compatibilità o meno del- le soluzioni pure sin qui accreditatesi con le specifiche – e soprattutto di quelle che sembrano presentarsi come sistematicamente più significative – opzioni del legislatore circa i diversi pre- supposti (ora) in via generale indicati.
Salvo ad approfondire il discorsa in ordine ai singoli requisiti risultanti dall’introdotta defini- zione legislativa, pare in via preliminare da sottolineare come a consistenti dubbi presti il fianco la pretesa stessa di pervenire ad una nozione unitaria di “convivenza”, valevole a gestire tutte le diverse problematiche giuridiche che possano coinvolgere la reazione affettivo-solidaristica, quale nella realtà in ogni caso operante. Solo un’accezione differenziata di essa, sufficientemen- te elastica e sensibilmente attenta alla concreta natura degli interessi e dei valori personali di volta in volta in gioco, sembra effettivamente rispondere alla intima essenza del fenomeno. A prescindere dalla intrinseca contraddittorietà della pretesa di definire in via normativa un feno- meno preso – e da prendere – in considerazione proprio per la sua valenza fattuale, quanto sia inopportuna una sua, per così dire, “ingessatura” legislativa sembra attestarlo la stessa esperien- za giurisprudenziale, attenta a contestualizzarlo rispetto alla realtà ed alla coscienza sociale, nel- la relativa dinamica evolutiva. Basti riferirsi, ad esempio, agli esiti della questione del risarci- mento del convivente conseguente al “fatto illecito di un terzo” in caso di relazione di fatto: se inizialmente ancora si richiedeva – in aderenza, appunto, alle valutazioni sociali all’epoca anco- ra prevalenti – la diversità di sesso tra le parti, la giurisprudenza più recente, attenta alle dinami-
che sociali, ha superato ogni limitazione al riguardo. Insomma, ogni tentativo del genere si pre- senta come inidoneo – in una società, come quella attuale, notoriamente refrattaria a qualsiasi imposizione di modelli comportamentali in materia personale e familiare – a dar conto della possibile polimorfa caratterizzazione, soggettiva ed oggettiva, del fenomeno nella realtà sociale. Circa i vari presupposti indicati ora legislativamente, una prima questione si pone in relazio-
ne alla nozione stessa di “convivenza”, soprattutto in relazione al valore della “dichiarazione anagrafica” cui si riferisce il co. 37. Materia di discussione, al riguardo, è destinata senz’altro ad essere il ruolo di quest’ultima, in relazione alla quale non manca chi ravvisa in essa – sia pure per comprensibili preoccupazioni in ordine alla praticabilità dell’accertamento della situazione, appunto, di “convivenza” – un vero e proprio elemento della fattispecie legislativa (anche se, poi, la concreta incidenza di una simile presa di posizione tende a risultare notevolmente ridi- mensionata dal punto di vista operativo, in dipendenza dell’avvertita esigenza di non vanificare le tutele fin qui apprestate).
In proposito, sembra giustamente a prevalere, comunque, l’idea (che, del resto, ha trovato immediato riscontro anche in giurisprudenza: Trib. Milano 31 maggio 2016) di una sua valenza neppure lato sensu costitutiva (come pure potrebbe indurre a pensare il parallelo con la corri- spondente – ma non coincidente – disciplina del d.d.l. in tema di “DICO”), in quanto considera- ta, piuttosto, destinata ad esaurire la propria portata sul piano meramente probatorio (e specifi- camente presuntivo, con riferimento, in particolare, all’inizio della convivenza, il riscontro del requisito della stabilità non sembrando, peraltro, potersi reputare senz’altro insito in un simile accertamento). Da una parte, quindi, soprattutto in considerazione dell’inciso iniziale del co. 37 (richiedente “la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36”), deve reputarsi possibile escludere la ricorrenza di una “convivenza” giuridicamente rilevante, pur in contrasto con le re- lative risultanze anagrafiche (come già in passato pacificamente sostenuto in giurisprudenza); dall’altra, è da ritenere che, secondo quanto già attualmente ammesso, gli interessati possano provare comunque la loro qualità di “conviventi”.
Del resto, lo stesso elemento della “coabitazione”, che risulta essenziale ai fini dell’o- peratività del meccanismo anagrafico (ai sensi dell’art. 4 del d.d.l. n. 223), non pare poter assu- mere un peso decisivo, in presenza di una giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che – in una decisione del 7 novembre 2013 – ha affermato (e ribadito, in quella ri- cordata del 21 luglio 2015) che, ai fini della ricorrenza delle esigenze di tutela giuridica della “vita familiare”, “l’esistenza di un’unione stabile è indipendente dalla convivenza”, almeno se intesa in senso, appunto, rigidamente formalistico-anagrafico, essendo oggi normale, per qual- siasi coppia, vivere la propria relazione anche “a distanza … per motivi professionali o di altro tipo”.
E un qualche ottimismo circa il recupero di spazi di elasticità pare restare, in ultima analisi, legato, allora, proprio al profilo dei quella “stabilità” del legame, alla cui ricorrenza il legislatore
– qui come altrove – e la giurisprudenza condizionano da sempre la relativa rilevanza sul piano giuridico: “stabilità”, che opportunamente – pur se non mancano dissensi al riguardo – si è pre-
ferito evitare di ingabbiare temporalmente in via generale, con ciò finendosi col riconoscere la insopprimibile necessità – non esente, ovviamente, da difficoltà – di valutare, a seconda degli interessi e dei valori di volta in volta specificamente in gioco, la dignità sociale da riconoscere al legame stesso, adeguatamente valorizzando, appunto, il profilo delle sue caratteristiche tem- porali (secondo quanto, in effetti, risulta essere costantemente avvenuto nella pregressa discipli- na del fenomeno).
La definizione legislativa offre spunto per ulteriori considerazioni non scevre da perplessità. In proposito, comunque, non pare potersi dubitare che la relazione cui ci si riferisce debba carat- terizzarsi per una sua integrazione personale fondata anche sull’apertura alla sessualità, nel sen- so tradizionalmente attribuito all’idea stessa di “convivenza more uxorio”. Giustamente, si è sottolineato come non avrebbe senso, se no, la previsione dei presupposti negativi relativi alla parentela e all’affinità. Piuttosto, proprio a tale ultimo riguardo, al di là dei problemi interpreta- tivi che pone la mancata precisazione del grado di parentela (e di affinità) rilevante, non può dimenticarsi come il carattere incestuoso della convivenza non sia stato reputato senz’altro osta- tivo all’operatività della tutela risarcitoria (Trib. Venezia 31 luglio 2006), pure al riguardo, quindi, ponendosi la questione se la continuità della soluzione possa essere anche in futuro giu- stificata dalla peculiarità degli interessi esistenziali in gioco nella realtà fattuale, cui non sembra poter fare a meno di essere sensibile lo strumento risarcitorio.
Certo, la scelta dei presupposti condizionanti, nell’ottica del co. 36, la “convivenza” da con- siderare programmaticamente destinataria della tutela ordinamentale sembra ispirarsi, al fondo, al tradizionale punto di vista, secondo cui, dovendo rispecchiare una simile “convivenza” – e a maggior ragione, ovviamente, ora che viene ad essa ricollegato un vero e proprio status familia- re – il modello matrimoniale, non potrebbero essere prese in considerazione le “convivenze” bollate come “illecite”, appunto in quanto, in sostanza, contrastanti con impedimenti matrimo- niali. Immediatamente, così, in particolare, si è posta, di fronte al presupposto dell’assenza del vincolo matrimoniale (o di unione civile), la questione delle “convivenze” tra persone di cui al- meno una sia separata, legalmente, ma, soprattutto per il riferimento del co. 36 pure all’unione civile che non conosce l’istituto della separazione personale, anche solo di fatto. Indubbiamente, la coesistenza – dato che in ciò si risolve, nell’ottica del provvedimento in discussione, una si- mile situazione – di due status familiari potrebbe apparire una contraddizione in termini, poiché quello matrimoniale, almeno alla luce del diritto vigente, non cessa con la separazione persona- le. Ma, in proposito, non si può dimenticare come allo stesso sorgere (ed allo sviluppo) della problematica della rilevanza giuridica delle “convivenze” sia risultato tutt’altro che estraneo il trattamento di quelle, per così dire, “aggiuntive” al matrimonio (un tempo necessitate, prima per la relativa indissolubilità, poi per i lunghi tempi di attesa richiesti ai fini del divorzio).
È, allora, veramente difficile pensare che risulti ora precluso il riconoscimento di situazioni
fin qui correntemente prese in considerazione. Ci si riferisce, in particolare, ancora una volta, alla materia risarcitoria, nel cui contesto non si è esitato a trarre le relative conseguenze dall’“effettiva coesistenza di due nuclei familiari entrambi percepiti e vissuti dal defunto come
‘famiglia’ e del sostegno economico fornito in uguale misura ad entrambi” (Xxxx. 7 giugno 2011, n. 12278). Si conferma, allora, il dianzi accennato rilievo circa la necessità che la soluzio- ne di ogni problematica non possa prescindere dalla natura degli interessi e dei valori di volta in volta in gioco, come significativamente attestato, ad esempio, dalla giurisprudenza sui “maltrat- tamenti contro i familiari e conviventi”, ai sensi dell’art. 572 c.p., ferma nel ritenere irrilevante “il carattere monogamico del vincolo sentimentale posto a fondamento della relazione” (oltre che la “continuità della convivenza, intesa quale coabitazione”), solo essendo reputato necessa- rio il riscontro di “un rapporto stabile di affidamento e solidarietà” (Cass. pen. 18 marzo 2014, n. 31121).
Tale ultimo orientamento spinge a riflettere circa le non poche difficoltà che presenterà per l’interprete la realtà delle unioni poligamiche, di fronte al perentorio riferimento del co. 36 a “due persone” vincolate da “legami affettivi di coppia”. L’estraneità di tali unioni ad un simile riconoscimento da parte dell’ordinamento non può occultare, in effetti, la realtà della diffusione del fenomeno in conseguenza dei movimenti migratori, atto ad innescare una problematica al- meno entro certi limiti assonante, del resto, con quella da noi già discussa, in passato, appunto in chiave di rilevanza del rapporto fattuale, con riguardo alle coppie unite da matrimonio solo religioso, quello poligamico essendo evidentemente ammesso in ambienti musulmani (e non so- lo). Al di là delle questioni risarcitorie, in relazione alle quali, sul piano fattuale, la situazione in questione potrà difficilmente mancare di essere presa in considerazione, pare arduo negare che diritti riconosciuti in considerazione della convivenza – e ciò anche in relazione a profili affron- tati nella nuova normativa, in larga misura sostanzialmente ricognitiva di quella preesistente, come, in particolare, quelli concernenti l’assistenza carceraria e sanitaria – possano essere in li- nea di principio negati.
Le considerazioni sin qui svolte, soprattutto con riguardo al tentativo definitorio del legisla-
xxxx, dovrebbero convincere della poca opportunità di una regolamentazione della materia, quale quella operata, comunque disorganica e tale da largamente ricalcare, con confusi aggiustamenti o addirittura peggiorativamente, soluzioni già acquisite a livello legislativo e giurisprudenziale. E proprio la tecnica seguita dal legislatore finisce col rendere comunque non agevole, soprattut- to con riferimento alla mancanza di stato libero delle parti, anche l’applicazione concreta di una prospettata linea interpretativa, tendente a riservare alle “convivenze” rispondenti al modello legislativo i soli nuovi diritti riconosciuti dalla legge. In effetti, un simile ragionamento può for- se attagliarsi, senza particolari difficoltà, agli indiscutibilmente nuovi diritti introdotti con ri- guardo alla cessazione della convivenza, di carattere successorio, come nel co. 42, ovvero assi- stenziale, come nel co. 65, ma incertezze sono destinate indubbiamente a sorgere in ordine alla sorte di prerogative già riconosciute ai conviventi – e che, allora, come tali dovrebbero sicura- mente continuare a esserlo, indipendentemente, insomma, dalla ricorrenza di tutti i presupposti del co. 36 – ma ora in qualche misura precisate ed eventualmente accresciute nei relativi conte- xxxx (come, ad esempio, la facoltà, di cui al co. 44, di successione nel rapporto di locazione, in caso di recesso del conduttore e, quindi, implicitamente, di venir meno della convivenza).
Circa l’accennata problematicità, ai fini esegetici, dell’intervento legislativo in discussione, due sue opzioni sembrano particolarmente significative.
In primo luogo, la tutela risarcitoria, laddove il co. 49 allude al solo “decesso” del partner, si presenta palesemente recessiva rispetto agli approdi giurisprudenziali, tendenti a prendere in considerazione le aspettative risarcitorie del congiunto, anche in caso di relazione di fatto, indi- pendentemente da una simile estrema evenienza (nel caso, cioè, di sole lesioni: già Cass. 29 aprile 2005, n. 8976). Prevedibile, quindi, risulta la conferma di un simile indirizzo, l’apporto della nuova previsione potendo essere, al più, da apprezzare sotto il profilo probatorio.
Quanto, poi, al co. 46, a parte la criticabilità della rubrica dell’ivi contemplato nuovo art. 230-ter c.c., anodinamente intitolato ai “diritti del convivente” (e salvo, poi, a riemergere – con riflessi da considerare sicuramente significativi sul piano esegetico – il riferimento all’“impresa familiare” nel corpo della disposizione), la prevista disciplina si dimostra irragionevolmente ca- rente sotto diversi punti di vista rispetto al modello dell’art. 230-bis c.c., ove se ne tenga presen- te convenientemente la funzione, con conseguente necessità di una interpretazione adeguatrice, eventualmente anche attraverso un intervento della Corte costituzionale. Ci si riferisce, in parti- colare, al silenzio circa il “diritto al mantenimento” e la rilevanza del lavoro prestato nel conte- sto della vita comune, oltre che alla mancata considerazione di quei diritti gestionali che, nel si- stema complessivo della “impresa familiare”, si pongono in rapporto di stretta interdipendenza con quelli economico-partecipativi (peraltro, come accennato, in modo espresso solo parzial- mente estesi al convivente). Xxxxxx, quindi, sarebbe stato limitarsi all’inserimento anche del “convivente” tra i soggetti tutelati, con ciò, del resto, semplicemente prendendo atto del- l’apertura in tal senso della giurisprudenza più recente in materia (Cass. 15 marzo 2006, n. 5632). E, anche al riguardo, comunque, non pare che la tutela del convivente possa risultare condizionata dalla ricorrenza integrale degli elementi di cui al co. 36.
Altri aspetti della disciplina si presentano inutilmente (oltre che talvolta lacunosamente) ripe- titivi di quanto già normativamente previsto. Esemplare, in proposito, appare il co. 48, in mate- ria di protezione degli incapaci, nel quale, da una parte, ci si limita a sintetizzare quanto statuito dagli artt. 408 e 424 c.c., peraltro tacendo – pur intervenendosi diligentemente, col co. 47, sull’art. 712 c.p.c.– circa il profilo della titolarità dell’iniziativa in materia, attualmente regolato dall’art. 417 c.c. (cui rinvia l’art. 406 c.c.) proprio con riferimento (anche) alla “persona stabil- mente convivente”; dall’altra, si sorvola su quel carattere preferenziale da attribuire alla condi- zione soggettiva in questione, al quale allude esplicitamente – al pari delle altre condizioni sog- gettive prese in considerazione – l’art. 408 c.c.
Del resto, pure le previsioni di cui ai co. 38 e 39, in tema di assistenza penitenziaria e sanita- ria, non fanno altro che rispecchiare, in buona sostanza, quanto già, in via legislativa o regola- mentare, largamente ammesso. Al più, l’essersi il legislatore pronunciato per principi generali può ritenersi consentire all’interprete di intervenire integrativamente sull’esistente, anche al ri- guardo, comunque, difficilmente potendosi pensare che la definizione del co. 36 pregiudichi aspettative già allo stato tutelate in considerazione dei valori personali coinvolti. Discorso so-
stanzialmente analogo pare da svolgere a proposito del co. 45, in tema di accesso alle graduato- rie per “l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare”, in cui si eleva a principio generale quan- to già previsto a livello di legislazione regionale, peraltro dandosi luogo a delicati problemi di coordinamento con tale legislazione, laddove, in una materia di competenza regionale, le singo- le regolamentazioni prevedano requisiti specifici, come, diffusamente, quello di una durata mi- nima della convivenza.
Taluni aspetti, poi, risultano irragionevolmente tali da prospettare profili di intervento addi- rittura estranei, almeno allo stato, anche ai rapporti familiari fin qui riconosciuti. In proposito, ci si riferisce, in particolare, al co. 40 (relativo al conferimento di poteri decisionali “in caso di ma- lattia” o “in caso di morte” del convivente). Al di là di altre questioni destinate a sorgere, come quelle connesse all’anodino riferimento ai “poteri pieni o limitati” del rappresentante designato, balza agli occhi il semplicismo con cui sono affrontate materie già oggetto di specifiche disci- pline (come quelle concernenti i trapianti e le decisioni relative alle spoglie), oltretutto senza ri- flettere adeguatamente circa l’eventuale opportunità di integrarne la portata, valorizzando la po- sizione del convivente anche indipendentemente dalla specifica designazione ora contemplata. Ma l’approssimazione del legislatore sembra trionfare nell’intervento che si è operato su di una problematica resa complessa dalle relative implicazioni etico-ideologiche – che, non a caso, ne hanno fin qui ostacolato la disciplina legislativa – come quella delle c.d. “disposizioni anticipate di trattamento”, pure con riferimento ai controversi profili di natura formale della manifestazio- ne della volontà, qui senz’altro risolti nel co. 41, al di fuori di qualsivoglia adeguato approfon- dimento della – e di coordinamento con – la problematica generale coinvolta. La situazione con- seguente all’intervento legislativo, la cui evanescenza ed approssimazione contrasta singolar- mente con la vastità e l’articolazione del dibattito in materia, finisce, allora, con l’apparire quasi paradossale, in particolare nella limitazione della sua portata alla posizione del convivente, così da determinare tensioni sul piano sistematico, l’interprete essendo evidentemente chiamato ad una armonizzazione che, ove non vengano reputati sufficienti gli strumenti esegetici a sua di- sposizione, potrebbe sfociare nella prospettazione di questioni di legittimità costituzionale.
Indubbio carattere di complessiva novità assume la previsione di taluni riflessi economici in conseguenza della cessazione della convivenza, risultandone confermata – al di là di qualsiasi possibile perplessità in ordine alla relativa coerenza ed opportunità, alla luce delle considerazio- ni di carattere preliminare dianzi svolte – la prospettiva dell’introduzione di un vero e proprio nuovo status familiare in dipendenza di essa (restando salva, poi, una inevitabile diversità di va- lutazioni circa i termini del bilanciamento, quale ora operato dal legislatore, tra i valori di libertà e di solidarietà destinati ad entrare in gioco in materia).
In particolare, così, il co. 65 introduce – ad esito di una affrettata riscrittura dell’ultima ora della disposizione, la quale ha lasciato traccia in una “e”, inspiegabile se non nel senso della sua sovrabbondanza – un obbligo alimentare a favore del “convivente” che “in caso di cessazione della convivenza … versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mante- nimento”: la previsione del diritto del convivente più debole ad essere economicamente assistito
dall’altra parte – sia pure solo “per un periodo proporzionale alla durata della convivenza” – sembra strettamente ricollegarsi a quella esclusività del rapporto personale, valorizzata nella de- finizione del co. 36 con il riferimento alla condizione di assenza di vincoli matrimoniali o da unione civile. Nella logica del disegno legislativo, allora, un simile diritto pare assumere caratte- re di indisponibilità: perplessità – se non addirittura dubbi di legittimità costituzionale – susci- tando, peraltro, e proprio per il senso che acquista il suo riconoscimento, il rango riservato all’obbligo alimentare del convivente nella graduatoria dei soggetti su cui grava l’obbligo di prestare gli alimenti, ai sensi dell’art. 433 c.c. E difficile sembra negare che la previsione in questione rappresenti il riflesso di una conseguita – sia pur attenuata – giuridicità del dovere di solidarietà tra conviventi, destinato ad emergere, quindi, almeno nel delicato momento della cri- si dell’unione. Tale ricostruzione, del resto, pare saldarsi con – e finire ora con il legittimare – l’orientamento da ultimo manifestatosi in giurisprudenza, tendente a ritenere definitivamente estinto qualsiasi effetto economico dipendente da un venuto meno precedente rapporto matri- moniale, una volta instauratasi una convivenza avente le caratteristiche sostanziali ora positiviz- zate dal legislatore (Xxxx. 3 aprile 2015, n. 6855).
Il medesimo carattere di novità impronta anche l’originale – e sia pure temporaneo – “diritto di continuare ad abitare” nella “casa di comune residenza” per il caso di “morte del proprieta- rio”. Diffusa è l’idea dell’assonanza strutturale di un simile diritto abitativo, al di là della sfug- gente formulazione legislativa, con il diritto previsto dall’art. 540, co. 2, c.c.: con ciò confer- mandosi l’attivazione, da parte del legislatore, di un vero e proprio effetto successorio della convivenza, come tale preferibilmente anch’esso da reputare sottratto alla disponibilità conven- zionale – ma, per la sua peculiare funzione, di natura tale da esserlo, è da credere, anche alla vo- lontà testamentaria – delle parti.
Nella stessa ottica di novità è da assumere pure, ai sensi del co. 44, la facoltà di successione del convivente nel contratto di locazione, non solo in caso di morte del conduttore, secondo quanto già consentito a seguito dell’intervento della Corte costituzionale nel 1988 (Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404), ma anche nel caso di suo recesso (e, quindi, implicitamente di venir meno della convivenza a seguito della relativa crisi): ciò sulla base di un proprio personale ed auto- nomo diritto, svincolato, cioè, da qualsiasi collegamento con la sussistenza di prole (e, come ta- le, in precedenza negatogli dalla giurisprudenza costituzionale: Corte cost. 11 giugno 2003, n. 204).
3. – La parte del provvedimento più problematica per l’interprete, comunque, sembra essere quella relativa al “contratto di convivenza”, pure per quella sua immediata operatività che pone agli operatori destinati a venire coinvolti nella sua stipulazione pressanti interrogativi, oltretutto in conseguenza del dovere, per il professionista chiamato a intervenire, di attestarne “la confor- mità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.
Già si è dianzi accennato alla confluenza nell’attuale disciplina del “contratto di convivenza”
– in conseguenza di stratificazioni successive nel corso dei contorti lavori parlamentari attraver- santi le successive legislature – di prospettive diverse, se non contrastanti o addirittura incompa- tibili. Così, a fronte di una sua definizione, nel co. 50, quale (mero) strumento di possibile arric- chimento, dal punto di vista della regolamentazione dei relativi aspetti patrimoniali, della situa- zione di “convivenza”, di per se stessa giuridicizzata e tale da potersi assumere come fondativa di uno status familiare, residuano profili di disciplina consoni, piuttosto, ad una concezione del “contratto di convivenza” come unica via per conseguire, da parte dei conviventi, un peculiare status, ricollegato, quindi, proprio (e solo) alla stipulazione del “contratto di convivenza”. Ciò secondo una prospettiva che alcune precedenti proposte di intervento legislativo – più o meno coerentemente – avevano in larga misura derivato da un progetto elaborato, appunto in materia di “patto di convivenza”, in sede notarile nell’ottobre del 2011.
Espressioni di una simile prospettiva emergono, innanzitutto, già nel divieto, di cui al co. 56,
di sottoposizione del contratto “a termine o condizione”, non a caso scopertamente assonante con il disposto dell’art. 108 c.c., dettato in materia matrimoniale, in quanto quasi inevitabile portato della natura fondativa di uno status dell’atto matrimoniale (curiosamente trascurato – è da credere non intenzionalmente, ma per mera dimenticanza – nella regolamentazione delle “unioni civili”). E, non inaspettatamente, proprio le perplessità suscitate da tale divieto ne hanno già diffusamente consigliato interpretazioni fortemente restrittive, se non sostanzialmente abro- ganti.
Né è sfuggita la singolarità della previsione di cause di nullità del “contratto di convivenza” trattate come veri e propri impedimenti, senza dubbio riecheggianti – anche quanto a regime – quelli matrimoniali e tali da presentarsi in un contorto e quasi indecifrabile rapporto con le con- dizioni previste, nel co. 36, per il riconoscimento della rilevanza della convivenza, a loro volta considerate – attraverso il riferimento generale di cui al co. 57, lett. b – quali elementi la cui ca- renza determina la nullità del “contratto di convivenza”. Esemplare, in proposito, si presenta la lett. a del co. 57, in cui viene stabilita l’incompatibilità del “contratto di convivenza” con un sussistente (diverso) status delle parti, derivante da matrimonio o unione civile, ma anche, quasi a riprova della ricercata esclusività del rapporto costituito col “contratto di convivenza”, da “un altro contratto di convivenza”. Del resto, significativa risulta anche la previsione, nel co. 53, lett. a, della “indicazione della residenza” quale contenuto del contratto in questione, dato che un simile accordo – peraltro sicuramente estraneo alla materia patrimoniale, pur dichiaratamente caratterizzante il “contratto di convivenza”, ai sensi del co. 50 – era funzionale, nell’originaria impostazione dianzi ricordata, a conseguire, attraverso i prescritti adempimenti successivi, le medesime finalità accertative della “dichiarazione anagrafica” di cui al co. 37, da ricollegarsi, quindi, all’idea di una natura, almeno lato sensu, costitutiva di uno status del “contratto di con- vivenza”.
Indubbiamente, al di là delle accennate riserve circa le irrisolte ambiguità dell’intervento le- gislativo, esso era da tempo auspicato. Tuttavia, all’impegno profuso non sembra corrispondere una sua reale utilità, dato che pare lecito concludere, alla luce della disciplina ora dettata, nel
senso che l’introdotto istituto, tradendo le aspettative che circondavano l’auspicio di un inter- vento legislativo in materia, abbia finito, in buona sostanza, col risultare già in partenza, per così dire, sterilizzato.
4. – Un simile rilievo si riconnette, in primo luogo, ai contenuti indicati nel co. 53, in colle- gamento con la definizione, di cui al co. 50, del “contratto di convivenza” come strumento col quale i conviventi “possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comu- ne”. Mentre in un primo tempo, sulla falsariga della ricordata proposta notarile del 2011, era sta- ta ipotizzata la possibilità di disciplinare (anche) le conseguenze economiche dell’eventuale cri- si dell’unione, la relativa previsione è stata – e sembra consapevolmente – soppressa nel testo approvato: da ciò consegue come sia stato programmaticamente sottratto al “contratto di convi- venza” proprio quell’ambito regolamentare che si è da sempre reputato – secondo quanto inse- gna l’esperienza dei paesi in cui l’istituto ha trovato tradizionalmente ampio seguito – il suo ter- reno di elezione.
Col risultare, insomma, appunto programmaticamente, ristretta la portata dello strumento del “contratto di convivenza” alla regolamentazione dei rapporti economici concernenti la “vita in comune”, giustificata sembra la conclusione – motivata con riferimento al profilo causale con- seguente all’operata “tipizzazione” – nel senso di ritenere preclusa agli interessati la relativa uti- lizzazione al fine dianzi indicato. Certo, le parti potranno comunque disciplinare aspetti patri- moniali concernenti la crisi della convivenza: si tratterà, però, di accordi da considerare pur sempre – in quanto ricadenti al di fuori del perimetro della “tipicità” ora così angustamente assi- curata agli accordi in questione – assoggettati al generale controllo di meritevolezza, di cui al secondo comma dell’art. 1322 c.c., non diversamente, cioè, da quanto già in precedenza da con- siderare consentito (come, ad esempio, con riguardo al meccanismo del vincolo di destinazione, di cui all’art. 2645-ter c.c.). Ma, al riguardo, non si può fare a meno di sottolineare come la no- tevole ritrosia fin qui manifestatasi nella pratica nei confronti dello strumento del “contratto di convivenza”, nonostante l’impegno del notariato nel 2011 (e, poi, nel 2013, ma già dal 1994), sia in larga misura da ascrivere proprio alle incertezze legate alla sorte – solo episodicamente, invero, vagliata con dichiarato favore (Trib. Savona 24 giugno 2008) – degli accordi in questio- ne, a seguito del loro eventuale controllo giudiziale a posteriori (con conseguente esitazione, da parte dei professionisti, in ordine all’assunzione della responsabilità su di loro istituzionalmente incombente in relazione al controllo preventivo di conformità, come si esprime anche il co. 51, “alle norme imperative e all’ordine pubblico”).
Quanto, poi, alla diffusamente auspicata – proprio in vista della valorizzazione dello stru- mento in esame – possibilità di accordare all’autonomia degli interessati spazi di regolamenta- zione di aspetti successori del loro rapporto, il legislatore ha pure tradito le aspettative, espun- gendo dal testo ogni possibilità di deroga al divieto dei patti successori, nonostante l’erosione di tale principio, almeno se inteso in tutta la sua tradizionale rigidità, non solo altrove, ma anche
nel nostro stesso ordinamento (il riferimento è, in particolare, all’art. 768-bis c.c., relativo al “patto di famiglia”, col suo, peraltro discusso, richiamo da parte dell’art. 458 c.c.). E si ricordi come proprio all’insussistenza del divieto in questione sia ascrivibile, in Germania, quel succes- so dell’istituto, cui è conseguita l’assenza di consistenti istanze nella direzione di una regola- mentazione in via legislativa delle “convivenze”.
Del resto, ben strana sollecitudine nei confronti del fenomeno stesso della convivenza al di fuori del vincolo matrimoniale o di unione civile sembra quella che, pur a volere escludere pre- visioni derogatorie del divieto accennato, non dia luogo almeno all’introduzione, come previsto nel d.d.l. sui “DICO”, di un trattamento fiscale di favore, se non altro per le attribuzioni operate attraverso l’ordinaria successione testamentaria del convivente, persistentemente considerato, quindi, sul medesimo piano degli estranei al testatore.
Dopo avere accennato agli aspetti destinati a restare fuori dal “contratto di convivenza”, quale ora disciplinato, la riflessione deve spostarsi sui suoi contenuti espressamente ipotizzati dal legi- slatore. Si tratta, non pare contestabile, di un ambito estremamente esiguo e, alla luce delle consi- derazioni dianzi svolte, l’eventuale conclusione nel senso della non tassatività dell’elencazione del co. 53, giustificata, appunto, dall’angustia della previsione legislativa, sembra dover essere co- munque intesa come tale da comportare, in sostanza, un rinvio alle regole contrattuali comuni: ciò che si è finito, in effetti, col riconoscere indicando come soluzione preferibile la via dell’utiliz- zazione di – appunto comuni – tipologie contrattuali collaudate (come, ad esempio, quelle del c.d. “contratto di mantenimento” o del comodato, per cui già Cass. 8 giugno 1993, n. 6381), col dub- bio – da reputarsi forse eccessivo, ma in ogni caso significativo di una respingente incertezza de- stinata a perpetuarsi in materia – che possano ora operare, anche al riguardo, i vincoli formali di cui al co. 51, ove si prescrive per il “contratto di convivenza” la “forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato”.
Al di là della già accennata previsione relativa alla “indicazione della residenza”, la cui reale portata resta inevitabilmente oscura e controversa, data la sua estraneità all’area di quei “rappor- ti patrimoniali” cui si riferisce il c. 50, indubbio interesse pare rivestire la previsione della lett. b del co. 53, col suo riferimento alle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comu- ne, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. E la formulazione legislativa, laddove demanda all’autonomia degli interessati la fissazione delle sole “modalità della contribuzione” sembrerebbe, invero, presupporre – in via generale tra i conviventi – la sussistenza e l’indisponibilità di un diritto reciproco alla “contribuzione alle ne- cessità della vita in comune”, caratterizzato, pure inderogabilmente, dal criterio della proporzio- nalità, sulla falsariga di quanto risultante dal terzo comma dell’art. 143 c.c.
Resta, peraltro, la debolezza intrinseca della concreta vincolatività di un simile dovere, una vol- ta ammessa, da una parte, la libera terminabilità della convivenza, senza tutele che vadano oltre l’eventuale, dianzi ricordata, insorgenza del ricordato obbligo alimentare, al quale è da ritenere in- trinsecamente estranea qualsiasi possibile curvatura sanzionatoria, diversamente da quanto con- sentito attraverso lo strumentario previsto nel contesto del regime economico della separazione
personale (quale riflesso della sua addebitabilità) e dello stesso divorzio (con riguardo, in partico- lare, al criterio delle “ragioni della decisione”, sancito, in materia di assegno, dall’art. 5, co. 6, l. div.); dall’altra, la risolubilità del “contratto di convivenza” medesimo anche a seguito di “recesso unilaterale” (co. 59, lett. b). Certo, residua spazio per l’invocazione del meccanismo risarcitorio, ammesso – nel più ampio contesto problematica concernente il c.d. “danno endofamiliare” – dalla giurisprudenza (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481) pure a tutela del convivente more uxorio (del re- sto, altrove – in particolare in Francia – con una certa larghezza impiegato, appunto, per governare i riflessi economici più gravi della rottura colpevole del rapporto). Ma, anche al di là delle persi- stenti perplessità, di carattere generale, sull’utilizzazione dello strumento risarcitorio comune in materia familiare, è noto come vi siano seri dubbi circa la sua esatta perimetrazione, di fronte ad orientamenti giurisprudenziali tutt’altro che univoci riguardo all’individuazione dei diritti alla cui violazione riferire una simile tutela: dubbi destinati, evidentemente, a risultare esaltati in caso di sua applicazione al campo dei rapporti di convivenza, proprio per l’incertezza circa la sussistenza stessa – e comunque l’estensione – della doverosità dei comportamenti che la sostanziano.
Peraltro, la previsione che riveste maggiore interesse pare quella di cui alla lett. c del co. 53,
laddove si consente alle parti la scelta del “regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo IV del titolo VI del libro primo del codice civile”.
Qui, effettivamente, l’intervento legislativo sembra essere stato decisivo, dato che, almeno ai fini della rilevanza nei confronti dei terzi, l’instaurazione pattizia di un regime di comunione dei beni corrispondente a quello considerato legale per i coniugi è sempre stata ritenuta eccedere l’ambito del possibile esercizio dell’autonomia degli interessati. In assenza della stipulazione in questione, evidentemente, i conviventi continuano a vedere i loro rapporti economici disciplinati secondo le regole comuni, ovviamente essendo destinate ad entrare in gioco quelle tutele che, allo stato, già li circondano, con particolare riferimento agli esiti giurisprudenziali in ordine all’applicazione degli istituti dell’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) e dell’ingiustificato ar- ricchimento (art. 2041 c.c.).
Non è il caso, ovviamente, di porre in discussione la scelta del legislatore, palesemente rien- trante nella sua discrezionalità. Scelta, proprio in dipendenza del cui carattere derogatorio delle regole comuni pare difficile, invero, reputare aperta agli interessati la possibilità di dare vita a regimi patrimoniali diversi da quello espressamente loro consentito, l’ammissibilità di una tale, sia pure limitata, possibilità – magari nel senso della sola comunione convenzionale o del regi- me di separazione dei beni (quale risultante ai sensi degli artt. 217-219 c.c.) – restando, invero, essenzialmente legata ad una tutt’altro che sicuramente praticabile interpretazione estensiva del co. 54, laddove consente che “il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può es- sere modificato in ogni momento nel corso della convivenza”.
5. – Quello che qui si intende, piuttosto, evidenziare è come una tale previsione si presenti formulata del tutto inadeguatamente, con ipotizzabili gravi effetti sulla stessa circolazione dei be-
ni. In proposito, non si deve dimenticare come l’operatività del regime di comunione legale risulti imprescindibilmente legata ai meccanismi che ne assicurano adeguatamente la pubblicità: si tratta, infatti, di una complessa disciplina dei patrimoni delle parti immediatamente produttiva di effetti pure nei confronti dei terzi (e si pensi anche solo alla relativa incidenza addirittura sulla validità degli atti di disposizione, nonché alle peculiari regole governanti la responsabilità debitoria). Ad assicurare il bilanciamento degli interessi delle parti e dei terzi risulta finalizzato il coordinato – e, al di là delle mai del tutto sopite perplessità al riguardo, tutto sommato efficiente allo scopo – si- stema delle risultanze degli atti dello stato civile (nascita, matrimonio e, ora, unione civile).
Di conseguenza, unanime come mai è stata la critica al legislatore per la scelta concernente il meccanismo escogitato onde soddisfare le esigenze legate alla necessità di rendere opponibile ai terzi l’opzione dei conviventi nel senso della comunione dei beni, con efficacia corrispondente a quella caratterizzante la comunione legale tra i coniugi (e ora anche tra le parti della unione civi- le). In effetti, qui, “ai fini dell’opponibilità ai terzi”, ci si limita a prevedere, nel co. 52, la tra- smissione di copia del contratto “al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7” del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, avente ad oggetto, appunto, l’anagrafe della popolazione residente. Quindi, anche a voler pietosamente tacere sulla erroneità dell’allusione all’art. 5, concernente non la “famiglia anagrafica”, ma le “convivenze anagrafiche” (quelle, cioè, costituite per motivi religiosi, di cura, di pena e simili), l’unico rife- rimento presente è, insomma, ai meccanismi di raccolta delle informazioni in ordine alla popo- lazione residente, cui sembra, invero, risultare completamente estranea qualsiasi effettiva fun- zionalità al fine indicato. Il tutto aggravato dalla possibilità, ai sensi del co. 54, di modificare il regime patrimoniale “in qualunque momento nel corso della convivenza”, nonché di risolvere il “contratto di convivenza” per accordo delle parti o recesso unilaterale da esso (co. 59-61). Vi- cende risolutive, queste ultime, per le quali pure è previsto il meccanismo pubblicitario di cui al co. 52, oltre ad altri espedienti ampiamente oggetto – come anche per le altre cause di risoluzio- ne – di perplessità in diverse direzioni (in particolare, con specifico riferimento a quanto previ- sto – ai sensi dei co. 53, lett. d, e 63 – in conseguenza della “morte di uno dei contraenti”, quale riflesso dell’apertura agli avvocati della possibilità di formalizzare la scelta degli interessati).
L’incongrua formulazione accennata pare probabilmente da ricollegare alla utilizzazione,
quale punto di partenza, del già ricordato progetto elaborato in sede notarile nel 2011, tendente a veicolare – come confermato, del resto, dai relativi artt. 2 e 3, comportanti, indipendentemente da qualsivoglia previsione pattizia in proposito, rispettivamente, riflessi in materia “attività di impresa” e di “successione nel contratto di locazione dell’alloggio”, significativamente ora presi in considerazione nel quadro della disciplina delle conseguenze della situazione di convivenza in quanto tale (co. 46 e 44) – il sorgere di una sorta di status personale dei conviventi proprio attraverso la stipulazione di un “patto di convivenza”: comunque, l’operatività del modello ivi ipotizzato, ai fini della opponibilità ai terzi del regime patrimoniale contrattualmente prescelto, era affidata alla programmata istituzione di un “Registro nazionale dei patti di convivenza” (anch’esso, peraltro, di non certo agevole coordinamento sistematico con gli attuali strumenti
pubblicitari). E ciò pur non prevedendosi neppure la possibile instaurazione del regime patrimo- niale di “comunione legale”, ma solo di una “comunione ordinaria”: regime di comunione ordi- naria che, peraltro, non si manca di venire, anche attualmente, ritenuto di possibile adozione da parte dei conviventi, in ogni caso con l’indubbio limite derivante dal carattere inevitabilmente solo interno della sua efficacia.
Vani sono stati i tentativi tendenti ad evidenziare, ancora nel corso dell’iter parlamentare del provvedimento, la palese inadeguatezza della scelta in questione, probabilmente tale, oltretutto, da contribuire a spingere gli interessati (e, per loro, i professionisti chiamati a consigliarli), per evitare in futuro l’eventuale insorgenza di problemi – o almeno di non indifferenti complicazioni operati- ve – legati ai rapporti con i terzi, in una direzione decisamente contraria all’esercizio dell’opzione espressamente consentita dal co. 53, lett. c (sul cui successo, anche a prescindere dai profili di problematicità qui accennati, c’è in ogni caso ragionevolmente da dubitare, alla luce di quel feno- meno che viene correntemente identificato in termini di “fuga” dalla comunione legale).
A questo punto, in effetti, sembra veramente arduo il superamento delle difficoltà paventate, in mancanza anche solo di una previsione nella forma di una delega, del tipo di quella disposta, in termini volutamente – e, forse, tutto sommato opportunamente – generici dal co. 28, lett. a, per le formalità pubblicitarie delle unioni civili: sulla base, insomma, dell’unico inidoneo mec- canismo, cui semplicisticamente si affida il co. 52. Resta ipotizzabile, ed auspicabile, un inter- vento sull’ordinamento dello stato civile, se non altro per assicurare quella omogeneità dei mec- canismi pubblicitari relativi ai rapporti patrimoniali familiari, in assenza della quale alle parti (e, per loro, ai professionisti che li assistono) rischiano di essere addossati oneri accertativi, più che di complessa, di stessa realmente efficace operabilità.
Può, in effetti, ragionevolmente dubitarsi che un intervento soddisfacente possa essere qui at- tuabile attraverso il solo – sia pure spregiudicato e tendente in qualche modo ad ovviare alle ca- renze del testo legislativo – impiego dello strumento delle circolari ministeriali. Ad ogni buon conto, in vista dell’entrata in vigore della legge n. 76, un intervento ministeriale si è reso neces- sario ed è stato tentato con la circolare del Ministero dell’Interno n. 7/2016. Con essa ci si è in- gegnati – appunto in un’ottica sostanzialmente integrativa della legge – a consentire comunque l’operatività delle nuove previsioni legislative, attraverso l’utilizzazione dei meccanismi dispo- nibili nel d.P.R. n. 223 del 1989: ciò, in particolare, con il ricorso alle registrazioni da effettuarsi nella “scheda di famiglia” e nelle “schede individuali”, nonché facendo carico all’“ufficiale di anagrafe” di “assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto” (“tra- smessa dal professionista” intervenuto).
Permane, insomma, il dubbio che quanto previsto, utilizzando – allo stato invero inevitabil- mente – lo strumentario attualmente a disposizione, possa valere a soddisfare effettivamente le accennate esigenze pubblicitarie, soprattutto in considerazione delle modalità operative caratte- rizzanti, anche sotto il profilo delle relative vicende, le registrazioni anagrafiche, a fronte della ben diversa e collaudata efficienza del sistema pubblicitario fondato, per il regime patrimoniale della famiglia, sugli atti dello stato civile.