UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA – TOR VERGATA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA – TOR VERGATA
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
DOTTORATO IN AUTONOMIA INDIVIDUALE E AUTONOMIA COLLETTIVA
XXV CICLO
“Il contratto di ricerca tra Ente pubblico e impresa”
Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx
Tutor:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Coordinatore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx
ANNO ACCADEMICO 2011 / 2012
INDICE
Introduzione p. V
Capitolo I
L’autonomia contrattuale
1. Nozione ………………………………………………………………............................................ p. 1
1.1 Autonomia privata e libertà contrattuale
1.2. Il tipo contrattuale
1.3. Il tipo come criterio di selezione del rischio contrattuale
2. Il Processo di tipizzazione ..…………………………………………………............................ 11
2.1. Autonomia privata, tipi legali, tipi giurisprudenziali, tipi sociali
2.2. Il tipo sociale in particolare. L’emersione di un “tipo effettuale”
2.3. La tipicità nel diritto applicato
2.4. Sintesi sul regime dei tipi nel sistema italiano
3. Il contratto atipico e l’interesse meritevole di tutela …………………………………….. 22
3.1. Causa e tipo
3.2. Gli interessi meritevoli di tutela. Il secondo comma dell’art. 1322 c.c.
3.3. Interessi meritevoli di tutela e liceità
3.4. Interessi meritevoli di tutela e tipicità sociale
3.5. Interessi meritevoli di tutela e utilità sociale
4. Disciplina ……………………………………………………………..……………………………………….. 30
4.1. La disciplina generale del contratto atipico. L’art. 1323 c.c.
4.2. La disciplina specifica. Il metodo tipologico
4.3. Il metodo analogico
4.4. Moduli o formulari e condizioni generali di contratto
Capitolo II
L’autonomia contrattuale nel sistema della ricerca scientifica e tecnologica
1. Premesse ………………………………………………………………........................................ p. 37
2. Classificazione delle attività di ricerca… 38
3. Profili pubblicistici 39
3.1. La ricerca scientifica nella Costituzione
3.2. L’organizzazione dell’attività di ricerca. Cenni introduttivi
3.2. a) L’attività diretta di ricerca
3.2.1. La ricerca nelle Università
3.2.2. La ricerca negli Enti pubblici: a) il CNR (Segue): b) gli altri Enti non strumentali di ricerca (Segue): d) Gli Enti di ricerca strumentali. L’ENEA
(Segue): e) La Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia
3.2 b) La promozione della ricerca
4. Profili privatistici ..………………………………………………….......................................... 64
4.1. Premessa
4.2. Il problema del riconoscimento dei diritti morali e patrimoniali connessi con l’attività di ricerca
4.3. La ricerca dipendente. La disciplina delle invenzioni dei dipendenti
4.4. Le invenzioni delle Università e degli Enti pubblici di ricerca
4.5. Sintesi
Capitolo III
Il Contratto di ricerca
1. Inquadramento del fenomeno contrattuale p. 76
1.1. Le origini del contratto di ricerca.
2. Tipologia dei contratti di ricerca ……………………………………………………………………. 83
2.1. Le commesse di ricerca.
2.1.1. Disciplina giuridica delle commesse di ricerca.
2.2. I contratti di promozione della ricerca.
2.2.1. Disciplina giuridica dei contratti di promozione della ricerca.
2.3. Conclusioni
Capitolo IV
Il Contenuto‐tipo dei contratti di ricerca
1. Premesse………………………………………………………………………………………………………. p. 109
2. La struttura tipica di un contratto di ricerca …………………………………………………. 110
2.1. Le parti e le premesse
2.2. La forma
2.3. L’oggetto del contratto
2.3.1. L’obbligo di ricerca
2.4. Il Responsabile della ricerca
2.5. La durata
2.6. Luogo e modalità di esecuzione della ricerca
2.7. Report
2.8. Corrispettivo e modalità di pagamento
2.9. Titolarità dei diritti di proprietà industriale
2.10. Riservatezza
2.11. Pubblicazioni scientifiche
2.12. Uso dei segni distintivi delle parti
2.13. Responsabilità
2.14. Risoluzione
2.15. Recesso
2.16. Coperture assicurative e sicurezza
2.17. La risoluzione delle controversie
2.18. Trattamento dei dati personali
2.19. Miscellanea
2.20. Comunicazioni
2.21. Registrazione e spese
3. Conclusioni ……………………………………………………………………………………………….. 142
Capitolo V
Analisi del contenuto dello schema‐tipo di contratto di ricerca della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia
1. Premessa ………………………….......................................................................... p. 144
2. Frontespizio ……………………………………………………………………………………………… 147
3. Clausole speciali ……………………………………………………………………………………….. 147
3.1. Art. 1 ‐ Oggetto
3.2. Art. 2 – Responsabili di Progetto
3.3. Art. 3 – Durata
3.4. Art. 4 – Modalità e luogo di svolgimento
3.5. Art. 5 – Corrispettivo e modalità di pagamento
3.6. Art. 6 – Proprietà intellettuale
3.7. Art. 7 – Pubblicazioni
3.8. Art. 8 – Riservatezza
3.9. Art. 9 – Uso dei segni distintivi
4. Clausole generali ………………………………………………………………………………………… 161
4.1. Art. 10 – Recesso
4.2. Art. 11 – Risoluzione
4.3. Art. 12 ‐ Copertura Assicurativa, Sicurezza e Responsabilità
4.4. Art. 13 – Trattamento dei dati personali
4.5. Art. 14 – Adempimenti ex lege 231/2001
4.6. Art. 15 – Legge applicabile e Foro competente
4.7. Art. 16 – Comunicazioni
4.8. Art. 17 – Clausola generale
4.9. Art. 18 – Registrazione e spese
Considerazioni conclusive p. 168
Allegato
Contratto di ricerca della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia ………………. p.176 Bibliografia…………………………………………………………..….…………………………………….. p. 187
INTRODUZIONE
Accade di frequente nella pratica che lo svolgimento di attività di ricerca venga affidato, dietro compenso, da imprese ad Enti pubblici di ricerca tramite un apposito contratto che nella prassi dei traffici economici ha assunto il nomen di “contratto di ricerca”.
Si tratta di un peculiare schema contrattuale che, pur avendo assunto una struttura e una caratterizzazione propria dovute alla sua significativa diffusione, non è stato ancora stato sottoposto, da parte del legislatore, ad una concreta tipizzazione, tanto che la dottrina dominante lo qualifica ancora oggi come contratto “atipico”.
L’interazione tra le imprese e gli Enti pubblici di ricerca è sempre più ricercata, sia attraverso politiche incentivanti, sia per mezzo di forme di collaborazione sempre più efficaci e strutturate, poiché essa è considerata il presupposto fondante del processo di innovazione tecnologica, sul quale insiste lo sviluppo dei sistemi economici più competitivi.
Pertanto, l’interesse ad una tipizzazione e ad un inquadramento sistematico di tale tipologia contrattuale nasce dalla riconosciuta importanza della ricerca scientifica applicata per l’industria di qualsiasi livello. In tale contesto, il contratto di ricerca assume un ruolo cardine, in quanto strumento che pone in relazione l’impresa e l’Ente pubblico di ricerca in attività collaborative che prevedono lo sviluppo di nuova conoscenza ed il trasferimento delle tecnologie da un ambito prevalentemente speculativo a quello applicativo, per ottenerne un impatto sulla società in forma di nuovi prodotti o servizi. Il contratto di ricerca non si configura, dunque, soltanto come documento legale, ma è soprattutto uno strumento strategico che riflette le policy e, più in generale, gli orientamenti programmatici degli Enti pubblici di ricerca nella gestione e nello sfruttamento della proprietà intellettuale.
Oggetto del presente lavoro è l’analisi del contenuto‐tipo di un contratto di ricerca e della relativa disciplina, effettuata attraverso l’esame della prassi contrattuale invalsa negli Enti pubblici di ricerca. L’intento è volto, in particolare, a selezionare gli elementi ricorrenti nei vari schemi contrattuali analizzati e a valutare, sulla base degli stessi, la possibilità di configurare il contratto de quo come un “tipo sociale”.
Scopo ultimo del lavoro è comprendere, attraverso l’esame dei modelli utilizzati dai vari Enti pubblici di ricerca presenti sul territorio nazionale, se si è in presenza di una prassi negoziale fornita di caratteristiche unitarie tali da poter parlare di una vera e propria “standardizzazione” dei contratti di ricerca.
Punto di partenza di tale indagine è l’illustrazione dell’evoluzione scientifica in tema di contrattazione innominata: in tale ottica, si è predisposta una sintetica
ricostruzione del ruolo e della rilevanza centrale che l’autonomia individuale assume nel contesto dei traffici giuridici, dando conto delle caratteristiche primarie del contratto atipico.
E’ stato analizzato, in particolare, il rilievo che l’autonomia privata assume nel sistema della ricerca scientifica e tecnologica, sistema nel quale negli ultimi anni si è andata in special modo moltiplicando l’adozione di strumenti contrattuali allo scopo di promuovere il progresso scientifico e tecnologico. Ci si è brevemente soffermati, pertanto, sull’organizzazione della ricerca scientifica in Italia e sui principali soggetti in essa coinvolti, ovverosia gli Enti pubblici di ricerca, accennando ad alcune tra le principali problematiche di diritto privato scaturenti dall’attività di ricerca.
L’analisi dell’evoluzione scientifica in tema di contrattazione innominata è stata propedeutica all’esame della struttura e delle connotazioni principali del contratto di ricerca, condotto attraverso l’attenta osservazione della prassi negoziale che si sta diffondendo ed affermando nella quotidianità. A tal fine, sono stati selezionati alcuni Enti pubblici di ricerca attivi sul territorio nazionale, aventi tutti un profilo fortemente orientato al trasferimento tecnologico, procedendo allo studio delle policy, degli statuti e dei relativi regolamenti di settore. L’indagine è stata condotta attraverso l’esame comparato dei modelli contrattuali predisposti dagli Enti selezionati e rispecchia situazioni e tendenze realmente esistenti, tratte dalla personale esperienza acquisita al servizio di due importanti Enti pubblici di ricerca.
Dopo aver ricostruito il contenuto di un possibile modello generale di contratto di ricerca, al fine di valutare come operativamente questi modelli vengano poi adattati dai singoli Enti al contesto specifico nel quale sono funzionalmente attivi, è stato infine analizzato in dettaglio il contenuto del contratto‐tipo predisposto da un importante Ente per la regolazione dei suoi rapporti con le imprese committenti: la Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia.
CAPITOLO I
L’AUTONOMIA CONTRATTUALE
1. La Nozione
1.1 Autonomia privata e libertà contrattuale
Nel sistema giuridico italiano, la caratteristica tipica del diritto dei contratti è l’autonomia dei consociati, dove “autonomia” significa attività e potestà di dare assetto ai propri rapporti e interessi1. Secondo autorevole dottrina, la principale ragione del riconoscimento dell’autonomia privata nel nostro sistema giuridico è da ravvisare nel fatto che la funzione ordinatrice del diritto, nell’ambito di una moderna società organizzata, non può limitarsi al compito statico di proteggere l’attuale distribuzione dei beni ma deve assumere il compito dinamico di renderne possibile il continuo rinnovamento, agevolando la circolazione dei beni e la cooperazione fra i consociati secondo i bisogni di volta in volta emergenti. Ora, poiché in un ordinamento incardinato sulla proprietà individuale tale rinnovamento è opera dell’autonomia privata, la soluzione al problema consiste nell’elevare alcune esplicazioni di questa autonomia a strumenti per dar vita e sviluppo a rapporti fra consociati, vale a dire, a negozi giuridici2.
Nel campo del diritto privato, l’autonomia viene riconosciuta dall’ordine giuridico quale attività e potestà creativa, modificativa o estintiva di rapporti giuridici fra privati, rapporti, vita e vicende dei quali sono già disciplinati in anticipo da preesistenti norme giuridiche. La manifestazione principale di questa autonomia è sicuramente il negozio giuridico, il quale va appunto concepito quale atto di autonomia privata cui il diritto ricollega la nascita, la modificazione e l’estinzione di rapporti giuridici fra privato e privato3.
1 X. Xxxxx, Autonomia privata, in Nov. Dig. it., vol. V, t. II, Torino 1957, 1559.
2 X. Xxxxx, op. cit., 1560. Secondo l’autore, se con il diritto soggettivo l’ordine giuridico risolve il problema di proteggere gli interessi privati così come li trova costituiti, con il negozio giuridico risolve invece il problema di dar modo all’iniziativa privata di spiegarsi, modificando la posizione di tali interessi, nelle direttive che i privati stessi giudicano più convenienti.
3 X. Xxxxx, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli 2002, 50‐51. Specifica l’autore che, nella misura in cui l’autonomia privata è riconosciuta dall’ordine giuridico, essa non è chiamata a creare o ad integrare alcuna norma giuridica, ma solo a porre in essere l’ipotesi di fatto di una norma già esistente, dando vita fra i privati a quel rapporto giuridico che la norma stessa dispone. Soltanto in questo senso può dirsi riconosciuta ai privati dall’ordinamento giuridico una competenza dispositiva, e non già nel senso che l’ordine giuridico deleghi loro una porzione della competenza normativa trasformandoli così in organi propri.
I negozi giuridici hanno la loro genesi nella vita di relazione, in quanto sorgono come atti con i quali i privati dispongono per l’avvenire un regolamento impegnativo d’interessi nei loro rapporti reciproci e si sviluppano spontaneamente, sotto la spinta dei bisogni, per adempiere ad una pluralità di funzioni economico‐sociali all’infuori dell’insorgenza di ogni ordine giuridico4.
L’autonomia negoziale, dunque, rientra nella più ampia nozione di autonomia privata e può essere definita come il potere del soggetto di disporre della propria sfera giuridica personale e patrimoniale.
In particolare, l’autonomia contrattuale costituisce una specificazione dell’autonomia negoziale. Infatti, mentre il codice civile del 1942 non detta una disciplina generale del negozio, regola in modo puntuale il tipo negoziale principale: il contratto, ovvero l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici a contenuto patrimoniale (art. 1321 c.c.).
Secondo un orientamento dottrinale, l’autonomia contrattuale, oltre ad essere riconosciuta esplicitamente dalla normativa codicistica (art. 1322 c.c.), trova anche garanzia nella Costituzione e, segnatamente, nel disposto degli artt. 2 e 3 Cost. Questi ultimi, infatti, sanciscono la libertà effettiva di esplicazione della personalità umana e, nei rapporti sociali, è proprio attraverso rapporti giuridici che principalmente il soggetto esplica la sua personalità5.
Tale tesi, tuttavia, non ha ricevuto ampi consensi e, da parte di altra autorevole dottrina, è stato criticamente osservato che l’art. 2 Cost. garantisce non la libertà contrattuale in sé ma le concrete manifestazioni dell’autonomia privata volte a dar vita alle formazioni sociali6.
Ora, a prescindere da una specifica formula normativa, il riconoscimento della libertà del soggetto di disporre dei propri beni e di impegnarsi verso l’esterno secondo le sue scelte, deve considerarsi un valore basilare dell’ordinamento. Tale valore, nel campo dei rapporti economici, trova riconoscimento nel principio della libertà di
4 X. Xxxxx, Teoria generale, op. cit., 44‐48, osserva che la necessità di porre in essere negozi fra i consociati si avverte solo in quegli ordinamenti economico‐sociali che riconoscono ai singoli una cerchia di beni di loro spettanza, cioè in ordinamenti basati sul riconoscimento della proprietà individuale. È solo sulla base di questo riconoscimento che, infatti, la circolazione dei beni e la prestazione dei servizi è rimessa all’autonomia privata. Data la proprietà individuale, i privati stessi devono provvedere a scambiarsi beni e servizi, a trasmetterli per causa di morte e così via, dando assetto da sé, mediante negozi, ai propri interessi nei rapporti reciproci.
5 C.M. Xxxxxx, Il contratto, Diritto civile III, Milano 2000, 30. L’autonomia privata, oltre che come potere di decidere della propria sfera giuridica personale e patrimoniale, può essere vista, secondo l’autore, come un diritto di libertà, e quindi come un fondamentale diritto della persona.
6 X. Xxxxxxx, Manuale di diritto privato, Napoli 2011, 787.
iniziativa sancito dall’art. 41, comma 1, Cost., di cui l’autonomia privata è uno strumento necessario7.
Non si tratta, in ogni caso, di un fondamento costituzionale diretto ed immediato ma soltanto indiretto.
In particolare, la nozione di iniziativa economica non coincide concettualmente con quella di autonomia privata; ciononostante, quest’ultima è uno strumento necessario dell’iniziativa economica con la conseguenza che ogni limite posto dal legislatore alla prima si risolve in un limite alla seconda, e come tale è legittimo solo se in armonia con quanto previsto dall’art. 41, comma 2 e 3, Cost.8
Chiaramente, libertà contrattuale non può essere intesa come assoluto arbitrio del singolo nella costituzione e determinazione dei suoi rapporti ma, piuttosto, come libertà del soggetto di operare liberamente le proprie scelte nel mercato. L’attività negoziale, infatti, s’immette nella realtà socio‐economica ed è da questa necessariamente condizionata9.
La libertà contrattuale, in ogni caso, si inserisce in un contesto di valori costituzionali gerarchicamente ordinati; in particolare, l’evoluzione in senso sociale dei diritti fondamentali tende a privilegiare sulla libertà individuale la solidarietà sociale. Il principio di solidarietà sociale, enunciato dall’art. 2 Cost. quale valore di fondo della nostra Costituzione, prevale dunque sulla libertà individuale ed impone un controllo giudiziale sugli atti che sono esplicazione dell’autonomia privata10.
Dunque, l’intangibilità della volontà individuale cede di fronte all’esigenza di giustizia sociale; con particolare riferimento all’iniziativa economica privata, essa è si costituzionalmente garantita, ma tale iniziativa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.
L’autonomia contrattuale concede ai singoli una vasta gamma di libertà, ciascuna delle quali caratterizzata da limiti posti dal legislatore, e precisamente:
a) la libertà di concludere o meno il contratto, circoscritta da obblighi legali (ad es. assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile) e convenzionali a contrarre (ad
7 C.M. Xxxxxx, op. cit., 31.
8 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 787. Secondo l’autore, alla identificazione tra i due concetti osta la necessaria presenza, nel caso di iniziativa economica, di una pluralità di atti di destinazione e di una organizzazione stabile, nonché di comportamenti teleologicamente collegati, i quali non possono essere inquadrati alla stregua di una pura e semplice somma di atti. È dunque evidente, essendone questa l’essenza, che l’iniziativa economica si distingue dai singoli atti che ne sono espressione.
9 C.M. Xxxxxx, op. cit., 31, nota n. 100.
10 C.M. Xxxxxx, op. cit., 32. La libertà negoziale, precisa l’autore, rimane in ogni caso un valore costituzionale; ciò implica che le sue limitazioni devono essere socialmente giustificate risolvendosi, altrimenti, nella lesione di un diritto fondamentale della persona.
es. con il preliminare, ex art. 1351 c.c., le parti si obbligano a concludere un futuro contratto “definitivo”);
b) la libertà di scelta del contraente, che non vale nelle ipotesi di riconoscimento del diritto di prelazione accordato dalla legge in vista di interessi collettivi (ad es. retratto successorio ex art. 732 c.c. ed impresa familiare ex art. 230bis) o sancito dalla volontà delle parti (cd. patto di prelazione);
c) la libertà di determinare il contenuto negoziale ex art. 1322, co. 1, c.c., operante “entro i limiti imposti dalla legge”. Vi sono, infatti, alcuni espressi divieti legislativi a tale libertà, come la nullità del patto commissorio (art. 2744 c.c.) e dei patti successori (art. 458 c.c.). Ove il legislatore non vieta, può talvolta limitare l’autonomia negoziale sancendo, a pena di nullità, che gli elementi essenziali del negozio presentino taluni requisiti (in ordine alla causa, ad esempio, il contratto non può essere contrario a norme imperative, ordine pubblico e buon costume ex art. 1343 c.c.; mentre l’oggetto deve essere determinato, determinabile, possibile e lecito ex art. 1346 c.c.). Altro istituto importante legato alla limitazione dell’autonomia è quello dell’inserimento o sostituzione automatica di clausole, ove i contraenti nulla abbiano disposto su determinati aspetti o abbiano violato previsioni legali inderogabili (artt. 1339, 1419 c.c.);
d) la libertà di dar vita a negozi atipici, cioè non appartenenti alle categorie espressamente previste dalla legge. Rispetto a tale libertà, il legislatore pone il limite positivo del perseguimento di “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (ex art. 1322, co. 2, c.c.). Le parti potranno dunque coniare tipi negoziali nuovi, combinare quelli già esistenti (negozi misti: ad es. contratto di posteggio), o usare questi ultimi per finalità diverse da quelle suggerite dalla legge (negozi indiretti), purché non in contrasto con essa.
Nel contesto dell’autonomia individuale centrale è la possibilità per i consociati di dar vita a contratti innominati, rispetto ai quali massimamente si esplica la libertà dei privati. Invero, la nozione di autonomia contrattuale trova il terreno della sua più saliente applicazione proprio nella materia di quello che si è convenuto di chiamare contratto innominato, o detto altrimenti, con un termine da taluno avversato11,
11 X. Xxxxx, Teoria generale, op. cit., 193, il quale ritiene che sia un errore identificare “non nominato” con “atipico” in senso assoluto, quasi a volere significare che una tipizzazione non potesse avvenire che attraverso particolari denominazioni e, di fronte alla tirannia dei nomi, il diritto dovesse farne del tutto a meno. L’autore continua osservando che è un errore anche pensare che, abbandonata la vecchia tipicità delle tradizionali denominazioni, il diritto sia arrivato a riconoscere efficace il semplice consenso, qualunque ne sia il contenuto, purché non sia illecito. Negare l’esigenza di qualsiasi tipicità in ordine a un interesse oggettivo degno di protezione, significa rimettersi al mero arbitrio individuale, al motivo transeunte che, come tale, è irrilevante per il diritto. Chi argomenta in tal modo, disconosce la socialità
atipico, ove per contratto innominato deve intendersi quello per il quale l’ordinamento giuridico non ha previsto una particolare disciplina giuridica12.
Un corollario di tale libertà, è la possibilità per i privati della combinazione di tipi e di tutti quei fenomeni costruiti dalla dottrina e dalla pratica, quali i contratti collegati, complessi o misti, applicazione dello stesso principio di libertà nella configurazione di nuovi tipi, poiché anche le combinazioni si risolvono nell’esercizio di quell’aspetto particolare dell’autonomia riconosciuta ai privati dalla norma relativa ai contratti che non abbiano ricevuto una disciplina particolare. Per tutte le ipotesi vale il limite fissato a chiusura della disposizione, rappresentato dalla meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti. Dalla norma, altresì, possiamo dedurre la libertà dell’uso di un tipo per finalità diverse da quelle che il sistema nella disciplina positiva assegna a un determinato tipo contrattuale. Così, la figura dogmatica del negozio indiretto e quelle simili sono ugualmente riconducibili alla libertà dei tipi, entro il limite generale segnato dalle norme che impediscono e precludono ogni utilizzazione abusiva del tipo, e in primo luogo la norma sulla frode alla legge ex art. 1344 c.c.13
Il riconoscimento di effetti giuridici anche ai contratti atipici deriva dalla inadeguatezza, di fronte alle mutate esigenza dei traffici economici, dei mezzi giuridici offerti dalla legge. La complessità dei moderni traffici giuridici nel campo economico‐ commerciale, infatti, non sempre consente alle parti di soddisfare i loro interessi e di regolare compiutamente i lori rapporti utilizzando esclusivamente i contratti tipici, ovvero quei contratti già previsti e disciplinati dalla legge14.
Il progredire delle figure di contratto innominato è dovuto soprattutto al nascere di nuovi bisogni economici: quanto più è ricco lo sviluppo della vita economica, tanto maggiore è il numero delle nuove figure contrattuali. Ed è appunto a questa esigenza che risponde l’introduzione nella prassi del c.d. contratto di ricerca, schema contrattuale che, pur avendo da tempo assunto nella pratica una caratterizzazione e struttura propria, non è ancora stato sottoposto all’opera di tipizzazione da parte del legislatore. Il contratto di ricerca, infatti, pur essendo un contratto ormai ampiamente
nella funzione ordinatrice propria del diritto e dimentica che l’atipico in senso assoluto resta necessariamente al di fuori di essa.
12 X. Xxxxxxxx, Contratto normativo e contratto tipo, in Enc. dir., X, Varese 1962, 98. Ritiene l’autore che, presa alla lettera, l’espressione contratto innominato equivarrebbe per la verità a contratto cui il sistema della legge non dà un nome; ma il fatto di non avere un nome dipende a sua volta dalla circostanza che il dato contratto non è assoggettato a disciplina propria; cfr. X. Xxxxxxxx, Contratti innominati, in Enc. giur. Treccani, Roma 1988, 1, il quale osserva che nel linguaggio giuridico le due espressioni “contratto innominato” e “contratto atipico”, sono usate indifferentemente per indicare il medesimo fenomeno, ossia quello previsto dall’art. 1322, 2° co., c.c.
13 X. Xxxxxxxx, Note sull’atipicità contrattuale, in I contratti in generale, diretto da X. Xxxx‐X. Xxxxxxx, II, I contratti atipici, t. II, Torino 1999, 6‐7.
14 X. Xxxxxxxx, op. cit., 1.
diffuso al punto da possedere un proprio nomen nella prassi del traffico, non è organicamente disciplinato dal codice civile, che non lo prevede tra i tipi espressamente regolati, né dalle leggi speciali, che si limitano a menzionarlo e a regolarne alcuni aspetti particolari; per tale motivo, l’opinione dominante in dottrina lo qualifica come un contratto atipico15.
Il nomen “contratto di ricerca”, in via generale, sottende quella vasta categoria di accordi economici, sorti spontaneamente nella prassi, mediante i quali un soggetto (detto committente) affida ad un altro soggetto (detto ricercatore) l’incarico di svolgere un’attività di ricerca scientifica più o meno complessa, dietro corrispettivo e senza alcun vincolo di subordinazione.
Tuttavia, come vedremo meglio nei capitoli che seguono, sotto il medesimo nomen si collocano una serie di tecniche negoziali che la dottrina specialistica è solita raggruppare in due categorie: le c.d. commesse di ricerca, dette anche conto terzi, ed i contratti c.d. di promozione della ricerca. Il discrimen fra le due fattispecie negoziali risiederebbe nello scopo del negozio, in quanto i primi sarebbero destinati a commissionare l’attività di ricerca ad un soggetto determinato nell’interesse del committente stesso, mentre i secondi avrebbero lo scopo di promuovere la ricerca scientifica nell’interesse dell’intera collettività, e quindi non per particolari scopi del soggetto committente.
Analizzeremo nei capitoli che seguono l’origine, la qualificazione e la disciplina di questo contratto; qui basti dire che l’autonomia contrattuale delle parti ha una diversa operatività in base alla tipologia di contratto presa in considerazione. In particolare, nelle commesse di ricerca affidate dall’amministrazione statale o da altri Enti pubblici, nonché nei contratti di promozione stipulati dai soggetti cui sia per legge attribuito il ruolo di “promotore”, non si può in principio parlare di atipicità in quanto il relativo contratto è disciplinato, seppure parzialmente, da una legge speciale; diverso è per le commesse che intervengono fra un’impresa ed una Università o altro Ente o Istituto di ricerca ove, in assenza di una specifica disciplina legislativa, la determinazione contrattuale è libera e l’autonomia privata, salvo l’osservanza dei principi di ordine pubblico, trova largo spazio.
Alla luce di quanto esposto, ed in relazione a quanto da ultimo osservato sul contratto di ricerca, possiamo dunque affermare che il contratto innominato è l’indizio più sicuro che la vita giuridica non si fossilizza in forme immutabili ma che, al contrario,
15 X. Xxxxx, Risoluzione e recesso nel contratto di ricerca, in Recesso e risoluzione nei contratti di X. Xx Xxxx (a cura di), Milano 1994, 572.
è in perenne movimento e in costante evoluzione anche e soprattutto dal punto di vista tecnico16.
1.2 Il tipo contrattuale
Prima di inquadrare la problematica afferente ai contratti atipici, occorre brevemente soffermarsi sul problema della definizione del significato del termine “tipo” usato dal legislatore in materia contrattuale negli articoli 1322 e 1323 c.c.
Occorre premettere che il contratto è esso stesso un “tipo” di negozio, ossia un negozio “tipico”; poi, all’interno della categoria del contratto, la legge adotta il doppio binario dei contratti tipici muniti di regole speciali, e dei contratti estranei ai tipi, legalmente validi ed assoggettati alle sole norme generali sui contratti. Così, infatti, emerge dagli artt. 1322 e 1323 c.c. citati17.
La nozione di tipo contrattuale, peraltro, non è fornita dal legislatore che, tuttavia, se ne serve con frequenza nel tessuto normativo del codice sia quando ne opera un impiego diretto, mediante l’esplicita menzione del termine, sia quando si riferisce a nozioni che ne rappresentano dei sinonimi, e sia quando si serve della classificazione dei contratti in funzione della disciplina applicabile18. Tuttavia, pur essendo così frequentemente evocato, il tipo non è annoverato tra i requisiti o elementi essenziali del contratto, così come neppure tra quelli eventuali.
Nella relazione del Guardasigilli il tipo è considerato come una “forma giuridica predeterminata”, quindi come uno schema che potrebbe limitare la libertà di iniziativa, e vi si insiste nel sottolineare come gli operatori economici non debbano essere vincolati a concludere solo contratti tipici. Ciò in quanto la libertà giuridica di soddisfare le esigenze della vita economica mediante forme contrattuali atipiche garantisce l’adeguamento del diritto alla realtà pratica. Nella relazione al Re si precisa che la libertà di scegliere un contratto fuori dai tipi regolati dal codice è ammissibile se il risultato pratico che i soggetti si propongono di perseguire sia rispondente alla coscienza civile e politica, all’economia nazionale, al buon costume e all’ordine pubblico. In questa prospettiva, il tipo assume la funzione di strumento di controllo
16 X. Xxxxxxxx, op. cit., 100, secondo cui la formazione di nuovi tipi di contratto costituisce l’adeguamento del sistema giuridico allo sviluppo, che è sempre più nel senso della specificazione o della novità dei fenomeni economici.
17 X. Xxxxx, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1966, 787, il quale specifica che la tipizzazione più importante è quella che si svolge fra la categoria superiore del contratto e quella inferiore dei tipi legali nominai. Procedendo poi dal contratto verso una categoria più generale si trova l’atto. Ora, rispetto all’atto o negozio, il contratto costituisce una categoria “tipica”, ma in un significato diverso da quello in cui è tipico il contratto di vendita.
18 X. Xxxxxxxxx, Tipo contrattuale, in Enc. giur. Treccani, XXXI, Roma 1994, 1.
delle pattuizioni private; controllo che, secondo la relazione, sarebbe già assicurato per i contratti tipici e che quindi verrebbe posto in essere solo quando le parti concordano contratti atipici. Il controllo del tipo, con riguardo ai contratti espressamente regolati, sarebbe invece necessario quando l’intento pratico perseguito alle parti diverga da quello preso in considerazione dalla legge nella valutazione astratta del tipo regolato19. Il problema della definizione è stato individuato dalla dottrina cercando in primo luogo di individuare quale elemento possa essere considerato distintivo ed informativo del tipo e, a tal proposito, la dottrina maggioritaria lo ha indicato nella causa, elemento centrale per il cui tramite il contratto è riconosciuto e sanzionato dall’ordinamento giuridico e, quindi, munito di azione in giudizio e di efficacia20. A ciascuna causa, dunque, corrisponderebbe un tipo contrattuale, quindi ogni regolamentazione convenzionale incidente sulla causa modificherebbe correlativamente anche il tipo
trasformandolo in un altro tipo, legale o sociale21.
I critici di questa teoria ritengono invece che causa e tipo vadano considerati autonomamente. Questa stessa dottrina, inoltre, denuncia l’impossibilità di far ricorso ad un unico elemento informativo del tipo ritenendo debba farsi invece ricorso a più tratti distintivi che, per essere considerati tali, dovranno altresì essere elementi essenziali del tipo, nel senso che la loro mancanza non consenta di assumere il contratto nel tipo legale e il contratto dovrà essere riportato ad un altro tipo o qualificato atipico.
Altra dottrina, altresì, ha spostato il centro della riflessione sulla disciplina legale del contratto, evidenziando che i contorni del tipo risultano dalla lettura delle norme inderogabili poste dal legislatore.
Nella letteratura più moderna, il problema della tipicità è stato invece affrontato con riguardo soprattutto all’interesse perseguito dai contraenti e, dopo aver rilevato che la causa è la funzione economico‐individuale del contratto in quanto tesa a far risaltare le esigenze e gli interessi di uno o più soggetti, si è concluso che la tipicità, in un’operazione negoziale che rientri in un tipo legale, individua la disciplina applicabile
19 X. Xxxx, La causa e il tipo, in Trattato dei contratti diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, I contratti in generale, I, Milano 2006, 576.
20 X. Xxxxxxxx, op. cit., 95‐96, chiarisce che quando il cpv. dell’art. 1322 c.c. allude indirettamente alle figure di contratto che appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, cioè ai tipi legali, mostra di riporre nel carattere legale del tipo, cioè nell’assoggettamento di esso alla disciplina particolare, la peculiarità di ogni singola figura. Tale disciplina, improntata sulla corrispondente causa che è anch’essa tipica, è articolata in misura tale da non lasciare spazio a lacune dal punto di vista tecnico‐giuridico.
21 X. Xxxxxxxx, op. cit., 1, sottolinea che tra i fautori di questo indirizzo non vi è unanimità di vedute nella qualificazione della causa, intesa ora come bisogno sociale cui il contratto risponde, ora come funzione economico‐sociale, ora come sintesi degli effetti essenziali.
per la realizzazione degli interessi perseguiti dalle parti, mentre nel caso di un tipo sociale individua la necessità di verificare anche la meritevolezza di questi interessi.
Autorevole dottrina sottolinea che il contratto è nominato, ossia preso singolarmente in considerazione dall’ordinamento giuridico, in quanto corrisponde ad un regolamento di interessi che sono abituali di un dato tipo di società civile nei cui ambienti i singoli contratti operano. Le figure maggiormente note di contratti tipici, infatti, corrispondono alle esigenze economiche fondamentali della vita associata dei soggetti nei vari territori22.
L’identificazione dei contratti nominati, solitamente, prende le mosse dalla prassi del diritto degli affari e dei commerci e, dopo una successiva elaborazione ed affinamento anche ad opera della giurisprudenza (c.d. tipicità giurisprudenziale), il tipo, ormai radicato nel tessuto economico (c.d. tipicità sociale) viene individuato sul piano normativo. Come ha osservato autorevole dottrina, dunque, il tipo legale non sarebbe altro che un astratto schema regolamentare che racchiude in sé la rappresentazione economica ricorrente nella pratica commerciale23.
La vita degli affari ha elaborato, ad esempio, il “contratto di informazioni commerciali”, cui la giurisprudenza ha ormai dato un nome. La nuova tecnica dei trasporti ha fatto nascere il “contratto di parcheggio”. E ancora, il regolamento della federazione italiana gioco calcio ha dato slancio alla creazione della “cessione di giocatore di calcio24.
1.3 Il tipo come criterio di selezione del rischio contrattuale
Al di là delle utilizzazioni metodologiche del tipo, la dottrina ha guardato ad altre possibilità applicative della categoria nell’ambito di temi più ampi, con finalità che si pongono oltre la prospettiva soltanto qualificatoria.
Il tipo contrattuale, è stato rilevato, non serve soltanto ad indicare all’interprete un quadro di disciplina già individuato dal legislatore per regolare un determinato assetto di interessi, ma può assolvere anche un’altra importante funzione: la funzione di criterio distributivo del rischio contrattuale25.
22 X. Xxxxxxxx, op. cit., 96, afferma che il contratto può dirsi in concreto nominato quando quadra esattamente con le statuizioni cogenti o imperative, che disciplinano il corrispondente tipo.
23 X. Xxxxxxxxx, op.cit., 1.
24 X. Xxxxx, Autonomia, op. cit, 797.
25 X. Xxxxxxx, Tipicità e realtà nel diritto dei contratti, in Riv. dir. civ., 1984, 781‐782. Il piano di distribuzione dei rischi si pone, secondo questa concezione, come il più attendibile criterio di massima dal quale desumere quale dei contraenti debba sopportare le conseguenze delle circostanze verificatesi, anche se spesso tale criterio vada correlato con altri indici di apprezzamento quali, ad esempio, il confronto tra prezzo pattuito e valori di mercato.
Ogni contratto, infatti, ha l’equilibrio economico che le parti gli conferiscono di modo che, nella sua economia, intesa come la ripartizione del rischio di sopravvenienza che risulta di volta in volta conforme al regolamento di interessi contrattualmente previsto, ogni prestazione ha sempre e soltanto il valore del corrispettivo concesso dal contraente interessato al fine di ottenerla, e non un astratto e oggettivo valore di mercato. La tesi menzionata, si raccorda dunque ad una valutazione realistica del fenomeno contrattuale, proponendo altresì un modo originale di utilizzazione della categoria del tipo che si spinge oltre la sussunzione in un modello per la ricerca della disciplina applicabile.
Ogni tipo di contratto, dunque, è al medesimo tempo un piano di distribuzione dei rischi, sicché la scelta del tipo contrattuale rappresenta una tecnica per distribuire i rischi all’interno del contratto e consente di valutare, rispetto alla sua complessiva economia, la compatibilità tra l’originario assetto di interessi e quello presente al momento dell’adempimento26.
Invero, la scelta di un tipo contrattuale implica, per così dire, un generico affidamento che le parti fanno in quel determinato tipo, non soltanto per quanto attiene alla disciplina non espressamente prevista, ma anche e soprattutto nel senso di limitare e circoscrivere entro un ambito prevedibile i rischi economici che esse intendono assumere. La figura del tipo intesa come piano di distribuzione del rischio, importando una valutazione del modello scelto, va dunque oltre la mera indicazione della fisionomia del contratto visto come pluralità di elementi caratterizzanti, ma ne evidenzia un nucleo unitario a cui gli elementi stessi, di per sé neutri, si riconnettono in senso strumentale. Nella prospettiva indicata, il ricorso a strutture tipizzate assume la funzione di conoscenza dell’effettiva intenzione delle parti in relazione alla portata giuridica dello schema su cui esse hanno fatto affidamento, con particolare riguardo alla distribuzione dei rischi. Si rimane, pertanto, nell’ambito dell’interpretazione soggettiva, potendo sostenere dunque che la disciplina legalmente tipica è sempre residuale rispetto al programma individuale27.
26 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 9, sostiene che l’adozione di un certo tipo di contratto è indice della scelta che i contraenti hanno voluto compiere in merito alla ripartizione dei rischi che possono derivare dal contratto, cosicché in base al modello negoziale al quale le parti hanno fatto riferimento, si può desumere quale dei contraenti deve sopportare le conseguenze che inevitabilmente vengono ricollegate allo schema giuridico formale nel quale l’intera operazione economica rientra.
27 X. Xxxxxxx, op. cit., 785. L’utilizzazione metodologica del tipo, osserva l’autore, non dovrebbe condurre ad accantonare il profilo della causa concreta, ed in ogni caso, per l’applicazione della disciplina ad esso relativa dovrebbe emergere, in via interpretativa, la sussistenza di un atteggiamento soggettivo delle parti, univocamente orientato nel senso di affidarsi consapevolmente ad una struttura tipizzata, rispondente al piano prescelto di distribuzione del rischio contrattuale
Occorre osservare, tuttavia, che la realtà sociale ed il sistema economico attuale sono sempre più orientati verso una disciplina non del tipo contrattuale bensì dell’operazione economica, la quale identifica una sequenza unitaria e composita che comprende in sé il regolamento, tutti i comportamenti che con esso si collegano per il conseguimento dei risultati voluti, e la situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e gli altri comportamenti si collocano; in tal senso, la validità della classificazione dei contratti secondo il tipo potrebbe ormai risultare inadeguata28. Al di là del tipo, infatti, opera l’operazione economica intesa come la concreta disciplina dell’autoregolamento dei privati interessi.
Del resto, l’operazione non trova lo strumento esclusivo nel contratto e, d’altra parte, lo stesso contratto non sempre esprime l’affare nella sua totalità; superare lo schermo formale del singolo atto significa, dunque, proiettare l’interesse dei contraenti in un più ampio contesto: l’operazione economica, appunto, ove lo scopo perseguito in concreto risulta più evidente.
2. Il processo di tipizzazione
2.1 Autonomia privata, tipi legali, tipi giurisprudenziali, tipi sociali
L’art. 1322 c.c. pone per i consociati due fondamentali principi: la possibilità di modificare il contenuto dei contratti tipici e la possibilità di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico29.
L’introduzione del termine “tipo” nel codice del 1942 rappresenta il riflesso della tipicità del sistema delle fonti delle obbligazioni. Ciò spiega anche la necessità di ricollegare alla figura del contratto, in quanto fonte tipica delle obbligazioni, ogni forma di manifestazione di autonomia, nonché la tendenza a far dipendere soltanto dalla utilizzazione dello specifico schema contrattuale la realizzazione delle corrispondenti operazioni economiche.
28 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 12. L’operazione economica, per la duttilità che le è propria, postula una maggiore elasticità nella definizione degli elementi di cui si compone ed esprime anche meglio la qualità degli interessi dedotti nell’autoregolamento impegnativo.
29 X.X Xxxxx, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, 231. L’autore osserva che l’art. 1322 c.c. si ricollega, sostituendola, alla disposizione contenuta nell’art. 1103 del c.c. del 1865 nella quale si parlava di “contratti aventi una particolare denominazione”. L’art. 1322, tuttavia, non può essere inteso come una riproduzione di quella norma in quanto l’introduzione del termine tipo nel nuovo codice non assume soltanto valore descrittivo ma rappresenta soprattutto il riflesso della tipicità delle prestazioni.
Nell’ordinamento precedente a quello instauratosi con l’attuale codice, la tipicità dei contratti aveva carattere vincolante in quanto limitava e condizionava gli effetti perseguibili dalla parti mediante l’utilizzazione di quel determinato contratto, con la conseguenza che quando ci si trovava di fronte a situazioni nelle quali la produzione di un effetto proveniva da un contratto il cui schema tipico non prevedeva quello specifico effetto, si ricorreva alla figura del contratto misto. Con il nuovo codice, la tipicità dei contratti ha perduto il suo carattere vincolante, e l’inclinazione del legislatore è piuttosto quella a sostituire la tipicità del contratto con la tipicità delle prestazioni, ovvero, la tendenza a valorizzare la sostanza dell’operazione economica a prescindere dal tipo di contratto che la determini30.
La dottrina sulla tipicità, del resto, aveva già distinto concettualmente fra tipo legale e tipo sociale nel senso che la configurazione per tipi non si opera necessariamente mediante qualifiche tecnico‐legislative ma può operarsi anche mediante il rinvio alle concezioni dominanti nella coscienza sociale dell’epoca di riferimento. Pertanto, quando il bisogno di tutela dell’autonomia privata percepisce l’inadeguatezza delle tradizionali denominazioni, al posto della rigidità della tipicità legislativa che si regge sopra un numero chiuso, subentra una tipicità più elastica nella configurazione dei tipi che opera mediante rinvio alle valutazioni economiche o etiche della coscienza sociale, e per tale motivo, chiamata da autorevole dottrina tipicità sociale31.
La tipicità sociale, tuttavia, assumeva uno scarso e non autonomo rilievo in quanto riusciva ad emergere solo se rappresentata ed espressa nella particolare denominazione propria dei contratti direttamente nominati dall’ordinamento giuridico, con la conseguenza che la disciplina del contratto innominato era ricondotta dalla dottrina a quella del contratto nominato, in ragione del maggior numero di analogie che quest’ultimo presentava con quello nominato32.
La recezione dei tipi sociali mediante la loro elevazione a tipi legali, è il segno da parte dell’ordinamento di un riconoscimento e di una qualificazione positiva all’interesse sotteso al singolo tipo sociale normalmente corrispondente, anche se tale recezione non vale a modificare la struttura dell’operazione economica e il valore effettuale che essa esprime nella realtà sociale. L’apertura di credito o l’anticipazione
30 G.B Ferri, Causa e tipo, op. cit., 233. L’autore specifica che ogni fenomeno contrattuale non riconducibile immediatamente al tipo doveva comunque esservi ricondotto attraverso un’analisi più o meno complessa del suo contenuto, diretta a stabilire quale fosse la prestazione principale. Ciò comportava l’inevitabile conseguenza che il contratto atipico veniva fatto rientrare nel tipo al quale corrispondeva la prestazione principale.
31 X. Xxxxx, Teoria generale, op. cit., 192.
32 G.B. Xxxxx, Causa e tipo, op. cit., 233‐234.
bancaria, ad esempio, nelle loro strutture e nel loro valore effettuale, sono rimaste esattamente le stesse di quando costituivano soltanto dei tipici sociali, nonostante siano diventate dei tipi legali33.
Dunque, la nozione di contratto atipico, secondo questa impostazione, non coinciderebbe con quella di contratto innominato ma ricomprenderebbe quegli atti individuali che non si possono ricondurre a nessun tipo, né legale né sociale34.
Il processo di tipizzazione legale nasce in primo luogo dall’osservazione della realtà dei traffici e si svolge secondo una sequenza che muove dalla c.d. tipicità giurisprudenziale e procede attraverso quella c.d. sociale per approdare, infine, a quella c.d. legale.
Prima ancora che un determinato contratto divenga tipico, tuttavia, può accadere che il legislatore lo nomini soltanto o lo definisca nei suoi caratteri essenziali (ad es. la locazione finanziaria o leasing), come a voler significare un generico riconoscimento della sua liceità. In tal caso, il contratto potrà dirsi nominato ma ancora atipico.
Talora, addirittura, la tipizzazione sociale è puramente nominale: gli operatori creano un nome che simboleggia un certo schema contrattuale, ed il nome viene poi riassorbito pienamente in un tipo legale35.
Accade poi con frequenza che le mutate esigenze del traffico sociale e commerciale trovino soddisfazione con l’apposizione di specifiche clausole ad un tipo contrattuale già noto, clausole che col tempo possono acquistare una loro tipizzazione social‐giurisprudenziale. In tale ipotesi, l’interprete dovrà verificare se quella clausola, nel contesto della regolamentazione convenzionale, abbia una portata e rilevanza tale da incidere sulla clausola del contratto tipico, modificandolo quindi in atipico, ovvero
33 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 3. Nelle idee della dottrina antecedente al codice del 1942, il problema del tipo era circoscritto nei limiti del nomen iuris del contratto e della concezione del tipo come tipo legale. Ora, poiché la tipicità rappresentava già di per sé un’espressione di positiva valutazione dell’ordinamento nella riflessione degli interpreti, si realizzò facilmente il collegamento tra tipicità dell’operazione economica e causa del contratto. La necessità di distaccarsi da tali posizioni venne successivamente posta in evidenza da quella dottrina che suggerì una considerazione dei due problemi, tipo e causa, in quanto affrontare il problema del tipo contrattuale significa attribuire rilievo giuridico a quel valore che ogni operazione economica ha nella realtà sociale. E a questo fine, non può farsi una contrapposizione fra tipi legali e sociali. In definitiva, dunque, i tipi legali non rappresentano che la recezione da parte dell’ordinamento giuridico di tipi che si sono già affermati nella realtà sociale.
34 G.B. Xxxxx, Causa e tipo, op. cit., 241. L’autore richiama quella dottrina che puntualizza come le codificazioni non facciano che recepire il diritto così come esso vive, come le linee fondamentali degli istituti rimangano le stesse e si raggiunga soltanto una maggiore certezza.
35 X. Xx Xxxx, X. Xxxxx, Il Contratto, in Trattato di Diritto Civile diretto da X. Xxxxx, II, Torino 2004, 455. Gli autori portano ad esempio i floricultori, i quali hanno elaborato un “affitto del garofano” definito dalla giurisprudenza come “concessione in coltivazione di piante floreali”, in virtù del quale il concessionario ha la facoltà di coltivare le piante per lo sfruttamento dei fiori, senza però acquistare la proprietà delle piante stesse. Tale contratto, osservano, viene poi riassorbito nell’affitto.
non muti la sostanza del rapporto che sarà disciplinato secondo le norme codificate di quel contratto tipico36.
Spesso, è proprio la giurisprudenza che con le sue decisioni corregge il rudimentale assetto contrattuale posto dalle parti e, soffermandosi sulle clausole caratterizzanti il contratto atipico, modella un tipo contrattuale dai contorni ben precisi, offrendo così all’interprete un punto di riferimento che assume un’innegabile forza vincolante, seppure derogabile, ed al legislatore che si appresta a disciplinarlo il risultato della sua meditazione sul fenomeno.
È perciò importante sottolineare il fenomeno della tipizzazione social‐ giurisprudenziale in quanto, pur in mancanza di una disciplina legislativa del contratto, l’uniformità di applicazione di una certa regolamentazione convenzionale del rapporto rende meno incerto da un lato l’instaurarsi di tali rapporti contrattuali, e più affidabili dall’altro le relative aspettative delle parti a ricevere comunque una idonea tutela giuridica37.
Il tipo giurisprudenziale per divenire tipo legale necessita in ogni caso di comportamenti reiterati, ovverosia di una sorta di applicazione uniforme e costante di un determinato schema. È solo attraverso questo meccanismo di natura essenzialmente ripetitiva che, infatti, il modello si radica nel sistema sociale e dei traffici38.
Come osserva autorevole dottrina, ogni tipo, dopo la sua emersione social‐ giurisprudenziale, è destinato comunque a diventare tipo legale in occasione di una riforma legislativa39.
Dalla tipicità giurisprudenziale e da quella sociale, dunque, resterebbero esclusi soltanto i comportamenti individuali o comunque quei comportamenti ancora non socialmente generalizzati, comportamenti che, dal punto di vista della tipicità, sono stati qualificati per così dire “immaturi” e di cui si vorrebbe sostenere la non meritevolezza ex art. 1322, co. 2, c.c.
36 X. Xxxxxxxx, op. cit., 3.
37 X. Xxxxxxxx, op. cit. 2. Sono vari, osserva l’autore, gli esempi offerti dal codice civile di tipizzazione legale di contratti innominati, come ad esempio i contratti bancari, il contratto d’opera, il lavoro subordinato e la somministrazione.
38 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 4, secondo il quale l’applicazione uniforme e costante di un determinato schema è importante per la tipizzazione legale dello stesso. Per tale ragione, spesso i soggetti interessati alla tipizzazione di un determinato modello di contratto creano associazioni di categoria fra gli operatori del settore. Tali associazioni, solitamente, si prefiggono fra gli altri il compito di redigere uno schema contrattuale uniforme per regolare le materie disciplinate, come nel caso delle norme bancarie uniformi.
39 X. Xxxxx, Autonomia, op. cit., 796.
2.2 Il tipo sociale in particolare. L’emersione di un “tipo effettuale”
Abbiamo visto come la tipicità venga affiancata, e in un certo senso ampliata, dalla
c.d. tipicità sociale che, se da un lato rappresenta un elemento di apertura rispetto ai tipi codificati, dall’altro assume, almeno nella sua formulazione originaria, un significato limitativo nel senso di assorbire ed esaurire l’atipico non lasciando spazio per la creatività individuale al di fuori di costruzioni socialmente tipiche, pur sempre valutate in relazione alla loro utilità.
Un’attenta dottrina ha tentato di spiegare il significato della contrapposizione tra “sociale” e ”legale” con specifico riguardo ai contratti. L’espressione “sociale” contrapposta a “legale”, si osserva da parte di questa linea esegetica, sembrerebbe rinviare, almeno in prima battuta, ad una realtà non giuridica contrapposta alla giuridicità dei tipi legali.
In primo luogo, è possibile rilevare che, sebbene vincolati ad un giudizio di rilevanza sociale, i tipi sociali si presentano come tipi fenomenologici in quanto riguardano il piano della realtà così come essa appare. I tipi sociali, infatti, sono individuati attraverso criteri non facilmente determinabili e connessi a valori in un certo senso soggettivi come, appunto, la coscienza sociale.
Per contro, i tipi legali, risultando da una precisa scelta del legislatore svolta in base a criteri valutativi suoi propri, si pongono come tipi deontologici e, pur non essendo totalmente indicativi dell’assetto di interessi che le parti possono in concreto dare, costituiscono dei modelli di operazioni economico‐sociali filtrati attraverso l’astratta valutazione del legislatore. In tal senso, i tipi legali esprimono il dover essere della fenomenologia contrattuale.
Nella sostanza, secondo questa corrente dottrinaria, possiamo affermare che anche l’ordine sociale, rapportandosi all’ordine giuridico quale preliminare oggetto di valutazione e come condizione di rilevanza, implica una sua giuridicità definita da questa stessa dottrina come “residuale”40.
La dottrina, in tempi più recenti, nello studio di alcuni contratti speciali ha acquistato consapevolezza della non necessaria coincidenza tra il tipo legale ed il rispettivo tipo sociale evidenziando l’esigenza di una visione più realistica del
40 X. Xxxxxxx, op. cit., 798‐799, osserva che se la tipicità ha assunto in dottrina il ruolo di argine dell’atipico, l’appartenenza ai tipi sociali costituisce il requisito minimo di rilevanza dei tipi contrattuali extralegali, la cui giuridicità è appunto derivata dall’ordine sociale. Pertanto, ove si tratti di contratti non regolati dalla legge, si dovrà ricercare un assetto di interessi socialmente rilevante che ne giustifichi la considerazione da parte del diritto. Nelle fattispecie contrattuali messe a disposizione dal legislatore, invece, tale valutazione in termini di rilevanza sociale sembrerebbe esclusa in radice.
fenomeno contrattuale41. Viene sottolineata, in particolare, l’esigenza del giurista di ricercare la norma giuridica vigente sulla base dei dati dell’esperienza piuttosto che sulla base del mero riferimento alla legge scritta quale unica chiave di lettura della realtà giuridica.
Di fronte al tipo contrattuale legale, l’interprete dovrebbe porre in essere una propria ulteriore indagine in modo da vagliare la vigenza e la conformazione del tipo legale statico alla stregua di un criterio di effettività. Ciò significa che il giurista non dovrebbe arrestarsi ad una mera ricognizione del dato normativo sotto cui sussumere una realtà sociale mutata e per conseguenza riluttante ad essere costretta entro schemi superati.
A prescindere dalla contrapposizione tra contratti tipici e atipici, ci si riferisce qui in particolare ai contratti già legalmente tipizzati e, a tal riguardo, ciò che più preme rilevare è la possibilità che la stessa struttura tipica si sia progressivamente staccata dallo schema originario cristallizzato nella legge scritta, in relazione all’evoluzione del tipico assetto di interessi rinvenibile nella realtà42.
Ora, al di là della mera identificazione del dato dell’esperienza con la sua qualificazione giuridica, è opportuno trovare un criterio secondo cui ordinare il materiale empirico.
La trasformazione potenziale della realtà socio‐economica, infatti, implica l’individuazione della norma effettiva quale punto di partenza dell’attività conoscitiva dell’interprete. A tal fine, un’autorevole dottrina ha proposto come risultante del processo individuativo della norma applicabile descritto, la configurazione di un tipo effettuale che si rinnova continuamente a contatto con la realtà, ai fini della sua utilizzazione in sede ermeneutica e qualificante del caso concreto. Il tipo effettuale, secondo questo orientamento, trova il suo nucleo centrale nell’interesse che le parti intendono conseguire attraverso quella particolare struttura a cui esse si affidano, anche sotto il profilo delle aspettative circa il rischio contrattuale assunto43.
Questa dottrina, nel proporre una tipizzazione sulla base della causa concreta e degli elementi strutturali ad essa connessi, ha individuato alcuni criteri attraverso i quali appare possibile ricavare l’esperienza dei c.d. tipi effettuali.
41 X. Xxxxxxxxxx, Intuitus personae e tipo negoziale, in Studi in onore di Xxxxxxx‐Xxxxxxxxxx, Napoli 1972, 36 (dell’estratto), in cui il tipo legale viene confrontato con il tipo sociale corrispondente e, nonostante la non perfetta coincidenza dal punto di vista della fattispecie, al sottotipo sociale viene estesa la disciplina del tipo legale.
42 X. Xxxxxxx, op. cit., 802‐803. In sostanza, spiega l’autore, più che uno sconfinare nella sfera dell’atipico, il fenomeno descritto indica la trasformazione di uno stesso tipo legale e non può quindi essere assimilato o confuso con il diverso fenomeno della nuova progressiva emersione di figure contrattuali eventualmente prive di ogni precedente immediato riscontro nella prassi e nella tradizione.
43 X. Xxxxxxx, op. cit., 807.
Tra questi criteri, si manifestano utilizzabili innanzitutto le analisi dei documenti relativi al tipo contrattuale preso in considerazione. Attraverso l’esame delle contrattazioni individuali, dunque della prassi, l’interprete può scorgere delle costanti tipiche di disciplina delle regole pattizie suscettibili di essere colte nella loro attuale dimensione sociale.
Altro utile strumento è rappresentato dalle condizioni generali di contratto, dai contratti tipo e dagli usi negoziali. Soprattutto le clausole d’uso si rilevano di grande importanza tecnica ai fini dell’individuazione del tipo effettuale, in quanto costituiscono la valvola normativa che consente alla pratica consuetudinaria generalizzata di incidere sulla disciplina dei tipi legali. Altro importante criterio per la individuazione dei tipo effettuale risiede nella ricostruzione del materiale di fatto oggetto delle decisioni giurisprudenziali, in quanto dall’analisi delle fattispecie concrete portate innanzi ai giudici è possibile percepire delle costanti tipiche sia con riguardo ai profili strutturali che funzionali44.
2.3 La tipicità nel diritto applicato
Il principio dell’autonomia contrattuale, in base al quale le parti possono concludere contratti non appartenenti ai tipi legali, offre al giudice uno schema aperto: quello del contratto innominato. Tale schema, tuttavia, non viene adoperato come base per la costruzione di una disciplina fondata sulle norme della parte generale sui contratti e sulla volontà delle parti; la sua utilizzazione, in linea di massima, è meramente negativa. Al contratto innominato, cioè, si fa prevalentemente ricorso per escludere l’applicazione al caso concreto della disciplina di un contratto tipico45.
Un importante autore ha rilevato che la funzione degli artt. 1322 e 1323 c.c. sarebbe quella di impedire al giudice di dichiarare la nullità di un accordo per il solo fatto che esso non rientri in nessuno dei tipi specialmente previsti dalla legge, ed in questa proclamazione la regola di autonomia vedrebbe esaurirsi il suo compito46.
I tribunali, da parte loro, affermano sovente che il diritto riconosce i contratti innominati precisando, altresì, che il giudice, nell’accogliere un’azione fondata sul contratto, non è tenuto a qualificare anche il tipo contrattuale, a meno che tale indicazione risulti necessaria ai fini del decidere. Più generalmente, si può dire che la necessità della qualificazione si nega in sentenze che adempiono alla funzione
44 X. Xxxxxxx, op. cit., 807.
00 X. Xx Xxxx, Xx tipo contrattuale, Padova 1974, 11‐12.
46 X. Xxxxx, Autonomia, op. cit., 785 ss. Ne consegue, secondo l’autore, che il contratto atipico cui applicare le sole regole generali contenute negli artt. 1321‐1469 del codice civile, non ha fatto mai apparizione in un ufficio giudiziario.
puramente negativa di escludere l’appartenenza della fattispecie ad un tipo, onde sottrarre la fattispecie stessa alla disciplina speciale del tipo stesso47.
Nel caso in cui l’esclusione dell’applicabilità di una disciplina tipica consenta di risolvere la controversia, il giudice si arresta dunque alla qualificazione del contratto in esame come innominato; se però occorre individuare positivamente una disciplina, egli finisce per ricondurre il contratto ad un tipo48.
Poste queste premesse, osserviamo ora l’atteggiamento che la giurisprudenza assume quando si trova a dover operare dinanzi ad un contratto non ascrivibile, almeno apparentemente, ad un tipo specialmente previsto dalla legge.
Un’accurata analisi condotta da un’autorevole dottrina, ha posto in luce gli espedienti logici di cui la nostra giurisprudenza si avvale in tali casi, giungendo a dimostrare che la giurisprudenza, per cercare la norma da applicare, guarda alla disciplina dei singoli tipi e trascura invece tecniche e criteri alternativi alla tipizzazione, finendo sempre per ricondurre la fattispecie ad un tipo legale, o, in subordine, ad un tipo giurisprudenziale49.
Un primo espediente utilizzato consiste nella tipizzazione delle clausole, operazione preliminare alla tipizzazione dei contratti in quanto si tratta di un procedimento che, sostituendo alla variabilità del voluto la lista oggettiva delle clausole, prepara e rende possibile la tipizzazione stessa. La tipizzazione delle clausole, in particolare, consiste nella creazione di corrispondenze fisse tra voluto e conseguenze ulteriori, in conformità di certe regole giuridiche che non sono scritte se non nei repertori di giurisprudenza50. Talora, addirittura, l’effetto tipizzante si riconnette non già ad una clausola ma ad un elemento linguistico anche più ridotto, come ad esempio, al nome dato dalle parti all’atto: le parti intitolano la scrittura “lettera d’intenti” e la Corte di
47 X. Xxxxx, Autonomia, op. cit., 789, osserva che il diritto italiano non ha un’actio ex empto diversa dall’actio ex locato, ma finché la qualificazione del contratto non sia necessaria per decidere dell’applicabilità di questa o quella norma, il diritto italiano applicato conosce una generica azione da contratto. Il riconoscimento dei contratti innominati si esaurirebbe dunque nella possibilità di tacere il nome dell’azione.
00 X. Xx Xxxx, op. cit. 12.
49 X. Xx Xxxx, X. Xxxxx, op. cit., 444 ss.
50 X. Xxxxx, I tipi contrattuali, in Trattato di diritto privato diretto da X. Xxxxxxxx, X, Obbligazioni e contratti, II, Torino 2002, 576‐577. L’autore fornisce qualche esempio di come la giurisprudenza proceda alla tipizzazione delle clausole. Nel contratto di scuola guida di autoveicoli, per esempio, le parti possono volere imporre all’istruttore il solo dovere di insegnare, oppure l’obbligo di insegnare e l’ulteriore obbligo di vegliare sulla sicurezza dell’allievo; la giurisprudenza, in proposito, sceglie la seconda soluzione. E ancora, nel contratto di monta equina, può darsi che le parti abbiano i mira la prestazione dello stallone, ma può darsi che abbiano di mira la gravidanza, e la giurisprudenza tipizza la volontà dei contraenti nel primo dei due significa ipotizzati. Infine, se qualcuno fornisce notizie o informazioni commerciali, la volontà delle parti può implicare o meno un obbligo di ricerca ed una garanzia di esattezza delle informazioni, ma la Corte di Cassazione ne fa una quaestio iuris ed estende e limita la responsabilità alla serietà della ricerca.
Cassazione decide che con la scrittura le parti, nel corso di trattative precontrattuali, esprimono un proposito, e cioè mostrano l’intento di predisporre le clausole del futuro contratto nell’eventualità di una positiva conclusione delle trattative51.
Un secondo espediente consiste nel dare vittoria al tipo quando la clausola ad esso estranea sia in contrasto con la tipicità dei contratti, mediante l’affermazione secondo cui un rapporto avente qualche caratteristica non aderente alla fattispecie legale, in base al concetto della prevalenza degli altri elementi tipici, può ricondursi alla disciplina propria del rapporto tipico che gli elementi prevalenti concorrono a costituire.
La giurisprudenza, altresì, sovente ricorrere ad un procedimento logico che si serve dell’impiego dei singoli effetti elementari propri di contratti tipici, operando, in tal modo, una scissione dei vari effetti elementari che gli consente di costruire la figura contrattuale corrispondente al fine di ricomporre l’unità dell’intero e parlare così di contrato misto o complesso. La distinzione tra le due ipotesi, tuttavia, non produrrebbe alcuna rilevante conseguenza pratica in quanto entrambe le figure, secondo la regola della prevalenza, verrebbero ricondotte sempre ad un contratto tipico. La conseguenza, dunque, è che la qualificazione di un contratto come misto o complesso da parte del giudice costituisce il mezzo logico per incorporare un contratto nel tipo che più gli somiglia52.
In altri casi, si serve di differenti tecniche e afferma che il contrato misto è assoggettato alla disciplina unitaria che gli compete in ragione degli elementi prevalenti, ma non esclude l’applicazione delle norme proprie del contratto che è stato assorbito, e giungerà così ancora una volta a far ruotare la regola contrattuale sulla disciplina dei tipi.
Con la tecnica della decomposizione del contratto, inoltre, quando la tecnica dell’assorbimento non si adatta al caso concreto, la giurisprudenza abbandona l’idea dell’appartenenza del contratto ad un unico tipo e considera il contratto in una prospettiva atomistica; cosicché sottopone le diverse prestazioni al regime del contratto tipico più conveniente.
Possiamo osservare, dunque, che anche quando non si opera mediante la tecnica dell’assorbimento delle clausole atipiche e la incorporazione dei contrati misti e
51 X. Xx Xxxx, X. Xxxxx, op. cit., 447.
52 X. Xxxxx, I tipi, op. cit., 577‐578, il quale espone che il contratto complesso risulta dalla unificazione degli effetti di più contratti tipici presi nel loro contenuto globale (ad es. vendita più locazione), mentre il contratto misto risulta dalla riunificazione di clausole costituenti frammenti di più contratti tipici. Il contratto misto è soggetto alle regole del contratto tipico le cui componenti appaiono prevalenti. Il contratto complesso è assoggettato alle regole di quel contratto tipico di cui sono caratteristiche le prestazioni che prevalgono nello stesso contratto complesso. In sintesi, si vede dunque come entrambi si riducano sempre a contratti tipici secondo la regola della prevalenza.
complessi in un tipo, la tensione della giurisprudenza verso la tipizzazione è comunque costante. L’interprete, conseguentemente, non si domanda se il contratto sia o meno tipico ma si domanda direttamente a quale tipo appartenga questa o quell’altra fattispecie, e quando la sussunzione diretta della fattispecie nel tipo non può operare ed il contratto venga formalmente qualificato come atipico, allora si potrà ancora proclamare che la disciplina sua propria è quella del contratto tipico cui maggiormente si avvicina53.
L’analisi condotta da questa autorevole dottrina, ha dimostrato che l’atteggiamento della giurisprudenza è quello della tipizzazione e che i risultati più vistosi di tale tendenza sono rappresentati dai naturalia negotii, ovverosia, da quegli effetti che, pur non dipendendo dalla volontà delle parti, si reputano conseguenti a tale tipo di contratto finché le parti non li abbiano esclusi. In sostanza, ascrivere un contratto ad un determinato tipo piuttosto che ad un altro significa attribuirgli alcuni naturalia negotii invece di altri54.
Le ragioni di tale forzata tendenza alla tipizzazione, secondo la dottrina che negli anni si è mossa lungo il percorso così tracciato dalla giurisprudenza, sono molteplici ma, in estrema intesi, possiamo dire che la riconduzione al tipo servirebbe da un lato a completare la disciplina del contratto che le parti abbiano lasciato lacunoso, e dall’altro a controllare l’operazione economica posta in essere dai contraenti, vale a dire a controllare la meritevolezza dell’interesse che le parti vogliono conseguire55.
Dunque, se è vero che le parti possono anche scegliere di concludere un contratto atipico, cioè fuori dai tipi legali, è anche vero che, una volta determinatasi le parti per il contratto atipico, non avviene che il tipo sia completamente abbandonato; il contratto atipico, secondo alcuni autori, per via delle operazioni qualificatorie della giurisprudenza, viene ricondotto con i vari procedimenti analizzati al tipo più simile o vicino, cosicché diverrebbe difficile, se non impossibile, rinvenire contratti autenticamente atipici56.
Questo atteggiamento, in tal modo, finisce per togliere peso ai già rari casi in cui si fa riferimento al contratto innominato e, altresì, per limitare la rilevanza dei tipi sociali e giurisprudenziali i cui nomina risultano spesso essere piuttosto l’eco delle prime
53 X. Xx Xxxx, X. Xxxxx, op. cit., 451.
54 X. Xxxxx, I tipi, op. cit., 578. La tipizzazione, afferma l’autore, sarebbe gratuita e inutile se non comportasse conseguenze le quali sono rappresentate, innanzitutto, dai cosiddetti naturalia negotii. Ciò viene a determinare una sorta di finalismo, di valutazione orientata teleologicamente nella qualificazione del contratto. Si qualifica il contratto in questo o in quel modo perché si desidera che esso produca questo o quest’altro naturale, questa responsabilità o quella garanzia.
55 X. Xxxx, op. cit., 520.
56 X. Xxxx, op. cit., 576.
controversie sulla loro natura, poi superate da una riduzione al tipo legale, che non tipi contrattuali i quali vivano di vita autonoma fuori dell’elenco dei tipi nominati57.
2.4 Sintesi sul regime dei tipi nel sistema italiano
Alla luce di quanto esposto, dunque, il quadro generale del regime dell’atipicità nel diritto italiano viene a costituirsi nel seguente modo.
In primo luogo, nessun contratto è nullo per il solo fatto che non appartiene ad un tipo legale.
Inoltre, i tipi legali esistono e consentono al legislatore la distribuzione di effetti legali (naturali) propri di ogni “tipo” contrattuale.
Riassumendo, viene trattato come appartenente ad un tipo legale:
‐ il contratto che ne riproduce puntualmente gli elementi essenziali indicati dalla legge senza alcuna variazione;
‐ il contratto che ne riproduce gli elementi essenziali con aggiunta di clausole atipiche;
‐ il contratto analogo a quello nominato;
‐ il contratto che appartiene ad un tipo socialmente o giurisprudenzialmente approvato, tutte le volte che il tipo sociale viene poi ridotto ad un tipo legale;
‐ ogni altro contratto il quale non appartenga ad un tipo sociale o giurisprudenziale, in quanto viene analizzato e ricostruito dopo aver accertato quale tipo sia prevalente nelle clausole che lo compongono, o a quale tipo legale si riconduca quella singola clausola o prestazione aggiunta, autonoma rispetto alla causa del contratto.
Come abbiamo visto, inoltre, anche il valore di ogni singola clausola tende ad essere stabilito in modo generale e astratto, ad essere dunque in certo modo cristallizzato, in modo che la presenza di queste clausole costituirà ulteriormente il sintomo dell’appartenenza del dato contratto a questo o a quell’altro tipo. Là dove il contratto sfugga invece alle strette maglie dei tipi legali, si costruisce un “tipo” preterlegale in cui iscriverlo.
57 X. Xx Xxxx, op. cit., 13, osserva che il giudice finisce per pervenire ad una tipizzazione anche dopo aver affermato di trovarsi di fronte a un contratto innominato. Se si tratta di una tipizzazione negativa, tendente cioè ad escludere l’applicazione al contratto in esame della disciplina del tipo legale, il giudice si arresta all’affermazione dell’atipicità. Se occorre invece trovare una disciplina, il contratto, pur dichiarato innominato, viene ricondotto ad un tipo legale. E ciò avviene anche se al contratto atipico è attribuito, o recepito dalla pratica, un nomen nuovo. Troviamo così sentenze che parlano di contratto di campeggio per applicare la disciplina del contratto d’albergo, di contratto di ingaggio sportivo per inquadrarlo poi nell’appalto.
Ne emerge dunque il peculiare valore del principio dell’atipicità dei contratti italiani che, secondo autorevole dottrina, va inteso come competenza della giurisprudenza a riconoscere nuovi tipi creati dalla pratica degli affari. Esso, però, non significa che si possano dare contratti non appartenenti ad alcun tipo, regolati dai soli artt. 1321‐1469 del codice civile58.
3. Il contratto atipico e l’interesse meritevole di tutela
3.1 Causa e tipo
Uno dei principali itinerari percorsi dagli interpreti della teoria del contratto, è segnato dalla identificazione della nozione di causa con la funzione che definisce il tipo di negozio e con la loro conseguente inscindibilità.
Questo modello di approccio rappresenterebbe uno degli sbocchi della nozione di causa oggettiva che, nelle intenzioni della dottrina, doveva servire anche a distinguere tra causa e motivi, poiché la causa doveva apparire come l’elemento sempre ricorrente in una serie di negozi riconducibili a determinate operazioni economico‐sociali59.
L’accostamento fra causa e tipo, può giustificarsi nella logica dell’affermazione secondo cui ogni tipo ha una funzione economico‐sociale in quanto nella sua struttura riassume una determinata operazione economica, quindi, intesa la causa come la funzione economica che si vuole realizzare con un determinato assetto di interessi, una volta che questa operazione si presenti come tipizzata è allora possibile individuare uno scopo astrattamente tipico.
Tuttavia, l’art. 1322 c.c. non stabilisce una necessaria simmetria tra interesse realizzabile mediante il contratto e strutture tipiche, dunque tra interesse perseguito e interesse tipizzato, poiché il contratto può accogliere nel suo schema anche la realizzazione di interessi nuovi e diversi da quelli fatti propri dalle strutture tipiche, a condizione che, tuttavia, rispondano ad un interesse meritevole di tutela.
I problemi posti dal tipo legale sono del tutto peculiari e non hanno nulla a che vedere con la causa del contratto, che va ravvisata avuto riguardo ai concreti interessi che i privati intendono perseguire con la concreta operazione economica. Infatti, se l’indagine sul tipo è essenzialmente astratta e statica, quella sulla causa è esclusivamente concreta e sempre dinamica. Con il tipo si pone un problema di configurabilità della prestazione, con la causa si pone un problema di liceità degli interessi perseguiti. Ancora, con il tipo si opera un raffronto statico tra schema
58 X. Xx Xxxx, X. Xxxxx, op. cit., 459‐460.
59 X. Xx Xxxx, Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Xxxxxxxx, XX, Xxxx 0000, 6.
costruito dai privati e schema disciplinato dal legislatore, mentre con la causa si opera un raffronto dinamico tra interessi perseguiti dai privati e interessi ritenuti leciti e quindi protetti dall’ordinamento. Infine, con il tipo si deve avere riguardo allo schema astratto, con la causa si deve indagare sui concreti risvolti dell’operazione economica vista nella sua complessità, compresi gli aspetti soggettivi ed oggettivi che sfuggono del tutto ad una indagine condotta per schemi e per tipi60.
È così che la valutazione dell’atto si sposta dal piano della causa al piano dell’interesse; la tipicità di un contratto, infatti, non rappresenta di per sé un sicuro indice della sua meritevolezza dovendosi, piuttosto, fare riferimento alla natura dell’interesse perseguito in concreto dalle parti con quel particolare contratto. Operando in tal modo, si riuscirebbe a superare altresì il problema dell’illiceità della causa del negozio tipico, giacché la tipicità finisce per individuare non un profilo di meritevolezza dell’interesse ma di disciplina da applicare per la realizzazione di quell’interesse61. La causa, dunque, diviene la funzione economico‐individuale del contratto in quanto riguarda una operazione che esprime esigenze ed interessi di uno o più individui.
Chi identifica la causa con la funzione economico‐sociale, dunque con il tipo, nega infatti che possa porsi un problema di liceità della causa in presenza di contratti tipici perché non sarebbe possibile concepire un tipo legale contra legem. Ma al di là dell’astratta definizione del tipo c’è la particolare applicazione che i privati possono fare dello schema; e limitare la previsione di cui all’art. 1343 c.c. ai soli contratti atipici è allora del tutto arbitrario62.
Occorre ora dedicare alcune considerazioni in merito alla causa del contratto innominato. Al riguardo, osservano alcuni autori che, in quanto fissata dalle parti e non dagli usi, la causa del contratto innominato verrebbe a coincidere con il cosiddetto intento empirico, ossia con lo scopo pratico perseguito dalle parti63.
È importante sottolineare come anche la causa del contratto innominato debba essere determinata, in quanto essa, in sostanza, contiene l’intera disciplina del contratto. Potrebbe far pensare il contrario la considerazione che nel contratto
60 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 810‐811, osserva che il tipo legale intende corrispondere all’id quod plerumque accidit, a ciò che di regola accade, senza alcuna pretesa di racchiudere in sé la sintesi di tutti gli interessi socialmente utili. Alla tipicità legale si perviene attraverso la tipicità sociale rappresentata dalla tipicità giurisprudenziale, perché è a livello di giudizio che si manifestano le reali esigenze dei traffici e i reali problemi che il legislatore è tenuto a risolvere con una disciplina uniforme. Il tipo giurisprudenziale per divenire legale presuppone dunque una certa reiterazione di comportamenti, una pratica generale che pur se non assurta a consuetudine ne potrebbe costituire la base, dettando già una regola.
61 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 5.
62 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 811.
63 X. Xxxxxxxx, op. cit., 106.
nominato la causa è fissata dalla legge mentre per il contratto innominato, che per definizione non è disciplinato dalla legge in modo organico, la causa è fissata dalle parti o dagli usi che si siano eventualmente formati su di essa. Orbene, che la causa nel contratto innominato abbia questa diversa origine (causa atipica), non significa che essa smetta di essere quell’elemento obiettivo e costante che è quando il contratto è nominato, e soprattutto, non significa che possa esservi un contratto innominato senza una sua causa64.
Xxxxxxx autorevole dottrina che, in sostanza, vi sarebbe solo una differenza fra la causa di un contratto nominato e la causa di un contratto innominato, e consisterebbe nel fatto che, nel primo, la causa riceve riconoscimento diretto dalla legge, mentre nel secondo tale riconoscimento è solamente indiretto ed è doppiamente subordinato al rispetto del limite di validità, imposto dalla legge stessa, e all’essere il contratto diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ex art. 1322
c.c. Quando la causa risponde a questi requisiti, però, il contratto innominato è assistito da azione e può essere fatto valere in giudizio al pari del contratto nominato. E sarebbe proprio questa la portata pratica del riconoscimento legislativo del contratto innominato che è sancito dal cpv. dell’art. 1322 c.c.65
3.2 Gli interessi meritevoli di tutela. Il secondo comma dell’art. 1322 c.c.
Il secondo comma dell’art. 1322 c.c. riconosce ai privati la possibilità di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Il potere di integrale creazione della disciplina di singoli contratti innominati costituisce l’estrema concessione che l’ordinamento giuridico fa all’autonomia privata, autonomia che, tuttavia, è sottoposta ai limiti stabiliti dalla legge.
Il limite all’autonomia contrattuale, in particolare, tiene conto degli specifici interessi che le parti intendono soddisfare attraverso quel determinato schema contrattuale atipico. A tal riguardo, quello della meritevolezza dell’interesse perseguito dalle parti nel contratto atipico è stato definito il problema centrale dell’autonomia
64 X. Xxxxxxxx, Contratti atipici, Padova 2006, 6. L’autore specifica che i contratti tipici sono dotati di una causa tipica mentre i contratti atipici sono dotati anch’essi di una causa, intendendosi per causa lo scopo economico‐sociale verso il quale essi sono diretti, ma questa è atipica perché nuova e diversa rispetto a ciascuna di quelle che sono proprie dei contratti nominati.
65 X. Xxxxxxxx, op. cit., 105. Da ciò ne deriva, secondo l’autore, che mentre la causa del contratto nominato non può di per sé essere illecita perché prestabilita dalla legge, e quindi, per definizione meritevole di tutela, la causa del contratto innominato può essere direttamente illecita o anche in fraudem legis ex art. 1344 c.c. in quanto assegnata dalle parti.
privata in quanto coinvolge, fra l’altro, il tema della definizione del rapporto tra libertà dei privati e valori dell’ordinamento66.
Potrebbe sembrare, a prima vista, che in tal modo si prospetti un ulteriore requisito da aggiungersi ai requisiti generali richiesti per i contratti nominati, ed in ipotesi alla causa, a meno di non voler ritenere che il criterio della meritevolezza degli interessi sia destinato ad assumere un ruolo nell’intero ambito dei contratti. Tuttavia, ci pare di poter osservare sin da ora che qui il legislatore si riferisce innegabilmente ai contratti innominati, prendendo poi anche in considerazione un’esigenza ed un criterio che valgono per l’intera materia del contratto. Solo che per i contratti nominati il giudizio favorevole sulla loro ammissibilità appare già implicito nella previsione e disciplina della loro funzione (causa) da parte della legge; mentre per i contratti innominati la valutazione deve effettuarsi di volta in volta67.
Il rapporto tra tipo contrattuale e principio di autonomia è dunque collegato anche con il controllo giudiziale del contenuto del contratto. Tale collegamento ha dato luogo a un cospicuo dibattito in dottrina circa il problema se il controllo del giudice sui contratti atipici debba o meno esplicarsi mediante una valutazione più approfondita di quella riservata ai tipi previsti dalla legge. Secondo una certa concezione interpretativa, infatti, il contratto tipico sarebbe esente dalla necessità di un controllo sulla sua causa, la quale per definizione sarebbe sempre lecita, in quanto si tratta di uno schema legale creato dall’ordinamento.
L’indagine più attenta sul contratto atipico, ha affrontato il tema dell’interesse meritevole di tutela partendo dall’idea che il contratto atipico pone un problema di produzione normativa, il cui controllo deve essere effettuato facendo ricorso a norme che si trovino in una posizione di superiorità rispetto a quella di cui all’art. 1322 c.c. e che, quindi, si dovesse far richiamo ai principi generali dell’ordinamento, quali quelli dettati soprattutto nella Costituzione68.
66 G.B. Xxxxx, Meritevolezza degli interessi e utilità sociale, in Riv. dir. comm., II, 1971, 87.
67 X. Xxxxxxxxxxxx, sub Art. 1322. (Autonomia contrattuale), in Commentario del codice civile Scialoja‐ Branca, Dei contratti in generale artt. 1321‐1352, Bologna‐Roma 1970, 42. L’autore precisa che questo non significa che nell’ambito dei contratti innominati si debba procedere in ogni caso ad una verifica in concreto degli interessi perseguii dalle parti. Infatti, nella maggioranza dei casi i contratti, pur non disciplinati dalla legge, appaiono già ampiamente diffusi e possiedono spesso anche un proprio nomen nella prassi del traffico. In altri termini, si propongono come contratti in tal senso già tipizzati (tipicità
c.d. sociale), per i quali il riscontro della loro attitudine a soddisfare interessi meritevoli di tutela si effettua al livello di uno schema astratto, ed incontra esito positivo, senza alcun bisogno di un ulteriore controllo, se risulta per l’appunto che a quello strumento contrattuale si ricorre per realizzare un certo tipo di funzione che la coscienza giuridico‐sociale considera positivamente. In caso di giudizio sfavorevole, invece, si rimane sul piano di un accordo di fatto o addirittura riprovato dal diritto.
68 X. Xxxxxxxx, Il contratto atipico, Milano 1981, 175 ss.
In verità, come ha affermato un importante autore, il giudizio di meritevolezza si risolve in un giudizio sull’idoneità dell’assetto privato a derogare lo schema della tipicità legale; in tal senso, il giudizio non può che essere reso sulla base di parametri obiettivi i quali, tuttavia, fanno riferimento proprio alla volontà dei privati69.
3.3 Interessi meritevoli di tutela e liceità
Xxxxxx, in ordine al significato da attribuire alla formula “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” la dottrina dominante ritiene che i criteri dei quali l’ordinamento si avvale per valutare la meritevolezza dell’interesse sono quelli enunciati dall’art. 1343 c.c.: norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Pertanto, il giudizio di meritevolezza si risolverebbe in sostanza nel giudizio sulla liceità del contratto atipico.
A tale interpretazione si è obiettato di avere il demerito di vanificare la portata dell’art. 1322 c.c. che, in tal modo, si risolverebbe in una mera ripetizione del contenuto dell’art. 1343 c.c., mentre la liceità della causa e la meritevolezza dell’interesse esprimono due giudizi differenti: il primo attiene alla idoneità dell’atto, il secondo alla misura della legittimità del potere e del relativo esercizio. Il giudizio di liceità della causa ex art. 1343 c.c. andrebbe dunque distinto da quello della meritevolezza dell’interesse ed esteso anche ai contratti tipici, giacché l’esistenza di schemi tipici preconfezionati non ha riguardo all’esistenza di una loro conformità ai principi dell’ordinamento ma all’elaborazione dei nomina juris. Di qui anche la necessità della distinzione tra giudizio che attiene al tipo da quello che attiene alla causa70. In questo senso, dunque, la meritevolezza opera a livello di tipo e non a livello di causa, perché in questa fase deve solo valutarsi se lo schema astratto è accettabile o meno sul piano giuridico, e tale indagine, chiaramente, non deve essere compiuta in presenza di un contratto tipico. Il giudice deve solo osservare lo schema astratto ideato dai contraenti e verificare se esso abbia un significato economico‐sociale in termini di
69 X. Xxxxxxx, Atipicià del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., I, 1978, 67. La volontà cui l’autore fa riferimento è quella volontà che si esprime attraverso le modalità e con il rispetto delle forme dettate dall’ordinamento giuridico al fine di concedere tutela e rilevanza alla volontà privata. La volontà pattizia, dunque, può sostituire un certo modello astratto di regolamentazione rispondente ai reali interessi privati nei limiti in cui sia una volontà giuridica.
70 X. Xxxxxxx, Xxxxxxxx, op. cit., 62. Secondo l’autore, il giudizio circa la meritevolezza dell’interesse sarebbe anche quantitativamente diverso da quello di liceità, avendo il primo ad oggetto la valutazione dell’idoneità dello strumento elaborato dai privati ad assurgere a modello giuridico di regolamentazione degli interessi, vista l’assenza di una preventiva opera di tipizzazione legislativa intesa come mera predisposizione di una certa serie più o meno variabile di schemi, il che si risolverebbe nella conformità dell’atto a tutte quelle norme inderogabili di carattere procedimentale e formale che attengono al riconoscimento dello strumento pattizio come strumento giuridico.
scambio di utilità sociale, cioè una propria funzione da svolgere, nel senso di essere idoneo ad assurgere a tipo normativo ed in tal senso, se si vuole, potrà parlarsi di utilità sociale in quanto lo schema astratto sarà utilmente adottato dalla collettività. La meritevolezza sarebbe dunque certa in presenza di tipicità sociale, sempre che non si tratti di vicenda di cui l’ordinamento giuridico si disinteressi.71
A questa prospettazione si replica che meritevolezza degli interessi non può significare rilevanza degli stessi, alla stregua anche dell’impegnatività dello schema attraverso il quale i privati li hanno regolati, ma significa conformità degli interessi ai criteri stabiliti dall’ordinamento giuridico72. La formula “meritevolezza degli interessi”, invero, esprimerebbe il risultato di un giudizio di idoneità della regola, che di tali interessi si fa portatrice, ad ottenere tutela dall’ordinamento giuridico e dunque sarebbe il risultato di un giudizio in cui viene constatata la conformità degli interessi ai criteri di valutazione di tale meritevolezza fissati dal legislatore. Il profilo della rilevanza, invece, scaturirebbe dalla constatazione che tali interessi e la loro regolamentazione abbiano avuto, nel minimo richiesto di completezza strutturale, quel tanto di oggettivazione che possa consentire loro di essere percepiti dall’ordinamento73.
Secondo un’importante dottrina, il campo di operatività del principio di libertà dei privati di creare schemi negoziali diversi da quelli codificati andrebbe risolto nel senso di una generalizzazione del principio medesimo che superi il dilemma tra giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c. e giudizio di liceità ex art. 1343 c.c. Ciò nel senso che i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, identificati con i principi costituzionali, offrono una serie di parametri utilizzabili in sede di giudizio di meritevolezza, cioè di apprezzamento della giuridicità e della conseguente tutelabilità di un atto giuridico non disciplinato da norme positive, in quanto il giudizio di meritevolezza non tenderebbe a stabilire la congruità fra due regole ma a valutare se ad un fatto od atto possa essere dato l’attributo di giuridico74.
3.4 Interessi meritevoli di tutela e tipicità sociale
Secondo altra impostazione, l’autonomia privata deve sottostare a un controllo della coscienza sociale, dunque del giudice, circa il punto se essa persegua interessi conformi a certe esigenze elementari della socialità e pertanto meritevoli di tutela
71 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 817.
72 G.B. Xxxxx, Ancora in tema di meritevolezza dell’interesse, in Riv. dir. comm., I, 1979, 5.
73 G.B. Xxxxx, Ancora in tema di meritevolezza, op. cit., 5. Il risultato, dunque, è che il problema della rilevanza sarebbe precedente, autonomo e non coincidente con quello della meritevolezza.
74 X. Xxxxxxxx, op. cit., 40.
giuridica. Tale controllo, rivelerebbe il suo esito positivo nella ripetizione di quel determinato tipo e nella sua diffusione, dunque nella formazione di tipi di carattere economico sociale75.
Tale teoria, tuttavia, ha ricevuto critiche da parte di quella dottrina che ha rilevato come accanto ai tipi legali e ai tipi sociali possano sorgere schemi non corrispondenti ad alcun tipo, né sociale né legale, in quanto diretti a soddisfare particolari esigenze dei soggetti che li pongono in essere. L’ordinamento, in tali ipotesi, si riserverebbe solamente una valutazione dell’interesse che le parti perseguono attraverso quelle strutture, non preoccupandosi della novità dello schema e della sua eventuale atipicità. Osserva ancora questa dottrina che, nella valutazione della meritevolezza dell’interesse, sicuramente influirà la valutazione positiva che di quel tipo di atto e dell’interesse che ad esso corrisponde è stata data nella realtà sociale, ma affinché un atto individuale possa inserirsi nell’ordine giuridico e trovare in esso tutela non occorre una valutazione sociale positiva né, allo stesso tempo, una valutazione sociale positiva è sufficiente affinché l’interesse sia considerato meritevole di tutela76.
3.5 Interessi meritevoli di tutela e utilità sociale
Secondo la dottrina che individua nella causa la funzione economico‐sociale del contratto, il secondo comma dell’art. 1322 c.c. obbligherebbe il giudice ad un controllo dell’interesse perseguito dai contraenti che intanto sarebbe meritevole in quanto fosse anche utile socialmente. In tal modo, si dà vita ad una sorta di funzionalizzazione degli interessi privati che sarebbero protetti solo se coincidenti con gli interessi dell’intera collettività, dunque con gli interessi pubblici77.
Nel periodo storico improntato all’ideologia fascista, in particolare, il passaggio dalla tipicità alla utilità sociale avvenne per confortare determinate impostazioni di quell’ideologia e funzionalizzare quindi il contratto al perseguimento dei fini economici del corporativismo. La meritevolezza dell’interesse, dunque, oltre a significare giudizio su una certa tipicità sociale, divenne anche giudizio di conformità alla “coscienza sociale”, alla economia nazionale ed ai principi generali dell’ordinamento giuridico
75 X. Xxxxx, Teoria generale, op. cit., 322 ss.
76 G.B. Xxxxx, Causa e tipo, op. cit., 224‐225. L’autore fa l’esempio dei sindacati azionari di voto, i quali trovano larga applicazione nella realtà sociale essendo considerati socialmente utili, e pure, almeno secondo la nostra giurisprudenza, non realizzano un interesse meritevole di tutela nell’ordinamento giuridico.
77 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 815;
fascista78. E proprio per assecondare l’ideologia produttivistica del corporativismo si denuncia la non meritevolezza di tutela giuridica di quei contratti che perseguono interessi giudicati socialmente futili o non rispondenti all’economia nazionale e all’ordine pubblico.
Il più autorevole tra i fautori di questa teoria, sosteneva che la libertà di dar vita a schemi atipici non va esercitata in modo arbitrario ma deve restare all’interno di determinate costruzioni tipiche dei traffici. Ciò significa che l’interesse individuale sporadico non può essere protetto perché solo le pretese sociali costanti che hanno già ricevuto una tipizzazione in chiave sociale meritano tutela giuridica.
A ben vedere, così impostata l’autonomia privata non sarebbe tutelata se non in quanto persegua finalità che si inquadrino in quelle proprie dello Stato; in tal modo, l’interesse privato si dissolve in pubblico e il contraente diviene un funzionario dello Stato.
Pur con la caduta del fascismo, un tale inquadramento interpretativo della formula contenuta nell’art. 1322, 2° co., c.c., non è stato completamente superato in quanto si è voluto ravvisare nell’art. 41, 2°co. Cost., il riconoscimento della rilevanza costituzionale della libertà contrattuale in termini di utilità sociale, non più nel significato produttivistico dell’ideologia corporativistica ma come raggiungimento del benessere collettivo.
Tale teoria è stata criticata da quella dottrina che, nell’intento di dimostrare che l’art. 1322 c.c. non può essere veicolo per funzionalizzare gli interessi privati, ne ha rilevato la inesistenza della rilevanza pratica. Quanto osservato riguardo alle fattispecie giurisprudenziali, infatti, dimostra che il contratto atipico in senso assoluto non esiste e la spiegazione sta nel fatto che qualsiasi interesse che abbia una certa rilevanza economica, per il fatto stesso di nascere e svilupparsi all’interno dei traffici commerciali, non può essere sporadico e puramente individuale ma è comune ad una molteplicità di soggetti. Pertanto, è inevitabile che detto interesse finisca per raccordarsi con uno dei tipi legali che tali generali interessi tutelano79.
Questa stessa dottrina ha osservato che quando il legislatore ha preteso che l’interesse dei contraenti fosse meritevole di tutela non ha inteso porre un problema di verifica della utilità sociale dei fini perseguiti, cosicché ne derivasse una funzionalizzazione, ma ha inteso esplicitamente ribadire l’importante principio in base al quale l’ordinamento non protegge qualsiasi interesse privato ma solamente quello
78 X. Xxxxxxxx, op. cit., 6. Non va dimenticato, ricorda l’autore, che lo stesso art. 1322, comma 1, c.c., nella sua formulazione originaria limitava la libertà delle parti nella determinazione del contenuto del contratto al rispetto non solo della legge ma anche delle norme corporative.
79 X. Xxxxxxx, Manuale, op. cit., 816.
che non sia indifferente giuridicizzare, di modo che risulti certa la volontà di vincolarsi secondo regole non esclusivamente morali e sociali80.
4. Disciplina
4.1 La disciplina generale del contratto atipico. L’art. 1323 c.c.
Atteso che i contratti innominati si incontrano con grande frequenza nella pratica, occorre ora domandarsi dove se ne attinga la relativa disciplina giuridica, posto che la legge non la fornisce.
Il legislatore, infatti, opera un rinvio alle norme generali contenute nel titolo II del libro IV c.c., ma non offre alcun conforto circa la regolamentazione da seguire per i contratti atipici, e questo è appunto il problema cardine che si pone per questa particolare categoria.
I nostri giudici, dopo aver qualificato un contratto come atipico, hanno quasi sempre deciso il conflitto che è stato loro sottoposto in base alla disposizione che la legge ha dettato per un contratto tipico. Questa tendenza, in qualche modo, risente del fatto che l’ordine giuridico mira a perpetuarsi su basi tendenzialmente sicure e mira a soddisfare l’esigenza di evitare che si creino vuoti di tutela81.
Talvolta si seguono percorsi più generali, fra i quali è diffuso il riferimento al contratto con causa mista e la ricerca di criteri orientativi quali la combinazione delle concorrenti discipline tipiche o il primato per assorbimento di un tipo al quale si attribuisce una prevalenza.
Il problema è soprattutto di ordine normativo e rappresenta una questione sempre attuale sebbene, dal punto di vista quantitativo, sia ora diminuito di importanza a seguito della riforma legislativa del 1942 che ha assunto fra i nominati numerosi contratti che prima si classificavano innominati. Così è avvenuto ad esempio per la somministrazione, l’affitto, il contratto di lavoro o la cessione di contratto. Altri
80 X. Xxxxxxx, Atipicità, op. cit., 69. L’utilità sociale, secondo l’autore, è un criterio che deve essere ridimensionato. Si potrà dire, eventualmente, che lo schema ideato dai privati è inidoneo in quanto l’ipotetica futilità è sintomo e indizio di una assenza di reale, seria e definitiva volontà giuridica delle parti, e non già perché asociale. Dunque, si può parlare di utilità sociale come criterio di giudizio circa l’impegnatività giuridica del vincolo a livello di autodeterminazione, non già come criterio di meritevolezza. Lo schema contrattuale, pertanto, non deve essere utile socialmente ma impegnativo anche ad una stregua sociale.
81 U. Breccia, sub Art.1322. (Autonomia contrattuale) e Art. 1323. (Norme regolatrici dei contratti), in Commentario del codice civile diretto da X. Xxxxxxxxx, Dei contratti in generale a cura di X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxx, artt. 1321‐1349, Milano 2011, 160‐161, il quale sostiene che la difficoltà di trovar traccia del contratto realmente atipico nelle aule dei tribunali, potrebbe allora spiegarsi in base alla necessità che non sia denegata giustizia a causa di un’incertezza connessa alla sensazione del vuoto normativo.
contratti, come il contratto di edizione o di rappresentazione teatrale, hanno invece trovato la loro disciplina in una legge complementare. Il problema, tuttavia, non è concettualmente superato poiché la materia del contratto innominato è inesauribile: l’uso dei traffici e dunque la pratica, al fine di assecondare l’appagamento di interessi nuovi, va programmaticamente escogitando o inconsapevolmente creando tipi di contratto ignoti all’ordinamento giuridico scritto82.
L’art. 1323 c.c. sottopone i contratti innominati alla normativa del titolo II del codice civile, ovvero dei contratti in generale contenuta negli artt. 1321‐1469 c.c., ma la loro regolamentazione non si esaurisce in questa normativa che si riferisce, essenzialmente, alla struttura negoziale più che al suo contenuto83.
Oltre alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, dunque, la norma pone un’ulteriore limitazione all’autonomia contrattuale. Il richiamo specifico dell’art. 1323
c.c. sta ad evidenziare come la mancanza di una disciplina specifica del tipo non esime le parti dal rispettare quelle norme imperative di carattere generale che vigono sia per i contratti tipici sia per quelli atipici.
Il generico rinvio alle norme generali, tuttavia, non pare sia sufficiente ai fini di una completa regolamentazione dei contratti di cui trattasi. Nella pratica, infatti, possono presentarsi ipotesi di necessaria integrazione della volontà delle parti, nel caso in cui queste non facciano riferimento ad un regolamento contrattuale specifico; perciò l’integrazione stessa potrebbe restare lettera morta per mancanza degli strumenti giuridici idonei ad hoc.
Alcuni hanno prospettato la possibilità di utilizzare le parti di più contratti che di volta in volta sono individuati come i più prossimi a quello che si va realizzando. È da considerare, infatti, che nella maggior parte dei contratti atipici già esistono geneticamente frammenti di altri contratti disciplinati dal legislatore, perciò l’indagine circa la loro reale qualificazione e della conseguente disciplina da utilizzare, si riduce anche a problemi di semplice analogia.
Allo stato attuale della nostra legislazione, dunque, non possiamo in assenza di uno specifico regolamento contrattuale delle singole fattispecie atipiche non fare riferimento ad altre figure che presentino una delineata disciplina normativa. Del resto, anche la giurisprudenza ritiene che ai contratti non espressamente disciplinati dal codice civile possano legittimamente applicarsi, oltre alle norme generali in tema di contratti, le norme regolatrici dei contratti nominati quando il concreto atteggiarsi del
82 X. Xxxxxxxx, op. cit., 99.
83 X. Xxxxxxxx, op. cit., 175.
rapporto faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla seconda serie di norme84.
4.2 La disciplina specifica. Il metodo tipologico
Nell’affrontare la problematica relativa alla disciplina applicabile ad un determinato contratto che non appartiene ai tipi aventi una disciplina particolare, si è fatto ricorso, soprattutto ad opera dei giudici, al c.d. metodo tipologico procedendo alla tipizzazione ora soltanto di particolari clausole, ora anche dell’intero contenuto contrattuale, facendone derivare specifiche conseguenze giuridiche.
Generalmente, la tipizzazione giurisprudenziale si limita a recepire un certo “tipo sociale”85 diffusosi nella pratica, ma non è inusuale che l’intervento del giudice chiarisca, modifichi, integri quelle clausole o quello schema contrattuale, oppure, dichiarando l’illiceità di alcune clausole o dell’intera regolamentazione pattizia, crei un nuovo tipo86 .
Il punto di partenza del metodo tipologico consiste nella constatazione dell’impossibilità di configurare un dato qualificante unitario, e nella conseguente rinuncia alla pretesa di individuare un unico elemento tipizzante dotato di operatività generale.87
Con tale strumento, sviluppato da una parte della dottrina allo scopo di superare l’orientamento tradizionale che vedeva nella causa l’unico elemento di individuazione del tipo, si opera una contrapposizione tra tipo e concetto, nel senso che, pur essendo entrambi due modi di rappresentare la realtà, il primo esprime lo sforzo di avvicinarsi quanto più possibile al fenomeno osservato, mentre il secondo rappresenta il risultato di un’operazione gnoseologica diretta a definire con un’astrazione l’essenza identificante della situazione considerata. Il tipo, inoltre, a differenza del concetto, non è chiuso ma aperto, non può essere definito ma descritto, non è rigido ma elastico88.
Nella definizione della disciplina applicabile al contratto atipico, spesso il metodo tipologico si risolve nella composizione in contratto unitario, misto o complesso, di
84 X. Xxxxxxxx, op. cit., 6, Cass. 23.02.2000, n. 2069.
85 L’emersione del concetto della “tipicità sociale”, che si deve all’opera di Xxxxxx Xxxxx, è importante in quanto serve a giustificare perché, nonostante l’innominatività del contratto, sia comunque consentito alle parti utilizzare questi strumenti legislativi posti a salvaguardia dell’adempimento delle rispettive obbligazioni contrattuali.
86 X. Xxxxxxxx, op. cit., 7.
87 X. Xxxxxxx, op. cit., 790. Xxxxxxx l’autore che il metodo tipologico si pone in sostanza come una chiave di lettura del testo normativo, al di là degli schemi definitori, e si manifesta come una mera tecnica di individuazione della disciplina legale non giungendo, sotto tale profilo, alla ricostruzione in termini tipologici del dato reale quale emerge dall’esperienza.
88 X. Xxxxxxxx, op. cit., 224.
singoli effetti elementari del contratto atipico propri di contratti o clausole già legalmente tipizzate, quindi nell’applicazione alla fattispecie concreta della disciplina legale rispettivamente del contratto prevalente ovvero del contratto la cui clausola sia prevalente.
4.3 Il metodo analogico
Il metodo al quale maggiormente fa ricorso l’interprete per ricercare la disciplina da applicare ad un contratto atipico, è sicuramente il metodo analogico il quale si serve, a tal fine, di quelle disposizioni contemplate per altri negozi assimilabili, per natura e funzione economico‐sociale, al contratto innominato.
L’analogia è spiegata dalla dottrina come quella regola di interpretazione secondo cui “essendo dato un enunciato normativo che predica una qualificazione normativa di un termine dell’enunciato che sta per un soggetto o una classe di soggetti, si deve estendere il significato di quel termine a comprendere soggetti o classi di soggetti anche non strettamente e letteralmente inclusi, che però presentano con i soggetti letteralmente inclusi una somiglianza o analogia assunta come rilevante in ordine alla identità di disciplina giuridica”89.
Come rileva autorevole dottrina, però, il metodo analogico non può fornire un criterio oggettivamente sicuro, in quanto, fondandosi sulla rilevazione di affinità strutturali tra due fattispecie, postula in ogni caso un giudizio di carattere soggettivo90.
4.4 Moduli o formulari e condizioni generali di contratto
Il consolidamento nella prassi commerciale di un certo schema di regolamentazione convenzionale, avviene soprattutto attraverso la predisposizione di moduli contrattuali, condizioni generali oramai standardizzate: è in tal modo che, infatti, si realizza la tipizzazione di clausole caratterizzanti la fattispecie. In questa ipotesi, il giudice è spesso chiamato a valutare la liceità di determinate clausole, soprattutto se vessatorie, che prevedono espressamente o indirettamente deroghe alla disciplina legale posta per contratti tipici, affini a quello innominato. Ed è proprio questo uno dei modi in cui si attua la c.d. tipizzazione giurisprudenziale, imponendo al giudice di decidere se quello schema sia completamente autonomo, e quindi la sua disciplina si esaurisca nelle regole dettate in contratto, oppure, dovendosi richiamare i
89 X. Xxxxxxx, L’interpretazione della legge, in Trattato Cicu‐Messineo, Milano 1980, p. 351 ss.
90 X. Xxxxxxxx, op. cit., 7.
principi generali e la disciplina di un certo contratto tipico, dovrà valutarsi la conciliabilità della norma pattizia con quella legale91.
Con particolare riferimento alle condizioni generali di contratto di cui agli art. 1341 e 1342 c.c., una dottrina ha osservato che il problema dogmatico del contratto innominato è “un problema inesistente o quasi”. Se poi, inoltre, possa dimostrarsi che a proposito di una data figura di contratto innominato sono sorti usi cui le parti costantemente si siano attenute, non rimane che richiamarsi a tali usi; in tal caso, anche la disciplina giuridica del contratto innominato si trova già pronta e a disposizione delle parti92.
Alcuni autori hanno ravvisato una limitazione alla libertà contrattuale da parte delle condizioni generali di contratto e dei contratti per adesione, alla libertà, cioè, di stabilire il contenuto del contratto medesimo. Gli art. 1341 e 1342 c.c., infatti, realizzerebbero una posizione intermedia tra competenza dispositiva privata e competenza normativa legale, e questa loro caratteristica intaccherebbe la natura di autoregolamento di entrambi i contraenti propria del contratto, in quanto ai fini della disciplina si attribuisce rilevanza al grado di partecipazione alla elaborazione del regolamento e si considera il ruolo svolto dal contraente più attivo.
A tale impostazione si replica di non cogliere né lo spirito né la realtà dei traffici. Si è pur sempre di fronte ad un atto di autonomia privata caratterizzato dalla contemporanea presenza della libertà di stabilire il contenuto del contratto e della libertà di contrarre, quest’ultima rappresentata dalla libertà di aderire o meno alle clausole o alle condizioni generali. Pertanto, rispetto alle ipotesi di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. non sembra neppure velatamente prospettabile una limitazione al principio della libertà contrattuale93.
L’esigenza che spinge gli imprenditori a stabilire schemi generali sulla loro attività è principalmente un’esigenza di organizzazione e chiarezza: attraverso la predisposizione delle clausole generali essi fissano le modalità alle quali sono disposti a contrarre. L’esigenza, dunque, è quella di far conoscere ai terzi le norme alle quali l’imprenditore intende ispirare i suoi rapporti con i propri dipendenti o con la propria clientela.
91 X. Xxxxxxxx, op. cit., 7.
92 X. Xxxxxxxx, op. cit., 110. Dalla possibilità dell’autodisciplina del contratto ammessa dall’art. 1322, comma 2, c.c., discende che le parti, in quanto elaborino principi regolatori del dato contratto innominato, contribuiscono a risolvere in fatto il problema della disciplina giuridica di ciascuno di essi e a colmare lacune. Concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare non esclude che per fissare quest’ultima le parti possano far ricorso all’autodisciplina, mentre quanto alle norme generali applicabili, dispone chiaramente l’art. 1323 c.c. Indicazioni preziose in tal senso, secondo l’autore, sono date appunto dall’istituto delle condizioni generali di contratto di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c.
93 G.B. Xxxxx, Causa e tipo, op. cit., 300‐301.
Quando queste norme organizzative vengono portate a conoscenza dei terzi, diventano una realtà oggettiva, ovverosia, un modo “normale” di operare dell’imprenditore, e il legislatore, in sede di inserimento del contratto nell’ordine giuridico, non può non tenerne conto in quanto è al criterio di normalità che dovrà ispirarsi in tutte le ipotesi in cui non risulti una diversa volontà.
Qui il fenomeno della tipizzazione è rilevante nel senso che il singolo contratto deve essere inserito in quella realtà oggettiva, caratterizzata dall’attività dell’imprenditore, e della quale fanno parte anche le norme organizzative dello stesso, quando attraverso la pubblicità si siano obbiettivate. In tal modo, il problema della tipicità non si riferisce alle rispettive posizioni dei contraenti ma emerge dal necessario criterio di normalità imprenditoriale, normalità riferita all’attività dell’imprenditore, a cui tutta l’operazione contrattuale si ispira94.
Affronteremo in modo più approfondito, nel corso della presente trattazione, in che modo e in quale relazione gli artt. 1341 e 1342 c.c. si pongono con quel particolare contratto atipico che è il contratto di ricerca, cercando di cogliere l’effettivo ruolo che questi abbiano nella determinazione della sua struttura e del suo contenuto.
Inoltre, esaurita la breve ma necessaria disamina generale relativa ai problemi della tipicità e dell’atipicità dei contratti, vedremo nello specifico più avanti come e in che misura l’atipicità trovi applicazione nel contratto di ricerca. Qui basti dire che l’autonomia contrattuale ha maggiore o minore rilievo in base al contratto preso in considerazione.
Infatti, la materia dei contratti di ricerca si presenta diversamente articolata a seconda che si tratti di ricerca commissionata e finanziata dall’Amministrazione Pubblica, e quindi il contratto di ricerca rientri nell’ambito del finanziamento statale, oppure sia stipulato tra privato ed Università o altro Ente pubblico di ricerca al fuori di quello schema.
I primi sono presi in considerazione da leggi speciali che ne disciplinano il contenuto, e pertanto all’autonomia negoziale non viene lasciato spazio in quanto la volizione contrattuale è vincolata alle disposizioni dettate dalla legge; la tipizzazione, in questi casi, trova un fondamento giuridico nei principi dell’organizzazione amministrativa.
Nei secondi, ove la commessa viene affidata da un’impresa ad un’Università o altro Ente pubblico di ricerca in cui l’interesse sotteso al rapporto giuridico è di natura privatistica, la determinazione contrattuale è vincolata solo all’osservanza del regolamento posto in essere tra le parti, oltre che all’osservanza dei principi di ordine
94 G.B. Xxxxx, Causa e tipo, op. cit., 298‐310.
pubblico. In questo caso, infatti, non essendo intervenuta una disciplina legislativa, le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto secondo la propria volontà; la tipizzazione, in questo caso, è il risultato di una prassi ricorrente che ha permesso l’emersione del contratto di ricerca nel nostro ordinamento come “tipo sociale”.
Nei capitoli che seguono, sarà proprio il contratto di ricerca ad essere oggetto di un’analisi il più possibile esaustiva, al fine di porre in evidenza le sue caratteristiche strutturali e le problematiche interpretative che questa può sollevare.
CAPITOLO II
L’AUTONOMIA CONTRATTUALE NEL SISTEMA DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA
1. Premesse
L’interesse per le attività di ricerca scientifica e tecnologica e l’impegno degli operatori nel settore appaiono negli ultimi anni in forte crescita. Le imprese, da un lato, tendono ad affrontare in proprio i problemi legati alla produzione o allo scambio piuttosto che ad acquisire le soluzioni offerte da altri; le amministrazioni e le istituzioni pubbliche, dall’altro lato, hanno oramai da tempo avvertito l’esistenza di una stretta relazione tra ricerca, sviluppo e progresso, ed hanno di conseguenza costituito strutture finalizzate alla promozione ed alla disciplina della ricerca.
In tale contesto, si è moltiplicata negli ultimi anni l’adozione di strumenti contrattuali volti a disciplinare i rapporti giuridici tra le parti. Così, nella pratica si sono andati diffondendo l’uso della locuzione “contratto di ricerca” e l’attribuzione della qualifica di “ricercatori” a coloro che prestano attività di ricerca1.
L’elevato costo delle ricerche e la disponibilità presso istituti ed aziende diversi delle attrezzature e del personale necessari per svolgerle, infatti, inducono con sempre maggiore frequenza Enti di ricerca ed imprese a congiungere i loro sforzi per eseguire in modo coordinato indagini di comune interesse; e in questi casi, la collaborazione è organizzata, appunto, per mezzo di contratti.
Prima ancora di concentrarmi sull’oggetto principale di questo lavoro, ovvero il contratto di ricerca e l’analisi delle clausole in esso contenute, è utile analizzare il contesto dal quale tale strumento tra origine e nel quale viene maggiormente adoperato, soprattutto in considerazione del fatto che l’oggetto del contratto esaminato consiste proprio un’attività di ricerca.
Dunque, dopo aver dato conto della nozione di “ricerca” come attività diretta all’avanzamento delle conoscenze, mi soffermerò brevemente sull’organizzazione della ricerca scientifica in Italia e sugli attori principali in essa coinvolti, ovvero le Istituzioni di ricerca.
Infine, accennerò ad alcune tra le principali problematiche di diritto privato scaturenti dall’attività di ricerca e, in particolare, a quella relativa all’appartenenza dei
1A. Xxxxx, Le Obbligazioni dei ricercatori nel contratto di ricerca, in Gli aspetti istituzionali della ricerca scientifica in Italia e in Francia, Milano 1987, 543.
risultati della ricerca stessa, risultati che, in questa sede, sono intesi come il complesso delle conoscenze acquisite attraverso l’indagine scientifica.
2. Classificazione delle attività di ricerca
Con il rapido sviluppo delle conoscenze, il concetto di ricerca scientifica ha ricevuto da varie discipline molteplici definizioni di cui occorre brevemente dar conto, rilevando sin da ora, però, che queste diverse classificazioni e distinzioni hanno valore soprattutto conoscitivo e non comportano rilevanti conseguenze da un punto di vista prettamente giuridico.
Seppure sia difficile trovare nel diritto positivo una definizione chiara della materia, in origine si era soliti distinguere tra ricerca fondamentale o di base da un lato, con la quale si definiscono gli studi e le indagini volti a chiarire fenomeni della realtà, a scoprire o confermare leggi o teorie, e ricerca e sviluppo dall’altro, con la quale si definiscono tutte le attività volte ad applicare i risultati della ricerca scientifica di base allo scopo di ottenere nuovi prodotti o nuove tecniche produttive2.Tale ripartizione rappresenta un punto di approdo conseguente alla rivoluzione industriale ed alla legislazione sui brevetti, che ha reso l’invenzione un bene economicamente rilevante.
La più consolidata classificazione è però, anche a livello internazionale, quella tra ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale.
In particolare, la ricerca di base è definita come lavoro sperimentale o teoretico intrapreso soprattutto per acquisire nuove conoscenze relativamente al fondamento di fenomeni e fatti osservabili, senza la prospettiva di alcun particolare uso o applicazione; la ricerca applicata è anch’essa attività intrapresa per l’avanzamento delle conoscenze, ma direttamente volta a scopi ed obiettivi pratici; lo sviluppo sperimentale consiste in un’attività sistematica che attinge dalle conoscenze ottenute dalla ricerca e dall’esperienza pratica ed è diretta a produrre nuovi materiali, prodotti o dispositivi, ad installare nuovi processi o a migliorare processi già prodotti o installati3.
2 X. Xxxxxxx, Ricerca Scientifica, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma 1991, 1. L’autore osserva che nell’attuale realtà dei paesi economicamente sviluppati vi è una tendenza ad organizzare la prima attività prevalentemente in forma pubblica, mentre la seconda apparirebbe maggiormente organizzata in forma privata; ciò non impedisce, tuttavia, ed anzi è molto frequente, un’organizzazione delle attività di ricerca fondamentali in forma privata e, per converso, un intervento di soggetti pubblici nell’organizzazione della ricerca e sviluppo.
3 X. Xxxxxxx, Autonomie e libertà nel sistema della ricerca scientifica, Milano 1990, 19‐20. L’autore osserva come a queste categorie se ne aggiungano altre come quella di “ricerca strategica”, termine impiegato per le attività di ricerca applicata ma non ancora sufficientemente avanzata da consentire di intravedere chiaramente le eventuali possibilità applicative. In Italia, poi, molto utilizzato è il termine
Come già accennato, tuttavia, le suesposte classificazioni hanno valore soprattutto descrittivo, mentre l’unica conseguenza giuridica rilevante riscontrabile nel nostro ordinamento giuridico, è quella relativa alla competenza nella gestione degli interventi di promozione della ricerca. Al riguardo, la legge 17 febbraio 1982, n. 46 che ridefiniva la gestione del “Fondo nazionale per la ricerca applicata” e istituiva il “Fondo per l’innovazione tecnologica”, ha introdotto delle definizioni delle due diverse attività che dovrebbero servire a tracciare gli ambiti di competenza rispettivi dell’allora Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica (per la ricerca applicata) e del Ministro dell’industria (per l’innovazione tecnologica).
La legge non contiene una precisa definizione della nozione di ricerca applicata, ma fornisce un’indicazione dalla quale ricavare di siffatto concetto una nozione di tipo indiretto all’art. 9, laddove stabilisce che “la ricerca (…) di norma deve concludersi con la fase del prototipo di ricerca e del progetto pilota sperimentale, che precede quella della innovazione, sviluppo e preindustrializzazione”.
Più chiara, invece, la definizione di innovazione tecnologica contenuta nell’art. 14 della stessa legge, che definisce come di innovazione tecnologica “i programmi di imprese destinati ad introdurre rilevanti avanzamenti tecnologici finalizzati a nuovi prodotti o processi produttivi, o al miglioramento di prodotti e processi produttivi già esistenti. Tali programmi riguardano le attività di progettazione, sperimentazione, sviluppo e preindustrializzazione, unitariamente considerate”.
In seguito all’intervento pubblico, dunque, si assiste ad una più attenta delimitazione giuridica del settore; ed è significativo che ciò avvenga prima nel campo delle attività più direttamente connesse alle attività economiche e produttive che non per quelle attività legate allo sviluppo culturale e scientifico del paese, dunque alla ricerca di base4.
3. Profili pubblicistici
3.1 La ricerca scientifica nella Costituzione
La disciplina giuridica relativa all’attività di ricerca è costruita intorno a due poli fondamentali: la libertà di ricerca e la necessità di interventi pubblici per la sua
“ricerca finalizzata”, intendendosi per tale l’attività di ricerca, di base o applicata, promossa intorno a problemi e tematiche definite, da cui si attendono risultati che contribuiscano alla loro soluzione, consistano essi in soli avanzamenti delle conoscenze o nella predisposizione di mezzi o soluzioni di carattere pratico.
4 X. Xxxxxxx, Ricerca scientifica (organizzazione), in Enc. dir. XL, Varese 1989, 393.
promozione e sviluppo, profili entrambi presi in considerazione dalla nostra Costituzione e, precisamente, negli artt. 9 e 33.
Indirettamente poi, la ricerca è evocata da norme che si riferiscono a specifiche fattispecie materiali, quali la tutela della salute di cui all’art. 32 Cost., che la collocano nell’ottica dell’utilità rivestita rispetto al perseguimento di fini costituzionalmente rilevanti. Dunque, l’esistenza di valori che possono trovare nella ricerca una via di realizzazione, allarga l’ambito di rilevanza dell’attività scientifica configurando l’intervento pubblico diretto a orientare la ricerca, entro certi limiti, come doveroso. Si profila, in tal modo, la duplice natura dell’interesse pubblico per la ricerca scientifica: all’interesse per la ricerca in sé, in quanto attività diretta in maniera disinteressata all’avanzamento delle conoscenze, si affianca l’interesse per la ricerca come strumento per il perseguimento di altri obiettivi5.
Un necessario chiarimento preliminare riguarda, dunque, le diverse qualificazioni dell’attività di ricerca. Come abbiamo visto, la tradizionale distinzione tra ricerca di base, applicata e di sviluppo ha scarso rilievo, mentre, sul piano giuridico, la distinzione più rilevante, che rimanda al grado di autonomia nelle determinazioni relative all’oggetto e al metodo di indagine, è quella tra ricerca libera e ricerca strumentale. La prima si caratterizza per l’autonomia di metodi e di scelta dell’oggetto di ricerca; l’interesse pubblico, in questo caso, riguarda l’esserci dell’attività scientifica perché è la ricerca in sé ad essere rilevante per l’ordinamento. La ricerca strumentale, invece, si lega all’assolvimento di compiti pubblici, e, in ragione di questa sua valenza, interessa i pubblici poteri6.
Per quanto concerne la libertà di ricerca, l’art. 33, al comma 1, stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, mentre all’ultimo comma detta che “le istituzioni di alta cultura, Università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
In dottrina esistono diversità di opinioni per quanto concerne il valore e l’efficacia della norma contenuta nell’art. 33 Cost., in quanto da un alto si è visto nella esistenza di una specifica previsione normativa della libertà della scienza, in aggiunta alla più generale garanzia della libertà di manifestare il proprio pensiero di cui all’art. 21 Cost.,
5 X. Xxxxxxx, Xxxxxx pubblici e ricerca scientifica, l’azione di governo, Bologna 1991, 16, evidenzia il duplice sistema di relazioni tra Stato e ricerca scientifica: da un lato l’obbligo di tutelare la libertà scientifica; dall’altro la considerazione dell’attività scientifica come mezzo per il conseguimento di fini rilevanti per l’ordinamento. E ancora, da un lato la scienza come valore in sé, di cui occorre prioritariamente garantire la libertà, dall’altro la scienza come utilità o comunque come elemento costitutivo di vari sistemi (economico, educativo etc.) indirettamente tutelata da diverse disposizioni costituzionali.
6 X. Xxxxxxx, op. cit., 17, specifica che i due tipi di ricerca non individuano aree funzionali nettamente distinte ma un continuum caratterizzato da situazioni qualificabili nell’uno e nell’altro senso e situazioni intermedie o in cui convivono entrambi i profili.
una tutela rafforzata; dall’altro vi è chi ha sottolineato il carattere semplicistico della formula dell’art. 33 dove la libertà della scienza, considerata nell’ambito della disciplina dell’istruzione, è assunta, in modo astratto e unilaterale, prevalentemente come libertà del singolo ricercatore e concepita come libertà dalle costrizioni dell’apparato pubblico7.
L’oggetto principale dell’intero art. 33 è la libertà di insegnamento; in questo senso, la libertà di ricerca è vista soprattutto in funzione della libertà di espressione e della libertà di insegnare piuttosto che non un bene rilevante di per sé. La norma oggetto di disamina, secondo questa concezione dottrinaria, si dimostrerebbe, dunque, poco sensibile verso gli specifici problemi di tutela della libertà ed autonomia dei ricercatori dediti per professione ad una attività di ricerca, ma senza una connessione necessaria con l’insegnamento, in strutture organizzative dirette allo svolgimento di attività di ricerca nonché, più in generale, ai problemi centrali della ricerca scientifica come il rapporto tra cultura e scienza da una parte, e il processo di determinazione di indirizzo politico dall’altra8.
Il profilo relativo alla promozione della ricerca, è invece disciplinato dall’art. 9 il quale inserisce la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica tra i principi fondamentali dell’ordinamento. In particolare, l’art. 9, al comma 1, stabilisce che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”.
Dall’espressione “la Repubblica promuove”, sono ricavabili direttamente alcune implicazioni organizzative e istituzionali. Il termine “Repubblica” sta ad indicare lo Stato ordinamento in tutte le sue possibili articolazioni: ne consegue che il compito di promuovere la cultura e la ricerca scientifica è attribuito indistintamente ad ogni soggetto pubblico, dunque, oltre che allo Stato, anche agli altri Enti pubblici in connessione con i loro fini istituzionali. Il verbo “promuovere”, invece, ha voluto significare che lo Stato ordinamento deve creare i presupposti per il raggiungimento di un risultato; sul piano organizzativo, ciò implica che l’azione di promozione della cultura e della ricerca può essere svolta direttamente da soggetti pubblici oppure
7 X. Xxxxx, Lo Stato italiano e la ricerca scientifica (profili organizzativi), in Riv. trim. dir. pub., I, 1972, 752. L’autore rileva che il costrutto giuridico dei precetti di cui all’art. 9 e 33 Cost. è modesto in quanto, in definitiva, consiste nel fornire elementi che vanno a confermare e ad arricchire le formule dello stato garantista e dello stato d’integrazione sociale, a ribadire cioè e sviluppare i principi che trovano la loro consacrazione fondamentale nell’art. 2 (cui si allaccia l’art. 33) e 3 (cui si allaccia l’art. 9) della Costituzione.
8 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 394, specifica che questi problemi riguardano soprattutto il rapporto tra ricerca autonoma e individuale e ricerca programmata e orientata, nonché la partecipazione del ricercatore alla decisione sugli oggetti di ricerca.
indirettamente, attraverso la concessione di incentivi a soggetti privati o ad Enti pubblici, ad integrazione delle loro autonome capacità istituzionali9.
Anche in questo caso, è stato osservato che l’indicazione costituzionale è estremamente generica; tuttavia la dottrina vi ricomprende sia l’intervento pubblico in forma diretta ‐ che non costituisce comunque una riserva allo Stato delle attività di ricerca ‐ sia la promozione in senso stretto della ricerca scientifica, ovvero quella operata ad esempio per il tramite di finanziamenti e servizi complementari10.
È stato rilevato, da parte di alcuni studiosi, che la norma contiene un principio fondamentale della Costituzione vigente, come tale caratterizzante la stessa forma di Stato. L’art. 9, comma 1, Cost., inoltre, è stato inteso quale principale disposizione della <<Costituzione culturale>>. Con questa espressione, ci si richiama ad un profilo dello Stato sociale di diritto e del principio d’eguaglianza sostanziale espresso dall’art. 3, 2° co., Cost., cioè alla necessità di attuare un progetto di trasformazione sociale e di realizzazione di condizioni di eguaglianza di fatto tra tutti i cittadini, anche per il tramite della diffusione di adeguate conoscenze culturali in tutti gli strati della società civile, grazie ad un intervento attivo degli organi del pubblico potere11.
Una diversa interpretazione dell’art. 9 si è affermata in connessione con la distinzione tra ricerca strumentale, svolta per consentire ad altri il raggiungimento di interessi politici ed economici esterni alla ricerca, e ricerca non strumentale, rilevante di per sé e liberamente autodeterminata dalla comunità scientifica. In tal senso, è stato
9 X. Xxxxxx, sub Art. 9 Costituzione, in Commentario alla Costituzione a cura di X. Xxxxxx, Bologna‐Roma 1975, 436, secondo il quale è da respingere l’idea che nella nozione di Repubblica siano ricompresi enti formalmente di diritto privato ma sostanzialmente di rilievo pubblicistico per l’importanza assunta dalla loro finalità di promozione della cultura e della ricerca scientifica, come accade per molte fondazioni culturali che spesso condizionano in maniera rilevate interi settori di ricerca.
10 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 394. L’autore osserva che in alcuni campi di attività di ricerca, tuttavia, la riserva di attività, pur non espressamente stabilita, può dedursi dalle caratteristiche della ricerca svolta, come nel caso della ricerca in materia militare, e in generale per le attività di ricerca connesse ad altri interessi vitali dell’amministrazione dello Stato: giustizia, ordine pubblico, etc. Diverso è il caso delle riserve di fatto, ovvero di quei casi in cui, senza alcuna riserva giuridica di attività, solo l’intervento pubblico può assicurare lo svolgimento di attività particolarmente costose o complesse. Si pensi, ad esempio, alla ricerca astronomica o nucleare che necessitano di attrezzature e macchinari non realizzabili da nessun soggetto privato.
11 X. Xxxxxx, Ricerca scientifica (Teoria generale e diritto pubblico), in Dig. disc. pub., XIII, Torino 1997, 359‐360, rappresenta che, contenendo la norma di cui all’art. 9 un principio fondamentale della Costituzione, si è ritenuto che essa rientri nelle norme costituzionali programmatiche o direttive. Tali norme, manifestando un carattere diverso rispetto alle norme regolatrici di rapporti ed attività, si presentano come norme qualificatrici dell’ordinamento giuridico. La norma di cui all’art. 9, pertanto, è norma giuridica perché anche la norma programmatica è immediatamente efficace, nel senso che, dal momento in cui è entrata in vigore la Costituzione, spiega il suo effetto invalidante rispetto alla legge ordinaria eventualmente difforme.
sostenuto che l’art. 9 imporrebbe interventi dello Stato solo a favore della ricerca non strumentale, mentre la ricerca strumentale sarebbe considerata da altri principi12.
Le due norme oggetto d’esame, secondo alcuni autori, istituiscono fra Stato e scienza un rapporto fatto di coesistenza dell’obbligo positivo fissato nell’art. 9 e del dovere negativo posto nell’art. 33, e che il problema costituzionale della ricerca scientifica consiste “nell’individuare il contenuto dell’uno e dell’altro e il limite che nell’adempimento del primo va rispettato per non incorrere nella violazione del secondo”13.
È stato aggiunto, però, che il vero problema comincia proprio là dove si fermano le due norme, esaurendosi i due precetti costituzionali in affermazioni generali, le quali restano all’esterno del problema individuato e, più in generale, alla superficie del complesso mondo dei rapporti fra scienza e politica. Il costituente, secondo questa dottrina, con le norme in commento avrebbe dimostrato di considerare la scienza come un qualcosa di esterno all’organizzazione della comunità, un qualcosa di cui la Repubblica promuove lo sviluppo ma che per ciò stesso non sembra porsi fra gli elementi essenziali di struttura della comunità, e di cui, sempre collocandosi ab externo, è tenuta a difendere la libertà.
Sotto altro profilo, le due norme in esame hanno sollevato diversi problemi, tra i quali rilevano in questa sede quelli concernenti i rapporti tra libertà di ricerca scientifica e le attività economiche. In proposito, si è sostenuto che il diritto costituzionalmente garantito negli artt. 9 e 33, 1° co., Cost., debba senza dubbio essere riferito anche allo sviluppo economico ed al patrimonio tecnologico nel suo complesso, nel senso che questi possono essere positivamente influenzati dall’attività di ricerca, soprattutto applicata.
Tuttavia, questo profilo del tema deve essere tenuto distinto dal discorso sui beni immateriali che sono il prodotto della ricerca scientifica. Le situazioni attive che derivano da questi beni, infatti, sono eterogenee rispetto alle norme della Costituzione che apprestano tutela alla scienza e alla ricerca scientifica nelle sue varie fasi e modalità.
Il diritto morale sulle opere dell’ingegno, ad esempio, rientra tra i diritti della personalità; le opere dell’ingegno e il brevetto di invenzione si pongono entro le norme
12 X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, op. cit., 2. Tra i principi che prendono in considerazione la ricerca strumentale vi sarebbero quelli relativi agli interessi generali, la cui cura spetta a singole amministrazioni di settore, e quelli relativi all’iniziativa privata.
13 X. Xxxxx, op. cit., 751, il quale rileva, altresì, come le due norme si pongano rispettivamente in antitesi con gli ordinamenti liberali, per i quali era inconcepibile un’azione statale di promovimento della ricerca scientifica, e con l’ordinamento fascista, per il quale non vi è libertà della scienza ma assoluta subordinazione della cultura alla forza politica dominante.
sulla produzione economica; il diritto patrimoniale sulle opere dell’ingegno ha rilievo giuridico nell’ambito delle norme sul diritto di proprietà. Dunque, non può essere confuso lo spettro di applicazione del corpus di disposizioni sulla libertà di ricerca scientifica con la disciplina giuridica di quei beni che da questa derivano.
3.2 L’organizzazione dell’attività di ricerca. Cenni introduttivi
Abbiamo visto che la tendenza di fondo della legislazione è quella per cui la ricerca scientifica è un’attività libera nei fini, semmai condizionata nei mezzi, ed è compito dello Stato promuoverne, direttamente o indirettamente, lo sviluppo.
Le due funzionali principali dello Stato consistono, dunque, nell’organizzazione in forma diretta della ricerca, attraverso la costituzione di strutture istituzionalmente volte a tal fine, e nella promozione della ricerca in senso stretto14.
Nei paragrafi che seguono, andremo dunque ad esaminare le due richiamate funzioni.
3.2 a) L’attività diretta di ricerca
I principali attori della ricerca e dello sviluppo tecnologico in Italia sono le Università, gli Enti ed Istituti di ricerca pubblici e le imprese.
Le Università svolgono attività di ricerca e sviluppo in misura diversa, a seconda dei propri obiettivi strategici, nei settori di propria specializzazione; fra gli Enti e gli Istituti di ricerca pubblici, invece, si possono distinguere i grandi Enti di ricerca che svolgono attività di ricerca e sviluppo come fine istituzionale, come ad esempio il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), la Fondazione Istituto Italiano di tecnologia (IIT), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), e altre Istituzioni pubbliche, ovverosia laboratori ed istituti dipendenti dai ministeri e da altri Enti pubblici (ad es. istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, aziende sanitarie Locali, ecc.) in cui la ricerca non costituisce l'attività principale.
Le attività di ricerca, inoltre, vengono svolte all’interno di raggruppamenti quali i Consorzi interuniversitari e i Parchi Scientifici e tecnologici, il cui obiettivo principale, come di altre strutture affini quali Consorzi Ricerca, Tecnopoli, Consorzi Città Ricerca, è la conduzione, la promozione e il coordinamento tra le attività del mondo della ricerca,
14 X. Xxxxxx, op. cit., 361.
ovvero quelle svolte principalmente da Università e Centri di ricerca, e quello delle imprese, su specifici settori tematici.
Il sistema nazionale, infine, include aggregazioni territoriali/disciplinari quali i Distretti tecnologici e i Centri di eccellenza.
Ai fini del presente lavoro, tuttavia, per attività diretta di ricerca intenderemo soltanto quella organizzata e svolta dalle Amministrazioni pubbliche e, in particolare, dalle Università e dagli Enti e Istituti pubblici di ricerca, mentre esula dal campo di indagine l’attività di ricerca svolta dalle imprese.
In proposito, è importante rappresentare che la ricognizione delle Amministrazioni pubbliche è operata annualmente dall'Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) con proprio provvedimento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, in applicazione di quanto stabilito dall'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica). In particolare, come risulta dall’ultimo elenco pubblicato nella G.U. n. 227 del 28 settembre 2012, tra gli Enti e le Istituzioni di ricerca rientrano importati organizzazioni di ricerca come il CNR, l’ENEA, l’IIT e l’INFN15.
Ai sensi della l. 196/2001, art. 1 comma 3, gli Enti e le Istituzioni di ricerca sono equiparati a tutti gli effetti agli Enti pubblici di ricerca; pertanto, ai fini del presente lavoro e per chiarezza di esposizione, ogniqualvolta parleremo di “Enti pubblici di ricerca” ci riferiremo complessivamente alle Università ed agli Enti e Istituzioni di ricerca di cui all’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate dall’ISTAT.
Poste queste premesse, possiamo dire che la ricerca pubblica in Italia comprende strutture, situazioni organizzative e di assetto del personale fortemente differenziate, e ciò deriva da una particolare evoluzione dell’intervento pubblico.
Fino agli anni ’30, la ricerca era svolta in due soli comparti organizzativi: gli Uffici, Istituti e Centri dipendenti dalle Amministrazioni pubbliche statali da un lato, l’Università dall’altro. In entrambi i casi, l’interesse allo sviluppo della ricerca era conformato come secondario16. Il bilancio dell’attività di ricerca pubblica alla fine del primo ventennio del XX° secolo, a parte l’Università, registra infatti esclusivamente un interesse per la ricerca immediatamente strumentalizzata a fini amministrativi: non vi è un interesse per la ricerca in sé e per sé, né un’organizzazione complessiva della
15 Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 3 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica), in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 227 del 28 settembre 2012.
16 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 397, cioè l’attività di ricerca era strumentale nei confronti delle esigenze di azione delle pubbliche Amministrazioni, ovvero nei confronti dell’attività di insegnamento.
ricerca, ma vi sono centri di ricerca con finalità sezionali direttamente collegati a strutture sezionali amministrative17.
Una svolta si avrà soltanto nel 1923 con la creazione del CNR, avvenuta con r.d. del 18 novembre 1923, n. 2895. Tale svolta, tuttavia, dovrà attendere ancora quarant’anni per realizzarsi compiutamente, e lo farà in modo abbastanza timido in quanto, fino alla riforma operata con legge 2 marzo 1963, n. 283, il CNR è rimasto un organo prevalentemente promozionale e di consulenza tecnico‐scientifica.
Successivamente alla riforma del 1963, si assiste ad un importante sviluppo del CNR che sempre più assume la funzione di diretto svolgimento di attività di ricerca, cui, tuttavia, si affianca un’impetuosa proliferazione di Centri pubblici di ricerca.
Accanto al CNR, infatti, sorgono numerosi enti tra i quali l’Istituto centrale di statistica (ISTAT), il Comitato nazionale per la ricerca e lo sviluppo dell’energia nucleare (CNEN), oggi Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN)18.
Tra le norme più significative, vi è poi sicuramente la legge 9 maggio 1989, n. 168, istitutiva del Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica, oggi Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR).
La l. 168/1989, all’art. 1 stabilisce espressamente che è compito del Ministero la promozione della ricerca scientifica e tecnologica e dello sviluppo delle Università e degli Istituti di istruzione superiore di grado universitario, in attuazione dell’art. 9 della Costituzione. La legge ricomprende, altresì, tra le principali funzioni del Ministero l’elaborazione di un piano di sviluppo triennale delle Università, la presentazione al Parlamento, ogni triennio, di un rapporto sullo stato della ricerca universitaria e di una relazione sullo stato della ricerca scientifica e tecnologica, ed inoltre la partecipazione italiana a programmi comunitari di istruzione universitaria e di ricerca scientifica nonché la proposizione al CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) di programmi di incentivazione e di sostegno della ricerca scientifica e tecnologica nel settore privato19.
Quanto alla classificazione dei tipi di ricerca, la legge muove da un tipo di organizzazione tripartito in tre grandi settori: quello della ricerca libera, in cui rientrano l’Università e gli Enti di ricerca a carattere non strumentale; quello degli Enti
17 X. Xxxxx, op. cit., 756‐758. L’autore spiega che l’attività di ricerca scientifica ha avuto la sua sede più produttiva in organismi dell’apparato statale interessati ad una ricerca strumentale all’assolvimento di specifici compiuti pubblici per diversi motivi. Lo sviluppo industriale italiano era piuttosto ridotto e l’impegno di ricerca dell’industria molto contenuto, inoltre, il contributo dell’Università era modesto, limitato solo ad alcuni settori e d’impronta prevalentemente teorica.
18 X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, op. cit., 3.
19 X. Xxxxxx, op. cit., 362.
di ricerca strumentali, che realizzano la ricerca applicata ad obiettivi determinati; quello della ricerca industriale20, rivolta espressamente a scoperte o invenzioni scientifiche suscettibili di applicazioni industriali nel breve periodo21.
Nelle pagine che seguono, mi occuperò brevemente della ricerca svolta nelle Università e negli Enti non strumentali e strumentali di ricerca.
3.2.1 La ricerca nelle Università
Quella universitaria è ricerca per eccellenza libera, che si svolge all’interno di istituzioni dotate di particolare autonomia: sono infatti costituzionalmente garantite sia la libertà di ricerca inerente alla professionalità del ricercatore, che l’autonomia organizzativa. L’autonomia universitaria, infatti, si traduce nel diritto di ogni singola Università a governarsi liberamente attraverso un proprio ordinamento ed organi liberamente scelti: si tratta, dunque, di autonomia innanzitutto normativa22.
L’ultimo comma dell’art. 33 Cost., in particolare, afferma che “le istituzioni di alta cultura, Università e accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
Il disposto costituzionale di cui all’art. 33, ult. Co, Cost., è stato attuato con la l. 168/1989 con il riconoscimento in favore delle istituzioni universitarie della personalità giuridica nonché dell’autonomia normativa (statutaria e regolamentare) organizzativa, didattica, finanziaria e contabile.
Le Università sono definite dalla stessa l. 168/1989 sedi23 primarie della ricerca scientifica ‐ anche se questa non costituisce il loro compito fondamentale ‐ che organizzano le loro strutture e l’attività didattica nel rispetto della libertà di insegnamento dei docenti e dei ricercatori, nonché della loro libertà di ricerca e
20 X. Xxxxxxx, Autonomie e libertà, op. cit., 24, specifica che quello della ricerca industriale è un concetto diverso da quello di ricerca nell’industria. La prima, in quanto rivolta espressamente a scoperte o invenzioni scientifiche suscettibili di applicazioni industriali nel breve periodo, può essere svolta indifferentemente da Università o Enti di ricerca pubblici e privati. La ricerca nell’industria, invece, è quella svolta da centri appositamente creati da imprese industriali.
21 X. Xxxxxx, op. cit., 362.
22 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, (a cura di) Commentario alla Costituzione, Torino 2006, 695. La Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla natura della riserva di legge di cui all’ultimo comma dell’art. 33 Cost. ha affermato che essa non è tale da esigere che l’intera disciplina della materia sia contenuta in legge, in quanto anche un’attività normativa secondaria può essere chiamata dalle legge ad integrare e svolgerne in concreto i contenuti sostanziali. Ne è scaturita, allora, una riserva di legge definita “aperta”.
23 X. Xxxxx, op. cit., 762, chiarisce che è ormai consolidata la distinzione tra sede e centro di ricerca, nel senso che nella sede le strutture organizzative rendono possibile l’attività di ricerca, mentre nel centro il compito primo e fondamentale è proprio lo svolgimento di attività di ricerca scientifica.
dell’autonomia delle strutture scientifiche, entro i principi generali fissati dalla disciplina relativa agli ordinamenti didattici universitari24.
Ma è con il D.P.R. 1980, n. 382, che il legislatore introduce le prime norme di un certo rilievo sulla ricerca universitaria, seguendo quattro linee di fondo: il finanziamento diretto della ricerca universitaria, l’apertura delle Università alla ricerca per conto terzi, il dottorato di ricerca, i Dipartimenti e gli altri Centri di ricerca universitari.
La previsione sul finanziamento diretto, in particolare, rappresenta una novità rilevante se si considera che in origine i finanziamenti provenivano all’Università soltanto attraverso il CNR e gli altri Enti di ricerca. Un rapporto particolarmente stretto ha infatti sempre legato l’Università al CNR, sia in termini soggettivi (i membri dei comitati CNR sono di prevalente derivazione universitaria), che per quanto riguarda il campo di attività (in entrambi i casi allargato a tutte le aree disciplinari) che, infine, per i legami di carattere finanziario, benché allentati in forza del D.P.R. 382/1980 in commento, che sgancia l’Università dalla storica dipendenza finanziaria dal CNR25.
Con particolare riguardo al finanziamento diretto, la legge ha previsto la creazione di due distinte quote: la prima, pari al 40% del totale del fondo, è destinata a progetti di ricerca di interesse nazionale e di rilevante interesse per lo sviluppo della scienza presentati da gruppi di docenti e ricercatori o da Istituti o Dipartimenti universitari26; la rimanente quota, ovvero il 60% del totale è invece ripartita tra tutte le Università del Ministero della pubblica istruzione, sulla base di criteri oggettivi determinati dal Consiglio universitario nazionale (CUN)27. Nelle Università poi, gruppi di docenti o ricercatori, Istituti, Dipartimenti, ma anche singoli docenti e ricercatori, presentano
24 X. Xxxxxx, op. cit., 363.
25 X. Xxxxxxx, op. cit., 185‐186. Il CNR, osserva l’autore, rimarrà comunque un secondo canale di finanziamento della ricerca universitaria.
26 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 398‐399. La ripartizione dei progetti è fatta dal Ministero della pubblica istruzione, a conclusione di un procedimento che prevede un parere del CUN (Consiglio universitario nazionale) sulla ripartizione del fondo stesso tra le aree disciplinari alle quali corrispondono appositi comitati consultivi dello stesso CUN, e la valutazione da parte dei comitati dei progetti presentati, nonché la proposta di finanziamento dei progetti ritenuti meritevoli.
27 Sul punto si rimanda a X. Xxxxxxx, op. cit., 187‐188. Il CUN (e i suoi comitati consultivi) occupa un ruolo di primo piano tra gli organi di governo. Fu istituito nel 1979 quale organo di consultazione del Ministero della pubblica istruzione e per i problemi relativi all’avvio della riforma universitaria. I comitati consultivi del CUN, in particolare, sono competenti per l’assegnazione dei finanziamenti destinati a ricerche di interesse nazionale (c.d. quota 40%). Per il suo carattere rappresentativo della comunità accademica (ne fanno parte rappresentanti degli studenti, del personale tecnico delle Università, del CNEL e del CNR), e per la natura delle funzioni ad esso attribuite, è stato visto non come organo consultivo ma di vero e proprio autogoverno delle categorie e dei settori disciplinari.
richieste di finanziamento da considerarsi meno impegnative del vero e proprio progetto di ricerca28.
Ma la novità più significativa, è costituita senza dubbio dalla previsione di cui all’art. 66, rubricato “Contratti di ricerca, di consulenza e convenzioni di ricerca per conto terzi”, la quale stabilisce che le Università e gli Enti pubblici di ricerca possono stipulare convenzioni o contratti con soggetti privati, al fine di potenziare le proprie attività di ricerca e didattica, o offrire servizi di consulenza, purché non vi osti lo svolgimento della loro funzione scientifica e didattica. Dunque, attraverso le convenzioni, la c.d. ricerca finalizzata entra istituzionalmente nell’attività di ricerca universitaria.
La novità, in realtà, non consiste tanto nella previsione in sé del potere delle Università di concludere contratti e convenzioni (possibilità già prevista dalla legislazione precedente all’art. 49 t.u. 31 agosto 1933, n. 1592), quanto nel trasferimento in capo alle stesse della competenza a disciplinarne, sia pure per alcuni aspetti (la ripartizione dei proventi delle prestazioni dei contratti e delle convenzioni), l’esercizio attraverso l’approvazione di uno specifico regolamento29.
La stessa norma stabilisce, infatti, la ripartizione dei proventi derivanti da questi contratti disponendo che tali somme debbano essere utilizzate in primo luogo per le spese sostenute a tal fine dall’Università, mentre la somma residua può essere utilizzata per potenziare le attrezzature dei Dipartimenti e Istituti interessati così migliorandone il funzionamento, oppure per ricompensare il personale coinvolto nella ricerca. Ai compensi, tuttavia, può essere destinata una quota non superiore al 50% del provento globale della ricerca e, in ogni caso, nessuno può essere ricompensato con una somma annua totale superiore al 30% della propria retribuzione complessiva30.
La disposizione in esame è stata interpretata dal Ministero competente (art. 1, 2° co., d.m. 30 dicembre 1981) nel senso che i contratti in parola sono quelli che prevedono “prestazioni eseguite dalle Università, avvalendosi delle proprie strutture, che non rientrano nei compiti istituzionali delle Università stesse, ed in cui l’interesse del committente è prevalente”.
I contratti c.d. conto terzi, come sono stati poi indicati nella regolamentazione interna e nella prassi, identificano la cosiddetta “attività commerciale” dell’Università, contrapposta alla ”attività istituzionale”, e comprendono le attività di ricerca, didattica,
28 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 399. La ripartizione è fatta con delibera dal consiglio d’amministrazione, dopo aver sentito il senato accademico, il quale per il vaglio delle richieste si avvale di commissioni scientifiche elette dai docenti e dai ricercatori, e costituite secondo modalità decise autonomamente da ciascun ateneo.
29 X. Xxxxxxx, Autonomie e libertà, op. cit., 158.
30 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 399.
consulenza e le c.d. “prestazioni tariffate” eseguite a titolo oneroso dagli Enti di ricerca.
Il decreto ministeriale di attuazione e la normativa degli atenei, quando richiedono la prevalenza dell’interesse della controparte contrattuale non forniscono un criterio nuovo rispetto alla legge, ma indicano, sotto il profilo tecnico, quei contratti in cui l’interesse del committente è ricevere l’opera dell’Università, mentre quello dell’ateneo consiste soprattutto nella percezione di una somma di denaro, indicata come “provento” nella terminologia adottata dall’art. 66. Qui “interesse prevalente” sta per indicare che il committente richiede l’opera dell’Università e quindi il suo interesse caratterizza il rapporto: in questo senso è considerato prevalente31.
Per lo svolgimento dell’attività istituzionale, invece, le Università utilizzano la figura negoziale delle “collaborazioni di ricerca” le quali, pur presentando elementi caratterizzanti rispetto ai contratti conto terzi, rientrano pur sempre nella più ampia categoria dei contratti di ricerca.
Vedremo poi nel successivo capitolo come sotto il nomen “contratto di ricerca” si xxxxxxxxxx in realtà una serie di tecniche negoziali che nella prassi vengono raggruppate in due diverse categorie: le c.d. commesse di ricerca, in cui rientrerebbero i contratti c.d. conto terzi, ed i contratti c.d. di promozione della ricerca, ed andremo ad esaminare nel dettaglio il discrimen fra le due fattispecie negoziali.
3.2.2 La ricerca negli Enti pubblici: a) il CNR
Fra i tre settori in cui la legge istitutiva dell’attuale MIUR ha classificato i tipi di ricerca, quello della ricerca libera è senz’altro il settore dotato del maggior grado di autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e contabile.
La già citata legge 9 maggio 1989, n. 168, prevede che accanto alle Università ci siano altri Enti di ricerca non strumentali con condizioni di autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria, contabile e normativa, equiparate a quelle delle Università.
Sono definiti Enti di ricerca non strumentali di diritto pubblico quelli in cui opera una comunità di studiosi o scienziati che determina il contenuto e le finalità della propria attività di ricerca nel quadro della programmazione nazionale. Tali Enti sono individuati con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni di Camera e Senato, il Consiglio dei ministri, su proposta del MIUR, il
31 X. Xxxxxxxxx, Gratuità e finanziamenti pubblici, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, Milano 2008, 103‐104.
quale deve preventivamente acquisire il parere del Consiglio nazionale della scienza e della tecnologica (CNST)32.
Questi Enti, secondo quanto stabilito dalla legge stessa, si danno ordinamenti autonomi con propri regolamenti nel rispetto delle loro finalità istituzionali, gestiscono programmi di ricerca di interesse nazionale e provvedono all’istituzione, all’organizzazione ed al funzionamento delle strutture di ricerca e di servizio.
Il CNR, in particolare, nel sistema degli Enti pubblici di ricerca, occupa un posto del tutto particolare per il complesso delle importanti funzioni ad esso attribuite.
Fu istituito con r.d. del 18 novembre 1923, n. 2895, quale Ente di ricerca ausiliario dello Stato, ma la sua disciplina risulta fondamentalmente dal x.x.xx n. 82 del 1945, che ha fissato i compiti e disegnato l’organizzazione interna del CNR qualificandolo, all’art. 1, “organo dello Stato dotato di personalità giuridica e gestione autonoma”, nonché da alcuni atti normativi successivi che hanno toccato profili particolari; fra di essi, riveste notevole importanza la legge 2 marzo 1963, n. 283, il cui art. 8, in particolare, riconosce al CNR il ruolo di componente essenziale per la realizzazione delle finalità di ricerca scientifica che l’art. 9. Cost. riserva allo Stato33.
Va sottolineato, in primo luogo, che il CNR è appunto “Consiglio” nazionale delle ricerche e non “Centro”; questo significa che, nonostante la poco chiara definizione delle funzioni che il CNR ha avuto nelle prime stesure del suo statuto, l’idea di fondo era sicuramente quella che la struttura di questo ente dovesse svolgere un compito fondamentale di consiglio, cioè di consulenza organizzata a favore dello Stato. Infatti, fra le funzioni che il x.x.xx 82/1945 attribuisce al CNR, c’è quella di organo di consulenza del Presidente del consiglio dei ministri, dei singoli ministri e dell’attuale CIPE.
Inizialmente dotato di funzioni prevalentemente generali di consulenza e coordinamento della ricerca per rami della scienza, il CNR ha progressivamente visto crescere il suo apparato di ricerca diretta, anche a seguito della l. 283/1963 che ne ha notevolmente modificato il ruolo e le dimensioni.
La legge 283/1963, infatti, ha trasformato definitivamente il CNR in un Ente a competenza generale attraverso l’estensione alle scienze umane, dunque alle scienze storiche e filosofiche, giuridiche e politiche, economiche e sociologiche, nonché mediante l’attribuzione di una autonomia organizzativa consistente nell’emanazione di regolamenti approvati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri34.
32 X. Xxxxxx, op. cit., 364.
33 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 400. È stato ricordato da alcuni autori, al riguardo, che la definizione del CNR come “Organo” dello Stato ha valore enfatico, in quanto non ne modifica la vera natura di ente pubblico.
34 X. Xxxxx, op. cit., 779.
Negli anni si è poi assistito ad una proliferazione di interventi legislativi che hanno potenziato alcune tra le funzioni proprie del CNR attribuendo loro maggiore importanza rispetto alle altre funzioni tipiche di programmazione, coordinamento, consulenza e formazione professionale dei ricercatori. Stiamo parlando, in particolare, delle funzioni di promozione della ricerca, soprattutto attraverso strumenti di tipo finanziario, e di svolgimento diretto delle attività di xxxxxxx00.
Come già accennato, il CNR ha avuto per molti anni il ruolo di finanziatore dei contratti di ricerca con l’Università, finché il D.P.R. 382/1980 non ha previsto il finanziamento diretto della ricerca universitaria. I contratti del CNR trovano una loro apposita disciplina nella legge che ha riorganizzato l’Ente stesso nell’immediato dopoguerra (x.x.xx. 1‐3‐45, n. 82 e d.lgs. 7‐5‐48, n. 1167)36. Al riguardo, la legge 2 marzo 1963, n. 283, in particolare, all’art. 6 stabilisce che il CNR può stipulare accordi o convenzioni con le Amministrazioni pubbliche, le Università, gli Enti e i privati interessati per l’espletamento dei propri compiti di promozione e coordinamento della ricerca scientifica. L’art. 20 del D.P.C.M. 26 gennaio 1967, altresì, prevede che il CNR opera concedendo finanziamenti a studiosi o Enti per lo svolgimento di determinati programmi mediante contratti di ricerca da concludere secondo schemi generali approvati dal Consiglio di Presidenza e dalla Giunta amministrativa37.
L’attività di ricerca del CNR si è svolta inizialmente negli organi di ricerca dell’Ente stesso, ovverosia gli Istituti, i laboratori, i Centri di studio ed i gruppi di ricerca, ma, a con un’ulteriore riorganizzazione, avvenuta in seguito all’immissione del CNR nel parastato, da queste strutture sono rimaste esclusi i laboratori ed i gruppi di ricerca38.
Per quanto riguarda l’ambito di operatività dell’Ente, esso opera nel campo della ricerca di base, orientata su tematiche prioritarie, e della ricerca applicata, finalizzata al conseguimento di obiettivi specifici. Tale ambito, inizialmente, è stato individuato dalla più volte richiamata l. 168/1989 per evitare sovrapposizioni di attività e di
35 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 400‐401.
36 X. Xxxxxxx, Ricerca (contratto di), in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino 1998, 521, osserva che tale legge mostra in modo evidente l’intenzione di introdurre un pregnante controllo da parte del promotore sull’intera fattispecie contrattuale nonché sull’operato dei ricercatori.
37 X. Xxxxx, Risoluzione e recesso nel contratto di ricerca, in Recesso e risoluzione nei contratti a cura di
X. Xx Xxxx, Xxxxxx 0000, 000.
00 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 402. La struttura amministrativa del CNR rimane comunque fortemente centralizzata: gli istituti dipendono dall’amministrazione centrale per aspetti fondamentali della loro attività, quali la dotazione del personale e la fornitura di locali, mentre i centri sono delle strutture di collaborazione tra il CNR e altri enti di ricerca e non hanno una disciplina di carattere generale. Le collaborazioni, in particolare, sono regolate da apposite convenzioni stipulate tra il Consiglio e gli enti presso cui i centri sono istituiti che, nella maggior parte dei casi, sono le Università.
finanziamenti con le Università e gli altri Enti di ricerca, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno di essi e del coordinamento tra ricerca di base e ricerca applicata39.
(Segue): b) gli altri Enti non strumentali di ricerca
Accanto al processo di potenziamento e di crescita del CNR, negli stessi anni si assiste alla proliferazione di nuovi Centri di ricerca pubblici, accomunati dal fatto di essere dei veri e propri Centri di ricerca, dotati della capacità di stabilire rapporti giuridici autonomi e di possedere propri patrimoni, anche se sottoposti alla stretta vigilanza delle amministrazioni dello Stato40.
Si è già segnalata, infatti, la novità costituita dalla norma della l. 168/1989, che esplicitamente estende agli Enti pubblici di ricerca che svolgono attività di ricerca a carattere non strumentale le garanzie costituzionali di autonomia di cui all’art. 33, ultimo comma, della Costituzione. La norma costituzionale appresta una garanzia di autonomia a quelle forme di autoorganizzazione della comunità scientifica che, all’epoca della stesura e della promulgazione della Costituzione, costituivano gli unici due poli del sistema della ricerca: le Università e le Accademie.
Le Accademie, quali liberi consessi di studiosi, costituirono il primo esempio di comunità scientifica che si organizza autonomamente per la promozione della scienza, e, fin dal loro sorgere, si caratterizzarono per un forte fondamento corporativo che era esso stesso condizione di autonomia verso l’Università, ma soprattutto verso la chiesa ed il potere politico cui erano fortemente soggette.
Oggi, nel mutato assetto del sistema, si possono ancora identificare due distinti poli di aggregazione della ricerca, costituiti, però, dalle Università da un lato e dal complesso degli Enti e delle Istituzioni di ricerca non strumentale dall’altro. Le Accademie, invece, pur mantenendo la propria autonomia, costituiscono ormai delle sedi di scambio, conservazione e diffusione delle conoscenze, ma non sembrano più porsi come sedi fondamentali di produzione della ricerca scientifica41.
Tali Enti, a partire dalla legge 20 marzo 1975, n. 70, sono stati ricompresi insieme al CNR nel c.d. parastato42. Lo stretto collegamento che si è realizzato con gli altri Enti
39 X. Xxxxxx, op. cit., 364‐365.
40 X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, op. cit., 4.
41 X. Xxxxxxx, Autonomie e libertà, op. cit., 306‐309, il diritto di darsi ordinamenti autonomi sarebbe, dunque, riconosciuto a comunità di studiosi al fine di garantire la loro complessiva posizione di indipendenza o il pieno sviluppo della ricerca scientifica libera o non strumentale, al di fuori dei troppi condizionamenti esercitati da interessi pubblici ed economici.
42 X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, op. cit., 4. La conseguenza più rilevante legata all’immissione di tali enti nel parastato, è stata la definizione e stabilizzazione del rapporto di lavoro degli addetti nonché l’introduzione di una contrattazione collettiva triennale.
ricompresi nel parastato, se da una parte ha avvicinato le carriere e le qualifiche proprie dell’attività svolta da questi Enti, con conseguente allontanamento dell’attività stessa da quella dell’Università, dall’altra non ha comportato alcuna apprezzabile conseguenza per ciò che attiene alla loro organizzazione interna né per quanto riguarda l’applicazione delle norme di contabilità di Stato43.
Con la legge sul parastato, in particolare, i ricercatori degli Enti di ricerca pubblici, compresi quelli del CNR, sono stati inquadrati nei ruoli organici degli Enti ma tale stabilizzazione del rapporto di lavoro ha coinciso con la scomparsa del ruolo autonomo dei ricercatori, riassorbito in un ruolo unificato: quello del tecnico‐professionale.
Nel ruolo tecnico‐professionale, dunque, venivano ad essere confuse le funzioni proprie dell’attività scientifica e le funzioni tecniche e manageriali, mentre non esisteva una carriera basata su valutazioni di tipo scientifico. Una prima inversione di tendenza, tuttavia, si è avuta con il primo contratto concluso con il comparto ricerca, in applicazione della legge‐cornice sul pubblico impiego. Questo, infatti, ha creato un profilo professionale di ricercatore, articolato, oltre che su una fascia iniziale, su due fasce differenziate di professionalità ed a tutti e tre i livelli si accede solo per concorso pubblico44.
Tra gli Enti elencati nella tabella VI allegata alla legge n. 70 del 1975, in particolare, ve ne sono alcuni che derivano la loro costituzione dall’esigenza di fornire dati conoscitivi e supporto tecnico alle amministrazioni dello Stato: è il caso dell’Istituto di studi per la programmazione economica e dell’Istituto nazionale di economia agraria.
In altri casi, invece, pur essendosi in presenza di Enti incaricati di ricerche spesso finalizzate ad interessi curati da pubbliche Amministrazioni, l’impulso per la costituzione sembra essere provenuto dall’interno stesso dell’organizzazione scientifica: è il caso dell’Istituto nazionale di ottica, dell’Istituto nazionale di geofisica e dell’Istituto nazionale della nutrizione.
Tra gli Enti appartenenti a questa seconda categoria, merita un cenno particolare l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), istituito nel 1951 come organo del CNR, per poi divenire un ente definitivamente autonomo nel 1971.
L’INFN presenta, rispetto agli altri enti di ricerca, una peculiarità organizzativa che sta nella stretta interconnessione con il mondo dell’Università. Diversamente da quanto avviene nel CNR, nel quale è forte la presenza dei docenti universitari negli
43 X. Xxxxxxx, Ricerca, op. cit., 5, che anzi, osserva l’autore, sono state rese ancora più penetranti dal
D.P.R. n. 696/1979.
44 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 402‐403. Risulta evidente in tale impostazione la volontà di rendere la carriera del ricercatore degli Enti pubblici di ricerca paragonabile e competitiva con quella universitaria, anche se, in assenza di una legge che disciplini lo stato giuridico e le equiparazioni tra le due reti di ricerca, è stabilita una equiparazione soltanto economica.
organi di consulenza e di direzione dell’Ente, all’INFN ricercatori dell’Ente e docenti‐ ricercatori universitari collaborano pienamente allo svolgimento delle ricerche nei laboratori. E ciò comporta l’introduzione di meccanismi di elezione analoghi a quelli universitari per l’indicazione dei direttori delle sezioni e dei diversi laboratori di ricerca in cui l’INFN è articolato45.
(Segue): d) Gli Enti di ricerca strumentali. l’ENEA
Gli Enti di ricerca strumentali sono Enti di diritto pubblico titolari di specifiche competenze di ricerca soltanto per obiettivi predeterminati, e godono di un’autonomia minore rispetto a quella degli Enti di ricerca non strumentali46.
Tra questi rientra l’ENEA, nato come Comitato nazionale per l’energia nucleare con legge 11 agosto 1960, n. 633, oggi trasformato in Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile.
Anche l’ENEA, come gli altri Enti e Istituti di ricerca, per lo svolgimento dei propri compiti può affidare, sulla base di appositi contratti, ad Università, Istituti di ricerca e sperimentazione e ad Enti e società l’esecuzione di studi, di ricerche ed esperienze per l’attuazione di propri programmi scientifici, secondo quanto disposto dalla legge 5 marzo 1982, n. 84 recante “Modificazioni ed integrazioni alla legge 15 dicembre 1971,
n. 1240, concernente la ristrutturazione del Comitato nazionale per l’energia nucleare”.
L’ENEA è sottratto alla disciplina del parastato e ciò gli attribuisce una maggiore autonomia organizzativa. Infatti, la riorganizzazione delle strutture avviene con semplice deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’Ente, piuttosto che con legge o decreto del Presidente del Consiglio dei ministri come accade per gli altri Enti sopra esaminati, mentre il trattamento giuridico ed economico del personale è fissato con autonoma e separata contrattazione collettiva47.
L’ENEA promuove ed effettua attività di studio, di ricerca, di sviluppo e di dimostrazione attinenti ad aspetti tecnologici. Quanto alla ricerca industriale, costituita soprattutto dai laboratori di studio delle imprese pubbliche e private, è stata sostenuta per un lungo arco di tempo con il sistema del finanziamento ed incentivo previsto dal fondo IMI per la ricerca applicata, istituito con legge 25 ottobre 1968, n. 1068. Tale fondo, come vedremo meglio nei successivi paragrafi, con l’entrata in vigore della legge 17 febbraio 1982, n. 46, è stato utilizzato anche per programmi nazionali di
45 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 404.
46 X. Xxxxxx, op. cit., 365.
47 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 404.
ricerca applicata realizzati con lo strumento dei contratti di ricerca. Quest’ultima novità, in particolare, ha notevolmente allargato la collaborazione tra gli Enti e gli organi di ricerca ed il sistema produttivo48.
La ricordata separazione dell’ENEA dal parastato, però, ha comportato una più netta separazione tra il personale dell’Ente stesso e quello dell’Università e degli altri Enti pubblici di ricerca, e tale differenziazione di stati non ha favorito il necessario processo di mobilità e di scambio che dovrebbe governare il funzionamento della comunità scientifica. Inoltre, tale separazione, esaltando gli aspetti di
<<managerialità>> del personale a scapito della qualità del lavoro scientifico, ha finito per trasformare progressivamente l’ENEA da Ente produttore di ricerca a Ente di promozione di ricerca all’esterno e di applicazione della innovazione tecnologica49.
(Segue): e) La Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia
Tra gli Enti pubblici di ricerca, merita un cenno a parte la fondazione Istituto Italiano di Tecnologia. Si tratta di una fondazione di diritto privato disciplinata dagli artt. 14 e ss. del codice civile, istituita con decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, poi convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, recante “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.
Pur essendo una fondazione di diritto privato, tuttavia, l'Istituto rientra nell’elenco pubblicato dall’ISTAT, da ultimo nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 227 del 28 settembre 2012, nel quale annualmente vengono individuate le Amministrazione pubbliche inserite nel conto economico consolidato di cui alla legge 31 dicembre 2009,
n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica); pertanto, ai fini della predetta legge l’IIT può essere equiparato a tutti gli effetti ad un Ente pubblico di ricerca.
L’art. 4 della legge di conversione 326/2003 istituisce la fondazione denominata Istituto Italiano di tecnologia (IIT) allo specifico scopo di “promuovere lo sviluppo tecnologico del Paese e l’alta formazione tecnologica, in coerenza con gli indirizzi della politica scientifica e tecnologica nazionale, favorendo così lo sviluppo del sistema produttivo nazionale”.
In particolare, l’IIT promuove e sviluppa l’eccellenza scientifica e tecnologica sia in forma diretta, attraverso propri laboratori di ricerca multi‐disciplinari, sia in forme indirette, facendo leva su collaborazioni a rete con laboratori e gruppi di eccellenza nazionali e internazionali. L’obiettivo è quello di inserirsi nel tessuto industriale per svolgere attività collaborative con le aziende, avvalendosi degli schemi negoziali messi
48 X. Xxxxxx, op. cit., 366.
49 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 404.
a disposizione dalla prassi, allo scopo di contribuire al processo di innovazione generando una massa importante di ricerca tecnologica.
Infatti, come si legge nello Statuto dell’IIT, rientra tra gli scopi della fondazione la creazione di conoscenza tecnologica relativa a componenti, legami tra di essi, metodi, processi e tecniche concorrenti alla generazione di prodotti, servizi e nuovi settori produttivi strategici per la competitività del sistema produttivo nazionale.
A tal fine, l’IIT promuove al suo interno e nell’ambito dell’intero sistema nazionale della ricerca, la cultura della condivisione e del valore dei risultati a fini produttivi e sociali, facilita e accelera la crescita, nel sistema della ricerca nazionale, di capacità scientifiche e tecnologiche idonee a favorire la transizione del sistema produttivo nazionale verso assetti ad alto contenuto tecnologico.
Istituito sul modello dei più importanti Enti di ricerca attivi nel panorama internazionale e ad essi fortemente ispirato, presente alcune affinità ma allo stesso tempo elementi di forte caratterizzazione che lo allontanano dai comuni Enti di ricerca italiani sin qui analizzati. Rispetto a questi, infatti, l’IIT presenta una struttura ed un’organizzazione sicuramente più snella, prendendo così le distanza da quelle che sono le regole classiche di amministrazione e funzionamento cui sottostanno le Università e gli Enti pubblici di ricerca in generale.
Ciò è chiaramente dovuto alla sua natura giuridica di fondazione di diritto privato; infatti, sebbene lo Statuto della fondazione sia approvato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti il MIUR e il MEF, e il patrimonio sia costituito ed incrementato da apporti dello Stato, di soggetti pubblici e privati, la natura di fondazione di diritto privato permette all’Ente una maggiore flessibilità soprattutto per quanto attiene agli aspetti legati al personale.
Invero, diversamente da quanto accade negli altri Enti pubblici di ricerca, in cui le assunzioni avvengono per concorso, l’applicazione delle norme di diritto privato permette all’IIT di assumere il personale amministrativo e di ricerca mediante procedure selettive più snelle; ciò a conferma del fatto che l’idea di fondo che è alla base della sua costituzione era proprio quella di creare un’organizzazione di ricerca molto dinamica orientata allo sviluppo tecnologico, assimilabile nel suo assetto funzionale a quelle che sono le organizzazioni di ricerca che operano sulla scena internazionale.
3.2 b) La promozione della ricerca
Il sostegno pubblico alla ricerca e innovazione industriale risale in Italia ad epoca recente, e si gioca prevalentemente attraverso l’articolato sistema dell’impresa e degli
Enti pubblici, piuttosto che attraverso l’amministrazione diretta a lungo bloccata da procedure contrattuali inidonee a corrispondere alle esigenze di questo particolare tipo di committenza. Negli anni ’80, in particolare, si è registrata un’esplosione della tematica dell’innovazione e, per conseguenza, la messa a punto di politiche ad essa finalizzate. In questo campo, la crescente interazione tra politica scientifica e politica industriale e tra sistema della ricerca e mondo produttivo è uno dei motivi di diffusione delle formule collaborative50.
La promozione della ricerca avviene sostanzialmente attraverso due sotto‐funzioni: il finanziamento della ricerca e la fornitura di servizi ad essa complementari.
Riguardo a quest’ultima sotto‐funzione, per fornitura di servizi complementari e accessori alla ricerca si intende i servizi di biblioteca e documentazione, gli archivi elettronici, la messa a disposizione di laboratori e attrezzature, la creazione di centri di calcolo ed i servizi amministrativi e contabili. Tale funzione è svolta soprattutto dal CNR, sia attraverso le proprie strutture amministrative che attraverso la rete dei propri organi di ricerca51.
L’erogazione dei finanziamenti pubblici, normalmente, avviene in regime privatistico e sulla base di contratti che devono necessariamente contemperare numerosi interessi, tra i quali l’interesse generale ad incentivare le ricerche di importanza strategica per il rinnovamento del sistema produttivo, l’interesse pubblico a che l’attuazione delle invenzioni ottenute sia conforme ai fini di politica economica propri di ciascun finanziamento, l’interesse dei privati ad organizzare la propria attività di ricerca secondo criteri di economicità e ad appropriarsi in esclusiva dei suoi risultati inventivi, ed infine l’interesse di tutta l’industria nazionale a trarre vantaggio da tali risultati52.
Per quanto riguarda il finanziamento della ricerca di base, in particolare, gli strumenti giuridici per la erogazione dei fondi sono sostanzialmente due: i contratti di ricerca ed i contributi di ricerca.
La funzione di promozione della ricerca, originariamente, è stata a lungo affidata in buona misura al CNR. Questo, infatti, per lungo tempo ha costituito l’unica fonte di finanziamento delle strutture universitarie all’infuori dei normali fondi di finanziamento.
Oggi, il compito di promuovere la ricerca scientifica spetta altresì a tutti gli altri Enti pubblici di ricerca, costituiti per svolgere ricerche in particolari settori disciplinari. Così,
50 X. Xxxxxxx, op. cit., 230‐232.
51 X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, op. cit., 6.
52 X. Xxxxx, Profili contrattuali nel finanziamento pubblico della ricerca tecnologica, in Riv. dir. civ., II, 1988, 406.
nello statuto dell’INFN si legge che “l’Istituto promuove, coordina ed effettua la ricerca scientifica nel campo della fisica nucleare, subnucleare, astroparticellare e delle interazioni fondamentali, nonché la ricerca e lo sviluppo tecnologico pertinenti all’attività in tali settori (…)”, nello statuto dell’IIT si legge che “La Fondazione ha lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico del Paese e l’alta formazione tecnologica, in coerenza con gli indirizzi della politica scientifica e tecnologica nazionale, favorendo così lo sviluppo del sistema produttivo nazionale”.
Per meglio comprendere le modalità con le quali la promozione della ricerca viene esercitata dai vari Enti, è necessario analizzare da vicino come questa funzione sia stata esercitata in origine dal CNR. A tal proposito, xxxxx richiamare l’art. 6 della legge 2 marzo 1963, n. 283, il quale espressamente riconosce al CNR il potere di concludere accordi o convenzioni con le Amministrazioni pubbliche, le Università, gli Enti ed i privati interessati, al fine di espletare i propri compiti istituzionali di promovimento e coordinamento della ricerca scientifica53.
Ancora, l’art. 20 del d.P.C. 25 febbraio 1969 intitolato “Iniziative del CNR per lo sviluppo delle attività scientifiche svolte al di fuori dei propri organi di ricerca” richiama, quale importante canale di finanziamento esterno, il contratto di ricerca che, secondo la norma, doveva fungere da strumento per finanziare lo svolgimento di determinati programmi di ricerca da parte di studiosi o Enti. Tali contratti, inoltre, dovevano essere conclusi secondo gli schemi generali approvati dagli organi direttivi del CNR54. Il procedimento di affidamento era il seguente: il comitato di consulenza del Consiglio identifica un progetto come di particolare importanza, identifica i soggetti e le strutture esterne più idonee per il suo svolgimento, ed infine affida a queste lo svolgimento della ricerca secondo tempi e modalità già predeterminati nello schema generale di contratto.
Con tale strumento, dunque, si attua un vero e proprio rapporto contrattuale in cui l’attività di ricerca è vista come controprestazione dovuta da parte della struttura affidataria al CNR che assegna il finanziamento; siamo dunque in presenza di un vero e proprio contratto di xxxxxxx00.
53 X. Xxxxxxx, op. cit., 519.
54 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 404.
55 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 405. Lo strumento del contratto avrebbe dovuto consentire un controllo sullo svolgimento effettivo e sui risultati dell’attività di ricerca finanziata, ma nella prassi del CNR questo controllo è esercitato solo ai fini dell’applicazione della sanzione della impossibilità ad accedere ad ulteriori finanziamenti per ricercatori che non abbiano completato precedenti programmi di ricerca. Progressivamente, infatti, anche per tale ragione i comitati hanno proposto l’abbandono del contratto di ricerca a favore di altri strumenti giuridici di finanziamento esterno, e, in particolare, quello del contributo.
Il procedimento per la concessione del finanziamento nella forma del contratto, come abbiamo visto, è un procedimento che tende a privilegiare il momento della domanda di finanziamento da parte dei vari studiosi o Università, rispetto al momento della autonoma individuazione di programmi di ricerca da parte del CNR o dei suoi comitati, e questa prassi si è stabilizzata, appunto, proprio negli anni in cui il CNR costitutiva l’unica fonte di finanziamento esterno delle Università.
L’altro strumento previsto dall’art. 20 della legge, è rappresentato dai contributi volti a favorire la partecipazione di studiosi a convegni e congressi, a consentire agli stessi studiosi di soggiornare all’estero oppure organizzare convegni, congressi, corsi o seminari. Progressivamente, tuttavia, tale strumento è stato utilizzato proprio per finanziare le attività di ricerca vere e proprie. Nel relativo procedimento, prevalgono il momento della domanda da parte dello studioso o istituto interessato rispetto alla programmazione e all’indirizzo del CNR56.
Il finanziamento della ricerca applicata, invece, ha assunto un’importanza crescente a partire dalla istituzione di un apposito fondo speciale presso l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), avvenuto con legge 25 ottobre 1968, n. 1089, e del successivo fondo di rotazione per l’innovazione tecnologica (FIT) istituito dalla legge 17 febbraio 1982, n. 46.
Il fondo IMI per la ricerca applicata, ai sensi dell’art. 1 della legge 1089/1968, viene istituito proprio allo scopo di “accelerare il progresso e lo sviluppo del sistema industriale del Paese e l’adozione delle tecnologie e delle tecniche più avanzate”, ed è utilizzabile per finanziare progetti di ricerca, programmi nazionali di ricerca, iniziative per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali, nonché per ricerche proposte da Amministrazioni pubbliche.
Il fondo, di carattere rotativo, può essere erogato, tra l’altro, “sotto forma di interventi nella spesa – nella misura non superiore al 70% ‐ dei progetti di ricerca sottoposti da imprese industriali e di ricerca e loro consorzi, disciplinati da convenzioni o contratti che prevederanno il rimborso degli interventi in rapporto al successo della ricerca, ovvero, in caso contrario, l’acquisizione degli studi e dei risultati all’IMI” (art. 4 della legge 1089/1968)57. I contratti stipulati dall’IMI in base alla legge 1089/1968, dunque, possono essere considerati contratti di promozione dell’attività di ricerca che,
56 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 406.
57 X. Xxxxxxxxxxxx, I diritti di autore e di inventore risultanti dal contratto di ricerca, in Gli aspetti istituzionali della ricerca scientifica in Italia e in Francia, Milano 1987, 556. Il contratto‐tipo prevede o l’acquisizione da parte dell’impresa beneficiaria del contributo dei risultati della ricerca nel caso di successo (con obbligo però del rimborso dei finanziamenti all’IMI), o il passaggio in proprietà all’IMI degli studi e dei risultati anche parziali ottenuti, in caso di insuccesso.
quando prevedano «interventi alla spesa», utilizzano il particolare criterio del successo della ricerca per l’attribuzione dei suoi risultati58.
L’esecuzione dei progetti di ricerca viene dunque affidata mediante contratti di ricerca stipulati tra l’IMI, che risulterà essere il committente la ricerca, ed i soggetti beneficiari. Lo stesso articolo aggiunge poi che la precedenza negli interventi dell’IMI è data alle società costituite dagli Enti pubblici economici, le imprese e loro consorzi, che dispongono di personale e laboratori di ricerca attrezzati “per una immediata e adeguata verifica delle possibilità di trasferimento sul piano produttivo dei risultati della ricerca o che collaborino a progetti di rilevanza internazionale”59.
Con la legge 46/1982 il legislatore, oltre a modificare la normativa sul fondo IMI, ne integra il ruolo con la costituzione di un nuovo fondo per l’innovazione tecnologica (FIT) a sostegno delle attività di ricerca a carattere fortemente innovativo. Il FIT, istituito presso il Ministero dell’industria e destinato a svolgere un ruolo complementare a quello per la ricerca applicata, per fare eseguire tali ricerche presceglie proprio lo strumento negoziale 60.
Invero, l’art. 9 della legge 46/1982 prevede espressamente che il Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica affida l’esecuzione dei programmi nazionali di ricerca finalizzati allo sviluppo di tecnologie fortemente innovative e strategiche con contratti di ricerca ai soggetti di cui all’art. 2 della l. 46/1982, ovverosia, le imprese industriali ed i consorzi tra queste, gli Enti pubblici economici che svolgono attività produttive e i Centri di ricerca industriale con personalità giuridica autonoma61. Detti contratti, sono poi stipulati dall’IMI su richiesta del Ministro; l’IMI, dunque, assume la qualità di parte contraente in senso formale ma poiché la stipulazione avviene nell’esercizio di un potere rappresentativo costituitosi in seguito alla richiesta rivolta dal Ministro all’IMI, è lo Stato la vera parte committente in
58 X. Xxxxxx, op. cit., 305. In relazione agli «interventi nella spesa» la legge 1089/1968 stabilisce che, in caso di successo della ricerca, il finanziamento dovrà essere rimborsato e i risultati apparterranno al soggetto che ha effettuato la ricerca, mentre in caso di insuccesso gli studi e i risultati parziali conseguiti apparterranno all’IMI.
59 X. Xxxxxxxxxxxxx, Contratto di ricerca scientifica e tecnologica ed obbligo di comunicazione dell’andamento e dei risultati della stessa, in Gli aspetti istituzionali della ricerca scientifica in Italia e in Francia, Milano 1987, 593.
60 X. Xxxxxxx, Organizzazione, op. cit., 407.
61 X. Xxxxx, op. cit., 409. L’autore chiarisce che la necessità di commissionare ricerche a soggetti che esercitano un’attività industriale si giustifica perché essi devono disporre di strutture adeguate per lo svolgimento di ricerche orientate a fini produttivi, ed essere in grado di trasferire i risultati di tali ricerche nella produzione, in modo che il processo di innovazione venga completato in ogni sua fase.
senso sostanziale. Possiamo dunque concludere che il contratto ex l. 46/1982 è definibile come contratto trilaterale62.
Detti contratti, specifica la norma, “debbono prevedere i criteri da seguire nei riguardi dei possibili sviluppi della ricerca nella fase di esecuzione dei contratti stessi e per la definizione della metodologia di utilizzazione dei risultati parziali o finali. La ricerca oggetto del contratto, di norma, deve concludersi con la fase del prototipo di ricerca e del progetto pilota sperimentale, che precede quella della innovazione, sviluppo e preindustrializzazione”. Particolarmente interessante è quanto previsto dall’art. 11 in relazione all’attribuzione dei risultati della ricerca. Come regola generale, infatti, esso stabilisce che “i risultati delle ricerche appartengono allo Stato”, ma contempla l’eventualità, nel caso in cui i risultati siano brevettabili e suscettibili di sfruttamento produttivo, che “il diritto al brevetto sia ceduto all’impresa a titolo oneroso” purché ciò sia previsto contrattualmente.
Quest’ultimo provvedimento legislativo aveva segnalato una certa consapevolezza nel nostro legislatore che, in un contesto internazionale sempre più competitivo, il ruolo di committente delle ricerche di base più rischiose tende ad essere assunto dalle collettività nazionali o sovranazionali e che, per conseguenza, lo Stato è chiamato a passare dal più limitato ruolo di promotore della ricerca a quello più impegnativo di finanziatore della stessa.
Ma il favor legislativo nei confronti del contratto di ricerca come strumento di promovimento del progresso scientifico si manifesta soprattutto attraverso la normazione tecnico‐burocratica: i decreti ministeriali del Ministero per il coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica del 27 luglio 1983 e 21 dicembre 1984, infatti, ispirandosi al testo della legge 46/1982, si occupano rispettivamente di dettare lo schema di contratto‐tipo e lo schema di capitolato tecnico‐tipo per i contratti di ricerca tra l’IMI ed i soggetti affidatari del programma di ricerca, allo scopo di precisarne la struttura e il contenuto63.
Tali schemi contrattuali sono interessanti in quanto costituiscono il primo esempio di condizioni generali di contratto che lo Stato ha predisposto per coordinare l’azione pubblica con l’iniziativa delle imprese di ricerca tenendo conto di tutti i diversi interessi di cui si è dato conto. I citati decreti emanati dal Ministero per il coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica (MCRST) esplicano un’efficacia vincolante immediata all’interno della pubblica Amministrazione e obbligano i contraenti allo loro
62 X. Xxxxx, op. cit., 411. La manifestazione di volontà dell’IMI diretta a stipulare il contratto ha infatti un contenuto in parte produttivo di effetti per lo Stato (committente della ricerca), ed in parte per lo stesso istituto (finanziatore della ricerca).
63 X. Xxxxxxx, op. cit., 519.
osservanza, salvo che non dispongano il contrario. Ciononostante, alla controparte industriale è lasciata una certa elasticità nell’esplicazione della sua funzione tipica: ad essa infatti è rimessa la scelta tra le soluzioni tecniche più opportune per il conseguimento degli obiettivi prefissati64.
E’ necessario precisare, anticipando quello che si dirà nel prossimo capitolo, che i contratti di ricerca commissionata e finanziata dall’Amministrazione pubblica sottendono una logica molto diversa da quella che attiene ai contratti stipulati al di fuori dello schema dei finanziamenti pubblici statali. I primi, infatti, sottendono un interesse pubblico tout court ed in essi non è lasciato spazio all’autonomia privata. I contratti, in questo caso, devono infatti rispondere per l’oggetto agli schemi di cui al decreto ministeriale 16 dicembre 1983 sui programmi nazionali di ricerca finalizzati, e contenere le disposizioni di cui allo schema di convenzione‐tipo del 27 luglio 1983 e di cui allo schema di capitolato tecnico‐tipo del decreto ministeriale del 21 dicembre 1984. La volizione contrattuale, in questi casi, è quindi molto vincolata. Peraltro, la dottrina si è a lungo interrogata sulla tipicità o atipicità dei contratti ex l. 46/1982 ed ha finito per ricondurne lo schema negoziale al sottotipo contrattuale dell’appalto, il quale risulterebbe disciplinato in via principale dalla legge n. 46 del 1982 e dai relativi decreti ministeriali, ed in via residuale dagli artt. 1655 ss. c.c.
Lo stesso non può invece dirsi per quello di cui noi ci occupiamo in questa sede, ovverosia il contratto di ricerca che interviene fra un’impresa privata nella veste di committente ed un Ente pubblico di ricerca nella veste di esecutore, il quale è totalmente sganciato dagli interessi pubblici che sottendono ciascun finanziamento statale. Per tali tipi di contratti, l’autonomia privata trova massimo spazio in quanto la determinazione contrattuale, salvo l’osservanza dei principi di ordine pubblico, non è vincolata all’osservanza dei richiamati decreti ma solo al regolamento contrattuale posto spontaneamente in essere tra le parti.
Possiamo allora concludere che per i contratti ex l. n. 46/1982 la tipizzazione trova un fondamento giuridico nei principi dell’organizzazione amministrativa, mentre per il contratto di ricerca oggetto della nostra indagine la tipizzazione, come meglio vedremo nel prosieguo, è il risultato di una prassi ricorrente e, pertanto, si configura come “tipo sociale”.
64 X. Xxxxxxxxxxxxx, op. cit., 595.
4. Profili privatistici
4.1 Premessa
Dal punto di vista del diritto privato, il problema centrale che l’attività di ricerca pone attiene all’appartenenza dei risultati positivi della ricerca tecnologica, e per conseguenza, al riconoscimento dei diritti patrimoniali e dei diritti morali connessi con l’attività di ricerca.
Il problema nel corso degli anni è divenuto via via sempre più complicato soprattutto in considerazione del fatto che, con l’evoluzione tecnologica che ha caratterizzato gli ultimi secoli, l’organizzazione dell’attività scientifica ha raggiunto una dimensione collettiva, lasciando uno spazio sempre minore alla figura del ricercatore solitario che spontaneamente si pone e risolve problemi tecnici soltanto con la propria attività intellettuale di studio e di ricerca. Si comprende, dunque, come in questa situazione sia fondamentale stabilire chi sia il titolare dei diritti relativi ai risultati della ricerca65.
Una gran quantità della ricerca scientifica viene oggi compiuta in adempimento di un obbligo giuridico; una parte di essa è svolta in posizione di dipendenza mentre un’altra parte è svolta in posizione di indipendenza. Solitamente, viene svolta in posizione di dipendenza l’attività di ricerca effettuata dai ricercatori all’interno di Centri di ricerca, come i laboratori delle imprese pubbliche o private, gli Istituti o i dipartimenti universitari ed altri organismi scientifici pubblici. Viene svolta invece in posizione di indipendenza l’attività di ricerca eseguita da xxxx Xxxxxx in base ad accordi con terzi.
La ricerca dipendente si fonda su contratti di lavoro o atti di assunzione in servizio; la ricerca indipendente, ma dovuta, si fonda invece su quelli che nella prassi vengono chiamati contratti di ricerca.
Il legislatore, in proposito, ha dedicato due diverse norme nel Codice della proprietà industriale alla disciplina delle invenzioni dei dipendenti (art. 64 CPI) e dei ricercatori delle Università e degli Enti pubblici di ricerca (art. 65 CPI) che derogano in tutto o in parte alla regola generale secondo la quale il diritto al brevetto spetta all’autore dell’invenzione e ai suoi aventi causa.
65 L.C. Ubertazzi, Ricerca (Profili privatistici), in Noviss. dig. it., Appendice VI, Torino 1986, 701. Il ricercatore solitario è stato negli anni sostituito da organizzazioni della ricerca privata via via più complesse: in un primo momento dal ricercatore‐imprenditore che attuava i risultati della propria ricerca nella propria impresa; poi dal ricercatore dipendente, dall’équipe di ricercatori strutturati nell’ufficio ricerche e sviluppo dell’impresa industriale, e dall’impresa di engineering addetta unicamente allo studio ed alla soluzione di problemi tecnici per conto altrui.
In particolare, nel corso della presente trattazione mi occuperò dei soli risultati della ricerca che integrano invenzioni brevettabili, per il ruolo fondamentale che queste rivestono nelle dinamiche dell’innovazione, innovazione che, come sappiamo, rappresenta il processo fondamentale sul quale si basa la capacità competitiva di un Paese.
Il processo di innovazione si basa sulla realizzazione di invenzioni tecnologiche che nascono dalla ricerca scientifica svolta dalle Università, dagli altri Enti pubblici di ricerca e dalle imprese private, spesso proprio da una collaborazione fra questi enti. Appare evidente, allora, il ruolo degli strumenti contrattuali che regolamentano tali forme di collaborazione e, primo fra tutti, del contratto di ricerca.
Tra i mezzi disponibili per proteggere l’innovazione generata in un contesto collaborativo tra Ente pubblico di ricerca ed impresa, il brevetto occupa un posto di rilievo, seppure la presenza di tale titolo costitutivo in un sistema di libero mercato rappresenti un apparente paradosso: il brevetto, infatti, crea una situazione di monopolio che, per definizione, è il contrario della concorrenza. Alla base del brevetto, tuttavia, esiste una giustificazione forte: la funzione che esso ha di fornire un incentivo alla ricerca, al progresso tecnico e alla diffusione delle invenzioni tecnologiche66.
4.2 Il problema del riconoscimento dei diritti morali e patrimoniali connessi con l’attività di ricerca
Sull’invenzione industriale, in particolare, sono riconosciuti al suo autore diritti morali e diritti patrimoniali.
Il diritto morale d’inventore è il c.d. diritto di paternità, ovvero il diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione per il solo fatto di averla realizzata. Altro diritto di natura morale è il c.d. diritto alla designazione, il quale consente all’inventore di esigere che il suo nome sia menzionato sul brevetto e di agire giudizialmente per fare accertare la propria paternità sull’invenzione. Si tratta in entrambi i casi di un diritto della personalità, come tale intrasmissibile, irrinunciabile ed imprescrittibile67.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, Manuale di diritto industriale, Milano 2009, 357‐362. Il brevetto è nato e si è sviluppato per tutelare le invenzioni della meccanica che fino a qualche decennio fa era il solo settore della tecnica che producesse invenzioni. Copre soltanto l’innovazione tecnologica, si indirizza cioè solo verso le innovazioni che sono qualificabili come invenzioni industriali. Infatti, l’art. 45 CPI dispone che possono costituire oggetto di brevetto per invenzione le invenzioni, in ogni settore della tecnica, che sono nuove, implicano un’attività inventiva e sono atte ad avere un’applicazione industriale.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 412, il diritto ad essere riconosciuto autore non ha contenuto patrimoniale ma può avere risvolti patrimoniali indiretti: ad esempio, in caso di violazione di tale diritto, può esistere un danno non patrimoniale risarcibile in forma pecuniaria.
Per quel che concerne i diritti morali, quindi, il contratto di ricerca non influisce minimamente sulla spettanza dei medesimi ai veri inventori, in quanto sono sempre riconosciuti al ricercatore che effettivamente è pervenuto all’invenzione.
Più complessa, invece, è la soluzione del problema per quel che concerne i diritti patrimoniali, i quali vengono comunemente divisi in due categorie: 1) il diritto al brevetto, ovvero il diritto a pretendere dall’autorità amministrativa competente il rilascio del brevetto ove l’invenzione sia dotata dei requisiti di brevettabilità e di validità richiesti per legge68, diritto che nasce per il solo fatto dell’invenzione, ha un preciso contenuto patrimoniale ed è trasmissibile; 2) il diritto di brevetto, ovvero la facoltà esclusiva di utilizzazione dell’invenzione69, il quale nasce solo con il rilascio del titolo costitutivo ed è anch’esso un diritto trasmissibile. Normalmente, l’attribuzione di tali diritti è ricavabile dalle pattuizioni contrattuali, dunque in linea di principio non sorgono problemi sulla titolarità dei brevetti; piuttosto, questi stessi problemi sono oggetto di vivace dibattito in sede di negoziazione del contratto di ricerca.
Con specifico riferimento alle invenzioni brevettabili, la normativa vigente delinea la titolarità dei diritti sulle invenzioni tenendo presente una struttura della ricerca affidata ad operatori individuali indipendenti; infatti, il principio generale dettato dall’art. 63, comma 2, Codice della proprietà industriale (CPI), in accordo con quanto stabilito dall’art. 2588 c.c., è che il diritto al brevetto spetta all’autore dell’invenzione e ai suoi aventi causa. Il panorama attuale, tuttavia, è molto diverso da come era stato pensato dal legislatore: oggi, l’attività inventiva viene svolta prevalentemente da gruppi di ricerca in cui sono coinvolti diversi operatori professionali afferenti a due o più enti, pubblici o privati, che, nella maggior parte dei casi, svolgono attività di ricerca in esecuzione di contratti stipulati con terzi interessati all’utilizzazione dei risultati70.
Al di là del principio generale dettato dall’art. 63, comma 2, CPI, il legislatore ha dedicato due diverse norme alla disciplina delle invenzioni dei dipendenti (art. 64 CPI)
68 I requisiti di brevettabilità previsti dalla legge sono la novità, l’originalità, l’industrialità e la liceità, cui va aggiunta la sufficiente descrizione quale requisito di validità che attiene alla redazione del brevetto come documento.
69 L’art. 66 CPI, dopo aver stabilito che i diritti di brevetto per invenzione industriale consistono nella facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel territorio dello stato, entro i limiti e alle condizioni previste dallo stesso CPI, specifica al comma 2 che il brevetto di prodotto, in particolare, conferisce al suo titolare il diritto esclusivo di vietare a terzi, salvo consenso, di produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto in questione, mentre il brevetto di procedimento conferisce il diritto esclusivo di vietare a terzi, salvo consenso del suo titolare, di applicare il procedimento, nonché di usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto direttamente ottenuto con il procedimento in questione.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 411, appare deprecabile, in tale contesto, la disattenzione del legislatore verso i problemi della contitolarità dell’invenzione e per quelli della ricerca su commessa che, dunque, restano affidati agli accordi delle parti, o, in presenza di accordi non univoci, ad una disciplina che l’interprete deve faticosamente cercare di rintracciare nei principi del sistema brevettuale.
e dei ricercatori delle Università e degli Enti pubblici di ricerca (art. 65 CPI) che derogano in tutto o in parte alla regola generale.
Per completezza d’esposizione, ricordiamo che parlare di diritto d’autore in relazione ad una ricerca può essere anche riferito al diritto di pubblicare l’opera, ai sensi della legge sul diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633), seppure tale tema non rientri nell’oggetto specifico del presente lavoro è concentrato sui contratti di ricerca che diano luogo ad invenzioni brevettabili. Anche riguardo ai diritti d’autore distinguiamo tra diritti morali e diritti patrimoniali d’autore. I diritti morali d’autore, sono identificabili nel diritto ad essere riconosciuto autore dell’opera, e quindi la facoltà di rivendicarne la paternità e quella di rifiutare la paternità di opere non create, e nel diritto dell’autore ad opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione, e ad ogni atto a danno dell’opera stessa che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione. A differenza dei diritti morali, i diritti patrimoniali d’autore derivanti dalla pubblicazione dei risultati della ricerca appartengono a chi avrà provveduto alla pubblicazione dei risultati, salvo diversa pattuizione contrattuale71.
4.3 La ricerca dipendente. La disciplina delle invenzioni dei dipendenti.
L’art. 64 CPI, in particolare, regola la materia delle invenzioni dei dipendenti, ovverosia delle invenzioni realizzate dal prestatore di lavoro subordinato. In linea generale, se l’inventore è dipendente di un Ente privato o di un Ente pubblico che non abbia fini di ricerca, il diritto patrimoniale al rilascio del brevetto viene tendenzialmente attribuito al datore di lavoro. L’articolo in commento delinea in proposito tre diverse fattispecie che prevedono per l’inventore diverse modalità di remunerazione.
La prima ipotesi, definita dalla dottrina “invenzione di servizio”, si caratterizza per il fatto che l’invenzione è realizzata nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro in cui l'attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo appositamente retribuita. In questo caso, i diritti patrimoniali derivanti dall'invenzione appartengono automaticamente al datore di lavoro, mentre al lavoratore spetta il diritto di esserne riconosciuto autore.
La seconda ipotesi è quella delle “invenzioni d’azienda”, ovvero quell’invenzione realizzata nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività inventiva non è prevista come oggetto del contratto o del
71 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 559.
rapporto né è prevista e stabilita una retribuzione in compenso della stessa; di conseguenza, l’invenzione d’azienda si innesta solo casualmente sull’attività del dipendente. In tal caso, sebbene i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione appartengono in modo immediato e diretto al datore di lavoro, l’inventore, oltre al diritto al riconoscimento della paternità dell’invenzione, ha diritto alla corresponsione di un equo premio.
In relazione a quest’ultimo aspetto, occorre sottolineare che, recentemente, è stata introdotta una rilevante modifica alla disciplina dell’equo premio ad opera del D.lgs n. 131/2012 il quale ha previsto che tale premio spetti al dipendente non solo nel caso in cui il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto ma anche qualora decidano di utilizzare l'invenzione in regime di segretezza industriale, vale a dire, nel caso in cui l’azienda del datore di lavoro ottenga un vantaggio dallo sfruttamento dell’invenzione a prescindere dalla sua brevettazione.
Nella determinazione dell’equo premio deve tenersi conto dell'importanza dell'invenzione (cioè non del valore dell’invenzione in sé ma del valore dell’invenzione in quanto brevettata), delle mansioni svolte e della retribuzione percepita dall'inventore (quindi della distanza tra l’invenzione e le mansioni svolte dal dipendente) nonché del contributo che l’inventore stesso ha ricevuto dall'organizzazione del datore di lavoro (cioè dei rapporti tra l’invenzione ed il livello della tecnica aziendale)72.
L’accertamento dell’esistenza di un diritto dell’inventore all’equo premio è affidata al giudice ordinario e cioè alle sezioni specializzate, mentre la sua determinazione, se
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 419‐420. Per la quantificazione dell’equo premio si è spesso adoperata, anche in Italia, la c.d. formula tedesca, criterio di quantificazione del premio proposto dal legislatore tedesco. La formula è I = V x P, dove “I” è l’ammontare dell’indennità riconosciuta al dipendente, “V” è il valore dell’invenzione, “P” è un fattore proporzionale, espresso in una percentuale, che misura l’apporto del dipendente. Il fattore “V” corrisponde al corrispettivo che l’impresa dovrebbe pagare per acquisire il diritto di utilizzazione dell’invenzione. Vengono indicati vari modi di calcolo di tale valore, distinguendo a seconda che l’invenzione sia sfruttata nell’impresa o sia sfruttata attraverso la concessione di licenze o cessione a terzi, ovvero non sia sfruttata né sfruttabile. Il valore dell’invenzione coinciderà, per ciascuna delle tre ipotesi, con il possibile canone di licenza, con il prodotto effettivo o con il prodotto stimato. Il fattore “P” viene calcolato sulla base di tre indici. Il primo attiene alla posizione del problema e misura l’iniziativa assunta dal dipendente nell’affrontare il problema tecnico oggetto dell’invenzione; varia da 1 a 6, crescendo con il decrescere dell’autonomia del ruolo avuto dal dipendente rispetto al management dell’impresa nella posizione del problema. Il secondo attiene alla soluzione del problema e misura il rilievo del contributo intellettuale e materiale che l’impresa ha fornito al dipendente per la soluzione del problema; varia da 1 a 6, crescendo con il decrescere del contributo dell’impresa. Il terzo individua le mansioni e la posizione del dipendente all’interno dell’impresa; varia da 1 a 8 crescendo con lo scendere del dipendente nella scala delle funzioni di ricerca aziendali. Sommando i valori attribuiti ai tre indici si ottiene un totale che può variare da 3 a 20. Tale valore viene poi tradotto in termini percentuali, in scala da 2 a 100. Una volta determinati i fattori “V” e “P”, “I” sarà uguale alla percentuale “P” del valore “V”.
non viene conseguita d’intesa tra le parti, è rimessa all’equo apprezzamento di un collegio di arbitratori.
L’ultima ipotesi concerne le “invenzioni occasionali” e ricorre quando l’invenzione, pur rientrando nel campo di attività del datore di lavoro, non ha alcun nesso oggettivo con le mansioni del dipendente. Si tratta di una categoria residuale in quanto applicata solo nel caso in cui non ricorrano le ipotesi previste dai precedenti commi 1 e 2. L’invenzione è detta occasionale proprio perché manca la connessione oggettiva tra mansioni ed invenzione, sussistendo soltanto un legame cronologico tra attività inventiva e rapporto di lavoro. Il diritto al rilascio del brevetto spetta in questo caso al lavoratore, ma la legge attribuisce al datore di lavoro un diritto di opzione per l’acquisto del brevetto, per la concessione di una licenza e per l’acquisto del diritto al rilascio di brevetti stranieri per la stessa invenzione, da esercitarsi entro tre mesi dalla data di ricevimento della comunicazione dell'avvenuto deposito della domanda di brevetto. Qualora il datore di lavoro decida di esercitare tale diritto dovrà versare un prezzo o canone dal quale va dedotta una somma corrispondente agli aiuti che l’inventore abbia comunque ricevuto dal datore di lavoro per la realizzazione dell’invenzione. Se le parti non trovano un’intesa sulla determinazione del prezzo o canone si dovrà ricorrere ad un collegio di arbitratori secondo le stesse regole che valgono per la determinazione dell’equo premio.
La legge consente al datore di lavoro di ottenere il brevetto già conseguito dal dipendente ma la dottrina concorda nel ritenere che questi possa ottenere dal dipendente anche il diritto al rilascio del brevetto nel caso in cui questi non voglia presentare la domanda di brevetto. Di fatto, però, il datore di lavoro avrebbe grosse difficoltà ad acquisire, contro la volontà dell’inventore, quelle notizie sull’invenzione che sarebbero necessarie per impostare adeguatamente la domanda di brevetto; mentre una lite tra i due potrebbe provocare la predivulgazione dell’invenzione, pregiudicando così la brevettabilità della stessa.
Le tre ipotesi hanno in comune il fatto che l’invenzione sia stata realizzata in costanza del rapporto di lavoro. Questa regola pone delicati problemi di accertamento e potrebbe sollecitare il lavoratore a troncare il rapporto di lavoro appena realizzata l’invenzione, in modo da poter depositare a proprio nome la domanda di brevetto ma, opportunamente, l’ultimo comma dell’art. 64 presume che l’invenzione sia stata realizzata in pendenza del rapporto di lavoro quando l’inventore chieda il brevetto entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro. La presunzione ammette la prova contraria, pertanto, l’inventore può sempre dimostrare che l’invenzione è stata realizzata dopo la cessazione del rapporto di lavoro, anche se la domanda è stata depositata oltre l’anno.
4.4 Le invenzioni delle Università e degli Enti pubblici di ricerca
Nello svolgimento delle attività di ricerca il ricercatore, oltre a raggiungere nuove conoscenze, può dar vita a dei prodotti creativi e, in particolare, ad invenzioni industriali. In generale, a chi realizzi questi beni la legge assegna vari diritti e, in particolare, il diritto ad esserne riconosciuto autore nonché la facoltà di utilizzarli e sfruttarli in esclusiva ma non chiarisce a chi essi spettino qualora vengano creati nell’esecuzione di contratti di ricerca o negozi analoghi. Con specifico riguardo alle invenzioni compiute nel corso di alcune ipotesi di commesse, il legislatore è intervenuto a colmare la lacuna; inoltre, nella pratica, a far luce sulla questione della titolarità vi provvedono gli stessi contraenti.
L’art. 65 CPI, in particolare, presenta una disciplina peculiare per le invenzioni dei ricercatori delle Università e degli Enti pubblici di ricerca (EPR) stabilendo al primo comma che, in deroga all'articolo 64 CPI, quando il rapporto di lavoro intercorre con una Università o con una pubblica Amministrazione avente tra i suoi scopi istituzionali finalità di ricerca, il ricercatore è titolare esclusivo dei diritti derivanti dall'invenzione brevettabile di cui è autore.
La norma riprende il testo dell’art. 24 bis, l.inv., introdotto dalla c.d. legge Tremonti
n. 383/2001, con la quale il legislatore italiano ha introdotto il c.d. professor’s privilege nella convinzione che la regola della “titolarità individuale”, ovvero della titolarità delle invenzioni in capo ai professori e ai ricercatori universitari, avrebbe apportato maggiore innovazione rispetto alla tradizionale regola della c.d. “titolarità istituzionale”, nella quale la titolarità delle invenzioni è dell’istituzione di appartenenza del ricercatore73.
La riforma è stata sollecitata anche dalla constatazione che in passato si è assistito ad un tendenziale inutilizzo del brevetto da parte dell’Ente pubblico. È parso pertanto opportuno attribuire al ricercatore la titolarità dei diritti di esclusiva derivanti dalle proprie invenzioni, ritenendo quest’ultimo più motivato allo sfruttamento degli stessi di quanto in passato si fossero dimostrate le Università74.
73 X. Xxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, La gestione del trasferimento tecnologico, strategie, modelli e strumenti, Milano 2011, 17. L’attuale art. 65 CPI deriva dall’art. 7 della legge 383 del 2001 che fu attuativa del cosiddetto “pacchetto dei 100 giorni”. All’interno di tale pacchetto, all’insegna dello slogan “invenzioni agli inventori”, il legislatore italiano ritenne che una regola di titolarità individuale sarebbe stata maggiormente foriera di innovazione rispetto alla tradizionale regola di titolarità istituzionale. Si ricorda, tuttavia, che quella della titolarità istituzionale è la norma largamente condivisa dalla maggior parte degli ordinamenti occidentali civilizzati.
00 X. Xxxxxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Il nuovo diritto industriale, Guida al diritto, Milano 2005, 202. La Tremonti‐
bis, in particolare, si è prefissata due finalità: quella di creare un sistema che evitasse l’insorgere di
In base all’art. 65, comma 1, CPI, quindi, il ricercatore è titolare esclusivo dei diritti derivanti dall'invenzione e potrà presentare personalmente la domanda di brevetto a proprio nome ma dovrà darne comunicazione all'amministrazione di appartenenza75.
Il secondo comma precisa che le Università e le pubbliche Amministrazioni, in caso di licenza a terzi dell'invenzione, stabiliscono nell'ambito della loro autonomia regolamentare l'importo massimo del canone spettante alla stessa Università o alla pubblica Amministrazione ovvero a privati finanziatori della ricerca, nonché ogni ulteriore aspetto dei rapporti reciproci. Se il regolamento non determina la quota di spettanza dell’Università o degli EPR a questi compete il 30% dei proventi. All’inventore spetta comunque almeno il 50% dei proventi.
La disposizione in commento, tuttavia, appare incoerente per ciò che riguarda il rapporto tra l’attribuzione della titolarità esclusiva del brevetto all’inventore e l’attribuzione del potere di determinare i canoni dei contratti di licenza stipulati fra il ricercatore e terzi in capo all’Università: infatti, l’attribuzione della titolarità dell’invenzione dovrebbe a sua volta comportare il pieno diritto dell’inventore di negoziare con terzi l’invenzione.
Il comma 4 prevede un tipo speciale di licenza obbligatoria, gratuita non esclusiva, a favore delle Università o degli EPR per il caso in cui l’inventore o i suoi aventi causa, trascorsi almeno 5 anni dalla data di rilascio del brevetto, non ne abbiano iniziato lo sfruttato industriale, a meno che ciò non derivi da cause indipendenti dalla loro volontà.
L’ultimo comma, infine, introduce un correttivo alla regola della titolarità individuale per il quale le disposizioni dell’articolo 65 non si applicano nelle ipotesi di ricerche finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati ovvero realizzate nell'ambito di specifici progetti di ricerca finanziati da soggetti pubblici diversi dall'Università, Ente o amministrazione di appartenenza del ricercatore. Presupposto di non applicabilità dell’art. 65, dunque, è che l’attività di ricerca sia finanziata in tutto o in parte da terzi76.
conflitti sull’accertamento della proprietà dell’invenzione, e quella di rendere più efficiente e dinamica la trasmissione diretta dei brevetti fra mercato e docenti o ricercatori universitari.
75 X. Xxxxxxxx, Il diritto al brevetto, in Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza di AA.VV., Torino 2009, 242. La ratio di questa disposizione, secondo l’autore, risiede nell’incentivazione che si reputa derivi dall’attribuzione dei diritti nascenti dall’invenzione a chi l’abbia realizzata. La disposizione, in particolare, conferma che l’Università è la sede della ricerca scientifica e tecnologica ma non è organizzata per produrre invenzioni brevettabili, per cui i ricercatori non hanno alcun dovere di prestazione nello svolgimento della loro attività di ricerca che, per tale motivo, è da qualificare come ricerca libera. Ciò spiegherebbe la ragione per la quale, conseguita l’invenzione, il ricercatore universitario presenta la domanda di brevetto a suo nome avendo solo il dovere di darne comunicazione alla sua Università.
76 X. Xxxxxxxx, op. cit., 242. Tali ipotesi, secondo l’autore, sono quelle nelle quali l’attività di ricerca, anche se effettuata nel contesto universitario, è svolta su commissione ed è finanziata dall’ente committente
In particolare, può trattarsi di ricerca finanziata da privati ovvero realizzata nell’ambito di specifici progetti di ricerca finanziati da soggetti pubblici diversi dal datore di lavoro del ricercatore. La prima ipotesi fa riferimento alla “ricerca su commessa”, che nella maggior parte di casi trova la sua disciplina in un contratto di ricerca ove il committente, tipicamente un’impresa privata, paga in tutto o in parte i costi della ricerca stessa; la seconda fa riferimento ai casi di progetti di ricerca quali quelli finanziati da bandi, come il FIRB, il PRIN, i vari PON e POR, oppure come progetti di ricerca nell’ambito dei programmi quadro dell’Unione Europea.
Da alcuni si osserva come la norma abbia carattere sanzionatorio nei confronti degli EPR in quanto la regola della titolarità istituzionale sembra trovare applicazione in tutti i casi tranne quelli in cui la ricerca è finanziata proprio dall’Ente di cui è dipendente l’inventore77.
Questa norma, che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto porre un rimedio alle difficoltà incontrate dagli Enti pubblici di ricerca in sede di negoziazione degli accordi di Ricerca & Sviluppo, rischia in realtà di creare più inconvenienti di quanti ambisca a risolverne. La prima ragione deriva dal fatto che la formulazione del 5° comma nulla dice con riferimento a quale altra regola debba trovare applicazione, lasciando l’interprete di fronte all’alternativa tra il ricorso alla disciplina tipica delle invenzioni prodotte dal lavoratore dipendente (art. 64), e la prospettiva del ricorso ai principi generali dell’attribuzione dei diritti derivanti dall’invenzione al suo autore (art. 63 comma 2). Tuttavia, la dottrina è concorde nel preferire il ricorso all’art. 64, pur segnalando che resta aperto il problema se debba applicarsi la disciplina delle invenzioni di servizio di cui al comma 1, o quella delle invenzioni di azienda di cui al comma 2 con connesso diritto all’equo premio, ma quest’ultima sembra essere la soluzione più immediata e coerente.
La norma, secondo autorevole dottrina, si espone a gravi dubbi di legittimità costituzionale. Infatti, non è comprensibile la ragione per la quale il ricercatore pubblico debba beneficiare di un trattamento più favorevole rispetto a quello riservato ad altre tipologie di dipendenti. Una delle ragioni ipotizzate dalla dottrina si basa sulla
così da assumere la configurazione di una ricerca vincolata, nella quale il ricercatore svolge attività di prestazione. L’ultima ipotesi considerata dalla norma, si differenzia dunque da quella descritta nel primo comma nella quale i ricercatori non hanno alcun dovere di prestazione nello svolgimento della loro attività di ricerca che, per tale motivo, è da qualificare come ricerca libera. La dottrina però, non è unanime nel riconoscere il modello dualistico sostenuto dall’autore.
77 X. Xxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, op. cit., 23. Occorre considerare, infatti, che il ricercatore consegue un’invenzione che è si il frutto dell’attività individuale da esso svolta, ma che risente dell’ecosistema intellettuale all’interno del quale esso è inserito. Sarebbe corretto allora consentire a chi ha sostenuto gli investimenti, ovvero all’ente datore di lavoro, di internalizzare anche i benefici generati. Del resto, è proprio questa la logica sottesa all’art. 64 CPI e al regime dei lavoratori dipendenti di imprese private.
considerazione che la retribuzione derivante dal rapporto di pubblico impiego appare meno negoziabile e ricca rispetto a quella accordabile ai dipendenti privati78.
Per le ragioni sopra accennate, e per le altre che si diranno, la disciplina dell’art. 65 presenta dubbi interpretativi notevoli in ordine a non poche delle sue previsioni soprattutto rispetto alla più ampia materia dei diritti di proprietà industriale che sono prodotti all’interno degli EPR e che possono formare oggetto di attività di trasferimento tecnologico, ovvero di trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie acquisite in ambito istituzionale verso il mondo dell’impresa.
Da un punto di vista soggettivo, la norma fa esclusivo riferimento al ricercatore dipendente e, pertanto, si pone il problema di capire quali siano le sorti dell’invenzione di coloro che, pur svolgendo attività di ricerca, non sono dipendenti o non sono lavoratori subordinati, ovvero del personale non strutturato come ad esempio il dottorando, l’assegnista o il tesista. Secondo alcuni autori, a questa categoria di ricercatori non si dovrebbe applicare la disciplina della riforma, ma quella dei contratti d’opera intellettuale, per cui le parti possono liberamente determinare l’appartenenza dei diritti relativi alle invenzioni, fermo restando che, in mancanza di accordi, i diritti spettano all’Università nei limiti dello scopo del contratto siglato da questa e il ricercatore79.
L’odierna attività di ricerca e sviluppo, come abbiamo visto, è un’attività complessa, lontana dall’ideale di ricerca al quale sembra far riferimento il legislatore. Spesso, infatti, ad una attività di ricerca partecipano numerosi inventori, appartenenti a diversi Enti di ricerca, spesso appartenenti anche a diversi stati, e a ciò si aggiunge anche una pluralità di fonti di finanziamento e, per conseguenza, una pluralità di fonti normative relative al finanziamento della ricerca stessa. La regola della titolarità individuale, sotto altro profilo, appare ancor più contraddittoria nel contesto delle politiche di valutazione del sistema universitario ai fini della concessione del finanziamento pubblico. Nel momento in cui il MIUR si avvale di indicatori per valutare anche la capacità degli EPR di valorizzare i risultati della ricerca da essi condotta, appare singolare che ci sia una regola che attribuisce una parte di questi risultati ai ricercatori e non alle istituzioni valutate80.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 424‐425.
79 X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, Il codice della proprietà industriale D.lgs 10 febbraio 2005, n. 30 Commento per articoli coordinato con le disposizioni comunitarie e internazionali, Padova 2005, 354. Il problema nasce in quanto all’interno delle Università è presente un consistente numero di ricercatori non dipendenti che svolgono attività di ricerca e rappresentano un punto di forza per il mondo universitario.
80 X. Xxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, op. cit., 23.
In tale contesto, pertanto, le sorti della proprietà industriale vengono definite sul solo piano della negoziazione dei contratti di ricerca, ma l’aver attribuito la titolarità dell’invenzioni accademiche all’inventore, anziché all’Ente che è autorizzato alla sottoscrizione del contratto, ha fatto sì che le Istituzioni si trovassero a dover disporre di una proprietà industriale della quale non erano più titolari81. E proprio per ovviare a queste difficoltà il legislatore ha introdotto l’ultimo comma dell’art. 6582.
In questa prospettiva, ben si comprende allora la ragione per la quale, in sede di contrattazione, la clausola relativa all’attribuzione dei diritti di proprietà industriale sia quella che crea maggiori punti di scontro tra le parti contraenti, soprattutto in quelle ipotesi dove tale aspetto non sia stabilito, neppure in via generale, all’interno dei regolamenti degli Enti di ricerca coinvolti.
Questa normativa speciale concernente la disciplina delle invenzioni delle Università è stata voluta al fine di stimolare l’attività di ricerca delle Università ma il legislatore sembra ignorare che il ricercatore universitario, salve eccezioni, è poco interessato allo sfruttamento delle invenzioni che può realizzare, e non intende investire in questa prospettiva neanche quelle risorse minime che occorrono per valutarne la brevettabilità e per seguire la procedura di brevettazione. Di conseguenza, se la titolarità delle invenzioni da lui realizzate gli viene attribuita, si ha un rischio elevato che queste invenzioni rimangano inattuate83. Per contro, la crescente autonomia riconosciuta a Università e Enti pubblici di ricerca ha determinato anche una significativa perdita di finanziamento da parte dello Stato, mentre il trasferimento della titolarità esclusiva dell’invenzione in capo al ricercatore ha determinato per le Università la perdita di una possibile fonte di autofinanziamento derivante dallo sfruttamento economico delle invenzioni stesse84.
La legge sviluppo n. 99/2009 aveva delegato il Governo a modificare, tra le altre, il regime di appartenenza delle invenzioni universitarie prevedendo che in caso di
81 X. Xxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, op. cit., 23‐24. In ogni caso, quale che sia la regola di fondo sulla titolarità, ed anche in presenza di regolamenti interni all’ente che disciplinino la situazione relativa al personale non strutturato, è buona pratica quella di ottenere dai ricercatori che hanno realizzato un’invenzione la cessione dei diritti patrimoniali da essa derivanti, compreso il diritto di brevettare.
82 X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, op. cit., 354. Al riguardo, tuttavia, osservano alcuni autori che il disposto del comma 5 risulta comunque incoerente con quanto previsto al comma 2 dello stesso articolo, il quale stabilisce che alle Università e alle pubbliche Amministrazioni compete determinare l’importo massimo del canone relativo allo sfruttamento dell’invenzione da parte di terzi, anche nel caso in cui l’invenzione sia il risultato di una ricerca sovvenzionata da finanziatori privati.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 424.
00 X. Xxxxxxxxxxx, X. Xxxxxxx, op. cit., 204. Il riguardo nei confronti dei ricercatori sarebbe sproporzionato in quanto, mentre è sicuramente accettabile che il professore o il ricercatore universitario possa godere di una congrua parte dei frutti economici dell’invenzione di cui è autore, non appare accettabile che ne sia proprietario esclusivo quando salari, supporti logistici e mezzi tecnici sono messi a disposizione e pagati dall’Università.
invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca, l’Università o l’amministrazione attuasse la procedura di brevettazione acquisendo il relativo diritto sull’invenzione. Il Governo, tuttavia, con il D.lgs. 131/2010 ha disatteso tale delega pur mantenendo la regola introdotta nel 2005 che consente alle Università di disporre di queste invenzioni in caso di ricerche finanziate da terzi.
Così, da parte di alcuni autori si osserva come il mancato esercizio della delega abbia condotto l’Italia nella direzione opposta rispetto al resto dell’Europa ove si registra la tendenza a riservare la titolarità del brevetto in capo alle Università, facendo muovere la normativa speciale in senso opposto ai reali interessi degli EPR e dei suoi ricercatori; e questo è uno dei motivi per i quali se ne auspica da più parti la modifica85.
4.5 Sintesi
Abbiamo esaminato ampiamente le norme che legittimano l’autonomia contrattuale degli Enti pubblici di ricerca nel campo della ricerca scientifica e tecnologica.
Abbiamo dedicato particolare attenzione alla problematica relativa alla titolarità dei risultati positivi della ricerca, esaminando nel dettaglio gli artt. 64 e 65 del Codice della proprietà industriale, in quanto, per poter usufruire appieno dell’autonomia contrattuale ad essi riconosciuta, gli Enti pubblici di ricerca devono innanzitutto poter disporre dei risultati generati dalla collaborazione con le imprese. Al riguardo, occorre osservare che i modelli contrattuali utilizzati dagli Enti pubblici di ricerca presuppongono l’esistenza di una disciplina che regola a monte i rapporti tra il personale ricercatore coinvolto nelle attività e l’Ente di appartenenza, la quale prevede la titolarità istituzionale dei risultati delle attività di ricerca.
La gestione della proprietà industriale da parte degli Enti pubblici di ricerca, come meglio vedremo, si pone oggi come una necessità in quanto tali Enti sono tanto più attraenti quanto riescono a mantenere la proprietà dei risultati generati per trasferirli verso la società e il mondo dell’impresa.
Vedremo ora, nei capitoli che seguono, come in concreto tali Enti utilizzano l’autonomia negoziale ad essi riconosciuta, guardando soprattutto a quelle che sono le policy e, più in generale, gli orientamenti programmatici degli Enti pubblici di ricerca nella negoziazione di quei contratti di collaborazione con le imprese che, soprattutto in questi anni, assumono un ruolo centrale nel processo di innovazione: i contratti di ricerca.
00 X. Xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, op. cit., 425.
CAPITOLO III
IL CONTRATTO DI RICERCA
1. Inquadramento del fenomeno contrattuale
1.1. Le origini del contratto di ricerca
La locuzione “contratto di ricerca” sottende quella vasta categoria di accordi economici, sorti spontaneamente nella prassi, mediante i quali un soggetto detto “committente” affida ad un altro soggetto detto “ricercatore” l’incarico di svolgere un’attività di ricerca scientifica e/o tecnologica più o meno complessa, senza vincolo di subordinazione e in cambio di un corrispettivo1.
Prima di procedere con l’esposizione del contenuto e delle caratteristiche strutturali di tale contratto, è necessario premettere che, ai fini del presente lavoro, per contratto di ricerca si intende il contratto posto in essere tra un’impresa privata ed un Ente pubblico di ricerca, in cui la commessa viene affidata al ricercatore dall’impresa allo scopo di studiare ed elaborare soluzioni tecniche innovative. Il contratto di ricerca oggetto d’esame, dunque, risponde soprattutto alla domanda di ricerca e consulenza dell’impresa e si riferisce, in particolare, alle attività cosiddette “su commessa”.
Secondo l’opinione dominante in dottrina, il contratto di ricerca è un contratto “atipico” in quanto non è disciplinato né dal codice civile, che non lo prevede tra i tipi espressamente regolati, né dalle leggi speciali, che si limitano a menzionarlo e a regolarne alcuni aspetti particolari.
Una diversa opinione dottrinaria ritiene, invece, che il contratto di ricerca sia privo di una propria autonomia sotto il profilo causale, in quanto l’attività di ricerca può essere oggetto di diversi contratti tipici: lavoro subordinato, contratto d’opera, contratto d’appalto2.
In via generale, possiamo dire che il contratto di ricerca è contratto sinallagmatico, oneroso, di durata, di fatto a forma scritta, e caratterizzato dall’intuitus personae, che viene regolato in primo luogo dalla disciplina che risulta dalle clausole predisposte
1 X. Xxxxxxx, Ricerca (contratto di), in Dig. disc. priv. sez. civ., XVII, Torino 1998, 518.
2 X. Xxxxx, Le Obbligazioni dei ricercatori nel contratto di ricerca, in Gli aspetti istituzionali della ricerca scientifica in Italia e in Francia, Milano 1987, 544.
dalle parti, e quindi da quella delle disposizioni codicistiche di cui al Titolo II “Dei contratti in generale”, Libro IV “Delle obbligazioni”3.
Se l’affidamento a terzi di un’attività di ricerca da svolgere dietro compenso e senza vincoli di subordinazione costituisce la ragione principale per la quale il contratto di ricerca viene utilizzato, questa non è anche la sola operazione per la quale oggi si ricorre a tale schema contrattuale.
Visti gli elevati costi e l’importanza strategica che certe ricerche possono avere per l’intera collettività, infatti, diversi organismi nazionali e sovranazionali hanno deciso di promuovere il progresso tecnico e scientifico concorrendo finanziariamente alle indagini altrui, avvalendosi per tale concorso dello strumento contrattuale in commento4.
Inoltre, l’elevato costo delle ricerche e la disponibilità presso organizzazioni di ricerca ed aziende diversi delle attrezzature e del personale necessari a svolgerle, inducono con sempre maggior frequenza Enti pubblici di ricerca e imprese ad unire i loro sforzi per eseguire in modo coordinato indagini di comune interesse. Ed anche in questi casi, la collaborazione è organizzata per mezzo di contratti di ricerca.
A ciascuno di questi fini, corrispondono diverse tecniche negoziali che, seppure nella prassi hanno assunto una denominazione propria che vale a distinguerle le une dalle altre, rientrano tutte nella più ampia categoria dei contratti di ricerca.
L’impiego della tecnica negoziale allo scopo di promuovere il progresso scientifico e tecnologico è da tempo diffuso in tutta la tradizione giuridica occidentale, ma sebbene negli ultimi tempi il legislatore sia intervenuto più volte in questa complessa materia, nessuna delle figure di contratti di ricerca presenti nella nostra esperienza è provvista di una organica e specifica disciplina.
L’interesse ad una tipizzazione e ad un inquadramento sistematico del contratto di ricerca, nasce dalla riconosciuta importanza della ricerca scientifica applicata per l’industria di qualsiasi livello. Oggi, infatti, l’impresa non è più un ente statico mirante alla produzione secondo uno schema predeterminato, ma è sempre più un ente dinamico che continuamente evolve i suoi strumenti per rimanere competitiva sul mercato e non soccombere alla concorrenza.
L’inserimento della ricerca tra gli strumenti che l’impresa ha per raggiungere i suoi fini, costituisce un aspetto che ha rivoluzionato completamente i rapporti tra ricerca e
3 X. Xxxxx, Risoluzione e recesso nel contratto di ricerca, in Recesso e risoluzione nei contratti a cura di X. Xx Xxxx, Milano 1994, 598‐600.
4 X. Xxxxxx, Ricerca scientifica (contratto), in Enc. dir., XL, Milano 1989, 412. Il contratto di ricerca si presenta come un mezzo idoneo a vincolare il beneficiario del finanziamento ad eseguire il programma stabilito e allo stesso tempo anche a far partecipare l’ente finanziatore, e tramite questo la collettività, ai frutti delle indagini.
impresa; basti considerare che in un primo momento l’impresa si limitava a comprare le idee che trovava disponibili sul mercato, mentre oggi è essa stessa a stimolare la produzione di quelle idee di cui ha bisogno.
In Italia, questa evoluzione è legata alle condizioni tecniche, politiche ed economiche esistenti nel ventennio ’50‐70: ci si riferisce, in particolare, al basso costo della mano d’opera e delle materie prime, al buon mercato delle licenze di brevetti e di know‐how e, più in generale, all’espansione del mercato. Tutte queste condizioni hanno avuto quale diretta conseguenza una totale trascuratezza della ricerca da parte della produzione. A partire dagli anni ’70, però, si registra un’inversione di tendenza dovuta all’aumento dei costi della mano d’opera e delle materie prime nonché della concorrenza che hanno comportato complessivamente una notevole diminuzione degli utili delle imprese. Ciò conduce ad una diversa attenzione nei confronti della ricerca, anche dovuta al fatto che, specialmente in alcuni settori, chi è in possesso di validi brevetti e know‐how preferisce sfruttare in proprio i trovati piuttosto che cederli. Non è un caso, infatti, che in quegli stessi anni gli unici bilanci che non chiudono in passivo sono quelli dei tre Paesi che da decenni dedicano una parte del loro bilancio alla ricerca: USA, Germania e Giappone5.
La capacità del progresso tecnico‐scientifico di accrescere la produzione da un punto di vista qualitativo e quantitativo, e quindi di battere la concorrenza, induce dunque l’industria a destinare una quota sempre maggiore degli investimenti all’innovazione. E se la strada più rapida per raggiungere questo obiettivo è l’acquisto di brevetti e di licenze di know how da terzi, l’avvio di nuove indagini, come correttamente osservato da parte di alcuni autori, è sicuramente la più stimolante6.
In quegli anni, sono soprattutto le piccole e le medie imprese ad accogliere con difficoltà il principio per il quale la ricerca scientifica è uno strumento necessario per consentire certi fini, e tale difficoltà è dovuta oltre che alla carenza di precisi strumenti legali cui ricorrere per usufruire di una certa ricerca, anche alla scarsità di esperienza visto che la ricerca finalizzata dall’industria è un fenomeno recente per l’epoca di riferimento.
In realtà, da un punto di vista prettamente storico, possiamo osservare che la ricerca applicata è stata sempre apprezzata ed utilizzata, ancor prima della rivoluzione industriale, nel campo dell’esercito. Sin dal principio, infatti, i generali si sono resi conto che l’esercito che riesce vittorioso è quello che ha saputo dedicare una parte delle sue energie alla ricerca di nuovi mezzi, in modo da superare la potenzialità produttiva delle forze armate contrapposte.
5 M.C. Del Re, Contratto di ricerca: contributo ad una definizione, in Riv. dir. ind., I, 1979, 195‐197.
6 X. Xxxxxx, op. cit., 411.
Il primo fondamentale contratto di ricerca applicata, infatti, venne predisposto proprio nel campo delle armi belliche ed ebbe come protagonista nella veste di contraente “ricercatore” Xxxxxxxx Xx Xxxxx. Egli fu assunto dal Duca di Milano, Xxxxxxxx xx Xxxx, con una vera e propria convenzione che riguardava le ricerche nel campo dei cannoni, e la sua attività di ricerca, proprio come accade negli odierni contratti di ricerca, era vincolata a determinati indirizzi predisposti dal contraente “committente”.7
In Occidente, alla diffusione dei contratti di ricerca ha contribuito la politica militare degli Stati Uniti; in particolare, il proposito del Governo americano di accelerare l’approfondimento delle conoscenze nel campo della fisica nucleare durante la corsa alla produzione della bomba atomica apertasi verso la fine della seconda guerra mondiale. L’affidamento ad istituti accademici e ad imprese industriali specializzate nel compito di approfondire le indagini ha costituito il mezzo più rapido ed efficace per costruire l’ordigno, e il successo di tale scelta operativa ha contribuito a indurre i responsabili della politica americana a seguire la medesima strategia nel periodo post‐ bellico estendendola anche ad altri settori, come in particolare quello aerospaziale. Si è in tal modo diffusa la prassi di affidare incarichi di ricerca alle maggiori imprese al fine di poter scoprire e produrre nuovi materiali e strumenti ad elevato contenuto tecnologico8.
Al di là degli USA, l’opportunità che lo Stato rimetta a terzi il compito di svolgere attività di studio e ricerca dietro compenso in denaro, viene avvertita in ogni paese moderno, e questa necessità viene appunto fronteggiata attraverso accordi con imprese ed organizzazioni di ricerca pubbliche e private provviste di grandi laboratori.
Con specifico riferimento al panorama italiano, la letteratura sul contratto di ricerca fino a venti anni fa presentava una certa laconicità. Tale dato rifletteva il vuoto non solo legislativo e giurisprudenziale in materia, ma anche la scarsa diffusione di tale modello nella prassi. In breve tempo, però, il panorama è apparso decisamente mutato in quanto la dottrina giuridica ha iniziato ad interessarsi a tale schema contrattuale.
Il contratto di ricerca, come già asserito, non è disciplinato dalla legge in modo organico ma viene soltanto menzionato da alcune leggi speciali che, tuttavia, si
7 M.C. Del Re, op. cit., 197‐198.
8 X. Xxxxxx, op. cit., 410‐411. Negli USA il grande utilizzo del fenomeno contrattuale è stimolato, per un verso, dall’aspirazione dei governanti alla massima efficienza dell’attività amministrativa che giustifica il ricorso alla collaborazione di organi extrastatuali ogniqualvolta questa consenta di realizzare nel modo migliore e più rapido gli interessi pubblici, e, per altro verso, dalla vitalità degli istituti universitari e delle imprese in concorrenza che permette di conseguire obiettivi di alto livello scientifico a costi relativamente contenuti.
limitano solo a regolarne alcuni aspetti particolari. Le leggi speciali più importanti, di cui abbiamo dato conto anche nel precedente capitolo, sono:
‐ la legge 2 marzo 1963, n. 283, che all’art. 6 ha espressamente riconosciuto al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) il potere di concludere accordi e convenzioni con le amministrazioni pubbliche, le Università, gli Enti ed i privati interessati per l’espletamento dei propri compiti di promozione e coordinamento della ricerca scientifica, nonché il D.P.C.M. 26 gennaio 1967, che all’art. 20 ha stabilito che il CNR opera anche concedendo finanziamenti ad Enti o studiosi per lo svolgimento di determinati programmi mediante contratti di ricerca da concludere secondo schemi generali approvati dal Consiglio di Presidenza e dalla Giunta amministrativa;
‐ il D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, con il quale è stata realizzata la riforma universitaria, che all’art. 66 rubricato “Contratti di ricerca, di consulenza e convenzioni di ricerca per conto terzi” ha ribadito in termini ampi la possibilità per le Università di stipulare contratti o convenzioni concernenti lo svolgimento di attività di ricerca e consulenza per conto di soggetti privati. Il regolamento di applicazione della suddetta legge, precisa poi che i contratti o convenzioni in questione disciplinano rapporti in base ai quali le Università, avvalendosi delle proprie strutture, eseguono prestazioni che non rientrano nei loro compiti istituzionali e nelle quali l’interesse del committente sia prevalente9. La materia è attualmente rimessa all'autonoma determinazione degli atenei, che possono disapplicare le norme contenute nel D.P.R. in commento alla data di entrata in vigore di specifiche disposizioni da esse emanate.
‐ la legge 17 febbraio 1982, n. 46 ‐ e sue antecedenti ‐ ove il legislatore, nell’istituire un apposito fondo a sostegno delle attività di ricerca a carattere fortemente innovativo, individua lo strumento negoziale come mezzo per fare eseguire tali ricerche. In particolare, l’art. 9 prevede che il Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica può stipulare contratti di ricerca per l’esecuzione di programmi nazionali di ricerca finalizzati allo sviluppo di tecnologie fortemente innovative e strategiche suscettibili di traduzione industriale nel medio periodo con imprese industriali, Enti pubblici economici, società di ricerca, Centri di ricerca industriale, consorzi tra imprese industriali e tra imprese industriali ed Enti pubblici, Istituti ed Enti pubblici di ricerca a carattere regionale. La legge è stata poi seguita dai decreti ministeriali 27 luglio 1983 e 21 dicembre 1984, che contengono rispettivamente lo schema di convenzion‐ tipo e lo schema di capitolato tecnico‐tipo. Tali decreti costituiscono il primo esempio di condizioni generali di contratto che lo
9 X. Xxxxxx, I contratti di ricerca, in Riv. dir. ind., VI, 1995, 294.
Stato ha predisposto per coordinare l’azione pubblica con l’iniziativa delle imprese di ricerca;
‐ la legge 11 novembre 1986, n. 770, che all’art. 1 consente alle amministrazioni dello Stato la stipulazione di contratti di ricerca e sviluppo con Università, con il CNR, con Istituti pubblici nonché con imprese ed associazioni anche temporanee di imprese
«aventi adeguata capacità tecnologica»10.
E’ necessario tuttavia precisare che la materia dei contratti di ricerca si presenta diversamente strutturata a seconda che si tratti di ricerca commissionata e finanziata dall’amministrazione pubblica, come nel caso dei contratti di ricerca rientranti nell’ambito del finanziamento statale di cui alla più volte richiamata legge 46/1982 e sue antecedenti, oppure sia stipulato tra privati, tra privato ed Università ai sensi dell’art. 66 D.P.R. 382/1980, o anche tra privato e Ente o Istituto di ricerca, ma in ogni caso al fuori di quello schema.
I contratti che intervengono nel primo gruppo, infatti, sono per così dire a “rime obbligate” perché devono rispondere agli schemi dettati dalla legge speciale di volta in volta intervenuta a disciplinarli. I contratti di cui alla legge 46/1982, ad esempio, devono rispondere per l’oggetto agli schemi di cui al decreto ministeriale 16 dicembre 1983 sui programmi nazionali di ricerca finalizzati, e contenere le disposizioni di cui allo schema di convenzione‐tipo del 27 luglio 1983 e di cui allo schema di capitolato tecnico‐tipo del decreto ministeriale del 21 dicembre 1984. Detti decreti, infatti, dettano i principi basilari che regolamentano le commesse finanziate dall’amministrazione pubblica.
All’autonomia contrattuale, in questo caso, non viene lasciato alcuno spazio in quanto la volizione contrattuale è molto vincolata, tanto che la dottrina specialistica ritiene che i contratti di ricerca stipulati ex l. 46/1982 non siano contratti atipici ma vadano ricondotti al sottotipo contrattuale dell’appalto, il quale risulta disciplinato in via principale dalla legge n. 46 del 1982 e dai relativi decreti ministeriali, ed in via residuale dagli artt. 1655 e ss., c.c.11 Da questo punto di vista, a noi sembra fondato ritenere che per i contratti ex l. n. 46/1982 la tipizzazione trovi un fondamento giuridico nei principi dell’organizzazione amministrativa.
Più in generale, possiamo dire che tutte le volte in cui una legge speciale interviene a disciplinare anche parzialmente il contenuto di un contratto, ci troveremo dinanzi ad
10 X. Xxxxxxx, op. cit., 519, la quale chiarisce che la ragione sottesa a tale norma è quella di consentire alle amministrazioni dello Stato di procacciarsi le conoscenze necessarie ai fini di «acquisire materiali, impianti, macchinari ed apparecchiature di alta tecnologia»
11 X. Xxxxx, Profili contrattuali nel finanziamento pubblico della ricerca tecnologica, in Riv. dir. civ., II, 1988, 412 ss.
un contratto “tipico”, il quale sarà disciplinato in primo luogo dalla legge speciale che ad esso si riferisce e poi dalle disposizioni codicistiche “Dei contratti in generale”.
Nell’ipotesi di contratti stipulati tra privati, o tra privato ed Università ai sensi dell’art. 66 D.P.R. 1980/382, così come per i contratti stipulati tra impresa ed alto Ente o Istituto di ricerca in cui la commessa viene affidata da un’impresa, invece, poiché l’interesse sotteso al rapporto giuridico è di natura privatistica, la determinazione contrattuale è libera. Le parti, in assenza di specifica disciplina legislativa, non sono infatti obbligate a seguire gli schemi‐tipo dettati dalla legge, salvo l’osservanza dei principi di ordine pubblico come per esempio, nel diritto di invenzione, l’obbligo di non privare l’inventore del diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione, e dunque trova ampio spazio l’autonomia privata.
Invero, seppure la legge consenta alle Università ed agli altri Enti o Istituti di ricerca di darsi dei regolamenti autonomi che dettino in qualche modo le linee guida che devono essere osservate per la redazione di un contratto di ricerca, le parti, nell’ambito della loro autonomia privata, possono sempre disporre diversamente dei loro interessi in quanto tali regolamenti hanno efficacia normativa interna. Università, Enti e Istituti ricerca (come ad es. il CNR e l’INFN), infatti, dispongono solitamente di regolamenti che illustrano lo schema generale di un contratto‐tipo di ricerca; si tratta tuttavia di schemi che servono soprattutto a fornire indicazioni all’interno delle stesse strutture che se ne avvalgono, ma la predisposizione del negozio, in tali casi, è in ogni caso il risultato della collaborazione fra le parti. In tali tipi di contratti, pertanto, la determinazione contrattuale è vincolata solo all’osservanza del regolamento contrattuale posto spontaneamente in essere tra le parti, oltre che all’osservanza dei principi di ordine pubblico.
Nel caso dei contratti di ricerca stipulati al di fuori dello schema previsto per la ricerca commissionata o finanziata dall’amministrazione pubblica, dunque, la tipizzazione non trova fondamento giuridico nei principi dell’organizzazione amministrativa, ma è il risultato di una prassi ricorrente che ne ha permesso l’emersione nel nostro ordinamento come “tipo sociale”12.
Poste queste indispensabili premesse, ci soffermeremo ora sulle diverse fattispecie contrattuali che vengono ricomprese nella più vasta categoria dei contratti di ricerca.
12 X. Xxxx – Xxxxxxxxx, I contratti di ricerca ed il loro «tipo sociale» in una analisi di alcuni dei modelli più diffusi, in Giurisprudenza italiana, IV, 1988, 142 ss.
2. Tipologia dei contratti di ricerca
Sotto il nomen “contratto di ricerca” si collocano una serie di tecniche negoziali che la dottrina specialistica raggruppa in due categorie: le c.d. commesse di ricerca (dette anche «conto terzi») ed i contratti c.d. di promozione della ricerca.
Il discrimen fra le due fattispecie negoziali risiederebbe nello scopo del negozio, in quanto i primi sarebbero destinati a commissionare l’attività di ricerca ad un soggetto determinato nell’interesse del committente stesso, mentre i secondi avrebbero lo scopo di promuovere la ricerca scientifica nell’interesse dell’intera collettività, e quindi non per particolari scopi del soggetto committente.
I contratti di ricerca, come già detto, sono privi di un’apposita disciplina per cui il problema centrale consiste nello stabilire se siano riconducibili a categorie negoziali già previste nel diritto comune, oppure costituiscano dei negozi atipici.
Al riguardo, abbiamo già avuto modo di esaminare come la tendenza della dottrina e della giurisprudenza, di fronte ad un contratto atipico, sia quella di ricondurre la fattispecie negoziale di volta in volta esaminata a categorie negoziali tipiche. E tale operazione è stata eseguita anche in riferimento ai contratti di ricerca.
I rapporti giuridici aventi ad oggetto la prestazione di attività di ricerca scientifica o tecnica, ovvero la promozione e il finanziamento di questa attività, non possono avere una disciplina unitaria in quanto l’attività di ricerca viene in considerazione in diversi contesti che non sono sufficientemente omogenei, e quindi non sono tali da poter essere ricondotti ad unità. Ciononostante, il contratto di ricerca presenta degli elementi sempre ricorrenti nei diversi schemi contrattuali adoperati nella prassi.
2.1. Le commesse di ricerca
Le commesse di ricerca, dette anche «conto terzi», rientrano nell’ambito di quel settore che per comodità espositiva possiamo chiamare della “ricerca commissionata”. Il paradigma generale di tale tipologia contrattuale, postula un’impresa committente che affida ad un Ente pubblico di ricerca l’esecuzione di un’attività di studio e ricerca in uno specifico settore, allo scopo di studiare ed elaborare soluzioni
tecniche innovative.
Il dato qualificante delle commesse di ricerca è che, nella prospettazione delle parti, sul possibile interesse dell’esecutore della ricerca prevale quello del committente che, solitamente, è anche il soggetto che prende l’iniziativa contrattuale proponendo un determinato programma di ricerca. Rispetto alle altre tipologie
contrattuali, dunque, le commesse di ricerca si caratterizzano per la prevalenza dell’interesse del committente.
Entrambi i soggetti possono essere privati o pubblici, ma l’ipotesi più ricorrente è sicuramente quella che vede nella veste di committente l’imprenditore privato che incarica un Ente Pubblico di ricerca di svolgere un determinato programma di attività13. E se, come abbiamo visto, fino a qualche anno fa nella prassi del mondo industriale l’impresa di piccole o medie dimensioni preferiva ricorrere all’acquisto di tecnologie già confezionate mediante strumenti diversi da quello qui in commento, ad esempio ricorrendo al contratto di know‐how, l’attuale tendenza è quella per cui anche le piccole e medie imprese ricorrono alle commesse di ricerca per proporre al ricercatore un programma di studio volto alla soluzione di problemi tecnici di volta in volta individuati dall’impresa14.
Le commesse di ricerca vanno distinte da un’altra tipologia di contratto, sempre rientrante nell’ampia categoria dei contratti di ricerca, che riguarda la collaborazione “istituzionale” e che, per distinguerla dall’ambito della ricerca commissionata, per comodità espositiva chiameremo “ricerca in collaborazione”. Nelle collaborazioni di ricerca, a differenza di quanto accade nelle commesse, le parti concorrono a realizzare una ricerca congiunta di interesse comune, sulla base di un progetto di ricerca concordato che prevede la cooperazione del personale e l’utilizzazione dei laboratori e attrezzature di entrambe le parti contraenti.
Occorre premettere che le Università e gli altri Enti e Istituti pubblici di ricerca, separano nettamente le attività e le prestazioni svolte in collaborazione con amministrazioni, Enti pubblici o privati, per lo svolgimento di attività scientifica e tecnologica collegate ai propri compiti istituzionali e caratterizzate dall’interesse prevalente o concorrente dell’Università (c.d. attività istituzionale), da quelle attività e prestazioni che non rientrano nei loro compiti istituzionali e che sono caratterizzate dalla prevalenza di interesse di terzi (c.d. attività commerciale).
In tale contesto, la locuzione “ricerca commissionata” indica i contratti c.d. “conto terzi” i quali identificano, appunto, l’attività commerciale delle Università, mentre quando si parla di “ricerca in collaborazione” ci si riferisce a quei contratti con i quali le
13 X. Xxxxxxx, op. cit., 520. Meno frequente è il caso in cui il ricercatore sia una persona fisica in quanto l’attività di ricerca oggetto della prestazione dedotta in contratto necessita di strumentazione ad apparecchiature che ben difficilmente il singolo ricercatore può possedere.
14 X. Xxxxxxx, op. cit., 520. La scelta di ricorrere all’acquisto di tecniche già confezionate, in alcune condizioni, può rivelarsi certamente più efficiente, in quanto l’impresa che acquisisce conoscenze tecniche già realizzate non si trova a sopportare i costi della ricerca né i rischi connessi a tale attività, di cui il più temuto dall’impresa è sicuramente quello di non addivenire ad alcun risultato positivo.
parti concorrono a realizzare una ricerca congiunta di interesse comune, che identificano invece l’attività istituzionale.
Il differente interesse sotteso a ciascuna delle due tipologie contrattuali si riflette direttamente sulla relativa disciplina, ed infatti, commesse e collaborazioni si differenziano per quegli aspetti che in un contratto di ricerca possono ritenersi fondamentali e che attengono in particolare all’oggetto, all’impegno economico ed alla proprietà dei risultati.
Per quanto riguarda l’oggetto, nella ricerca commissionata l’impresa affida all’ente di ricerca, che accetta, lo svolgimento di una determinata attività di studio, mentre nella ricerca in collaborazione le parti si impegnano a realizzare, sulla base di un progetto di ricerca concordato, una determinata attività di ricerca nel comune interesse di entrambe.
In relazione all’impegno economico, nella ricerca commissionata l’importo che l’impresa corrisponderà all’Ente pubblico di ricerca è omnicomprensivo delle spese, e dunque include sia il corrispettivo per il lavoro svolto dai ricercatori, sia per la copertura di eventuali ulteriori costi sostenuti dall’Ente pubblico di ricerca nella esecuzione delle attività (quota parte spese generali, utilizzo di attrezzature, impianti e consumabili, spese per viaggi e spostamenti di persone e materiali, ecc.). Nella determinazione dell’impegno economico, poi, l’Ente pubblico di ricerca osserverà i propri regolamenti interni che disciplinano le modalità per il calcolo del corrispettivo e per la relativa ripartizione interna alla struttura, indicando le tipologie di voci da considerare.
Nella ricerca in collaborazione, diversamente, trattandosi di attività nella quale le parti realizzano la ricerca congiuntamente, non si prevede un corrispettivo economico, ma ognuna delle parti, nell’indicare quali competenze e quali risorse umane e materiali si impegna a mettere a disposizione e a supporto della realizzazione delle attività, potrà corrispondere un rimborso spese dei costi sostenuti in corso di realizzazione della ricerca. In un caso si parla dunque di “corrispettivo”, nell’altro di “rimborso spese”.
In merito alla proprietà dei risultati, infine, nella ricerca commissionata di solito si utilizza una tra le seguenti opzioni: a) titolarità congiunta in percentuale definita o in pari quota; b) titolarità attribuita all’Ente pubblico di ricerca esecutore (ipotesi applicabile soprattutto quando vi è un forte apporto di background da parte dell’Ente pubblico di ricerca); c) titolarità attribuita all’impresa committente. La scelta fra una delle tre opzioni dipende dall’interesse e dal peso negoziale delle parti, dall’apporto e dal contributo prestato da ciascuna alle attività e agli obiettivi che si intende conseguire.
Nella ricerca in collaborazione, invece, il regime di solito seguito è quello della titolarità congiunta in pari quota o in diversa quota percentuale, determinata in base all’apporto effettivamente fornito da ciascuna parte.
La tipologia di contratto risponde alle intenzioni delle parti e di essa va dato conto nell’intestazione del contratto di ricerca; tuttavia, la distinzione fra le due tipologie nella pratica non è così netta, ed anzi si assiste spesso ad una commistione di termini contrattuali caratteristici dell’una o dell’altra ipotesi, dalla quale non sempre è possibile evincere con chiarezza a quale delle due figure il contratto appartenga.
Per meglio comprendere le sfumature ed i risvolti applicativi che le commesse di ricerca, in particolare, assumono nell’ambito dell’autonomia negoziale delle Università, occorre partire dal più volte richiamato art. 66 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, rubricato “Contratti di ricerca, di consulenza e convenzioni di ricerca per conto terzi”, il quale stabilisce che le Università possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con Enti pubblici e privati. Con D.M. 30 dicembre 1981, il Ministero competente ha interpretato questa disposizione nel senso che tali contratti sono quelli che prevedono “prestazioni eseguite dalle Università, avvalendosi delle proprie strutture, che non rientrano nei compiti istituzionali delle Università stesse, ed in cui l’interesse del committente è prevalente”.
L’attività commerciale e quella propriamente istituzionale ricevono una disciplina interna diversa: per le attività commerciali, come previsto dal 3° comma del citato art. 66, è prevista l’incentivazione del personale docente e non docente, ed è inoltre stabilito un prelievo in favore dell’amministrazione della struttura universitaria e dell’amministrazione centrale solitamente maggiore del prelievo previsto per l’attività istituzionale. Le attività in conto terzi, infatti, oltre al costo della ricerca prevedono solitamente una percentuale di utile calcolato in base ad una serie di voci e parametri prestabiliti da ciascun Ente con apposito regolamento15. Gli stessi regolamenti prevedono altresì modalità particolari di assegnazione del corrispettivo16.
15 L’art. 4 rubricato “Determinazione del corrispettivo” del “Regolamento per la prestazione di attività e servizi a favore di terzi” dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ad esempio, prevede che “(…) 4.2 Il corrispettivo deve essere determinato in modo da consentire comunque la copertura di tutti gli oneri derivanti dal contratto, al lordo degli oneri e imposte nella misura di legge, e considerando le limitazioni d’uso commerciale dei beni acquisiti dall’INFN per le proprie finalità istituzionali; in particolare: 1) costo per eventuale acquisto o noleggio di beni, materiali di consumo e servizi necessari allo svolgimento dell'attività; eventuale ammortamento e manutenzione delle attrezzature tecnico‐scientifiche impiegate nella esecuzione; personale di cui all’art. 3, impegnato nell’esecuzione della prestazione, al lordo dei relativi oneri a carico dell’Istituto; eventuali spese di missione del personale coinvolto per l'esecuzione delle attività; eventuali contratti per prestazioni professionali o collaborazioni esterne, al lordo dei relativi oneri a carico dell'Istituto; eventuali coperture assicurative contro i rischi derivanti dallo svolgimento delle attività; nonché ogni altra spesa, non compresa nei punti precedenti, prevedibile e direttamente incidente sul costo complessivo della prestazione. 2) spese di carattere generale gravanti sulla struttura interessata, determinate forfettariamente in una misura non inferiore al 15 per cento
Ciò che dal punto di vista del diritto civile appare problematico, è proprio la nozione di “interesse prevalente” richiamato dalla suddetta normativa, la quale non detta un criterio legale atto a stabilire quando un interesse possa ritenersi prevalente rispetto ad un altro. Ora, generalmente un giudizio di prevalenza è richiesto quando bisogna decidere sul conflitto tra soggetti portatori di interessi tra loro diversi, ma a noi non sembra che in un contratto tra un’Università ed un altro soggetto possa parlarsi di conflitto tra interessi, fra i quali preferire uno piuttosto che l’altro.
Allora, il significato proprio dell’espressione deve essere ricercato nel particolare contesto della legislazione universitaria e non del diritto privato. In tal senso, è utile sapere che l’art. 66 del D.P.R n. 382/1980 nell’impianto originario, costituiva una limitazione alla capacità negoziale delle Università; infatti, se da una parte si affermava la capacità negoziale delle Università, dall’altra la capacità di essere parti di contratti doveva esplicarsi nel rispetto delle finalità didattiche e scientifiche proprie degli atenei.
Tale cautela, all’epoca dell’emanazione della legge appariva necessaria soprattutto in riferimento a quei contratti da considerare eccezionali rispetto a quella che era considerata la normale attività degli atenei, ovverosia l’attività istituzionale di cui parla il D.M. 30 dicembre 1981. I contratti da considerarsi eccezionali sono, appunto, quei contratti che hanno per oggetto attività di ricerca e, più in generale, di consulenza, dietro pagamento di un corrispettivo, qualificato “provento” nella terminologia adottata dall’art. 6617.
Il decreto ministeriale di attuazione e la normativa degli atenei, quando richiedono la prevalenza dell’interesse del committente, indicano quei contratti in cui l’interesse
dell’importo dei costi effettivi individuati di cui al precedente punto 1). 4.3. Oltre agli oneri di cui al precedente capoverso, il corrispettivo deve tener conto anche del valore dell’eventuale cessione dei diritti di proprietà intellettuale derivanti dalle attività. 4.4 Il corrispettivo deve inoltre prevedere una percentuale di utile non inferiore al 20 per cento dell’importo delle voci individuate ai precedenti capoversi 4.2 e 4.3, tenuto conto del numero del personale direttamente coinvolto, nonché della qualità e quantità dell’impegno richiesto da ciascuno”.
16 L’art. 5 rubricato “Assegnazione del corrispettivo” del “Regolamento per la prestazione di attività e servizi a favore di terzi” dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ad esempio, prevede che “la parte del corrispettivo relativa alle voci di cui ai precedenti punti 4.2 e 4.3 sarà iscritta tra le entrate del bilancio dell’INFN. La restante parte, corrispondente all’utile di cui al punto 4.4, sarà utilizzata anche per la costituzione di un fondo di incentivazione del personale la cui destinazione terrà conto dell’apporto dei gruppi oltre che dei singoli dipendenti. La relativa deliberazione sarà assunta dal Consiglio Direttivo, previa consultazione con le Organizzazioni Sindacali. Gli uffici competenti liquideranno tale compenso in favore del personale interessato previa disposizione del Presidente, dopo la riscossione totale dei corrispettivi”.
17 X. Xxxxxxxxx, Gratuità e finanziamenti pubblici, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, Milano 2008, 103. Tra questi contratti eccezionali, in particolare, l’autore richiama il contratto d’opera ex art. 2222 c.c., e il contratto di appalto ex art. 1655 c.c. che nella previsione legislativa in commento sono i soli a generare risorse che possono essere utilizzate per il pagamento dei compensi aggiuntivi al personale e per la copertura delle spese generali dell’ateneo.
del committente è ricevere l’opera o il servizio dall’Università, mentre quello dell’ateneo consiste soprattutto nella percezione di una somma di denaro. Allora, la prevalenza dell’interesse caratterizzante il rapporto è insita nel fatto stesso che è il committente a richiedere l’opera o il servizio dell’Università.
L’art. 4, 5° co., legge 19 ottobre 1999, n. 370, recante la “Disciplina della materia da parte delle single Università” prescrive che “la materia di cui all’art. 66 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, è rimessa all’autonoma determinazione degli atenei, che possono disapplicare la predetta norma dalla data di entrata in vigore di specifiche disposizioni da essi emanate”, così determinando un’autonoma capacità applicativa da parte degli atenei.
Sulla scia di questa disposizione, la maggior parte delle Università e degli Enti pubblici di ricerca in generale si sono dotati di appositi regolamenti che dettano una disciplina particolare delle attività in conto terzi, in cui le attività che esulano da quelle istituzionali vengono espressamente elencate.
L’art. 2 rubricato “Definizioni” del “Regolamento per la prestazione di attività e servizi a favore di terzi” dell’INFN, ad esempio, dispone che “per attività e prestazioni si intendono, in via esemplificativa, le attività e prestazioni di ricerca, studio, lavorazioni e trattamenti di materiali, analisi, misurazioni, tarature e prove, consulenza e formazione non rientranti nei compiti istituzionali dell'INFN e caratterizzati dalla prevalenza dell'interesse dei terzi”18.
L’art. 1 rubricato “Ambito di applicazione” del “Regolamento convenzioni e contratti per attività in collaborazione o per conto terzi” del Politecnico di Torino, invece, indica tra le prestazioni che il Politecnico può svolgere per conto di terzi “prestazioni di ricerca, di consulenza, di didattica e di servizi, cessioni di risultati di ricerca (..) l’esecuzione di analisi, prove, tarature”19.
Per tutti gli altri Enti pubblici di ricerca, però, non sempre è facile stabilire la linea di confine che passa tra il contratto c.d. conto terzi, caratterizzato dagli elementi che abbiamo descritto, da quelle che nella prassi delle Università e degli Enti o Istituti pubblici di ricerca vengono chiamate “collaborazioni di ricerca”.
Come abbiamo visto, le collaborazioni di ricerca a differenza dei contratti conto terzi sarebbero caratterizzate dalla concorrenza dell’interesse del ricercatore con quello del committente nell’attività di ricerca oggetto del contratto. L’impresa, ad esempio, con tale tipologia contrattuale può voler arricchire il proprio bagaglio
18 Regolamento per la prestazione di attività e servizi a favore di terzi dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, in GU n. 124 del 30 maggio 2006, 2.
19 Regolamento convenzioni e contratti per attività in collaborazione o per conto terzi del Politecnico di Torino, emanato con D.R. n. 379 del 28.9.2007, in vigore dall’1.10.2007, 3.
tecnologico al fine di migliorare la produzione, mentre per l’Ente pubblico di ricerca l’esecuzione delle indagini può costituire l’espletamento di un servizio di interesse generale20. Ed è proprio a fronte di questa comunanza di interesse e del relativo concorso nello svolgimento delle attività che l’impegno economico assunto dall’impresa viene qualificato come “rimborso spese” piuttosto che come “corrispettivo”. Invero, se dal contratto non emerge la prevalenza dell’interesse di una parte sull’altra, e lo stesso è visto come uno strumento di collaborazione tra le parti per giungere a risultati sperati e voluti da entrambe, non si giustifica la ricomprensione di un margine di utile tra le voci di costo che compongono il compenso.
A parte il contesto universitario e degli Enti e Istituti pubblici di ricerca in generale, in cui, come abbiamo visto, l’autonomia regolamentare permette di disciplinare per il tramite di apposito regolamento i contratti di ricerca (conto terzi e collaborazioni di ricerca) e di determinarne, altresì, in modo specifico il contenuto, in mancanza di specifici limiti legislativi i contraenti possono stabilire il contenuto delle commesse con notevole libertà. Le commesse di ricerca, tuttavia, possiedono degli elementi costanti che valgono a identificarle sul piano economico‐sociale, e che nello specifico andremo ad esaminare nel prossimo capitolo di questo lavoro; in particolare, il loro contenuto tipico si incentra nell’indicazione del programma di ricerca e dei correlativi diritti spettanti al committente, nonché del compenso da questi dovuto al ricercatore.
L’autonomia contrattuale di cui xxxxxx le parti nelle commesse dette anche “conto terzi” che intervengono fra impresa ed Ente pubblico di ricerca, così come nelle collaborazioni di ricerca, è un dato che vale a distinguerle nettamente dalle altre figure negoziali pure rientranti nella più ampia categoria dei contrattili ricerca. Ci riferiamo, in particolare, alle commesse di ricerca affidate dall’amministrazione statale o da altri Enti pubblici nonché ai contratti di promozione della ricerca stipulati dai soggetti cui per legge sia attribuito il ruolo di “promotore” della ricerca, sulla base di una legge speciale intervenuta a disciplinarne, seppure solo per alcuni aspetti particolari, il contenuto. In questo caso, infatti, non ha senso parlare di “atipicità”: il contratto è “tipico” e l’autonomia negoziale non trova spazio perché costretta entro le prescrizioni legislative dettate in merito al contenuto dei contratti da stipulare con il promotore o con il committente pubblico.
In generale, possiamo dire che quando la commessa è pubblica e, soprattutto, vi è una legge che detta la disciplina anche parziale del contratto in ordine ai suoi aspetti essenziali (soggetti beneficiari, corrispettivo, titolarità dei risultati), ci troviamo di fronte ad un contratto “tipico” in cui l’autonomia negoziale della parti non trova
20 X. Xxxxxx, op. cit., 421. Secondo l’autore, tuttavia, all’art. 66 D.P.R. 382/1980 si dice inesattamente che tali ricerche non rientrano nei compiti istituzionali delle Università.
spazio, se non entro confini ben circoscritti individuati di volta in volta dalla specifica legge in questione.
Lo stesso non può dirsi per le commesse di ricerca oggetto del presente lavoro; per esse, infatti, non essendo ancora intervenuta una disciplina legislativa e salvo quanto osservato in relazione alla normativa interna agli Enti pubblici di ricerca, le parti sono libere di determinare il contenuto del negozio secondo la propria volizione. Solo per questa categoria può dunque sostenersi l’atipicità del contratto di ricerca.
La tipologia paradigmatica delle commesse pubbliche configurantesi come contratto tipico sono i contratti stipulati dall’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) ai sensi della legge 17 febbraio 1982, n. 46, istitutiva del fondo per l’innovazione tecnologica (FIT) presso il Ministero dell’industria a sostegno delle attività di ricerca a carattere fortemente innovativo. In tal caso, come ampiamente illustrato nel paragrafo 3.2 b) del capitolo secondo, la tipizzazione trova un fondamento giuridico nei principi dell’organizzazione amministrativa.
Secondo la dottrina rientrano tra le commesse pubbliche di ricerca anche i contratti affidati dalle Amministrazioni dello Stato ai sensi della legge 11 novembre 1986, n. 770. Tale legge, in particolare, consente alle amministrazioni dello Stato di stipulare contratti di ricerca con Enti pubblici o privati al fine di acquisire nuove conoscenze tecniche necessarie per adempiere ai loro compiti istituzionali e, in particolare, per soddisfare proprie esigenze in relazione a materiali, impianti, macchinari ed apparecchiature di alta tecnologia. Le legge disciplina anche in questo caso alcuni aspetti essenziali del contratto, come il regime di titolarità dei risultati, stabilendo al riguardo che “l’amministrazione committente acquisisce il diritto allo sfruttamento pieno ed esclusivo dell’invenzione industriale e di ogni altro risultato che derivi della ricerca”. L’assolutezza di questa disposizione, tuttavia, è temperata prevedendo che il diritto di sfruttamento possa essere ceduto preferendo, a parità di condizioni, l’impresa che ha eseguito la ricerca, riservandosi in ogni caso l’amministrazione il diritto non esclusivo di fare uso dei risultati per le proprie esigenze dirette, senza obblighi di pagamento21.
2.1.1. Disciplina giuridica delle commesse di ricerca
La dottrina qualifica le commesse di ricerca talvolta come contratti d’opera ex art. 2222 c.c., argomentando dall’autonomia riconosciuta al ricercatore nell’esecuzione del contratto nonché facendo leva sulla circostanza in base alla quale egli, secondo quanto
21 X. Xxxxxx, op. cit., 299.
normalmente stabilito nella prassi contrattuale, non risponde della produzione dei suoi risultati, talaltra come appalto ex art. 1655 c.c., partendo dalla constatazione che normalmente la ricerca è affidata a imprese o Istituti pubblici i quali, per definizione, posseggono un’organizzazione di mezzi e uomini tale da far sì che sia il ricercatore stesso ad accollarsi i rischi dell’impresa.
Il contratto d’appalto e il contratto d’opera nel codice previgente venivano ricondotti nella categoria unitaria della locatio; nella legislazione attuale, invece, le due figure giuridiche hanno assunto un’autonoma configurazione formando, altresì, oggetto di una distinta disciplina. Tuttavia, i due negozi presentano ancora elementi in comune dovuti alla comune matrice da cui hanno avuto origine: innanzitutto la corrispettività delle prestazioni, in secondo luogo l’indipendenza del debitore, e infine la correlativa assunzione del rischio economico. Ciò che secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie contraddistingue il contratto d’appalto dal contratto d’opera è l’entità dei mezzi utilizzata per conseguire il risultato promesso: l’appalto, infatti, presuppone l’esistenza di un’organizzazione a carattere imprenditoriale con prevalente impegno di lavoro subordinato; il contratto d’opera si svolge mediante il lavoro prevalentemente proprio dell’assuntore e dei membri della sua famiglia.22
Al criterio distintivo descritto fa eccezione il contratto d’opera intellettuale di cui all’art. 2230 c.c. il quale, anche se la prestazione viene eseguita mediante un’organizzazione di impresa, non può mai configurarsi come un appalto in ragione della peculiarità della natura e della prestazione in esso dedotta23.
Per quanto riguarda l’appalto, in particolare, la nozione di tale tipo contrattuale è fornita dall’art. 1655 c.c., che lo definisce “contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”. Si tratta, dunque, di un contratto a prestazioni corrispettive con il quale l’assunzione da parte dell’appaltatore dell’obbligo di compiere un’opera o un servizio a favore del committente, viene compensata con un corrispettivo in denaro.
Ma l’elemento caratterizzante il tipo è costituito dall’obbligazione di compimento di un’opera o di un servizio con assunzione del rischio del risultato, il che configurerebbe l’impegno negoziale dell’assuntore come obbligazione di risultato.
22 X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, Xxxxxxx, in Commentario del codice civile Scialoja‐Branca, art. 1655‐1677, Bologna‐Roma 2007, 27‐28. Precisa l’autore che in realtà anche i prestatori d’opera di cui all’art. 2222 c.c., quando si tratta di opere o servizi materiali, sono piccoli imprenditori ai sensi dell’art. 2083, per cui quando si parla di organizzazione imprenditoriale, al fine di segnare il confine sostanziale fra appalto e contratto d’opera, occorre specificare che l’espressione allude esclusivamente alla media e grande impresa.
23 X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, op. cit., 30.
Altro elemento caratterizzante è quello dell’organizzazione dei mezzi occorrenti per l’adempimento di detta obbligazione24.
In relazione alle gestione a proprio rischio, c’è subito da precisare che il rischio insito nell’appalto è un rischio economico, inerente al normale rischio d’impresa, che non ha nulla a che vedere con il rischio giuridico che caratterizza il contratto aleatorio. Il rischio dell’appaltatore, infatti, è il rischio del lavoro, cioè il costo effettivo dell’opera o del servizio rispetto al costo originariamente previsto e calcolato nel prezzo. Dunque, la gestione a proprio rischio implica e sottintende che, normalmente, l’appaltatore non ha diritto ad aumenti del corrispettivo pattuito, anche se il costo effettivo dell’opera supera quello previsto e calcolato25.
L’organizzazione dei mezzi necessari, invece, va intesa nel senso che le scelte relative ai fattori della produzione ‐ dunque a persone, capitali, beni e diritti ‐ ed allo loro modularità all’interno dell’impresa, fanno totalmente carico all’appaltatore, il quale ha il diritto‐dovere di organizzarli autonomamente. È proprio in relazione a questo aspetto che l’appalto si definisce un “contratto d’impresa”26 .
Una parte della dottrina, adduce l’impossibilità di equiparare sotto il profilo giuridico la ricerca scientifica alla prestazione dovuta dall’appaltatore assumendo che la prima, in quanto attività intellettuale, sarebbe strettamente personale, mentre la seconda, in quanto attività d’impresa, avrebbe carattere impersonale; e ancora che la ricerca scientifica, per la sua natura essenzialmente aleatoria, si esaurisce nella prestazione di una condotta, mentre la prestazione dovuta dall’appaltatore comprende anche il conseguimento di un certo risultato. Ma allo stesso tempo, osserva come nessuno dei suddetti rilievi sarebbe decisivo contro la fondatezza del richiamo all’appalto27.
24 L.V. Xxxxxxxxx, Il contratto di appalto e le figure affini, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx‐
X. Xxxxxxxxx, I, contratti di appalto privato, Milano 2011, 9‐10.
25 M.C. Cervale, La struttura dell’appalto, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx‐X. Xxxxxxxxx, I, contratti di appalto privato, Milano 2011, 105‐106. Il contratto di appalto rientra nella categoria dei contratti commutativi in cui i contraenti sin dal momento della conclusione del contratto sanno, o almeno prevedono, l’entità obiettiva dell’altrui prestazione ma non il valore economico della stessa. Nel senso che l’entità obiettiva delle prestazioni delle due parti è sempre determinata o almeno determinabile in base a criteri obiettivi prestabiliti e non in funzione di fatti futuri e incerti. Si differenziano dai contratti aleatori perché in questi ultimi il guadagno o la perdita di una delle parti è rimessa al caso, all’alea, a qualcosa di oggettivamente imprevedibile. Nel contratto aleatorio, è incerta l’entità obiettiva della prestazione che, per una delle due parti, può addirittura essere inesistente.
26 M.C. Cervale, op. cit., 103‐104. L’appaltatore deve necessariamente essere un imprenditore la cui attività si esplica nel dirigere e coordinare i lavori e quindi nel procurarsi i capitali necessari ed i materiali, nell’assumere gli operai o nell’utilizzare il proprio personale, nel sorvegliare i lavori e curare i rapporti con i terzi.
27 X. Xxxxxx, op. cit., 440.