LODO ARBITRALE
IL COLLEGIO ARBITRALE
composto dai signori
Presidente: Avv. Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx: Avv. Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx: Avv. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx nella controversia tra:
CCC s.r.l., con sede in R. (omissis) – attrice –
contro LM. S.p.a., con sede in S. (omissis) – convenuta –
ha pronunciato il seguente
LODO ARBITRALE
in forza della clausola compromissoria contenuta all’art. 25 del contratto inter partes, denominato «contratto di affitto di azienda» [sottoscritto dalle parti in data … (omissis)] e del seguente tenore: … omissis ».
*** *** ***
Fatto e svolgimento del processo
1. Nel corso dell’ultimo bimestre dell’anno 2009 tra la società CCC, con sede in R., e la s.p.a. LM, con sede in S., fu stipulato, mediante scrittura privata autenticata nelle firme, un contratto, denominato «di affitto di azienda». Il contratto fu sottoscritto in data 13 novembre 2009 da parte LM (omissis) e in data 14 dicembre 2009 da parte CCC (omissis).
2. Col predetto contratto (composto da 26 articoli, preceduti da 6 premesse, che riportano la descrizione del fabbricato di proprietà della soc. CCC, adibito a centro commerciale, con l’indicazione della relativa autorizzazione amministrativa), CCC concedeva in affitto, per sette anni decorrenti dal 18 settembre 2009 (art. 6), a LM
«l’azienda relativa all’esercizio commerciale sito in R., all’interno del Centro Commerciale … (omissis) della superficie di circa mq. 80 (…)» (in tal senso prevede l’art. 2), per il corrispettivo di € 55.957,00, oltre IVA ed accessori, da corrispondersi in rate trimestrali anticipate (art. 7).
3. Il predetto contratto faceva seguito ad altri di pressoché analogo tenore, di cui il primo stipulato dalle parti il 18 settembre 1997, con scrittura privata autenticata nelle firme in data 18 settembre 1997 dal Notaio T. di R. (…), registrato presso l’Ufficio atti privati di R. in data … (cfr. doc. 10 fascicolo di parte CCC).
4. Il contratto del 2009 veniva modificato consensualmente dalle parti con successivo atto del primo bimestre dell’anno 2013 (registrato in R. il …), con firme autenticate dal Notaio T. di R. in data 1° febbraio 2013 per quanto concerne quella del legale rappresentante de LM e in data 18 febbraio 2013 per quanto concerne quella del legale rappresentante della CCC. Con detta modifica, il canone di affitto era ridotto, in considerazione della grave crisi economica, ad € 50.000,00 annui a partire dal 1° ottobre 2012, con incremento del 3% annuo a partire dal 1° gennaio 2014, con base di riferimento la data del 1° gennaio 2013 (doc. 2 del fasc. di parte LM).
5. In data 17 dicembre 2014 la società LM inviava a CCC la seguente lettera: «Lo scorso anno a seguito della gravissima crisi che ha colpito il settore degli articoli per la casa, in particolare, ed [sic] le attività economiche del Paese, in generale, le nostre società hanno concordato una riduzione del canone di affitto di ramo d’azienda. // Allo stato, la prosecuzione del rapporto, alle condizioni stabile [rectius, stabilite], è divenuta per la nostra azienda insostenibile non solo per la crisi che non cessa di diminuire e per la riorganizzazione aziendale in atto che prevede la chiusura di punti di vendita a marchio LM S.p.a. e che ha già definito la procedura di licenziamento di alcuni dipendenti, ma anche in virtù del fatto che sono venute a mancare le condizioni in base alle quali è stato stipulato il contratto. // Ci riferiamo alla circostanza che la scelta di esercitare la nostra azienda all’interno di un centro commerciale in luogo di altra collocazione era stata prevista in funzione dell’esercizio di tutte quelle attività tipiche del centro che, singolarmente e nel loro complesso, avrebbero dovuto costituire una forte attrattiva per il pubblico dei consumatori. // Da tempo ormai gli spazi commerciali intorno al nostro sono vuoti e il pubblico nemmeno si avvicina all’area ove siamo ubicati. // E’ evidente che quindi siano venute a mancare anche le condizioni per le quali ci si era determinati ad esercitare l’attività nel vostro complesso commerciale che, ormai, non garantisce più il mantenimento dell’avviamento, ma anzi, per quanto è possibile, tenuto conto della desolazione che manifestano gli spazi vuoti, addirittura la diminuisce. // Ciò premesso vi invitiamo a valutare insieme a noi una soluzione adeguata per entrambe le parti che preveda una consensuale risoluzione del contratto o, in subordine, il riconoscimento della facoltà di recesso in favore della nostra azienda, con conseguente restituzione dei locali a fare data dal 30.06 p.v. e definizione degli orari di apertura del negozio secondo le possibilità del personale ancora alle dipendenze della nostra azienda. // … » (doc. 3 del fascicolo di parte LM).
6. Essendo rimasta la predetta lettera inevasa, in data 9 febbraio 2015, l’avv. A.C., per conto de LM, ribaditi sostanzialmente i motivi già illustrati dalla sua assistita nella lettera del 17 dicembre 2015, sollecitava a CCC una risposta: «anche al fine di trovare una soluzione transattiva della vertenza» (doc. 3A del fascicolo di parte LM).
7. Parte LM ha prodotto sub doc. 3B la mail di risposta della società CCC, a firma del sig. A.A., in data 2 aprile 2015, del seguente tenore: «… con riferimento ai colloqui intercorsi ed alle e-mail scambiateci, La informo che nel CdA della CCC del 19/03/2015 la proprietà ha deliberato di doverle concedere la possibilità di una risoluzione anticipata del contratto a condizione del pagamento di una penale pari a 6 mesi di canone. // Purtroppo la situazione generale è tale che non ci permette iniziative diverse. // … ».
8. Nessuna delle parti ha allegato le mail a cui fa riferimento detto documento. Parte LM ha prodotto peraltro altre due lettere che le parti si sono scambiate:
a) la prima, scritta dalla stessa soc. LM a CCC, in data 26 giugno 2015 in cui si legge:
«In seguito a telefonata intercorsa in data odierna con il Signor C., con la presente si manifesta la risoluzione anticipata del contratto di affitto di azienda per il locale sito presso il Centro Commerciale C.. // Si avvisa che in data 05/07/2015 sarà l’ultimo giorno di apertura al pubblico del punto vendita, dal 06 al 11/07/2015 sarà effettuato lo smontaggio e la liberazione dei locali da persone e cose e nella stessa data verrà effettuata la consegna delle chiavi con la sottoscrizione del verbale di consegna locali.
// Vi preghiamo di voler predisporre presso il Vostro notaio di fiducia l’atto di risoluzione anticipata alla data del 11/07/2015 da effettuarsi entro il mese di luglio 2015. // Siamo coscienti del debito scaduto di locazione e della richiesta da parte vostra di una penale pari a 6 mensilità del canone di locazione per la risoluzione anticipata del contratto. // Vista la situazione economica e finanziaria della nostra società vi manifestiamo la nostra piena volontà di accettare la penale per una somma pari a 3 mensilità del canone di locazione e vi chiediamo di voler proporre un piano di rientro per saldare il debito che soddisfi entrambe le parti lasciandovi in garanzia le fideiussioni già in vostro possesso …» (detto documento è stato prodotto anche da parte CCC in allegato alla memoria difensiva datata 22 dicembre 2016);
b) la seconda (doc 3C del fascicolo di parte LM) è una lettera di riscontro della CCC, che ribadisce sostanzialmente le richieste formulate nella mail del 2 aprile 2015 (menzionata supra, al § 7), in cui si legge: «Con riferimento alla Vs. del 26 giugno 2015, Vi confermiamo la possibilità di una risoluzione anticipata del contratto in
oggetto, all’11 luglio 2015 sottoposta all’essenziale condizione del pagamento di indennità per perdita di avviamento di sei mesi di canone pari ad € 32.357,45 oltre ad € 34.292,47 per canoni spese ed iva maturati all’11/07/2015. // La somma complessiva di
€ 66.649,92 sopra esposta, dovrà essere corrisposta contestualmente alla stipula dell’atto di risoluzione Notarile. // … ».
9. Con atto di nomina di arbitro datato 29 febbraio 2016, la società CCC con sede in R., dava impulso, nei confronti della s.p.a. LM, con sede in S., al procedimento arbitrale previsto dall’art. 25 (il cui testo è riportato nell’epigrafe del presente atto) del contratto inter partes del 13 novembre/ 14 novembre 2009.
10. CCC dato atto nel predetto atto di nomina di arbitro:
a) di aver stipulato con la s.p.a. LM (…) un contratto di affitto di azienda «relativa all’esercizio commerciale sito in R. all’interno del centro commerciale C., livello 1, n. 00» per un periodo di sette anni, decorrenti dal 18 settembre 2009;
b) che il canone d’affitto era stato determinato in € 55.975,00, oltre IVA ed accessori, da corrispondersi in rate trimestrali anticipate [in realtà, come si è detto al precedente § 4, il canone era stato consensualmente ridotto, in considerazione della grave crisi economica, ad € 50.000,00 annui a partire dal 1° ottobre 2012, con incremento del 3% annuo a partire dal 1° gennaio 2014, con base di riferimento la data del 1° gennaio 2013, giusta contratto stipulato nel febbraio 2013 (e registrato in R. il 7 marzo 2013, serie 1T, n. 6648), con firme autenticate dal Notaio T. di R. in data 1° febbraio 2013 per quanto concerne quella del legale rappresentante de LM e in data 18 febbraio 2013 per quanto concerne quella del legale rappresentante della CCC];
c) che in data 26 giugno 2015 la soc. LM «comunicava la volontà di risolvere anticipatamente il contratto di affitto di azienda a far data dall’11 luglio 2015, impegnandosi a saldare tutti i canoni e gli oneri scaduti, nonché una penale per la risoluzione anticipata pari a tre mensilità»;
d) che in data 11 luglio 2015 provvedeva a riconsegnare il locale, senza che fosse intervenuto alcun accordo in punto risoluzione del contratto, «non avendo LM Srl provveduto a saldare le proprie obbligazioni pecuniarie né alle attività tese alla reintestazione della licenza» commerciale alla CCC;
e) che essa CCC aveva escusso la fideiussione a suo tempo ricevuta, a garanzia del pagamento dei canoni, incassando la somma di € 24.168,63;
f) che restava creditrice nei confronti dell’affittuaria anche della penale per risoluzione anticipata del contratto ai sensi dell’art. 23 del contratto inter partes pari ad
€ 55.957,00, oltre IVA ed interessi ex lege;
tutto ciò premesso, dava impulso al procedimento arbitrale di cui all’art. 25 del contratto inter partes descritto al precedente § 1 (clausola compromissoria riprodotta nell’epigrafe del presente lodo), «al fine di ottenere la declaratoria di avvenuta risoluzione del contratto di affitto di azienda e la condanna di LM Spa al pagamento dei canoni residui … e della penale», nominando arbitro l’avv. E.C. del Foro di M.
11. Dal canto suo, con atto di nomina di arbitro in data 21 giugno 2016, la spa LM contestava genericamente la pretesa di CCC e nominava arbitro l’avv. X. X. xxx Xxxx xx X.
00. Con pec del 24 ottobre 2016, gli arbitri designati dalle parti comunicavano all’avv.
R.C. del Foro di M. di averlo a loro volta designato come terzo arbitro, con funzioni di Presidente del Collegio.
13. Omissis …
Motivi della decisione I/ Il nomen juris del contratto di cui è causa.
19. Ritiene il Collegio di dover prendere in esame innanzi tutto le domande di nullità del contratto inter partes e di simulazione proposte dalla soc. LM, in virtù della loro natura pregiudiziale dal punto di vista logico-giuridico.
20. L’esame delle predette domande, tuttavia, implica un’analisi del contratto (sopra descritto al § 1 della parte in fatto) e la sua qualificazione giuridica, al di là del nomen juris datogli dalle parti. E’ noto, infatti, che «il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio» (tra le tante, cfr. Cass., 3 agosto 2012, n. 13945 e vedasi anche, proprio in relazione ad un contratto d’affitto di azienda Cass., 5 gennaio 2005, n. 166, in motivazione).
21. Nelle premesse del contratto de quo, al punto sub e), si legge che la soc. CCC «è fra l’altro proprietaria, nell’ambito del … Centro Commerciale, di un locale sito al I (primo) Livello numero 00 (…) …, nel quale viene esercitata attività di vendita al dettaglio di articoli per la casa, materiale elettrico, articoli di arredamento e da regalo».
22. All’art. 2 del contratto si prevede che CCC concede in affitto a LM «l’azienda relativa all’esercizio commerciale sito in R. all’interno del Centro Commerciale C. (…) numero 00 (…), della superficie di circa mq. 80 …»; e si precisa, altresì, che «l’azienda affittata consta oltreché del suddetto immobile e della relativa autorizzazione amministrativa anche dei seguenti ulteriori beni mobili: - Pavimenti; // Impianto elettrico; // Impianto sprinkler e rilevatori di fumo; // Impianto idrico sanitario; // Impianto di climatizzazione (macchinari e controllo); // - Strigliature scaffali e arredo; - Vetrine».
23. Questo essendo l’oggetto del contratto, rileva il Collegio che in esso non vengono in rilievo gli elementi costitutivi dell’azienda. Posto, infatti:
a) che, ai sensi dell’art. 2555 cod. civ., «l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa»;
b) che per giurisprudenza costante si ritiene che «la concessione del godimento di un locale adibito ad esercizio commerciale può integrare affitto di azienda, ovvero locazione di immobile munito di pertinenze, a seconda che, sulla scorta della effettiva e comune intenzione delle parti, in relazione alla consistenza del bene ed a ogni altra circostanza del caso concreto, risulti che l'oggetto del contratto sia un'entità organica e capace di vita economica propria, della quale l'immobile configura una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali, ovvero sia in via principale l'immobile medesimo, ancorché dotato di accessori, come entità non produttiva» (cfr. Cass., 19 luglio 2005, n. 15210);
c) che, in tal senso, anche se con riguardo ad una struttura alberghiera, si è affermato che «"la ricorrenza di una locazione di immobile adibito ad albergo, anziché di un affitto di azienda alberghiera, ... postula che il relativo contratto, a prescindere dalle espressioni letterali usate ed alla stregua del suo effettivo contenuto, abbia ad oggetto non un complesso unitario di beni, mobili ed immobili, materiali ed immateriali, organizzati per l'esercizio della suddetta attività, bensì un determinato immobile, specificamente considerato nella sua obiettiva consistenza, e con funzione prevalente rispetto ad altri beni, che abbiano carattere accessorio e non siano collegati da un vincolo unitario a scopi produttivi" (Cass. 3 giugno 1981, n. 3591; Cass. 8 luglio 1981,
n. 4476; Cass. 9 marzo 1982, n. 1527, e numerose altre) …» (cfr. Cass., 25 maggio 1995, n. 5787, in motivazione);
rileva il Collegio che nella fattispecie nulla depone nel senso che l’oggetto del contratto
de quo sia – per usare la citata espressione adottata da Xxxx. 19 luglio 2005, n. 15210
sopra ricordata – «un'entità organica e capace di vita economica propria, della quale l'immobile configura una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali». Certamente non possono concorrere a tale inquadramento gli elementi specificamente indicati nel contratto quali: «- Pavimenti; // Impianto elettrico; // Impianto sprinkler e rilevatori di fumo; // Impianto idrico sanitario; // Impianto di climatizzazione (macchinari e controllo); // - Strigliature scaffali e arredo; - Vetrine».
Ed invero, al di là del fatto che alcuni di questi elementi rappresentano un minimum imprescindibile per l’effettivo godimento di un locale a qualunque iniziativa sia esso destinato (non sarebbe possibile un godimento effettivo di un locale senza pavimento, né, in una realtà civile, senza l’impianto idrico-sanitario e quello elettrico) per cui la loro specificazione appare, per così dire, fatta ad colorandum; a parte ciò, occorre considerare il principio, affermato dalla S.C., per cui «costituisce azienda soltanto il complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, non di una qualsiasi possibile impresa astrattamente ipotizzabile» ed è, inoltre,
«indispensabile che [sussista il] … vincolo di organizzazione teleologica» dei beni organizzati (cfr. Cass., 27 febbraio 2004, n. 3973).
Nella fattispecie non si ravvisano tali elementi.
24. Né si dica, in senso opposto, che l’azienda che sarebbe stata, in ipotesi, oggetto dell’affitto, tale sarebbe stata poiché «dotata di autonomo valore di avviamento» e di autonoma licenza. E’ vero che nell’art. 2 del contratto inter partes «le parti si danno reciprocamente atto che l’azienda affittata in virtù della collocazione nel Centro Commerciale, è già dotata di autonomo valore di avviamento», ma lo stesso tenore letterale pone l’accento sull’avviamento del Centro commerciale e la storia del rapporto tra le parti non permette di attribuire un avviamento all’ipotetica azienda prima dell’ingresso nei locali de quibus della soc. LM.
25. Invero, se si esamina il primo contratto stipulato tra le parti il 18 settembre 1997 (prodotto sub doc. 10 da CCC in allegato alla memoria difensiva del 30 maggio 2017) ed in particolare il punto f) delle premesse al contratto, si evince che la stessa ipotetica azienda non era ancora munita di autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività. Infatti, al punto f) predetto si legge: «è intenzione della “CCC S.p.a.” affittare a terzi l’azienda da essa organizzata e creata nel locale di cui sopra in base alla autorizzazione amministrativa in corso di rilascio da parte del Comune di R. di cui alla richiesta presentata presso … il 22 aprile 1997 … e successive modifiche ed è
intenzione dell’affittuaria di gestire l’azienda sfruttando l’avviamento e le relative potenzialità di incremento conseguenti alla collocazione all’interno del Centro Commerciale in cui è inserita».
26. Ancora va osservato che all’art. 2 dello stesso contratto del 1997, individuato l’oggetto del contratto, si precisava: «Per l’attivazione dell’Azienda la Proprietaria ha inoltrato presso il Comune di R., … istanza per il rilascio dell’autorizzazione amministrativa per la vendita di generi di cui alle tabelle merceologiche XII-XIV/2/8». Seguiva, inoltre, la precisazione che «l’azienda affittata consta oltreché del suddetto immobile e della relativa autorizzazione amministrativa [non ancora rilasciata, come s’è visto] anche dei seguenti ulteriori beni mobili: - impianto idrico sanitario; impianto sprinkler e rilevatori di fumo; impianto di climatizzazione (macchinari e controllo); - misuratore fiscale». Tutti elementi che, come si è già osservato in precedenza (supra al
§ 23), non possono rappresentare quel «complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzato teleologicamente» necessario al fine di costituire un’azienda, cioè, secondo la dizione codicistica, «il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa».
27. Osserva, inoltre, il Collegio che se è vero che la mancanza di un’autorizzazione amministrativa non è di per sé indice dell’inesistenza di un’azienda (in tal senso si esprime Cass., 2 agosto 2000, n. 10106, citata da parte CCC nella memoria difensiva del 30 maggio 2017, pag. non numerata, ma 4, nonché Cass., 6 febbraio 2004, n. 2240 e Cass., 16 ottobre 2006, n. 22112, citate dalla difesa de LM, a pag. 3 della memoria difensiva del 20 gennaio 2017) e così pure la mancanza dell’avviamento (cfr. Cass., 28 marzo 2003, n. 4700, secondo cui «la figura dell'affitto di azienda ricorre sia quando il complesso organizzato dei beni sia dedotto nella sua fase statica, sia quando venga dedotto in quella dinamica, e, pertanto, non è rilevante che la produttività non sussista ancora, o abbia cessato di esistere per l'interruzione o la temporanea sospensione dell'esercizio dell'impresa, essendo sufficiente che detta produttività sia una conseguenza potenziale dell'insieme, prevista e voluta dalle parti»; conf. Cass. 5 gennaio 2005, n. 166, in motivazione); nondimeno la giurisprudenza che ha preso in esame le controversie in cui si discuteva se un rapporto contrattuale doveva ricondursi ad un contratto di locazione o ad un contratto di affitto di azienda ha affermato che ricorre un’ipotesi «di locazione ad uso commerciale e non di affitto di azienda quando il locatore cede in godimento al conduttore i locali ove esercitare l'attività commerciale e non anche i beni strumentali per detto esercizio, giacché se è vero che la titolarità
dell'azienda può essere disgiunta dalla proprietà dei beni strumentali destinati al funzionamento della stessa, è, però, comunque necessario che di questi beni il titolare possa disporre in base a titolo idoneo che gli consenta di destinarli per sé o per altri all'esercizio dell'azienda medesima» (Cass., 6 novembre 2001, n. 13689: nella specie, è stato ritenuto costituire locazione ad uso commerciale e non affitto di azienda il rapporto contrattuale in cui il concedente non aveva provato di aver conferito anche la disponibilità dei beni strumentali per l'esercizio dell'azienda).
Ritiene il Collegio che il principio or ora menzionato ben si attagli alla fattispecie che ci occupa, come già si è detto supra al § 23.
28. Confermano tale soluzione ulteriori precedenti della Suprema Corte:
a) Cass., 5 gennaio 2005, n. 166, cit., afferma, sì, che «per aversi affitto di azienda non è necessario che vi sia l'esercizio di attività imprenditoriale in atto, in quanto l'azienda data in affitto può anche versare in fase statica, purché i vari elementi dedotti in contratto siano potenzialmente idonei allo svolgimento dell'attività di impresa», ma nella fattispecie l’oggetto del contratto era un complesso di beni immobili e di attrezzature sportive varie, tra loro organizzati ai fini della produzione e dello scambio di servizi di carattere sportivo; nella fattispecie che ci occupa, invece, non si va al di là
degli elementi indicati all’art. 2 del contratto (ed esaminati supra al § 22) sulla cui insufficienza al fine di costituire «complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzato teleologicamente» si è già detto;
b) Cass. 19 luglio 2005, n. 15210, cit., afferma che «la concessione del godimento di un locale adibito ad esercizio commerciale può integrare affitto di azienda, ovvero locazione di immobile munito di pertinenze, a seconda che, sulla scorta della effettiva e comune intenzione delle parti, in relazione alla consistenza del bene ed a ogni altra circostanza del caso concreto, risulti che l'oggetto del contratto sia un'entità organica e capace di vita economica propria, della quale l'immobile configura una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali, ovvero sia in via principale l'immobile medesimo, ancorché dotato di accessori, come entità non produttiva»: nella fattispecie veniva in rilievo un ristorante- pizzeria e nel contratto si dava atto che facevano parte dell’azienda la sala, la cucina ed altre attrezzature specificatamente elencate in un allegato, attrezzature che i giudici di merito avevano ritenuto quantitativamente e qualitativamente rilevanti sotto il profilo economico; ma nella fattispecie che ci occupa nulla in tal senso è stato allegato e provato.
29. L’inquadramento del rapporto de quo come contratto di locazione e non di affitto di azienda è corroborato dai principi che si ricavano da un altro precedente della S.C.
Cass., 9 ottobre 2009, n. 21481, sebbene in relazione a cessione d’azienda (e non d’affitto), premesso che «deve intendersi come cessione di azienda il trasferimento di un'entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obbiettivo»; e precisato che «al fine di un simile accertamento occorre la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell'eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell'avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, nell'eventuale trasferimento della clientela, nonché nel grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione»; afferma che se è vero «che l'ipotesi della cessione di azienda ricorre anche nel caso in cui il complesso degli elementi trasferiti non esaurisca i beni costituenti l'azienda o il ramo ceduti, tuttavia per la ricorrenza di detta cessione è indispensabile che i beni oggetto del trasferimento conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri l'attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all'esercizio dell'impresa».
Mutatis mutandis, i principi qui enunciati debbono ritenersi applicabili anche all’ipotesi di affitto di azienda e non si vede, nella fattispecie, in che cosa consistesse, prima dell’inizio dell’attività de LM, al di là dei locali oggetto del contratto, quel
«residuo» di organizzazione dei beni oggetto della cessione in affitto che ne determinasse l'attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all'esercizio dell'impresa.
30. Prima di concludere sul punto, il Collegio ritiene di soffermarsi ancora sulla questione dell’avviamento.
Come si è detto nei precedenti paragrafi, specialmente ai §§ 24 e 25, all’inizio del rapporto tra le parti nel 1997 nei locali de quibus, alla luce dei principi sopra esposti, non poteva ritenersi che fosse svolta alcuna attività aziendale. Se di avviamento si poteva parlare, questo sarebbe stato quello del Centro commerciale ed in tal senso, nelle premesse al contratto del 1997 si legge che «è intenzione dell’affittuaria di gestire l’azienda sfruttando l’avviamento e le relative potenzialità di incremento conseguenti alla collocazione all’interno del Centro Commerciale in cui è inserita».
Va, allora, osservato che l’avviamento a cui si riferiva il contratto non era propriamente quello dell’ipotetica azienda in sé, oggetto apparente del contratto, ma del Centro Commerciale in cui essa veniva a dislocarsi. Del resto non poteva parlarsi di un avviamento di un’azienda che nemmeno aveva iniziato a svolgere la propria attività.
Anzi consta che l’avviamento dell’azienda nel 2009 era proprio de LM, la quale per
prima, nel 1997, l’aveva avviata e ne ha continuato la gestione prima con un contratto stipulato nel 2003 (doc. 11 di CCC) e poi successivamente col contratto di cui è causa del 2009 ininterrottamente fino al luglio 2015.
La difesa di CCC (a pag. non numerata, ma 7 della comparsa conclusionale, depositata il 15 settembre 2017) richiama a sostegno delle proprie tesi Xxxx., 6 maggio 1997, n. 3950 la quale afferma che «l’avviamento (…) dell’azienda ben può essere correlato al luogo o alla particolarità del contesto nel quale si esercita l’impresa» (si veda il terzo alìnea del punto 2.3. della motivazione della sentenza). Sennonché l’affermazione è fatta in relazione ad una particolare situazione (espressamente descritta nella motivazione medesima) in cui l’azienda [di tabacchi bar] era all’interno di un edificio dedicato a Ministero ed era stata in precedenza gestita da un CRAL (Circolo ricreativo assistenziale lavoratori), che aveva imposto anche prezzi inferiori a quelli di mercato ai dipendenti del Ministero stesso, dando quindi una «certezza di produttività dell’attività commerciale» (così dice la C.S.).
Il principio de quo (cioè quello per cui «l’avviamento dell’azienda ben può essere correlato al luogo o alla particolarità del contesto nel quale si esercita l’impresa») non può applicarsi tout court nella fattispecie oggetto del presente procedimento, data la tipologia particolare dei prodotti della soc. LM, la rinomanza dei cui prodotti era ed è notoria ed è riconosciuta anche da CCC (vedasi, da ultimo, anche a pag. non numerata, ma 5 della comparsa conclusionale di questa parte, ove si legge: «LM, titolare di un notissimo marchio commerciale e che ha punti vendita in tutto il territorio nazionale e
anche all’estero …»).
Insomma, nel rapporto de quo l’avviamento del Centro Commerciale non poteva e non può ritenersi elemento prevalente nell’attività de LM (al di là di quanto si è detto supra al § 27 in tema di avviamento): LM aveva ed ha un avviamento in sé e il richiamo costituito dall’avviamento del Centro Commerciale (anche se enfatizzato nella previsione contrattuale sopra riportata nel secondo capoverso del presente paragrafo, forse proprio per «giustificare» in qualche modo un nomen juris non corrispondente alla realtà dei fatti, atteso l’apporto che, col primo rapporto contrattuale del 1997 sarebbe
derivato al Centro stesso dalla presenza in loco di un marchio quale quello de LM,) è solo indiretto, o, se si vuole, concorrente con quello significativo apportato dalla conduttrice al nuovo punto vendita.
31. Quanto qui espresso trova conferma nei principi espressi recentemente da Xxxx., 23 settembre 2016, n. 18748 secondo cui (cfr. § 4.3 della motivazione) «tenuto conto delle dimensioni molto ampie e della proposta commerciale estremamente diversificata (anche maggiore di quella offerta da una qualunque strada deputata agli acquisti nei centri cittadini), i centri commerciali assumono una funzione attrattiva di clientela che costituisce – a ben vedere – il risultato del richiamo operato dalle singole attività che vi hanno sede, in una sorta di sinergia reciproca»; ne deriva – secondo la Suprema Corte
– che «in una situazione siffatta, non è – di norma – possibile distinguere un avviamento "proprio" del centro che non sia anche "proprio" di ciascuna attività in esso svolta (…)». Insomma, la considerazione dell’avviamento del Centro commerciale non incide sulla qualificazione del rapporto inter partes (locazione d’immobile o affitto d’azienda), ma tutt’al più potrebbe incidere sulla determinazione di un corrispettivo del canone, alla stessa stregua per cui il corrispettivo della locazione di un bene immobile (non importa se ad uso abitativo – e sotto questo aspetto si veda, sotto la vigenza della legge c.d. equo canone, L. 392/78, l’art. 18 di detta legge – o commerciale) varia a seconda della
dislocazione del bene stesso.
32. Le ragioni qui espresse portano a ritenere inapplicabili alla fattispecie i principi enunciati da Cass., 16 aprile 2009, n. 9012 (citata ampiamente dalla difesa di CCC nelle note a piè di pagina della comparsa conclusionale – pagine non numerate, ma 5, 6 e 7), che, in motivazione richiama l’esaminata Cass. 3950/97. Ma pure in questo caso – benché la C.S. abbia annullato anche per carenza di motivazione la decisione di merito che aveva ritenuto nella fattispecie il rapporto tra le parti una locazione di immobile e non di affitto di azienda – non solo si trattava di un’azienda bar ubicata in un parco di divertimenti, ma l’azienda stessa era stata già gestita in precedenza (a differenza del caso che ci occupa) e tra le parti vigeva un regime di stretto controllo che arrivava addirittura all’obbligo di vendere nel caso della birra solo quella di produzione tedesca, dandosi, inoltre, delle prescrizioni sia sui prezzi di vendita, sia sul vestiario del personale (tanto si ricava anche dall’esposizione in fatto della sentenza, oltre che dalla motivazione – cfr. § 1.2 della stessa): elementi che nella fattispecie oggetto del presente giudizio non ricorrono affatto, se non entro i limiti che saranno esaminati infra al § 38 e
la cui portata e finalità, come si vedrà, non possono portare a qualificare il contratto di cui è causa alla stregua di un contratto d’affitto d’azienda.
33. Alla luce delle pregresse considerazioni non mette conto indugiare su un ulteriore aspetto della vicenda e cioè se, come sembrerebbe, anche il disposto dell’art. 26 del contratto inter partes, contenente dichiarazioni fiscali del proprietario dei beni oggetto del contratto stesso, attestanti che il valore dell’immobile è superiore al 50% del valore della suddetta azienda, possa avere un valore confermativo della decisione del Collegio, nel senso della «funzione prevalente» (cfr. Cass., 25 maggio 1995, n. 5787, cit.) dell’immobile rispetto ad altri beni, poiché, come s’è detto (supra, al § 23 e al § 27), nella fattispecie sono questi beni, questi ulteriori elementi aziendali ad essere mancanti.
34. In forza delle considerazioni che precedono si può dunque affermare che il bene oggetto del contratto inter partes, e descritto nel § 1 del presente lodo, non poteva e non può rappresentare quel «complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzato teleologicamente» necessario al fine di costituire un’azienda. Il contratto de quo, giusta il rilievo dell’immobile quale suo oggetto, va quindi considerato un contratto di locazione di immobile ad uso commerciale e non un contratto di affitto di azienda, e su tale inquadramento non ha influenza, come si è detto, la collocazione del locale nell’ampia struttura del complesso commerciale.
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II/ Irrilevanza ai fini di un ipotetico diverso inquadramento del nomen juris di alcune clausole contrattuali del rapporto dedotto in giudizio
35. Si deve, inoltre, ritenere che gli impegni assunti dalla conduttrice afferenti alla qualità dei prodotti da vendere e il rispetto di orari di apertura da osservare siano delle clausole aggiuntive, alla stessa stregua di quelle che in un contratto di locazione di un’abitazione assume il conduttore relativamente al rispetto degli obblighi di rispetto del regolamento condominiale, obblighi derivantigli dal fatto di abitare in complesso edilizio. Trattasi, in altri termini, di elementi «ulteriori» del contratto che non modificano quelli essenziali del contratto di locazione. L’ordinamento giuridico prevede la possibilità che le parti non solo determinino liberamente il contenuto del contratto, ma anche possano concludere contratti che non appartengano alla categoria dei cosiddetti contratti tipici, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela (art. 1322 cod. civ.). E’ sicuramente ammissibile un negozio in cui, a fianco di pattuizioni sussumibili sotto una categoria di negozio tipico, siano presenti pattuizioni ulteriori o riconducibili ad altra categoria tipica (si pensi al caso del negotium di vendita
mixtum cum donatione) o ad un negozio atipico. Ma ciò non comporta automaticamente la sussunzione del contratto in un’altra categoria tipica (per esempio, riguardo al thema decidendum del presente giudizio, da contratto di locazione a contratto d’affitto).
36. In tal senso, la clausola che contempla l’onere della spendita sulla carta intestata del marchio del Centro Commerciale, oltre a quello proprio de LM (v. art. 13 del contratto), non si correla necessariamente ad un affitto di azienda; essa ha una chiara finalità pubblicitaria, non dell’ipotetica azienda in sé, ma anche del Centro Commerciale: non è incompatibile con un contratto di locazione e/o di affitto l’impegno che i vari conduttori e/o affittuari pubblicizzino il luogo in cui svolgono la loro attività. E’ un interesse comune: più gente affluisce in certi luoghi, meglio è per tutti, che sia una via commerciale o che sia un centro commerciale (cfr. Cass. 23 settembre 2016, n. 18748 cit.). Questo interesse può coinvolgere anche il proprietario di unità immobiliari (o di un intero stabile), il quale può essere interessato alla vasta affluenza, proprio in virtù del vantaggio che deriva al valore della sua proprietà da una particolare «buona fama» della zona, come si è detto alla fine del § 31. Se molta gente viene attirata in zone commerciali, i canoni locativi e/o d’affitto possono essere superiori a vantaggio dello stesso proprietario dell’immobile. Ma non è una tale pattuizione che possa contribuire di per sé alla qualificazione di un contratto come di locazione immobiliare o d’affitto d’azienda, essendo necessaria, come già si è detto, per la configurabilità di quest’ultimo l’esistenza di un «complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzato teleologicamente». E questi beni sono quelli oggetto del contratto, cioè l’unità immobiliare e i beni già ricordati al precedente § 22 (la cui irrilevanza ai fini della configurabilità del contratto d’affitto di azienda è già stata esaminata al precedente § 23), non i beni del Centro commerciale (definite dall’art. 2 del contratto, parti comuni e servizi), la remunerazione dei quali non è contenuta nel canone, ma è contemplata a parte, come è previsto dall’art. 10 del contratto, secondo criteri di ripartizione previsti dal regolamento condominiale.
37. Mutatis mutandis ciò vale per le spese di promozione del Centro commerciale, previste dall’Associazione dei commercianti, il cui statuto risulta essere parte integrante del contratto [ai sensi dell’art. 10 dello stesso lett. c)]. Anche queste spese non sono comprese nel canone, e sono suddivise secondo criteri previsti da questo statuto dell’Associazione in apposite tabelle millesimali.
E, peraltro, va sottolineato che l’Associazione dei commercianti è soggetto diverso dalla società proprietaria dei locali de quibus, anche se la violazione delle norme
statutarie potrebbe dar luogo a risoluzione del contratto de quo. Tuttavia ciò non sposta la natura del contratto da locazione ad affitto. E’ noto, infatti, che «in tema di condominio di edifici, il condomino che abbia locato la propria unità abitativa ad un terzo risponde nei confronti degli altri condomini delle ripetute violazioni al regolamento condominiale consumate dal proprio conduttore qualora non dimostri di avere adottato, in relazione alle circostanze, le misure idonee, alla stregua del criterio generale di diligenza posto dall'art.1176 cod. civ., a far cessare gli abusi, ponendo in essere iniziative che possono arrivare fino alla richiesta di anticipata cessazione del rapporto di locazione» (Cass., 16 maggio 2006, n. 11383). Il locatore ed il conduttore, quindi, possono ben prevedere che un determinato comportamento vietato dal regolamento condominiale possa comportare la risoluzione espressa del contratto di locazione. Mutatis mutandis, ciò può valere anche in relazione ad un regolamento di un’Associazione di commercianti di una certa zona o di un certo luogo a cui le parti hanno inteso vincolarsi.
38. Analoghe considerazioni valgono riguardo all’art. 12 del contratto relativo agli orari di apertura e dell’art. 5 del contratto de quo, finalizzato a garantire che nel Centro commerciale siano venduti prodotti di una certa qualità. Ed anche in tal caso – si noti! – la qualità non è predeterminata dalla proprietaria del Centro Commerciale, ma fa riferimento alla stessa produzione de LM. Ma come nessuna norma dell’ordinamento vieta al locatore di scegliere il conduttore secondo un criterio di fiducia ad personam (l’intuitus personae) – con esclusione, è noto, di criteri discriminanti contra legem – nulla impedisce di prevedere che il conduttore rispetti standard determinati, nell’interesse di tutti i commercianti di un luogo, costituitisi in associazione.
In tal senso, anche l’art. 4 del contratto inter partes che obbliga LM ad esercitare l’attività sotto la propria insegna (cioè de LM, non del Centro Commerciale!) «senza facoltà di modificazione della denominazione se non previo consenso scritto della proprietaria» si correla al divieto di subaffitto contemplato dall’art. 21, in assenza del consenso del proprietario (e sul punto il Collegio ritornerà infra al § 40). Mutatis mutandis, analogo discorso vale per l’art. 9 in relazione al diritto della proprietaria dei locali di visionare i libri sociali della soc. LM.
39. Nel contratto inter partes vi sono una serie di clausole che possono indifferentemente essere presenti in un contratto di locazione di immobile, ovvero di un contratto di affitto di azienda (ma del resto, ciò discende dal particolare rapporto tra locazione ed affitto ben messo in risalto dal S.C. – cfr. Cass., 11 luglio 2003, n. 10946;
Cass., 6 febbraio 2004, n. 2240; Cass., 16 marzo 2005, n. 5689 – secondo cui «nel codice civile tra le norme sulla locazione e quelle sull'affitto corre il rapporto tipico tra norme generali e norme speciali, per cui se la fattispecie non è regolata da una norma specificamente prevista per l'affitto dovrà farsi ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose, salva l'incompatibilità con la relativa normazione speciale»). In tal senso:
a) l’obbligo per la soc. LM di mantenere in buono stato la res oggetto del contratto (art. 14) e di restituirla in buono stato (art. 19) è previsione comune al contratto di locazione (cfr. artt. 1587 e 1590 cod. civ.);
b) l’onere di conformarsi alla normativa antinfortunistica ed antincendio e di stipulare adeguate polizze assicurative (art. 20) può essere comune all’uno o all’altro tipo di contratto (oltre che a tantissime altre tipologie: si pensi a quanto avviene a fronte di contratti d’appalto, oppure a fronte di contratti di mutuo ipotecario);
c) la stessa previsione dell’art. 2, penultimo comma del contratto, che elenca una serie di beni presenti nel Centro commerciale e che LM avrebbe potuto utilizzare (parcheggio, ascensori, scale mobili, ecc.) non sono suscettibili di qualificare il rapporto inter partes in un modo o in un altro [e sul punto si tenga conto, come già si è evidenziato supra alla fine del § 36, che il corrispettivo per il godimento era corrisposto a parte rispetto al canone (di locazione)], mentre resta ferma la carenza nella fattispecie di un «complesso dei beni organizzato per l'esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzato teleologicamente», necessario per l’esistenza di un’azienda, talché deve ritenersi che sia l’unità immobiliare l’oggetto vero del contratto de quo.
In tal senso va letta anche la disposizione dell’art. 17 del contratto inter partes, che, peraltro, nessuna delle parti litiganti ha richiamato: non si capisce quali potrebbero essere i contratti afferenti l’azienda in cui la supposta affittuaria sarebbe subentrata. Nessuna delle parti ne ha parlato. Sennonché, alla luce della storia dei rapporti tra le parti, e di cui si è detto supra, è, per così dire, difficile, rectius, impossibile, che si possa essere trattato di contratti in essere costituenti elemento determinante di un’attività aziendale, atteso che l’azienda propriamente è nata con l’inizio dell’attività in loco de LM.
40. Il Collegio non ignora che nel contratto sono presenti alcune pattuizioni che non potrebbero essere presenti in un «normale» (cioè, conforme alla legge) contratto di locazione. In tal senso, il divieto di non cedere né subaffittare senza la relativa autorizzazione della proprietà (art. 21), contrasta col diverso regime dell’art. 36 della L.
392/78: ma, del resto, il tentativo di ricondurre alla categoria dell’affitto di azienda anziché a quella del contratto di locazione d’immobile un rapporto negoziale, che, a rigore, rientrerebbe nella seconda, è spesso proprio dovuto all’intento del locatore di non applicare norme non gradite: è il caso, appunto, oltre che del citato art. 36, anche dell’art. 27, comma 8, dell’art. 28 e dell’art. 34 della L. 392/78 (sulla cui applicabilità anche alle locazioni in centri commerciali si veda la recente Cass. 23 settembre 2016, n. 18748) e anche dell’art. 39. Tuttavia, tale fine si pone in contrasto con norme imperative (cfr. art. 80 della L. 392/78) e non è, quindi, meritevole di tutela.
41. Insomma, sotto ogni profilo, ritiene il Collegio che la previsione nel contratto de quo di clausole ulteriori rispetto a quelle previste negli articoli da 1571 a 1614 cod. civ., nonché nel capo II del titolo I della L. 392/78, non debbano automaticamente far ricondurre il contratto stesso alla categoria del contratto d’affitto anziché in quello della locazione, sia in virtù di quanto già detto ai §§ da 35 a 39, sia perché nella fattispecie fa difetto il conferimento di un complesso di beni organizzato per l’esercizio di una specifica e ben individuata impresa, organizzata teleologicamente.
42. Va detto in conclusione di questo profilo del rapporto che, a fronte dell’eccezione sollevata, sarebbe stato onere di CCC (cfr. Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533) dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’esistenza di un’azienda. Ma per quanto fin qui si è detto non è possibile ritenere esaustive le argomentazioni difensive dell’attrice sul punto.
*** *** *** III/ Sulle domande riconvenzionali proposte da LM
43. Quanto precede porta, peraltro, a respingere la domanda di nullità formulata dalla difesa della soc. LM. L’oggetto del contratto nella fattispecie sussiste: non è l’azienda, ma un locale. Altresì sussiste la causa del contratto, cioè la funzione economico-sociale del contratto, che nella fattispecie va ravvisato nel godimento del locale contro il pagamento del canone di locazione. La domanda è da ritenersi manifestamente infondata e perplime la sua formulazione dopo che il rapporto negoziale si è protratto dal settembre 1997 al luglio 2015 poiché il godimento del locale da parte della conduttrice v’è stato per oltre 17 anni (è in atti, infatti, anche il contratto stipulato tra le parti il 1° ottobre 2003 alla scadenza di quello stipulato nel 1997 – doc. 11 prodotto da parte CCC in allegato alla memoria difensiva dell’11 aprile 2017).
L’impossibilità di sussumere sotto la categoria del contratto d’affitto d’azienda una
fattispecie negoziale perché l’oggetto-azienda non può configurarsi, non comporta la
nullità del negozio stesso nel momento in cui una sua diversa causa ed un suo diverso oggetto sono determinati o comunque determinabili e permettono, come nella
fattispecie, d’inquadrare il contratto stesso in una diversa tipologia contrattuale tipica (come nella fattispecie, in cui si delinea chiaramente una locazione) o atipica che sia.
Infondata, dunque, è altresì la conseguente domanda di condanna della CCC alla restituzione dei canoni di affitto percepito. Peraltro, in un regime di libero mercato quanto alla determinazione del canone del contratto di locazione di immobili ad uso commerciale, non si pone nemmeno un problema di legittimità dell’ammontare del canone stesso.
44. Assorbita dal diverso nomen juris, che il Collegio ha dato al rapporto dedotto in giudizio, è la domanda di simulazione, che, invero, di per sé è da ritenersi infondata: nella fattispecie, come si è detto, viene, sì, in rilievo un contratto di locazione di immobile ad uso commerciale anziché un contratto di affitto di azienda; tuttavia nella fattispecie non vi è un contratto simulato (inefficace) ed un altro dissimulato (realmente voluto dalle parti), ma vi è un solo contratto, a cui dev’essere assegnato un nomen juris diverso da quello datogli dalle parti.
*** *** *** IV/ Sulle domande proposte da CCC
45. Tutto ciò premesso, è possibile passare all’esame delle domande proposte dalla soc. CCC.
Con la prima domanda, come si è visto, CCC chiede che sia accertato
«l’inadempimento de LM S.p.A. al contratto … per non aver corrisposto i canoni dovuti e per l’effetto condannare la convenuta al pagamento delle somme maturate e fatturate a titolo di canoni di affitto e oneri accessori fino all’11 luglio 2015, pari a euro 10.264,37 oltre interessi convenzionali da calcolare fino al soddisfo».
La domanda è fondata e va accolta. E’ noto, infatti, che il creditore non deve provare l’inadempimento del debitore, ma solo dedurlo, indicando e provando i fatti costitutivi del diritto di credito (il contratto). Spetta al debitore contestare la pretesa e dimostrare la fondatezza delle eccezioni. LM non ha contestato il mancato pagamento dei residui canoni fino all’11 luglio 2015 e, quindi, la domanda di CCC va accolta, anche in relazione alla corresponsione degli interessi convenzionali ai sensi del comma 2 dell’art. 7 del contratto inter partes («prime rate ABI, incrementato percentualmente secondo le vigenti normative di legge, a decorrere dalla data del dovuto pagamento») dalla domanda al saldo.
46. Riguardo alla seconda delle domande formulate da CCC e cioè quella con cui si è chiesto di «accertare e dichiarare l’illegittimità del recesso de LM S.p.A. dal contratto di affitto di azienda sottoscritto in data 10/13 novembre 2009 – 14 dicembre 2009 per violazione del termine contrattuale pattizio e per l’effetto condannare LM S.p.A. a corrispondere all’istante un’indennità di recesso anticipato in misura pari ai canoni che sarebbero maturati sino alla scadenza del contratto (16 settembre 2016), pari ad euro 63.984,22 oltre IVA, oltre IVA e interessi convenzionalmente pattuiti sino al soddisfo», essa è solo parzialmente fondata.
47. Invero, atteso che il contratto inter partes è da ritenersi un contratto di locazione e non di affitto di azienda, deve altresì ritenersi che legittimo sia stato il recesso de LM ai sensi dell’art. 27, 8° comma, L. 392/78. La grave situazione economica dedotta da LM fin dalla lettera del 17 dicembre 2014 è stata, sì, contestata da CCC. Tuttavia la stessa CCC nella memoria del 30-31 maggio 2017 ha dato atto del «tracollo» finanziario della soc. LM. Ne discende che non è contestabile la legittimità del recesso della conduttrice, atteso che la giurisprudenza della Corte Suprema di cassazione, affermato più volte che
«in tema di locazioni di immobili ad uso diverso da quello di abitazione, i gravi motivi, che consentono al conduttore di recedere, ai sensi dell'art. 27 ultimo comma della L. n.
392 del 1978, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, in modo da rendergli oltremodo gravosa la prosecuzione del rapporto» (cfr. Cass. 20 febbraio 2004, n. 3418; conf. Cass., 20 marzo 2006, n. 6090), ha precisato, alla luce di questo principio, che «con particolare riferimento alle locazioni commerciali, può integrare grave motivo di recesso un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all'attività dell'impresa), sopravvenuto ed oggettivamente imprevedibile, che, imponendo l'ampliamento o la riduzione della struttura aziendale, sia tale da rendere particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo» (Cass. 20 febbraio 2004, n. 3418; sul punto si veda anche Cass., 13 dicembre 2011, n. 26711).
48. Tuttavia, ai sensi dell’art. 27, 8° comma, della L. 392/78 la conduttrice avrebbe dovuto dare sei mesi di preavviso: il che non ha fatto. E’ vero che la conduttrice ha chiesto di poter risolvere consensualmente il contratto fin dal dicembre 2014, ma non vi è mai stata fino al 26 giugno 2015 una manifestazione di recesso: tutta la corrispondenza prodotta dalle parti è nel senso di trovare un accordo per una risoluzione consensuale del rapporto. Solo a fronte di questo mancato accordo, relativo al quantum.
in data 26 giugno 2015 LM comunicava che avrebbe restituito il negozio il successivo 11 luglio.
Al di là del tenore letterale della comunicazione (le parti non sono tenute ad usare una terminologia giuridica), il Collegio ritiene che questa comunicazione vada intesa come manifestazione di recesso unilaterale ed è da tale data che decorreva il termine semestrale di cui all’art. 27, comma 8°, L. 392/78.
Quindi LM era obbligata al pagamento dei canoni del semestre intercorrente tra il 27 giugno 2016 ed il 27 dicembre 2015.
Ritiene il Collegio che la domanda formulata da CCC di condanna de LM al pagamento dei canoni fino alla scadenza naturale del contratto, anche se correlata all’ipotesi di illegittimità del recesso, debba essere interpretata, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., comunque come richiesta di condanna per il «recesso anticipato» (in tal senso le conclusioni di CCC) tout court. Essa, quindi, può essere rapportata anche al quid minus corrispondente a quanto dovuto a fronte del recesso legittimo ai sensi dell’art. 27 della
L. 392/78. E’ noto, infatti, che «non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto» (cfr. Cass., 5 novembre 0000, x. 00000; conf. Cass., 30 settembre 2015, n. 19502). Del resto, è altresì noto che «nella domanda di condanna al pagamento di una determinata somma di danaro deve ritenersi sempre implicita la richiesta della condanna al pagamento di una somma minore, con la conseguenza che la pronuncia del giudice del merito di condanna ad una somma minore di quella richiesta non è viziata da extrapetizione» (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28660).
Poiché il periodo fino all’11 luglio 2015 è coperto dall’accoglimento della domanda formulata da CCC ed esaminata al precedente § 45, la soc. LM dev’essere condannata al pagamento del canone di locazione decorrente tra il 12 luglio 2015 ed il 27 dicembre 2015, oltre gli interessi convenzionali, ai sensi dell’art. 7 del contratto inter partes («prime rate ABI, incrementato percentualmente secondo le vigenti normative di legge, a decorrere dalla data del dovuto pagamento»), dalla domanda al saldo.
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V/ Sulla domanda di LM di condanna di CCC al pagamento dell’indennità ex art. 34 della L. 392/78
49. La legittimità del recesso de LM ai sensi dell’art. 27, 8° comma, della L. 392/78 comporta la reiezione della domanda formulata dalla stessa conduttrice di condanna della locatrice CCC al pagamento dell’indennità di avviamento ai sensi dell’art. 34 della predetta legge. La corresponsione dell’indennità per la perdita di avviamento è espressamente esclusa nel caso di recesso del conduttore (si veda al riguardo proprio l’eccezione contenuta nel comma 1° dell’art. 34 citato).
Né può assumersi che il recesso sia stato attuato a fronte di un inadempimento della locatrice CCC. Nel contratto inter partes non c’è un obbligo di CCC ad assicurare la piena funzionalità ed operatività dei negozi limitrofi.
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VI/ Sui mezzi istruttori dedotti
50. Sulla base di questi motivi il Collegio ribadisce quanto affermato nell’ordinanza del
7 giugno 2017: i capitoli di prova dedotti da LM sono irrilevanti, a parte l’inammissibilità di alcuni poiché tendenti a far deporre il teste non su fatti ma su giudizi (vedasi i capitoli: 1 in cui il teste è chiamato a deporre sulla «posizione marginale» del locale concesso in locazione; 3 in cui il teste è chiamato a deporre sulla
«posizione isolata» del locale; vedasi i capitoli 5 e 6 in cui il teste è chiamato a valutare la quantità dell’affluenza di pubblico). Gli stessi capitoli, inoltre, sono evidentemente viziati da genericità nell’enunciazione delle circostanze.
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VII/ Sulla domanda di CCC di risoluzione del contratto inter partes per fatto de LM
51. L’accoglimento della domanda formulata da CCC ed esaminata nei paragrafi precedenti comporta l’assorbimento della domanda subordinata formulata dalla stessa CCC con cui si è chiesto di accertare e dichiarare «l’avvenuta risoluzione del contratto per atto unilaterale de LM S.p.A. in violazione dell’art. 6 del contratto di affitto di azienda di cui in narrativa e per l’effetto condannare la convenuta a corrispondere all’istante la penale pari a 12 mensilità per la risoluzione anticipata del contratto ai sensi dell’art. 23 del contratto di affitto di azienda, per un totale di euro 53.045,00, oltre IVA e interessi convenzionalmente pattuiti sino al soddisfo».
La domanda, comunque, è infondata, poiché nella fattispecie non viene in rilievo alcuna risoluzione del contratto per atto unilaterale, ma un legittimo recesso ai sensi dell’art. 27, 8° comma, della L. 392/78. Tale soluzione comporta il superamento di ogni
questione in ordine alla richiesta penale ed alla sua congruità ai sensi dell’art. 1384 c.c., come richiesto, dalla soc. LM.
*** *** *** VIII/ Sulla liquidazione delle spese
52. Venendo alla liquidazione delle spese, il Collegio osserva che l’accoglimento parziale delle domande proposte da CCC comporta la soccombenza parziale della soc. LM ai sensi dell’art. 91 c.p.c. Rileva, tuttavia, che se CCC è parzialmente soccombente in punto qualificazione del contratto ed ammontare dell’indennità spettantele per il recesso anticipato, è anche vero che il Collegio ha deciso la causa dal punto di vista delle somme in discussione in conformità con la richiesta della stessa soc. CCC nella fase delle trattative e di ciò ritiene il Collegio si debba tener conto nella determinazione della parziale soccombenza.
LM, invece, è soccombente sostanziale su tutte le domande formulate (salvo nella parte in cui ha qualificato diversamente il contratto inter partes, benché sotto il respinto motivo della simulazione) e per quanto concerne l’ammontare del corrispettivo per il recesso anticipato.
Le spese legali e quelle di arbitrato vengono, pertanto, compensate tra le parti nella misura di un quinto, restando a carico de LM per i residui quattro quinti, anche tenuto conto della reiezione delle domande restitutorie da questa proposte in via riconvenzionale.
*** *** *** P.Q.M.
alla luce delle pregresse considerazioni in fatto e diritto, il Collegio, definitivamente pronunciando, a maggioranza, così provvede sui quesiti e le domande proposte dalle parti:
ritenuto che il contratto di cui è causa stipulato dalle parti per scrittura privata autenticata nelle firme in data 13 novembre 2009 per parte LM (…) e in data 14 dicembre 2009 per parte CCC (…) e registrato presso l’Agenzia delle entrate di … il 28 dicembre 2009, … è un contratto di locazione ad uso commerciale relativo all’unità immobiliare sita in R. all’interno del Centro Commerciale C. … (omissis);
1) dichiara legittimo, ai sensi dell’art. 27, comma 8, L. 392/78 il recesso comunicato dalla conduttrice LM alla locatrice CCC s.r.l. in data 26 giugno 2015;
2) condanna la s.p.a. LM a corrispondere alla locatrice CCC s.r.l. a fronte del recesso i canoni di locazione decorrenti tra il 12 luglio 2015 ed il 27 dicembre 2015, che
quantifica in € 24.311,81, oltre IVA e gli interessi convenzionali (prime rate ABI, incrementato percentualmente secondo le vigenti normative di legge, a decorrere dalla data del dovuto pagamento) dalla domanda al saldo;
3) condanna la s.p.a. LM a corrispondere alla locatrice CCC s.r.l. per residui canoni di locazione dovuti fino all’11 luglio 2015 la somma di € 10.264,37 oltre interessi convenzionali (prime rate ABI, incrementato percentualmente secondo le vigenti normative di legge, a decorrere dalla data del dovuto pagamento) dalla domanda al saldo;
4) respinge ogni altra domanda; (… omissis)