CORSO DI DIRITTO CIVILE (D-L) PROF. LUIGI BALESTRA
CORSO DI DIRITTO CIVILE (D-L) XXXX. XXXXX XXXXXXXX
A.A. 2014/2015
RACCOLTA DELLE DECISIONI
COMPRESE NEL PROGRAMMA D’ESAME
Sommario
PARTE PRIMA – Il contratto in generale
1) Autonomia privata e tipo contrattuale
- Cass. civ., sez. III, 17-05-2010, n. 11974 [s.m] 3
- Cass. civ., sez. III, 21-07-2004, n. 13580 3
- Cass. civ., sez. I, 26-01-1996, n. 611 7
- Cass. civ., sez. I, 23-02-2000, n. 2096 11
2) Causa del contratto
- Cass. civ., sez. III, 08-05-2006, n. 10490 16
3) Conclusione del contratto: l’art. 1333 e il negozio unilaterale
- Cass. civ., sez. III, 25-09-2012, 16259 [s.m.] 20
- Cass. civ., sez. I, 25-09-2001, 11987 [s.m.] 20
- Cass. civ., sez. I, 27-09-1995, 10235 20
4) Conclusione del contratto: minuta e puntazione
- Cass. civ., sez. II, 07-04-2004, 6871 29
5) Contratto preliminare ad effetti anticipati
- Cass. civ., sez. I, 09-06-2011, n. 12634 32
- Cass. civ., sez. II, 22-06-2005, n. 13368 [s.m.] 33
6) Condizione di adempimento e disponibilità della condizione
- Cass. civ., sez. II, 15-11-2006, n. 24299 35
7) Forma del contratto
- Cass. civ., sez. II, 21-06-1999, n. 6214 38
- Cass. civ., sez. II, 03-02-1999, n. 887 41
8) Doveri di informazione e nullità
- Cass. civ., sez. un., 19-12-2007, n. 26725 44
9) Nullità parziale
- Cass. civ., sez. III, 21-05-2007, n. 11673 55
10) Errore
- Cass. civ., sez. II, 31-03-2011, n. 7468 59
11) Recesso
- Cass. civ., sez. III, 18-09-2009, n. 20106 62
12) Risoluzione
- Cass. civ., sez. un., 30-10-2001, n. 13533 71
13) Clausola penale e caparra
- Cass. civ., sez. un., 13-09-2005, n. 18128 78
PARTE SECONDA – I singoli contratti
1) La garanzia per vizi della cosa venduta
- Cass. civ., sez. II, 26-03-2010, n. 7301 87
- Cass. civ., sez. un., 21-06-2005, n. 13294 89
2) Xxxxx pro alio
- Cass. civ., sez. II, 18-03-2010, n. 6548 99
- Cass. civ., sez. II., 11-11-2008, n. 26953 104
3) Appalto e vendita di cosa futura
- Cass. civ., sez. II, 02-08-2002, n. 11602 107
4) Leasing e vendita con riserva della proprietà
- Cass. civ., sez. I, 23-05-2008 n. 13418 116
5) Sale and lease back
- Cass. civ., sez. III, 14-03-2006, n. 5438 119
6) Mandato senza rappresentanza
- Cass. civ., sez. un., 08-10-2008, n. 24772 123
7) Istruzioni del mandante e fatti sopravvenuti
- Cass. civ., sez. I, 07-08-2009, n. 18107 136
8) Transazione novativa e conservativa
- Cass. civ., sez. II, 13-05-2010, n. 11632 145
PARTE PRIMA – Il contratto in generale
1) Autonomia privata e tipo contrattuale
Cass. civ., 17-05-2010, n. 11974
Affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorra sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Accertare la natura, l'entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al ritardo nel rilascio di locali presi in locazione da una società per l'immagazzinamento di cereali da conservare e movimentare per conto dell'Aima, aveva escluso la responsabilità di quest'ultima per i danni subiti dal locatore, asseritamente determinati dal ritardo nel ritiro dei cereali, non essendo stata provata la volontà di tutte le parti di instaurare un collegamento tra il contratto di locazione e quello di intervento sul mercato cerealicolo, in funzione di uno scopo pratico unitario).[s.m.]
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Cass. civ., sez. III, 21-07-2004, n. 13580
Perché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie anche ai fini della nullità dell’intero procedimento negoziale per illiceità del motivo o della causa ai sensi degli art. 1344 e 1345 c.c., è necessario che ricorra sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico fra i negozi, che il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur se non manifestato in forma espressa, di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il collegamento ed il coordinamento di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, non essendo sufficiente che quel fine sia perseguito da una delle parti all’insaputa e senza la partecipazione dell’altra (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito, tra gli altri motivi per non aver verificato, in una causa in cui si chiedeva dichiararsi la nullità di due contratti di vendita ed uno successivo di leasing per violazione del divieto di patto commissorio per non aver adeguatamente valutato la sussistenza o meno di un collegamento negoziale secondo gli indici indicati).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notarile del 3.11.1986 Corrente Xxxxxxxx vendeva due immobili in Xxxxxxx Xxxxxx alla Sifi s.r.l. (le cui quote si appartenevano a sè medesimo ed al figlio Xxxxxxxx) e con successivo atto la Sifi vendeva per lo stesso prezzo di L.. 500 milioni i medesimi immobili alla s.p.a. Agrileasing, che contestualmente li cedeva in locazione finanziaria alla s.n. c. Corrente Auto (le cui quote erano di pertinenza di Corrente Xxxxxxxx e Xxxxxxxx), per essere destinati ad attività di concessionaria Fiat. Sopraggiunto il fallimento di Corrente Xxxxxxxx e Xxxxxxxx, di Corrente Auto s.n.c. e della Sifi, il 5.12.1987, la curatela adiva il tribunale di Taranto perchè fossero dichiarati inefficaci e nulli i predetti contratti nonchè il dissimulato contratto di mutuo,
con patto commissorio vietato ed in subordine instava per la revocatoria ex art. 67 l.f. nei confronti della Agrileasing. Si costituiva la Agrileasing, che resisteva alla domanda, chiedendo la risoluzione del contratto di leasing per inadempimento ed anche perchè aveva scoperto che gli immobili in questione non erano stati occupati dalla s.n.c. Corrente Auto ma da altri soggetti.
Il Tribunale accoglieva la domanda attrice, ritenendo simulati gli atti in questione, in quanto predisposti per mascherare un mutuo con patto commissorio, poichè il rapporto sostanzialmente era intervenuto tra i Corrente e l'Agrileasing e che era significativo, ai fini di questa ricostruzione il fatto che gli immobili erano detenuti da terzi e che la Corrente Auto, con missiva del 14.11.1986, aveva significato di voler dismettere la concessionaria (medio tempore tra i due atti).
Avverso questa sentenza proponeva appello la Agrileasing. Resisteva la s.r.l. Nuova Immobiliare, quale assuntore dei fallimenti Corrente (già costituitasi nel corso del giudizio di primo grado).
La corte di appello di Lecce, sez. dist. di Taranto, con sentenza depositata 7.1.2000, rigettava l'appello. Riteneva la corte di merito che nella fattispecie sussisteva la consapevole partecipazione dell'Agrileasing al disegno simulatorio. Infatti non era possibile che l'Agrileasing non avesse visionato gli immobili, rilevando che gli stessi erano già occupati da terzi locatari, tenuto conto che la convenuta aveva una filiale a Bari e che vi fu un verbale di consegna degli immobili; che le visure commerciali esibite, da cui risultava che i Corrente erano in bonis, si riferivano solo ai Corrente ed alla Corrente Auto e non anche alla Sifi, che pure era il soggetto alienante.
Secondo i giudici di appello l'Agrileasing era a conoscenza della struttura societaria della SIFI e l'intera operazione si riduceva ad un rapporto tra i Corrente e la convenuta e gli atti erano simulati, in quanto non si trattava di vendita, ma di un mutuo con patto commissorio.
Riteneva la corte territoriale che oggetto del secondo atto era la costituzione di una garanzia reale in capo alla Agrileasing, che acquistava la proprietà di un immobile a garanzia del credito fatto ai Corrente.
Riteneva la corte di inerito che nella fattispecie fosse da escludere che sussistesse un contratto di sale and lease back, poichè nella fattispecie la contestuale locazione finanziaria non avveniva nei confronti della venditrice XXXX, ma di un altro soggetto (s.n.c. Corrente Auto), per l'esercizio di un'attività nella pratica inattuabile.
Avverso questa sentenza la s.p.a. Agrileasing ha proposto ricorso per Cassazione. Resiste con controricorso la s.r.l. Nuova Immobiliare.
Entrambe le pari hanno presentato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE
(OMISSIS)
2.1. Ritiene questa Corte che preliminarmente vadano esaminati il primo ed il quarto motivo di ricorso.
Con il primo motivo la ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione agli artt. 1322, 2744, 1414, 1418 c.c..
Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata fa riferimento a due negozi, mentre in effetti i negozi erano tre; che, pur ritenendo simulati i negozi, non indica quali fossero i negozi dissimulati; che l'omissione dell'identificazione del negozio dissimulato impediva di valutare la corretta applicazione della sanzione di nullità di cui all'art. 2744 c.c..
2.2. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360 n. 5 c.p.c., 1322-1414-1418-2744 c.c.
Ritiene la ricorrente che la sentenza impugnata ha escluso nella fattispecie un contratto lecito di sale and lease back, perchè quest'ultimo presuppone l'identità
formale e sostanziale dei soggetti che danno vita a detto negozio, mentre nella fattispecie i soggetti sarebbero tre (e differenti), poichè il venditore risultava essere la Sifi e l'utilizzatore risultava essere la Corrente Auto s.n.c.; che tale assunto entrava in contrasto con tutta la costruzione effettuata dal giudice di inerito, secondo cui il rapporto era unico ed investiva da una parte Corrente Xxxxxxxx e dall'altra l'Agrileasing; che in questa ipotesi la sentenza impugnata avrebbe dovuto esaminare se sussistevano gli elementi per un valido contratto di sale and lease back; che se, invece, le parti contraenti erano effettivamente tre, allora i negozi stipulati rappresentavano l'effettiva estrinsecazione della fattispecie della locazione finanziaria immobiliare, con presenza di un venditore e fornitore, di un concedente ed utilizzatore.
3.1. Ritiene questa Corte che i due motivi siano fondati e che essi vadano accolti. La sentenza, anzitutto, risulta insanabilmente contraddittoria.
Nella prima parte, infatti, della motivazione (fino a pag. 12), essa sembra condividere l'iter argomentativo della sentenza di primo grado (confermata) che riteneva simulati gli atti in questione, sia sotto il profilo soggettivo, attraverso l'interposizione fittizia della SIFI s.r.l. che della s.n.c. Corrente Auto sia sotto il profilo oggettivo, per cui i vari atti, concepiti e voluti come funzionalmente connessi ed interdipendenti, mascheravano un mutuo con patto commissorio, intervenuto direttamente tra la s.p.a Agrileasing ed il Corrente Xxxxxxxx, (ovvero quest'ultimo insieme al figlio Xxxxxxxx).
Nella seconda parte (p-13-14) della motivazione la sentenza impugnata ritiene, invece, che nella fattispecie non possa sussistere un contratto di sale and lease back, poichè l'utilizzatore dell'immobile concesso in leasing era la s.n.c. Corrente e quindi un soggetto diverso da quello (SIFI s.r.l.)che aveva venduto il bene alla Agrileasing, per cui stante la diversità di soggetti tra venditore ed utilizzatore non era ipotizzabile il suddetto contratto di lease back. Non è dato quindi comprendere dal complesso dell'intera motivazione, per l'insanabile contraddizione suddetta, se la corte di merito abbia ritenuto simulati i tre contratti in questione, ovvero se lo fossero solo i primi due di vendita (da Corrente Xxxxxxxx alla Sifi e da questa alla Agrileasing), mentre non lo fosse il contratto di leasing stipulato tra la Agrileasing e la s.n.c. Corrente Auto.
3.2. Tutto ciò porta a diverse conseguenze giuridiche, erratamente omesse di valutare da parte dalla corte di merito.
Nella prima ipotesi, poichè venditore ed utilizzatore dissimulato dell'immobile coincidevano nella persona di Corrente Xxxxxxxx, che era l'unico soggetto che aveva dissimulatamene contrattato con la Agrileasing, la corte di merito avrebbe dovuto valutare se nella fattispecie sussisteva un valido contratto di sale and lease back, come sostenuto dalla ricorrente.
Il contratto di sale and lease back si configura come un'operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poichè risponde all'esigenza degli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l'alienazione di un bene strumentale - di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo e pertanto non agevolmente collocabile sul mercato - conservandone l'uso con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Tale operazione è caratterizzata da uno schema negoziale tipico nel cui ambito il trasferimento in proprietà del bene all'impresa di leasing rappresenta il necessario presupposto per la concessione del bene in "locazione finanziaria", e non è quindi preordinato "per sua natura" e nel suo fisiologico operare" ad uno scopo di garanzia, nè -tanto meno - alla fraudolenta elusione del divieto posto dall'art. 2744 c.c..
Pertanto, pur dovendosi ammettere che anche il lease and sale back, come qualsiasi altro contratto, può essere impiegato per scopi illeciti e fraudolenti (e, in particolare, a fini di violazione o di elusione del divieto del patto commissorio), deve tuttavia sottolinearsi che tale ultima ipotesi si realizza solo se, per le circostanze del caso
concreto (difficoltà economiche dell'impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza; sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall'acquirente che confermi la validità di tale sospetto), l'operazione si atteggi in modo da perseguire un risultato confliggente con il divieto sancito dall'art. 2744 c.c. (Cass. 22/04/1998, n. 4095; Cass. 26/06/2001, n. 8742).
Nel contratto di "sale and lease back", la vendita ha scopo di "leasing" e non di garanzia perchè, nella configurazione socialmente tipica del rapporto, costituisce solo il presupposto necessario della locazione finanziaria inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all'imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l'alienazione di un suo bene strumentale, conservandone a questo l'uso con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Tale vendita (con il complesso rapporto atipico nel quale si inserisce) non è quindi, di per sè, in frode al divieto del patto commissorio che, essendo diretto ad impedire al creditore l'esercizio di una coazione morale sul debitore spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione nel caso di patto commissorio "ab intervallo") da ristrettezze finanziarie, ed a precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità di fare proprio il bene attraverso un meccanismo che lo sottrarrebbe alla regola della "par condicio creditorum", deve, invece, ritenersi violato ogni qualvolta lo scopo di garanzia non costituisca solo motivo, ma assurga a causa del contratto di vendita con patto di riscatto o di retrovendita, a meno che non risulti in concreto, da dati sintomatici ed obiettivi, quali la presenza di una situazione credito - debitoria preesistente o contestuale alla vendita o la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato ed, in altri termini, delle reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto, che la predetta vendita, nel quadro del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all'impresa alienante, è stata piegata al rafforzamento della posizione del creditore - finanziatore, che in tal modo tenta di acquisire l'eccedenza del valore, abusando della debolezza del debitore (Cass. 16/10/1995, n. 10805).
3.3. La corte di merito, quindi, avrebbe dovuto valutare, nell'ipotesi in cui avesse ritenuto simulati di tutti e tre i contratti, per interposizione fittizia, essendosi il rapporto svoltosi esclusivamente tra Corrente Xxxxxxxx e l'Agrileasing, se il contratto dissimulato integrasse un lecito contratto di sale and lesse back, ovvero se esso costituiva una vendita a scopo di garanzia del finanziamento, e quindi nulla per causa illecita (ex art. 1344 per violazione del divieto di patto commissorio).
4.1. Nella seconda ipotesi, e cioè nell'ipotesi in cui la corte di merito avesse ritenuto che la simulazione investisse solo i due contratti di vendita dell'immobile e non anche il contratto di leasing, in questo caso il contratto dissimulato sarebbe costituito dalla vendita diretta dal Corrente alla Agrileasing dell'immobile, mentre il contratto di leasing da quest'ultima alla s.n.c. Corrente Auto, sarebbe non simulato. In questo caso il contratto dissimulato di vendita ed il successivo contratto successivo di leasing, autonomamente considerati, non sono nulli.
Tuttavia, se essi fossero intimamente collegati per realizzare una vendita a scopo di garanzia e quindi per realizzare un finanziamento con patto commissorio, la nullità della causa investirebbe l'intero rapporto collegato.
4.2. Perchè possa configurarsi un collegamento di negozi in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, anche ai fini della nullità dell'intero procedimento negoziale per illiceità del motivo o della causa, ai sensi degli artt. 1344 e 1345 c.c., è necessario che ricorra sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico fra i negozi, che il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur se non manifestato in forma espressa, potendo risultare anche tacitamente, di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il collegamento ed il coordinamento di essi per la realizzazione di un
fine ulteriore, non essendo sufficiente che quel fine sia perseguito da una sola delle parti all'insaputa e senza la partecipazione dell'altra (Cass. 18/04/1984, n. 2544). Infatti le parti, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, possono dar vita, con uno o più atti, a diversi e distinti contratti che, pur conservando l'individualità propria di ciascun tipo negoziale e pur rimanendo sottoposti alla relativa disciplina, vengono tuttavia collegati tra loro, in funzione del risultato concreto unitariamente perseguito, con rapporto di reciproca dipendenza, in modo che le vicende dell'uno si ripercuotono sull'altro o sugli altri, condizionandone non solo l'esecuzione ma anche la validità. Il detto collegamento tra negozi è configurabile anche quando siano stipulati tra soggetti diversi, pur essi risultino concepiti e voluti come funzionalmente connessi ed interdipendenti, al fine di un completo e complessivo regolamento di interessi (Cass. 30/10/1991 n. 11638). 4.3. Va, infatti, osservato che il divieto di patto commissorio si estende a qualsiasi negozio, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un bene come conseguenza della mancata estinzione del debito. Poichè il collegamento tra negozi è configurabile anche quando siano stipulati - con le caratteristiche suddette - tra soggetti diversi, sono nulli il contratto di vendita da un soggetto ad un lessor e quello di leasing finanziario tra quest'ultimo ed un lessee, se essi risultano collegati al solo scopo di costituire una vendita a garanzia dell'adempimento nei confronti del lessor, in quanto, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., i contratti, così collegati, possono costituire un mezzo per eludere tale norma imperativa (cfr. sia pure in tema di vendita con patto di riscatto, Cass. 20/07/1999, n. 7740). in questo caso la nullità deriva dalla violazione dell'art. 1344 c.c., e cioè nullità per illiceità della causa, in quanto il collegamento negoziale suddetto costituisce il mezzo per eludere il divieto del patto commissorio (Cass 03/04/1989, n. 1611).
4.4. Anche in questa ipotesi, accertato il collegamento negoziale tra i due negozi, l'accertamento dell'esistenza della causa illecita di violazione del divieto di patto commissorio, va effettuata sulla base degli elementi soggettivi ed oggettivi sopra indicati per distinguere l'ipotesi di valido contratto di sale and lease back da quello che maschera un patto commissorio, e, come tale, illecito. 5.L'accoglimento dei suddetti due motivi di ricorso comporta l'assorbimento dei restanti.
L'impugnata sentenza va, pertanto xxxxxxx con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce, che si uniformerà ai suddetti principi di diritto e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Xxxxx, in relazione ai motivi accolti, l'impugnata sentenza, e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Lecce.
Cass. civ., sez. I, 26-01-1996, n. 611
Mentre è possibile, nelle ipotesi di previsione legale di un contratto reale, che le parti elaborino in luogo di esso un corrispondente contratto consensuale atipico, è invece da escludere che, essendo dalla legge previsto, per un certo assetto negoziale, il meccanismo regolatore della consensualità, vera e propria «via maestra» nella produzione degli effetti giuridici, le parti possano ad esso derogare, creando un modello reale atipico.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 26 febbraio 1978 l’assemblea straordinaria della s.p.a. Sit-società impianti turistici deliberò l’aumento del capitale sociale mediante emissione a pagamento di 1.365.000 azioni da offrire in opzione ai soci. Il consiglio di amministrazione, delegato dall’assemblea, successivamente stabilì che il diritto di opzione doveva essere
esercitato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre 1978. Con citazione del 13 aprile 1979 Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, premesso di aver esercitato il diritto di opzione, nonché quello di prelazione per l’acquisto delle azioni non optate, purché in numero non inferiore a 910.000, convenne in giudizio la Sit innanzi al Tribunale di Brescia, chiedendo a questo di accertare il proprio acquisto delle azioni non optate o, in subordine, di pronunciare sentenza costitutiva dell’acquisto delle stesse, in ogni caso condannando la società al risarcimento del danno.
La Sit si costituì e rilevò che il Consorzio imbrifero montano di Valle Camonica (d’ora in avanti Consorzio Bim) aveva esercitato il diritto di opzione il 2 gennaio 1979 (giorno di proroga del termine suddetto a causa delle festività del 31 dicembre 1978, domenica, e di Capodanno) presentando il mandato di pagamento, emesso il 28 dicembre 1978 a favore della Sit, alla sede di Breno della Banca di Valle Camonica, ad un tempo tesoriere dell’ente e incaricata delle operazioni di sottoscrizione dell’aumento di capitale; concluse, quindi, che, a seguito di tale opzione, le azioni non sottoscritte erano rimaste in numero assai inferiore al minimo richiesto dal Bulferetti. L’attore replicò che la delibera del consiglio di amministrazione prevedeva la consegna di ricevuta in conto sottoscrizione, per cui l’opzione doveva ritenersi perfezionata solo a seguito del versamento dell’importo corrispondente al valore nominale delle azioni sottoscritte; e che il versamento del Consorzio Bim era in realtà avvenuto il 3 e 19 gennaio 1979, ben oltre il termine di decadenza stabilito.
Il Consorzio Bim, chiamato in causa, si costituì e, premesso che in quanto ente pubblico non poteva eseguire pagamenti se non a mezzo della tesoreria, osservò che il mandato di pagamento della Sit per la sottoscrizione delle azioni era stato consegnato il 31 dicembre 1978 al tesoriere, agenzia di Breno della Banca S. Paolo, e da questa trasferito in pari data alla Banca di Valle Camonica, sede di Breno, incaricata delle operazioni di sottoscrizione.
Con altra citazione notificata alla Sit il 3 aprile 1980 il Bulferetti impugnò ai sensi dell’art. 2378 c.c., davanti al Tribunale di Brescia, la deliberazione assembleare del 21 ottobre 1979 che aveva revocato l’aumento di capitale in quanto non interamente sottoscritto (non considerandosi il diritto di prelazione esercitato in forma condizionata dal Bulferetti). Domandò l’attore l’annullamento della delibera per violazione del diritto acquisito da esso socio e, ove del caso, la dichiarazione di nullità della stessa per illiceità della causa.
Riunite le cause, il tribunale rigettò tutte le domande proposte dal Xxxxxxxxxx.
A seguito di impugnazione del soccombente la Corte di appello di Brescia, con sentenza del 16 luglio 1992, rigettò il gravame, così argomentando:
a) diversamente da quanto ritenuto dal Xxxxxxxxxx, il tribunale non aveva affermato che il versamento del Consorzio Bim sarebbe avvenuto il 3 gennaio 1979, ma aveva soltanto precisato che, mentre l’ordine di accredito alla Sit era stato impartito il 2 gennaio 1979 dalla sede di Breno della Banca di Valle Camonica, la materiale esecuzione dell’accredito stesso era avvenuta il 3 gennaio; infatti il mandato di pagamento n. 332 del 31 dicembre 1978, relativo all’intero importo di lire 67.200.000 per la sottoscrizione delle nuove azioni, era stato portato il 2 gennaio 1979 prima alla Banca S. Paolo, per la firma di tesoreria, e poi alla Banca di Valle Camonica per l’accredito alla Sit e quello stesso giorno l’importo era stato accreditato sul conto della società;
b) il versamento era da ritenersi tempestivo perché la Banca di Valle Camonica rivestiva il doppio ruolo di tesoriere del Consorzio Bim e di istituto incaricato dalla Sit delle operazioni di sottoscrizione dell’aumento di capitale, dal che discendeva la contemporaneità tra ordine di pagamento e versamento e, quindi, la tempestività della sottoscrizione;
c) in ogni caso il versamento del prezzo di acquisto non costituiva condizione di perfezionamento del contratto di sottoscrizione delle nuove azioni, avendo questo
natura consensuale e non reale, sì che il versamento atteneva al suo adempimento e non alla sua formazione;
d) le particolari condizioni di offerta delle nuove azioni stabilite dal consiglio di amministrazione della Sit, che prevedevano il versamento del denaro in unica soluzione contro il ritiro di ricevuta in conto sottoscrizione, non potevano trasformare tale contratto consensuale in reale, ciò costituendo una inammissibile interferenza dell’autonomia privata nella disciplina legale della circolazione dei beni.
Concluse perciò la corte di appello che il versamento del Consorzio Bim doveva in ogni caso considerarsi utile, essendo stata la decadenza evitata con la dichiarazione di volontà di sottoscrivere le azioni, certamente giunta alla Sit entro il termine: donde la inesistenza della condizione (non meno di 910.000 azioni inoptate), alla quale il Bulferetti aveva subordinato la prelazione da lui esercitata.
Contro tale sentenza il Xxxxxxxxxx ha proposto ricorso per cassazione, articolando quattro mezzi. Il Consorzio Bim e la società Sit hanno resistito con controricorso. Ricorrente e Sit hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il terzo motivo del ricorso, al cui esame va data precedenza logica, il Bulferetti deduce violazione dell’art. 2439, 1° comma, c.c., dolendosi che la corte di appello abbia attribuito al contratto di sottoscrizione delle azioni di nuova emissione natura consensuale, vale a dire la idoneità a porsi come fattispecie contrattuale realizzata per effetto della sola manifestazione del consenso, essendo il versamento del controvalore (ivi compresa la quota dei tre decimi) adempimento del contratto stesso e quindi suo momento esecutivo, non già elemento della sua formazione. In realtà, secondo il ricorrente, il fatto che la legge, almeno per i tre decimi, richieda la contestualità del versamento alla sottoscrizione implicherebbe che il versamento stesso non si limiti a costituire adempimento di un impegno contrattuale già perfezionato, ma attenga allo stesso insorgere della fattispecie contrattuale. La ratio di tale costruzione normativa consisterebbe nel fatto che il legislatore ha inteso, nel caso di aumento del capitale, dotare la società non di soli crediti verso i sottoscrittori, ma, almeno per tre decimi, di risorse già entrate nelle casse sociali.
Questa corte, chiamata per la prima volta a risolvere tale questione, ritiene di poter condividere l’opzione consensualistica espressa dai giudici di merito nella presente controversia (e già, in precedenza, da altri tribunali e corti), confermando qualche spunto in tal senso che essa stessa aveva occasionalmente formulato (v., in particolare, sent. 639/76, Foro it., 1976, I, 1233).
La lettera dell’art. 2439, 1° comma, c.c. non può dirsi univoca, perché l’espressione
«all’atto della sottoscrizione», riferita al «dovere» del versamento dei tre decimi, potrebbe esprimere una sorta di concorso ontologico dei due elementi nella formazione del contratto, ma potrebbe anche semplicemente indicare una contemporaneità cronologica, o meglio la immediatezza del dovere di versamento rispetto alla sottoscrizione; tanto più che il verbo «dovere», usato dalla norma, sembra più allusivo ad un obbligo che non al fatto, per sé libero, di dar vita ai segmenti formativi del contratto (nei contratti reali classici la consegna della cosa è rappresentata come evento, mai come dovere: art. 1766, 1803, 1813, ecc.).
Assunto dunque come non univoco il dato letterale, è allo scopo della norma che deve guardarsi. Esso viene indicato nella necessità di garantire la serietà della sottoscrizione dell’aumento nei riguardi sia dei soci e della società che dei terzi. Ciò, tuttavia, ancora non dice se tale finalità debba intendersi soddisfatta attraverso il modello del contratto reale (nel senso che la sottoscrizione re perficitur, ovverosia non viene ad esistenza indipendentemente da quel versamento), oppure se essa più semplicemente implichi che, essendo imposta l’immediatezza del versamento dei tre decimi, questi siano senza indugio esigibili, restando esclusa ogni discrezionalità degli amministratori quanto al tempo in cui la solutio deve essere pretesa.
La prima ipotesi è in apparenza più forte e potrebbe, pertanto, sembrare preferibile. La giurisprudenza di merito ci dice però che la tesi della realità è stata dai sottoscrittori tipicamente utilizzata per respingere, sul presupposto del non avvenuto versamento dei tre decimi e quindi della mancata formazione del contratto, le richieste di versamenti avanzate dagli amministratori o, più spesso, da curatori fallimentari (art. 150 l. fall.), e che la risposta nel senso della consensualità è servita invece a far salvo e a rendere operante l’impegno. In mancanza di sicuri indici formali, che attestino la scelta del legislatore in un senso o nell’altro, tale dato di concreta esperienza non può essere trascurato dall’interprete.
Non mancano, d’altra parte, nello stesso sistema positivo, fattori di ragionevole orientamento verso l’interpretazione consensualistica dell’art. 2439, ricavabili dall’ipotesi non identica, e nondimeno per molti aspetti parallela, del versamento dei tre decimi al momento della costituzione della società (art. 2329, n. 2, c.c.). Intanto va rilevato che, allorquando la fase di sottoscrizione delle azioni assume più marcata autonomia di subprocedimento (c.d. costituzione non simultanea), è ipotizzata una vera e propria mora nel versamento dei tre decimi (art. 2334, 2° comma, c.c.) il che rimanda a un negozio di sottoscrizione di natura ovviamente non reale. Più in generale, poi, il mancato versamento dei tre decimi dà luogo, se l’atto costitutivo venga ugualmente omologato, alla c.d. nullità della società (art. 2332, n. 6, c.c.), che è in realtà causa di scioglimento dell’ente collettivo e non libera i sottoscrittori dall’obbligo dei conferimenti fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali (art. 2332, 3° comma, c.c.): tale obbligo ricomprende anche i tre decimi, se non ancora versati, il che conferma che essi sono in obligatione per effetto del contratto, e non già che il contratto si forma solo se essi siano versati.
Se questa è la situazione positivamente esistente per i tre decimi in sede di costituzione della società, non si vede perché, in difetto di vincoli letterali, dovrebbe essere scelta una lettura di segno opposto (cioè nel senso della realità) nel caso dei tre decimi in sede di aumento, posto che quest’ultima soluzione non trova conforto né in una sicura esegesi né in un’esigenza di maggior severità in tale occasione, essendo semmai più forte il bisogno di garantire la serietà dell’operazione, e la dotazione dell’ente di mezzi effettivi, quando è in gioco addirittura il suo sorgere e non semplicemente la sua espansione.
Tali considerazioni confermano dunque, anche per l’art. 2439, l’interpretazione consensualistica, dimostrando esatte le conclusioni, sul punto, della sentenza impugnata.
2. - Segue ora, nell’ordine logico, l’esame della prima parte del quarto motivo, con cui il Xxxxxxxxxx, deducendo insufficienza e contraddittorietà di motivazione su punto decisivo, si duole che la corte di appello, rigettando la sua tesi subordinata, abbia escluso che le parti potessero, nella loro autonomia, costruire come reale il negozio (supposto consensuale) di sottoscrizione dell’aumento, come esse avrebbero fatto prevedendo il versamento in unica soluzione contro il ritiro di ricevuta in conto sottoscrizione.
La censura è infondata. Intanto essa non si regge come è formulata, cioè in termini di insufficienza e contraddittorietà della motivazione in fatto. Ma non avrebbe miglior sorte anche ammettendo di poterla interpretare come censura di falsa applicazione di norme di diritto.
Infatti, mentre si riconosce che, prevedendo la legge un contratto reale, le parti possano in luogo di esso elaborare, con effetti minori, un corrispondente contratto consensuale atipico (è questo il fenomeno che la dottrina chiama «progressiva erosione» del modello del contratto reale), è invece da escludere che, essendo dalla legge previsto, per un certo assetto negoziale, il meccanismo regolatore della consensualità, vera e propria «via maestra» nella produzione degli effetti giuridici, le parti possano ad esso derogare, creando un modello reale atipico. (Omissis)
Cass. civ., sez. I, 23-02-2000, n. 2069.
Ai contratti non espressamente disciplinati dal codice civile (contratti atipici o innominati) possono legittimamente applicarsi, oltre alle norme generali in materia di contratti, anche le norme regolatrici dei contratti nominati, quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla seconda serie di norme (principio affermato dalla suprema corte con riferimento ad una vicenda di leasing c.d.
«traslativo» cui è stata ritenuta applicabile la norma che disciplina la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà - art. 1526 c.c. - e, conseguentemente, inapplicabile il regime di cui all’art. 1458, 1º comma, seconda ipotesi, c.c.).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 15.3.89 il fallimento della S.r.l. "Sun Club Hotels" esponeva che con contratto del 15.3.89 la S.p.A. Lisinco aveva concesso in locazione finanziaria alla società "Sun Club Hotels" un complesso immobiliare ad uso albergo per il corrispettivo di L. 2.921.776.000, da pagarsi in 60 canoni mensili, il primo di L. 440.000.000 gli altri di L. 42.064.000 ciascuno, con facoltà di riscatto al termine del contratto; che, in seguito al mancato pagamento della ricevuta bancaria di L.
49.635.520 relativa al mese di gennaio 1987 e del canone relativo del mese successivo, la Lisinco aveva risolto il contratto ed aveva ceduto l’immobile a terzi incassando l’importo lordo di L. 1.670.600.000.
Ciò premesso il fallimento conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Venezia la S.p.A. Xxxxxxx chiedendo, ai sensi dell’art. 1526 c. 1º c.c., la restituzione dei canoni percepiti, salvo eventuale equo compenso per l’uso del bene, oltre agli interessi e al risarcimento per maggior danno; in subordine chiedeva la condanna della convenuta al pagamento di una somma a titolo di riduzione dell’indennità eventualmente acquisita ai sensi dell’an. 1526 c. 2º c.c.
La società convenuta resisteva.
Il Tribunale, con sentenza del 4.6.93, condannava la Lisinco al pagamento della somma di L. 836.370.000 oltre interessi e risarcimento per maggior danno.
La società Lisinco proponeva appello censurando (a) l’applicazione per analogia della disposizione dell’art. 1526 c.c. e (b) la determinazione del "quantum".
La curatela del fallimento resisteva e proponeva appello incidentale. Sosteneva che i primi giudici, interpretando erroneamente la clausola contrattuale, avevano applicato la disposizione del 2º comma dell’art. 1526, anziché quella del primo comma che prevedeva la restituzione dei canoni riscossi.
La Corte d’appello di Venezia con sentenza del 4.7.96, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannava la ISEFI - Internazionale di Servizi Finanziari
S.p.A. (così modificata l’originaria denominazione della società concedente) a corrispondere al fallimento la somma di L. 81.441.358 oltre agli interessi e al risarcimento del danno ex art. 1224 c.c.; rigettava l’appello incidentale.
La corte territoriale - richiamati i principi ripetutamente enunciati dalla corte di cassazione in tema di leasing finanziario (ex plurimis S.U. 65/93) e premesso che oggetto del contratto non era un bene del quale fosse ragionevolmente prevedibile l’esaurimento delle potenzialità nell’arco della durata del contratto - osservava che il corrispettivo pattuito non poteva dirsi ragguagliato alla vita economica del bene ma era anzi, nel suo complesso, notevolmente superiore al prezzo d’acquisto del bene stesso, nonostante la sostanziale mancanza di diminuzione del suo valore per effetto dell’uso. Concludeva affermando che la originaria volontà delle parti era diretta a realizzare, attraverso lo strumento del leasing, il trasferimento della proprietà del bene al termine del rapporto e xxxxxxxxx, pertanto, nel contratto in questione la figura del c.d. "leasing traslativo".
Rigettava, poi, l’appello incidentale rilevando che la clausola n. 11 del contratto - nella parte in cui prevedeva la possibilità del concedente, in caso di risoluzione del contratto, "di trattenere quanto incassato (a qualsiasi titolo) a fronte del contratto" - non era illecita ove riconducibile alla previsione dell’art. 1526 c. 2º e che la mancanza di previsione dell’espressa indicazione che quanto già incassato dal concedente sarebbe stato trattenuto a titolo di indennità non era motivo sufficiente per ritenere l’estraneità della clausola alla previsione legislativa, perché la funzione della pattuizione all’esame, resa palese dal contesto contrattuale, era quella di determinare "ex ante" l’ammontare di quanto dovuto al concedente in ipotesi di risoluzione contrattuale.
Osservava, infine, che la statuizione del Tribunale relativa alla determinazione dell’indennità spettante alla società concedente - da commisurarsi alla remunerazione dell’investimento del periodo di utilizzo del bene da parte della società fallita - non era stata oggetto d’impugnazione e su di essa si era formato il giudicato interno. Nella determinazione del "quantum" rilevava che nell’effettuazione dei calcoli erano stati adoperati valori non omogenei con differenze, nello specifico a detrimento dell’appellante, di notevole rilievo. Determinava, pertanto, nella misura sopra indicata l’indennità da restituire al fallimento.
Propone ricorso per cassazione il fallimento della "Sun Club Hotels".
Resiste con xxxxxxxxxxxxx e propone ricorso incidentale illustrato con memoria la Isefi S.p.A.
Resiste con controricorso al ricorso incidentale il fallimento della "Sun Club Hotels". MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con il ricorso incidentale, che per ragioni di ordine logico è necessario esaminare subito, la Soc. Xxxxx, denunziando violazione di legge e vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), sostiene che la Corte d’Xxxxxxx, ritenendo applicabile al contratto in oggetto la disposizione dell’art. 1526 c.c., ha errato non solo nella individuazione o scelta della norma applica bile al caso concreto e nella interpretazione di tale norma ma anche nella sussunzione dei fatti alla fattispecie astratta e nella deduzione delle conseguenze.
Rileva, in primo luogo, che l’art. 1323 c.c., disponendo che "tutti i contratti ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo", deve essere interpretato nel senso che solamente nell’ipotesi in cui un problema attinente alla vita di un contratto atipico non trovi soluzione in base alle norme di questo titolo II si può ricorrere, per via analogica, alle norme dei singoli contratti espressamente regolati dalla legge; che nel caso in esame la soluzione è fornita proprio dall’art. 1458 c. 1º c.c.
La censura non può essere condivisa. Questa Corte ha più volte precisato che ai contratti non contemplati dal legislatore (atipici o innominati) possono applicarsi oltre alle norme generali in materia di contratti (art. 1323 c.c.) anche le norme regolatrici dei contratti nominati quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla seconda serie di norme (Cass. 6863/93, 3142/80).
Al leasing finanziario, nella forma c.d. traslativa, è stata ritenuta applicabile, per le ragioni che seguono, la norma che disciplina la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà (art. 1526 c. c.) e conseguentemente inapplicabile il regime dell’art. 1458 c. 1º seconda ipotesi cod. civ.
Deduce, ancora la Soc. Isefi che, in ogni caso, è erroneo l’iter ermeneutico seguito dalla corte veneta quando ha affermato che il contratto di leasing intervenuto tra le parti era immobiliare e quindi traslativo ed accostabile al contratto di vendita con riserva di proprietà, rilevando che la qualificazione di un contratto di leasing come
traslativo o di godimento non discende dall’oggetto del contratto, ma dal concreto assetto che le parti hanno voluto dare alla disciplina dei loro interessi.
Anche questa censura è priva di pregio. La Corte ha individuato gli elementi che caratterizzano il leasing traslativo applicando puntualmente i criteri elaborati da questa Corte (ex plurimis S.U. 65/93, 6034/97, 6063/97). Con motivazione adeguata e puntuale ha osservato che oggetto del contratto (complesso immobiliare alberghiero) non era una bene del qua le fosse ragionevolmente prevedibile l’esaurimento delle potenzialità nell’arco della durata del rapporto con la conseguenza che "il corrispettivo pattuito non poteva dirsi ragguagliato alla vita economica del bene" ed ha escluso che nell’economia del rapporto, qua le previsto e voluto dalle parti i canoni costituissero - come è caratteristico del leasing tradizionale - soltanto il corrispettivo per il godimento del bene.
L’interpretazione della comune volontà dei contraenti, e, in particolare della originaria previsione di trasferimento del bene inizialmente concesso in godimento, è riservata, come ogni giudizio di fatto, al giudice del merito. La corte veneta ha compiutamente esaminato i rilievi dedotti dalla società concedente ed ha puntualmente individuato gli indici configuranti il tipo di leasing voluto dalle parti, quali, tra gli altri, (a) l’assenza di coincidenza temporale tra periodo di consumazione tecnica ed economica del bene e durata del rapporto e (b) la volontà originaria delle parti di realizzare con lo strumento del leasing il trasferimento della proprietà del bene al termine del rapporto "stante l’ingentissima somma già sborsata ed il rilevantissimo differenziale tra prezzo d’opzione e valore residuale, nella corrispondenza tra l’importo globale dei canoni ed il valore del bene".
Con le censure in esame la Isefi non denuncia un errore di diritto o un vizio di ragionamento del giudice di merito nell’accertamento della realtà storica. Si limita a proporre una diversa ricostruzione della volontà contrattuale senza indicare quali elementi di giudizio, aventi decisiva incidenza, la corte avrebbe trascurato di esaminare; ripropone, in sostanza, generiche censure alle quali i giudici del gravame - richiamando i principi ripetutamente enunciati da questa Corte - hanno dato esauriente risposta.
Escluso, pertanto, che nel contratto in oggetto possano ravvisarsi quei caratteri che distinguono il leasing tradizionale di mero godimento del bene e negata, conseguentemente, l’assimilabilità del contratto stipulato dalle parti ad un contratto ad esecuzione continuata o periodica, deve ritenersi inapplicabile il regime dell’art. 1458 c. 1º seconda ipotesi cod. civ. non essendo ravvisabile quella perfetta corrispettività a coppia delle prestazioni reciproche o periodiche che caratterizzano il leasing tradizionale (S.U. 65/93).
Si osserva, infine, che la circostanza che il contratto di leasing abbia avuto per oggetto un bene immobile non preclude l’applicazione delle norme che disciplinano il contratto tipico richiamato per analogia (vendita con riserva di proprietà di beni mobili) per il rilievo che alla norma imperativa dell’art. 1526 è stato riconosciuto il valore di "principio generale di tutela di interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing traslativo" (S.U. 65/93) cui si deve far riferimento ai fini del ricorso all’analogia. E’ opportuno precisare ancora che i giudici del gravame non hanno qualificato "traslativo" il leasing stipulato dalla Isefi e dalla Sun Hotels sol perché aveva per oggetto un immobile, ma hanno valutato tutti gli elementi rivelatori della volontà dei contraenti, anche considerando le caratteristiche del bene oggetto di contratto al fine di escludere la coincidenza temporale tra il periodo di consumazione tecnica ed economica del bene e la durata del rapporto.
Con il primo motivo il ricorrente principale denunzia violazione e falsa applicazione delle regole di ermeneutica contrattuale (art, 1362 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 14
c.p.c.) e xxxxxx e insufficiente motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.). Xxxxxxxx (a) che la corte di merito attribuendo alla clausola n. 11 del contratto di leasing la "funzione di determinare ex ante l’ammontare di quanto dovuto in ipotesi di risoluzione contrattuale" e applicando il secondo comma dell’art. 1526 c.c., ha violato il criterio ermeneutico secondo il quale, al fine di stabilire il significato di una singola clausola, l’interprete non può prescindere dal contenuto dell’intero contratto. La corte non solamente ha attribuito natura di indennità risarcitoria a patto che manca di tale espressa indicazione ma ha, altresì, omesso di tener conto che le parti, avevano disciplinato in altra parte del contratto (clausola n. 5) gli effetti della sua anticipata risoluzione. Se dette clausole (n. 5 e n. 11) fossero state esaminate in modo unitario la conclusione sarebbe stata diversa; vale a dire che, non assolvendo la ritenzione dei canoni alla predeterminazione del danno, la clausola n. 11 che la prevedeva era finalizzata esclusivamente a consentire alla concedente Lisinco di lucrare una locupletazione "sine causa". La corte veneta, inoltre, avrebbe solo apoditticamente escluso che la clausola penale non fosse comunque incompatibile con la contestuale previsione della risarcibilità del danno giusto il disposto dell’art. 1382 c. 1º ult. parte c.c.
Le riferite doglianze devono essere respinte.
La corte veneta ha spiegato che la clausola n. 11, doveva essere intesa secondo la previsione legislativa (art. 1526 c. 2º c.c.), dovendosi convenire che la pattuizione all’esame, resa palese dal contesto contrattuale in cui la stessa è inserito, era quella di prestabilire una forma di indennizzo a favore del concedente nell’ipotesi di risoluzione contrattuale, Questa fase di ricerca della comune volontà dei contraenti - desunta dal giudice di merito dall’attenta analisi di tale convenzione, senza incorrere in vizi logici o giuridici - resta sottratta per le ragioni già esposte, al sindacato di legittimità.
E’ inammissibile, poi, la censura con la quale il fallimento ricorrente si duole che la corte territoriale abbia trascurato di prendere in esame la clausola n. 5 (con la quale le parti avrebbero previsto una penale in caso di inadempimento) e di procedere ad un esame "unitario" dell’intero contratto. Questa Corte non può compiere il controllo sulla rilevanza della clausola n. 5 e sulla sua presunta incompatibilità con la clausola n, 11 avendo il ricorrente omesso di curarne la trascrizione integrale. Per il principio di autosufficienza del ricorso il controllo della Corte di Cassazione deve potersi svolgere sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto senza necessità di ricorrere ad indagini integrative (802/99, 5251/98).
Egualmente inammissibile è il secondo motivo di ricorso. Il fallimento denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c. 2º c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e sostiene che la corte veneta - affermando che l’indennità fatta palese dall’art. 1526 c. 2º cod. civ. sarebbe "latamente assimilabile alla previsione di una clausola penale" - ha stabilito un chiam parallelismo tra detti due istituti mentre l’accostamento dalla clausola penale all’indennità è consentito soltanto se si prescinde dal giudizio di responsabilità.
La corte veneta ha ritenuto applicabile alla fattispecie la normativa che disciplina la vendita con riserva di proprietà ed ha giudicato compatibile con tale normativa la clausola n. 11 con la quale le parti contraenti stabilirono che il concedente "avrebbe trattenuto quanto incassato a qualsiasi titolo a fronte del contratto". Con giudizio di fatto, sorretto da congrua motivazione, i giudici del gravame hanno rilevato che la mancanza della espressa indicazione che quanto già incassato sarebbe stato trattenuto a titolo di indennità non era motivo sufficiente per ritenere l’estraneità della clausola alla previsione legislativa (art. 1526 c.c.). La statuizione è chiaramente fondata sulla interpretazione della clausola mentre il motivo del ricorso riguarda solo una considerazione rafforzativa (l’indennità è latamente assimilabile alla clausola penale) che il giudice ha espresso ad abundantiam e che non costituisce affatto la "ratio decidendi" della sentenza impugnata.
Con il terzo motivo, infine, il fallimento, denunziando contraddittorietà e, comunque, insufficiente motivazione circa un punto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.), sostiene che la corte territoriale - che pur aveva premesso di doversi attenere alla "metodologia" cui il Tribunale aveva fatto riferimento (essendosi formato giudicato interno sui criteri da adottare nella determinazione del "quantum") - si era poi totalmente discostata dai succitati criteri.
Il motivo di ricorso è infondato. La corte ha dato atto che la statuizione di primo grado
- nella parte relativa alle modalità di determinazione dell’indennità "da commisurarsi alla remunerazione dell’investimento del periodo di utilizzo da parte della società fallita" - non era stato oggetto di impugnazione ed ha eseguito la revisione e correzione dei calcoli pervenendo ad un risultato notevolmente diverso. Ha dato convincente spiegazione del procedimento adottato per determinare la somma spettante alla fallita società utilizzatrice a titolo di riduzione dell’indennità, procedimento consistente nella detrazione, dal complessivo importo che la società concedente avrebbe conseguito se il contratto fosse andato a buon fine, dei ratei già pagati dalla società utilizzatrice e del prezzo ricavato dalla vendita del complesso immobiliare.
Le considerazioni del ricorrente che, dopo aver premesso di condividere la corretta conclusione relativa alla metodologia adottata dal Tribunale si duole poi dei conteggi effettuati, sono prive di pregio. Il fallimento non indica quali errori costituenti vizio logico della motivazione la corte avrebbe commesso ma - tralasciando inspiegabilmente di considerare il prezzo di opzione (che la concedente avrebbe dovuto conseguire al termine del rapporto) - propone una liquidazione diversa e più favorevole della somma eccedente l’indennità, non sorretta da alcuna giustificazione.
Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi principale e incidentale e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
2) Causa del contratto
Cass. civ., sez. III, 08-05-2006, n. 10490.
La causa quale elemento essenziale del contratto non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale del singolo, specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 31 marzo 1994 Xxx Xxxxxx evocò in giudizio dinanzi al tribunale di Milano la S.p.a. Gerolimich in liquidazione, esponendo:
- di aver stipulato con la convenuta, in data 20.2.1989, nella qualità di amministratore della s.a.s. "Business Gain", un primo contratto di consulenza (avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda), cui era aveva fatto seguito una seconda convenzione negoziale, sempre conclusa con la Gerolomich in data 3.7.1992, con la quale gli veniva riconosciuto, per dette prestazioni, un compenso annuo di L. 240.000.000;
- di essere stato inserito, nell'ambito di tale incarico, tra i componenti degli organi di amministrazione di alcune società facenti capo alla Gerolomich;
- di avere emesso, il 31.10.1992, una fattura per l'importo di L. 140.000.000 relativo al periodo aprile 1992 - febbraio 1993;
- di non aver ricevuto il saldo delle proprie competenze da parte della convenuta che, con lettera del 21.1.1993, aveva invece contestato l'esecuzione delle prestazioni, mentre egli si era reso nelle more cessionario dalla Business Gain dei crediti sopra indicati.
Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta eccepì, tra l'altro, che tutte le attività svolte dal Nistri, sì come descritte nell'atto di citazione, erano da ritenersi tout court assorbite nei compiti a lui spettanti in relazione alle cariche ricoperte nei consigli di amministrazione delle società a lei collegate, rilevando altresì che la "Business Gain" non aveva mai svolto alcuna reale attività, essendo viceversa un mero schermo societario fittiziamente creato per eludere norme fiscali e contributive.
Il tribunale, ritenuto che il contratto fosse stato stipulato, in realtà, direttamente tra la società convenuta ed il Nistri, e rilevato che nessuna oggettiva diversità era dato rinvenire tra le prestazioni rese da quest'ultimo in esecuzione del predetto contratto e i compiti da lui svolti nella veste di componente del consiglio di amministrazione della Gerolomich (identici essendo l'oggetto sociale di quest'ultima e l'oggetto del contratto di consulenza stipulato con il Nistri), rigettò la domanda, ritenendo nullo il duplice negozio di consulenza per difetto di causa.
Il gravame proposto dal Xxxxxx avverso tale pronuncia venne rigettato dalla Corte di appello di Milano, che, per quanto ancora di rilievo in sede di giudizio di legittimità, ebbe ad osservare:
- che, pur vera la affermazione dell'appellante secondo cui i due contratti stipulati con la Gerolomich costituivano "l'uno la prosecuzione dell'altro", elementi fattuali inconfutabili (tra i quali, l'accettazione della proposta contrattuale da parte del Nistri spedita ad un indirizzo diverso dalla sede sociale della Business Gain e il tenore letterale della proposta stessa, ove il Nistri in prima persona scriveva: "per la collaborazione ... mi riconoscerete un compenso ... comprensivo delle spese da me sostenute") rendevano evidente come proprio l'appellante fosse il soggetto che, direttamente e personalmente, assumeva le obbligazioni derivanti dal contratto; 17
- che, comunque, nel corso del giudizio, non era mai stata contestata l'osservazione, svolta dal tribunale, secondo cui le prestazioni oggetto del contratto erano state opera esclusiva del Nistri e non di altri soggetti della s.a.s. Business Gain (società che, d'altronde, risultava costituita soltanto da membri della famiglia di, quest'ultimo), di talchè, al di là della formale intestazione del contratto del 3.7.1992, l'effettivo contraente era da considerarsi proprio Xxx Xxxxxx;
- che, per le ragioni esposte dallo stesso Xxxxxx, il secondo contratto costituiva la prosecuzione del precedente accordo negoziale stipulato il 20.2.1989, accordo da ritenersi a sua volta concluso personalmente dall'appellante e, di conseguenza, soggettivamente simulato;
- che le attività di prestazione contemplate nei due contratti non apparivano sostanzialmente diverse da quelle svolte dal Nistri nella qualità di amministratore presso le società del gruppo Gerolmich, sicchè, dalla identità di oggetto tra attività di amministratore ed attività di consulenza, discendeva la nullità del contratto "per mancanza di giustificazione concreta".
Per la cassazione della sentenza della corte d'appello milanese ricorre oggi dinanzi a questa Corte Xxx Xxxxxx.
Resiste con controricorso la Gerolomich Le parti hanno entrambe depositato tempestive memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE (XXXXXXX)
Con il quinto motivo viene contestato il vizio di violazione ed errata applicazione dell'art. 1418 c.c. per essere stata predicata la fattispecie della nullità "sopravvenuta"
- in alternativa, la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione in relazione alla preesistenza delle cariche amministrative in capo al ricorrente. Xxxxxxx, in particolare, il ricorrente che, a suo avviso, l'espressione adottata dal giudice milanese ("mancanza di giustificazione concreta del contratto") andava piuttosto intesa nel senso che, a mancare (ovvero a risultare impossibile), fosse in realtà l'oggetto del contratto.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Tanto il primo quanto il secondo giudice hanno, difatti, rettamente predicato la nullità della doppia vicenda negoziale collegata sotto il profilo dei difetto causale (così il tribunale milanese), ovvero della mancanza di giustificazione concreta del contratto consuqenziale alla luce della sostanziale identità delle prestazioni svolte dal Nistri una volta nella qualità di amministratore della società, l'altra in quella di consulente esterno ad essa (così la Corte d'appello).
L'affermazione, corretta in punto di diritto, necessiti, peraltro, di alcune puntualizzazioni, avendo la parte ricorrente invocato, nella specie, una diversa eziogenesi della nullità negoziale - conseguente, a suo dire, ad una pretesa "impossibilità dell'oggetto" -, atteso che, a suo dire, il tradizionale concetto di causa intesa come "schema economico-giuridico" posto in essere dalle parti non consentiva di affermare che il negozio stipulato tra le parti ne fosse privo, corrispondendo esso allo schema tipico delineato dall'art. 2222 c.c..
Va preliminarmente escluso che la nullità della convenzione negoziale in parola derivi dalla pretesa impossibilità dell'oggetto del contratto, così come opinato dal ricorrente. È noto come la dottrina manualistica sia solita distinguere, quanto all'oggetto della prestazione dedotta in obbligazione, tra impossibilità fisica e giuridica, definendo fisica la impossibilità derivante da prestazione impossibiliE in rerum natura (quale la traditio di una cosa distrutta), giuridica quella che, pur non consistendo di per sè in un illecito
(ciò che distingue la prestazione ad oggetto impossibile da quella ad oggetto illecito, come la vendita di banconote contraffatte), è purtuttavia inattuabile in conseguenza di un divieto normativo (quale quello di edificazione violando le distanze legali).
È palese come, nel caso di specie, non ricorra nessuna delle così descritte fattispecie di impossibilità, trattandosi di prestazione (attività di consulenza) possibile tanto nella sua fisicità che sotto il profilo della conformità a norme di diritto, di talchè l'assunto difensivo risulta, in parte qua, infondato.
Merita ulteriore considerazione, invece, la questione, del pari sollevata dal ricorrente, della causa del negozio giuridico stipulato tra le parti.
È innegabile che, intesa nel comune significato di "funzione economico sociale" del contratto - secondo un approccio ermeneutico, peraltro, di tipo "astratto" -, il negozio oggetto della presente controversia non possa legittimamente dirsi "privo di causa", corrispondendo esso, addirittura, ad uno schema legale tipico, quello disegnato dall'art. 2222 c.c..
Ma, a giudizio di questo collegio, la nozione di causa così delineata non corrisponde, nella specie (così come in via di principio generale) a quella che, dopo attenta riflessione della più recente dottrina, deve ritenersi concetto correttamente predicabile con riferimento al profilo oggettivo della struttura contrattuale.
È opinione corrente quella secondo cui la prima elaborazione del concetto di causa (sostanzialmente estranea all'esperienza romana come elemento costitutivo del negozio, che doveva corrispondere essenzialmente a "modelli" formali) sia stata il frutto della riflessione dei giuristi d'oltralpe che, tra il 1625 ed il 1699, distinguendo per la prima volta sul piano dogmatico i contratti commutativi dalle donazioni, individueranno nell'obbligazione di una parte verso l'altra il fondamento della teoria causale (e di qui, l'origine storica della perdurante difficoltà a superare la dicotomia contratto di scambio-liberalità donativa). Gli stessi rapporti tra la causa e gli altri elementi del contratto, apparentemente indiscussi nei relativi connotati di alterità, paiono, nel progressivo dipanarsi del concetto di causa negotii, talvolta sfumare in zone di confine più opache (si pensi alla relazione causa/volontà nei negozi di liberalità; a quella causa/forma ed all'avvicinamento delle due categorie concettuali verificabile nei negozi astratti; a quella causa/oggetto, con le possibili confusioni a seconda della nozione che, di entrambe le categorie giuridiche, ci si risolva di volta in volta ad adottare, oggetto del contratto essendo tanto la rappresentazione ideale di una res dedotta in obbligazione, quanto la res stessa, causa risultando la funzione dello scambio in relazione proprio a quell'oggetto). Tutte le possibili definizioni di causa succedutesi nel tempo (che un celebre civilista degli anni '40 non esita a definire "oggetto molto vago e misterioso") hanno visto la dottrina italiana in permanente disaccordo (mentre negli altri paesi il dibattito è da tempo sopito), discorrendosi, di volta in volta, di scopo della parte o motivo ultimo (la c.d. teoria soggettiva, ormai adottata dalla moderna dottrina francese, che parla di causa come But); di teoria della controprestazione o teoria oggettiva classica (che sovrappone, del tutto incondivisibilmente, il concetto di causa del contratto con quello di causa/fonte dell'obbligazione); di funzione giuridica ovvero di funzione tipica (rispettivamente intese in guisa di sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto, ovvero di identificazione del tipo negoziale - che consente ad alcuni autori di predicare la sostanziale validità del negozio simulato sostenendone la presenza di una causa, intesa come "tipo" negoziale astratto, sia pur fittizio, quale una donazione, una compravendita, ecc. -); di funzione economico-sociale, infine, cara alla c.d. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 42, del tutto svincolata dagli scopi delle parti all'esito di un processo di astrazione da essi (per tacere delle teorie anticausalistiche, di derivazione tedesca, con identificazione della causa nell'oggetto o nel contenuto - Inhalt - del contratto, non indicando il codice tedesco la causa tra gli elementi costitutivi del contratto).
La definizione del codice è, in definitiva, quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall'ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell'autonomia privata (così, testualmente, la relazione del ministro guardasigilli); ma è noto che, da parte della più attenta dottrina, e di una assai sporadica e minoritaria giurisprudenza (Cass. Sez. 1^, 7 maggio 1998, n. 4612, in tema di Sale & lease back) Sez. 1^, 6 agosto 1997, n. 7266, in tema di patto di non concorrenza; Sez. 2^, 15 maggio 1996, n. 4503, in tema di rendita vitalizia), si discorre da tempo di una fattispecie causale "concreta", e si elabori una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
Così rottamente intesa la nozione di causa del negozio, appare allora evidente come, nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal Nistri.
Con il sesto nativo, infine, il ricorrente si duole infine di una pretesa carenza e contraddittorietà di motivazione in punto di negazione del corrispettivo consulenziale anche per 11 periodo non coincidente con la carica amministrativa.
Il motivo è del tutto inammissibile, ponendo, da un canto, questioni affatto nuove rispetto a quelle affrontate e decise dalla corte meneghina in sentenza, difettando, dall'altro, del già sopra ricordato requisito della autosufficienza, poichè manca del tutto la pur necessaria trascrizione, in parte qua, dei passi salienti e rilevanti dei relativi atti scritti.
Il ricorso è, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 7.100,00 di cui 100,00 per spese generali.
3) Conclusione del contratto: l’art. 1333 e il negozio unilaterale
Cass. civ., sez. III, 25/09/2012, n. 16259
La lettera di patronage configura una obbligazione di garanzia atipica con promessa di risultato, sia pure a contenuto variabile. Da ciò consegue che ai fini della liberazione del patronnant dal risarcimento dei danni da inadempimento, ai sensi dell'art. 1218 c.c., lo stesso dovrà fornire la prova della determinazione della impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile [s.m.]
*** Cass. civ., sez. I, 25/09/2001, n. 11987
La lettera di "patronage" con quale il patrocinante non si limita ad esternare la propria
posizione di influenza, ma assume degli impegni è riconducibile allo schema del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente così come delineato dall'art. 1333 c.c. Pertanto, nell'ipotesi del cd. "patronage" impegnativo, nella ricerca dell'effettivo contenuto della dichiarazione del patrocinante devono trovare applicazione i criteri normativi di ermeneutica contrattuale di cui agli art. 1362 e 1366 c.c., e, in particolare, il principio fondato sul criterio di reciproca lealtà cui debbono ispirarsi le relazioni sociali, in forza del quale la dichiarazione non può essere intesa nel senso che le ha attribuito l'autore, se questo senso non è quello in cui può essere intesa dal destinatario o dai terzi, quand'anche costoro siano interessati dalla dichiarazione medesima.
Come fattispecie negoziale con causa di garanzia, diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico (che oltre alle tipiche garanzie reali e personali riconosce nell'art. 1179 c.c. altre forme di "sufficiente tutela", rimettendone il regolamento alla autonomia contrattuale), la lettera di "patronage"
c.d. impegnativa, in ragione del suo carattere "unilaterale", non crea una posizione di obbligo nel destinatario circa l'erogazione del credito, ma comporta nel patrocinante l'assunzione della obbligazione - di un promesso determinato "fare" - in caso di esecuzione (perciò spontanea) della prestazione da parte del beneficiario, con conseguente responsabilità indennitaria del patrocinante inadempiente, esposto all'azione risarcitoria del creditore anziché alla pretesa di adempimento della stessa prestazione cui è tenuto il patrocinato [s.m.]
***
Cass. civ., sez. I, 27-09-1995, n. 10235.
La lettera di patronage con la quale il patrocinante non si limita ad esternare la propria posizione di influenza (in base alla quale, avendo contenuto meramente
«informativo», una eventuale responsabilità del medesimo può essere affermata alla stregua dei principi sanciti dagli art. 1337 e 1338 c.c.), ma assume degli «impegni», ha natura di negozio giuridico unilaterale, rientrando nello schema negoziale delineato dall’art. 1333 c.c.; pertanto, in tal caso, nella ricerca dell’effettivo contenuto della dichiarazione del patrocinante, trovano applicazione - nei limiti in cui essi possono essere ritenuti applicabili anche ai negozi unilaterali in base a quanto disposto dall’art. 1324 c.c. - i principi sanciti dagli art. 1362 e 1366 c.c. e deve, quindi trovare applicazione il fondamentale principio, valido per tutti i negozi inter vivos (i quali, sia pure in diversa misura, sono sempre idonei a fondare l’altrui affidamento), per cui la dichiarazione non può essere intesa nel senso che le ha attribuito l’autore, se questo senso non è quello - fondato sul criterio di reciproca lealtà cui debbono ispirarsi le
relazioni sociali - in cui può essere intesa dal destinatario o dai terzi, quando anche costoro siano interessati alla dichiarazione medesima.
Svolgimento del processo
1.1 - Con atto notificato l'otto e il dodici settembre 1986 la CA.RI.PLO. - Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (d'ora innanzi Cariplo) conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Milano, la s.p.a. Rejna e la s.r.l. Selle Aquila, esponendo:
- che, nella primavera del 1983, la s.p.a. Denver Italiana Sellerie Riunite (d'ora innanzi: Denver), la cui attività riguardava la fabbricazione e il commercio di selle per motocicli e accessori, aveva chiesto ad essa attrice la concessione di alcune linee di fido per complessive L. 500.000.000;
- che in tale circostanza la Denver aveva riferito: a) di aver avuto origine dalla trasformazione della "Unidata s.r.l.", avente ad oggetto la prestazione di servizi per conto terzi, deliberata nel novembre 1982; b) che il suo capitale era stato sottoscritto, per due terzi, dalla s.r.l. Aquila e, per la quasi totalità del terzo residuo, dalla s.p.a. Rejna;
- che, a sostegno della domanda di fido presentata dalla Denver, la società Selle Aquila e la società Rejna avevano rilasciato - rispettivamente in data 19 aprile 1983 e in data 18 maggio 1983 - due dichiarazioni di patronage;
- che tali dichiarazioni erano state determinanti ai fini della concessione del fido, il quale era stato infatti accordato il 23 maggio 1983, anche se per un ammontare inferiore a quello richiesto (L. 350.000.000);
- che, peraltro, dopo pochi mesi (14 dicembre 1983) veniva deliberato dai soci lo scioglimento anticipato della società;
- che il 29 marzo 1984 essa attrice aveva revocato i fidi, invitando la Denver a pagare la somma di L. 138.769.642, risultante a suo debito;
- che tale richiesta non aveva avuto però esito positivo, benché fosse stata rivolta anche alla s.r.l. Selle Aquila e alla s.p.a.
Rejna;
- che trattative avviate in un secondo momento su iniziativa della s.p.a. Rejna non avevano avuto successo e quindi, il 19 marzo 1985, la società Denver era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano, senza che il credito fosse stato soddisfatto.
Tanto premesso, la Xxxxxxx chiedeva che sia la società Selle Xxxxxx che la società Rejna fossero condannate al risarcimento dei danni in misura corrispondente all'ammontare del credito esistente alla data del fallimento (L. 158.336.431), oltre rivalutazione e interessi, o quanto meno in via generica, riservandone la liquidazione ad un separato giudizio.
1.2 - Le convenute si opponevano all'accoglimento della domanda.
La Rejna, in particolare, rilevava - tra l'altro - che la propria dichiarazione (con la quale, dopo aver preso atto della concessione del fido alla Denver, si era limitata ad assumere l'impegno di informare la banca di ogni eventuale futura riduzione della propria partecipazione) era stata qualificata nella delibera di concessione del fido come "patronage semplice", a differenza di quella rilasciata dalla Selle Xxxxxx (che aveva assunto anche l'obbligo, nella evenienza sopra indicata di provvedere a rimborsare alla banca quanto dovuto), indicata invece come "patronage forte". Quest'ultima società, dal canto suo, deduceva di aver assunto l'obbligo di rimborsare alla Cariplo quanto dovuto dalla Denver solo nel caso in cui avesse ceduto, anche parzialmente, la propria partecipazione e che tale ipotesi non si era nel caso di specie verificata.
La Cariplo replicava deducendo:
- che entrambe le società, al momento del rilascio delle "lettere", erano (o avrebbero dovuto essere) pienamente consapevoli della precarietà delle condizioni economiche della Denver ma che, ciò non di meno, si erano attivate per farle ottenere il fido richiesto, non facendo parola ad essa attrice della gravità di tale situazione;
- che l'iniziativa assunta dalla S.p.a. Rejna nei primi mesi del 1985 confermava l'esistenza di un impegno delle società convenute di far fronte alle passività della Denver verso essa attrice.
E chiedeva quindi di essere ammessa a provare alcune circostanze, ritenute particolarmente rilevanti, inerenti all'andamento delle trattative che avevano portato al rilascio delle "lettere" e alla concessione del fido; ed inoltre che fosse disposta una consulenza tecnica per accertare quali fossero le prospettive di mercato per la nuova attività.
Il Tribunale, con sentenza del 2 ottobre 1989, respingeva la domanda, osservando:
- che le dichiarazioni rilasciate con le lettere di patronage non erano in contrasto con la situazione di fatto esistente nel momento del loro rilascio;
- che le obbligazioni assunte in quell'occasione dalle convenute erano riferite espressamente alla cessione delle quote e non potevano ritenersi operanti anche per la diversa ipotesi della liquidazione della società;
- che il dissesto della Denver era stato determinato da una obbiettiva situazione di crisi del mercato dei motocicli, non prevedibile nel momento del rilascio delle lettere di patronage;
- che i capitoli di prova dedotti dalla Cariplo avevano ad oggetto circostanze di fatto riguardanti i rapporti intercorsi tra la società patronata e detto istituto e non erano quindi idonei a fornire elementi per la valutazione del comportamento delle convenute;
- che, pertanto, tali società non potevano essere ritenute responsabili per il mancato adempimento della Denver, ne in base alle norme che regolano la fideiussione e la promessa del fatto del terzo, nè secondo i principi in tema di responsabilità extracontrattuale e precontrattuale.
1.3 - Avverso tale decisione la Xxxxxxx proponeva tempestivo appello, deducendo:
- che i capitoli di prova dovevano essere ammessi perché, a prescindere dal rilievo che uno di essi (il quinto) si riferiva esplicitamente all'intervento di una delle società convenute (la Rejna s.p.a.) per caldeggiare la concessione del credito alla Denver, essi erano comunque utili a delineare lo svolgimento delle trattative e a porre in evidenza il ruolo che in esse aveva avuto l'intervento delle società convenute;
- che non si comprendeva come il tribunale avesse potuto con tanta sicurezza affermare che la stagnazione del mercato (che avrebbe costituito la ragione della messa in liquidazione della società) non era prevedibile al momento delle trattative (primavera 1983), quando nella relazione del curatore del fallimento si affermava che tale situazione risaliva agli inizi degli anni ottanta;
- che le lettere di patronage costituiscono una fattispecie non riconducibile agli schemi della fideiussione e della promessa del fatto del terzo e che, pertanto, ad escluderne la ricorrenza non è sufficiente affermare che non sussistono gli estremi di tali figure negoziali;
- che la liquidazione determina, per i creditori della società, effetti potenzialmente più distruttivi della cessione di una partecipazione sociale, anche se rilevante, sia perché fa venir meno il reddito che (in una sana gestione) permette di coprire i costi, sia perché comporta la cessazione dell'interesse dei soci (che abbiano liberato le proprie azioni) ad effettuare ulteriori apporti patrimoniali e a sostenere la società;
- che doveva quindi ritenersi che le convenute, deliberando l'anticipato scioglimento della società patrocinata dopo che questa aveva utilizzato il credito che le era stato concesso, fossero venute meno agli impegni assunti con il rilascio delle lettere di patronage, il quale era chiaramente diretto a rendere possibile il soddisfacimento del credito di esso istituto;
- che troppo sbrigativamente il Tribunale aveva ritenuto che il comportamento della
s.p.a. Rejna avesse avuto il carattere di "un limitato intervento" per un "temporaneo sostegno", poiché si era trattato, invece, di una trattativa diretta a raggiungere un
accordo per il ripianamento del debito, il quale poteva spiegarsi solo con il convincimento di dover porre rimedio al danno provocato;
- che sussistevano peraltro tutti i presupposti per affermare la responsabilità delle società convenute sulla base dei principi sanciti dagli artt. 1337, 1338 e 2043 c.c. dal momento che tali società avevano indotto essa attrice a concedere i finanziamenti richiesti, pur essendo (o dovendo essere, secondo le regole di una normale diligenza) consapevoli che l'iniziativa industriale non aveva prospettive di successo o era comunque altamente rischiosa.
2.1 - Il gravame veniva però respingo dalla Corte d'Appello di Milano che, con sentenza depositata il 13 novembre 1992, escludeva ogni responsabilità delle società convenute sia sotto il profilo contrattuale che sotto quello extracontrattuale. Relativamente al primo aspetto si rilevava: a) che il tenore delle "lettere" era "chiaro ed univoco" nel limitare l'assunzione dell'impegno di comunicazione (e, per le Selle Aquila, di rimborso) alla sola ipotesi di "cessione delle partecipazioni"; b) che la limitazione degli impegni assunti dalle società convenute a tale sola ipotesi era ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, nella prassi, erano ben noti tipi di "patronage" contenenti ben più ampi, incisivi ed espliciti impegni di garanzia e che tale ampia gamma di possibilità non poteva essere sfuggita ai funzionari della banca; sicché, "essendo l'emissione di una lettera di patronage sempre preceduta da trattative ed accordi..." se ne doveva dedurre "che la mancata adozione di uno dei tipi sopra indicati, idonei a fornire alla banca una garanzia più ampia" era stata "il frutto di consapevole scelta delle parti interessate"; c) che la messa in liquidazione della società non è in alcun modo assimilabile alla cessione della partecipazione sociale, sia perché non determina il disinvestimento dei mezzi impiegati dal socio e sia perché, di per sè, non comporta alcun sacrificio per i creditori sociali, potendo tale sacrificio essere determinato solo dalla situazione economico-finanziaria in cui la decisione (di porre in liquidazione la società) si colloca; d) che giustamente la prova per testi era stata ritenuta inammissibile dal Tribunale, dal momento che essa era articolata su circostanze che, per un verso, potevano essere considerate pacifiche e, per altro verso, non offrivano alcun elemento per la determinazione degli impegni assunti dalle patronnantes.
La configurabilità di una responsabilità extracontrattuale delle appellate veniva poi esclusa osservando: à) che l'esistenza del dolo, nelle società appellate, era chiaramente esclusa dalla circostanza che le convenute, a fronte di un finanziamento di (soli) L. 350.000.000, avevano conferito, in quello stesso periodo, un capitale di rischio di circa L. 1.500.000.000, segno che esse avevano confidato nella riuscita dell'iniziativa; b') che eventuali, inesatte rappresentazioni delle condizioni economiche della società patrocinata, fossero state dolose o solo colpose, non avrebbero avuto comunque alcuna incidenza causale ai fini della concessione del fido, essendo la banca "professionalmente attrezzata per compiere proprie accurate valutazioni" a tale riguardo; c') che nessuna prova era stata fornita in ordine all'entità del danno.
2.2 - Per la cassazione di questa sentenza la Cariplo ricorre con tre motivi. La s.r.l. Selle Aquila e la s.p.a. Rejna resistono con controricorso.
Motivi della decisione
3.1 - Oggetto di verifica, in questo giudizio, è il valore giuridico di due lettere di patronage, di diverso contenuto (retro 1.2), rilasciate alla Cariplo dalla s.r.l. Selle Aquila e dalla s.p.a. Rejna in relazione alla concessione, da parte di detto istituto bancario, di alcune linee di fido in favore di una società (la Denver Italiana Sellerie Riunite s.p.a.), il cui capitale era da esse quasi integralmente posseduto.
3.2 - Si è ormai chiarito che la specifica funzione che assolvono siffatte dichiarazioni - normalmente emesse a favore di istituti bancari in connessione con l'erogazione di finanziamenti a soggetti sui quali il dichiarante è in condizione di esercitare la propria influenza - non è tanto quella di "garantire" l'adempimento altrui, nel senso in cui tale
termine viene assunto nella disciplina della fideiussione e delle altre garanzie personali specificamente previste dal legislatore (nelle quali il "garante" assume l'obbligo di eseguire la (stessa) prestazione dovuta dal debitore), quanto quella di rafforzare nel (futuro) creditore, cui la dichiarazione è indirizzata, il convincimento che il patrocinato farà fronte ai propri impegni.
Le lettere di patronage, infatti, si sono diffuse proprio in sostituzione delle garanzie personali tipiche. Il che, xxxxxxxxx, non porta a negare loro qualsiasi valore giuridico, al momento che esse sono spesso collegate con operazioni di notevole rilievo economico e non è quindi ragionevole supporre che con il loro rilascio le parti abbiano inteso da vita ad impegni rilevanti solo sul piano sociale, il cui rispetto sia quindi affidato esclusivamente a sentimenti di onore e di lealtà.
3.3 - La rilevanza giuridica delle lettere di patronage non è tuttavia sempre la stessa, ma varia a seconda del loro contenuto, pur dovendosi escludere, per quanto si è detto, che esse diano vita a vere e proprie obbligazioni di tipo fideiussorio.
Quando tali dichiarazioni hanno un contenuto meramente "informativo" (ad es. circa l'esistenza della posizione di influenza e circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato), una eventuale responsabilità del patrocinante può essere affermata alla stregua dei principi sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. Il patrocinante viene infatti ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne la positiva conclusione, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell'operazione; la sua posizione è quindi ben diversa da quella di un terzo che "accidentalmente" venga ad interferire in una vicenda precontrattuale a lui estranea, e tale diversità è sufficiente a giustificare l'applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede, dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere pregiudicati da comportamenti altrui scorretti (art. 1337 c.c.) o anche negligenti (art. 1338).
Se, invece, il patrocinante non si limita ad esternare la propria posizione di influenza, ma assume degli "impegni" (ad es. di previa comunicazione della intenzione di cedere la propria partecipazione o di futuro mantenimento della medesima, ovvero anche di salvaguardia della solvibilità della controllata) si pone il problema di verificare se la sua responsabilità possa essere affermata, oltre che sotto il profilo appena considerato, anche sotto quello negoziale.
Il problema sorge, come è noto, perché nel nostro ordinamento esiste una norma, l'art. 1987 c.c., a tenore della quale la "promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge". La portata di tale disposizione (la cui introduzione, come è dato desumere dai lavori preparatori, dette luogo a qualche contrasto, sostenendosi da alcuni - sulla base dell'art. 36, ultimo comma, del codice di commercio, ritenuto di generale applicazione e quindi applicabile anche alle materie "civili" - che fosse già implicata nel sistema l'esistenza del principio della obbligatorietà delle promesse unilaterali: Rel. al Progetto del libro "Obbligazioni e contratti", p. 19) è tuttavia meno significativa di quel che potrebbe apparire a prima vista. No solo perché nella stessa Relazione si precisa che essa "non va intesa nel senso che i casi, nei quali la legge riconosce effetti obbligatori alla promessa unilaterale siano soltanto quelli contemplati nei titolo quarto del libro delle obbligazioni" (Rel. al codice, par. 251); ma (e soprattutto) perché esiste nel codice civile una disposizione (analoga a quella contenuta nell'ultimo comma del citato art.
36 del codice di commercio) dalla quale è possibile arguire che, nel nostro ordinamento, i rapporti giuridici con obbligazioni a carico di una sola delle parti possono costituirsi per effetto della sula volontà dell'obbligato, salvo il potere di rifiuto del beneficiario (art. 1333 c.c.).
Per la verità la norma, nella sua formulazione letterale, si riferisce al "contratto con obbligazioni del solo proponente" e stabilisce che questo è concluso quando la proposta "è giunta a conoscenza della parte alla quale è destinata", se non è da essa
rifiutata "nel termine richiesto dalla natura dell'affare o dagli usi". L'uso di queste espressioni potrebbe indurre a ritenere che l'inerzia dell'oblato assume, per il legislatore, il significato di una manifestazione tacita di volontà (di accettazione della proposta). Ma sarebbe agevole osservare, in contrario, che di volontà tacita (o implicita, ovvero ancora presunta) è possibile parlare solo dove la legge ammette la possibilità di provare che, nel caso concreto, tale volontà è mancata o non è desumibile dal comportamento del dichiarante (artt. 684, 686, 1237, secondo comma, c.c.). Se questa prova non può essere data, perché la legge ricollega invariabilmente un determinato effetto giuridico ad un comportamento (attivo o inattivo) di un soggetto (artt. 476, 477, 1237, primo comma, 1399, quarto comma, 1597, 1823, secondo xxxxx, c.c.) deve riconoscersi che la volontà privata non ha, a tal fine, nessuna parte e che l'effetto non ha quindi natura negoziale.
Neppure l'art. 1333 c.c. offre la possibilità di una prova contraria e non è pertanto possibile considerare il comportamento inerte del destinatario della proposta alla stregua di un atto di autonomia negoziale, cui siano applicabili le norme sull'efficacia e la validità dei contratti. sicché, se vuol intendersi la norma per quello che prevede, deve ammettersi che, nella particolare ipotesi da essa contemplata e per ogni promessa c.d. gratuita (con obbligazioni cioè a carico del solo promittente), il rapporto può costituirsi senza bisogno di accettazione e quindi, in definitiva, per effetto di un atto unilaterale. E questo spiega perché si sia affermato che detto principio non soffre eccezione allorché il contratto unilaterale sia soggetto a forma scritta ad substantiam, dovendosi ritenere che, rispetto a tal genere di contratti, non importa tanto "che sia consacrato nello scritto il diritto del promissario, quanto l'obbligo del promittente, poiché il promissario ritrae solo vantaggio dalla proposta nè ha normalmente interesse a rifiutarla" (Xxxx. 28 giugno 1952, n. 1921; Cass. 15 gennaio 1957, n. 79).
Lo schema delineato dall'art. 1333 c.c. si adatta perfettamente alle lettere di patronage, che abbiano carattere impegnativo, e non vi è quindi il motivo di dubitare della loro efficacia vincolante, posto che tali dichiarazioni, sia pure con strumenti diversi da quelli propri delle garanzie personali tipiche, sono pur sempre dirette a rafforzare la protezione dei diritti del creditore e, quindi, a realizzare interessi certamente "meritevoli di tutela" secondo l'ordinamento giuridico (art. 1322, secondo xxxxx, c.c.).
4.1 - La Corte d'Appello di Milano, pur riconoscendo in linea di principio la rilevanza giuridica delle lettere di patronage, nei due aspetti appena considerati, ha tuttavia respinto l'appello proposto dalla Xxxxxxx avverso la decisione del Tribunale, che aveva ritenuto infondata la pretesa avanzata da detto istituto (retro 2.1).
Quest'ultimo si duole della decisione della Corte territoriale e ne chiede la cassazione con tre motivi.
4.2 - Con il primo motivo - denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1324, 1325, n. 2, 1327 e 1333, in relazione agli artt. 1362 e 1366 c.c. nonché insufficienza della motivazione circa un punto decisivo della controversia - si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto, senza aver prima indagato sulle modalità di svolgimento delle trattative e su ogni altra circostanza idonea a rivelare la "comune intenzione delle parti", che gli impegni assunti dalle società resistenti con le lettere di patronage erano limitati alla sola ipotesi, letteralmente prevista, di cessione (totale o parziale) della propria partecipazione e per aver così escluso che essi potessero valere anche in altri casi (e, segnatamente, in quello della messa in liquidazione della società partecipata).
4.3 - La doglianza verte pertanto sull'interpretazione di tali dichiarazioni e deve quindi ritenersi che la violazione degli artt. 1327 e 1333 e degli artt. 1322, 1324 e 1325, n. 2, del codice civile sia stata denunziata solo nei limiti in cui la disciplina dettata da tali disposizioni assume rilievo ai fini dell'applicazione degli artt. 1362 e 1366 c.c.
Non vi è dubbio che, avendo le lettere di patronage natura di negozio giuridico unilaterale (retro, 3.3), rispetto ad esse non si ponga un problema di ricerca della "comune intenzione delle parti", posto che in tal caso l'esistenza di una pluralità di parti è, per definizione, esclusa (Cass. 28 aprile 1992, n. 5082; 25 febbraio 1988, n. 2009). Ma ciò non toglie che anche in detta ipotesi debba trovare applicazione il fondamentale principio, valido per tutti i negozio inter vivos (i quali, sia pure in diversa misura, sono sempre idonei a fondare l'altrui affidamento), per cui la dichiarazione non può essere intesa nel senso che le ha attribuito l'autore, se questo senso non è quello - fondato sul criterio di reciproca lealtà cui debbono ispirarsi le relazioni sociali - in cui può essere intesa dal destinatario o dai terzi, quando anche costoro siano interessati alla dichiarazione medesima. Con questa precisazione può ritenersi che i criteri dettati dagli artt. 1362 e 1366 c.c. (i quali esigono che le dichiarazioni negoziali siano prese in considerazione per il loro significato obbiettivo, corrispondente a quello che, senza arrestarsi al "senso letterale" delle parole, "in buona fede", può essere loro attribuito: Xxx. al Progetto, par. 214) siano applicabili anche "agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale" (art. 1324 c.c.), come le lettere di patronage.
4.4 - Orbene, contrariamente a quel che si assume nel ricorso, la Corte territoriale nell'interpretare il significato delle dichiarazioni rilasciate dalle società resistenti non si è basata unicamente sul loro tenore letterale. Infatti, pur prendendo atto che gli obblighi assunti dalle società patrocinanti erano testualmente riferiti solo all'ipotesi di cessione delle partecipazioni, si è posta il problema di verificare se tali impegni non potessero essere ricollegati (così come sostenuto dall'appellante) anche alla messa in liquidazione della società patrocinata e ha dato al quesito una risposta negativa solo dopo aver constato l'inesistenza di elementi (anche extratestuali) dai quali potesse emergere una volontà "diversa da quella resa chiara dal significato letterale".
Xx può affermarsi che la Corte milanese abbia omesso di accertare l'eventuale esistenza di un "ragionevole" affidamento della Banca circa una più estesa portata degli impegni assunti nei suoi confronti dalle società patrocinanti. Anche tale aspetto è stato infatti considerato dalla sentenza impugnata. In essa infatti - dopo aver escluso che gli obblighi espressamene assunti dalle patrocinanti rispetto alla cessione delle proprie partecipazioni, potessero, secondo l'intenzione del dichiarante, essere riferiti anche alla messa in liquidazione della società patrocinata, osservando che, in quest'ultimo caso, "lungi dall'aversi un disinvestimento dei mezzi impiegati", come nella cessione, "si ha invece una loro destinazione al pagamento dei debiti sociali" - si aggiunge che "tipi di patronage contenenti ben più ampi ed espliciti impegni di garanzia" erano certamente conosciuti dai "funzionari della banca" e che, pertanto "la mancata adozione di uno dei tipi... idonei a fornire un'inequivoca idonea garanzia" era "dipeso da una consapevole scelta delle parti interessate".
Pertanto la Corte territoriale, nel ricostruire l'effettivo contenuto delle lettere di patronage, ha fatto corretta e puntuale applicazione dei principi sanciti dagli artt. 1362 e 1366 c.c., nei limiti in cui essi possono essere ritenuti applicabili anche ai negozi unilaterali in base a quanto disposto dall'art. 1324 c.c.
4.5 - Da quanto si è detto, appare evidente che, per questa parte, la decisione impugnata non può essere censurata neppure sotto il profilo della coerenza interna e della congruità della sua motivazione. Invero, emergono con chiarezza le ragioni in base alle quali la Corte territoriale, nel suo insindacabile apprezzamento, ha escluso che gli obblighi testualmente assunti dalle società patrocinanti con le lettere di patronage (retro, 4.4) potessero essere ricollegati anche alla messa in liquidazione della società patrocinata, sia pur sotto il profilo del "ragionevole" affidamento da parte della banca. Né può dirsi che gli argomenti addotti siano tra di loro contraddittori. E tanto basta ad escludere la sussistenza del vizio contemplato dall'art. 360, n. 5, c.p.c.
5.1 - Con il secondo motivo, la ricorrente - denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., nonché insufficienza della motivazione circa un punto decisivo della controversia - censura la sentenza impugnata per aver escluso che, nel caso di specie ricorressero i presupposti per affermare, in base ai principi che regolano l'illecito civile, la responsabilità delle società resistenti derivante dall'aver indotto al banca ad erogare il finanziamento alla società, fornendo (intenzionalmente o anche per negligenza) informazioni inesatte sulle sue condizioni economiche.
Si è già osservato che, poiché il patrocinante si inserisce nello svolgimento delle trattative in corso tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne la positiva conclusione, egli è certamente soggetto alle norme che regolano il comportamento delle parti nella fase precontrattuale, le quali esigono che il comportamento di coloro che partecipano alle trattative sia non solo corretto, ma anche diligente, come si ricava dalla formulazione dell'art. 1338 c.c., il quale dichiara responsabile anche colui "che, ... dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità, non ne ha dato notizia all'altra parte..." (retro, 3.3). Comunque, sulla (astratta) configurabilità di una responsabilità anche solo colposa della società patrocinante sotto questo ulteriore profilo (secondo i principi generali in tema di responsabilità extracontrattuale, nel cui ampio genus va inquadrata quella precontrattuale) la Corte del merito non sembra nutrire alcun dubbio e questo - mentre toglie ogni fondamento alla prospettata violazione dell'art. 2043 c.c. - dispensa dall'approfondire ulteriormente la questione.
Le ragioni per le quali, pur muovendo da queste premesse, è stata poi ritenuta, in concreto, non meritevole di accoglimento la domanda proposta dalla Cariplo attengono alla valutazione del comportamento tenuto dalle società patrocinanti durante le trattative e non appaiono quindi censurabili in questa sede.
I giudici d'appello hanno infatti osservato: a) che tali società proprio in quel periodo avevano investito nella società patrocinata un capitale di L. 1.500.000.000 (pari a circa il quadruplo del finanziamento concesso dalla Cariplo), segno evidente che esse avevano piena fiducia nel successo dell'attività economica che, per il suo tramite, si proponevano di esercitare e ritenevano conseguentemente le sue condizioni economiche del tutto affidabili; b) che, in ogni caso, doveva escludersi che informazioni inesatte eventualmente fornite (con dolo o con colpa) dalle società patrocinanti sul patrimonio e sulle capacità reddituali della società patrocinata avessero potuto avere una concreta incidenza causale ai fini della concessione del fido, poiché la banca finanziatrice era "professionalmente attrezzata per compiere proprie accurate valutazioni" e sarebbe stata quindi in grado di rilevarne l'esistenza;
c) che, comunque, dai capitoli di prova articolati dalla appellante non era desumibile alcun comportamento doloso o colposo riferibile alle società patrocinanti nel corso delle trattative.
La Cariplo assume che, così argomentando, la Corte sarebbe incorsa in "gravissimi errori di valutazione". Ma appare evidente che la censura, in tali termini formulata, è priva di rilievo giuridico, non avendo questa Corte la potestà di riesaminare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, la valutazione compiuta dal giudice del merito, cui è riservato l'accertamento dei fatti (Cass. 24 maggio 1991, n. 5869; 28 aprile 1992, n. 5052).Nè può dirsi che la motivazione della sentenza impugnata sia viziata da contraddittorietà per aver riconosciuto, da un lato, che il rilascio delle "lettere" ha avuto efficacia determinante ai fini della concessione del finanziamento ed aver escluso, al tempo stesso, l'incidenza causale di comportamenti scorretti (o anche solo negligenti) eventualmente compiuti dalle società patrocinanti nel corso delle trattative. Non solo perché le situazioni poste a raffronto sono tra loro diverse (e quindi non comparabili), ma (e soprattutto) perché nella sentenza si è avuto cura di porre in evidenza (retro, lett. b) che la banca sarebbe stata comunque in grado di rilevare l'eventuale inesattezza di informazioni, fornite dalla società patrocinanti, sulle condizioni
economiche e sulle prospettive dell'attività della società patrocinata, con ciò chiarendo che, nell'ipotesi considerata, l'eventuale rilevanza causale del comportamento delle società patrocinanti sarebbe stata "neutralizzata" dalla negligenza della banca che, appunto per questo, non avrebbe potuto avanzare alcuna pretesa risarcitoria nei confronti delle società patrocinanti, secondo quanto stabilito dal legislatore proprio in materia di responsabilità precontrattuale (art. 1338 c.c.). Il che dispensa dal rilevare che, comunque, per giustificare l'applicazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c., sotto questo profilo, non è sufficiente una semplice incoerenza della motivazione, ma occorre che la "contraddittorietà" sia determinata da argomentazioni contrastanti al punto da elidersi a vicenda, rendendo impossibile l'individuazione della ratio decidendi adottata (Cass. 7 luglio 1981, n. 4444; 19 febbraio 1987, n. 1795): ipotesi questa certamente estranea al caso di specie, nel quale le linee argomentative della sentenza impugnata sono invece chiaramente percepibili.
Anche tale doglianza è pertanto infondata.
5 - La riconosciuta infondatezza dei primi due motivi di gravame comporta l'assorbimento del terzo motivo, con il quale la Cariplo censura la sentenza impugnata per aver addotto, a ulteriore giustificazione della reiezione della domanda da essa ricorrente avanzata, che nessuna prova era stata fornita circa l'ammontare del danno. 6 - Il ricorso deve essere quindi integralmente respinto, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questa ulteriore fase di giudizio, nella misura indicata in dispositivo.
p.q.m.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese della ulteriore fase di giudizio, liquidate in L. 250.000, oltre L. 5.000.000 per onorari.
4) Conclusione del contratto: minuta e puntazione
Cass. civ., sez. II, 07-04-2004, n. 6871
In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l’intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto - l’accertamento del quale è riservato all’apprezzamento del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione - non è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo contrattuale (la corte, nel formulare il principio surrichiamato, ha confermato la sentenza impugnata che, in considerazione della reciprocità delle concessioni, pattuite dalle parti in modo manifesto e definitivo, aveva ritenuto perfezionatasi una vera e propria transazione e non semplicemente un impegno ancora in itinere).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx e Xxxx Xxxxx Xxxxxx citarono davanti al Tribunale di Napoli la s.r.l. Fina Immobiliare, con la quale affermarono di aver concluso nel maggio del 1986 una transazione, chiedendo che, in conformità con le previsioni negoziali: fosse dichiarata l'avvenuta costituzione di una servitus altius non tollendi, oltre certe quote, a carico di un complesso turistico e sportivo in costruzione ad opera della convenuta a Sorrento e in favore di alcuni limitrofi immobili rispettivamente appartenenti agli attori; che la società Fina Immobiliare fosse condannata a demolire i manufatti eccedenti i limiti concordati; che fosse accertato, o in subordine disposto, il trasferimento in proprietà agli attori di determinate porzioni del complesso; che la convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni, non avendo adempiuto le obbligazioni assunte. La s.r.l. Fina Immobiliare contrastò tali domande, negando che la scrittura fatta valere dai Minozzi, Xxxxxx e Xxxxxx contenesse un contratto giuridicamente esistente e fosse comunque idonea a produrre effetti.
All'esito dell'istruzione della causa, con sentenza del 4 giugno 1996 il Tribunale di Torre Annunziata, al quale erano stati trasmessi gli atti in seguito alla sua istituzione, accolse tutte le domande, salvo quelle di risarcimento di danni e di trasferimento agli Apreda di una superficie con sovrastante corpo di fabbrica al terzo solaio del complesso turistico e sportivo: immobili questi ultimi non ancora costruiti, per i quali fu dichiarato esistente il diritto degli stessi Apreda a ottenerne la proprietà, a condizione che venissero realizzati.
Impugnata in via principale dalla società Fina Immobiliare e incidentalmente dalle altre parti, la decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte di appello di Napoli, che con sentenza del 24 febbraio 2000, rigettato il primo gravame e accolto per quanto di ragione il secondo, ha trasferito agli Apreda le porzioni immobiliari loro destinate, essendosi accertato che erano venute in essere.
Contro tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la s.p.a. (già s.r.l.) Fina Immobiliare, in base a un motivo. Si sono costituiti con controricorso Xxxxxx Xxxxxxx, anche quale erede di Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx e Xxxx Xxxxx Xxxxxx. La s.p.a. Fina Immobiliare e gi Apreda hanno presentato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La s.p.a. Fina Immobiliare ha rinunciato al ricorso, nei riguardi di Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxx, i quali hanno accettato.
Limitatamente al rapporto tra tali parti, pertanto, deve essere dichiarata l'estinzione del processo e nulla va disposto in ordine alle spese del giudizio di Cassazione.
Con l'unico motivo addotto a sostegno del ricorso, la società Fina Immobiliare rivolge alla sentenza impugnata due distinte censure, lamentando che erroneamente, ingiustificatamente e contraddittoriamente la Corte di appello ha ritenuto: che il preteso contratto, posto dagli originari attori a fondamento delle loro domande, fosse realmente tale, mentre il realtà si trattava di una semplice minuta priva di valore vincolante; che alle altre parti non fosse addebitabile alcun inadempimento, pur se avevano mancato di rinunciare, come si erano impegnate, al ricorso da loro presentato al Tribunale amministrativo regionale della Campania, per ottenere l'annullamento della concessione edilizia in base alla quale era in corso di realizzazione il complesso turistico e sportivo in questione.
Nessuna di queste doglianze può essere accolta.
Relativamente alla prima, va rilevato che il giudice a quo non ha affatto contestato, in diritto, i noti principi costantemente enunciati nella giurisprudenza di legittimità in tema di "minuta o puntuazione" (v., oltre al più remoto precedente richiamato sia nel ricorso sia nella sentenza impugnata, da ultimo, Xxxx. 16 luglio 2002 n. 10276, 13 maggio 1998 n. 4815, 22 agosto 1997 n. 7857), principi che la società Fina Immobiliare gli addebita di aver ignorato. Invece, proprio facendone applicazione, è pervenuto alla conclusione, in fatto, che con la scrittura del maggio 1986 le parti avevano inteso concludere una transazione con effetto immediato, non in funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, bensì con volontà attuale di accordo contrattuale. Si verte, dunque, nel campo di valutazioni prettamente di merito, insindacabili in questa sede se non sotto il profilo dell'omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Ma da questi vizi la sentenza impugnata è del tutto immune, poichè la Corte di appello ha dato conto adeguatamente delle ragioni della decisione sul punto, osservando che "nel caso in esame, non ricorrevano particolari ragioni di rilevanza principale o di dettaglio che esulassero dall'essenzialità ormai raggiunta la quale risiede nel fatto che le parti interessate, come si legge nella scrittura, intesero definire nella sua interezza la vertenza amministrativa, l'una costituendo vincoli reali a favore dell'altra e assumendo gli ulteriori patti in narrativa, l'altra rinunciando a far valere le proprie ragioni", sicchè "la reciprocità delle concessioni è, quindi, manifesta e non da adito a dubbi nel riconoscere perfezionatosi non già un impegno 'in itinerè, attraverso una semplice bozza, sebbene un vero e proprio regolamento definitivo per iscritto". A tali argomentazioni, esaurienti e logicamente coerenti, la ricorrente ha opposto che invece "erano diversi i punti ancora non definiti, ovvero non perfettamente definiti", ma questa affermazione, tanto perentoria quanto generica, non può certamente giustificare una pronuncia di Cassazione della sentenza impugnata. Nè si può tenere conto delle diffuse deduzioni svolte nella memoria della società Fina Immobiliare, circa le carenze della scrittura in questione, che dimostrerebbero il suo carattere di semplice "minuta": si tratta, infatti, di precisazioni tardive, contenute in un atto con il quale non è consentito non solo formulare nuovi motivi di ricorso, ma neppure specificare, integrare o ampliare quelli originariamente proposti (v., per tutte, Cass. 7 luglio 2003 n. 10683).
Una volta stabilita l'"esistenza giuridica del contratto, che...deve ritenersi venuto in essere", ineccepibilmente la Corte di appello ha poi escluso che il contrario risultasse dal comportamento successivo delle parti, da cui secondo la società Fina Immobiliare doveva desumersi che esse avevano inteso dare luogo a una mera "puntuazione". Si resta nell'ambito di un apprezzamento eminentemente di merito e congruamente motivato, che invano la ricorrente pretende di censurare in sede di legittimità, insistendo nel sostenere che la mancata formale rinuncia al ricorso amministrativo, da parte dei Minozzi, Xxxxxx ed Xxxxxx, dimostrava che una vera e propria transazione non era stata conclusa.
Infine, è palesemente ininfluente - sicchè non occorreva che il giudice di appello la prendesse in particolare considerazione - la circostanza che il documento non fosse
stato firmato da tutti coloro che avevano adito il Tribunale amministrativo regionale: la stessa società Fina Immobiliare aveva riconosciuto in quella sede - e ha ribadito in questa - che i sottoscrittori avevano "la rituale veste di mandatari degli assenti", nè si può aderire, perchè contrasta con il disposto dell'art. 1392 cod. civ., alla tesi secondo cui "la qualità di mandatario non può che derivare dal conferimento di idonea procura generale o speciale ricevuta da Notaio".
Questioni essenzialmente di merito vengono sollevate anche con la seconda delle censure in cui è articolato il motivo di ricorso per Cassazione, attinente all'inadempimento che ai Minozzi, Xxxxxx e Xxxxxx sarebbe stato addebitabile, per aver omesso di rinunciare formalmente al ricorso che avevano proposto davanti al Tribunale amministrativo regionale della Campania.
La motivazione della sentenza impugnata, sul punto, non è "assolutamente generica ed erronea, del tutto insufficiente", come lamenta la ricorrente, il giudice di secondo grado non ha infatti negato, ma anzi ha espressamente riconosciuto che "la rinuncia agli atti del giudizio va fatta con le procedure documentali previste dalla legge", in conformità con quanto sosteneva l'appellante principale; ha però anche ritenuto che la rinuncia compiuta dai Xxxxxxx, Xxxxxx e Xxxxxx nel contesto del contratto in questione già soddisfaceva l'interesse della società Fina Immobiliare, la quale ben avrebbe potuto essa stessa far valere davanti al giudice amministrativo la intervenuta transazione, ove le altre parti, invece di restare inerti, come in effetti era avvenuto, avessero dato impulso al procedimento, sicchè nel loro comportamento sarebbe in ipotesi ravvisabile un inadempimento di scarsa importanza. Avendo dunque ritenuto che a null'altro erano tenuti i Minozzi, Xxxxxx e Xxxxxx, se non semmai a una ulteriore prestazione accessoria e complementare, la Corte di appello non è incorsa nella contraddizione che le attribuisce la ricorrente, per aver sminuito l'importanza della rinuncia al ricorso amministrativo, pur avendola definita (in relazione alla questione della "puntuazione") come un elemento essenziale della transazione.
Relativamente al rapporto tra la s.p.a. Fina Immobiliare, Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx e Xxxx Xxxxx Xxxxxx, il ricorso deve essere pertanto rigettato, con conseguente condanna dell'una a rimborsare agli altri, per la quota a loro riferibile, le spese del giudizio di Cassazione.
DISPOSITIVO
La Corte dichiara estinto il processo, limitatamente al rapporto tra la s.p.a. Fina Immobiliare, Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxx; rigetta il ricorso, relativamente al rapporto tra la s.p.a. Fina Immobiliare, Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx e Xxxx Xxxxx Xxxxxx; condanna la s.p.a. Fina Immobiliare a rimborsare a Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx e Xxxx Xxxxx Xxxxxx le spese del giudizio di Cassazione, liquidate in 150,00 euro, oltre a 3.500,00 euro per onorari.
5) Contratto preliminare ad effetti anticipati
Cass. civ., sez. I, 09-06-2011, n. 12634
Nel contratto preliminare di vendita d'immobile, ancorché siano previsti la consegna del bene e il pagamento del prezzo prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica di per sé l'anticipazione di tutti gli effetti traslativi del contratto definitivo, se il giudice del merito, ricostruendo la comune intenzione delle parti e valutando il loro comportamento anche successivo al contratto, accerti che trattasi di contratto preliminare improprio, cioè con alcuni effetti anticipati, ma comunque senza effetto traslativo, in quanto la disponibilità del bene ha luogo nella piena consapevolezza dell'altruità della cosa. (Applicando detto principio, la S.C. ha escluso, in tema di revocatoria fallimentare esercitata ex art. 67, comma 1, n. 1, legge fall. per sproporzione del prezzo fissato nel definitivo rispetto al valore del bene, che la citata prospettazione del preliminare ad effetti anticipati sia anche solo in astratto compatibile con una valutazione di congruità del prezzo, da riferirsi inammissibilmente ad un'epoca in cui l'effetto traslativo non si è ancora verificato).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Q.M. e M.R. proponevano appello nei confronti del Fallimento della S.r.l. Residence di Frascati e del notaio P. M., avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 9/15 maggio 2001, che, in accoglimento della domanda proposta dal Fallimento nei confronti dei convenuti X. Xxxx., ex art. 67, comma 1, n. 1, aveva revocato il contratto, stipulato con atto notarile del 29/12/1993, di vendita a Q. e M. della proprietà dell'unità immobiliare sita in (OMISSIS), in attuazione del preliminare del 10/10/1978, con cui era stata compromessa in vendita la proprietà per il prezzo di L. 50.500.000, figurante nell'atto definitivo, attesa la notevole sproporzione tra il valore dell'immobile, stimato dal
C.T.U. in L. 144 milioni all'epoca del definitivo, ed il prezzo, anche a ritenere quello di
L. 81.824.000 indicato dai convenuti, e per l'effetto ordinato ai convenuti l'immediata restituzione dell'immobile al Fallimento, libero da persone e cose, rigettando nel resto la domanda del Fallimento di risarcimento del danno, nonchè la domanda svolta da M. e Q. con l'atto di chiamata in causa nei confronti del notaio P.M., per essere tenuti indenni dall'esito del giudizio revocatorio, e disposto, ex art. 295 c.p.c., la sospensione del processo in relazione alle altre domande dei chiamanti in causa verso il notaio per mancata individuazione dell'iscrizione ipotecaria a favore del comune di Monte Xxxxxx Xxxxxx.
La Corte d'appello ha ritenuto non condivisibile la tesi degli appellanti principali, secondo cui la non revocabilità della compravendita deriverebbe dalla considerazione che il contratto di cui alla scrittura privata del 10/10/1978, al di là del nomen iuris di preliminare di compravendita, in realtà costituiva già una vendita perfetta, rispetto a cui il rogito del 29/12/1993 adempiva alla sola funzione di formalizzazione in atto pubblico, essendo stato già corrisposto l'intero prezzo ed essendo avvenuta la consegna dell'immobile precedentemente all'atto notarile, alla stregua dell'esame della scrittura privata, che dimostrava il contenuto obbligatorio del contratto, non incidendo su detta natura il versamento nel corso del tempo del prezzo promesso, nè la consegna detentiva della porzione immobiliare compromessa (OMISSIS)
La Corte del merito ha rigettato l'appello incidentale del Fallimento, inteso al conseguimento del ristoro per l'uso sine titulo del bene, in quanto la richiesta era stata subordinata alla mancata conferma della sentenza di primo grado, ed ha altresì respinto la domanda di manleva degli appellanti verso il notaio P., dichiarando infine inammissibili le domande del notaio, aventi la valenza di appello incidentale, di declaratoria di esenzione da colpa professionale e di responsabilità, anche in relazione alla domanda risarcitoria, per la quale il primo giudice aveva disposto la sospensione
necessaria del processo, e di conseguimento delle spese di lite del primo grado del giudizio, non rifuse neppure in relazione al capo di sentenza definitivo di rigetto della domanda di manleva.
Propongono ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi Q. e M.; resistono con controricorso il Fallimento ed il notaio P. Il Fallimento ed il notaio P. hanno depositato le memorie ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE 1.1- (XXXXXXX)
1.2.- Con il secondo motivo, i ricorrenti fanno valere la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c., nonchè l'assoluta carenza di motivazione su punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in riferimento alla qualifica di c.d. "contratto preliminare di vendita improprio" della scrittura privata sottoscritta in data
10 ottobre 1978. Secondo i ricorrenti, il Tribunale ha assunto la data del rogito notarile quale parametro temporale di riferimento per valutare la congruità del prezzo riportato nell'atto di vendita, omettendo di considerare che nella fattispecie in esame la vendita era intervenuta nel 1978; la natura preliminare o definitiva di un contratto non dipende dal nomen iuris ovvero dall'espressione letterale utilizzata dai contraenti, ma dalla loro effettiva volontà e deve essere ricercata dall'interprete; nel caso si è davanti ad un c.d. contratto preliminare improprio, sussistevano tutti gli effetti essenziali principali della vendita, dalla consegna al pagamento del prezzo prima del rogito notarile, ed in tale contesto, la riproduzione in forma pubblica della già intervenuta vendita costituiva una mera prestazione accessoria, ininfluente ai fini della già intervenuta integrale esecuzione del contratto.
I ricorrenti, quali circostanze sintomatiche della natura definitiva della vendita del 1978 e della natura meramente riproduttiva ai fini della trascrizione del rogito del 1993, richiamano e fanno valere l'allegazione a quest'ultimo del medesimo preliminare, e quindi l'indicazione nell'atto pubblico dello stesso prezzo pagato di L. 50.500.000, nonchè il tenore delle clausole sub 11) e 12) del preliminare, alla cui stregua l'eventuale ritardo nella consegna, fissata per il 13 ottobre 1978, non avrebbe implicato la risoluzione del contratto, che era dunque definitivo tra le parti, nè proprio per questo alcun risarcimento (art. 11, commi 1 e 2), ed altresì gli oneri o le rendite dell'immobile sarebbero state rispettivamente a carico ed a vantaggio dell'acquirente dal giorno stesso della consegna.
Inoltre, gli acquirenti si erano trasferiti nell'immobile, stabilendo ivi la residenza familiare dal 1978 ed avevano effettuato numerose opere di manutenzione, miglioria e ristrutturazione. Ne consegue, in tesi dei ricorrenti, che si deve rapportare la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti dell'azione revocatoria alla data della scrittura del 1978: il prezzo del bene pagato dagli acquirenti, lievitato oltretutto per effetto degli interessi compensativi sulla dilazione rateale sino al complessivo importo di L. 71.324.000 al netto delle migliorie eseguite, era assolutamente congruo rispetto al valore di mercato dell'epoca, anche perchè il ritardo nella stipula dell'atto pubblico non è in alcun modo imputabile agli acquirenti, che l'avevano reiteratamente sollecitata nei confronti della società venditrice.
1.3.- (OMISSIS)
2.2.- Il secondo motivo, oltre che a prestare il fianco al rilievo della carenza di autosufficienza, per la mancata riproposizione delle clausole sub nn. 11 e 12 del preliminare, a cui la parte fa riferimento alle pagine 18 e 19 del ricorso, è comunque infondato.
La Corte d'appello ha valutato che la scrittura privata del 1978, alla stregua delle pattuizioni ivi previste, aveva contenuto meramente obbligatorio e non reale, e quindi mancava la volontà delle parti di trasferire la proprietà dell'immobile, al di là del pagamento del prezzo, avvenuto peraltro con accollo di mutuo e non per contanti, e quindi avvenuto nel corso del tempo, e della consegna detentiva del bene.
Tale accertamento deve ritenersi sufficiente, al fine di escludere la natura traslativa della scrittura; com'è noto, lo stabilire se le parti abbiano inteso stipulare un contratto definitivo o dar vita ad un contratto preliminare di compravendita, rimettendo l'effetto traslativo ad una successiva manifestazione di consenso, costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed esente da vizi logici o da errori giuridici, e sia il risultato di un'interpretazione condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale, dettate dall'art. 1362 c.c., e segg. (vedi Cass. 564/2001); nel caso, la Corte territoriale ha dato congrua motivazione della valutazione effettuata.
Quanto al profilo della violazione di legge, prospettato con riferimento all'art. 1362 c.c., nella determinazione della comune intenzione delle parti e nella valutazione anche del comportamento complessivo posteriore al contratto, va rilevato altresì che i ricorrenti intendono prospettare l'effetto traslativo ex se del c.d.
contratto preliminare improprio: tale premessa non trova il conforto della giurisprudenza del S.C., che, in relazione al contratto preliminare ad effetti anticipati (o preliminare improprio), nel quale le parti, nell'assumere l'obbligo della prestazione del consenso al contratto definitivo, convengono l'anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti dal contratto, quale la consegna immediata del bene al promissario acquirente, con o senza corrispettivo, ritiene che la disponibilità del bene ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l'effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo l'altruità della cosa (così Xxxx. 8796/2000, 10469/2001, 13368/2005, 24290/2006, S.U. 7930/2008, 1296/2010).
Da ciò consegue che neppure in tesi, dalla prospettazione dei ricorrenti della sussistenza nel caso di contratto ad effetti anticipati (c.d. preliminare improprio), potrebbe derivare la valutazione della congruità del prezzo alla data della scrittura del 1978, in quanto comunque non avente effetto traslativo, secondo l'orientamento dominante della giurisprudenza.
(OMISSIS)
3.1.- Conclusivamente, il ricorso va respinto. Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rifondere al Fallimento Residence di Frascati s.r.l. in liquidazione ed al notaio P. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1800,00, oltre Euro 200,00 per spese, oltre spese generali, ed accessori di legge, a favore di ciascuna di dette parti.
Cass. civ., sez. II, 22-06-2005, n. 13368
Nel contratto preliminare a effetti anticipati la disponibilità del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con la piena consapevolezza dei contraenti che l'effetto traslativo non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo l'altruità della cosa. Deve ritenersi, quindi, inesistente nel promissario acquirente l'”animus possidenti” sicché la sua relazione con la cosa deve essere qualificata come semplice detenzione con esclusione della applicabilità alla fattispecie della disciplina dell'art. 1148 c.c., relativo all'obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti dopo la domanda. (Nella specie, dichiarato risolto per inadempimento del promissario acquirente il preliminare di vendita di un immobile, detto promissario era stato condannato a corrispondere una indennità per il godimento del bene stesso con decorrenza dalla data di inizio dell'occupazione. Deducendo il soccombente che l'indennità ex art. 1148 c.c. era dovuta unicamente con decorrenza dalla data della domanda, la S.C. ha rigettato una tale pretesa, in applicazione del principio esposto sopra) [s.m.]
6) Condizione di adempimento e disponibilità della condizione
Cass. civ., sez. II, 15-11-2006, n. 24299
È valida la clausola contrattuale recante la condizione sospensiva di adempimento o risolutiva di inadempimento; se apposta nell’interesse di una sola delle parti, in modo espresso o implicito, essa è rinunciabile dalla parte interessata sia prima che dopo l’avveramento o il non avveramento di essa (nella specie, la cassazione ha rilevato che la qualificazione della volontà delle parti quale condizione risolutiva e non quale clausola risolutiva espressa costituisce valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12 e 15 marzo 1993 Xxxxxxx Xxxxxxx conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Roma le società Istituto Finanziario Italiano Spa., in prosieguo Ifi, e Impresa Costruzioni Edilizie srl., in prosieguo lice, e premesso:
che con scrittura privata autenticata del 6 luglio 1988, aveva stipulato con l'Ifi un contratto di rendita vitalizia, col quale ella aveva ceduto la nuda proprietà dell'unico suo bene, costituito da un appartamento, sito in questa città, via Xxxxxxx xx Xxxxxxxxx
n. 99, al piano attico, e composto da tre vani e accessori;
che l'istituto vitaliziante si era impegnato a pagare una rendita di L. 1.300.000 al mese, da rivalutare periodicamente;
che, in caso di mancato versamento di due rate consecutive, dopo venti giorni, il contratto doveva intendersi risolto di diritto e la nuda proprietà dell'immobile doveva essere automaticamente retrocessa in capo alla vitaliziata, che poteva trattenere le singole rate riscosse a titolo di penale;
che, nonostante gli impegni assunti, la società vitaliziante, nel frattempo sottoposta ad amministrazione controllata, era venuta meno agli stessi dal mese di agosto 1992; che, all'insaputa di Valdesi, l'Ifi, con scrittura privata autenticata del 15 marzo 1991, a sua volta aveva venduto la nuda proprietà dell'appartamento alla società lice srl., successivamente denominata Imprepar - Impregilo Partecipazioni S.p.a., per il prezzo di L. 161.300.000;
tutto ciò premesso, l'attrice chiedeva che il contratto fosse dichiarato risolto, e, per l'effetto, fosse dichiarata l'avvenuta riacquisizione della nuda proprietà dell'unità immobiliare in questione da parte di Baldesi.
L'Ifi, nel frattempo dichiarato fallito, non si costituiva, e perciò ne veniva dichiarata la contumacia.
La lice si costituiva con comparsa di risposta, con la quale chiedeva il rigetto della domanda proposta dall'attrice, trattandosi di fatti non opponibili ad essa, la quale aveva acquistato la nuda proprietà del bene con atto regolarmente trascritto e annotato nei registri immobiliari in data anteriore alla trascrizione della citazione di che trattasi.
Il tribunale, con sentenza del 13 marzo 1999, in parziale accoglimento della domanda proposta, dichiarava che il contratto di rendita vitalizia si era risolto per inadempimento della vitaliziante. Tuttavia la nuda proprietà non si era trasferita in capo alla vitaliziata, in quanto nel relativo contratto era stata inserita la clausola risolutiva espressa, e non invece una condizione risolutiva. Pertanto la dichiarata risoluzione non era opponibile al terzo, e cioè la società lice, che aveva trascritto in data anteriore l'acquisto rispetto alla trascrizione della citazione, da parte della originaria cedente, e cioè Baldesi, e condannava il fallimento dell'Ifi al rimborso delle spese a favore dell'attrice, mentre compensava quelle relative alla società, successiva acquirente.
Avverso tale provvedimento Baldesi proponeva gravame dinanzi alla corte di appello di Roma, cui la lice resisteva, mentre il fallimento Ifi rimaneva contumace.
Il giudice del gravame, con sentenza del 28 giugno 2002, in parziale riforma di quella impugnata, ha dichiarato la riacquisizione della nuda proprietà dell'appartamento
conteso in capo all'appellante, e ha condannato l'appellata lice al rimborso delle spese del doppio grado a favore di Baldesi.
La corte di appello ha osservato che, nella loro autonomia contrattuale, le parti originarie del contratto stipulato, nel mese di luglio 1988, e cioè Baldesi e Ifi, avevano inteso inserire in esso non una clausola risolutiva espressa, quanto piuttosto una condizione risolutiva, costituita dal fatto oggettivo della mancata corresponsione di due rate della rendita; e ciò onde meglio garantire la vitaliziata in qualunque situazione sfavorevole ella potesse essersi trovata. Sicchè quella condizione era opponibile ai terzi, e, quindi, alla lice che si era dichiarata consapevole del relativo peso.
Avverso tale sentenza la società Imprepar - Impregilo Partecipazioni ha proposto ricorso per Cassazione, affidandolo a quattro motivi, che ha illustrato con memoria.
Baldesi ha resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE (XXXXXXX)
2) Col secondo motivo la ricorrente denunzia violazione degli artt. 1353 e 1872 x.x. xxxxxxx gli effetti di un contratto non possono farsi dipendere dalla sola volontà di una delle parti, specie in un negozio, come quello di rendita vitalizia, che è improntato dal carattere assistenziale, e che perciò appare incompatibile con l'apposizione di una condizione risolutiva rimessa alla scelta del debitore.
La censura è priva di pregio.
È noto che le parti possono, nell'ambito dell'autonomia privata, prevedere l'adempimento o l'inadempimento di una di esse quale evento condizionante l'efficacia del contratto sia in senso sospensivo che risolutivo. Sicchè non configura una illegittima condizione meramente potestativa la pattuizione che fa dipendere dal comportamento - adempiente o meno - della parte l'effetto risolutivo del negozio, e ciò non solo per l'efficacia (risolutiva e non sospensiva) del verificarsi dell'evento dedotto in condizione, ma anche perchè tale clausola, in quanto attribuisce il diritto di recesso unilaterale dal contratto - il cui esercizio è rimesso a una valutazione ponderata degli interessi della stessa parte - non subordina l'efficacia del medesimo a una scelta, meramente arbitraria della stessa (Cfr. anche Sent. nn. 1842 del 1997, 9840 del 1999 e 9587 del 2000).
3) Col terzo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 1355, 1360, 1362, 1456 e 1458 c.c. nonchè omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, poichè la corte d'appello doveva tenere conto delle espressioni usate dalle parti nella stipula del contratto. Esse avevano indicato la clausola risolutiva, la cui operatività dipendeva dalla necessità della parte interessata di avvalersene. Inoltre la stessa interpretazione del negozio stipulato tra Baldesi e l'Ifi non poteva farsi dipendere da quello successivo intervenuto tra la vitaliziante e l'Ilce, che era un terzo estraneo al primo. Peraltro la condizione risolutiva non era compatibile con la penale pattuita dalle parti, tanto che la vitaliziata poteva benissimo chiedere l'esecuzione del contratto entro alcuni giorni dalla scadenza del pagamento dei ratei di rendita.
La doglianza non ha fondamento.
La corte di appello ha osservato che le parti, nella loro autonomia contrattuale, avevano previsto che il fatto obiettivo della mancata corresponsione di due rate del vitalizio comportava automaticamente la risoluzione del negozio, con la diretta retrocessione del bene in capo alla cedente, qualunque fosse stata la ragione dell'inadempienza, senza che ciò dovesse comportare un'indagine volta a stabilire la sussistenza o meno di colpa nel comportamento dell'obbligata società. Nè il fatto che fosse stata prevista una penale poteva escludere il carattere di condizione risolutiva nel relativo patto inserito dai contraenti.
L'assunto è esatto in quanto le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono pattuire una condizione risolutiva o sospensiva nell'interesse esclusivo di uno soltanto
dei contraenti. A tal fine occorre una espressa clausola contrattuale che ne disponga, o quantomeno, un insieme di elementi che siano idonei ad indurre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l'altra parte non abbia alcun interesse. Ne consegue che la parte contraente, nel cui interesse è posta la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima che dopo l'avveramento od il non avveramento di essa, senza che la controparte possa comunque ostacolarne la volontà (V. anche Sent. nn. 1333 del 1993, 5314 del 1984, 3185 del 1991 e 12708 del 1992).
Questa Corte rileva inoltre che si tratta di valutazione del contratto, condotta con criterio logico-giuridico corretto.
Nè è possibile, in sede di legittimità, prospettare una differente valutazione della volontà negoziale delle parti, rispetto al vaglio fattone dal giudice di merito.
In proposito invero la giurisprudenza più volte ha statuito che "l'accertamento del giudice del merito in ordine agli elementi che caratterizzano l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un certo contratto e la valutazione delle prove si traducono in una indagine di fatto riservata al giudice del merito, sicchè le relative valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e, per quanto concerne i contratti, per violazione dei canoni legali di interpretazione" (V. SENT. nn. 15410 del 2000 e 4342 del 2001).
4) Col quarto motivo la società ricorrente deduce violazione degli artt. 1357, 1369 e 1458 c.c. in quanto la corte di appello non poteva ritenere la retrocessione della nuda proprietà dell'appartamento in capo alla resistente, atteso che ella aveva trascritto e annotato l'atto di citazione parecchio tempo dopo la trascrizione del contratto stipulato dall'lice con l'Ifi nel 1991, sicchè per la certezza dei rapporti giuridici doveva trovare tutela la posizione del terzo rispetto a chi aveva trascritto in un secondo tempo.
Il motivo è destituito di fondamento.
Il giudice di secondo grado ha correttamente osservato che, trattandosi di condizione risolutiva, la retrocessione del bene in capo alla vitaliziata era stata automatica, e che l'inserimento della condizione stessa nel contesto del contratto Baldesi Ifi all'art. 6 era ben conosciuta dalla terza cessionaria, tanto che nel relativo negozio all'art. 6 l'Ilce aveva dichiarato di essere consapevole di quella condizione di carattere obiettivo, costituita dall'inadempimento (mancato pagamento della rendita vitalizia da parte dell'Ifi), come evento avulso da qualsiasi indagine circa la sussistenza di dolo o colpa nella parte debitrice.
Ne deriva perciò che il ricorso va rigettato.
Infine, per quanto concerne le spese di questa fase, che si liquidano come in dispositivo, esse seguono per intero la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente, e che liquida in complessivi Euro cento/00 per esborsi, ed Euro tremilacinquecento/00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
7) Forma del contratto
Cass. civ., sez. II, 21-06-1999, n. 6214
Per i contratti per i quali è prescritta la forma scritta ad substantiam la volontà comune delle parti deve rivestire tale forma per tutti gli elementi essenziali e pertanto l’oggetto di esso deve essere almeno determinabile in base ad elementi risultanti dall’atto stesso e non aliunde, non potendo a tal fine applicarsi il capoverso dell’art. 1362 c.c., a norma del quale l’intenzione dei contraenti può esser desumibile anche dal loro comportamento complessivo, posteriore alla conclusione del contratto, né l’art. 1371 c.c., norma di chiusura rispetto alla predetta.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 16 giugno 1981 Xxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxx - premesso che erano proprietari in Cardeddu di un terreno del quale una porzione di mq. 600 era abusivamente posseduta da Xxxxxx Xxxxx - lo convennero in giudizio, dinanzi al tribunale di Lanusei, perché, accertato il loro diritto dominicale su detta estensione, il convenuto ne fosse condannato al rilascio.
Costituitosi nel giudizio, il Piras chiese il rigetto della pretesa assumendo di aver acquistato mq. 300 di detto terreno con scrittura privata di vendita dal padre degli istanti, Xxxxxxxx Xxxxx, ed altri mq. 300 per successione dal padre Xxxxxxxx al quale, con scrittura privata del 9 agosto 1967, li aveva venduti lo stesso Xxxxx. Il Piras, quindi, riconvenne gli attori perché si accertasse la sua proprietà del terreno rivendicato da costoro.
Con sentenza 7 aprile 1987 il tribunale, rigettò la domanda principale dei Cucca, che condannò al pagamento delle spese del giudizio, per non aver questi fornito la prova del loro diritto dominicale, e quella riconvenzionale del Piras pur avendo riconosciuto autentiche le sottoscrizioni apposte in calce alle due scritture private di vendita prodotte dal convenuto.
Adita con il gravame dei Cucca - con il quale questi che si erano doluti dell’aver il tribunale sostanzialmente ritenuto incontestabile nei loro confronti la "proprietà" ("rectius", il possesso) del Piras nonostante la nullità, per indeteminatezza della "res vendita", delle due scritture private opposte alla loro pretesa dal convenuto - con sentenza del 7 settembre 1996, la corte d’appello di Cagliari, dopo l’espletamento di due consulenze tecniche dirette alla individuazione delle porzioni vendute da Xxxxxxxx Xxxxx, dichiarata la nullità dei due atti di compravendita ed accertata, pertanto, la proprietà dei Cucca sulla porzione di terreno da questi revindicata, ha condannato il Piras al rilascio del bene, compensando interamente le spese dei due gradi di giudizio. In particolare, la Corte di merito, nella premessa che residuava la sola questione concernente la determinabilità delle porzioni di terreno oggetto dei due atti di vendita, ha rilevato, quanto a quella oggetto della stipulazione fra Xxxxxxxx Xxxxx e Xxxxxx Xxxxx, di non poter aderire alle conclusioni del primo c.t.u., il quale, nel ritenere determinabile la "res vendita", aver esposto due criteri di identificazione, quello della confinazione risultante dall’atto medesimo e dello "stato di fatto" della porzione a seguito della edificazione compiuta dal Piras. Non era condivisibile il secondo criterio, poiché la determinabilità della "res vendita" poteva essere rilevata solamente dall’atto traslativo della proprietà, né il primo criterio posto che, pur essendo determinabile l’estensione risultante dalle misure lineari m. 18,35 x m. 16,35 con le "coerenze", "strada comunale" e "Xxxxx Xxxxxxxxx", non era dato acquisire con certezza quale delle due dimensioni confinasse con la strada e con il fondo del Loddo. Di tale incertezza si era reso conto lo stesso c.t.u. che in proposito, avendo ammesso trattarsi di un contratto di vendita "piuttosto confuso qualsiasi interpretazione può essere valida", si era dato carico di redigere mappe alternative che, comunque, non corrispondevano alla rappresentazione grafica della porzione di terreno rivendicata.
Analoga conclusione doveva trarsi in relazione alla vendita tra il Cucca e Xxxxxxxx Xxxxx, posto che un consulente aveva ritenuto non poter identificare la "res vendita"
non essendo, nell’atto, definite l’ubicazione né la forma della superficie, mentre l’altro consulente aveva ritenuto che detto appezzamento dovesse collocarsi, (ma non sulla base dell’atto) in posizione immediatamente retrostante quello acquistato da Xxxxxx Xxxxx, non considerando l’incertezza della ubicazione di detto fondo.
Dalla nullità, per indeterminatezza della "res vendita", dei contratti traslativi della proprietà delle due porzioni di terreno discendeva il riconoscimento del diritto dominicale affermato dai Cucca e, conclusivamente, la fondatezza della loro domanda di revindica.
Nel compensare le spese dei due gradi del giudizio la corte di merito ha valorizzato la buona fede del Piras nel ritenere la validità dei due atti di vendita pur corroborata dal possesso incontestato fino alla morte di Xxxxxxxx Xxxxx, xxxxx causa degli istanti.
Per la cassazione di detta pronunzia, esponendo quattro motivi di doglianza, ricorre Xxxxxx Xxxxx; resistono Xxxxxx e Xxxxxxxxx Cucca che, nel controricorso, espongono un motivo di ricorso incidentale.
MOTIVI DELLA DECISIONE (XXXXXXX)
Con il primo motivo del ricorso principale, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., il Piras denunzia la violazione e, comunque, la falsa applicazione dell’art. 1346 c.c.
La Corte di merito - sostiene il ricorrente - avrebbe applicato in modo erroneo ed illogico l’art. 1346 c.c. a tenore del quale la determinazione o la determinabilità della "res vendita" possono trarsi da ogni elemento contrattuale idoneo allo scopo.
Non avrebbe in proposito quel giudice considerato che entrambi gli atti di vendita contenevano numerosi elementi validi alla identificazione delle porzioni trasferite quali le misure mt. 18,35 x mt. 16,35, l’indicazione dei confini, l’estensione dei terreni espressa in mq. 300, l’indicazione specifica della maggiore estensione dalla quale scorporare i due appezzamenti.
Inoltre, quel giudice avrebbe ignorato che per la determinazione della "res vendita" rilevava anche il comportamento delle parti, in concreto estrinsecatosi nella immissione del compratore nel possesso del bene e nella delimitazione del "res venditae" con opere visibili.
Con il secondo motivo del ricorso principale, in relazione al n. dell’art. 360 c.p.c., si denunzia il vizio di motivazione su punti decisivi della controversia.
La corte di merito - secondo il Piras - dopo aver ritenuto apodittica la motivazione del tribunale in ordine alla determinabilità della "res vendita" desumibile dalla comparazione delle due scritture, non avrebbe reso adeguata ragione del dissenso dalle relazioni tecniche risultando da esse, il primo lotto, inequivocabilmente individuato dalle "coerenze" (strada comunale e proprietà di Xxxxx Xxxxxxxxx), dalle misure e dallo stato di fatto evidenziato dalla edificazione successiva ed, il secondo lotto, determinabile dalla ubicazione del primo in angolo tra quella strada ed il terreno di Xxxxx Xxxxxxxxx e quindi in posizione immediatamente retrostante al primo.
Con il terzo motivo del ricorso il Piras, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., denunzia la violazione dell’art. 1362 c.c.
La corte di merito non avrebbe tenuto conto, nell’interpretazione dei due atti di vendita ai fini della verifica della determinabilità del loro oggetto, del comportamento delle parti successive alla stipulazione, del criterio offerto dall’art. 1362 c.c., operante anche in tema di contratti concernenti beni immobili, né, pertanto, dell’essere stato immessi gli acquirenti nei lotti, poi pacificamente posseduti senza contestazione del comune venditore: comportamento significativo dell’aver le parti medesime ritenuto trasferite le porzioni così occupate.
Con il quarto motivo del ricorso principale, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., si denunzia la violazione dell’art. 1371 c.c.
Detta norma - osserva il Piras - dispone che, qualora il contenuto del contratto rimanga oscuro all’esito dell’impiego degli altri criteri ermeneutici, il giudice deve
interpretare il negozio nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti al momento della stipulazione.
Questo criterio residuale sarebbe stato, secondo il Piras, del tutto pretermesso dalla corte di merito.
Le censure esposte nei motivi del ricorso principale esigono, per la loro evidente connessione logica, un esame congiunto, all’esito del quale vanno rigettate.
La corte consente alla proposizione che ai fini della verifica della validità di un contratto non è necessario che il suo "oggetto" sia espressamente determinato essendo sufficiente la sua determinabilità sulla base degli elementi che il contratto stesso o la "pratica delle cose" possano in proposito suggerire.
Tuttavia, quando un negozio debba redigersi per iscritto, "ad substantiam", a pena di nullità, come nella specie in cui si discute della validità di compravendite immobiliari (art. 1350 n. 1 c.c.), il consenso su tutti gli elementi essenziali, fra questi l’indicazione dell’oggetto, in concreto la "res vendita", deve risultare dall’atto scritto: così che la sua determinazione, o determinabilità, non può assolutamente desumersi "aliunde", ma solamente dagli elementi stabiliti dagli stipulanti nell’atto medesimo.
E’, pertanto, esclusa la possibilità di applicazione della regola ermeneutica dettata dal II comma dell’art. 1362 c.c., che consente in genere di tener conto, nella ricerca del comune intento dei contraenti, del loro comportamento anche successivo alla stipulazione del negozio (in proposito vedansi anche le pronunzie di questa corte nn. 4474/92, 6201/95).
A questi principi si è all’evidenza adeguata la Corte di merito che, nel negare valenza interpretativa alle successive occupazioni da parte degli acquirenti dei fondi oggetto delle due scritture private, pur nella scienza del venditore (xxxxx causa dei revindicanti), ha ritenuto inoperante regole ermeneutiche che prescindessero dagli elementi rinvenibili negli atti scritti.
Inoltre, costituendo la verifica della determinazione, della determinabilità, o non, dell’oggetto di un contratto un accertamento di fatto riservato al potere istituzionale proprio del giudice del merito il cui esercizio è censurabile in cassazione solo quando dell’opzione quel giudice non abbia reso adeguata ragione, esula certamente il denunziato vizio di motivazione.
La Corte di merito ha analiticamente esposto le ragioni di dissenso dall’accertamento in proposito operato del primo giudice e dalle soluzioni, anche alternative, offerte dai due consulenti tecnici d’ufficio osservando che l’incertezza, pur nell’indicazione delle misure e dei confini, dell’esatta ubicazione del primo lotto incideva negativamente sull’identificazione del secondo in quanto connessa a quella del primo.
Sostanzialmente la corte territoriale, dissentendo dal tribunale, ha rilevato come gli elementi indicati nei due atti di vendita non fossero idonei alla determinabilità delle porzioni immobiliari che gli stipulanti intendevano vendere ed acquistare.
Inutilmente, poi, esclusa l’operatività nella specie (di contratto riconducibile al catalogo dell’art. 1350 c.c.) del criterio ermeneutico offerto dal capoverso dell’art. 1362 c.c., il ricorrente lamenta la pretermissione di quello dell’art. 1371 c.c.
Questa regola "finale", a tenore della quale quando nonostante l’impiego degli altri criteri ermeneutici il contenuto di un atto negoziale rimanga oscuro si impone di interpretarlo nel senso meno gravoso per l’obbligato, se a titolo gratuito, e in quello che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, se a titolo oneroso, in quanto diretta alla conservazione del negozio non è applicabile nel caso in cui l’impiego del criterio ermeneutico primario desumibile dal 1º comma dell’art. 1362 c.c., finalizzato alla verifica della determinazione o della determinabilità dell’oggetto, abbia, con l’esito negativo, indotto l’interprete a ritenere, come nella specie, la nullità del negozio al sensi degli artt. 1346, 1421 cpv c.c.
(OMISSIS)
Concludendo la disamina, entrambi i ricorsi vanno rigettati.
La reciproca soccombenza delle parti, in particolare dei ricorrenti incidentali anche sulla questione pregiudiziale, giustifica la compensazione integrale delle relative spese.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensa interamente le spese del giudizio di legittimità.
Cass. civ., sez. II, 03-02-1999, n. 887.
Per la validità di un trasferimento immobiliare è necessario che l’oggetto, se non determinato, sia determinabile in base ad elementi contenuti nel relativo atto scritto e non già estrinseci ad esso e non scritti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 4 giugno 1983 Xxxxxxx Xxxxxxx convenne dinanzi al Tribunale di Padova il fratello Xxxxxxxx, esponendo a) di essere comproprietario con costui di terreni siti nel Comune di Villa del Conte, per complessivi ettari 2.77.60; b) di essere pure comproprietario con il suddetto fratello di due appartamenti ed un locale siti nel medesimo comune; c) di essere infine proprietario esclusivo di altri terreni nello stesso comune, estesi ettari 1.93.89.
Con sentenza del 16 febbraio 1982 passata in giudicato il Tribunale di Padova aveva dichiarato che il fratello Xxxxxxxx aveva acquistato la proprietà esclusiva dei beni indicati alle lettere a) e b) per usucapione ultraventennale, ma in precedenza, con scrittura privata perfezionata tra il 15 ottobre 1957 ed il giorno di X. Xxxxxxx dello stesso anno, e riconosciuta tra i due fratelli valida come permuta tra i beni di proprietà comune o di proprietà esclusiva, entrambi avevano stabilito che i beni "sub"
b) divenivano di proprietà esclusiva di Xxxxxxxx Xxxxxxx, mentre quelli "sub" a) divenivano di proprietà esclusiva di Xxxxxxx Xxxxxxx, il quale peraltro fin da epoca anteriore all’11 novembre 1957 li aveva posseduti e coltivati come unico proprietario, usucapendo la quota di proprietà dei fratello. Tuttavia Xxxxxxxx Xxxxxxx con atto del 5 aprile 1983 gli aveva notificato, ai sensi dell’art. 732 c.c., la sua volontà di alienare la propria quota di comproprietà dei beni "sub" b) per il prezzo di L. 54.000.000.
Tutto ciò premesso Xxxxxxx Xxxxxxx chiedeva che il tribunale dichiarasse che i beni "sub" a) erano di sua esclusiva proprietà in virtù del suddetto contratto di permuta o, in subordine, per intervenuta usucapione, e che conseguentemente la comunicazione di cui all’atto del 5 aprile 1983 era nulla ed inefficace.
XX convenuto si costituiva e, dopo avere precisato che, contrariamente a quanto esposto nell’atto di citazione, la citata sentenza del tribunale di Padova aveva dichiarato il suo acquisto per usucapione dei beni "sub" b) e c), chiedeva il rigetto della domanda sostenendo che egli aveva interrotto ripetutamente il decorso della usucapione a favore dell’attore, inviando una serie di raccomandate con avviso di ricevimento con le quali aveva ripetutamente invitato il fratello alla divisione dei beni in questione.
Il tribunale, con sentenza del 19 aprile 1990, dichiarava che Xxxxxxx Xxxxxxx aveva usucapito la proprietà esclusiva dei beni "sub" a), rilevando che, mentre non poteva essere preso in considerazione l’asserito contratto di permuta, Xxxxxxxx Xxxxxxx, per il fatto stesso di essersi limitato ad eccepire (senza dimostrarlo) di avere interrotto il decorso della usucapione, aveva implicitamente riconosciuto la realtà del possesso vantato dalla controparte.
La sentenza era impugnata in via principale da Xxxxxxxx Xxxxxxx, il quale sosteneva che egli, eccependo l’interruzione della usucapione, non aveva inteso riconoscere a favore del fratello l’esistenza di un possesso "ad usucapionem", ed in via incidentale da Xxxxxxx Xxxxxxx che oltre a chiedere il rigetto del gravame, insisteva per l’accoglimento della sua richiesta di essere riconosciuto proprietario esclusivo dei beni in questione in virtù del menzionato atto di permuta.
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza del 27 giugno 1995, accoglieva l’impugnazione principale, rigettava quella incidentale e compensava interamente le spese tra le parti. La corte evidenziava anzitutto l’infondatezza dell’appello incidentale rilevando che, essendo prescritta la forma scritta "ad substantiam" per i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili, era da escludere che i beni oggetto del trasferimento potessero essere identificati in base ad elementi non scritti, estranei all’atto, potendo tali elementi essere utilizzati solo per chiarire ambiguità o punti oscuri e non già per sostituire le indicazioni dell’atto o integrarne punti essenziali. Pertanto, poiché nella scrittura contenente la pretesa permuta i beni oggetto della stessa non erano oggettivamente indicati, e non era possibile dare ingresso alle prove orali articolate per pervenire alla loro individuazione, l’appello incidentale andava respinto.
La corte riteneva invece fondato l’appello principale in base alla considerazione che Xxxxxxxx Xxxxxxx, eccependo esclusivamente di avere interrotto la prescrizione acquisitiva vantata dall’attore, al più aveva ammesso implicitamente la veridicità dell’affermazione di controparte, la quale con l’atto di citazione aveva testualmente affermato solo di avere posseduto e coltivato come unico proprietario i beni controversi. Tuttavia tale ammissione non era sufficiente a provare che Xxxxxxx Xxxxxxx aveva usucapito i suddetti beni, poiché il proprietario che abbia l’autonomo godimento del bene comune, per poterne utilmente invocare l’usucapione, deve dimostrare anche di avere da un determinato momento sostituito all’originario godimento "uti condominus" quello "animo domini", e di avere quindi esercitato, per tutto il periodo richiesto ai fini dell’usucapione, il relativo possesso esclusivo, incompatibile con la possibilità degli altri comproprietari di fare uso del bene medesimo. Di tale particolare forma di possesso non era fatta menzione nell’atto introduttivo, per cui l’ammissione di Xxxxxxxx Xxxxxxx non poteva ritenersi estesa ad essa. Era l’attore che ne avrebbe dovuto dare la prova, che invece non era stata fornita.
Ricorre per la cassazione di tale sentenza Xxxxxxx Xxxxxxx, sulla base di tre motivi illustrati anche con memoria. Xxxxxxxx Xxxxxxx resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE (XXXXXXX)
3) Infine, denunciando la violazione dell’art. 1350 c.c. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità della scrittura privata di permuta. Egli sostiene che i beni in essa contemplati erano adeguatamente determinati, o quanto meno determinabili, mediante i riferimenti alle varie affittanze. Inoltre la controparte non avrebbe mai sostenuto la nullità o inefficacia della permuta, essendosi limitata ad osservare che detta permuta era ormai superata dalla sentenza del tribunale di Padova che aveva accertato l’usucapione a suo favore di una parte dei beni.
Il motivo non è fondato e deve essere quindi respinto. La corte veneziana ha infatti correttamente motivato sul punto la propria decisione, riportando anche testualmente i brani più salienti del preteso atto di permuta intervenuto tra i due fratelli per evidenziarne non solo il contenuto pressoché incomprensibile ma - soprattutto - la impossibilità di identificare gli immobili oggetto dello stesso in base ad elementi intrinseci all’atto, il quale si limitava a fare riferimento, a tale fine, a persone (quali gli affittuari) e circostanze (la stipula di contratti di affitto) che avrebbero potuto essere individuati solo mediante una separata indagine, anziché contenere elementi oggettivi di identificazione, quali l’esatta ubicazione, i dati catastali ed i confini. Ora, è vero che tra i requisiti obbligatori del contratto non vi è solo la determinatezza dell’oggetto ma anche, in alternativa, la sua determinabilità (art. 1346 c.c.). Tuttavia, quando per un negozio è prescritta la forma scritta "ad substantiam" (come nella specie, trattandosi di permuta avente ad oggetto beni immobili), l’incontro delle volontà su tutti gli elementi essenziali del negozio deve risultare dallo scritto medesimo, per cui la
determinazione o determinabilità dell’oggetto non può ricavarsi "aliunde", vale a dire da elementi non scritti, estrinseci al contratto stesso. Non è quindi censurabile la sentenza in esame, allorché ha osservato che era da escludere che l’identificazione dei beni oggetto del trasferimento potesse avvenire in base ad elementi non scritti estranei all’atto, potendo tali elementi essere utilizzati solamente per chiarire ambiguità o punti oscuri e non già per sostituire le indicazioni dell’atto scritto o per integrarne punti essenziali, né è censurabile laddove altrettanto correttamente ha rilevato che da ciò derivava la nullità del contratto, in base al disposto di cui all’art. 1350 c.c. Ed è peraltro del tutto irrilevante che Xxxxxxxx Xxxxxxx non avesse sollevato una esplicita eccezione di nullità del contratto di permuta, potendo detta nullità essere rilevata d’ufficio.
In definitiva, il terzo motivo del ricorso deve essere rigettato, mentre vanno accolti il primo ed il secondo motivo. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata in relazione ai motivi accolti, con conseguente rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, che deciderà la controversia in base ai principi innanzi enunciati, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso e rigetta il terzo motivo. Xxxxx l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, anche per le spese del presente giudizio.
8) Doveri di informazione e nullità
Cass. civ., sez. un., 19-12-2007, n. 26725
La violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione; in nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418, 1º comma, c.c.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 21 agosto 1995 il presidente del Tribunale di Torino, accogliendo un ricorso proposto dall'Istituto Bancario San Paolo (cui è poi succeduta la San Paolo IMI s.p.a., e che in prosieguo sarà comunque indicato solo come San Paolo), ingiunse con decreto al Sig.
G.L. di pagare all'istituto ricorrente la somma di L. 427.168.304, costituente il saldo debitorio di un conto corrente al quale accedeva una linea di credito per operazioni in valuta e per operazioni su titoli derivati.
L'ingiunto propose opposizione ed, oltre a sollevare contestazioni sulla ritualità del procedimento monitorio, sull'addebito della commissione di massimo scoperto, sulla decorrenza e sulla misura degli interessi convenzionali applicati, eccepì che ai crediti della banca derivanti dall'esecuzione di contratti in questione non competeva azione per il pagamento, trattandosi di negozi assimilabili al gioco o alla scommessa e perciò rientranti nella previsione dell'art. 1933 c.c.. In corso di causa sostenne, poi, che il passivo accumulato sul conto era frutto di operazioni finanziarie nel compimento delle quali l'istituto di credito era venuto meno ai doveri impostigli dall'art. 6 dell'allora vigente L. n. 1 del 1991, perchè aveva suggerito investimenti estremamente rischiosi senza adeguata informazione per il cliente ed in eccesso rispetto alle disponibilità finanziarie del medesimo e perchè aveva agito in conflitto d'interessi con il cliente medesimo. Eccepì quindi la nullità dei contratti stipulati con il San Paolo e chiese la condanna in proprio favore di detto istituto al risarcimento dei danni.
L'opposizione fu accolta dal tribunale, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, solo per i profili attinenti alla commissione di massimo scoperto ed alla decorrenza degli interessi. Le ulteriori ragioni addotte dall'opponente non furono invece ritenute fondate ed il medesimo opponente fu perciò condannato al pagamento del debito capitale indicato nel ricorso monitorio, oltre agli interessi al tasso convenzionale richiesto.
Il gravame proposto contro tale decisione dal Sig. G. fu rigettato dalla Corte d'appello di Torino con sentenza depositata il 10 novembre 2001.
La corte piemontese ritenne infondata l'eccezione di nullità dei contratti aventi ad oggetto le operazioni finanziarie in questione osservando che le violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale dell'istituto di credito, oppure obblighi legali accessori afferenti all'adempimento dei contratti già conclusi, ma non potevano riflettersi sulla validità di detti contratti. Escluse che alle menzionate operazioni potesse applicarsi la previsione dell'art. 1933 c.c., rientrando esse tra quelle che la L.
n. 1 del 1991, art. 23, espressamente sottrae alla citata previsione del codice. Stimò inammissibili, perchè generiche, le doglianze riguardanti la ritualità del procedimento monitorio e la misura degli interessi debitori. Dichiarò inammissibile la domanda di risarcimento dei danni in quanto proposta tardivamente solo in corso di causa. Seguì la condanna dell'appellante alle spese del grado, comprensive di compensi
professionali liquidati però non secondo i dettami della tariffa forense, ritenuta inapplicabile alla stregua dei principi desumibili dal Trattato dell'Unione europea, bensì sulla base dei parametri posti dall'art. 2233 c.c., comma 2.
Avverso tale sentenza il Sig. G. ha proposto ricorso per Cassazione articolato in cinque motivi ed illustrato poi con memoria.
Ha resistito con controricorso e memoria il San Paolo.
Con ordinanza n. 3684 del 16 febbraio 2007, la prima sezione civile di questa corte ha rilevato che, nella sentenza della stessa prima sezione del 29 settembre 2005, n. 19024, è stato escluso che l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n.
1 del 1991, art. 6, possa cagionare la nullità del negozio, poichè quegli obblighi informativi riguardano elementi utili per la valutazione della convenienza dell'operazione e la loro violazione non da luogo a mancanza del consenso, e perchè la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula una violazione attinente ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e non invece all'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative ovvero in fase di esecuzione, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche in riferimento a dette ipotesi. Nella citata ordinanza della prima sezione è stato però manifestato il dubbio che il principio dianzi ricordato, quantunque corrispondente ad un tradizionale filone giurisprudenziale, non sia coerente con i presupposti da cui muovono molteplici altre decisioni di questa corte: la quale ha ravvisato ipotesi di nullità c.d. virtuale del contratto in caso di mancanza di autorizzazione a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti, in caso di contratti concepiti in modo da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti o da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre, ed in caso di circonvenzione d'incapace. Situazioni, queste, nelle quali è appunto la violazione di norme imperative concernenti la fase precontrattuale o le modalità esecutive del rapporto contrattuale a venire in evidenza.
D'altronde - ha osservato ancora l'ordinanza - il tradizionale principio di non interferenza delle regole di comportamento con quelle di validità del negozio, cui la citata sentenza n. 19024/05 si ispira, appare incrinato da molteplici recenti interventi del legislatore, che assegnano rilievo al comportamento contrattuale delle parti anche ai fini della validità del contratto: tali la L. n. 192 del 1998, art. 9, in tema di abuso di dipendenza economica nei contratti di subfornitura di attività produttive, l'art. 52, comma 3, del codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005), in tema di contratti stipulati telefonicamente, l'art. 34 del citato codice, in tema di clausole vessatorie, il D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7, in tema di clausola di dilazione dei termini di pagamento, e la L. n. 287 del 1990, art. 3, in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante.
Il ricorso è stato perciò rimesso alle sezioni unite, sia per dirimere il ravvisato contrasto di giurisprudenza sull'interferenza tra regole di comportamento e regole di validità del contratto, sia comunque perchè si tratta di questione di massima e di particolare importanza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo del ricorso tocca la questione di diritto per la cui risoluzione sono state investite le sezioni unite.
Il ricorrente, lamentando la violazione dell'art. 1418 c.c., e della L. 2 gennaio 1991, n. 1, art. 6, nonchè vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, critica la corte d'appello per aver affermato che la violazione delle prescrizioni con cui il citato art. 6, impone determinati comportamenti agli intermediari finanziari nei riguardi dei propri clienti, incidendo tali prescrizioni sul momento prenegoziale o su quello esecutivo ma non sul contenuto del contratto, non potrebbe determinarne la nullità. Altrimenti - argomenta il ricorrente - non sarebbe mai possibile far discendere la nullità del contratto dalla violazione di norme imperative che pongono limiti alla libertà delle parti con
riferimento a situazioni esterne al negozio, come ad esempio quelle concernenti la qualità dei contraenti o i presupposti e le procedure del contrarre; ma, viceversa, vi sono molteplici casi (per esempio: mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell'attività d'intermediazione mobiliare, difetto di adempimenti preliminari in materia valutaria, e simili) in cui la violazione di norme non attinenti al contenuto del negozio è stata ritenuta sufficiente a provocare la nullità.
La sentenza impugnata è poi anche censurata per avere erroneamente ritenuto che le violazioni contestate alla banca riguardassero soltanto attività prenegoziali o esecutive di contratti già conclusi. Quelle violazioni invece - a parere del ricorrente - concernevano comportamenti incidenti sulla formazione del consenso delle parti, e quindi sul contenuto dell'accordo che del contratto è uno degli elementi essenziali.
1.1. Prima di affrontare la questione controversa, giova premettere che, nell'ambito del giudizio di merito, è stato accertato come le operazioni finanziarie dalle quali trae origine il credito azionato in causa, poste in essere dal San Paolo su disposizione del Sig. G., rientrino, per il loro oggetto e per le loro modalità negoziali ed attuative, tra quelle cui si applicava, al tempo dei fatti di causa, la disciplina della L. 2 gennaio 1991, n. 1 (in seguito abrogata e sostituita prima dal X.Xxx. 23 luglio 1996, n. 415, e poi dal X.Xxx. 24 febbraio 1998, n. 58, con successive modificazioni). Tale premessa, che appunto deriva essenzialmente da un accertamento in punto di fatto circa le caratteristiche di dette operazioni, è ovviamente destinata a restare ferma anche nel presente giudizio di legittimità.
1.2. Ciò posto, è utile brevemente ricordare che l'art. 6 della citata L. n. 1 del 1991 detta "principi generali e regole di comportamento" cui l'intermediario deve uniformarsi nei rapporti con il cliente. La norma, dopo aver enunciato il dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi di quest'ultimo (lett.
a) e dopo aver posto a carico dell'intermediario il preliminare obbligo di pubblicare e trasmettere un documento contenente informazioni circa le proprie attività e la relativa regolamentazione, nonchè circa il proprio eventuale gruppo di appartenenza (lett. b), stabilisce che i diversi servizi alla cui prestazione l'intermediario si obbliga verso il cliente debbono essere disciplinati da un contratto scritto (perciò destinato ad assolvere alla funzione c.d. di "contratto quadro" rispetto alle singole successive attività negoziali in cui l'espletamento di quei servizi si esplicherà), contratto di cui la stessa norma indica il contenuto minimo necessario ed una copia del quale deve essere trasmessa al cliente (lett. e). Segue poi una serie di regole legali, per la gran parte volte a disciplinare la prestazione dei servizi ipotizzati nel contratto: l'intermediario deve preventivamente acquisire, sulla situazione finanziaria del cliente, le informazioni rilevanti ai fini dello svolgimento dell'attività (know your customer rule) (lett. d); deve tenere costantemente informato il cliente sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle operazioni e su qualsiasi altro fatto necessario per il compimento di scelte consapevoli (lett. e); non deve consigliare nè effettuare operazioni con frequenza non necessaria o di dimensioni inadeguate alla situazione finanziaria del cliente (suitability rule) (lett. f);
non può, salvo espressa autorizzazione scritta, effettuare con il cliente o per suo conto operazioni nelle quali egli abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale (lett. g);
deve dotarsi di adeguate procedure di controllo interno (lett. h).
Siffatte regole di comportamento, in esecuzione di quanto previsto dalla disposizione della lettera a) sopra citata, sono state poi ulteriormente precisate dalla Consob con proprio regolamento (reg. n. 5386 del 1991).
Dal "contratto quadro", cui può darsi il nome di contratto d'intermediazione finanziaria e che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del mandato, derivano dunque obblighi e diritti reciproci dell'intermediario e del cliente. Le successive operazioni che l'intermediario compie per conto del cliente, benchè possano a loro
volta consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto d'intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono le citate disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 (non diversamente, del resto, da quelli previsti dall'art. 21 del più recente D.Lgs. n. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l'intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell'interesse del cliente, si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto d'intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di esso. Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l'obbligo di consegnare al cliente il documento informativo menzionato nella lett. b) della citata disposizione dell'art. 6, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere dell'intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva lett. d), così da poter poi adeguare ad essa la successiva operatività. Ma doveri d'informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d'intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione: tale è il dovere di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d'investimento o di disinvestimento, nonchè di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è il dovere di comunicare per iscritto l'esistenza di eventuali situazioni di conflitto d'interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l'operazione se autorizzata (lett. g). Nè può seriamente dubitarsi che anche l'obbligo dell'intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permanga attuale durante l'intera fase esecutiva del rapporto e si rinnovi ogni qual volta la natura o l'entità della singola operazione lo richieda, per l'ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo. Attengono poi del pari al momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a carico dell'intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente (lett. f).
1.3. Il ricorrente sostiene che, nella specie, il San Paolo ha violato alcune delle disposizioni sopra ricordate. L'istituto bancario, infatti, avrebbe suggerito, e poi direttamente eseguito in veste di controparte, operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello del cliente (con violazione, dunque, della lett. g del citato art. 6), ed avrebbe consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se rapportate alla situazione patrimoniale del medesimo cliente (con violazione, dunque, della lett. f del medesimo articolo).
Su tale presupposto il ricorrente afferma che i contratti mediante i quali il San Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da ritenere nulli, in quanto contrari a norme imperative, non potendosi condividere l'assunto della corte d'appello secondo cui la violazione delle norme sopra richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità risarcitoria o esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche determinarne la nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c..
E' specificamente su questo punto, come già accennato, che è stato sollecitato l'intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite.
Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel caso in esame non si ravvisa la necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale derivante dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici sulla questione di diritto appena riferita, perchè le diverse decisioni menzionate nell'ordinanza di rimessione hanno ad oggetto questioni diverse, nessuna della quali (ad eccezione di quella trattata nella sentenza del 29 settembre 2005, n. 19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della presente causa. La circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano, per certi aspetti, risultare più o meno coerenti con
principi di diritto sottesi ad altre pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di giurisprudenza in senso proprio. Essa è però certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perchè chiama in causa profili di principio: ciò che, d'altronde, è confermato anche dall'incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito.
Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà perciò tanto sull'esame dei singoli precedenti di questa corte in cui l'ordinanza di rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si affronterà direttamente la questione controversa, muovendo dall'unico precedente in termini già prima ricordato. Va da sè che le conclusioni cui si perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire chiarimenti su questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su decisioni aventi oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la giurisprudenza di questa corte in termini anche più generali.
1.4. Si deve certamente convenire - ed anche l'impugnata sentenza d'altronde ne conviene - sul fatto che le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell'interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell'interesse generale all'integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, lett. a, ma poteva ben ricavarsi in via d'interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti.
Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall'intermediario col cliente. E' ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne dirà - ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto.
Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo - non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l'effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude l'art. 1418 c.c., comma 3.
Neppure i casi di nullità contemplati dal comma 2 dell'articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E' vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l'accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell'intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso - se pur di essi si possa parlare - non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dall'art. 1427 c.c. e segg..
Resta però da considerare l'ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall'applicazione della disposizione dettata dal comma 1 del citato art. 1418: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto perchè contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6.
1.5. La domanda che si è appena formulata ha ricevuto già una motivata risposta negativa nella menzionata sentenza n. 19024 del 2005, pronunciata dalla prima sezione di questa corte, la quale, dopo aver affermato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, ha escluso che
l'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell'esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista. Donde la conclusione che nè l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, nè la violazione da parte dell'intermediario del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente qualora abbia un interesse conflittuale (a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l'estensione del suo interesse nell'operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all'operazione) sono idonee a cagionare nullità.
L'ordinanza di rimessione chiama ora le sezioni unite a valutare se tali affermazioni, e l'impianto argomentativo ad esse sotteso, debbano o meno esser tenute ferme, anche alla luce di un esame sistematico che tenga conto di orientamenti giurisprudenziali manifestati da questa stessa corte in campi diversi, nonchè delle tendenze legislative emerse in questo ed in altri settori, dai quali potrebbero eventualmente scaturire indicazioni di segno contrario a quelle espresse in subjecta materia dalla sentenza n. 19024 del 2005.
1.6. Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità.
Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede - immanente all'intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) - il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell'atto (come nel caso dell'annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorchè l'obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo anche perchè il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite.
L'assunto secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per incidenza della normativa europea), la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe tuttavia sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell'atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell'anzidetto principio nel sistema del codice civile.
E' possibile che una tendenza evolutiva in tal senso sia effettivamente presente in diversi settori della legislazione speciale, ma - a parte la considerazione che molte delle disposizioni invocate a sostegno di questo assunto sono posteriori ai fatti di
causa, e non varrebbero quindi a dimostrare che già a quell'epoca il legislatore avesse abbandonato la tradizionale distinzione cui s'è fatto cenno - un conto è una tendenza altro conto è un'acquisizione. E va pur detto che il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione impone molta cautela nel dedurre da singole norme settoriali l'esistenza di nuovi principi per predicarne il valore generale e per postularne l'applicabilità anche in settori ed in casi diversi da quelli espressamente contemplati da singole e ben determinate disposizioni. D'altronde, non si è mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell'atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del comma 1) del citato art. 1418 c.c.. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno quando - come nel caso in esame - l'invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossìa nullità di carattere relativo, che già di per sè si pongono come speciali.
1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce affatto il tema, perchè occorre ancora chiedersi se una regola diversa non viga proprio nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari.
Prima di rispondere a questo quesito, e restando per un momento ancora sul piano dei principi generali, giova però aggiungere che tanto l'impugnata sentenza della corte d'appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti. Ma - si obietta - la giurisprudenza ha in passato spesse volte individuato ipotesi di nullità nella violazione di norme che invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra le altre, Cass. 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. 10 maggio 2005, n. 9767;Cass. 16 luglio 2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass. 3 agosto 0000, x 00000; Cass. 18 luglio 2003, n. 11247; Cass. 5 aprile 2001, n. 5052; Cass. 15 marzo 2001, n, 3753; e Cass. 7 marzo 2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti (cfr.Cass. 8 luglio 1983, n. 4605), ed inoltre in caso di circonvenzione d'incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n. 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n.
8948).
Tralasciando la circonvenzione d'incapace, con riferimento alla quale occorrerebbe forse rimeditare se ed entro quali limiti l'illiceità penale della condotta basti a giustificare l'ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi che si potrebbero fare) stanno certamente a dimostrare che l'area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell'art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell'iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il
contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell'atto per ragioni - se così può dirsi - ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell'atto medesimo.
Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento afferenti alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, bensì del fatto che il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene anche osservare che, pur quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di clausole che consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di buona fede o ad altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in concreto tenuto dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso, bensì il tenore della clausola in esso prevista.
1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di tornare alla domanda se, nello specifico settore dell'intermediazione finanziaria, sia eventualmente riscontrabile un principio di segno diverso, tale cioè da derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali e da condurre ad una differente conclusione.
La risposta dev'essere negativa.
In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell'intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d'informazione dell'altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti.
La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, art. 16, comma 4, per il caso in cui il fornitore ostacoli l'esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio.
Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l'attività ed i contratti delle società d'intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto pattizio dell'atto (L. n. 1 del 1991, art. 8, u.c., ed ora al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, u.c.), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull'intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d'interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell'intermediario l'onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (L. n. 1 del 1991, art. 13, u.c., ora sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, u.c.).
Nè giova appellarsi alla valenza generale dell'interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell'intero mercato. Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all'autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione,
ossia di nullità relativa (come infatti indicano le citate disposizioni del D.Lgs n. 58 e del D.Lgs. n. 190, con riguardo ai casi in cui la nullità è effettivamente contemplata), e già questo, in difetto di qualsiasi norma che espressamente lo preveda, rende problematico ogni ancoraggio alla figura generale della nullità configurata dall'art. 1418 c.c., comma 1.
E' significativo, d'altronde, che al descritto quadro normativo, per lo specifico profilo ora considerato, il legislatore non abbia mai avvertito la necessità di apportare modifiche di rilievo da quando fu emanata la L. n. 1 del 1991, nonostante le ripetute rivisitazioni di tale normativa sino al recentissimo del D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164, che ha recepito la direttiva n. 2004/39/Ce e che del pari si è astenuto dall'estendere l'esplicita previsione di nullità alla violazione delle regole di comportamento contrattuale e precontratttuale di cui si sta discutendo.
1.9. Così stando le cose, la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell'intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, priva com'è di base testuale e di supporti sistematici, potrebbe nondimeno conservare una qualche plausibilità solo ove risultasse l'unica in grado di rispondere all'esigenza - sicuramente presente nella normativa in questione e coerente con la previsione dell'art. 47 Cost., comma 1 - di incoraggiare il risparmio e garantirne la tutela. Ma è evidente che così non è, perchè non può ragionevolmente sostenersi che la suaccennata esigenza implichi necessariamente la scelta, da parte del legislatore, del mezzo di tutela consistente proprio nel prevedere la nullità dei contratti nelle situazioni in discorso, così travolgendo sia il discrimine tra regole di comportamento e regole di validità sia quello tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto.
Richiamando la distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d'intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l'annullabilità - mai comunque la nullità - del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l'obbligo per l'intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l'avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 - alla quale si intende su questo punto dare continuità - la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.
La violazione dei doveri dell'intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d'intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacchè quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che l'eventuale loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull'inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall'art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d'intermediazione finanziaria in corso.
Si possono ovviamente avere opinioni diverse sul grado di efficacia della tutela in tal modo assicurata dal legislatore al risparmio dei cittadini, che negli ultimi anni sempre più ampiamente viene affidato alle cure degli intermediari finanziari. Ma non si può negare che gli strumenti di tutela esistono anche sul piano del diritto civile, essendo poi la loro specifica conformazione giuridica compito del medesimo legislatore le cui scelte l'interprete non è autorizzato a sovvertire, sicchè il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull'intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato.
1.10. Da ultimo, va preso in considerazione un ulteriore rilievo, su cui insiste particolarmente il ricorrente, il quale sostiene che gli obblighi per l'intermediario di non effettuare (oltre che di non consigliare) operazioni inadeguate alla situazione patrimoniale del cliente e di non effettuare operazioni in conflitto di interessi col cliente medesimo, rispettivamente contemplati dalle lett. f) e g) del citato art. 6, integrano veri e propri doveri di non fare, la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti contratti vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe colpire alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli.
A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in precedenza chiarito, il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorchè queste possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di "operazioni") si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l'intermediario ha assunto all'atto della stipulazione col cliente del "contratto quadro". Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d'interessi attiene, perciò, anch'esso -lo si è già notato - alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del dovere d'informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è formulata e l'esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura dell'interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto (sia esso il contratto d'intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione); ed è appena il caso di osservare che, sotto tal profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che l'operazione compiuta dall'intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o gli strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli stesso, trattandosi di varianti esecutive che non incidono sull'obbligo di diligenza cui l'intermediario è tenuto e che, ai fini del presente discorso, lasciano intatta la natura esecutiva dell'operazione da lui compiuta.
1.11. In conclusione, va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d' investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418 c.c., comma 1.
L'impugnata sentenza della corte d'appello non si è discostata da siffatto principio ed il primo motivo di ricorso non può perciò trovare accoglimento.
2. Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 1933 c.c., nonchè vizi di omessa pronuncia e difetti di motivazione.
Afferma che la disposizione dettata dal citato art. 1933, in forza di quando stabilito dalla L. n. 1 del 1991, art. 23, risulta inapplicabile ai soli contratti uniformi a termine stipulati nei mercati regolamentati. Essa, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, in cui si trattava di contratti non corrispondenti ad alcuno dei tipi previsti dalla normativa secondaria di settore, stipulati al di fuori del mercato di borsa.
2.1. Anche questo motivo di ricorso appare infondato.
E' assorbente rilevare, in proposito, anzitutto che la mera presenza in un contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea non vale a renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia applicabile il regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando pure di vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l'anzidetta norma è invocabile solo a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o alla scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Xxxx. 2 settembre 2004, n. 17689).
Ciò premesso, occorre subito osservare che l'acquisto e la vendita a termine di valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si discute, pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere anche ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia disposto, non sono di per sè necessariamente riducibili ad una scommessa sul futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto ragionevolmente fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio. Da quanto riportato nell'impugnata sentenza non si ricava che, nella specie, le operazioni intraprese avessero caratteristiche incompatibili con lo scopo di copertura da rischi e tanto meno, quindi, si ricava che nel giudizio di merito sia stata raggiunta la prova che il San Paolo fosse consapevole di essere entrato con il Sig. G. in un rapporto di gioco o scommessa. Tanto basta a rendere non applicabile nella fattispecie in esame della previsione del citato art. 1933.
(OMISSIS)
6. Il ricorso va quindi rigettato.
La complessità della questione che ha comportato l'intervento delle sezioni unite, la mancanza di precedenti giurisprudenziali di questa corte sul punto, all'epoca della proposizione del ricorso, e la varietà delle soluzioni offerte al riguardo dalla giurisprudenza di merito fanno apparire equa la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
9) Nullità parziale
Cass. civ., sez. III, 21-05-2007, n. 11673
In materia di contratti, agli effetti dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c., vige la regola secondo cui la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina negoziale se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall’attività ermeneutica svolta dal giudice; per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce eccezione che deve essere provata dalla parte interessata.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza n. 1083 del 2003 la corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato - ex artt. 1346 e 1418 cod. civ. - la nullità del contratto concluso il 2.5.1991 tra S.G. ved. N., N.D., N.C. (di seguito: Xxxxx) da una parte, e P.C.G., Z.V. in P., P.C.S. (di seguito: Xxxxxxx) dall'altra.
Ha ritenuto la corte d'appello che l'oggetto del contratto fosse indeterminato ed indeterminabile, in quanto rimesso di fatto all'arbitrio di una delle due parti ( P.) in relazione alle obbligazioni assunte dalle N. (le quali avevano già ceduto ai P. le loro quote di partecipazione nella società Riomaggiore) di:
a) pagare le spese sia delle cause in corso sia di quelle che fossero promosse dalla predetta società ovvero nei suoi confronti fino al 31.12.1993;
b) pagare tutte le somme che dovessero essere corrisposte per soccombenza o in via transattiva per cause ancora da promuovere o da subire;
c) pagare le penali e le soprattasse dell'IVIM decennale non ancora maturata e riguardante una società cui le N. erano ormai estranee e prive di possibilità di controllo;
d) pagare i crediti (verso la società) recuperati a seguito delle azioni in corso;
e) pagare tasse e imposte, con penali e sovrattasse, della società Riomaggiore anche per i tre esercizi successivi alla scrittura privata, nei quali la società avrebbe potuto compiere operazioni, anche fiscalmente onerose, senza alcuna possibilità di controllo da parte delle N..
Ha considerato la corte di merito che l'insindacabilità da parte delle N. delle operazioni in riferimento alle quali la società avrebbe potuto assumere obbligazioni per oltre un biennio successivo alla conclusione del contratto (in relazione cioè ai contratti di locazione stipulati dalla predetta società dopo il 2.5.1991), le esponeva all'onere delle spese legali e fiscali anche per condotte spericolate ed illecite di P.C.G. (quali sembravano essere configurate dai prodotti atti processuali penali che lo avevano riguardato), il quale ne aveva riversato le negative conseguenze economiche sulle incaute N., appunto tramite il contratto del 2.5.1991.
Ha aggiunto la corte d'appello che se tanto poteva ritenersi giustificato per le possibili controversie, o transazioni, o sanzioni fiscali riconducibili a condotte antecedenti al contratto, come tali individuabili e determinabili, per quanto recanti una componente aleatoria, lo stesso non poteva affermarsi per quelle che avrebbero potuto astrattamente insorgere nell'epoca successiva al contratto (fino al 31.12.1993) in relazione alle scelte insindacabili di quella parte del contratto ( P.) che gestiva la società Riomaggiore.
2. Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione i P., affidandosi a quattro motivi cui resistono con controricorso le N..
I ricorrenti hanno depositato anche memoria illustrativa. MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Col primo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c. artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo.
Si dolgono i ricorrenti P. che la corte d'appello abbia posto a fondamento della decisione circostanze di fatto (cieca fiducia delle N. in P.C.G., socio del loro defunto congiunto; condotta spericolata del medesimo e riversamento sulle N. delle conseguenze economiche del massiccio contenzioso derivato dai presunti illeciti civili da lui commessi) inconferenti, non provate ed anzi smentite dagli atti di causa, giacchè il rilievo contenuto nelle sentenze assolutorie (con la formula "perchè il fatto non costituisce reato") dei giudici penali (corti d'appello e di cassazione) circa la potenzialità dei contratti di locazione della società Riomaggiore (proprietaria di un palazzo) a costituire degli illeciti civili, era rimasta una mera asserzione, contrastata dalle numerose sentenze civili di primo e secondo grado, che avevano confermato la piena validità dei contratti di locazione stipulati anche con i conduttori già individuati come parte offese nel procedimento penale.
1.2. Il motivo è infondato.
Al di là degli attributi "cieca" e "spericolata", rispettivamente riferiti dalla corte d'appello alla fiducia riposta dalle N. nel P. ed alla condotta del medesimo, la sentenza è fondata sul rilievi che l'oggetto del contratto (costituito dall'obbligazione delle N. di rispondere dei debiti futuri della società partecipata dai soli P.) era rimesso alle libere scelte, anche future, di una sola delle parti. Lo si rileva dal percorso argomentativo della sentenza e, segnatamente, dal terzultimo capoverso di pagina 7, laddove è testualmente affermato che "quel che qui rileva, a prescindere dalla fiducia riposta, è però se l'oggetto del contratto era comunque contrattualmente determinabile, senza cioè che questo di fatto si concretizzasse nell'arbitrio di una parte".
Il successivo riferimento a possibili operazioni "anche illecite" del P. è effettuato in via ipotetica e comunque non assurge al rango di motivo determinante della decisione, invece fondata sulla insindacabilità, da parte delle N., delle scelte che il P. potesse compiere in futuro. Lo attesta il rilievo conclusivo della corte d'appello che, se l'accollo dei debiti poteva ritenersi giustificato per le possibili controversie, o transazioni, o sanzioni fiscali riconducibili a condotte antecedenti al contratto, come tali individuabili e determinabili, per quanto recanti una componente aleatoria, lo stesso non poteva affermarsi per quelle che avrebbero potuto astrattamente insorgere nell'epoca successiva al contratto, in relazione alle scelte insindacabili della sola parte ( P.) che gestiva la società Riomaggiore (pagina 7, in fine, e pagina 8 della sentenza).
2.1. Col secondo motivo sono denunciate violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c. e "dei principi generali in tema di arbitrio", nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, su punto decisivo.
Si sostiene che l'affermata estraneità delle N. alle scelte del P. in ordine all'attività d'impresa delle società e, dunque, l'indeterminabilità dell'oggetto del contratto in quanto rimessa all'arbitrio di una delle parti, contrastava col contenuto complessivo della scrittura privata del 2.5.1991, con la quale le parti avevano in sostanza convenuto di prorogare, per un preciso lasso di tempo ed in relazione ad alcune operazioni della società Riomaggiore il vincolo sociale, così pattuendo la prosecuzione della partecipazione delle N. all'attività sociale ed al risultato della stessa, nei vantaggi e nelle perdite.
Da siffatta "partecipazione" al risultato dell'attività, esplicantesi nella locazione di immobili urbani, derivava la possibilità delle N. di avvalersi, coi mezzi apprestati dall'ordinamento, dei rimedi avverso l'eventuale esercizio dell'attività d'impresa in senso non conforme allo scopo sociale, che la società era comunque tenuta a perseguire al meglio. E tanto valeva ad escludere che l'oggetto del contratto fosse rimesso all'arbitrio di una sola parte, non ravvisabile nel fatto che un socio sia destinatario del risultato dell'altrui gestione senza potervisi ingerire (com'è addirittura codificato per l'accomandante) nè nella circostanza, anzi conforme al disposto dell'art. 2289 c.c., comma 3, che il socio receduto partecipi ai risultati delle operazioni in corso alla data del recesso.
2.2. La censura di violazione di legge è inammissibile in quanto con essa si introduce una questione preclusa, siccome estranea al thema decidendum sottoposto al giudice di secondo grado.
Se con la scrittura del 2.5.1991 le parti abbiano o non abbiano inteso "prorogare" fino al 31.12.1993 la partecipazione alla società delle N. (che, peraltro, della società non facevano più parte) è questione che comporta un apprezzamento di fatto che i ricorrenti non affermano di aver sollecitato la corte d'appello a compiere e che non può essere evidentemente effettuato dalla corte di legittimità.
L'omissione di ogni riferimento da parte della corte d'appello alla questione - concernente la valenza di un documento non immediatamente evincibile dallo stesso - è, invero, perfettamente in linea col principio secondo il quale l'obbligo di motivazione non si estende a tutte le potenziali ricostruzioni del fatto che possano suffragare o contraddire la soluzione adottata, ma solo a quelle (decisive) che siano state prospettate dalle parti, ovvero che siano immediatamente correlate alle emergenze istruttorie.
Il motivo va dunque rigettato.
3.1. Col terzo motivo sono dedotti gli stessi vizi di cui ai precedenti motivi, in relazione alla dichiarata nullità dell'intero contratto benchè la corte d'appello abbia riconosciuto che non si ponevano problemi di indeterminatezza per quella parte di attività della società Riomaggiore ricollegabile ad atti antecedenti al contratto del 2.5.1991.
Si sostiene che si sarebbe allora dovuto - in applicazione del principio di conservazione del contratto posto dall'art. 1367 c.c. - pronunciare la nullità soltanto con riguardo a quelle obbligazioni che trovavano la loro fonte in rapporti, contratti di locazione, comportamenti ed atti posti in essere dalla società Riomaggiore in epoca successiva al periodo nel quale le N., e prim'ancora il loro dante causa, erano state socie della società, come tali compartecipi dei risultati dell'attività societaria.
3.2. Obiettano le controricorrenti:
1) che il principio di conservazione del negozio non è invocabile per circoscrivere la portata dell'atto alle sole conseguenze antecedenti all'atto medesimo, in quanto ciò esula dalla mera interpretazione della volontà delle parti, traducendosi in un'arbitraria sostituzione del loro effettivo intento;
2) che, comunque, il principio di conservazione del negozio non può mai applicarsi quando la nullità è relativa ad un elemento essenziale del contratto qual è l'oggetto, ed oltretutto ad una serie di statuizioni legate alle altre da un rapporto di interdipendenza ed inscindibilità. 3.3. Il motivo è fondato.
La norma di diritto cui il ricorrente s'è riferito, xxxxxx non espressamente menzionata nel motivo, è quella di cui all'art. 1419 c.c., comma 1, secondo il quale "la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità".
La norma costituisce applicazione del principio di conservazione del contratto (utile per inutile non vitiatur) e trova la sua ratio nella propensione dell'ordinamento a consentire che il contratto produca effetti tra i contraenti per la parte non colpita dalla nullità, a meno che non risulti che, senza quella parte, essi non lo avrebbero concluso. La regola è, dunque, che la nullità parziale non si estende all'intero contenuto della disciplina negoziale se permane l'utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall'attività ermeneutica svolta dal giudice; per converso, l'estensione all'intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce l'eccezione, da provarsi dalla parte interessata (Cass., 29 maggio 1996, n. 6036).
Per affermarsi, dunque, che la nullità relativa alla parte dell'accordo prevedente la partecipazione delle N. ad utili e perdite della società Riomaggiore per attività poste in essere dalla società stessa dopo il 2.5.1991 si estendeva anche alla parte dell'accordo
concernente la stessa partecipazione per attività antecedenti a quella data (e, così, all'intero contratto), si sarebbe dovuto affermare che le stesse non avrebbero concluso il contratto se la loro esposizione al rischio d'impresa della Riomaggiore fosse stata limitata.
Ma tanto è l'esatto opposto delle ragioni dalle stesse addotte a sostegno della nullità per indeterminabilità dell'oggetto, giacchè proprio della loro esposizione al rischio d'impresa per attività incontrollate (di fatto, prima del 2.5.1991) ed incontrollabili (de iure, dopo il 2.5.1991) le N. si erano dolute, sicchè sarebbe stato assolutamente incoerente sul piano logico addivenire alla conclusione che, se quel rischio d'impresa fosse stato ab origine contenuto al solo lasso di tempo antecedente al 2.5.1991, esse non avrebbero, per questo, concluso il contratto. Il che sarebbe equivalso ad affermare, del tutto paradossalmente, che avevano concluso il contratto perchè quel rischio era esteso anche al periodo successivo.
Tali considerazioni rendono palese che la corte d'appello ha esteso la declaratoria di nullità all'intero contratto (anche, cioè, alle obbligazioni assunte dalle N. per le conseguenze negative dell'attività della società Riomaggiore in epoca successiva al 2.5.1991) per ragioni che inequivocamente traspaiono dalla sentenza e che tuttavia sarebbero state, in ipotesi, suscettibili di assumere rilievo sul diverso piano dell'annullabilità del negozio per vizio della volontà, ovvero della risoluzione per eccessiva onerosità, e non anche perchè l'oggetto era indeterminabile (quanto alle conseguenze dell'attività antecedente al 2.5.1991), essendo stato proprio questo dalla corte d'appello escluso.
Di tanto il giudice del rinvio dovrà farsi carico in relazione alle domande di annullamento e di risoluzione subordinatamente proposte dalle appellanti N..
4.1. Col quarto motivo la sentenza è, da ultimo, censurata per omessa pronuncia (art.
112 c.p.c.) sulla domanda, riproposta dalla parte P. con appello incidentale condizionato, di condanna della società Irella (trasformatasi in Ungaro Immobiliare s.a.s., nei confronti della quale era stato integrato il contraddittorio e che era rimasta contumace), al pagamento della stessa somma di L. 91.409.259 che aveva originato la controversia tra le N. ed i P.; domanda già avanzata in via subordinata in primo grado proprio per l'ipotesi di invalidità della regolamentazione pattizia N./ P. del 2.5.1991. 4.2. Obiettano le controricorrenti che la società Irella non era stata condannata a pagare alcunchè in primo grado, non si era costituita in giudizio e non aveva "quindi" accettato il contraddittorio.
Svolgono poi rilievi di merito in ordine all'insussistenza dell'obbligazione della società Irella.
4.3. Anche questo motivo è fondato, avendo la corte omesso ogni statuizione in ordine alla domanda proposta nei confronti della predetta società, neppure menzionata nell'epigrafe della sentenza, benchè il contraddittorio (che dipende dalla rituale evocazione in giudizio e non anche dalla costituzione del convenuto o del chiamato) si fosse ritualmente instaurato nei suoi riguardi.
5. In conclusione, rigettati i primi due motivi ed accolti il terzo ed il quarto, la sentenza va cassata in relazione alle censure accolte con rinvio alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, perchè riesamini il merito alla luce dei principi enunciati e si pronunci sulla domanda proposta dai P. nei confronti della società Irella. Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo ed il quarto, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla corte d'appello di Firenze in diversa composizione.
10) Errore
Cass. civ., sez. II, 31-03-2011, n. 7468
Il contratto concluso per effetto di truffa, penalmente accertata, di uno dei contraenti in danno dell’altro è non già radicalmente nullo (ex art. 1418 c.c., in correlazione all’art. 640 c.p.), sebbene annullabile ai sensi dell’art. 1439 c.c., atteso che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente, neanche sotto il profilo dell’intensità, diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte e così a viziarne il consenso; pertanto, con riguardo alla vendita, il soggetto attivo che riceve la cosa col consenso sia pur viziato dell’avente diritto, ne diviene effettivo proprietario, con il connesso potere di trasferirne il dominio al terzo e con la conseguenza che, a sua volta, quest’ultimo ove acquisti in buona fede ed a titolo oneroso, resta al riparo degli effetti dell’azione di annullamento, da parte del «deceptus», ai sensi e nei limiti di cui all’art. 1445 (in relazione agli art. 2652 n. 6, 2690 n. 3) c.c.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato l'8 gennaio 2001 X.X. xxxxxxx, dinanzi al Tribunale di Alba, M.G. e premesso di svolgere l'attività di antiquario, esponeva che nei primi mesi del 1998 aveva ricevuto in conto vendita da un cliente un dipinto da attribuirsi al Pa. dal titolo "Lo svenimento di Xxxxx", da valutarsi intorno a L. 35.000.000 - 40.000.000, per il quale aveva raggiunto un accordo per la vendita con tale xxx.xx P. A., pattuendo il prezzo di L. 42.000.000; successivamente il quadro veniva ritirato da una terza persona, tale P.L., qualificatosi come P.M. e nipote dell'xxx.xx P., il quale esibiva una carta d'identità contraffatta e consegnava a titolo di acconto due assegni dell'importo di L. 15.000.000 ciascuno; verificata la non esigibilità di dette somme, l'attore responsabile del bene in quanto custode, versava al proprietario del dipinto, C.F., l'intero prezzo a titolo di acquisto. Aggiungeva che il 21 giungo 1998 veniva telefonicamente raggiunto da un anonimo interlocutore, che qualificatosi come antiquario della (OMISSIS), gli comunicava di avere visionato il quadro trafugato in alcuni locali di proprietà di M.G. in (OMISSIS), per cui lo contattava immediatamente e questi gli confermava di possedere il quadro.
Presentata denunzia, la Procura della Repubblica di Alba disponeva perquisizione domiciliare nei confronti del M. ed il quadro veniva sottoposto a sequestro, unitamente ad un documento rinvenuto a tergo del dipinto a firma del prof. A., studioso d'arte; il Tribunale di Alba - Sez. distaccata di Bra condannava P. L. per i reati di cui agli artt. 110, 640, 61 n. 7, 495, 482 e 477 c.p., per cui l'attore chiedeva al GIP il dissequestro del quadro, richiesta che, unitamente a quella presentata dal M., veniva respinta con ordinanza del 7.3.2000, rimettendo le parti innanzi al tribunale civile per la risoluzione della controversia. Ciò precisato, il G. chiedeva che venisse accertato il suo diritto alla restituzione del bene.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, che in via riconvenzionale chiedeva la riconsegna del dipinto da lui regolarmente acquistato da D.G., con la partecipazione di un mediatore (tale Xx.Xx.), con il pagamento di L. 30.000.000, il Tribunale adito, all'esito dell'istruzione della causa, respingeva la domanda attorea e dichiarava che M. G.P. aveva diritto alla restituzione del dipinto in questione, attualmente in sequestro nell'ambito del procedimento penale n. 1444/98, con condanna dell'attore alla rifusione delle spese.
In virtù di rituale appello interposto dal G., con il quale egli lamentava l'erroneità della sentenza del giudice di prime cure che aveva ritenuto la buona fede del M. al momento dell'acquisto, mentre andava esclusa sulla base di una serie di indizi gravi, precisi e concordanti (comportamento del M. in sede di perquisizione dei Carabinieri che inizialmente aveva negato il possesso del dipinto; le dichiarazioni rilasciate dal D., venditore del quadro; il prezzo pagato, sensibilmente inferiore al valore de bene;...), nonchè la circostanza di non avere provveduto ad una compensazione delle spese di
lite a fronte di una legittima iniziativa del G., la Corte di Appello di Torino, nella resistenza dell'appellato, accoglieva l'appello e in totale riforma della sentenza impugnata, dichiarava il G. legittimo proprietario del dipinto in contesa.
A sostegno dell'adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che l'eccezione di difetto di legittimazione attiva ad causarti sollevata da parte appellata era infondata (e non inammissibile ex art. 346 c.p.c. perchè solo meglio specificata in secondo grado), traducendosi in una contestazione dell'effettiva titolarità sostanziale del diritto fatto valere in giudizio, posto che il G. aveva affermato di esserne il titolare per acquisto fattone dal C.; del pari riteneva infondata l'eccezione di non titolarità del bene da parte dell'attore anche nel merito, avendo lo stesso X., responsabile del dipinto ex recepto (per la custodia) ed ex mandatu (perchè ricevuto in conto vendita), corrisposto al C. il prezzo di cessione, come confermato dalla scrittura a sua firma del 20.7.1998, essendo irrilevante che al momento della cessione il venditore non disponesse del possesso del bene. Ciò premesso, affermava che la condotta del M. al momento della perquisizione effettuata dalle Forze dell'Ordine aveva compromesso la linea difensiva della sua totale estraneità e solo successivamente aveva ripiegato sulla linea difensiva dell'acquisto fatto in buona fede; del pari, quanto al secondo elemento indiziario, quale l'episodio della visita del C., ne aveva reso una versione del tutto inattendibile; infine, quanto a terzo elemento indiziario, il comportamento del M. al momento della conclusione del contratto con il D., osservava che, proprio per la poca attendibilità delle dichiarazioni rese dal D. circa la provenienza del dipinto, aveva richiesto di formalizzare la vendita come effettuata dal D. quale legittimo proprietario e non già mandatario del B.. Per tutte dette circostanze riteneva dimostrata la mala fede dell'appellato al momento dell'acquisto o quanto meno la sua colpa grave, ritenuto assorbito l'ulteriore motivo sulle spese processuali, che andavano rideterminate. Avverso l'indicata sentenza della Corte di Appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione il M., che risulta articolato su due motivi, al quale ha resistito il
G. con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 81 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere la Corte di merito ritenuto che il versamento del prezzo da parte del G. al C. - dopo la consumazione della truffa - fosse avvenuto a titolo di controprestazione di un contratto di compravendita e non già a titolo di risarcimento per inadempimento di un contratto complesso. In altri termini, il giudice del gravame erroneamente avrebbe ritenuto che il G. fosse proprietario del dipinto al momento della proposizione dell'azione, mentre l'assenza della proprietà era stata accertata dalla sentenza penale di secondo grado con la condanna del P. per truffa consumata ai danni del G..
La tesi sostenuta in sentenza secondo cui il versamento del prezzo da parte del G. all'originario proprietario del quadro, il C. (che precedentemente glielo aveva affidato conferendogli un mandato alla vendita), abbia consacrato e perfezionato un contratto di vendita, a prescindere dalla disponibilità del bene da parte dello stesso venditore, che nel frattempo, a mezzo del mandatario (lo stesso G.), lo aveva consegnato, a titolo di acquisto, a P.L. (sebbene qualificatosi come P.M. e nipote dell'xxx.xx P., già interessato all'acquisto del bene), non è condivisibile.
Questa corte ha sempre ritenuto che il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell'altro non è radicalmente nullo (ex art. 1418 c.c. in correlazione all'art. 640 c.p.), ma annullabile, ai sensi dell'art. 1439 c.c., atteso che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo dell'intensità, da quello che vizia il consenso negoziale, risolvendosi entrambi in artifici o raggiri adoperati dall'agente e diretti ad indurre in errore l'altra parte e quindi a viziare il consenso allo scopo di ottenere l'ingiusto profitto mediante il trasferimento
della cosa contrattata (x. Xxxx. 26 maggio 2008 n. 13566; Cass. 10 dicembre 1986 n.
7322).
Si ha così che il dolus malus, anche se penalmente accertato, non può mai di per sè essere causa di nullità del negozio, meno che mai di inesistenza, sotto il profilo della sua illiceità, ma, inteso come vizio della volontà, può portare soltanto all'annullamento del negozio viziato (x. Xxxx. 8 maggio 1969 n. 1570) ed ai sensi dell'art. 1427 c.c., il negozio resta in vita sino a quando, ad iniziativa della parte interessata, non sia posto nel nulla mediante sentenza costitutiva (x. Xxxx. 20 febbraio 1962 n. 343).
Tutto ciò comporta, con riguardo alla vendita, che il soggetto attivo il quale riceve la cosa, col consenso sia pure viziato, dell'avente diritto, ne diviene effettivo proprietario, con il connesso potere di trasferirne il dominio al terzo e con la conseguenza che, a sua volta, quest'ultimo ove acquisti in buona fede ed a titolo oneroso, resta al riparto degli effetti dell'azione di annullamento, da parte del deceptus, ai sensi e nei limiti di cui all'art. 1445 c.c. (in relazione all'art. 2652 x.x., x. 0 x xxx. 0000 x.x., x. 0).
Dai principi suesposti la sentenza gravata si è discostata allorchè ha affermato la validità ed efficacia del contratto di vendita intervenuto tra il G. ed il mandante C.; pertanto il motivo va accolto.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1147, 1153, 2727, 2729 e 2697 x.x., xxxxxx xxxx'xxx. 000 x.x.x. xx xxxxxxxxx all'art. 360 c.p.c., n. 5 per avere la Corte di merito ritenuto l'acquisto avvenuto in mala fede sulla base delle dichiarazioni sospette rese dal D., del tutto irrilevanti ai fini del trasferimento. Aggiunge che quanto alla visita del C., anche le dichiarazioni di quest'ultimo risultano del tutto incongrui e contraddittorie, nè la reazione avuta dal ricorrente in sede di perquisizione dei Carabinieri è circostanza che possa incidere sulla buona fede, essendo espressione di un normale "metus" del cittadino di fronte ad una improvvisa perquisizione.
Le plurime censure denunciate con il motivo in esame, con e quali vengono prospettate doglianze che sotto diversi profili investono l'accertamento sulla buona fede del ricorrente al momento dell'acquisto, in considerazione dell'accoglimento del primo motivo del ricorso, debbono ritenersi superate, trattandosi di doglianze necessariamente collegate alla questione pregiudiziale.
In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso ed assorbito il secondo, la sentenza va cassata con rinvio a diversa sezione della stessa Corte di Appello di Torino affinchè provveda in ordine al motivo concernente la qualificazione della dazione di denaro effettuata dal G. in favore del mandante C., dopo la consegna del quadro al P., e perchè si pronunci, nel rispetto degli enunciati principi, sugli effetti degli artifici e raggiri (dolus malus) sulla vendita e nei successivi rapporti legati alla cessione del medesimo bene.
Il giudice del rinvio provvederà alla regolamentazione delle spese anche di questa fase del giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Torino anche per le spese del giudizio di cassazione.
11) Recesso
Cass. civ., sez. III, 18-09-2009, n. 20106
I principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli art. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti; sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto, ove ciò sia necessario per salvaguardare l’utilità del contratto per la controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Renault Italia spa, furono revocati dalla stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum previsto dall'art. 12 del contratto di concessione di vendita.
Poichè in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della Renault Italia spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati, con lo scopo di "programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla tutela e difesa, nonchè alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d'auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio (OMISSIS)".
L'Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Renault Italia spa davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni subiti per effetto dell'abusivo recesso.
Renault Italia spa si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, con la condanna alle spese.
Il tribunale, con sentenza in data 11.6.2001, rigettava la domanda compensando le spese.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 13.1.2005, rigettava gli appelli proposti dall'Associazione e dai concessionari, che condannava al pagamento delle spese.
Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della Renault Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere.
Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da memoria i soggetti indicati in epigrafe.
Resiste con controricorso la Renault Italia spa che ha, anche, proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
Ricorso principale. (OMISSIS)
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.).
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3).
Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462).
Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità.
In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la
circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.
La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass.
17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838).
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di
maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).
In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil).
Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538;
Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass.
8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239;
Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto
privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio.
Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata.
La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere, perchè un tale potere rientra nella libertà di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3) La Renault Italia non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto;
e ciò perchè "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente imputabili.
La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi";
8) Alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della Renault Italia spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La impossibilità di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa sì che "Solo allorchè ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l'esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata".
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti.
Ciò vuoi significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.
Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere interpretati anche secondo buona fede.
Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273;
Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.
Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede.
Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il materiale probatorio acquisito.
In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio.
Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.
La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà economica e di libero mercato.
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate.
Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.
Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto.
La libertà di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in sè e per sè, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere. L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.
Xxxx, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi è un'impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso possa controllare l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione politica.
Il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l'abuso dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell'incremento delle situazioni di disparità di forze fra gli operatori economici.
Al giudicante è richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di recesso - al fine di affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei principii più volte enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione giuridica.
Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte di merito abbia errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l'assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo più conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l'insussistenza dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un dato istituto, spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno;
4) che non sussista la possibilità di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente "forti" -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante.
La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere, ovvero in termini di "neutralità";
nel senso cioè che, una volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti le modalità del suo concreto esercizio.
Ma il problema non è questo.
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di "conflittualità". Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati.
Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.).
In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio del diritto xxxxxxxxxxxx.Xx ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento giuridico.
Il giudice del rinvio, quindi, dovrà riesaminare la questione, tenendo conto delle indicazioni fornite e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il carattere abusivo del recesso e l'eventuale, consequenziale diritto al risarcimento del danni subiti.
Tutto ciò in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.
Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo l'esame degli ulteriori profili di censura proposti.
I temi dell'abuso di dipendenza economica e della applicabilità analogica od estensiva della normativa in materia di subfornitura (in particolare L. 18 giugno 1998, n. 172, art. 9) non hanno costituito oggetto di specifica censura contenuta nei motivi di ricorso.
Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di vendita e quella di agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari a percepire una somma a titolo di indennità, poi, ad un sommario esame - il quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui interessano, per le conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di dubbia praticabilità.
Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua struttura e la sua funzione economico-sociale, presenta aspetti che lo avvicinano al contratto di somministrazione, ma non può, però essere inquadrato in uno schema contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si caratterizza per una
complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo (Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal quale deriva l'obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita, ovvero l'obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (v. anche Cass. 22.2.1999 n. 1469; Cass. 11.6.2009 n. 13568).
Proprio una tale struttura e funzione economica, che esclude profili rilevanti di collaborazione, sembra doverlo porre al di fuori dell'area di affinità con il contratto di agenzia (v. anche Cass. 21.7.1994 n. 6819).
Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata compensazione delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di merito.
Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi che precedono. Ricorso incidentale Con unico motivo la resistente e ricorrente incidentale denuncia la omessa motivazione sull'appello incidentale proposto dalla Renault Italia spa, relativamente alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado.
Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi del ricorso principale che precedono.
Il giudice del rinvio, dovrà, infatti, procedere ad una nuova ed autonoma regolamentazione delle spese del processo.
Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale;
vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno dichiarati assorbiti il quinto motivo ed il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi, come accolti, e la causa va rimessa alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
Il giudice del rinvio si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale. Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il quinto, nonchè il ricorso incidentale. Xxxxx in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
12) Risoluzione
Cass. civ., sez. un., 30-10-2001, n. 13533.
Il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 16.5.1991, Xxxxx Xxxxx conveniva davanti al Tribunale di Roma il Centro Culturale Latino Americano El Charango in persona del legale rappresentante Xxxxxxxxx Xxxxx, e quest’ultimo in proprio, per sentirli condannare all’adempimento dell’obbligazione, assunta con scrittura del 26.1.1989, avente ad oggetto l’insonorizzazione della parete divisoria tra l’albergo gestito dall’attore e la sede dell’associazione entro il 15.8.1989, con previsione di una penale di L. 100.000 per ogni giorno di ritardo.
I convenuti resistevano, deducendo che l’associazione aveva cessato l’attività.
L’attore, modificando la domanda, chiedeva la condanna della convenuta al pagamento della penale.
Il tribunale, con sentenza dell’1º.10.1993, condannava il Centro Culturale ed il Rolla al pagamento della somma di L. 14.800.000 ed al rimborso delle spese.
Avverso la sentenza proponevano appello i soccombenti, chiedendone la riforma. Resisteva il Gallo.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 3.4.1996, accoglieva l’appello; rigettava la domanda; condannava il Gallo al pagamento delle spese del doppio grado.
Considerava:
- che correttamente il tribunale aveva qualificato come "penale" la clausola, inserita nella scrittura del 26.1.1989, recante la predeterminazione del danno conseguente all’inadempimento dell’obbligazione di insonorizzare i locali nella misura di L. 100.000 giornaliere;
- che, peraltro, il tribunale aveva errato nel fare applicazione dei principi che regolano l’onere della prova, atteso che la clausola penale ha soltanto la funzione di predeterminare l’entità del danno, in caso di inadempimento, ma non sottrae il soggetto che la invoca all’onere di fornire la prova dell’inadempimento;
- che erroneamente, quindi, il tribunale aveva fondato l’accoglimento della domanda di risarcimento sulla mancata prova dell’adempimento entro il termine pattuito da parte dei convenuti, poiché, a fronte della contestazione della controparte, gravava sull’attore l’onere di dimostrare sia il mancato adempimento entro il termine pattuito, sia il periodo di protrazione del medesimo;
- che, in mancanza dell’assolvimento del detto onere probatorio, la domanda doveva essere rigettata.
Avverso la sentenza il Xxxxx ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Non hanno svolto difese gli intimati.
Il ricorso è stato assegnato alla terza sezione civile, che, con ordinanza del 29.4.1998, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni unite. Ha considerato la terza sezione:
- che oggetto del giudizio è la richiesta di pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento contrattuale;
- che il ricorso ripropone la questione se sia il creditore agente, che lamenta la violazione del suo diritto, ad essere gravato dell’onere di dimostrare il mancato o inesatto adempimento dell’obbligazione, quale fondamento dell’azione di esatto adempimento, di risoluzione o di risarcimento dei danno, ovvero se incomba al debitore resistente, che eccepisca l’estinzione dell’obbligazione per adempimento, la prova dell’avvenuto compimento dell’attività solutoria;
- che sulla questione esiste contrasto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, tra due indirizzi: uno, maggioritario, che diversifica il regime probatorio secondo che il creditore agisca per l’adempimento, nel qual caso si ritiene sufficiente che l’attore fornisca la prova del titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, ovvero per la risoluzione, nel qual caso si ritiene che il creditore debba provare, oltre al titolo, anche l’inadempimento, integrante anch’esso fatto costitutivo della pretesa; ed un altro orientamento, minoritario, che tende ad unificare il regime probatorio gravante sul creditore, senza distinguere tra le ipotesi in cui agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, ritenendo in ogni caso sufficiente la prova del titolo che costituisce la fonte dell’obbligazione che si assume inadempiuta, spettando al debitore provare il fatto estintivo dell’avvenuto adempimento.
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite per la composizione del contrasto. MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Il denunciato contrasto riguarda la posizione del creditore e del debitore, in tema di onere della prova, norma dell’art. 2697 c.c., relativamente ai rimedi offerti al creditore dall’art. 1453 c.c., nel caso di inadempimento del debitore nei contratti a prestazioni corrispettive.
E’ opportuno richiamare il dato normativo di riferimento. Recita l’art. 1218 c.c.:
"Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile".
Dispone l’art. 1453 c.c.:
"Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno".
"La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione".
"Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione".
A sua volta, la disciplina generale dell’onere della prova è dettata dall’art. 2697 c.c., secondo il quale:
"Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento".
"Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda".
Il contrasto si pone nei seguenti termini.
1.1. Un primo orientamento, maggioritario, sostiene che il regime probatorio è diverso secondo che il creditore richieda l’adempimento ovvero la risoluzione.
Si afferma che, in materia di obbligazioni contrattuali, l’onere della prova dell’inadempimento incombe al creditore, che è tenuto a dimostrarlo, oltre al contenuto della prestazione stessa, mentre il debitore, solo dopo tale prova, è tenuto a giustificare l’inadempimento che il creditore gli attribuisce. Infatti, ai fini della ripartizione di detto onere, si deve avere riguardo all’oggetto specifico della domanda, talché, a differenza del caso in cui si chieda l’esecuzione del contratto e l’adempimento delle relative obbligazioni, ove è sufficiente che l’attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l’esistenza del contratto, e, quindi, dell’obbligo che si assume inadempiuto, nell’ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’obbligazione, l’attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza, spettando al convenuto l’onere probatorio
di essere immune da colpa, solo quando l’attore abbia provato il fatto costitutivo dell’inadempimento (sent. n. 2024/68; n. 1234/70; n. 2151/75; n. 5166/81; n. 3838/82; n. 8336/90; n. 11115/90; n. 13757/92; n. 1119/93; n. 10014/94; n.
4285/94; n. 7863/95; n. 8435/96; n. 124/97).
1.1.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Viene valorizzata la distinzione tra i rimedi congiuntamente previsti dall’art. 1453 c.c., rilevando che si tratta di azioni con le quali vengono proposte domande con diverso oggetto (adempimento, risoluzione, risarcimento del danno).
Si osserva che nella azione di adempimento il fatto costituivo è il titolo, costituente la fonte negoziale o legale del diritto di credito, sicché la prova che il creditore deve fornire, ai sensi dell’art. 2697, comma 1, deve avere ad oggetto soltanto tale elemento. Al contrario, nella azione di risoluzione, la domanda si fonda su due elementi: il titolo, fonte convenzionale o legale dell’obbligazione, e l’inadempimento dell’obbligo, sicché la prova richiesta al creditore deve riguardarli entrambi, trattandosi di fatti costituitivi del diritto fatto valere, ai sensi dell’art. 2697, comma 1. Si ritiene irrilevante che l’inadempimento, elevato ad oggetto dell’onere probatorio, sia un fatto negativo, opponendosi che, per costante giurisprudenza, anche i fatti negativi possono essere provati fornendo prova dei fatti positivi contrari (in tal senso: sent. n. 3644/82; n. 13872/91; n. 12746/92; n. 5744/93).
1.1.2. L’orientamento maggioritario trova riscontro anche in una parte della dottrina, nella quale si rinvengono analoghe argomentazioni.
1.2. Il contrapposto indirizzo, minoritario, tende invece a ricondurre ad unità il regime probatorio da applicare in riferimento a tutte le azioni previste dall’art. 1453 c.c., e cioè all’azione di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (facoltà pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di questa S.C.: sent. n. 3911/68; n. 3678/71; n. 1530/88).
Si è affermato che l’azione di risoluzione per inadempimento prevista dall’art. 1453
c.c. e quelle di adempimento e di risarcimento dei danni previste anch’esse da detta norma hanno in comune il titolo ed il vincolo contrattuale di cui si deduce la violazione ad opera dell’altro contraente, sicché alla parte che le propone non può addossarsi altro onere, a norma dell’art. 2697 c.c., che di provare l’esistenza di quel titolo e, quindi, l’insorgenza di obbligazioni ad esso connesse, incombendo alla controparte, invece, l’onere della prova di avere adempiuto (sent. n. 10446/94).
Altre decisioni hanno ribadito che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale è identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale; in entrambi i casi il creditore dovrà provare i fatti costitutivi della pretesa, cioè l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, il termine di scadenza, e non anche l’inadempimento, mentre il debitore dovrà eccepire e dimostrare il fatto estintivo dell’adempimento (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
1.2.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Dall’art. 2697 c.c., che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione del diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza del diritto. Ed il principio - pacificamente applicabile all’ipotesi della domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore deve provare l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non l’inadempimento, giacché è il debitore a dover provare l’adempimento, fatto estintivo dell’obbligazione -, deve trovare applicazione anche alle ipotesi in cui il creditore agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
Xxxxxxxx estensione trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere interpretate secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito, e cioè dell’esistenza dell’obbligazione contrattuale e del diritto ad ottenerne l’adempimento, vi sia una diversa disciplina dell’onere probatorio, solo perché il creditore sceglie di chiedere (la risoluzione o) il risarcimento in denaro del danno determinato dall’inadempimento in luogo dell’adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (sent. n. 973/96).
L’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Xx appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
1.2.2. L’orientamento minoritario riceve l’approvazione di larga parte della dottrina, che svolge analoghe argomentazioni.
2) Il contrasto va composto aderendo all’indirizzo minoritario.
2.1. Per quanto concerne la disciplina dell’onere della prova, va ricordato che l’art. 1312 del codice civile del 1865 disponeva che: "Chi domanda l’esecuzione di un’obbligazione deve provarla e chi pretende essere liberato deve dal canto suo provare il pagamento o il fatto che ha prodotto l’estinzione dell’obbligazione".
Veniva quindi regolata specificamente la sola ipotesi dell’onere probatorio in relazione alla domanda di adempimento.
L’art. 2697 del codice civile vigente ha invece dettato una disciplina generale in tema di riparto dell’onere della prova, senza riferimento a specifici tipi di domande.
La formulazione generale del principio è quindi di ostacolo alla formulazione di temi fissi di prova. Xx occorre considerare che, al fine in esame, assume certamente rilevanza il ruolo assunto dalla parte nel processo.
Tuttavia, con riferimento ai tre rimedi congiuntamente previsti dall’art. 1453 c.c. appare opportuno individuare un criterio di massima caratterizzato, nel maggior grado possibile, da omogeneità. L’eccesso di distinzioni di tipo concettuale e formale è sicuramente fonte di difficoltà per gli operatori pratici del diritto, le cui esigenze di certezza meritano di essere tenute nella dovuta considerazione.
2.2. Ritengono queste Sezioni unite di prestare adesione all’indirizzo minoritario, del quale condividono le principali argomentazioni.
2.2.1. Il principio della presunzione di persistenza del diritto, desumibile dall’art. 2697, in virtù del quale, una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo, costituito dall’adempimento, deve ritenersi operante non solo nel caso in cui il creditore agisca per l’adempimento, nel quale caso deve soltanto provare il titolo contrattuale o legale del suo diritto, ma anche nel caso in cui, sul comune presupposto dell’inadempimento della controparte, agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno.
2.2.2. La ravvisata omogeneità del regime dell’onere della prova per le tre azioni previste dall’art. 1453 c.c. consegue infatti ad una interpretazione delle norme che
vengono in gioco nella specie (l’art. 1453 in relazione agli artt. 1218 e 2697 c.c.) secondo un criterio di ragionevolezza.
La domanda di adempimento, la domanda di risoluzione per inadempimento e la domanda autonoma di risarcimento del danno da inadempimento si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito dall’inadempimento. Servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori pronunce sono consequenziali a questa, che rimane eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l’attore.
Le azioni di adempimento e di risoluzione sono poste dall’art. 1453 sullo stesso piano, tanto è vero che il creditore ha facoltà di scelta tra l’una o l’altra azione. Non è ragionevole attribuire diversa rilevanza al fatto dell’inadempimento a seconda del tipo di azione che viene in concreto esercitata. Se la parte che agisce per l’adempimento può limitarsi (come è incontroverso) ad allegare (senza onere di provarlo) che adempimento non vi è stato, eguale onere limitato alla allegazione va riconosciuto sussistente nel caso in cui invece dell’adempimento la parte richieda, postulando pur sempre che adempimento non vi è stato, la risoluzione o il risarcimento del danno.
D’altra parte, va anche rilevato che l’art. 1453, comma 2, che consente di sostituire in giudizio alla domanda di adempimento la domanda di risoluzione (art. 1453, comma
2) ha riconnesso l’uno e l’altro diritto ad un’unica fattispecie, e non ha condizionato il mutamento della domanda all’accollo di un nuovo onere probatorio.
2.2.3. L’identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall’art. 1453, merita di essere affermata anche per palesi esigenze di ordine pratico.
La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori dell’orientamento maggioritario con l’affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale "negativa non sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari.
Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell’adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.
Si rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento.
2.2.4. In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.
3) Eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore, convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento, si avvalga dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell’attore.
In tale eventualità i ruoli saranno invertiti.
Chi formula l’eccezione può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento: sarà la controparte a dover neutralizzare l’eccezione, dimostrando il proprio adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione a suo carico (in tal senso: sent. n. 3099/87; n. 13445/92; n. 3232/98).
4) Anche secondo i fautori della tesi che esenta il creditore dall’onere di provare l’inadempimento, qualora richieda la risoluzione o il risarcimento del danno in via autonoma, e pongono a carico del debitore, in entrambi i casi, l’onere di provare l’adempimento come fatto estintivo del diritto azionato (alla stessa stregua di quanto avviene nel caso di proposizione della domanda di adempimento), la regola non vale qualora sia dedotto, a fondamento della domanda di risoluzione o di risarcimento del danno, un inesatto adempimento: in tale ipotesi affermano che il creditore non può limitarsi ad allegare l’inesatto adempimento, ma ne deve fornire la prova (in tal senso, tra le decisioni che accolgono l’orientamento minoritario, x. xxxx. x. 00000/00).
In dottrina si rileva che, in tale eventualità, il creditore ammette l’avvenuto adempimento, ma lamenta vizi, difetti o difformità della prestazione eseguita rispetto a quella dovuta, dei quali deve dare la prova.
4.1. La tesi non merita adesione.
Le richiamate esigenze di omogeneità del regime probatorio inducono ad estendere anche all’ipotesi dell’inesatto adempimento il principio della sufficienza dell’allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando anche in tale eventualità sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento.
Appare artificiosa la ricostruzione della vicenda secondo la quale il creditore che lamenta un inadempimento inesatto manifesterebbe, per implicito, la volontà di ammettere l’avvenuto adempimento. In realtà, il creditore esprime una ben precisa ed unica doglianza, incentrata sulla non conformità del comportamento del debitore al programma negoziale, ed in ragione di questa richiede tutela, domandando l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento.
D’altra parte, la diversa consistenza dell’inadempimento totale e dell’inadempimento inesatto non può giustificare il diverso regime probatorio. In entrambi i casi il creditore deduce che l’altro contraente non è stato fedele al contratto. Non è ragionevole ritenere sufficiente l’allegazione per l’inadempimento totale (massima espressione di infedeltà al contratto) e pretendere dal creditore la prova del fatto negativo dell’inesattezza, se è dedotto soltanto un inadempimento inesatto o parziale (più ridotta manifestazione di infedeltà al contratto). In entrambi i casi la pretesa del creditore si fonda sulla allegazione di un inadempimento alla quale il debitore dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall’esatto adempimento.
5) Una eccezione all’affermato principio va invece ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni negative.
Ove sia dedotta la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell’inadempimento è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento.
5.1. Il diverso regime è giustificato dalle seguenti considerazioni.
Ai sensi dell’art. 1222 c.c., ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non fare costituisce di per sé inadempimento. L’inadempimento di siffatte obbligazioni integra un fatto positivo e non già un fatto negativo come avviene per le obbligazioni di dare o di fare.
Comune presupposto dei rimedi previsti dall’art. 1453 c.c. è quindi un inadempimento costituito da un fatto positivo (l’esecuzione di una costruzione, lo svolgimento di una attività).
Non opera quindi, qualora il creditore agisca per l’adempimento, richiedendo l’eliminazione delle modificazioni della realtà materiale poste in essere in violazione
dell’obbligo di non fare, ovvero la risoluzione o il risarcimento, nel caso di violazioni con effetti irreversibili, il principio della persistenza del diritto insoddisfatto, perché nel caso di obbligazioni negative il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la sua successiva violazione, né sussistono le esigenze pratiche determinate dalla difficoltà di fornire la prova di fatti negativi sulle quali si fonda il principio di riferibilità della prova. dal momento che l’inadempimento dell’obbligazione negativa ha natura di fatto positivo.
6) Tanto premesso, può ora procedersi all’esame del ricorso.
6.1. Con i tre motivi, tra loro intimamente connessi, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1321, 1382, 2697 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., e difetto di motivazione, il ricorrente addebita alla corte d’appello di aver erroneamente posto a carico del creditore, che agiva per ottenere il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (danno di consistenza preventivamente determinata mediante clausola penale), l’onere di fornire la prova dell’inadempimento; sostiene, invocando l’orientamento minoritario, che era onere del debitore dimostrare di avere adempiuto.
6.2. Il ricorso è fondato.
La sentenza impugnata è in contraddizione con il principio accolto da queste Sezioni unite in sede di composizione del contrasto e va pertanto cassata.
La causa va rinviata ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che si atterrà al suenunciato principio.
7) Sussistono giusti motivi, da ravvisare nella sussistenza del contrasto di giurisprudenza ora composto, per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Roma; compensa le spese del giudizio di cassazione.
13) Clausola penale e caparra
Cass. civ., sez. un., 13-09-2005, n. 18128
Il potere di diminuire equamente la penale può essere esercitato dal giudice anche d’ufficio.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il condominio di Xxx Xxxxxx xx Xxxxxx, xx Xxxx, convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace, il condomino Xxxxxxx Xxxxxx e ne chiese la condanna al pagamento della somma di lire 3.562.355, a titolo di sanzione pecuniaria, dovuta, in base agli artt. 18 e 23 del regolamento condominiale, per il mancato pagamento di lire 1.045.281, dovute per spese di condominio.
Il Sidoti chiese il rigetto della domanda, sostenendo che le clausole del regolamento comportavano l'obbligo di corrispondere un interesse usurario per il ritardato pagamento dei ratei relativi alle spese condominiali e, in via riconvenzionale, chiese che dette clausole fossero dichiarate nulle.
Il Giudice di pace accolse la domanda, osservando che le norme del regolamento erano legittime ed erano state liberamente accettate dal Xxxxxx.
Questi propose appello insistendo perchè fossero dichiarate nulle le norme del regolamento ai sensi dell'art. 1815, secondo comma, cod. civ., applicabile in tutte «le convenzioni di interessi» e «quindi anche in quelle contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale». Chiese anche che le suddette clausole fossero dichiarate nulle, perchè prevedevano che la sanzione fosse applicata per il mancato pagamento dei ratei entro venti giorni dall'approvazione del bilancio preventivo senza una formale messa in mora.
Il condominio non si costituì in giudizio.
Il Tribunale di Roma respinse l'appello, osservando:
che alla fattispecie in esame non era applicabile il disposto del secondo comma dell'art. 1815 cod. civ. perchè le somme dovute dal condomino, per il caso di ritardo nell'adempimento dell'obbligo di corrispondere i ratei condominiali, non erano interessi pattuiti per la ritardata restituzione di un prestito di denaro, ma erano oggetto di una penale, contenuta nel regolamento di natura contrattuale debitamente trascritto, con la quale era pattiziamente determinato il risarcimento dovuto in caso di inadempimento o ritardo nell'adempimento;
che la penale sarebbe potuta essere diminuita dal giudice ove il condomino ne avesse fatto richiesta, non potendo il giudice provvedere d'ufficio;
che non era necessaria, al fine della decorrenza dell'obbligo del pagamento della somme dovute a titolo di penale, la messa in mora del condomino, xxxxxx era lo stesso regolamento di condominio a prevedere la mora ex re e che tale previsione era conforme al disposto dell'art. 1219, secondo comma, cod. civ..
Xxxxxxx Xxxxxx ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza. Il condominio intimato non ha svolto attività difensiva.
La causa è stata assegnata alla seconda sezione civile di questa Corte, che, con ordinanza del 30 marzo 2004, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alla Sezioni Unite, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto, all'interno delle sezioni semplici, in ordine al potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale ai sensi dell'art. 1384 cod. civ. (questione dedotta con il primo motivo del ricorso).
Il Primo Presidente ha assegnato la causa alle sezioni unite per la risoluzione del contrasto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. All'esame dei motivi occorre premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la sanzione prevista, negli artt. 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a carico dei condomini inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti.
Tale qualificazione non è posta in discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione poggia il motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice di merito nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d'ufficio la penale.
Pertanto, il ricorso deve essere esaminato da questa Corte sulla base di tale avvenuta qualificazione.
2. È preliminare l'esame del secondo motivo, perchè con esso si deduce la nullità della clausola penale, cosicchè se la censura fosse fondata cadrebbe la necessità di esaminare il primo motivo, con il quale la sentenza impugnata è censurata, invece, per avere negato il potere del giudice di ridurre la penale in assenza di una richiesta di parte.
3. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione ed erronea applicazione dell'art 1815, secondo comma, cod. civ. e difetto di motivazione in relazione all'art 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
Si deduce che - non contestata l'usurarietà del tasso di interesse previsto nella penale
- «la cd. funzione calmieratrice prevista dall'art. 1815 cod. civ., come modificato dalla legge 7 marzo 1996 n. 108, trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un vantaggio usurario, quale che sia il rapporto obbligatorio sottostante, creandosi in caso contrario una indebita sperequazione nel trattamento delle clausole penali e delle clausole fissanti tassi di interessi moratori, che altro non sono che una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione pecuniaria».
4. La censura è infondata.
Il ricorrente, sostanzialmente, invoca l'applicazione dei criteri fissati dalla legge 7 marzo 1996 n. 108 per attribuire carattere usurario alla somma dovuta in forza della penale pattuita.
Senonchè - a prescindere da ogni altro rilievo in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata - il ricorrente non considera che i criteri fissati dalla legge n. 108 del 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all'entrata in vigore della stessa legge, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, primo comma, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394 (convertito, con modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001 n. 24), norma riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con sentenza n. 29 del 2002 Corte cost (principio ripetutamente affermato da questa Corte: v., tra le più recenti, Xxxx. 25 marzo 2003 n. 4380; Cass. 13 dicembre 2002 n. 17813; Cass. 24 settembre 2002 n. 13868).
Xxx xxxxxx, come è pacifico, la convenzione alla quale il ricorrente attribuisce natura usuraria, è anteriore alla entrata in vigore della legge 7 marzo 1996 n. 108, già per questa sola ragione la sua disciplina non le si può applicare e pertanto appare superfluo l'esame del problema relativo alla trasponibilità della disciplina dell'art. 1815 cod. civ. ad una clausola, come quella oggetto della presente controversia, che trae origine da un rapporto in cui non è identificabile una causa di finanziamento.
5. Con il primo motivo del ricorso si denuncia; Violazione ed erronea applicazione degli artt. 1382 e 1384, cod. civ. - Difetto di motivazione. Il tutto in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
Si deduce l'erroneità dell'assunto del Tribunale in ordine alla ritenuta non riducibilità d'ufficio della penale e si richiama a sostegno della censura la sentenza n. 10511/99 di questa Corte.
6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ., possa essere esercitato d'ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta al pagamento.
6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall'art. 1384 cod. civ. secondo cui «La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente
eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento».
6.2. Fin dall'entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio, pur manifestando nell'ambito di questo orientamento, notevoli oscillazioni in ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo.
Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza n. 10511/99 di questa Corte, la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche d'ufficio.
Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/03 che ad esso si è adeguata) ha ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n. 8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.
6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover confermare il principio affermato dalla sentenza n. 10511/99, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/03.
6.4 Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/99 è stata influenzata da due concorrenti elementi.
Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che, in alcune delle pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poichè si giungeva talvolta a ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile in appello.
Il secondo fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti co-distici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod. civ.).
6.5. Quanto al primo elemento sopra ricordato, non v'è dubbio che le variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza, in ordine ai tempi ed ai modi in cui la richiesta di riduzione della penale debba avvenire ed alle ragioni per le quali la stessa possa essere richiesta, denotano quanto meno una debolezza dei fondamenti giuridici sui quali si basa la tesi della non riducibilità d'ufficio della penale, nonchè una implicita contraddittorietà, individuabile specie in quelle pronunce le quali affermano che la norma dell'art. 1384 cod. civ. - che attribuisce al giudice il potere di diminuire equamente la penale - non ha la funzione di proteggere il contraente economicamente più debole dallo strapotere del più forte, bensì mira alla tutela e ricostituzione dell'equilibrio contrattuale, evitando che da un inadempimento parziale o, comunque, di importanza non enorme, possano derivare conseguenze troppo gravi per l'inadempiente (x. Xxxx. 6 aprile 1978 n. 1574), ovvero ritengono che la riduzione della penale, per effetto di parziale adempimento dell'obbligazione, a norma dell'art. 1384 cod. civ., non integra un diritto del debitore, ma è rimessa all'equa valutazione del giudice, in relazione all'interesse del creditore al tempestivo ed integrale adempimento (x. Xxxx. 7 luglio 1981 n. 4425).
6.6. Quanto al secondo elemento non può che condividersi la necessità di una lettura della norma di cui all'art. 1384 cod. civ. che meglio rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo dell'ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati.
6.7. Naturalmente una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che l'art. 1384 cod. civ. non contiene alcun riferimento ad un'iniziativa della parte rivolta a sollecitare l'esercizio del potere di riduzione da parte del giudice, non può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza che ritiene necessaria quella iniziativa e di verificare nel contempo se sussistano altre ragioni, che consentano quella lettura della norma adeguata ai principi costituzionali posti bene in luce dalla sentenza n. 10511/99.
6.8. Gli argomenti addotti dalla giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale sono principalmente tre.
6.8.1. Il primo argomento si fonda sul principio generale, al quale l'art. 1384 cod. civ. non derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se non nei limiti delle domanda e delle eccezioni proposte dalle parti.
Senonchè questo argomento non appare decisivo e sembra fondarsi sull'assunto della esistenza di un fatto che è, invece, da dimostrare.
Occorre partire dal testo dell'art. 112 cod. proc. civ., secondo cui «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti».
Ora, il giudice che riduca l'ammontare della penale, al cui pagamento il creditore ha chiesto che il debitore sia condannato, non viola in alcun modo la prima proposizione del richiamato art. 112 cod. proc. civ., atteso che il limite postogli dalla norma è, in linea generale, che egli non può condannare il debitore ad una somma superiore a quella richiesta, mentre può condannarlo al pagamento di una somma inferiore.
Ma l'art. 112 cod. proc. civ. dispone anche che il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti.
La norma lascia intendere che vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio.
Se così è, allora, il problema della riducibilità della penale non è risolto dall'art. 112 cod. proc. civ., ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che può essere proposta soltanto dalla parte.
Nel codice civile sono espressamente individuate varie ipotesi di eccezioni proponibili soltanto dalla parte; in via esemplificativa: art. 1242, primo comma, cod. civ. - eccezione di compensazione; art. 1442, comma quarto, cod. civ. - eccezione di annullabilità del contratto, quando è prescritta l'azione; art. 1449, secondo comma, cod. civ. - eccezione di rescindibilità del contratto, quando l'azione è prescritta; art. 1460, primo comma, cod. civ. - eccezione di inadempimento; art. 1495, terzo comma, cod. civ. - eccezione di garanzia, nella vendita, anche se è prescritta l'azione; art. 1667, terzo comma, cod. civ. - eccezione di garanzia, nell'appalto - anche se l'azione è prescritta; art. 1944, secondo comma, cod. civ. - eccezione di escussione da parte del fideiussore; art. 1947, primo comma, cod. civ. - beneficio della divisione nella fideiussione; art. 2938 cod. civ. - eccezione di prescrizione; art. 2969 cod. civ. - eccezione di decadenza, «salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d'improponibi-lità dell'azione».
L'art. 1384 cod. civ., al contrario delle ipotesi sopra indicate, non fa alcuna menzione della necessità della eccezione della parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad esercitare il potere di riduzione della penale conferitogli dalla legge.
Il silenzio della norma sul punto non depone certamente a favore della tesi secondo cui la riduzione della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa propendere, se mai, a favore della tesi contraria, specie se si guardi ad altre previsioni del codice civile nelle quali l'intervento del giudice è visto in finizione correttiva della volontà manifestata dalle parti, (x. Xxxx. sez. un. 17 maggio 1996 n. 4570, che espressamente parla di «funzione correttiva» del giudice, non solo nell'ipotesi della riduzione della penale manifestamente eccessiva (art. 1384 cod. civ.), ma anche nei
casi di riduzione dell'indennità dovuta per la risoluzione della vendita con riserva di proprietà (art. 1526 cod. civ.) e di riduzione della posta di giuoco eccessiva (art. 1934 cod. civ.).
6.8.2. Il secondo argomento addotto è che la riduzione della penale fissata dalle parti è prevista dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve essere rimessa, nell'esercizio della difesa dei propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni consequenziale valutazione della eccessività della penale ovvero della sua sopravvenuta onerosità, in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto.
Anche questo argomento si fonda su un dato non dimostrato e cioè che l'istituto della riduzione della penale sia predisposto nell'interesse della parte debitrice.
Intanto una affermazione di questo tipo appare contraddetta dall'osservazione che la penale «può» ma non «deve» essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento; dal che si desume che non esiste un diritto del debitore alla riduzione della penale e che il criterio che il giudice deve utilizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba tenere conto della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la penale può avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti, mentre il riferimento all'interesse del creditore ha la sola funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.
Ne discende che, pur sostanziandosi la riduzione della penale in un provvedimento che rende in concreto meno onerosa la posizione del debitore e che deve essere adottato tenuto conto dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il potere di riduzione appare attribuito al giudice non per la tutela dell'interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascende.
Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui l'intervento equitativo del giudice pur risolvendosi in favore di una delle parti in contesa non è tuttavia predisposto specificamente per la tutela di un suo interesse.
Si pensi all'ipotesi in cui una delle parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica; il giudice, in questo caso, anche se l'esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di disporre che il risarcimento avvenga per equivalente «se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 cod. civ.).
È un potere che il giudice può esercitare pacificamente d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficoltà che il debitore può incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficoltà, appunto perchè obiettiva, non riguarda però la situazione economica del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, costo ed utilità. L'onerosità per il debitore viene cioè in rilievo come metro di giudizio perchè il giudice possa effettuare la sua valutazione e non come interesse tutelato dalla norma.
Si pensi ancora al potere attribuito al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa se lo stesso non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 cod. civ.), pacificamente esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti.
Già, quindi, dall'esame critico della giurisprudenza maggioritaria, emergono elementi per affermare che il potere di riduzione della penale è concesso dalla legge al giudice per fini che prescindono dalla tutela dell'interesse della parte, che al pagamento della penale sia tenuta per effetto del suo inadempimento o ritardato a-dempimento.
6.8.3. Il terzo argomento addotto dalla giurisprudenza prevalente è che il giudice, nell'esercizio dei poteri equitativi diretti alla determinazione dell'oggetto dell'obbligazione della clausola, non dispone di altri parametri di giudizio che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine esclusivo di verificare se l'equilibrio
raggiunto dalle parti stesse, nelle preventiva determinazione delle conseguenze dell'inadempimento, sia equo o sia rimasto tale.
Ma anche questo argomento non appare decisivo ove si consideri che la mancata allegazione (o la impossibilità di riscontri negli atti acquisiti) della eccessività della penale incide sul piano fattuale dell'accertamento della sussistenza delle condizioni per la riduzione della penale medesima, ma non sull'esercizio officioso del potere del giudice.
In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purchè risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/87), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e più di recente Cass. n. 1552/04, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 cod. civ. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis", ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonchè da ultimo Cass. sez. un. 4 novembre 2004 n. 21095.
6.8.4. Xxxxxx, quindi, che nessuno dei tre argomenti prospettati dalla giurisprudenza maggioritaria sia decisivo per la soluzione del quesito oggetto del contrasto, mentre, come in parte anticipato, vi sono argomenti che appaiono sufficientemente probanti a sostegno della tesi fin qui minoritaria, i quali assumono una valenza decisiva alla luce dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/99.
6.9. Poichè nella discussione sull'esistenza del potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale è stato spesso introdotto il tema dell'autonomia contrattuale è bene prendere le mosse proprio da tale punto.
L'art. 1322 cod. civ. - la cui rubrica è appunto intitolata all'autonomia contrattuale - attribuisce alle parti:
a) il potere di determinare il contenuto del contratto;
b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Nel primo caso l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», nel secondo caso la libertà è limitata per il fatto che il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».
La legge, quindi, nel riconoscere l'autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque dei limiti.
L'osservanza del rispetto di tali limiti è demandato al giudice, che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.
L'intervento del giudice in tale casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.
Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato l'istituto della clausola penale e, tuttavia, le parti avessero introdotto in un contratto una clausola con tale funzione, il giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna del debitore al pagamento della penale pattuita per effetto dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un giudizio sulla validità della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere esito negativo, ove fosse stato ravvisato un contrasto dell'accordo con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per il fatto che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva.
In questo caso vi sarebbe stato un controllo d'ufficio sulla tutelabilità dell'accordo delle parti e, ove, il controllo si fosse concluso negativamente la tutela non sarebbe stata accordata.
Nel nostro diritto positivo questo controllo non è necessario perchè l'istituto è riconosciuto e disciplinato dalla legge (artt. 1382 e segg. cod. civ.).
Nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.
Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l'autonomia delle parti, in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia.
Così operando, la legge ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale i non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.
Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità.
Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perchè non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia
«manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione.
In tale senso inteso, il potere di controllo appare attribuito al giudice non nell'interesse della parte ma nell'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma.
Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità.
Se così non fosse, apparirebbe quanto meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento all'ipotesi di penale manifestamente eccessiva, in presenza di una clausola valida (si ricordi che è valida la clausola ancorchè manifestamente eccessiva), che l'esercizio del potere del giudice di riduzione della penale debba essere condizionato alla richiesta della parte, quasi che, a questa, fosse riconosciuto uno jus poenitendi, e,
quindi la facoltà di sottrarsi all'adempimento di un'obbligazione liberamente assunta (quella appunto del pagamento di una penale che fin dall'origine si manifestava come eccessiva).
Se si considera che il potere di riduzione della penale può essere esercitato solo in presenza di una clausola che sia valida (e quindi esente da vizi che ne determino la nullità o l'annullabilità) più coerente appare allora qualificare detto potere come officioso nel senso sopra specificato, di riconduzione dell'accordo, frutto della volontà liberamente manifestata dalle parti, nei limiti in cui esso appare meritevole di ricevere tutela dall'ordinamento.
Non è privo di significato il fatto che la giurisprudenza, pur affermando la tesi della necessità della domanda o eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al giudice, non ha potuto tuttavia non riconoscere (come del resto la quasi unanime dottrina) la natura inderogabile della disposizione di cui all'art. 1384 cod. civ., attributiva al giudice del potere di ridurre la penale, riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia dell'interesse generale, per impedire sconfinamenti oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, (v. in tal senso Xxxx. 4 febbraio 1960 n. 163 e successivamente, in modo conforme circa la natura inderogabile della norma, Cass. sez. un. 5 dicembre 1977 n. 5261; Cass. 7 agosto 1992 n. 9366; Cass. 29 marzo 1996 n. 2909; Cass. 5 novembre 2002 n. 15497 - queste ultime tre in motivazione), in tale modo riconoscendo l'esistenza dei presupposti per un intervento officioso del giudice, non tanto per la tutela di interessi individuali, ma piuttosto per una funzione correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria).
Aspetto quest'ultimo particolarmente sottolineato da Xxxx. 24 aprile 1980 n. 2749, secondo cui il potere conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.
Pare, quindi, a queste sezioni unite, che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei principi generali dell'ordinamento e dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/99, consenta di giungere alla conclusione che il potere del giudice di ridurre la penale possa essere esercitato d'ufficio, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perchè l'obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacchè in quest'ultimo caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
7. È questa lettura della norma che porta ad affermare il principio che «il potere di diminuire equamente la penale, attribuito dall'art. 1384 cod. civ. al giudice, può essere esercitato anche d'ufficio».
8. In questi termini deve essere accolto il secondo motivo del ricorso con rinvio della causa ad altra sezione del Tribunale di Roma che si atterrà al principio sopra enunciato.
9. È di conseguenza assorbito il terzo motivo, con il quale, denunciandosi: Violazione ed erronea applicazione degli arti 91 e 92 cod. proc. civ., e difetto di motivazione in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., si deduce che in conseguenza della fondatezza delle tesi esposte dal ricorrente le spese del giudizio di merito (primo e secondo grado) sarebbero dovute essere poste a carico del condominio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il secondo motivo del ricorso, accoglie il primo motivo e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di Cassazione, ad altra sezione del Tribunale di Roma.
PARTE SECONDA – I singoli contratti
1) La garanzia per vizi della cosa venduta
Cass. civ., sez. II, 26-03-2010, n. 7301.
Il riconoscimento, da parte del venditore, dei vizi della cosa alienata, che può avvenire anche per facta concludentia quali l’esecuzione di riparazioni o la sostituzione di parti della cosa medesima ovvero la predisposizione di un’attività diretta al conseguimento od al ripristino della piena funzionalità dell’oggetto della vendita, determina la costituzione di un’obbligazione che, essendo oggettivamente nuova ed autonoma rispetto a quella originaria di garanzia, è sempre svincolata, indipendentemente dalla volontà delle parti, dai termini di decadenza e di prescrizione fissati dall’art. 1495 c.c. ed è, invece, soggetta soltanto alla prescrizione ordinaria decennale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato in data 29.4.1998, la soc. Atlantic Xxxxxx srl citava in giudizio innanzi al tribunale di Bolzano la soc. ADM Italia sas di Xxxx Xxxxx & C. per sentirla condannare al pagamento della somma di L. 147.222.000 a titolo di mancato pagamento di fatture rimaste inevase per fornitura di materiale (fatture nn. (OMISSIS)). Si costituiva la ADM Italia sas eccependo l’esistenza di vizi nella merce fornita (lettori magnetici «lettorini» per assegni mod. MCR-5700) e deducendo di avere subito dei danni per la sostituzione delle merce difettosa venduta ai propri cliente e per riparare parte della merce stessa, per cui in via riconvenzionale chiedeva la condanna di controparte al risarcimento dei danni lamentati ovvero, in subordine ne chiedeva la compensazione con il credito vantato dall’attrice e quindi la condanna di quest’ultima a pagamento dell’eventuale residuo. Esperita l’istruttoria della causa, l’adito tribunale, con sentenza n 403/03 del 6.5.2003, accoglieva in parte la domanda attrice condannando la societa’ convenuta a pagare a quest’ultima la minor somma di
L. 144.723.000; condannava la soc. Atlantic Xxxxxx a pagare alla sas ADM Italia la somma di L. 80.000.000, oltre rivalutazione ed interessi a titolo dei danni conseguenti ai vizi occulti (per la sostituzione dei lettorini) e per gli interventi presso i clienti; disponeva infine la compensazione tra gli importi reciprocamente dovuti, compensando tra le parti le spese del giudizio.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello soc. ADM Italia sas; resisteva all’impugnazione proponendo appello incidentale la soc. Atlantic Xxxxxx. La soc. appellante sosteneva che il tribunale avrebbe dovuto estendere la condanna non solo con riguardo alla fattura n. (OMISSIS), ma anche a tutte le altre fatture che si riferivano a lettorini difettosi. L’appellata da parte sua insisteva sull’eccezione di prescrizione della domanda riconvenzionale di controparte ex art. 1495 c.c. L’adita Corte d’Appello di Trento - sezione staccata di Bolzano, con sentenza in data 181/2004 depos. in data 16.09.2004. rigettava sia l’appello principale e quello incidentale. Xxxxxxxx il giudice d’appello che la societa’ attrice si era limitata ad azionare soltanto una fattura relativa alla merce difettosa (fatt. n. (OMISSIS)), mentre con riguardo alla riconvenzionale, confermava che la societa’ attrice aveva riconosciuto i vizi dei lettorini e si era assunta l’obbligo di eliminarne i difetti; si trattava quindi di una nuova ed autonoma obbligazione, come tale soggetta all’ordinaria prescrizione decennale.
Per la cassazione di tale pronuncia, propone ricorso la societa’ soc. la soc. ADM Italia sas sulla base di una sola censura; la soc. Atlantic Xxxxxx, resiste con xxxxxxxxxxxxx e propone a sua volta ricorso incidentale fondato su 2 motivi, a cui la soc. ricorrente si oppone con controricorso; entrambe le parti, infine, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente il Collegio dispone la riunione dei ricorsi.
Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; nonche’ l’insufficiente o omessa o contraddittoria motivazione. Assume che entrambi i giudici di merito sono incorsi in errore costituito dalla mancata detrazione degli importi di cui alle fatture (OMISSIS) aventi ad oggetto lettorini MCR 5700 (di prima serie) che - come accertato dal CTU - sarebbero difettosi come quelli relativi alla fattura n. (OMISSIS), che invece e’ stata correttamente detratta. Tale eccepito errore di calcolo si tradurrebbe - sempre secondo la ricorrente
- in un vizio della motivazione della sentenza. La doglianza non e’ fondata.
La sentenza invero appare correttamente motivata e priva dei denunciati "errori di calcolo" (i quali peraltro, se presenti, comporterebbero l’inammissibilita’ della censura, trattandosi di vizi revocatori).
La Corte territoriale, sulla base della CTU espletata, ha infatti accertato, che - contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente - le fatture (OMISSIS) riguardavano "lettorini XXX 0000", non di prima, ma di seconda serie, e quindi privi dei denunciati difetti (essendo pacifico che i difetti degli apparecchi concernevano solo quelli di prima serie). Conseguentemente il giudice a quo ha correttamente concluso che erano dovuti gli importi portati dalle predette fatture; mentre, per quanto concerneva l’importo di cui alla fattura n. (OMISSIS) - l’unica che riguarda i lettorini difettosi, non essendo state azionate le altre fatture concernenti gli altri apparecchi di prima generazione - lo stesso era stato regolarmente detratto dal tribunale dall’importo ancora dovuto.
D’altra parte, il contrario assunto della ricorrente, in difformita’ del principio dell’autosufficienza del ricorso, e’ privo dei necessari riscontri, non essendo stati riportati nel dettaglio, con le relative caratteristiche tecniche, le apparecchiature elencate nelle forniture in contestazione. Peraltro - come ha rilevato la controricorrente - non e’ senza significato che l’assunto dell’esponente si pone in chiaro contrasto con quanto dalla medesima asserito in altra parte del suo ricorso (a pag. 8 del ricorso si legge infatti, testualmente che ...." la Atlantic Xxxxxx ha azionato con citazione fatture relative ai lettorini di seconda generazione, compresa l’unica fattura di prima generazione, la (OMISSIS),..." ). La questione in definitiva non sembra chiara neppure alla societa’ ADM Italia, che ne fa oggetto della censura esaminata, la quale dunque non puo’ essere in alcun modo condivisa.
Passando all’esame del ricorso incidentale, con il 1 motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; nonche’ l’insufficiente, e/o omessa o contraddittoria motivazione.
La censura riguarda la domanda riconvenzionale di controparte, contro il cui accoglimento la soc. Atlantic Xxxxxx aveva riproposto, nell’ambito del esperito appello incidentale, non solo l’eccezione di prescrizione ma anche " tutta una serie di eccezioni e contestazioni, che pero’ non erano state minimamente vagliate dalla predetta autorita’ giudiziaria". In particolare la societa’ si era lamentata del fatto che tribunale aveva utilizzato le risultanze delle prove orali (ammesse unicamente per dimostrare l’intervenuto raggiungimento di un accordo transattivo tra le parti) per un fine diverso, e xxxx’ per affermare l’intervenuto riconoscimento da parte della stessa societa’ dei difetti dei lettorini. La doglianza e’ priva di fondamento, oltre che non rispondente al principio di autosufficienza (Cass. n. 7392 del 19.4.2004). Da un parte l’esponente non indica in modo preciso le istanze in questione, ne’ riporta integralmente le dichiarazione dei testi escussi che ritiene non correttamente valutate dalla Corte territoriale; d’altra, l’interpretazione delle prove e’ compito precipuo del giudice di merito non censurabile in sede di legittimita’, se - come nella fattispecie - e’ sorretto da motivazione congrua e priva di vizi logici e giuridici (Cass. n. 15693 del 12.8.2004; Xxxx. 1554 del 28.01.2004).
Passando al 2 motivo del ricorso incidentale, con esso l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1495 c.c.; dell’art. 112 c.p.c., oltre l’insufficiente, omessa o contraddittoria motivazione.
Dopo avere anche qui contestata la valutazione del giudice delle dichiarazione di due testi, sostiene che in ogni modo l’avvenuto riconoscimento dei difetti da parte della soc. Atlantic Zeiserda non comportava l’interruzione della prescrizione annuale, ne’ poteva significate l’avvenuta assunzione da parte della societa’ di un’autonoma obbligazione di garanzia, come sostenuto dalla Corte d’Appello, perche’ occorreva provare la volonta’ delle parti diretta alla novazione di un nuovo rapporto da sostituire a quello originario ex art. 1230, 1231 c.c..
Anche tale doglianza e’ infondata. Intanto. "l’accertamento sul carattere novativo o meno della transazione, ai fini dell’art. 1976 c.c., implicando un’indagine sulla volonta’ delle parti e una valutazione comparativa tra il rapporto preesistente e quello nuovo, costituisce apprezzamento riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimita’ se sorretto da adeguata motivazione (Cass. n. 27448 del 13/12/2005; Cass. n. 7830 del 19.05.20003). Nella fattispecie la motivazione della Corte territoriale e’ congrua e conforme alla giurisprudenza di questa S.C. ivi richiamata (Cass. n. 8294 del 19.06.2000). Invero, con riferimento a tale fattispecie, questa Corte ha ribadito che ".....il riconoscimento, da parte del venditore, dei vizi della cosa alienata, che puo’ avvenire anche "per facta concludentia" quali l’esecuzione di riparazioni o la sostituzione di parti della cosa medesima ovvero la predisposizione di un’attivita’ diretta al conseguimento od al ripristino della piena funzionalita’ dell’oggetto della vendita, determina la costituzione di un’obbligazione che, essendo oggettivamente nuova ed autonoma rispetto a quella originaria di garanzia, e’ sempre svincolata, indipendentemente dalla volonta’ delle parti, dai termini di decadenza e di prescrizione fissati dall’ari. 1495 c.c. ed e’, invece, soggetta soltanto alla prescrizione ordinaria decennale( Cass. n. 15758 del 13/12/2001).
Conclusivamente entrambi i ricorsi devono essere disattesi; la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi, compensando le spese processuali.
Cass. civ., sez. un., 21-06-2005, n. 13294
L’impegno, assunto dal venditore, di eliminare i vizi della cosa venduta non dà vita, di per sé, ad una nuova obbligazione, sostitutiva dell’originaria obbligazione di garanzia (per la cui estinzione è necessario un accordo delle parti, espresso o per facta concludentia, a ciò rivolto), ma si sostanzia in un riconoscimento del debito, interruttivo della prescrizione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 22.12.1987, la Tessitura Della Torre s.a.s. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo del 26.11.1987 per il pagamento di L. 5.944.035, emesso dal Presidente del Tribunale di Busto Arsizio ad istanza della Litostampa s.r.l. che di tale somma s'era dichiarata creditrice a titolo di saldo per una fornitura di scatole di cartone stampate plastificate.
Deduceva la società opponente l'esistenza di vizi della merce (scollatura delle scatole) che la rendevano inidonea all'uso: vizi che non erano stati eliminati dall'intervento effettuato dalla venditrice. Chiedeva, pertanto, previa revoca del decreto opposto, la risoluzione del contratto e, in subordine, la riduzione del prezzo.
Costituitasi, la soc. Litostampa contestava la fondatezza dell'opposizione, deducendo, fra l'altro, la decadenza dalla garanzia per tardiva denuncia dei vizi.
Il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo e, in accoglimento della domanda di riduzione del prezzo, condannava la soc. Litostampa alla restituzione della somma di L. 6.804.301.
Proponeva appello la soc. Litostampa, deducendo fra l'altro che l'obbligazione di garanzia prevista dall'art. 1490 c.c. si era estinta per novazione in considerazione della nuova obbligazione assunta dalla venditrice che, nel riconoscere l'esistenza dei vizi, si era impegnata ad eliminarli: pertanto non erano esperibili i rimedi di cui all'art. 1492 c.c., in particolare l'actio quanti minoris, ma se mai soltanto quella di risarcimento del danno per inadempimento della nuova obbligazione.
Con sentenza n. 344/00 dell'8/15.02.2000, la Corte d'appello di Milano rigettava l'impugnazione, osservando, per quel che qui rileva, che il riconoscimento dei vizi con l'impegno di eseguire le riparazioni necessarie ad eliminarli non da luogo di per sè alla novazione dell'intero contratto di vendita, se non sia provata in concreto la volontà delle parti di sostituire al rapporto originario un nuovo rapporto con diverso oggetto o titolo, come richiesto dagli artt. 1230 e 1231 c.c..
Pertanto, non sussistendo la novazione della originaria obbligazione di garanzia del venditore per i vizi, rimane fermo l'iniziale contratto di compravendita, conseguentemente, ove, gli interventi riparatori restino senza esito, ovvero abbiano un effetto inidoneo ad eliminare il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni delle parti, il compratore conserva il diritto di domandare a sua scelta la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo.
Contro tale sentenza la soc. Litostampa ha proposto ricorso per cassazione, al quale la soc. Xxxxxxxxx Xxxxx Xxxxx ha resistito con controricorso.
La seconda sezione civile, con ordinanza del 16.12.2003, ha rilevato la presenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti in ordine alla riconducibilità dell'impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi della cosa venduta nell'ambito della novazione oggettiva dell'obbligazione di garanzia.
Per la composizione del contrasto, il Primo Presidente, ai sensi dell'art. 374, 2 comma, c.p.c., ha rimesso la questione alle sezioni unite.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso contiene tre motivi.
a) Il primo motivo riguarda la violazione e falsa applicazione degli artt. 1492, 1495 e 1230 c.c.. Sostiene la ricorrente che a seguito della novazione dell'originaria obbligazione di garanzia per effetto dell'impegno assunto dal venditore di riparare la cosa difettosa, non era ammissibile l'azione di riduzione del prezzo, riconducibile, ai sensi dell'art. 1490 c.c., esclusivamente alla garanzia per vizi: nel caso di inadempimento della nuova obbligazione - assunta dal venditore in sostituzione di quella di garanzia e non rientrante per il suo contenuto fra quelle derivanti dal contratto di compravendita - il rimedio esperibile era soltanto quello del risarcimento del danno.
b) Il secondo motivo concerne la violazione e falsa applicazione degli artt. 1492 e 1495 c.c. sotto un diverso profilo. La ricorrente censura la sentenza impugnata per aver - nel ritenere ammissibile il rimedio della riduzione del prezzo nel caso di inadempimento della nuova obbligazione assunta dal venditore - erroneamente applicato il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte (con la decisione richiamata: Cass. 27.11.1985, n. 5889), secondo cui il compratore può chiedere, ai sensi dell'art. 1455 c.c., la risoluzione del contratto: tale norma esclude l'actio quanti minoris.
c) Il terzo motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c.. La ricorrente deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto l'esistenza del giudicato in ordine all'ammissibilità dell'azione quanti minoris, senza considerare che aveva formato oggetto dell'appello da essa proposto.
2. In relazione ai primi due motivi, da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, l'ordinanza di remissione ha rilevato l'esistenza di un contrasto all'interno della giurisprudenza di questa Corte nei seguenti termini.
2.1. Con pronunce conformi la Suprema Corte ha affermato e ribadito che, qualora il venditore riconosca la sussistenza di difetti della prestazione eseguita ed assuma, in luogo dell'obbligazione di garanzia rientrante nell'originario contratto, l'obbligo di eliminare i vizi stessi, si configura a carico di tale parte un'obbligazione nuova ed autonoma (rispetto a quella di garanzia), non soggetta ai termini di prescrizione e decadenza previsti dalla disciplina del contratto di vendita (art. 1495 c.c.), restando soggetta all'ordinaria prescrizione decennale (v., fra tante, Cass. 19.6.2000, n. 8294; 12.5.2000, n. 6089; 11.5. 2000, n. 6036; 24.4.1998, n. 4219; 29.8.1997, n. 8234; 20.2. 1997, n. 1561; 12.6.1991, n. 6641).
2.2. Tali pronunce appaiono in contrasto con altre dalle quali, con riferimento all'istituto della novazione oggettiva in generale (art. 1230 c.c.), si ricava il principio costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo il quale l'effetto estintivo dell'obbligazione, che è proprio della novazione, presuppone sempre - anche se si acceda alla concezione più ampia della novazione medesima, che la ravvisa in ogni ipotesi di mutamenti di carattere quantitativo dell'oggetto o di modifiche di modalità o di elementi di una medesima prestazione - che sia accertata comunque la sussistenza dell'animus novandi, che deve essere provato in concreto (Cass. 12.9.2000, n. 12039; 14.7.2000, n. 9354); con l'ulteriore corollario che la modifica dell'oggetto del contratto integra una novazione quando da effettivamente luogo ad una nuova obbligazione incompatibile con il persistere dell'obbligazione originaria, e non anche quando le parti regolino semplicemente le modalità relative all'esecuzione dell'obbligazione preesistente, senza alterarne l'oggetto ed il titolo (Cass. 22.5.1998, n. 5117; 7.3.1983, n. 1676).
2.3. Secondo l'ordinanza di remissione, ove si ritengano applicabili i principi enunciati nelle sentenze da ultimo citate, sarebbe quanto meno problematico aderire alla soluzione offerta dalle pronunce più sopra menzionate ed ai criteri dalle stesse indicati, con riguardo alla ritenuta novazione dell'obbligazione discendente dall'art. 1490 c.c. a carico del venditore e alle conclusioni che ne sono state tratte, in punto di inammissibilità dell'azione di riduzione ex art. 1492, comma 1, x.x., xxx xxxx xx xxxxxxxxxxxxxx xxx xxxx xxxxx xxxx venduta e di assunzione dell'obbligo di eliminarli; sembrando tutt'altro che ragionevole ritenere "novata" l'originaria obbligazione del venditore, che pertanto non sarebbe più quella di cui all'art. 1490 c.c., con conseguente impossibilità per l'acquirente di esperire le azioni di garanzia offertegli dalla legge, pur in totale carenza dell'animus novandi e della causa novandi, che ne costituiscono elementi imprescindibili.
3. Il contrasto giurisprudenziale rilevato con l'ordinanza di remissione è, in sostanza, se comporti novazione dell'originaria obbligazione di garanzia l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa consegnata, con conseguente preclusione dell'esperibilità delle azioni edilizie, in particolare di quella di riduzione del prezzo (actio quanti minoris).
3.1. Prima di procedere all'esame del contrasto nei termini in cui è stato enunciato, è opportuno effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione dell'orientamento della Corte e della dottrina, partendo dalle norme codicistiche, in tema di obbligazione di garanzia per vizi della cosa venduta e in relazione all'istituto della novazione.
4. Secondo l'art. 1476 c.c., "le obbligazioni principali del venditore sono: 1) quella di consegnare la cosa al compratore; 2) quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l'acquisto non è l'effetto immediato del contratto; 3) quella di garantire il compratore dall'evizione e dai vizi della cosa".
L'art. 1477, 1 comma, c.c. stabilisce che "la cosa deve essere consegnata nello stato in cui si trovava al momento della vendita".
A sua volta l'art. 1490, 1^ comma, c.c. definisce il contenuto della garanzia per vizi, sancendo che "il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore".
Ai sensi del 1^ comma dell'art. 1492 x.x. (xxxxxxx xxxxx xxxxxxxx) "xxx xxxx indicati dall'art. 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto (art. 1453 ss.) ovvero la riduzione del prezzo salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione".
5. Secondo giurisprudenza, l'obbligazione di garanzia discende dal fatto oggettivo del trasferimento di un bene affetto da vizi che lo rendano inidoneo all'uso cui è destinato o ne diminuiscano in misura apprezzabile il valore, mentre possibili profili di colpa del venditore rilevano, ex art. 1494 c.c., ai soli eventuali (e diversi) fini risarcitori (Cass. 8.3.2001, n. 3425; 12.5.2000, n. 6089; 22.8.1998, n. 8338).
In alcune sentenze è detto che l'azione di inadempimento del contratto di compravendita è regolata non già dalla disciplina generale dettata dagli art. 1453 e ss. c.c., ma dalle norme speciali di cui agli art. 1492 e ss. c.c., che prevedono specifiche limitazioni rispetto alla disciplina generale, ed in particolare l'onere di denuncia dei vizi nel termine di otto giorni dalla scoperta, che condiziona sia l'esercizio dell'azione di risoluzione e dell'azione di riduzione del prezzo previste dall'art. 1492 c.c., sia quella di risarcimento dei danni prevista dall'art. 1494 c.c.(Cass. 5.5.2000, n. 6234; Cass. 4.9.1991, n. 9352).
6. In dottrina, il fondamento dell'istituto è controverso, anche se gli autori sono concordi nel ritenere che, nonostante l'espressione letterale, l'art. 1476 n. 3) c.c., non configura, acconto a quelle di cui ai n.ri 1) e 2), una autonoma obbligazione avente ad oggetto la prestazione di garanzia: le obbligazioni del venditore sono quelle di trasferire la proprietà della cosa e di consegnarla nello stato di fatto in cui si trovava al momento della conclusione del contratto. Qualora la cosa risulti difettosa, la garanzia di cui agli artt. 1490 e 1492 c.c., nel prevedere la soggezione del venditore ai rimedi della risoluzione del contratto o della riduzione del prezzo, da luogo a un'ipotesi di responsabilità per inadempimento indipendentemente da colpa, in considerazione dello squilibrio fra le attribuzioni patrimoniali derivanti dall'obiettiva esistenza dei vizi al momento della conclusione del contratto.
6.1. Secondo alcuni autori, la specialità e la esclusività della garanzia per vizi opera nel senso che il compratore, nel caso in cui il venditore non sia in colpa, non possa esperire l'azione di adempimento per ottenere dal venditore la riparazione o la sostituzione della cosa difettosa: unici rimedi esperibili sono la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo.
La consegna di cosa affetta da vizi o priva delle qualità promesse è stata da altri ricondotta all'ipotesi della responsabilità contrattuale per inadempimento e da taluni all'inesatta esecuzione del rapporto.
6.2. È stato pure rilevato che la riparazione della cosa, esulando dal contenuto della prestazione contrattuale, potrebbe assumere rilievo soltanto sotto il profilo del risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c.c.). D'altra parte, il compratore non potrebbe chiedere la sostituzione del bene difettoso, perchè in tal caso verrebbe chiesto al venditore un secondo adempimento.
6.3. La maggior parte degli autori, in considerazione della natura delle obbligazioni poste a carico dell'alienante (aventi ad oggetto un dare) e del contenuto della garanzia per vizi, ritiene che il venditore non può essere tenuto a un'obbligazione di facere, che possa consistere nella riparazione o sostituzione del bene: il che troverebbe conferma anche nel rilievo che tali rimedi sono normativamente previsti in ipotesi circoscritte, per evitare che il danneggiante sia costretto a sopportare un sacrificio economico sproporzionato rispetto al valore del bene (ad esempio, la sostituzione della cosa è espressamente prevista dall'art. 1512, 2^ comma, c.c., per il
caso in cui il venditore abbia prestato la garanzia di buon funzionamento; in tema di appalto, l'art. 1668 c.c. prevede espressamente a favore del committente la possibilità di chiedere l'eliminazione della difformità e dei vizi a cura e spese dell'appaltatore).
7. Stabilisce l'art. 1230 c.c. che "L'obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all'obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso.
La volontà di estinguere l'obbligazione precedente deve risultare in modo non equivoco».
In tema di modalità che non importano novazione, il successivo art. 1231 c.c. dice che "Il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l'apposizione o l'eliminazione di un termine e ogni altra modificazione accessoria dell'obbligazione non producono novazione».
7.1. Elementi essenziali per la novazione oggettiva, che costituisce un modo di estinzione dell'obbligazione diverso dall'adempimento, sono: l'obbligazione originaria da novare (obligatio novanda), la volontà delle parti di estinguerla e di sostituirla con una nuova (animus novandi), la diversità della nuova obbligazione per l'oggetto o il titolo (aliquid novi).
7.2. Secondo la giurisprudenza, il mutamento dell'oggetto o del titolo deve riguardare la causa dell'obbligazione, per cui le modifiche accessorie non hanno alcuna rilevanza (Cass. 2.4. 2004, n. 6520; 12.9.2000, n. 12039). L'animus novandi, inteso come manifestazione non equivoca dell'intento novativo, deve essere comune ai contraenti (Cass. 9.4.2003, n. 5576; 19.11. 1999, n. 12838) e non può essere presunto ma deve essere provato in concreto (Cass. 27.7.2000, n. 9867; 7.3.1983, n, 1676).
La necessità di una volontà diretta in modo non equivoco alla novazione oggettiva dell'obbligazione, stante il principio generale di conservazione degli effetti del negozio, sta a significare che l'intento estintivo-sostitutivo deve essere certo, senza peraltro che siano richieste espresse dichiarazioni di volontà, essendo sufficiente anche un comportamento concludente o una manifestazione tacita, ravvisabile nelle ipotesi di incompatibilità oggettiva (Cass. 1998, n. 5399; 1987, n. 9620; 1983, n. 1676). È da escludere che l'intento novativo possa farsi risalire a una volontà presunta.
8. Il panorama giurisprudenziale, in tema di riconoscimento dei vizi e assunzione dell'obbligo di eliminarli da parte del venditore, è il seguente.
8.1. Alcune sentenze espressamente affermano l'esistenza della novazione oggettiva dell'originaria obbligazione di garanzia in presenza dell'impegno assunto dal venditore di riparare o sostituire la cosa difettosa (Cass. 12.5.2000, n. 6089; 19.6. 2000, n. 8294; 13.1.1995, n. 381; 5.9.1994, n. 7651).
In particolare si dice che qualora il venditore, tenuto per legge alla garanzia per vizi, riconosca la sussistenza di difetti della prestazione eseguita ed assuma, in luogo dell'obbligazione di garanzia, rientrante nel contenuto dell'originario contratto, l'obbligo di eliminare i vizi stessi, si configura a carico di tale parte un'obbligazione nuova ed autonoma (rispetto a quella di garanzia), non soggetta ai termini di decadenza e di prescrizione previsti dal contratto di vendita restando soggetta alla ordinaria prescrizione decennale (Cass. 125.2000, n. 6089).
Si precisa, altresì, che mentre il semplice riconoscimento dei vizi rende superflua la denuncia del compratore, il riconoscimento che il venditore faccia, verificatasi la decadenza, e l'impegno che egli assuma di eliminarli, da luogo ad una nuova obbligazione con estinzione per novazione dell'obbligazione originaria (Cass. 13.1.1995, n. 381; 5.9.1994, n. 761). Tale indirizzo, nell'evidenziare la differenza fra il mero riconoscimento dei vizi (che ha il limitato effetto di rendere superflua la denuncia da parte del compratore) e l'impegno assunto dal venditore di eliminarli o di sostituire la cosa (che può avvenire anche per facta concludentia), sottolinea il verificarsi della novazione oggettiva dell'originaria obbligazione di garanzia, in quanto sostituita da una nuova, che avendo ad oggetto un facere, non rientra nella previsione
di cui all'art. 1490 c.c.: ne consegue l'inapplicabilità della disciplina dettata in tema di decadenza e di prescrizione dall'art. 1495 c.c..
8.2. Altre sentenze si limitano a sostenere che l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa difettosa o di sostituirla determina la costituzione di un'obbligazione che, essendo nuova ed autonoma rispetto a quella originaria di garanzia, è sempre svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione decennale, indipendentemente dalla volontà delle parti (Cass. 29.8.1997, n. 8234; 14.11.1994, n. 9562). Non fanno riferimento all'effetto estintivo-sostitutivo dell'originaria obbligazione di garanzia e non parlano di novazione oggettiva, ma sottolineano soltanto che l'obbligazione del venditore di eliminare i difetti della cosa è svincolata, indipendentemente dalla volontà delle parti, dai termini di cui all'art. 1495 c.c. (Cass. 13.12. 2001, n. 15758).
8.3. Similmente numerose decisioni (Cass. 17.4.2001, n. 5597; 11.5.2000, n. 6036; 24.4.1998, n. 4219; 20.2.1997, n. 1561; 12.6.1991, n. 6641) si soffermano unicamente ad analizzare, in relazione agli oneri imposti al compratore dall'art. 1495 c.c., i presupposti, le modalità, la natura e gli effetti del riconoscimento dei vizi da parte del venditore, rilevando che il riconoscimento può avvenire anche per facta concludentia e che esso impedisce la decadenza del compratore per l'omessa denuncia ovvero può integrare la rinuncia del venditore a far valere la decadenza già verificatasi (Cass. 1.4.2003, n. 4893; 16.7.2002, n. 10288).
8.4. Esclude espressamente la configurabilità della novazione soggettiva Cass. 29.12.1994, n. 11281 così argomentando: "poichè rientra tra le obbligazioni del venditore la prestazione di una cosa immune da vizi indicati nell'art. 1490 c.c., l'assunzione dell'impegno di eliminare i vizi, che eventualmente esistessero nella cosa oggetto della vendita, non è che uno dei modi con i quali si assicura e si attua l'esatto adempimento dell'obbligazione; essa, di per sè, non da luogo all'esistenza di un accordo diretto a modificare uno degli elementi essenziali dell'obbligazione stessa, posto che la scelta di uno dei rimedi offerto dalla garanzia, come non apporta un obiettivo mutamento del vincolo obbligatorio, così nemmeno implica necessariamente le volontà di sostituire alla precedente una nuova e diversa obbligazione."
9. Secondo l'ordinanza di remissione, l'orientamento della Corte che attribuisce natura novativa dell'originaria obbligazione di garanzia all'impegno assunto dal venditore di riparare o sostituire la cosa difettosa si porrebbe in contrasto con i principi formulati in tema di novazione oggettiva dell'obbligazione.
L'effetto estintivo dell'obbligazione, proprio della novazione oggettiva, è detto nella citata ordinanza, presuppone che sia accertata la sussistenza dell'animus novandi, sicchè la modifica dell'oggetto del contratto integra una novazione quando dà effettivamente luogo ad una nuova obbligazione incompatibile con il persistere di quella originaria e non anche quando le parti regolino modalità relative all'esecuzione dell'obbligazione preesistente senza alterarne l'oggetto o il titolo.
9.1. Ma al riguardo le sentenze (sub 8.1), secondo le quali l'impegno assunto dal venditore da luogo a una nuova ed autonoma obbligazione che sostituendosi a quella di garanzia ne determina l'estinzione per novazione oggettiva, evidenziano che sono le parti a costituire una nuova ed autonoma obbligazione in luogo di quella originaria derivante dal contratto di compravendita. Pertanto, l'obbligazione di riparare o sostituire la cosa difettosa è ritenuta nuova ed autonoma, in quanto non rientra nel contenuto della garanzia (ovvero fra le obbligazioni contrattuali poste a carico del venditore) ed è caratterizzata, dall'avere un oggetto diverso (aliquid novi) rispetto a quello di garanzia derivante dal contratto di compravendita, determinandone il mutamento e non semplicemente la "modifica" delle relativa modalità di esecuzione. Il sorgere di una nuova obbligazione, secondo tali sentenze, assumerebbe rilievo anche sotto il profilo dell'animus novandi, in quanto l'esistenza dell'accordo novativo andrebbe accertato verificando se, con l'accettazione da parte del compratore della nuova obbligazione assunta dal venditore, le parti abbiano inteso sostituire l'originaria
obbligazione ed estinguerla per novazione (potendo la volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione risultare, come si e detto, anche per facta concludentia). Ma tale indagine, risolvendosi nella verifica in concreto della natura novativa o meno dell'accordo, costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice di merito ed è incensurabile in cassazione se immune da vizi logici e giuridici (v. ex plurimis: Cass. 5.5.1998, n. 4520; 20.2.1997, n. 1661).
9.2. Le sentenze (sub 8.2), che focalizzano l'indagine esclusivamente sulla non operatività dei termini di decadenza e di prescrizione di cui all'art. 1495 c.c. per effetto dell'impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi, danno rilievo assorbente alla manifestazione unilaterale di quest'ultimo, non facendo alcun riferimento all'effetto estintivo-sostitutivo della precedente obbligazione, che in assenza di un accordo delle parti non potrebbe evidentemente prodursi. In realtà tali sentenze appaiono ispirate dall'esigenza di tutelare il compratore dai rigorosi termini di decadenza e prescrizione imposti dall'art. 1495 c.c., e, pertanto, l'impegno assunto dal venditore è stato considerato come svincolato da detti termini. Al riguardo è stato pure affermato (Cass. 26.6.1995, n. 7216), analizzando la natura e la portata della dichiarazione del venditore, che bisogna scindere gli effetti che sono ad essa direttamente collegati da quelli che postulano, con l'accettazione del compratore, il perfezionamento della novazione: nella prima ipotesi l'impegno del venditore, dando luogo al riconoscimento del debito, ha soltanto efficacia interruttiva della prescrizione ex art. 2944 c.c..
9.3 Infine, le sentenze (sub 8.3.), che si sono limitate a considerare gli effetti e le modalità del solo riconoscimento dei vizi, non hanno dovuto esaminare la natura e gli effetti dell'obbligazione di riparare o sostituire la cosa difettosa, che non era oggetto del thema decidendum.
10. Pertanto, un vero e proprio contrasto giurisprudenziale non appare sussistere. Tuttavia, nei termini in cui è stato denunciato, deve essere risolto in base alle seguenti considerazioni.
11. La garanzia per vizi, che si giustifica in relazione ad una serie di particolari istituti di tutela - di prevalente origine commerciale - che caratterizzano lo scambio di beni, attiene alla prestazione traslativa e, sebbene trovi specifica regolamentazione nella vendita (negozio nella pratica dominante), non v'è dubbio che è suscettibile di più ampia applicazione ai contratti di alienazione.
11.1. In realtà, sulla natura della garanzia - connessa ai tradizionali istituti di tutela del compratore e sulla posizione che essi assumono rispetto alle comuni regole di tutela creditoria - mancano soluzioni chiare: suggestioni storiche e concettuali concorrono a rendere l'istituto non facilmente inquadrabile, anche se è generalmente inserito nel sistema della responsabilità contrattuale, e quindi dell'inadempimento indipendentemente da colpa.
11.2. Così, sinteticamente, la garanzia, di volta in volta, è stata ricondotta all'invalidità del negozio (per anomalia funzionale della causa), all'assunzione del rischio (come precetto primario di tipo assicurativo), ad una speciale forma di responsabilità (collegata all'obbligo del venditore di consegnare la cosa qualitativamente esatta), fino ad essere intesa come violazione dell'impegno del venditore in ordine all'esatto risultato traslativo, in quanto la regola del consenso traslativo, derivante da una pratica negoziale in cui era divenuta superflua la consegna come formalità condizionante il trasferimento della proprietà, non annulla l'impegno negoziale dell'alienante circa la conformità del bene al contenuto esplicito o implicito della sua offerta (un bene sano e senza difetti occulti).
12. Il consenso traslativo richiede un accenno, sia pure fugace, alla distinzione, riguardo al modo e al momento di perfezione del vincolo, tra contratti consensuali e contratti reali; nonchè, riguardo all'efficacia che sono destinati ad avere immediatamente, tra contratti con efficacia reale (o traslativi) e contratti obbligatori.
12.1. Nel diritto moderno i contratti si perfezionano di regola con il semplice consenso delle parti (cd. principio consensualistico). Secondo l'art. 1376 c.c. "Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato". In tema di compravendita, il contratto è perfetto nel momento in cui si raggiunge l'accordo. Il consenso, formatosi secondo legge, produce gli effetti voluti: indipendentemente, e quindi anche prima, del trasferimento del possesso e del pagamento del dovuto.
Logicamente tali affermazioni sono relative al rapporto "inter partes» tra i contraenti, mentre relativamente all'efficacia "erga omnes» il consenso potrebbe essere non più sufficiente, con conseguente applicazione della regola della consegna (art. 1155 c.c.) nell'ipotesi di pluralità di vendite dello stesso immobile, o della trascrizione (art. 2644 c.c.) nell'ipotesi di vendita dello stesso immobile a più acquirenti.
12.2. Ci sono alcuni contratti speciali, per i quali il consenso, pur sempre necessario, non basta, nel senso che il contratto è perfetto soltanto con la consegna della cosa, con la tradizione alla controparte dell'oggetto del contratto (ad esempio: comodato (art. 1803 c.c.), mutuo (art. 1813 c.c.), deposito (1766 c.c.), pegno (2784 c.c.), riporto (1548 c.c.), trasporto (art. 1678 c.c.), etc). Prima della consegna non c'è contratto, ma c'è uno degli elementi della fattispecie complessa (consenso + traditio) di cui è formato il contratto reale. Pertanto la consegna non è effetto obbligatorio del contratto, ma un elemento costitutivo dello stesso.
La categoria dei contratti reali, che ha prevalentemente un significato storico, conserva anche una funzione e un valore di carattere pratico, ben visibili, per esempio, nel pegno, dove la consegna della cosa mobile da al creditore una certezza di garanzia, e nel deposito, dove la consegna della cosa costituisce il presupposto necessario per l'esercizio dell'attività di custodia.
12.3. La distinzione tra contratti obbligatori (ad es. locazione, mandato, comodato, etc.) e contratti con efficacia reale (o traslativa, ad es. compravendita, permuta, donazione, etc.) rileva nel senso che i primi producono soltanto effetti obbligatoli (in quanto, senza realizzare automaticamente per il semplice consenso l'effetto voluto, fanno assumere alle parti l'obbligazione di un certo atto da compiere e di un comportamento da osservare), mentre i secondi producono anche effetti reali perchè, accanto e oltre l'effetto principale di trasferire o costituire diritti, fanno sorgere, tra le parti, obbligazioni da adempiere.
12.4. Nei contratti con efficacia reale, se sono consensuali (come la compravendita), il trasferimento o la costituzione del diritto reale si attuano per effetto immediato del consenso (principio consensualistico: art 1376 c.c.). Nel mutuo, invece, che è un contratto reale, la proprietà sulla cosa fungibile si trasferisce nel momento in cui il contratto è perfetto, cioè nel momento in cui avviene la tradizione (consegna) della cosa prestata.
Il criterio distintivo del contratto reale si riferisce alla formazione del contratto, cioè al suo perfezionarsi, quello del contratto con efficacia reale si riferisce, invece, agli effetti.
12.5. L'individuazione del momento in cui si attua l'efficacia reale ha molta importanza, specie dal punto di vista pratico. Così, ad esempio, nel contratto di compravendita, nel preciso istante in cui passa la proprietà passa anche il rischio del perimento della cosa per caso fortuito, in virtù del principio «res perit domino», affermato nell'art. 1465 c.c.; per cui, se prima del pagamento del prezzo, un incendio distrugge la cosa venduta, il venditore ha diritto di ricevere il prezzo, anche se più non farà la consegna del bene al compratore.
In generale, invece, secondo il disposto dell'art. 1463 c.c., la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la
controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito.
13. Sempre in tema di tutela del compratore bisogna ricordare che la giurisprudenza (per lo più confortata dal sostegno della dottrina dominante) tende sempre più a ridurre il numero delle fattispecie riconducibili ai vizi redibitori (e alla mancanza di qualità essenziali), estendendo invece la categoria dell'aliud pro alio, in presenza della quale è noto che il compratore risulta svincolato dall'onere di denuncia e dalla prescrizione breve.
13.1. La legislazione in tema di tutela del consumatore e responsabilità del produttore (L. 21.12.1999, n. 526 e d.p.r. 24.5.1988, n. 244) incoraggia le posizioni interpretative favorevoli all'acquirente nel caso di consegna di cosa difettosa.
14. Come si è visto, la giurisprudenza allorchè adotta lo schema della novazione oggettiva per inquadrare l'ipotesi del venditore che si impegna ad eliminare i vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui è destinata (ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore economico), richiede un accordo delle parti inteso a conseguire l'effetto estintivo-novativo dell'originaria obbligazione di garanzia. Qui la novazione non è un effetto automatico dell'impegno, quanto piuttosto una conseguenza dell'accordo (espressione dell'autonomia negoziale) delle parti (significativo dell'animus novandi).
14.1. Negli altri casi l'espressione "novazione» è usata in senso atecnico, dato che la giurisprudenza, posta di fronte al quesito relativo alle conseguenze della mancata realizzazione del risultato cui il venditore si era impegnato - cioè l'eliminazione dei vizi
- non esita ad affermare che "ove gli interventi riparatori del venditore...restino senza esito, ovvero...abbiano un effetto inidoneo ad eliminare il sopravvenuto squilibrio fra le prestazioni delle parti, l'acquirente conserva il diritto di chiedere la risoluzione del negozio traslativo» (Cass. 27.11. 1985, n. 5889). L'uso atecnico del termine novazione è evidente, atteso che è sufficiente l'inattuazione del nuovo obbligo per far rivivere ciò che c'era prima, cioè la garanzia.
15. La dottrina che nega che l'impegno del venditore costituisca vera e propria obbligazione autonoma - ritenendo l'impegno di eliminare i vizi un momento della fase attuativa della vendita, nel senso che esso è semplicemente preordinato alla realizzazione dell'operazione economica originariamente divisata dalle parti - esclude in radice l'esistenza di un fenomeno novativo, atteso che nella novazione il nuovo obbligo è del tutto autonomo dal vecchio.
15.1. Parimenti resta fuori discussione che si possa parlare di fenomeno novativo in relazione a quelle teorie che fondano la natura delle garanzie edilizie su basi diverse dall'inadempimento di un'obbligazione: ciò per l'evidente assenza di un elemento essenziale della fattispecie novativa, cioè l'obbligazione da novare.
15.2. Ma ad analogo risultato si perviene ove si collochino le garanzie edilizie nell'ambito dell'inadempimento dell'obbligazione di far acquistare utilmente la proprietà della cosa (ovvero nell'ambito della cd. violazione dell'obbligo traslativo). Non può, infatti, sfuggire come in tal caso l'impegno del venditore a riparare la cosa viziata non abbia affatto valore novativo della precedente obbligazione, ma attuativo della stessa, nel senso che esso è esclusivamente preordinato ad attuare il risultato economico che il compratore si prefigurava di ottenere dal contratto di compravendita.
15.3. In realtà l'impegno del venditore non rappresenta un quid novi con effetto estintivo-modificativo della garanzia, ma semplicemente un quid pluris che serve ad ampliarne le modalità di attuazione, nel senso di consentire al compratore di essere svincolato della condizioni e dai termini di cui all'art. 1495 c.c., particolarmente brevi, come la prescrizione annuale, rispetto a quella decennale.
15.4. Si tratta di assegnare un significato, ai fini dell'esercizio delle azioni edilizie e del relativo termine prescrizionale, alla circostanza che fra le parti è in corso, per l'impegno assunto dal venditore, un tentativo di far ottenere al compratore il risultato
che egli aveva il diritto di conseguire fin dalla conclusione del contratto di compravendita. E altro significato non può essere che quello di svincolare il compratore dai termini e condizioni per l'esercizio delle azioni edilizie, atteso che queste non vengono da lui esercitate in pendenza degli interventi del venditore finalizzati all'eliminazione dei vizi redibitori, al fine di evitare di frapporre ostacoli, secondo la regola della correttezza (art. 1175 c.c.), alla realizzazione della prestazione cui il venditore è tenuto.
16. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi espressi, risolvendo il prospettato contrasto giurisprudenziale, queste Sezioni Unite ritengono che l'impegno del venditore di eliminare i vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui è destinata (ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore economico) di per sè non da vita ad una nuova obbligazione estintiva-sostitutiva (novazione oggettiva: art. 1230 c.c.) dell'originaria obbligazione di garanzia (art. 1490 c.c.), ma consente al compratore di essere svincolato dai termini di decadenza e dalle condizioni di cui all'art. 1495 c.c., ai fini dell'esercizio delle azioni edilizie (risoluzione del contratto o riduzione del prezzo) previste in suo favore (art. 1492 c.c.), sostanziandosi tale impegno in un riconoscimento del debito, interruttivo della prescrizione (art. 2944 c.c.).
Solo in presenza di un accordo delle parti (espresso o per facta concludentia), il cui accertamento è riservato al giudice di merito, inteso ad estinguere l'originaria obbligazione di garanzia e a sostituirla con una nuova per oggetto o titolo, l'impegno del venditore di eliminare i vizi da luogo ad una novazione oggettiva.
17. Il principio comporta il rigetto dei primi due motivi di ricorso, atteso che la corte d'appello, con motivazione congrua ed idonea, ha escluso che le parti avessero introdotto nel regime negoziale mutamenti dell'oggetto o del titolo dell'obbligazione con la volontà di porre in essere la sostituzione di un nuovo rapporto a quello originario in base all'impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi dei beni consegnati; onde, vigendo la garanzia, legittimamente ha ritenuto che il compratore poteva esperire l'actio quanti minoris (art. 1492 c.c.), svincolato dai termini e condizioni di cui all'art. 1495 c.c..
18. Il terzo motivo non ha pregio e la ricorrente non ha interesse a dedurre la censura, giacchè, indipendentemente dal fatto che si fosse formato o meno il giudicato in ordine alla ammissibilità della domanda di riduzione del prezzo, la corte di merito ha comunque esaminato la questione ed ha ritenuto, per le ragioni sopra esposte, che era ammissibile lactio quanti minoris.
19. In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato.
Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
2) Xxxxx pro alio
Cass. civ., sez. II, 18-03-2010, n. 6548
Nel caso di compravendita di una unità immobiliare per la quale, al momento della conclusione del contratto, non sia stato ancora rilasciato il certificato di abitabilità, il successivo rilascio di tale certificato esclude la possibilità stessa di configurare l’ipotesi di vendita di aliud pro alio e di ritenere l’originaria mancanza di per sé sola fonte di danni risarcibili.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 410 del 2001, il Tribunale di Lamezia Terme accoglieva la domanda proposta da C. e D.B.S. nei confronti di C.F., volta ad ottenere la condanna di quest'ultimo al risarcimento dei danni conseguenti alla vendita, nel marzo 1991, di due unità immobiliari prive del certificato di abitabilità, e condannava il C. al pagamento, in favore delle attrici, della somma di L. 30.000.000, oltre interessi e spese di lite. Il Tribunale rigettava altresì la domanda riconvenzionale proposta dal C., volta ad ottenere la condanna delle attrici al pagamento della somma di L. 1.300.00, che egli assumeva di avere anticipato per l'allaccio delle condutture energetiche.
Proponeva appello il C. e la Corte d'appello di Catanzaro, in parziale accoglimento del gravame, condannava il C. al pagamento degli interessi sulla somma di L. 190.000.000 per il periodo 1^ gennaio 1993 - 6 ottobre 2004, calcolati al tasso legale vigente in detto periodo, confermando per il resto la sentenza di primo grado.
La Corte rigettava innanzitutto il motivo di gravame con il quale l'appellante aveva censurato la statuizione di primo grado relativa al suo inadempimento per il mancato rilascio del certificato di abitabilità. In proposito, la Corte d'appello richiamava la sentenza della Corte di Cassazione n. 2729 del 2002, secondo cui "Nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto poichè vale a incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità. Pertanto, il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra inadempimento del venditore per consegna di aliud pro allo, adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell'art. 1460 cod. civ., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, a meno che egli non abbia espressamente rinunciato al requisito dell'abitabilità o esonerato comunque il venditore dall'obbligo di ottenere la relativa licenza".
La Corte territoriale riteneva quindi infondato il rilievo dell'appellante secondo cui egli non era tenuto contrattualmente a fornire il predetto certificato alle acquirenti, mentre non era stata offerta alcuna prova che queste ultime si fossero determinate ad acquistare gli immobili anche se privi del requisito in esame. La prova testimoniale articolata dall'appellante in fase di gravame doveva invero ritenersi inammissibile per la mancata indicazione delle generalità dei testi da escutere.
Quanto alla eccezione di decadenza e prescrizione ex art. 1495 cod. civ., formulata dall'appellante, la stessa, ad avviso della Corte, pur se ammissibile, trovando applicazione l'art. 345 cod. proc. civ., nella vecchia formulazione, era infondata atteso che, integrando la mancata consegna del certificato di abitabilità una ipotesi di aliud pro alio, l'azione di risoluzione o quella di risarcimento danni dovevano ritenersi svincolate dai termini di cui alla citata disposizione.
Con riferimento, infine, alla quantificazione del danno, la Corte riteneva che lo stesso dovesse essere contenuto nei limiti degli interessi legali sulla somma che le attrici avrebbero potuto ricavare dalla vendita degli immobili (L. 190.000.000) dal 1^ gennaio 1993 al 6 ottobre 1994, data di rilascio del certificato di abitabilità.
La Corte d'appello compensava infine per metà le spese di lite e condannava le appellate alla rifusione della restante metà.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione C.F. sulla base di cinque motivi; le intimate non hanno resistito con controricorso.